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FACOLTÀ TEOLOGICA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE

Milano

Elaborato

Seminario di Teologia Fondamentale

Il soggetto credente e la sua immaginazione


La proposta teologico-fondamentale di Nicolas Steeves

Professore Studentessa
Duilio Albarello Noemi Beccaria

ANNO ACCADEMICO 2019 - 2020


INTRODUZIONE

L’intento che anima il nostro lavoro è quello di interrogarci sulla figura del soggetto
credente implicata nel modello teologico fondamentale elaborato dal gesuita Nicolas
Steeves all’interno del suo saggio Grazie all’immaginazione. Integrare l’immaginazione
in teologia fondamentale.
A tal fine, abbiamo preso in conto in maniera particolare la seconda parte dell’opera
sopracitata, in cui l’Autore studia sistematicamente la rivelazione e la fede in rapporto
all’immaginazione. Da una parte, la rivelazione divina tocca l’immaginazione per salvare
l’uomo grazie a Cristo, immagine del Padre ed «immagine delle immagini» (Balthasar).
Dall’altra parte, la fede, risposta all’oggetto immaginoso rivelato, si esprime grazie
all’immaginazione.
I modelli immaginali di rivelazione e fede arricchiscono la teologia fondamentale,
lasciando emergere una figura precisa di soggetto credente, che illustreremo nelle pagine
seguenti.
Il presente lavoro si struttura in due capitoli. Il primo mette a tema il versante
antropologico della soggettività credente. A partire dalla constatazione della
frammentarietà dell’umano, provocata dalla psicologia razionale, l’immaginazione viene
presentata come potenza sintetica originaria, capace di unire il conoscere, il volere ed il
sentire. Successivamente, viene tematizzata la questione della fede antropologica nel
realismo dell’immaginazione. Dato il poco spazio accordato da Steeves all’ambito
prettamente antropologico, arricchiamo la sua proposta ponendoci in dialogo con un altro
teologo, Giuseppe Angelini, e con due filosofi, Kant e Husserl. Ad Angelini va il merito
di aver argomentato la necessità di abbandonare l’antropologia delle facoltà, per elaborare
una nuova visione antropologica capace di dare unità al soggetto. Di Kant, facciamo
nostra la convinzione secondo cui l’immaginazione trascendentale costituisce il
fondamento apriori dell’unità sintetica del molteplice ed è perciò necessaria per la
strutturazione dell’esperienza. Circa Husserl, attingiamo alla sua teoria delle sintesi
passive e all’approfondimento della stessa da parte di Marc Richir, al fine di rendere
ragione di come l’immaginazione non sia alternativa al piano della realtà, ma al contrario
ne rappresenti l’intuizione più vera e profonda.

2
Il secondo capitolo concerne invece il versante teologale della soggettività credente. In
questa sede, ci addentriamo espressamente nel tema della rivelazione e in quello della
fede cristiana, ponendoli in rapporto all’immaginazione. Per quanto riguarda la
rivelazione, esaminiamo dapprima l’imago Christi: rivelazione ex parte objecti
principalis. Profezia e ispirazione illustrano poi la rivelazione ex parte potentiae.
Proseguiamo con l’aspetto intersoggettivo e l’aspetto interpretativo del soggetto, in
collegamento con la Tradizione e il Magistero: rivelazione ex parte subjecti.
Concludiamo con ciò che sembra resistere maggiormente all’immaginazione: il dogma,
rivelazione ex parte objecti sequendi. Circa il tema della fede, mettiamo in luce la
dialettica feconda che intrattiene con l’immaginazione: da una parte, è l’immaginazione
a soccorrere la fede; dall’altra, è la fede a salvare l’immaginazione.
Ci avvaliamo altresì del contributo di Gerhard Larcher, con l’intento di approfondire la
prospettiva delineata da Steeves.
Nella conclusione ci impegniamo in un bilancio critico del modello teologico
fondamentale proposto dall’Autore e della figura del soggetto credente che ne emerge.

3
CAPITOLO I

IMMAGINAZIONE
Centro sintetico dell’umano

La concezione dell’uomo ereditata dal sapere teologico attuale risale alla Scolastica e più
precisamente alla dottrina filosofica ad essa sottesa, ossia la psicologia razionale. Tale
visione dell’umano può essere sinteticamente definita “antropologia delle facoltà”.
Precisandosi e irrigidendosi nella stagione barocca e in quella neoscolastica, essa lascia
tuttora tracce di sé all’interno della riflessione teologica, in particolare in quella di stampo
personalista. L’evidente limite del suddetto modello antropologico è il suo imprinting
cosmologico-concettualista, che frammenta l’umano in tre facoltà distinte e giustapposte:
la ragione, la volontà e la sensibilità. Rispetto ad una siffatta frammentarietà, la categoria
di immaginazione, studiata dal modello teologico-fondamentale di Nicolas Steeves, può
operare in maniera sintetica, in quanto forma radicale ed essenziale del soggetto credente.

1.1. La frammentarietà dell’umano

Per poter cogliere la portata antropologica della proposta di Steeves, occorre esplorare
più a fondo lo schema scolastico da cui si emancipa pur tentando di porsi in continuità
con la figura di Tommaso d’Aquino, a cui volentieri si riferisce.
Sfondo teoretico all’antropologia delle facoltà è il modello del duplex ordo. La rigida
separazione dell’ordine naturale da quello soprannaturale ha un duplice scopo: garantire
una consistenza autonoma alla natura umana e salvaguardare la gratuità dell’agire divino
a livello della redenzione. Nondimeno, questo quadro teologico genera problemi
significativi legati al tratto estrinseco dei rapporti tra immanenza e trascendenza, ragione
e fede, libertà e grazia.
All’interno di tale cornice, il discorso antropologico elaborato dalla psicologia razionale
si colloca esclusivamente nell’ambito del naturale, secondo una prospettiva di tipo
cosmico e concettuale. Non riconoscendo come proprium dell’umano la sua identità

4
sintetica, l’antropologia delle facoltà sposa infatti la definizione aristotelica dell’uomo
come animale razionale. Se gli appetiti sensibili, concupiscibili o irascibili, accomunano
l’essere umano e i vari animali, la volontà e più ancora la ragione lo distinguono e lo
rendono ad essi superiore. Ne consegue una visione gerarchico-piramidale delle tre
facoltà, in cui la sensibilità è posta al gradino più basso, giudicata priva di valore
intrinseco. Frammentato nelle operazioni che lo costituiscono, l’uomo viene privato del
nucleo sintetico a partire dal quale riconoscersi come l’identico attraverso la distensione
molteplice dei momenti dell’esistenza e attraverso la dispersione dei rapporti e delle
occupazioni. La mancata tematizzazione del nesso necessario tra le forme dell’agire e il
sé unificante del soggetto causa l’irrilevanza della dimensione storica e della mediazione
culturale della coscienza. Il difetto di a-storicità, che connota lo schema scolastico, si
riscontra altresì nell’attuale teologia personalista. Pur sottolineando l’unità del soggetto
umano ricorrendo al lessico della persona, il personalismo concepisce l’identità come
un’istanza costituita a monte rispetto alla vicenda empirica. La riveste inoltre di un’aura
sacrale, affermando che essa è nota in profondità solamente a Dio. La dinamica temporale
è perciò intesa come luogo di manifestazione di un sé definito apriori e non come ciò che
condetermina in maniera radicale il farsi della persona.
La svolta antropologica che ha contrassegnato la teologia cattolica del XX secolo ha
inciso significativamente su gran parte degli indirizzi del pensiero teologico. Sebbene
alcuni filoni, come quello del personalismo, continuino a subire l’influenza
dell’antropologia delle facoltà, i più hanno abbracciato un’antropologia drammatica della
libertà. La nuova visione dell’umano riconosce anzitutto l’intreccio originario delle tre
facoltà. Conoscere, volere e sentire non sono operazioni rigidamente distinte e
giustapposte gerarchicamente, ma si compenetrano in maniera reciproca, senza poter fare
a meno l’una dell’altra. Il concettualismo viene dunque scardinato e la sensibilità
rivalutata, anche grazie al contributo della psicologia dello sviluppo e della psicanalisi, le
quali mettono in luce il fatto che l’identità personale si offre come evidenza ancor prima
di essere pensata, o concettualmente chiarita.

Già quando è ancora infante, senza parola, quindi anche senza alcuna conoscenza di sé, il bambino
mostra in molti modi e forme assolutamente indubitabili di possedere una certezza assoluta a
proposito della propria identità; sa d’essere quel singolo, non solo, ma sa anche d’essere

5
conosciuto, voluto e addirittura amato nella sua singolare identità. […] Egli sa d’essere quell’unico
molto prima di sapere chi sia quell’unico.1

Un ulteriore contributo in questa direzione proviene dalla fenomenologia. In particolare,


è degna di nota la tesi del cogito tacito, proposta da Merleau-Ponty. Contestando il cogito
cartesiano l’espressione cogito tacito intende esprimere l’impossibilità di ridurre la
conoscenza al momento riflessivo, in quanto essa è preceduta e resa possibile da una
conoscenza passiva, silenziosa, frutto dell’intuizione sensibile.
I contributi della filosofia e delle scienze umane hanno dunque aiutato la teologia a
fuoriuscire dal concettualismo in cui era rimasta imprigionata per secoli.
L’attenzione per l’umano concreto accompagnata da una rinnovata passione per la storia
hanno permesso alla teologia di accommiatarsi dalla psicologia razionale e di individuare
nell’identità sintetica del soggetto e nella drammatica della libertà i cardini della sua
riflessione antropologica sul soggetto credente.

1.2. Un’unità possibile

Condicio sine qua non dell’unità del soggetto credente e della sua libertà è
l’immaginazione. Lungi dall’essere confinata nella fantasticheria, l’immaginazione è il
fondamento di ogni conoscenza, poiché contribuisce in maniera determinante alla
costituzione della struttura stessa di un’esperienza possibile. Nicolas Steeves sottolinea a
questo riguardo due aspetti. Anzitutto, l’universalità dell’immaginazione. Ciascun essere
umano ne è dotato, «compresi i bambini, gli anziani e i pazzi».2 Non si tratta dunque di
un carisma riservato a pochi, ma di un’istanza connaturata all’antropologico. In secondo
luogo, l’immaginazione è una potenza sintetica, che precede le facoltà e le rende possibili.
In quanto fonte del sapere, dell’agire e del sentire, l’immaginazione è quell’apriori che
unifica il sé e lo dota di una propria consistenza.

1
G. ANGELINI, Antropologia teologica. La svolta necessaria, in «Teologia» 34 (2009), 322-349, 334-335.
2
N. STEEVES, Grazie all’immaginazione. Integrare l’immaginazione in teologia fondamentale, Queriniana,
Brescia 2018, 188.

6
Nell’affermare il carattere universale e originariamente sintetico dell’immaginazione,
Steeves raccoglie il frutto della teoria della conoscenza formulata da Kant, a cui
espressamente si riferisce.3
Il filosofo di Königsberg ha attuato una vera e propria rivoluzione copernicana,
considerando la coscienza immaginativa la radice sconosciuta delle due basi della
conoscenza umana: la sensazione e l’intelletto. Si tratta di un reale capovolgimento di
prospettiva: invece di essere frutto dei sensi, l’immaginazione diventa radice sintetica
apriori della costituzione di ogni sapere.
«Se Kant segue Cartesio (il soggetto, fonte dell’essere) e Hume (l’immaginazione, fonte
della costituzione di ogni sapere), egli vuole superare le loro aporie rispettive (dualismo
e scetticismo)».4 A tal fine, postula la preesistenza dell’immaginazione rispetto alla
sensazione, affermandone la capacità di determinare, mediante una sintesi trascendentale,
la lettura dei fenomeni e la modalità con cui se ne fa esperienza.
«Pur approvando la tesi empirica secondo cui ogni sapere proviene dai sensi, Kant la
limita al contenuto del sapere: la forma è fornita a priori dalla facoltà di conoscenza,
l’intelletto».5 Sensibilità e intelletto si uniscono mediante l’immaginazione, a cui vengono
riconosciute due diverse funzioni, l’una produttiva, l’altra riproduttiva.

L’immaginazione (facultas imaginandi), come facoltà delle intuizioni anche senza la presenza
dell’oggetto, è o produttiva, cioè facoltà di presentazione originaria dell’oggetto (exhibitio
originaria), ed è precedente all’esperienza, o riproduttiva, cioè facoltà di presentazione derivata,
e allora riconduce nell’animo una intuizione empirica prima avuta […]. L’immaginazione è [in
altre parole] o inventiva (produttiva) o semplicemente rievocativa (riproduttiva).6

Accanto alla tradizionale funzione riproduttiva dell’immaginazione, consistente nella


ripresentazione di contenuti sensibili già esistenti e già configurati, si apre dunque in Kant
la possibilità di un’immaginazione originaria, che dà forma a qualcosa che non esiste già
nel mondo dell’esperienza. Se da Aristotele a Spinoza l’immagine rimane un doppione
della percezione, cioè viene intesa come la riviviscenza mentale del dato sensoriale,
«nella Critica della ragion pura, la rottura con la problematica precedente è assicurata

3
Ibidem, 246.
4
Ibidem, 49.
5
Ibidem, 49.
6
I. KANT, Antropologia pragmatica, Laterza, Roma-Bari 2001, 52.

7
dalla congiunzione tra il problema dell’immaginazione e quello della sintesi».7 Invero, in
quanto produttiva, l’immaginazione svolge un’attività sintetica, necessaria per la
strutturazione dell’esperienza e per questo è qualificata da Kant in termini di
immaginazione trascendentale. Quale fondamento apriori dell’unità sintetica del
molteplice, l’immaginazione garantisce non solo la mediazione tra la sensibilità e
l’intelletto, ma l’interrelazione di tutte e tre le facoltà: essa coordina lo spirito e il corpo
in vista di un agire. Steeves non manca di sottolineare la portate etica della coscienza
immaginativa: l’immagine spinge sempre all’azione e la orienta. Se dunque è
l’immaginazione ad istituire le tre operazioni fondamentali, convertirla significa
convertire la fonte del sapere, dell’agire e del sentire, in breve significa salvare tutto
l’uomo.8
Nella Critica del giudizio, il tema dell’immaginazione viene approfondito in relazione
all’estetica. Non ci addentriamo tuttavia nell’idea di sublime né nelle forme di espressione
artistica, perché ci porterebbero lontani dal fine che orienta il nostro studio: argomentare
l’importanza dell’immaginazione sul versante antropologico e su quello teologale della
soggettività credente. Ci limitiamo pertanto a sottolineare come, a partire dalla Critica
della ragion pura, l’immaginazione non sia più fraintendibile come difetto percettivo o
come semplice rappresentazione psichica del quid ricevuto passivamente dagli organi di
senso. Da questo punto di vista, concordiamo con Ricoeur nell’affermare che «l’opera di
Kant costituisce essenzialmente l’apertura verso una filosofia moderna
dell’immaginazione». 9
La frammentarietà dell’umano – provocata dalla psicologia razionale – è dunque
superabile grazie alla potenza sintetica immaginativa, che unifica l’interiorità del soggetto
credente, consentendogli di riconoscersi come identità singolare. In ambito
antropologico, il modello teologico-fondamentale elaborato da Steeves risulta quindi
assai fecondo. Si tratta ora di vagliarlo sul versante teologale della soggettività credente.
Prima ancora è tuttavia doverosa una precisazione. A motivo del suo carattere di
simbolicità, l’immaginazione implica sempre la dimensione della fede. Il soggetto, perciò
qualificabile come “credente”, è chiamato a dar credito all’immagine – prodotta o

7
P. RICOEUR, Cinque lezioni. Dal linguaggio all’immagine, Centro Internazionale Studi di estetica,
Palermo 2002, 47.
8
N. STEEVES, Grazie all’immaginazione, 123.
9
P. RICOEUR, Cinque lezioni, 47.

8
riprodotta – e alla sua portata realistica. Da questo punto di vista, la fede non si dà
immediatamente come fede cristiana, né come fede religiosa in senso lato, bensì come
fede antropologica.

1.3. La fede antropologica nel realismo dell’immaginazione

La funzione dell’immaginazione è insostituibile, poiché caratterizza strutturalmente il


modo umano di essere nel mondo. L’uomo non si limita mai a contemplare con distacco
una serie di nudi fatti. Gli eventi umani sono sempre avvolti da una rete di significati e di
simboli, conoscibili non dalla ragione logica ma dall’intuizione immaginativa. La nozione
husserliana di «sintesi passive» avvalora questa tesi.
Debitore verso il cogito cartesiano, Husserl consacra la parte più consistente della propria
riflessione alla correlazione di intuizione ed intenzione, collocando la prima sul versante
della passività e la seconda su quello dell’attività. Nella prima fase della sua ricerca, il
padre della fenomenologia è dunque persuaso che le Wesen, ossia le modalità con cui il
reale si offre all’intuizione, generano il noema solamente se, incontrandosi con
l’intenzione del soggetto, iniziano ad esistere nella sua interiorità come eidos. Affermare
il carattere assoluto della coscienza trascendentale significa dunque sostenere la sua
completa indipendenza nei confronti di tutto ciò che le è estrinseco. Husserl comincerà
tuttavia a dubitare della propria convinzione non appena prenderà in esame la dimensione
dell’intersoggettività. Nel momento in cui un soggetto incontra l’altro da sé, non può non
riconoscere in lui la medesima pretesa di assolutezza. Ne deriva un’inevitabile
relativizzazione reciproca, giacché due assoluti non possono coesistere.
Gli scritti husserliani dedicati a tale tematica risultano contraddittori in quanto, pur non
sconfessando in maniera esplicita il carattere assoluto della coscienza, riconoscono il suo
debito nei confronti dell’alterità.
L’esito aperto dei lavori sull’intersoggettività conduce Husserl ad approfondire la
questione delle «sintesi passive». Tale espressione designa la trama di rapporti esistente
tra le cose, la quale si offre alla coscienza non come materia informe, ma come portatrice
di un significato intrinseco. L’intuizione non è quindi riducibile all’ambito del passivo,
dal momento che in essa c’è un darsi attivo da parte del reale. Conseguentemente,

9
l’intenzionalità non è un assoluto, poiché è preceduta da brandelli di senso, irriducibili
all’immanenza della coscienza.
La riflessione sulle sintesi passive resta tuttavia una parentesi nel grande edificio della
filosofia husserliana. Ponendo infatti in discussione lo sbilanciamento dell’intuizione a
favore dell’intenzione, essa mina alle fondamenta l’intero impianto filosofico di Husserl.
È forse con questa consapevolezza, che egli rinuncia a percorrere fino in fondo la via
individuata nell’ultima fase della sua ricerca, accettando l’esito aporetico dei propri studi.
Se nella costruzione filosofica elaborata da Husserl il tema delle sintesi passive è rimasto
ai margini, in filosofi a lui successivi acquisisce un rilievo centrale. Tra questi, vi è Marc
Richir, il quale ha esplicitamente tematizzato la questione dell’immaginazione.
A partire dalle sintesi passive, Richir reinterpreta radicalmente il progetto
fenomenologico husserliano. Attraverso le categorie di Wesen sauvage e sens se faisant,
egli pone infatti come cardine del proprio discorso quell’anticipazione di senso inscritta
nel reale, che precede la coscienza e che è conoscibile attraverso la Phantasia. Indicativo
è il fatto che Richir utilizzi la traslitterazione greca: Phantasia. Ciò gli consente di
marcare la differenza dall’uso moderno di questo termine, che inclina ad
un’immaginazione alternativa al piano della realtà. A suo avviso, la Phantasia non è
affatto una fantasticheria arbitraria, priva di ogni legame con il principio di razionalità.
Consiste piuttosto in una funzione trascendentale che precede il logos e che lo istituisce,
nella misura in cui si traduce in una sensibilità per il senso del mondo e per la verità
dell’affezione. Se le evidenze empiriche e quelle logiche si pongono sul versante del
razionale, le evidenze simboliche si collocano sul fronte dell’intuizione e poiché gli
aspetti essenziali dell’esistenza umana – ossia, l’anticipazione di senso e l’originario
dell’affezione, che istituiscono il soggetto – attengono all’ambito del simbolico, la
Phantasia, ad esso deputata, è il fattore più umano del logos e dell’eidos. «Il sovra-
trascendentale dell’uomo, la qualità umana dello spirito, insomma l’umano nel suo stadio
più irriducibile e più radicale – ma persino più elementare e fondamentale – è nient’altro
che Phantasia».10

10
D. CORNATI, La genesi affettiva della coscienza nella Fenomenologia di Marc Richir, in D. ALBARELLO
ET AL., Soggetto, senso, verità. Che cosa fa di un uomo un uomo?, Glossa, Milano 2016, 51-85, 69.

10
Ora, il nesso tra l’immaginazione e la realtà è precisamente quanto sostiene Steeves, il
quale, rifacendosi a Lynch e al concetto di «Realphantasie» forgiato da Buber, afferma
che:

Certo, l’immaginazione non ha come unico oggetto (formale o materiale) il reale e il possibile. Ma
essi ne sono gli unici buoni oggetti. Se una persona o una cultura non applicano la propria
immaginazione alla realtà, ne conseguirà un disastro personale e culturale. Ma, all’inverso,
applicare la propria immaginazione al reale o al possibile significa andare verso grandi delizie,
secondo l’aforisma magnifico e suggestivo di Bachelard: «Immaginare vuol dire alzare di un tono
il reale».11

Liberarsi dalla tirannia del dato di fatto, stare di fronte al reale in un atteggiamento attivo
e creativo, pensare che ciò che è potrebbe essere altrimenti: ecco la posta in gioco nel dar
credito all’immaginazione. Affinché l’intuizione immaginativa possa effettivamente
incidere sulla realtà e trasformarla, è però necessario che tra questi due elementi –
l’immaginazione e il reale – si configuri un rapporto ispirato al principio dell’unità dei
distinti, che eviti tre rischi. Anzitutto, quello positivista, che contrappone ad un concetto
puramente materialistico di reale, il concetto fantasmagorico di irreale. In secondo luogo,
l’insidia dell’identificazione idealista, che, in una prospettiva hegeliana, identifica
l’immaginazione produttiva con la Ragione, ossia con l’anima della Realtà stessa. Infine,
il pericolo postmoderno di una confusione tra il piano del reale e quello dell’immaginario,
di cui il mondo virtuale è emblema. Per scongiurare queste derive è dunque necessaria
un’unione nella separazione. Invero, se tra i due ambiti non ci fosse contatto,
l’immaginazione perderebbe ogni possibilità di informare di sé il reale, introducendovi
germi di possibilità; se d’altra parte non ci fosse distinzione, si perderebbe la possibilità
che l’immaginazione rappresenti – a partire dalla sua non congruenza rispetto al reale –
una feconda estraneità, una capacità di pensare altrimenti. Da questo punto di vista,
l’immaginazione è una potenza militante, perché consente di non arrendersi al dato
fattuale. In questa prospettiva andrebbero rilette tanto l’utopia politica quanto
l’escatologia cristiana.

11
N. STEEVES, Grazie all’immaginazione, 210-211.

11
La fede antropologica nella portata realistica dell’immaginazione è dunque decisiva per
la manifestazione della sua forza generativa. Relegare l’immagine all’ambito dell’irreale
significa votarla all’insignificanza.
Dar credito al legame tra il reale e l’immaginazione, e cioè tra il simbolico – custodito
nelle sintesi passive – e la Phantasia – che lo intuisce immaginandolo – è il compito a cui
è chiamato ogni soggetto credente, indipendentemente dalla sua fede teologale.

12
CAPITOLO II

IMMAGINAZIONE
Centro sintetico della rivelazione e della fede teologale

Se l’immaginazione è una potenza sintetica apriori, che precede e istituisce il conoscere,


il volere ed il sentire, se l’ambito che le è proprio non è quello della fantasticheria ma
quello del reale, se la ragione che interpella non è quella logico-matematica ma quella
dell’intuizione implicante l’affidamento credente, allora l’immaginazione è una
dimensione dell’umano che non può essere disattesa dalla riflessione teologica. Per
questo, Nicolas Steeves studia sistematicamente il rapporto tra la coscienza immaginativa
– centro sintetico dell’umano – e i due grandi oggetti della Teologia Fondamentale: la
rivelazione e la fede. Da una parte, la rivelazione divina tocca l’immaginazione per
salvare l’uomo grazie a Cristo, immagine del Dio invisibile impressa in noi. Dall’altra, la
fede, risposta all’immaginazione divina, si esprime grazie all’immaginazione umana.

2.1. Immaginazione e rivelazione

Poiché l’immaginazione è il centro originario e sintetico del soggetto credente, convertirla


significa convertire tutto l’uomo. Avendo come fine la salvezza dell’umano integrale, la
rivelazione non può perciò esimersi dal toccare l’ambito immaginativo. Nondimeno,
prima dell’immaginazione umana, ad essere messa in gioco è l’immaginazione divina.
Assumendo come interlocutore privilegiato Tommaso, Steeves fa notare come nella
Summa, sebbene non venga espressamente affermata un’immaginazione in Dio, si
descrive l’atto creatore a partire dalle immagini-idee degli enti, sul modello platonico. La
creazione è dunque precisabile come immaginazione creatrice. «Ora, l’immaginazione
divina creatrice è salvifica poiché causa, attraverso l’immaginazione umana, un ossequio
religioso verso il Creatore».12 Contemplando la magnificenza della natura, l’uomo è
infatti spinto a domandarsi Chi sia l’origine di tanta bellezza. «La rivelazione mediante

12
Ibidem, 126.

13
la creazione manifesta la necessaria immaginazione salvifica del Creatore, che tocca
l’immaginazione delle sue creature umane nella loro percezione del reale».13 Il creato
rappresenta dunque una via di accesso razionale a Dio, che costituisce una prima
rivelazione salvifica “naturale” per l’immaginazione umana. Dalle creature è infatti
possibile risalire al loro Creatore. Si tratta tuttavia di una possibilità e non di una necessità.
La rivelazione non è mai coercitiva e chiama sempre in causa la libertà del soggetto
credente. Ciò risulta vero non solo per la rivelazione naturale, ma altresì per quella
soprannaturale.

2.1.1. La rivelazione ex parte objecti principalis

Compimento escatologico della rivelazione soprannaturale è Cristo, immagine del Padre


impressa nell’umano. In Cristo, l’uomo è infatti creato e predestinato. Conseguentemente,
l’antropologico è immagine dell’immagine (è immagine di Cristo, che è immagine del
Padre).
Con l’intento di esaminare l’imago Christi, quale rivelazione ex parte objecti principalis,
Steeves si pone in dialogo con un filosofo, J.L. Marion, e con due teologi, Newman e
Balthasar.
Marion si occupa del concetto di rivelazione studiando i «fenomeni saturi». Con questa
espressione, il filosofo si riferisce a quei fenomeni che donano così tante intuizioni
all’adonné – ossia il soggetto in quanto donato a sé – da saturarne le possibilità di
significato. Si tratta cioè di fenomeni che, diversamente dai «fenomeni poveri» e dai
«fenomeni comuni», sono eccedenti e sovrabbondanti, in quanto recano in sé il grado
massimo di donazione. Da questo punto di vista, la rivelazione è il fenomeno saturo per
eccellenza, che «combina l’icona/il volto, l’avvenimento, l’idolo e la carne». 14
Newman ritiene che la rivelazione non sia anzitutto un dogma o un avvenimento, bensì
un’idea reale. Con il termine «idea», il teologo non intende una nozione astratta e
concettuale, ma un principio attivo che conduce lo spirito umano ad una sempre nuova
contemplazione di se stesso. L’idea reale corrisponde perciò ad un’immagine viva, che
vivifica la storia e l’animo dei credenti: è l’immagine dinamica del Cristo.

13
Ibidem, 127.
14
Ibidem, 149-150.

14
Balthasar sottolinea la singolarità della figura – Gestalt – cristologica, il cui oggettivo
splendore – Glanz – consente a chiunque di riconoscerne il carattere rivelativo.
Contemplando l’immagine del Nazareno, l’uomo si trasforma in lui: «la figura del Cristo
si imprime nel peccatore “informe” (senza forma) per “informarlo” (formarlo dentro)». 15
Balthasar usa a questo riguardo un’espressione indicativa, quella di «accordatura
cristiana». L’esperienza della fede è infatti la progressiva accordatura del credente alla
forma cristologica che si imprime in lui. Ciò che rende possibile l’accordatura dell’uomo,
nella sua totalità, alla figura del Cristo è l’attrazione esercitata da questa gestalt.
Nondimeno, tale accordatura non sarebbe realizzabile se la libertà dell’uomo non si
impegnasse a lasciarsi coinvolgere da ciò che percepisce. Il riconoscimento
dell’oggettività cristologica implica l’acconsentimento di una soggettività.
Il confronto con questi tre pensatori ha permesso a Steeves di raccogliere tre guadagni
fondamentali: «il Cristo visibile del Vangelo come paradigma del fenomeno saturo in
filosofia, l’immagine dinamica del Cristo come centro teologico della Rivelazione, la
figura splendente del Cristo in una fenomenologia teologica». 16
Nella loro diversità, Marion, Newman e Balthasar sono accomunati da una convinzione:
il cuore della rivelazione è l’immagine del Cristo, capace di toccare l’immaginazione
umana. Sebbene il lessico che utilizzano non sia sempre precisamente quello
dell’immaginazione, quanto affermano si muove esattamente in quella direzione.
Dopo essersi soffermato sull’imago Christi quale rivelazione ex parte objecti principalis,
Steeves prende in conto i tre ambiti ad essa correlati: la rivelazione ex parte potentiae,
cioè la profezia e l’ispirazione; la rivelazione ex parte subjecti, ossia la Tradizione e il
Magistero; la rivelazione ex parte objecti sequendi, ovvero la Scrittura e il dogma.

2.1.2. La rivelazione ex parte potentiae

Per quel che riguarda la profezia e l’ispirazione, entrambe mostrano come la rivelazione
possa toccare la potenza immaginale del soggetto. L’Autore prende anzitutto in conto il
carisma profetico, consistente «nel ricevere una rivelazione dinamica in immagini e nel

15
Ibidem, 155.
16
Ibidem, 157.

15
trasmetterla agli altri».17 Tommaso precisa le diverse modalità immaginali all’origine
della rivelazione indirizzata al profeta: le forme sensibili esterne, che originano una
visione fisica; le forme impresse nell’immaginazione, che rendono possibile una visione
spirituale; le species impresse direttamente nello spirito mediante un’infusione divina.
Per la Scolastica, l’illuminazione da parte di Dio non avviene senza i veli di qualche
fantasma: le immagini sono necessarie. Nondimeno, la visione profetica avviene talora
senza visioni immaginarie. In tal caso, non è la rivelazione divina ad offrire immagini
all’immaginazione umana: queste immagini provengono dal profeta stesso. Questa
prospettiva verrà radicalizzata da Rahner, per il quale l’accesso ad ogni sapere – compreso
quello che verte sulla trascendenza – avviene sempre e solo attraverso la porta del
sensibile. Fedele alla svolta antropologica, il teologo tedesco ritiene che la conversio ad
phantasma sia connaturata all’intelligere umano. Pertanto, la rivelazione ex parte
potentiae può – nel caso di Tommaso – o addirittura deve – nel caso di Rahner – toccare
l’immaginazione.
Circa l’ispirazione, Steeves mette in evidenza come anche in questo caso
l’immaginazione giochi un ruolo fondamentale e come lo studio di tale tematica richieda
alla stessa teologia di divenire immaginativa. Tanto la Divino afflante Spiritu quanto la
Dei Verbum affermano la natura umano-divina della parola ispirata, conformemente al
mistero dell’Incarnazione. L’immaginazione dei teologi applica dunque per analogia il
dogma cristologico all’ispirazione. Ma come pensare questo rapporto tra l’umano e il
divino nella parola ispirata, affinché uno dei due termini non venga conglobato nell’altro?
I rischi di docetismo e di adozionismo sono presenti non solo nella cristologia: in maniera
diversa, s’insinuano anche nella questione dell’ispirazione. La tradizione teologica ha
individuato tre immagini della modalità di ispirazione scritturale: quella dello strumento,
quella del dettato e quella del messaggero. Le prime due analogie sono particolarmente
rischiose. Concepire l’autore biblico come mero strumento ne sminuisce la rilevanza.
Secondo questa prospettiva, l’ispirazione divina è infatti da intendersi come estasi sacra,
rispetto alla quale lo “strumento umano” non ha alcun ruolo condeterminante: si limita a
riceverla passivamente. Indicativo è il fatto che, a San Luigi dei Francesi a Roma, il
Caravaggio avesse inizialmente raffigurato la mano dell’evangelista Matteo mossa da un
angelo. Incontrando le obiezioni del clero, il pittore fu costretto a modificare la propria

17
Ibidem, 159.

16
opera d’arte, dipingendo l’angelo in volo, nell’atto di ispirare senza costringere. Questa
immagine – la mano di Matteo mossa dall’angelo – esprime efficacemente la prospettiva
teologica dello strumento, che non lascia spazio alla creatività umana. L’analogia del
dettato è altresì ambigua. Sebbene non sia ridotto a strumento, l’autore biblico scrive sotto
dettatura. Anche in questo caso, allo scrittore ispirato non è riconosciuto alcun ruolo
attivo: egli è un semplice recettore del messaggio divino. In entrambe le prospettive –
quella dello strumento e quella del dettato – più che di “scrittura” si dovrebbe parlare di
“trascrizione”, in quanto l’iniziativa di Dio annichilisce l’umano. La Sua Parola si limita
ad “apparire” nella storia, ma non ha essa stessa una storia, in cui incarnarsi e prendere
forma. Quanto all’analogia del messaggero, essa è molto vicina all’immagine del dettato:
l’uomo è colui che semplicemente trasmette il messaggio divino. Una sorta di megafono,
che permette agli auditores di ricevere la rivelazione.
A queste tre analogie della tradizione teologica, Alonso Schökel ne aggiunge una quarta,
che paragona la relazione tra Dio e gli scrittori biblici al rapporto che intercorre tra
l’autore letterario e i suoi personaggi. Un bravo romanziere giunge ad “incarnarsi” nei
protagonisti dei suoi racconti: dipende dalle loro decisioni, dai loro pensieri, dalle loro
gesta. Sembra quasi scomparire, lasciando che le figure da lui immaginate assumano una
consistenza autonoma. In questo modo, i personaggi della narrazione paiono quasi uscire
dal libro e divenire reali. Similmente, anche Dio sceglie, liberamente, di dipendere dagli
autori sacri. Essi non risultano affatto passivi, ma sono concretamente coinvolti nel farsi
della Parola. La loro cultura, la loro storia personale, la loro fede non sono elementi
semplicemente accessori: sono il luogo in cui il messaggio divino si fa carne. Steeves
ritiene perciò che il modello proposto da Schökel sia quello più completo e più reale. La
rivelazione «non può essere immaginata come una pioggia di enunciati dogmatici che
cadono dal cielo delle idee pure. La rivelazione passa sempre attraverso la profondità e lo
spessore del linguaggio umano, legato all’immaginazione simbolica». 18 Per questo, il
senso della Scrittura non può venire separato dalle immagini in cui si esprime.
In ogni creazione letteraria, l’autore attraversa quattro fasi: l’esperienza, il distanziamento
(condizione necessaria per poter raccontare il vissuto esperienziale), l’intuizione e
l’esecuzione. Questo iter scandisce altresì il lavoro dello scrittore biblico, ma con una
particolarità: il soffio dello Spirito Santo nel momento intuitivo. «Qualunque sia il

18
Ibidem, 166.

17
numero di ritocchi apportati al testo finale, nessun momento del lavoro è più ispirato di
altri: tutti sono il frutto di un’immaginazione in cui soffia lo Spirito».19 Sia in Gesù sia
nella pagina biblica, l’incarnazione viene dunque dallo Spirito Santo, che tutto penetra
per dare vita e movimento.

2.1.3. La rivelazione ex parte subjecti

Quanti non godono del carisma profetico e dell’ispirazione divina, ricevono la rivelazione
ascoltando la Scrittura, commentata dalla Tradizione e dal Magistero.
La Tradizione è espressione dell’intersoggettività immaginale della rivelazione divina.
Soggetto e oggetto della Tradizione è Gesù Cristo. Egli è infatti al tempo stesso il
“trasmettitore” originario e l’immagine viva “trasmessa” da fedele a fedele. Certo, da un
punto di vista cronologico, la tradizione della rivelazione inizia con l’Antico Testamento,
ossia con la trasmissione della memoria di quanto Yhwh ha operato per il suo popolo,
Israele. Nondimeno, è in Gesù di Nazareth che la Tradizione trova il suo centro
escatologico. «Che la rivelazione sia diretta, da Dio al profeta o all’autore ispirato, o da
un credente all’altro, nella lunga catena della Tradizione al cuore della quale vive il
Cristo, essa è per essenza trans- o inter-soggettiva, e dunque altamente immaginativa». 20
Invero, essa non ricorre principalmente ad enunciati dogmatici, ma a racconti figurati,
simboli, poesie, esempi tratti dalla vita concreta dei testimoni.
L’interpretazione della Scrittura, che rende possibile la Tradizione – atto di trasmissione
e contenuto trasmesso –, avviene mediante un lavoro al contempo personale e condiviso.
Affinché l’ermeneutica del testo biblico non cada nel soggettivismo e nel relativismo, è
infatti necessaria un’istanza critica dal valore regolativo: il Magistero, che prolunga la
critica cristica. Primo criterio interpretativo è infatti Gesù, maestro nell’ermeneutica della
Torah. Egli non abolisce la Legge, ma la porta a compimento, mostrandone il significato
autentico: «avete inteso che fu detto – ma io vi dico». Il legame tra il credente e il Verbo
che interpreta la Scrittura è dunque la prima intersoggettività immaginale critica.
Prosecuzione della critica cristica è, come già abbiamo anticipato, il Magistero ecclesiale.
Il Magistero presenta due caratteristiche: è un ministero ed è vivo. In quanto ministero, è

19
Ibidem, 168.
20
Ibidem, 172.

18
servizio alla Parola di Dio, che interpreta sotto la guida dello Spirito Santo.
Conseguentemente, la Scrittura è sempre al di sopra dell’istanza magisteriale. Poiché
vivo, il Magistero è inoltre dinamico: non si rapporta alla Tradizione come ad un
“deposito” di contenuti da preservare inalterati nel corso della storia, ma è chiamato ad
esercitare la propria immaginazione per vivificare l’esegesi e la teologia, traducendo la
Scrittura in maniera sempre nuova, per incarnarla nell’inedito del tempo presente.
Principio guida di questo vivace lavoro ermeneutico è l’organicità della Bibbia. Al
numero dodici, la Dei Verbum precisa infatti che occorre badare «al contenuto e all’unità
di tutta la Scrittura». Estrapolare una pericope – magari per avallare una dottrina decisa a
monte di ogni riferimento scritturistico – senza tener conto del Sitz im leben in cui sorge,
del rapporto che intrattiene con gli altri capitoli del libro in cui è inserita e con le altre
sezioni del corpus biblico, è del tutto arbitrario e improprio. Contro gli eccessi
dell’immaginazione soggettiva e contro una possibile strumentalizzazione della Scrittura,
«questa resta essa stessa la regula fidei intersoggettiva che dà il senso della Rivelazione
attraverso la Tradizione». 21
La Rivelazione può dunque toccare l’immaginazione ex parte subjecti nella Tradizione e
nell’interpretazione dinamica della Scrittura regolata dal Magistero. Esiste tuttavia una
modalità particolare di tradizione che pare impermeabile ad ogni forma immaginativa: il
dogma.

2.1.4. La rivelazione ex parte objecti sequendi

Contrariamente alle apparenze, l’immaginazione non è affatto estranea alle formule


dogmatiche, poiché le origina e da esse viene disciplinata. Non essendo expressis verbis
nella Scrittura, il dogma può essere formulato a condizione che i teologi e il Magistero
mettano in gioco la propria capacità immaginativa. Al contempo, gli enunciati dogmatici
impediscono all’immaginazione ermeneutica di incorrere nell’arbitrio soggettivistico e
nel relativismo, ancorandola ai capisaldi veritativi della fede cristiana. «In breve,
l’immaginazione produce il dogma; il dogma regola l’immaginazione: fra di loro c’è un
circolo ermeneutico».22

21
Ibidem, 177.
22
Ibidem, 178.

19
L’affermazione dogmatica, secondo Steeves, è valida e necessaria per trasmettere la
rivelazione. Nondimeno, occorre ricordare con Newman che le formule dogmatiche non
appartengono all’ambito del rivelato. La rivelazione non si amplia col crescere del
numero delle proposizioni, né s’indebolisce se queste diminuiscono. Inoltre, nascendo
dall’immaginazione euristica ed essendo espressi nell’imperfezione del linguaggio
umano, gli enunciati dogmatici sono per natura dinamici. Conferir loro uno status
autonomo e fissista – come fecero nel XIX secolo il tradizionalismo ed il positivismo
dogmatico – significa chiudersi al soffio dello Spirito, che vivifica la Tradizione,
suggerendo anche l’inedito.
Riferendosi a Gesché, Steeves approfondisce ulteriormente la questione dogmatica
presentando il dogma come forma di esegesi immaginativa. L’enunciato dogmatico
consiste in un’esplicitazione del dato rivelato sul piano concettuale, ma non secondo la
razionalità astratta del nûs, bensì quella concreta del lógos. La razionalità del lógos è
propria anche della poesia, dunque non esclude la dimensione simbolico-immaginativa,
ma al contrario la implica. Si tratta di un modello di ragione più ampio rispetto a quello
illuministico il quale, rivendicando una razionalità universale e assoluta, riduce la ragione
umana al solo ambito scientifico-matematico. Tale razionalismo è secondo Gesché una
deriva rischiosa, che tutto omologa senza lasciare spazio alla ricchezza delle razionalità
non universali. Da questo punto di vista, al cristianesimo spetta un compito decisivo, ossia
quello di ampliare gli orizzonti della ragione al di là del razionalismo, a partire dal
paradosso di cui è portatore: l’universalità del particolare. La vicenda di uno solo, Gesù
di Nazareth, collocata in un tempo e in uno spazio determinati, vuol essere infatti “buona
notizia” per tutti.
All’interno di questo quadro di fondo, l’immaginazione dogmatica deve divenire un «atto
intellettuale di trasgressione»23, che rompe con l’illogicità di una razionalità astratta ed
egemonica. Lungi dall’essere sinonimo di paralisi, il lavoro immaginale del dogma è
innovazione, che respingendo l’astrattezza del nûs, fa risuonare il Lógos, rendendo
visibile l’invisibile.

23
G. SCARPETTA, citato in N. STEEVES, Grazie all’immaginazione, 182.

20
2.2. Esperienza artistica in relazione a rivelazione e fede

Per approfondire il carattere immaginativo della rivelazione e della fede, riteniamo utile
confrontarci brevemente con un testo di Gerhard Larcher: Estetica della fede. Un abbozzo
teologico-fondamentale. Nella convinzione che per il cristianesimo l’estetico non
costituisca semplicemente una questione d’interesse, ma sia ciò che gli è originariamente
proprio in virtù della qualità sensibile e dello spessore corporeo della verità stessa di Dio,
Larcher elabora una demonstratio aesthetica in nuce della religione cristiana, istruita sulle
coordinate di un confronto assiduo con l’arte. Particolarmente rilevante, ai fini del nostro
studio, è il secondo capitolo dell’Estetica della fede, dedicato al rapporto tra l’esperienza
artistica e la questione del senso. Nell’ambito di questa nuova (de)monstratio religiosa,
Larcher tematizza precisamente ciò che è oggetto della nostra indagine: l’immagine – qui
intesa soprattutto come immagine artistica – in relazione alla rivelazione e alla fede.
Riferendosi a Marion e a Ricoeur, Larcher sostiene che l’esperienza estetica e l’evento
rivelativo possano essere rapportati in modo compiuto solo nell’orizzonte di
un’«economia del dono» e di una «logica dell’eccedenza». Come la rivelazione –
«fenomeno saturo» per eccellenza – l’immagine, a motivo della sua simbolicità, è
portatrice di un di più che non è riducibile al concetto. Da una parte, essa manifesta un
senso che si offre come già là e che dunque precede la coscienza del soggetto, la provoca
e la interpella. Dall’altra, apre all’ulteriore, poiché consente alla coscienza di andare oltre
se stessa e di dischiudersi alla dimensione ontologica.
In quanto esperienza simbolica, l’immagine implica sempre un aspetto del sorprendente,
dello sradicamento, del rivelativo. Il simbolo risponde infatti ad una logica diversa da
quella del segno. Dovendo comunicare dei significati, il segno opera secondo una logica
strumentale ed economica, finalizzata al perseguimento di uno scopo preciso: la
trasmissione dell’informazione. L’esempio forse più emblematico è quello del cartello
stradale: una volta decodificato e tradotto in concetti, il segno ha esaurito la sua funzione.
A differenza del segno, il simbolo non comunica qualcosa, ma in esso (e non attraverso
esso) qualcosa si comunica. Conseguentemente, si potrebbe dire che il simbolo non è
l’unione tra un significante e un significato, ma tra due significanti: tra due entità concrete
la cui unione è produttiva di un senso, che rimane però sempre ultimamente indisponibile.
Il segno, in quanto unione di un significante e di un significato, è comunicazione di altro

21
da sé: rappresentazione, appunto, di un significato attraverso un significante. Il simbolo
è invece un’entità concreta, in cui un’altra entità concreta viene a manifestazione. Il
simbolo invita dunque a entrare in sé e a partecipare di sé: in un ordine (di relazioni) al
quale esso stesso appartiene. Non avendo informazioni da veicolare, il simbolo non si
fonda sulla logica strumentale che è tipica del segno, bensì sulla logica dell’eccesso, della
gratuità, dell’inutile. Si tratta della stessa logica di cui vive la trascendenza. Tale affinità
lega inscindibilmente l’immagine alla rivelazione. Per questo, Larcher afferma che:

L’incontro con l’arte e l’esperienza dell’arte, quali indici indisponibili del senso, non sono
semplicemente un’altra forma di teologia naturale tradizionale, che sarebbe già sempre in grado di
dire tutto sul (e del) mistero di Dio. Esse non sono neppure un indizio esterno o un preambolo, un
supporto sul quale poi si dovrebbe solo affastellare tutto ciò che è proprio alla rivelazione cristiana.
L’incontro con l’arte e l’esperienza dell’arte sono piuttosto cifra e specchio – in scrittura – di un
mistero santo che ha la possibilità di dischiudersi nella conversione del soggetto. Forse esse sono
addirittura la forma anonima e pienamente valida dell’apertura di quel mistero teologico che, in
forza del suo Spirito universale, si rivela nella più espressa manifestazione di sé come gloria che
passa e si abbassa.24

La risposta alla presenza simbolica e anticipatoria di senso inscritta nell’arte è la fede.


Con il suo carattere rivelativo, l’immagine è dunque ciò che consente di mettere mano ad
una rinnovata analysis fidei. Nell’ottica dei tradizionali preambula fidei, l’esperienza di
fede è statica e concettuale, poiché ignora la dimensione estetica ed è confinata
nell’ambito etico e in quello noetico. Il bene ed il vero sono certamente aspetti
fondamentali e da essi nessuna fede matura può prescindere. La fede autentica non ha la
forma di un cieco assenso, ma di una scelta libera e consapevole. La dimensione
intellettuale risulta perciò chiaramente indispensabile. L’ambito etico non è tuttavia meno
rilevante. La fede autentica non rimane infatti confinata nello spazio del pensiero, ma dà
forma alla vita nella sua globalità, coinvolgendo anche il piano dell’agire. Ciononostante,
nessuna deduzione razionale o produzione etica è capace di legittimare l’atto del credere.
La fede implica la capacità del Mistero di condurre a sé ancor prima dell’argomentazione
e dell’impegno etico. La fede nasce dunque dall’essere attratti verso Qualcosa, verso
Qualcuno. Il primato è perciò dell’estetica, non dell’ortodossia, né dell’ortoprassi.

24
G. LARCHER, Estetica della fede. Un abbozzo teologico-fondamentale, Glossa, Milano 2011, 99-100.

22
Conseguentemente, le ragioni della credibilità, o del dovere del credere, nel senso della
tradizionale fondazione della fede, si trovano ad essere profondamente modificate
dall’esperienza artistica: «esse appaiono, al di là della pregnanza concettuale, come
dinamizzate, più luminosamente esistenziali e trascinanti» 25, capaci di coinvolgere
l’umano integrale, rendendo la fede «mimesi dell’intera esistenza, arte del vivere nel vero
e proprio senso della parola».26

2.3. Immaginazione e fede

La fede teologale non è che un’applicazione particolare della fede antropologica


universale. Essa è da intendersi come la risposta umana all’iniziativa divina di rivelarsi.
Tra la fede religiosa e l’immaginazione vi è un rapporto di tipo circolare: l’immaginazione
soccorre la fede e questa, a propria volta, salva l’immaginazione.
Per quel che riguarda la prima dinamica, Steeves ritiene che l’immaginazione soccorra la
fede su tre fronti: quello persuasivo-didattico, quello della testimonianza personale e
quello del realismo.
Circa il primo ambito, già Tommaso d’Aquino aveva sottolineato la necessità, anche per
una doctrina elevata come la Bibbia, di un linguaggio metaforico per toccare e
persuadere. Steeves concorda nel ritenere che una fede immaginale goda di maggior
credibilità. Il suo stesso oggetto è infatti immaginoso, poiché la res rivelata è espressa
mediante simboli o racconti che toccano l’immaginazione. Conseguentemente,
l’annuncio della rivelazione mediante immagini dinamiche consente al soggetto credente
di vivere un’esperienza di fede più vera ed intensa, al contempo affettiva e intellettuale.
Per quel che riguarda la testimonianza personale, va detto, con Bachelard, che
l’immaginazione è transsoggettiva, poiché le immagini formate da un soggetto si
trasmettono agli altri. Ciò risulta vero anche per le immagini surreali della rivelazione. I
testimoni della fede, che hanno ricevuto l’oggetto rivelato per mezzo di immagini
dinamiche, non esitano a ricorrere, a loro volta, a metafore e simboli per trasmettere il
proprio credo. Per citare un caso paradigmatico, Ignazio di Antiochia paragona il proprio
martirio sotto i denti delle belve ad un chicco di grano macinato dalla mola. Nondimeno,

25
Ibidem, 101.
26
Ibidem, 101.

23
la testimonianza non si limita alle similitudini: «conformandosi all’immagine del Cristo
morto per amore per noi, la vita di questi testimoni, poeti o no, ha una forma che colpisce
l’immaginazione come imitatio Christi imaginis».27 Plasmandosi sul modello del Cristo,
i testimoni ne diventano l’immagine vivente. Si tratta di un’immagine inedita e creativa,
non di una mera riproduzione. Il testimone non annulla la propria singolarità per divenire
uguale a Gesù di Nazareth, bensì trova autenticamente se stesso nel porsi alla sequela di
quell’Unico che, inverando l’umano, abilita ciascuno a trovare la propria unicità. La
conformazione a Cristo non coincide con un processo di clonazione, ma con la dinamica
del nascere alla propria identità nella ripresa creativa dell’umano compiuto. Infine, il
realismo. Del legame tra immaginazione e realtà si è già parlato ampiamente. Qui, ci
limitiamo a sottolineare che l’immaginazione, approfondendo la realtà, soccorre la fede,
convertendola dal nozionale al reale. A chiarire la distinzione tra assenso nozionale e
assenso reale è Newman:

Nei suoi assensi nozionali […] la mente contempla non cose ma ciò che essa stessa ha creato; in
quelli reali, è diretta sulle cose, rappresentate dalle impressioni che esse hanno lasciato
sull’immaginazione. Queste immagini, una volta che si dia loro l’assenso, hanno un’influenza sia
sull’individuo sia sulla società, un’influenza che le mere nozioni non possono esercitare.28

Diversamente dall’assenso nozionale, quello reale è rivolto alle res esterne al soggetto
conoscente e gode di un’efficacia maggiore. La conversione della fede al reale per mezzo
dell’immaginazione, le consente di mostrare la congruenza della rivelazione con la
situazione umana concreta: il messaggio biblico non è affatto un’astrazione, una tesi
concettuale e disincarnata, lontana dalla vita. Al contrario, la Scrittura tocca le più svariate
condizioni dell’umano e vuol essere una buona parola per tutti, capace di incidere
significativamente sulla storia reale dei singoli e dell’umanità intera.
Accrescendo la sua capacità persuasiva, abilitandola alla testimonianza, ancorandola
saldamente alla realtà, l’immaginazione soccorre la fede, rendendola credibile.
Nondimeno, risulta vero anche il contrario: la fede salva l’immaginazione. La potenza
immaginativa può infatti pervertirsi, ossia delirare e derealizzare, usurpando le funzioni

27
N. STEEVES, Grazie all’immaginazione, 219.
28
J.H. NEWMAN, citato in N. STEEVES, Grazie all’immaginazione, 221.

24
della ragione e perdendo ogni contatto con l’effettività concreta. Steeves individua cinque
loci in cui la fede trae in salvo l’immaginazione da questa insidia.
Anzitutto, quello dell’umanità reale, segnata dalla povertà e dalla fragilità. L’estremismo
ideologico immagina l’umano sul modello del superuomo nietzschiano, non lasciando
spazio ai deboli. Ciò accade non solo nei totalitarismi, ma anche in quelle posizioni
socioculturali che escludono coloro che non rientrano nei parametri astrattamente definiti.
A titolo di esempio, Steeves cita il darwinismo sociale che, tacitamente, continua ad
orientare i nostri sistemi economici. L’immagine del povero come «anello debole»,
destinato a soccombere, è il frutto di una perversione dell’immaginazione, che ha smarrito
il riferimento all’umanità reale, fragile e bisognosa. La fede evangelica può qui
dischiudere tutta la sua portata soteriologica, proponendo una nuova immagine: quella
che emerge dal discorso delle Beatitudini e dalla descrizione del Giudizio finale in Mt
25,31-46. Se il povero è beato e se rende presente il Cristo, allora egli non è un dannato,
ma è causa di salvezza per tutti coloro che lo hanno servito. Riportando l’immaginazione
all’umanità concreta, la fede non solo salva l’immaginazione, ma attraverso di essa salva
anche l’etica.
Secondo locus di salvezza mediante la fede è la memoria. In Cristo, la realtà è già stata
salvata. Il ricordo dell’efficacia soteriologica della vicenda storica del Nazareno ed in
particolare della sua Pasqua sostiene la fiducia e incoraggia l’immaginazione a sperare.
«La fede fiduciosa rimanda l’immaginazione alla memoria perché essa orienti il presente
e crei un futuro possibile». 29
Invero, il terzo locus è precisamente quello del futuro. Alimentando la speranza, la fede
aiuta a dipingere l’immagine di un domani migliore. Da questo punto di vista, le
rappresentazioni escatologiche contenute nella Scrittura risultano interessanti.
Radicandosi nella storia, le immagini di speranza proposte dal cristianesimo non si
riducono infatti ad una spinta di matrice utopica. Lungi dall’essere una fuga dalla
concretezza, la speranza cristiana è ciò che mette tutto in movimento. Laddove c’è
speranza c’è impegno per il Regno che viene, c’è il coraggio di percorrere nuove vie per
superare lo scacco del male, c’è il desiderio di coltivare sogni e progetti che possano far
fiorire anche il deserto. Sperare non significa aspettare passivamente una salvezza
dall’alto: dono e compito s’intrecciano inestricabilmente. Dio libera il suo popolo

29
N. STEEVES, Grazie all’immaginazione, 223-224.

25
dall’Egitto, ma senza il faticoso cammino nel deserto la liberazione rimarrebbe
incompiuta. Il futuro della sovranità di Dio esige sempre il concorso dell’azione
dell’uomo. Nella Costituzione dogmatica Lumen gentium, il Concilio Vaticano II ha
espresso chiaramente questo pensiero al numero 35, in cui afferma che i cristiani hanno
il compito di esprimere la loro speranza nelle strutture della vita secolare. La speranza
cristiana non è dunque un’utopia, poiché si è espressa e continua ad esprimersi in molti
luoghi, come lievito nella pasta del mondo. La «grande speranza» in un fine ultimo dà
notizia di sé in questi granelli di lievito, in queste «piccole speranze» disseminate nelle
pieghe e nelle ferite della storia, piccoli germogli che ogni credente ha il compito di
«coltivare e custodire» (Gen 2,15), nella consapevolezza che la speranza radicale
abbisogna della speranza nell’al di qua per rendere accessibile all’esperienza umana la
pienezza del suo senso. La fede cristiana, con la sua portata escatologica, salva dunque
l’immaginazione aiutandola a progettare un avvenire salvato.
Il quarto locus in cui la fede libera la facoltà immaginativa è il reale concreto. Il
radicamento della fede nella storia, e in particolare in quella storia singolare che è quella
di Gesù di Nazareth, consente all’immaginazione di rimanere ancorata alla realtà.
L’evento dell’Incarnazione allontana la fede dallo spiritualismo astratto: non si tratta di
affidarsi ad un principio metafisico, al di là del tempo e dello spazio, ma di dar credito
alla vicenda concreta del Nazareno. «Il passaggio paziente della fede attraverso le tappe
della vita del Cristo salva l’immaginazione aiutandola a muoversi nel reale concreto». 30
È da notare come questo quarto locus istituisca una dialettica. Abbiamo infatti affermato
in precedenza che l’immaginazione, immaginando la realtà, soccorre la fede,
convertendola dal nozionale al reale. Ora, sosteniamo invece che sia la fede, in virtù del
principio di Incarnazione, ad assicurare l’immaginazione alla concretezza. Si tratta
evidentemente non di una contraddizione, ma di un rapporto di tipo circolare, in cui i due
termini – fede e immaginazione – si sostengono a vicenda, per eludere il rischio
dell’astrattezza.
Infine, il quinto locus è l’ironia. L’ironia cristica è contestazione delle letture ironiche
sprezzanti e beffarde, che deridono il misero, il povero. Invero, l’ironia di Gesù è quella
del più piccolo che è il più grande nel Regno dei Cieli; quella della povertà del ricco, il
quale, avendo già avuto la propria ricompensa, non prenderà parte al banchetto eterno; è

30
Ibidem, 226.

26
l’ironia di chi trova la forza nella debolezza, la libertà nell’obbedienza, la gioia nel
servizio; è insomma l’ironia positiva della reconciliatio oppositorum, capace di leggere
gli avvenimenti del mondo da un punto di vista diverso e sovversivo. Per questo, l’ironia
cristica è una vera e propria forma di fede poiché, credendo nella possibilità di una
riconciliazione degli opposti, è capace di immaginare il mondo da una prospettiva nuova,
creativa e ribelle. «Se è solo una delle ironie possibili, quella del Cristo è unica e
indispensabile per il fatto che salva l’immaginazione degli altri. Al di fuori di essa, ogni
immaginazione può dannarsi attraverso le ironie nefaste, portando con sé uomini e
culture».31 L’ironia cristica è dunque salvifica perché, insegnando alle nostre
immaginazioni ad essere autocritiche, le umanizza.
L’analisi della dialettica tra fede e immaginazione ci ha permesso di cogliere l’estrema
fecondità di questo legame. Fede e immaginazione non sono semplicemente due istanze
dialoganti, ma l’una è interna all’altra, «senza confusione né separazione», per riprendere
la formula cristologica di Calcedonia. In quanto potenza sintetica apriori, capace di
unificare il pensare, il volere ed il sentire, l’immaginazione è radicata nel più profondo
dell’umano e permette di porre un atto di fede con la massima fiducia, consapevolezza e
conoscenza. Essa serve la fede rendendola credibile e realizzando l’oggetto creduto. Dal
canto suo, la fede suscita nel soggetto credente un certo modo di immaginare Dio e il
mondo. Essa salva l’immaginazione rendendola più realista quanto al sapere e più
realizzante quanto all’agire. La dialettica tra la fede che immagina e l’immaginazione che
crede è perciò «quella di un soccorso perpetuo, di una dinamica virtuosa che si traduce in
un legame più forte con il reale per ciascuna di esse».32

31
Ibidem, 227.
32
Ibidem, 216.

27
CONCLUSIONE

Il modello immaginativo proposto da Steeves è d’indubbio interesse per la teologia


fondamentale, non solo perché studia sistematicamente la rivelazione e la fede da un
punto di vista del tutto inusuale come quello immaginativo, ma anche perché lascia
emergere una figura di soggetto credente unitaria e sintetica. Tradizionalmente
frammentato nelle sue facoltà, l’umano trova nell’immaginazione il suo centro originario.
Sia sul fronte antropologico, sia su quello teologale, il sé riconosce nella potenza
immaginativa la categoria di mediazione necessaria per un’adesione di fede, al reale
concreto – nel caso della fede antropologica – e alla res rivelata – nel caso della fede
teologale.
Va tuttavia segnalato il poco spazio accordato dall’Autore al versante prettamente
antropologico della soggettività credente. Il soggetto credente non è immediatamente il
cristiano e nemmeno l’uomo religioso in senso lato, ma è l’umano in quanto tale, per
natura dotato di una coscienza credente. Fin dalla nascita, siamo infatti chiamati a
compiere tanti piccoli atti di fede nelle situazioni che si presentano e nelle persone che si
prendono cura di noi. Giorno dopo giorno, questi atti occasionali di affidamento si
trasformano in un habitus, ossia in un abituale atteggiamento fiducioso verso il carattere
promettente della vita nella sua globalità. Steeves accenna a questa dimensione
antropologica ma non vi indugia, per addentrarsi immediatamente nell’ambito teologale.
A nostro avviso, il discorso sul rapporto tra l’immaginazione e la fede cristiana avrebbe
dovuto integrare un rimando costitutivo e non semplicemente sporadico alla fede
antropologica. Probabilmente, l’eccessiva preoccupazione di continuità con l’ortodossia
Scolastica ha impedito al teologo gesuita di osare maggiormente nella propria riflessione,
e cioè di spingersi sul terreno fenomenologico-ermeneutico. Si tratta di un terreno
certamente insidioso, ma capace di condurre all’umano concreto, senza “metafisismi” di
sorta. Il linguaggio della teologia medievale, a cui Steeves ricorre in maniera frequente,
non è d’aiuto in questo senso, perché imbriglia la novità dell’argomentazione in
contenitori semantici prodotti in altro contesto e con altre intenzioni. Per utilizzare
un’immagine evangelica, non è opportuno mettere il vino nuovo in otri vecchi. Occorrono
talvolta otri nuovi, cioè parole nuove, nuovi modi di esprimersi, certamente in continuità

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con la tradizione che ci precede, ma altresì capaci dell’inedito, per un’incarnazione
sempre più piena ed autentica della Buona Notizia.
Nonostante questi limiti, la proposta di Steeves rimane d’indiscutibile valore. Circa la
figura del soggetto credente – focus privilegiato della nostra indagine – segnaliamo un
ultimo guadagno: il superamento della dicotomia fede-ragione. Individuando
l’immaginazione quale nucleo sintetico dell’umano, il modello teologico-fondamentale
elaborato dall’Autore permette di cogliere come sia la stessa persona a credere, a decidere,
a percepire, a conoscere. Fede e ragione non costituiscono pertanto due istanze separate
e distinte, bensì due dinamiche tra loro intrecciate, dal momento che la fede ha sempre
delle ragioni e la ragione, dal canto suo, immaginando la realtà per mezzo dell’intuizione
– husserlianamente intesa – fa sempre professione di fede.
Il saggio di Steeves offre dunque vie promettenti per la ricerca teologica. Nondimeno, un
maggior ardire nell’immaginare il soggetto credente sarebbe stato auspicabile.

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BIBLIOGRAFIA

ANGELINI G., Antropologia teologica. La svolta necessaria, in «Teologia» 34 (2009),


322-349.
CORNATI D., La genesi affettiva della coscienza nella Fenomenologia di Marc Richir, in
D. ALBARELLO ET AL., Soggetto, senso, verità. Che cosa fa di un uomo un
uomo?, Glossa, Milano 2016, 51-85.
KANT I., Antropologia pragmatica, Laterza, Roma-Bari 2001.
LARCHER G., Estetica della fede. Un abbozzo teologico-fondamentale, Glossa, Milano
2011.
RICOEUR P., Cinque lezioni. Dal linguaggio all’immagine, Centro Internazionale Studi di
estetica, Palermo 2002.
STEEVES N., Grazie all’immaginazione. Integrare l’immaginazione in teologia
fondamentale, Queriniana, Brescia 2018.

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INDICE

INTRODUZIONE .............................................................................................................2

1. IMMAGINAZIONE. Centro sintetico dell’umano .......................................................4


1.1. La frammentarietà dell’umano ............................................................................4
1.2. Un’unità possibile................................................................................................6
1.3. La fede antropologica nel realismo dell’immaginazione ....................................9

2. IMMAGINAZIONE. Centro sintetico della rivelazione e della fede teologale ..........13


2.1. Immaginazione e rivelazione .............................................................................13
2.1.1. La rivelazione ex parte objecti principalis .....................................................14
2.1.2. La rivelazione ex parte potentiae. ..................................................................15
2.1.3. La rivelazione ex parte subjecti......................................................................18
2.1.4. La rivelazione ex parte objecti sequendi ........................................................19
2.2. Esperienza artistica in relazione a rivelazione e fede ........................................21
2.3. Immaginazione e fede........................................................................................23

CONCLUSIONE .............................................................................................................28

BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................30

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