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Conoscere sé stessi
per cambiare il mondo
Dall’origine del «gnòthi seautòn» all’approccio agostiniano
Paralisi sta per incapacità di muoversi, di pensare, di conoscere la realtà senza la sua patina grigia
di apparenze e scavare a fondo nella sua essenza per scorgere la Verità. Immaginiamo, allora, da
paralitici, di riuscire a muovere un arto, scricchiolare una mano e portarsela alla testa, altezza
tempia. Un gesto inconsulto, quasi involontario: è il rumore della televisione, del frastuono delle
strade, delle macchine che suonano il clacson, dei motori scoppiettanti di fumo nero, la causa
dell’emicrania che pervade la mente e il corpo e comincia a fare male. Una sensazione
d’inquietudine prende il sopravvento e non si può reagire da fermi. Un movimento di idee può
cambiare le cose.
«C'è una rivoluzione che dobbiamo fare se vogliamo sottrarci all'angoscia, ai conflitti e alle
frustrazioni in cui siamo afferrati. Questa rivoluzione deve cominciare non con le teorie e le
ideologie, ma con una radicale trasformazione della nostra mente.»
A partire da Pitagora, che spingeva gli uomini a realizzare sé stessi, per arrivare a Immanuel Kant,
molti filosofi hanno concepito l'importanza di conoscere sé stessi prima di iniziare a scoprire le
verità assolute. Il conoscere sé stessi può sembrare in opposizione al conoscere il mondo, ma le
due conoscenze convergono nella stessa direzione: la filosofia è slancio dell'uomo verso il
conoscere e una conoscenza viva e attuale non può prescindere dalla mente che conosce.
Pensatori come Socrate e Krishnamurti hanno sottolineato l'importanza di una conoscenza diretta
e viva del mondo, il che non è possibile senza rendersi conto di come funziona la propria mente,
di come essa conosce e riconosce le cose. Capire questo funzionamento significa potersi liberare
da pregiudizi e condizionamenti culturali e poter conoscere senza filtri, per ribellarsi alle
imposizioni della società in cui si vive, possedendo il potere delle proprie decisioni.
L’invito a indagare dentro di sé ha conosciuto nei secoli le vite di molti uomini, primi fra i quali
probabilmente coloro che hanno abitato l’antica Grecia ai tempi dei Sette Sapienti, da Talete di
Mileto a Chilone di Sparta, che fornirono al tempio di Delfi una raccolta di sentenze concise e
memorabili, che furono pronunciate da ciascuno, e che, radunate insieme, si offrirono come
primizie di sapienza ad Apollo, lasciando incisi nella pietra i celebri: Conosci te stesso (γνώθι
σαυτόν) e Nulla di troppo (μηδὲν ἄγαν).
«Conosci te stesso» per scoprire che l’essenza della nostra vita è dentro, non al di fuori di noi.
Il celebre «Nulla di troppo», indica invece una temperanza e un senso della misura costituenti il
perno dell’etica greca arcaica e classica, individuabile poi chiaramente anche in Socrate e in
Platone e riscontrabile, nella riflessione morale successiva, nelle virtù etiche aristoteliche.
Chi entrava nel tempio si trovava dinnanzi a un insegnamento, forse inizialmente come semplice
monito proverbiale, che andava oltre la mera cautela da adottarsi nel porre le domande nella
consultazione oracolare. Eraclito di Efeso ammetteva anch’egli la possibilità, per gli uomini, di
conoscer sé stessi e dichiarava di aver fatto lui stesso ricerca del proprio sé.
Come questi ricorda, il dio di Delfi infatti, nel suo oracolo, «non dice (apertamente), né nasconde,
ma dà segni». Questa forma specifica della relazione domanda-risposta della consultazione
oracolare influenzerà la dialogica di Socrate e la particolare via necessaria all’acquisizione della
consapevolezza di sé, quella che passa attraverso il dubbio instillato nel dialogo: cioè attraverso la
posizione di domande («se…oppure») tese a far sì che l’interlocutore renda ragione della propria
vita e dei propri valori, attraverso la confutazione delle risposte fornite e attraverso l’acquisizione
di quello che alla maniera della dott.ssa Napolitano, potremmo chiamare il «livello zero della
consapevolezza di sé», intesa in Socrate esattamente come sapere, dialetticamente acquisito, della
propria insipienza.
A cominciare dal passo platonico del Fedro, in cui è scritto: “io non sono ancora in grado,
secondo l’iscrizione di Delfi, di ‘Conoscere me stesso’ (gnônai emautón) e perciò mi sembra
ridicolo, non conoscendo ancora questo, indagare su cose che mi sono estranee. Perciò dando
addio a tali cose e mantenendo fede a ciò che si crede di esse, vado esaminando non tali cose, ma
me stesso, per vedere se non si dia il caso che io sia una qualche bestia pervasa di brame (…), o se
invece io sia un essere vivente più mansueto e più semplice, partecipe per natura (physei
metéchon) di una sorte divina (theias moiras) e senza fumosa arroganza”; risulta chiara la
necessità di scandagliare l’animo umano per trovare quella libertas interiore, la quale è la sola che
nessuno può toglierci, in grado di fornire risposte ai quesiti che vanno oltre le res humanae.
Da l’Apologia di Socrate, Platone riporta ciò che Socrate, intimamente, certamente, con verità e in
modo stabile sa: sa di non sapere e dovrà cercare soluzioni al conflitto fra questo, ch’egli in tal
modo sa, e la certa, vera e stabile e però opposta affermazione divina della sua sapienza superiore
a quella di tutti gli altri uomini. La soluzione di tale aporia consisterà, come tutti ricordiamo, nella
qualificazione di quella anthropìne sophìa (sapienza umana) ch’egli poco prima aveva ammesso
di poter possedere: «Probabilmente, cittadini», egli conclude, «davvero sapiente è il dio», e con
quel suo oracolo intende dire che la sapienza umana val poco o niente. Solo in apparenza si
riferisce a questo Socrate qui: «al mio nome ricorre come a un esempio, come per dire: “Il più
sapiente fra voi, uomini, è colui che come Socrate si sia reso conto (ègnoken) che quanto a
sapienza non vale nulla”»
L’ammissione di un tale limite e allo stesso tempo la consapevolezza di un vantaggio che offre il
privilegio di porsi come guida degli altri uomini, chiude il cerchio rispetto alla fruizione filosofica
del motto delfico «gnòthi sautòn»: massima sapienza umana è dunque quella che accolga e
riconosca il tratto strutturale dell’essere dell’uomo, che non è sapiente come il dio, che non è
ignorante come una bestia, ma è a mezzo fra ignoranza e sapienza ed è, di conseguenza, « filosofo
per tutta la vita». Socrate, cercando, ha dunque scoperto questa basilare verità: massimamente
sapiente fra gli uomini è colui soltanto che sappia divenir consapevole di sé come insipiente, colui
che conosca se stesso abbastanza da sapere con assoluta certezza che non sa.
La coscienza di non sapere diventa il motore della ricerca filosofica, di vivere interrogando sé
stessi e gli altri. Il comando delfico si traduce per cui in un impegno alla ricerca, in una vocazione
a scoprire le risposte, secondo un meccanismo rituale già di Delfi, dov’era il più debole ed
insipiente, l’uomo, ad interrogare ponendo possibili opzioni di risposta, ed il più forte e sapiente,
il dio, a rispondere dando enigmatici segni del vero. Adesso invece, fra esseri umani, la cui
massima sapienza consista in uno strutturale sapersi insipienti, l’interrogare e rispondere diviene
un confronto dialogico, un rispecchiamento nel livello di sapienza raggiunta dall’altro che ci sta
dinnanzi e ci fa da interlocutore. Lo conferma il brano riproducente un passo dell’Alcibiade I: «un
occhio, se vuole vedersi, deve guardare in un “altro” occhio, in quella parte di esso dove risiede la
capacità visiva: e questa è la pupilla…e dunque…anche l’anima, se vuole conoscer se stessa deve
guardare in un’altra anima, e soprattutto in quella parte di essa dove risiede la virtù dell’anima
(stessa), cioè la sapienza…». Il dialogo diventa la sede dell’esercizio filosofico della
consapevolezza che noi esseri umani possiamo avere quali strutturalmente insipienti: solo la
coscienza chiara e certa di non sapere può innescare il desiderio di cercare. L’insipienza indotta
da una confutazione, da una smentita di una nostra precedente convinzione, entra in conflitto con
il desiderio, la “nostalgia” che abbiamo di sapere.
“Questa consapevolezza soltanto può indurre a superare l’intorpidimento indotto dalle domande
di Socrate: essa sola può indurre a cercare e allora non più solo Socrate, il più sapiente dei Greci
secondo l’autorevole indicazione dell’oracolo di Delfi, ma anche il più ignorante di noi, anche
uno schiavo, potrà cercare e trovare qualcosa di vero. Ecco perché questa consapevolezza di sé
insipienti e desiderosi di sapere è, a mio parere, non solo la più antica filosoficamente, ma
teoreticamente «il livello zero» della consapevolezza di sé: perché è a fondamento di ogni altra
cosa noi si possa sapere, di noi stessi e del mondo intorno a noi, è la conditio (umana) sine qua
non di ogni altro possibile sapere.”
(L. M. Napolitano, Università degli studi di Trieste)
L’ultimo brano conferma tale teoria, poiché è il nostro stesso pensiero a funzionare per
interrogazioni e risposte: «il pensare», riflette Platone nel Teeteto, «è un discorso che l’anima fa
con se stessa» e perciò, nel momento in cui pensa, essa non fa altro «che dialogare, interrogando
in se stessa da sé e rispondendo, affermando e negando…». Mai però l’anima interrogherà se
stessa e tenterà di dar risposte se si presuma sapiente, se opini già di sapere: al contrario
interrogherà e risponderà, dovesse continuare a farlo, come Socrate sul campo di Potidea, un
giorno e una notte interi, solo l’anima che, con assoluta certezza, si sappia insipiente e però, nel
contempo, desiderosa di sapere. Sapere per cambiarsi e cambiare il mondo.
Secondo Platone “…una vita non indagata profondamente non è vivibile (degna) per un uomo”,
anche se l’uomo deve essere consapevole della sua condizione mortale. Per questi motivi, in
seguito, viene accentuata una portata etica di questo precetto delfico, invitando l’uomo a prendere
coscienza della sua limitatezza e della sua finitezza e debolezza morale. Sarà poi soprattutto S.
Agostino, a stabilire che l’uomo deve restituirsi a se stesso, allontanandosi dai sensi e dalle
opinioni molteplici, mediante l’introspezione, contrapponendo, nella scia del Fedro platonico,
l’indagine interiore alla ricerca della physis esteriore. Per Agostino, il precetto delfico ingiunge di
eliminare le “croste terrose”, incollate all’anima dalle immagini degli oggetti sensibili, per
giungere ad una conoscenza esplicita di sé mediante la cogitatio:
Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas.
Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la verità.
Sant'Agostino, da La vera religione