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Il concetto di giustizia in S.

Tommaso d'Aquino
di Maria Francesca Carnea (21 marzo 2012)

Giustizia e Intelligenza: la nostra esistenza è realmente stimolata da criteri virtuosi, sostegni


all'homo viator per la completezza del suo divenire umano, e altresì illuminata dal discernimento
al bene comune e al vero? Nelle pagine seguenti analizzeremo questo problema nella prospettiva
di Tommaso d'Aquino, uno dei pilastri del pensiero filosofico e teologico cristiano, la cui fecondità
non cessa di sorprendere. La sua filosofia si può considerare come il più grande sforzo di fondere
Aristotele con i principi filosofici del Cristianesimo. La filosofia tomista, riprendendo e
continuando l'intellettualismo aristotelico, tende a riaffermare i diritti della ragione sulla fede,
dell'intelletto sulla volontà. L'Aquinate, sottolineando il ruolo fondamentale, nella vita morale,
dell'azione dello Spirito Santo, della Grazia, da cui scaturiscono le virtù teologali e morali, fa
comprendere che ogni cristiano può raggiungere le alte prospettive del «Sermone della
Montagna» se vive un rapporto autentico di fede in Cristo, se si apre all'azione del suo Santo
Spirito. Però -- aggiunge Tommaso -- «anche se la grazia è più efficace della natura, tuttavia la
natura è più essenziale per l'uomo» (Summa Theologiae, Ia, q. 29, a. 3), per cui, nella prospettiva
morale cristiana, c'è un posto per la ragione, la quale è capace di discernere la legge morale
naturale.
La ragione può riconoscerla considerando ciò che è bene fare e ciò che è bene evitare per il
conseguimento di quella felicità che sta a cuore a ciascuno, e che impone anche una responsabilità
verso gli altri e, dunque, la ricerca del bene comune. In altre parole, le virtù dell'uomo, teologali e
morali, sono radicate nella natura umana. Pertanto, determinante nell'uomo è l'autoaffermazione
coscienziale, ovvero la sinderesi come capacità di distinguere il bene dal male. San Girolamo
nel Commento ad Ezechiele (I, c. I), la indica come quella parte dell'anima diversamente chiamata
coscienza. La sinderesi, cioè permette all'uomo di avere autocoscienza, esame di sé, conoscenza
innata del bene e del male, e quindi capacità di distinguere spontaneamente il bene dal male,
capacità di dirigersi verso ciò che lo conserva, al bene che lo favorisce, conseguendo
l'autoconservazione.
Secondo S. Tommaso, inoltre, la sinderesi esprime la tendenza innata dell'anima umana verso il
bene e il suo rifiuto del male (Summa Theologica I, I q. 94, art. 1). Dalla sinderesi dipende quindi
la capacità dell'uomo di desiderare il bene e di provare rimorso per il male compiuto.

1. L'uomo nucleo di desideri e di appetiti


I primi concetti dell'intelletto preesistono in noi come semi di scienza, questi sono conosciuti
immediatamente dalla luce dell'intelletto agente dall'astrazione delle specie sensibili; in questi
principi universali sono compresi, come germi di ragione, tutte le successive cognizioni. (De
Veritate, q. 11 a. 1). L'apertura all'infinito si manifesta nelle inclinazioni e nelle tendenze profonde
dell'uomo. Ogni agente opera in funzione di un fine. Il fine attira perché è un bene, e l'uomo, l'ente
finito, ne è attratto come da un bisogno. L'uomo è un nucleo di desideri e di appetiti. L'appetito è
universale e ogni ente finito tende ad andare oltre se stesso, perché da solo non basta a se stesso.
Vi è una netta distinzione tra il tendere ad un fine per se stessi, e il tendere perché portati dalla
natura. Nell'uomo esistono le due tendenze. Per sua natura tende verso tutto ciò che è proprio
dell'uomo, mosso dall'intelligenza ordinatrice. Si muove da se stesso negli atti che esercita, a
partire dal potere della sua libertà. Anche per gli atti la motivazione è sempre il bene. Se non c'è
bene non c'è attrazione. Il fine muove, perché ha già una sua attualità nel bene che suscita
l'appetito.
Il fine e il bene sono ciò che è perfettivo e dunque amato (Summa Theologica I-II q. 1). Questa
attrazione rende possibile, negli enti finiti, il cammino della perfezione. Ogni agente si muove in
virtù di un fine, e questo fine è il suo bene. Il problema dell'uomo sta nel lasciarsi portare nelle
cose naturali, verso il proprio bene e disporre la propria libertà per dirigersi, negli atti umani,
verso il bene che le compete. La libertà può orientare oppure sviare. Tutto parte dall'impulso di
un'attrazione e da un imperativo interiore, da una lex naturalis insita nell'origine del dinamismo
umano, che è, inoltre, il segno della presenza di Dio nella creatura razionale. L'autonomia
dell'uomo libero non ne resta impedita, piuttosto ne riceve un ulteriore impulso, è dominata e
fondata. La legge fondamentale prescrive a ogni uomo intelligente: fa' il bene, non fare il male.1
Secondo S. Tommaso, tutti gli uomini, credenti e non credenti, sono chiamati a riconoscere le
esigenze della natura umana espresse nella legge naturale e ad ispirarsi ad essa nella formulazione
delle leggi positive, quelle cioè emanate dalle autorità civili e politiche per regolare la convivenza
umana. Quando la legge naturale e la responsabilità che essa implica sono negate, si apre
drammaticamente la via al relativismo etico sul piano individuale e al totalitarismo dello Stato sul
piano politico. La difesa dei diritti universali dell'uomo e l'affermazione del valore assoluto della
dignità della persona postulano un fondamento. Non è proprio la legge naturale questo
fondamento, con i valori non negoziabili che essa indica? Giovanni Paolo II scriveva nella
Enciclica Evangelium vitae parole che rimangono di grande attualità:

Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l'esistenza di
valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano, ed
esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna
maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo
riconoscere, rispettare e promuovere (n. 71).

Dall'indole sociale dell'uomo appare evidente come il perfezionamento della persona umana e lo
sviluppo della stessa, sono tra loro interdipendenti.2 Spesse volte, però, sfugge la coscienza di ciò
che si è, e sempre per amore di chiarezza, trovo opportuno riprendere delle definizioni che, nel
raffronto con la modernità, possono essere altamente esplicativi. Penso, innanzi tutto, alla
definizione stessa di persona.

2. Quanto di più perfetto esiste nell'universo: la persona


Come spiega lo stesso S. Tommaso il termine proviene da personare, che significa «far risonare»,
«proclamare ad alta voce»:

Sumptum est nomen personae a personando eo quod in tragoediis et comediis recitatores sibi ponebant
quandam larvam ad repraesentandum illum, cuius gesta narrabant decantando» (il nome persona è stato
tratto da personare perché nelle tragedie e nelle commedie gli attori si mettevano una maschera per
rappresentare colui del quale, cantando, narravano le gesta) (I Sent., d. 23, q. 1, a. 1).

Il merito di avere elaborato una definizione adeguata del concetto di persona spetta a Severino
Boezio. In uno dei suoi opuscoli teologici egli scrive: «La persona è una sostanza individuale di
natura ragionevole» (persona est rationalis naturae individua substantia) (Contra Eutichen et
Nestorium, c. 4). Dalla definizione boeziana risulta che persona non dice semplicemente
individualità singola, né semplicemente natura, né semplicemente sostanza. L'individualità
singola infatti può appartenere anche all'accidente (tutti gli accidenti concreti sono individuali);
per dar luogo alla persona non bastano né la natura né la sostanza, che possono anche essere
elementi generici. Ma neppure l'unione di individualità, natura e sostanza fa ancora la persona;
questi elementi appartengono anche a un sasso o a un gatto, che non sono persone. Sono ancora
elementi che rientrano nel genere prossimo. Per definire adeguatamente la persona occorre
aggiungere ai tre elementi precedenti la differenza specifica che distingue gli uomini dagli animali,
la quale consiste nella razionalità. Così si ottiene esattamente quanto ha scritto Boezio: rationalis
naturae individua substantia.
Questa celebre definizione fu vivacemente discussa nei secoli XII e XIII. Riccardo di S. Vittore ne
propose un'altra che non riuscì a soppiantarla. S. Tommaso però, sin dagli inizi del suo
insegnamento, si decise a tenere quella di Boezio, perfezionandola con qualche importante
precisazione.   Il Doctor humanitatis3 ha un concetto altissimo della persona. Questa, a suo
giudizio, è quanto di più perfetto esiste nell'universo: «Persona significat id quod est
perfectissimum in tota natura, scilicet substantia in natura rationalis» (I, q. 28, a. 3).
Egli guarda alla persona dal punto di vista ontologico e la considera quindi come una modalità
dell'essere, ossia di quella perfezione che nella sua filosofia è la perfectio omnium perfectionum e
l'actualitas omnium actuum, ed è proprio rispetto a questa perfezione che la persona occupa il
gradino più alto: l'essere nella persona trova la sua attuazione più piena, più eccellente, più
completa. Per questo motivo tutti gli enti che si fregiano del titolo di persona, sono enti che
godono di una dignità infinita, di un valore assoluto: sia che si tratti di Dio, degli angeli o
dell'uomo.
Il concetto di persona è un concetto analogico: non si predica allo stesso modo, ossia
univocamente, di Dio, degli angeli e dell'uomo, ma secondo un ordine di priorità e posteriorità
(secundum prius et posterius); tuttavia, esso designa sempre la stessa perfezione fondamentale: il
sussistere individuale nell'ordine dello spirito. Come dice S. Tommaso con il suo linguaggio sobrio
e preciso: «Omnne subsistens in natura rationali vel intellectuali est persona» (C. G., IV, c. 35).
Convinto della bontà della definizione boeziana della persona, l'Aquinate quindi la difende dalle
obiezioni di chi la contestava chiarendo il senso dei quattro termini che la
compongono: rationalis, natura, individua, substantia, e facendo vedere che se questi termini
sono intesi nel senso giusto sono tutti indispensabili per avere un concetto adeguato di persona:
«sostanza individua di natura razionale»,4 il che importa capacità d'intelletto ed espressione di
volontà. Sappiamo come oggetto dell'intelletto sia la verità e, oggetto della volontà sia il bene.
Rappresentano questi due elementi fondamentali quel motore capace di rendere l'uomo cosciente
di se e, nello stesso tempo, di poter operare in nome di verità per il bene comune.
Il rispetto della persona non è solamente un portato del Vangelo, ma anche un portato della virtù
cardinale, della Giustizia.5 Come modalità di relazione intersoggettiva, il diritto si struttura come
specifica risposta alle esigenze, ontologicamente oggettivabili, della coesistenza; il diritto, laico nel
suo principio, riconosce le spettanze dell'uomo in virtù della sua dignità di essere umano.
Fondamentale a questo riguardo è l'opzione per la libertà che caratterizza lo spirito laico: opzione
che chiede l'appoggio essenziale del diritto, poiché non esiste esperienza reale di libertà che non
debba essere mediata attraverso la giuridicità.6

3. Concetto di bene comune


Bene è un concetto che, nella storia della filosofia, è stato elaborato secondo due diverse
prospettive fondamentali: quella metafisica-oggettiva e quella soggettiva. Il primo concetto
domina nel pensiero antico e medievale. Essa riceve una accurata formulazione con Platone, che
nella Repubblica (VI 508 ss.), paragona il bene al sole: come il sole fa essere e rende visibili le
cose, il bene fa essere e rende conoscibile il mondo delle idee, cui lo stesso mondo sensibile
partecipa per quello che ha di vero e buono. Il bene è così la radice e la fonte dell'essere e del
valore di tutte le cose. Aristotele nell'Etica Nicomachea (libro 1), polemizza con Platone
sostenendo che il bene non è un'idea trascendente, ma qualcosa di agibile e praticabile da parte
dell'uomo: egli rimane però platonico quando identifica il bene nel senso di Platone con l'atto puro
o motore immobile, che spiega il continuo passaggio delle cose dalla potenza all'atto e tutte in
questo senso le muove come il fine ultimo a cui esse tendono. La concezione platonica è ripresa da
Plotino, che fa del bene la prima ipostasi dell'Uno: le cose sono buone in quanto partecipano al
Bene derivando per via emanativa da esso. Questa concezione viene infine assunta dal pensiero
cristiano, che la trasforma però alla luce della propria teoria creazionistica. Per la dottrina
medievale dei trascendentali, bene ed essere sono convertibili: il bene è l'essere stesso in quanto
appetibile, i gradi del bene e quelli dell'essere coincidono; Dio è sommo bene ed essere supremo e
le creature sono buone in quanto, da lui create, gli sono in qualche modo simili.
Anche nell'antichità non mancarono concezioni soggettivistiche del bene, si pensi ad esempio alla
sofistica, ma esse furono sviluppate soprattutto nella filosofia moderna e contemporanea.
Carattere comune di tali concezioni è la considerazione che il bene si definisce solo in relazione al
soggetto che lo vuole o desidera. La soggettività può essere poi concepita come una soggettività
puramente empirica, e si avrà allora una sorta di relativismo, per es. nel pensiero dei libertini o in
quello di Hobbes, o come capacità di determinarsi secondo una legge universale, e questa è la
posizione kantiana. Nell'ambito della definizione soggettivistica del bene, Kant intende venire
incontro a quell'esigenza di oggettività cui soddisfaceva l'oggettivismo metafisico: bene è ciò che è
voluto da una volontà che determina secondo una legge universale, e in questo modo si identifica
con la volontà buona.
La polemica fra soggettivismo e oggettivismo continua anche nella filosofia contemporanea. Lo
spiritualismo mira a far rivivere la concezione tradizionale, greca e medievale, del bene. Il
neoidealismo, riprendendo lo sforzo dell'idealismo romantico di superare il formalismo della
posizione kantiana, recupera, nel contesto di una nuova metafisica della soggettività, elementi di
questa tradizione. Il pragmatismo, il neopositivismo e la filosofia analitica sono legati a una
concezione più o meno radicale di soggettivismo relativistico. Un posto a parte meritano, infine, la
fenomenologia e certe correnti neorealistiche, per esempio G. E. Moore, che sostengono
l'oggettività del bene, o più in generale dei valori, senza legarla però immediatamente con la
prospettiva teologica cui la tradizione l'aveva strettamente connessa.
Questo generale quadro storico aiuta a comprendere quale senso si desse al concetto di bene,
come esso venisse interpretato. Ci manca però il significato importante della parola «comune».
L'umanità intera nella sua storia faticosa, attualmente pienamente immersa nel progresso
tecnologico, sta lentamente scoprendo le esigenze più profonde e inestinguibili perché l'uomo,
ogni persona, possa vivere e fiorire nella propria misteriosa realtà, nella propria insopprimibile
dignità. Il precetto naturale di fare il bene, di volere il bene comune, tende a concretizzarsi in un
movimento di apertura, di disponibilità verso ogni persona umana, di amore per essa; è
riscontrabile in ciò una singolare vicinanza del contenuto della legge morale naturale con la più
profonda eticità evangelica che pone come «regola d'oro» quella dell'amore al prossimo come a se
stessi: l'altruismo, la gratuità devono prevalere sopra ogni ricerca esclusiva di sé.
La legge morale naturale, orienta la prassi verso il bene dell'uomo. La ragione pratica e l'intera
morale trovano il loro fondamento e punto di partenza nell'idea del bene dell'uomo e nel precetto
relativo di compierlo. Non è la legge come tale, il dovere per il dovere, come voleva il formalismo
di Kant, che rende moralmente buona un'azione, una scelta; al contrario, è il bene inteso e attuato
come fine a rendere eticamente valida la stessa legge che dirige gli atti. L'etica è un sapere pratico,
il cui contenuto o materia è fornito dalla complessità delle azioni umane, legate all'arbitrio degli
agenti e alla rete dei loro rapporti socio-culturali.
È solo attraverso un attento metodo dialettico e comunicativo che possiamo sperare di enucleare
la moralità dei nostri comportamenti, mediante un continuo confronto, rispettoso e democratico,
su quelle che possono essere le soluzioni più giuste nelle diverse situazioni del vivere personale,
privato e socio- politico: è questo il compito della razionalità pratica nelle decisioni quotidiane
della vita, è questo che ispira massimamente il tendere dell'uomo al bene comune.

4. Senso interiore della giustizia


Viviamo in una società pluralistica, sono state notevoli e profonde le trasformazioni nelle strutture
e nelle istituzioni dei popoli in seguito all'evoluzione economico-sociale degli stessi. Ciò ha
comportato una maggiore presa di coscienza circa la dignità umana al fine di instaurare un ordine
politico-giuridico in cui siano meglio tutelati i diritti della persona. Il progresso culturale ha fatto
sì che si producesse nella coscienza di molti, la necessità di salvaguardare i diritti delle minoranze
di popoli. Instaurare una vita politica veramente umana necessita il coltivare il senso interiore
della giustizia, dell'amore e del servizio al bene comune. La comunità politica esiste in funzione
del bene comune nel quale essa trova significato e in cui trova il suo diritto all'esistenza. Traggo, a
questo riguardo, spunto particolare nel pensiero di S. Tommaso, secondo il quale, il vero bene
individuale può essere attuato solamente nella società.7
Non esiste il bene individuale se non inserito nel bene comune. In tal modo il bene comune per
essere attuato da tutta la comunità deve diventare il bene nostro, il bene di ciascuno di noi. S.
Tommaso d'Aquino, d'accordo con la tradizione proveniente da Aristotele, concepisce l'uomo
come essere politico e sociale per natura;8 questo principio della naturale socialità e politicità
dell'uomo, evidenzia come gli esseri umani si associano per esigenza della loro stessa natura9:
socialità e politicità sono connaturati all'essere umano. Questo naturale stimolo all'apertura, al
fine comune della società, garantisce a ogni individuo la piena realizzazione della propria
vocazione come persona.10
S. Caterina da Siena mette in risalto una critica netta e rigorosa della politica dominata
dall'«amore di sé», che, dice è radice dell'«ingiustizia»; una critica condotta fino in fondo, cioè
fino alle esigenze della verità che è la base della giustizia e la chiave del bene comune (Lett. n.
268). «Io Caterina [...] scrivo a voi [...] con desiderio di vedere che sempre riluca ne' petti vostri la
margarita della santa giustizia, levandovi da ogni amor proprio, attendendo al bene universale
della vostra città e non propriamente al bene particolare di voi medesimi».11
Anche la giustizia individuale deve essere coordinata con la giustizia universale, perché la virtù è
unica e unitaria così come la carità.12 Se subisce un'ingiustizia il singolo la subisce tutta la società.
Per non dire poi di quando il bene comune universale è gabellato come tale ma, in realtà, copre un
interesse personale del detentore del potere, il quale così si sottrae al dovere di servizio e
privatizza egoisticamente la funzione che la società gli attribuisce unicamente nell'interesse
collettivo. Il bene comune trascende la prospettiva dei beni esclusivamente terreni e materiali, la
loro gestione e il loro utilizzo nell'interesse della società; investe, invece, tutti i fini dell'uomo ed il
fine complessivo stesso della sua esistenza. È nella Giustizia la matrice del bene comune. È la
giustizia che assicura il bene individuale e il bene comune. Anzi, dove v'è ingiustizia non può
esservi che disordine sociale ma anche grave danno per lo stesso individuo, perfino di colui che
crede di raggiungere la felicità attraverso una disordinata ricerca di un bene particolare esaltato.13
Muoviamo da un assunto dottrinale, illustratoci da S. Tommaso d'Aquino nella Summa
Theologiae: «L'intelligenza scopre (nel potere di dare la vita, leggi biologiche che fanno parte
della persona umana)» (I-II, q. 94., a. 2). L'attuale società, proiettata verso ricerche che diano un
senso del valore alla vita che oggi si vive, non può chiudere gli occhi di fronte al fondamento del
valore primo che permette agli occhi di ognuno di noi di poter vedere, godere della bellezza, gioire
della natura stessa. Bisogna però indagare se, attualmente, nella varietà dei «valori» di cui il
mondo si è ingolfato, ci sia verità di effettiva loro sostanza oppure sia parola che mantiene l'eco
della sacralità in ambiti vitali ma che, di costrutto, poco contiene.
La scelta è principio d'azione, nel senso di 'ciò a partire da cui' ha origine il movimento, e non nel
senso di 'ciò in vista di cui', mentre il desiderio e il ragionamento in vista di qualcosa, sono i
principi della scelta.14 Per questo non vi è scelta senza intelletto e pensiero, e senza uno stato
abituale del carattere, infatti l'agire bene e il suo contrario non si danno senza pensiero e senza
carattere.15 Di per sé il pensiero non muove nulla, ma lo fa il pensiero che tende a qualcosa ed è
pratico;16 esso infatti guida anche il pensiero alla produzione, dato che ogni produttore produce in
vista di qualcosa, e ciò che si produce non è fine in assoluto, ma è fine in relazione a qualcosa e per
qualcuno. Invece, il contenuto dell'azione è fine in assoluto, infatti l'agire con successo è il fine e il
desiderio tende a questo.17 Per questa ragione la scelta è pensiero desiderante o desiderio
pensante, e l'uomo è un principio di questa specie.18 Nel senso sacro della vita riponiamo il valore
di tutti i valori, nella sacralità del concepimento naturale, la fecondità d'intelletto. Ciò ci conduce,
innanzi tutto, a porre attenzione alla meraviglia della scoperta, gioire del mistero cui l'intelligenza
chiaramente ci chiama a riflettere.
A questo riguardo non possiamo non far riferimento all'ingegno di Socrate e al suo metodo
rivoluzionario: il lascito socratico è davvero straordinario e può essere sintetizzato nell'invito a
«prendersi cura dell'anima», intesa come sede delle qualità intellettive e morali dell'uomo. Ci
lascia in eredità un messaggio che vale in ogni tempo: non conta il vivere come tale, bensì il vivere
secondo virtù e giustizia, anche a costo della morte. Socrate afferma di se stesso di essere come
sua madre, che era una levatrice. Non faceva figli, ma aiutava le donne a partorire. Così ecco il
procedimento maieutico, ovvero l'arte di aiutare gli altri a far nascere le giuste idee intorno a se
stessi ed il mondo. Nel Teeteto (149, 150), Platone, illustra in modo esemplare come Socrate
presenta il proprio metodo:

Vedi di intendere bene cos'è questo mestiere della levatrice e capirai più facilmente cosa voglio dire. [...]
Ora, la mia arte di ostetrico, in tutto il rimanente assomiglia a quella delle levatrici, ma ne differisce in
questo, che opera sugli uomini e non sulle donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi. E la più
grande capacità sua è che io riesco, per essa, a discernere sicuramente se la psiche del giovane partorisce
fantasma e menzogna oppure cosa reale e vitale. Poiché questo ho in comune con le levatrici, che anch'io
sono sterile di [...] sapienza; ed il biasimo che già altri mi hanno fatto, che interrogo si gli altri, ma non
manifesto mai io stesso il mio pensiero su alcuna questione, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E
la ragione è appunto questa, che il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare».

Al fondo della concezione etica di Socrate è quindi la convinzione secondo la quale tutti gli uomini
possano agire razionalmente se posti in condizioni di farlo, cioè se educati. La condizione
fondamentale perché questo avvenga sta tuttavia nella trasmissione non tanto del sapere, ma del
modo in cui si perviene al sapere, cioè facendo domande ed ottenendo in risposta una definizione
esaustiva. La domanda consiste nel chiedere per avere una definizione esaustiva «Che cosa è
questo?» Ad esempio: «Che cosa è la giustizia?».
Socrate ritiene sia possibile, dunque, pervenire ad una conoscenza della giustizia, non attraverso
casi particolari, esempi di giustizia, ma proprio sapendo che cosa è. È solo sapendo che «cosa è»,
secondo Socrate, noi possiamo comportarci giustamente. Questo «che cosa» deve essere infatti
identico in ogni uomo giusto e in ogni azione giusta. Questo carattere, o tratto distintivo,
rinvenibile in ogni individuo considerato giusto o in ogni azione valutata come giusta, è in
sostanza un'idea, un concetto, un tratto universale. È proprio in questo tipo di domanda, quindi
che germina, per così dire, la successiva teoria platonica delle idee.
Tuttavia, è in Socrate che l'idea di «idea», come forma suprema di conoscenza, comincia a farsi
strada. Senza «idee», cioè rappresentazioni e definizioni esaustive di «cose» che non sono cose,
ma qualità, attributi, valutazioni di comportamenti umani, dunque elementi immateriali dovuti a
giudizi, vere e proprie astrazioni, non vi può essere vera conoscenza; questa non può essere
trasmessa; quindi non vi può essere vera educazione o formazione. Quasi tutti i dialoghi giovanili
di Platone contengono questa ricerca: nel Carmide si chiede cosa sia la temperanza, nel Lachete si
vuole sapere cos'è il coraggio, nel Liside si vuole definire l'amicizia, nell'Ippia Maggiore si prova a
definire la bellezza, nell'Eutifrone la domanda verte sulla santità e, sopratutto, nel primo libro
della Repubblica, la domanda verte sulla definizione di giustizia.
Socrate fu, in questo senso, assolutamente coerente, quando, invitato dai suoi discepoli a fuggire
dal carcere, dove era stato ingiustamente rinchiuso per essere messo a morte, si rifiutò di farlo per
coerenza con la sua dottrina, incentrata, appunto, sulla «cura dell'anima» e sulla non violenza.
Fuggire dal carcere, secondo il Filosofo ateniese, avrebbe significato rispondere all'ingiustizia con
l'ingiustizia e contraddire, di conseguenza, nel momento della prova il suo messaggio di fondo:
coerenza tra interiorità ed esteriorità, rispetto delle Leggi, di per sé giuste, poiché l'ingiustizia
nasce dal cuore degli uomini, vivere secondo virtù e giustizia.
Leggiamo il passo che conferma a tutto tondo come Socrate giudichi il fuggire una forma di
violenza verso le Leggi: «Non si deve disertare, né ritirarsi, né abbandonare il proprio posto, ma, e
in guerra e in tribunale e in ogni altro luogo, bisogna fare quello che la Patria e la Città
comandano, oppure persuaderle in che consiste la giustizia: mentre far uso di violenza non è cosa
santa [...]» (Critone, 51 B). E nell'Apologia di Socrate (30 D; 41 D), contro i suoi accusatori, egli
rileva in modo splendido come il virtuoso custodisca nella sua stessa virtù la difesa più alta, la
rocca inespugnabile anche per coloro che, senza alcuno scrupolo, mandano a morte un uomo
ingiusto:

Io non credo che sia possibile che un uomo migliore riceva danno da uno peggiore. Anito potrebbe
condannarmi a morte, cacciarmi in esilio e spogliarmi dei diritti civili. Ma, queste cose, costui e forse altri
con lui crederanno che siano grandi mali, mentre io non penso che lo siano. Io credo, invece, che sia un
male molto più grande fare quelle cose che ora fa Anito, ossia cercare di mandare a morte un uomo contro
giustizia.

Il falso sapere, la sapienza superficiale e libresca degli eruditi, smaschera l'inconsistenza dei sofisti
e dei retori, lasciando, infine, agli interlocutori il compito di arrivare alle conclusioni. Dicendosi
sapiente della propria ignoranza egli smaschera, per così dire, la presunzione altrui, la presunta
sapienza che gonfia i petti e rende arroganti. Tuttavia, in realtà, la confutazione socratica non è
diretta solo contro la presunzione intellettuale dei retori e dei dotti, ma anche contro l'ignoranza
vera e propria, l'ignoranza che l'uomo ha di se stesso e delle cose che hanno realmente un valore
nella vita. Pertanto non si limita solo a far crollare certezze intellettuali infondate, ma anche valori
morali, o per meglio dire, immorali. Scrisse così Gianbattista Vico:

Chi pecca, cade per ignoranza, ciò lo insegna Socrate, il qual vuol parimente che in un qualche modo abbia
la scienza ad essere riguardata come una virtù. Imperocché chi dopo diligente esame venisse a riconoscere
chiaramente la verità, non solo dalla colpa si disporrebbe, ma anzi studierebbesi di rettamente operare.
Ed aggiungeva, in guisa di esempio, i medesimo Socrate che niuno può essere né liberale, né magnifico, se
non conosce la ragione del collocare i benefici, o dello spendere con magnificenza.19

5. La verità è legge di giustizia


S. Tommaso d'Aquino ha mostrato una particolare finezza psicologica nella parte pratica
della Summa Theologiae. Molte questioni che trattiamo della Filosofia del Diritto, nel Diritto
pubblico, nella Sociologia e molte altre questioni che non trattiamo mai, gli scolastici includevano
nel trattato «De Virtutibus», e quando erano arrivati al trattato De Iustitia, vi includevano un
cumulo di dottrine sociali e religiose.20 L'Aquinate, infatti, pur non essendo un giurista di
professione, si occupò, come filosofo e teologo moralista, del diritto con il fine di salvare il
carattere morale del diritto e dell'ordine giuridico, problema questo tra i più importanti della
filosofia del diritto. Diritto naturale, legge naturale e verità sono una identica cosa; senza verità
anche il diritto diventa privo di giustizia e di moralità; anche la verità è infatti legge di giustizia.21

La legge naturale, scritta ed impressa nell'animo di ciascuno, non è altro che la ragione stessa, che ci
comanda di fare il bene, e proibisce di fare il male [...] Legge naturale [che] è la stessa legge eterna, ossia
la stessa eterna ragione di Dio creatore e reggitore del mondo, inserita nelle ragionevoli creature, e
motrice di queste agli atti debiti ed al fine».22

Intesa la legge naturale in questo senso, come legge divino-naturale, appare chiaramente la


superiorità della concezione tomistica in confronto di quella aristotelica, perché sopra la lex
umana vi è, per S. Tommaso, la lex naturalis, e sopra questa la lex aeterna o legge divina. Lungi
dall'oscurare la grandezza e la libertà dell'uomo, questa dipendenza dalla legge di Dio, nostro
creatore e legislatore, ne è al contrario la garanzia e il fondamento: libera da ogni altra schiavitù.
Tutto ciò che mette l'uomo in contatto con l'assoluta perfezione che è Dio gli accresce dignità e
grandezza. Lo abbassa, al contrario, tutto ciò che lo subordina interamente a forze impersonali a
lui inferiori, quali la materia, la tecnica, la società e lo Stato.
Con Cicerone possiamo ripetere che «noi dobbiamo essere tutti servitori della legge per poter
essere liberi»,23 e questo vale non solo nei riguardi della legge umana, ma soprattutto nei riguardi
della legge naturale e della legge divina. Solo così viene rispettata la vera autonomia della persona
umana ed anche della legge giuridico-morale, in quanto è la ragione stessa che la indica all'uomo,
ma il fondamento ultimo di essa sta in un'autorità che è fuori dell'uomo e che ha stampato questa
legge nell'anima umana, per la quale è sorgente di libertà e di crescita spirituale. E ciò è vero in
quanto la legge di Dio o legge naturale è conosciuta e va osservata attraverso la «mediazione»
della nostra coscienza che è l'annunziatrice della legge di Dio a ciascun uomo, come dicevano i
teologi classici.24 Di conseguenza, solo chi opera secondo la legge opera secondo ragione, opera
nella luce della Verità, e solo allora sarà massimamente libero e padrone di se stesso, sarà
veramente uomo, perché sarà nella Verità. La Verità infatti fonda la libertà e la libertà vive solo
nell'ambito della Verità. Così è l'errore che ci rende schiavi, fuori della Verità non c'è libertà.
La Verità ci renderà liberi, anche nel campo giuridico-morale:25 «Veritas liberavit vos».26 La
verità è la perfezione del nostro intelletto e la purezza della coscienza, è la disposizione necessaria
per ricevere la verità, quanto più l'uomo è purificato dagli attaccamenti terreni, tanto più conosce
e abbraccia le verità e allontana le falsità da se stesso.27

6. Giustizia, virtù essenzialmente sociale


I principi intrinseci dell'agire umano sono le sue potenze: due spirituali, cioè l'intelletto e la
volontà, e due sensitive, cioè l'appetito irascibile e l'appetito concupiscibile.28 Perché queste
potenze conducano rettamente l'uomo al suo fine, abbiamo le quattro virtù cardinali o habitus
boni: la prudenza per l'intelletto, la giustizia per la volontà, la fortezza per l'appetito irascibile, la
temperanza per l'appetito concupiscibile.29 Infatti, osserva S. Tommaso, per agire bene noi
dobbiamo anzitutto scegliere i mezzi adatti (prudenza); poi salvare i diritti altrui (giustizia);
difendere la propria persona e i propri beni contro i vari pericoli (fortezza); e conservare la giusta
misura nell'uso dei beni esteriori (temperanza) .30 In questi quattro beni, che sono oggetti delle
quattro virtù cardinali, è contenuto il bene morale.
Tutta l'attività umana non conosce compartimenti stagni, come la pura interiorità e la pura
esteriorità, ma è adeguamento del soggetto-uomo, di tutto l'uomo, all'oggetto, interiore od
esteriore che sia, in quanto non solo gli atti interiori della morale ma anche gli atti esterni della
giustizia o del diritto non sono che indice delle disposizioni interne: «quaedam signa interioris
dispositionis»,31 cioè anch'essi non sono atti umani se non in quanto diretti e comandati dalla
ragione e dalla volontà. Di conseguenza, sia la vita individuale che la vita sociale rientrano nelle
leggi dell'atto umano che, come tale, «nell'individuo è buono o cattivo»;32 perciò dire «atti morali
e atti umani è la stessa cosa»,33 cioè l'ordine morale riguarda tutti gli atti umani, sia dell'individuo
come tale, in quanto include l'esercizio di tutte le altre virtù oltre la giustizia, e queste virtù
«perfezionano l'uomo soltanto nelle sue qualità individuali che riguardano lui stesso»,34 sia
dell'individuo come parte di un tutto, cioè della società.35
Ogni azione umana in quanto umana, sia essa religiosa, artistica, economica, giuridica, politica, è
prima di tutto morale, cade cioè sotto il dominio dell'etica. Ma anche se ogni atto umano è
soggetto alla legge etica, solo alcune azioni sono soggette al diritto, restando sempre esclusa
l'attività puramente interna: non tutto ciò che è morale è diritto, come le leggi della carità, della
benevolenza, della temperanza, ecc. l'ordine giuridico, quindi, non è altro che l'esercizio della virtù
della giustizia, parte dell'ordine morale. Il diritto, come ogni altra verità, deve essere desunto dalla
realtà, dalla scienza delle cose. In questo senso la verità è legge di giustizia, e senza verità il diritto
diventa pura legalità, privo di giustizia: «Et sic etiam dicitur in nobis veritas iustitiae».36 Scindere
il diritto dalla verità è privarlo di giustizia e di moralità, è privarlo così del criterio per distinguere
il giusto dall'ingiusto, il vero dal falso diritto.
Come osserva S. Tommaso, «compito proprio della giustizia, tra tutte le altre virtù, è di ordinare
l'uomo nei rapporti verso gli altri [...] Invece le altre virtù perfezionano l'uomo soltanto nelle sue
qualità individuali che riguardano lui stesso».37 La giustizia quindi «riguarda le operazioni con le
quali l'uomo non solo viene ordinato in se stesso, ma anche in rapporto all'altro»,38 e questo
«altro» è la persona presa sia individualmente che collettivamente come società. La giustizia ha
essenzialmente a che fare con l'altro, l'essere-altro considerato nella sua alterità e si afferma nel
rapporto interoggettivo, nel vivere l'uno con l'altro,39 ed ognuno di noi è l'altro del suo vicino, ed
in questo si distingue dall'amore che considera l'altro come se stesso, ed è vivere l'uno nell'altro.
L'isolamento egocentrico o individualistico non è prima di tutto un attentato verso gli altri, ma un
attentato verso se stessi: se l'altro diventa «alienus» sono prima di tutto io ad alienarmi, per cui né
l'individualismo borghese né la disperazione di chi vede «negli altri l'inferno», per cui «io sono di
troppo in rapporto all'altro» (J.-P. Sartre), possono attuare e riempire la persona.
L'individuo realizza il suo passaggio alla vita personale soltanto incontrandosi con gli altri in una
comunità libera in cui all'io si sostituisce il noi, che non nega i singoli ma tutti li arricchisce e per
così dire li «costituisce» nel contatto con gli altri, in quanto l'uomo è «naturaliter socialis», e
domanda di unirsi agli altri nella comunicazione spirituale dell'intelligenza e dell'amore. «L'uomo
ha bisogno di comunicare l'amore, e la parola, e la verità, e la passione all'altro uomo, di confidare
all'altro cuore gli arcani del proprio cuore, e di stabilire tra sé e gli altri quella profonda e verace
comunicazione che è comunicazione di verità e di amore».40 La giustizia è dunque una virtù
essenzialmente sociale.
Inoltre, nota S. Tommaso, anche la verità, o meglio la veracità, si connette con la giustizia, ed è
anzi una «pars iustitiae», poiché anch'essa, in quanto si manifesta, «est ad alterum» ed
«aequalitatem quandam in rebus constituit».41 Ognuno ha verso gli altri l'obbligo di essere
veritiero, e ciò anche perché, senza il reciproco credito, sarebbe tolta la possibilità della
convivenza, imposta all'uomo dalla sua natura sociale. Tutta la vita in comune è così cooperazione,
per cui, come dice S. Tommaso, «fra gli uomini non potrebbe mantenersi la società, se uno non
aiutasse l'altro».42
È importante accorgersi come la giustizia riguardi non tanto le cose esterne in sé, ma in quanto ce
ne serviamo nei nostri rapporti con gli altri. La giustizia pertanto riguarda l'uso che noi facciamo
di queste cose nella nostra attività esteriore, con la quale ci mettiamo in rapporto con gli
altri.43 Così la nostra attività esteriore, come nota S. Tommaso, è materia della giustizia in quanto
è attività, in quantum est agere, non in quanto è fare, non in quantum facere.44 L'azione umana
interna, invece, se per definizione è immanente all'agente, se essa non ha nessun riferimento fuori
del soggetto, non ha neppure alcun rapporto né con gli altri individui in sé né con la società e, per
conseguenza, non può cadere sotto il dominio giuridico. La materia prossima e propria del diritto
è l'azione umana sociale.45
Nel realismo giuridico dell'Aquinate il diritto, essendo ipsa res iusta, porta racchiusa in sé, quasi
proprio atto di nascita, l'esigenza morale, per cui non saranno mai permesse scissioni oggettive tra
morale e diritto che è e deve essere informato dalla giustizia, cioè dalla moralità.46 Il diritto
secondo S. Tommaso deve tendere a qualche cosa ancora di più alto, a mantenere, incoraggiare e
rinforzare l'amicizia fra gli uomini, anch'essa frutto della giustizia e suo naturale coronamento
umano.47 Così «l'intenzione principale della legge umana è di stabilire l'amicizia degli uomini tra
loro»,48 sebbene si limiti a proibire gli atti esterni per la pace e la tranquillità della città.49 Lo
stesso avviene nella legge divina che tende principalmente all'amicizia dell'uomo con Dio.50 Il
diritto, infatti, è un vincolo che ci lega solo ab extra, solo con l'amore siamo tenuti insieme ab
intra. Infatti, «tra le cose necessarie alla vita umana, l'amicizia è la più necessaria».51
Non vi può essere così vera carità senza giustizia (la vera carità presuppone la giustizia), perché
la prima carità, la prima prova d'amore verso il prossimo è proprio quella di usargli giustizia,
altrimenti sarebbe una menzogna, una ipocrisia, una maschera o mistificazione dell'ingiustizia.
Bisogna, quindi, dare prima a ciascuno ciò che gli spetta, cioè il suo, se si vuole arrivare a dare più
del suo, cioè, il nostro, e se necessario, anche noi stessi. La vera carità è oltre non al di sotto
della giustizia: essa comincia là dove la giustizia finisce. Né vi può essere vera giustizia senza
carità (la vera giustizia presuppone la carità), in quanto la giustizia è, a suo modo, una forma di
amore, orientata com'è al servizio dell'uomo, ed è l'amore che spinge ad una conoscenza sempre
più adeguata e profonda dei diritti del prossimo, altrimenti crederemo di aver sempre dato troppo
agli altri e sempre poco a noi stessi. È sempre l'amore che regola i rapporti umani e informa la
socialità, perché «se alla stretta e fredda giustizia non si unisce in fraterna armonia la carità,
troppo facilmente l'occhio diviene cieco per vedere i diritti altrui, l'orecchio sordo alla voce di
quell'equità dalla cui santa e volenterosa applicazione possono sorgere, anche nelle più aspre
controversie, ragionevoli e vitali soluzioni».52
In altre parole, una giustizia senza carità sarebbe cieca, e una carità senza giustizia sarebbe vuota.
Non senza fondamento, quindi, fu detto che «la carità di oggi è la giustizia di domani, come la
giustizia di oggi fu la carità di ieri».53

7. L'intelligenza scopre
Poiché l'anima ragionevole è la forma propria dell'uomo, in ciascun uomo c'è l'inclinazione
naturale ad agire secondo la ragione: secundum rationem. E ciò equivale ad agire secondo la
virtù: secundum virtutem.54 Abbiamo, pertanto, una duplice partecipazione della legge naturale
nell'uomo: nell'intelletto e nella volontà. Nell'intelletto, è l'impressione o l'inserzione di un lume di
ragione naturale, «lumen rationis»,55 come una luce della ragione naturale, che ci indica il
cammino della nostra umanità, e ci permette di discernere i principi immutabili del male e del
bene, per cui l'uomo può conoscere con la ragione il suo fine naturale e può liberamente dirigersi
verso di esso, deducendo da quei principi le scelte concrete, universali o particolari che siano. Per
S. Tommaso, quindi, la legge naturale è più «lumen», cioè capacità di scoperta della legge eterna,
che la somma dei singoli precetti scoperti una volta per sempre. Nella volontà, è l'impressione o
l'inserzione di una fondamentale inclinazione a trovare la via giusta del farsi uomo, del divenire
umano, integrato e inserito nel divenire cosmico; inclinazione a cercare la felicità e la piena
espansione del proprio essere, in quanto è inclinazione al fine debito e all'operatività che orienta
convenientemente l'uomo allo sviluppo della propria persona e a diventare operatore di bene.
S. Tommaso, dopo averci detto che la legge di natura è la partecipazione della legge eterna nella
creatura razionale, spiega che noi la sperimentiamo come «naturalem inclinationem ad debitum
actum et finem». L'inclinazione è l'elemento genetico, che si accoppia al fine e ci orienta verso di
esso, per cui vi siamo naturalmente inclinati antecedentemente a ogni conoscenza intellettuale. È
importante rilevare che S. Tommaso definisce la natura come la sostanza di un essere,
e naturale come ciò che conviene a tale sostanza, ciò che è naturalmente intrinseco all'essere.56
Se l'uomo ha tale natura per cui senza la giustizia non può vivere, o non può vivere bene, egli deve
avere per natura una conoscenza proporzionata dei principi di giustizia, cioè del diritto naturale,
del quale, se i primi principi sono evidenti, le sue altre indicazioni richiedono un travaglio
intellettuale, per cui si deve raddoppiare il desiderio di conoscere la verità per adempierla.
Nessuna legge, iniquità o ingiustizia potrà mai distruggere questa legge naturale, riflesso in noi
dalla legge eterna di Dio, come sapientemente dice s. Agostino: «Lex tua [Domine] scripta est in
cordibus hominum, quam ne ipsa quidem delet iniquitas continua».57 E Tertulliano osserva che la
legge naturale potrà oscurarsi in noi, quando nel nostro animo non abita Dio, ma essa non potrà
mai estinguersi del tutto, perché è da Dio: «Potest enim obumbrari, quia non est Deus; extingui
non potest, quia a Deo est».58
O si ammette Dio o si nega ogni autorità, ogni diritto, ogni dovere ed ogni morale; chi non
ammette Dio e non riconosce i diritti di Dio, non riconoscerà nemmeno i diritti dell'uomo:
«Bisogna rivendicare i diritti di Dio, ed allora vedremo ripristinati anche i diritti dell'uomo, i
diritti che Gesù ci apportò da 2000 anni con la Redenzione» ,59 come scrive il Toniolo. Non si può
cancellare Dio e pensare poi che la morale rimanga intatta; se si cancella il valore più alto, si
cancellano anche gli altri valori o per lo meno diventano incerti, semplici convenzioni sociali,
arbitrari o totalmente relativi ai contesti socio-culturali.
«L'amore di sé», ribadendo l'insegnamento di Caterina da Siena, è radice «dell'ingiustizia»; una
critica condotta fino in fondo, fino alle esigenze della verità, è la base della giustizia, e la chiave del
bene comune. C'è qualcosa di più, che nasce dal profondo dell'essere umano e che, rannicchiato in
qualche angolo nascosto del nostro cuore, fa fatica a volte a riconoscere se stesso e a riconoscere
l'altro come suo simile, creatura nata ad immagine e somiglianza di Dio. Ciò, compiutamente, ci
riporta all'assunto dottrinale di Tommaso d'Aquino illustratoci nella Summa Theologiae, I-II, q.
94., a. 2: l'intelligenza scopre... Se l'uomo è segno altissimo dell'immagine divina, se questo segno
è dato dalla sua libertà soprattutto, ecco allora che la società degli uomini non può avere altro
tessuto connettivo che quello della carità, una carità ovviamente che va ben oltre una solidarietà
esistenzialmente necessitata.
Riconoscere l'enorme importanza che un'analisi della natura razionale e politica dell'uomo riveste
per l'etica, porta a potenziare il concetto non solo della coerenza logica dell'intelligibilità delle
singole azioni, ma anche il profilo propriamente morale, relativo a una visione dell'uomo
com'esecutore libero e responsabile del fine sostanziale della sua natura, continuamente
impegnato nel perfezionamento umano e morale di sé.60

I vostri commenti

Saremo felici di ricevere commenti a questo articolo. Nel caso abbiate dato l'assenso, il vostro commento
potrà essere eventualmente pubblicato (integralmente o in sintesi). Grazie!

1. Cfr. A. Lobato, La dignità della persona umana. Privilegio e conquista, Bologna 2003, pp. 303-
304. Testo
2. Cfr. GS 25. Testo
3. Giovanni Paolo II chiama S. Tommaso «Doctor Humanitatis»: è il nome che diamo a S. Tommaso
d'Aquino perché era sempre pronto a cogliere i valori di tutte le culture (Allocuzione ai partecipanti
all'VIII Congresso Tomistico Internazionale, 13-9-1980; Insegnamenti, III, 2 [1980] 609). Testo
4. Cfr. Tommaso d'Aquino, La Somma Teologica, trad. e comm. a cura dei Domenicani Italiani. Testo
latino dell'Ed. Leonina, Ed. Salani, 1949-1975, I, q. 29, a.1. Testo
5. Cfr. F. D'Agostino, Il Diritto come problema teologico ed altri saggi di filosofia del diritto, Torino,
1977, pp.119-120. Testo
6. Cfr. F. D'Agostino, Il Diritto..., op. cit., pp.130-133. Testo
7. Tommaso d'Aquino, Summa Contra Gentiles, Marietti, Romae 1961, vol. III, Liber III, cap. 117, n.
2894-2900, pp. 175-176. Testo
8. Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, Typis Petri Fiaccadori, Parmae 1852, I, q. 96, a. 4: «Primo
quidem, quia homo naturaliter est animal sociale: unde homines in statu innocentiae socialiter
vixissent», p. 384. Testo
9. Tommaso d'Aquino, De Regimine Principum, Marietti, Torino 1948, Liber I, cap.1: «Naturale autem
est homini ut sit animal sociale et politicum in multitudine vivens, magis etiam quam omnia alia
animalia, quod quidam naturalis necessitas declarat», p. 1. Testo
10. Cfr. J. Maritain, I diritti dell'uomo e la legge naturale, Milano 1977, p. 9: «Il bene comune [...] è la
buona vita umana della moltitudine, di una moltitudine di persone, ossia delle totalità carnali e
spirituali insieme, e principalmente spirituali, benché accada loro di vivere più sovente nella carne che
nello spirito». Testo
11. L. Ferretti, Lettere di S. Caterina da Siena, Vergine Domenicana, tip. S. Caterina, Siena 1918, Voll. 5,
Lett. N. 367, a' Magnifici Signori Difensori del Popolo, e Comune di Siena, Vol. V, p. 279. Testo
12. Cfr. P. Pajardi, Caterina la Santa della Politica, Ricerche e riflessioni sul pensiero etico, giuridico,
sociale e politico di Santa Caterina, Milano 1993, pp. 13-14. Testo
13. Cfr. M. F. Carnea, Libertà e Politica in S. Caterina da Siena, Monopoli 2011, p. 115. Testo
14. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, trad. di C. Natali, Milano 2000, 1139a 35, pp. 225-227. Testo
15. La scelta è la causa motrice ('ciò a partire da cui'); l'agire con successo è la causa finale ('ciò in vista di
cui'). Il desiderio e il ragionamento in vista di qualcosa, costituiscono la connessione tra motore e fine,
mentre causa formale dell'agire virtuoso è lo stato abituale del carattere, e la causa materiale è
l'insieme dei movimenti fisici del corpo. Testo
16. Il pensiero è pratico in quanto orienta il desiderio, cfr. De Anima, 433a 18-20: «la parte desiderante
infatti è ciò che muove, e il pensiero muove per questo, cioè perché principio del pensiero è il
desiderabile». Testo
17. Quindi il fine cui tende il desiderio, e che è determinato dal ragionamento pratico, è il dare vita ad
un'azione singola corretta, in una circostanza particolare, non lo stabilire una regola generale, valida
per ogni caso, cfr. 1151a 16: «nelle azioni il fine è principio» e 18-19: «è la virtù [...] che ci insegna
corrette opinioni sul principio». Testo
18. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, op. cit., 1139b 5, p. 227. Testo
19. Cfr. G. B. Vico, Opere giuridiche. Il diritto universale, a cura di P. Cristofolini, Firenze, 1974, p.
82. Testo
20. M. Cordovani, Prolusione all'università di Firenze, in Memorie domenicane, L (1933), p. 164; cfr. G.
Graneris, Contributi tomistici alla filosofia del diritto, Torino 1949, pp. 11-14; P. M. Van
Overbeke, Saint Thomas et le droit, in «Revue thomiste», LXIII (1955), III, pp. 519-521; S. Cotta, Il
concetto di legge nella Summa Theologiae di S. Tommaso d'Aquino, Torino 1955; E. Galan Y
Gutierrez, Ius naturae, Madrid 1961; G. Fasso, La legge della ragione, Bologna 1964; Idem, Storia
della filosofia del diritto, vol. I: Antichità e Medioevo, Bologna 1966; J. M. Aubert, Legge divina --
Leggi umane, trad. ital., Roma 1969. Testo
21. Cfr. Sum. Theol., I, q. 21, a. 2: «Et sic etiam dicitur in nobis veritas iustitiae». Testo
22. Leone XIII, Encicl. Libertas, 20 giugno 1888, n. 6, in I. Giordani, Le Encicliche sociali dei Papi, vol. I,
Roma, 1957 p. 127. Testo
23. Cicerone, Pro Cluentio, LIII, 145: «Legum ministri magistratus, legum interpretes iudices; legum
idcirco omnes servi sumus, ut liberi esse possimus». Testo
24. Cfr. R. Pizzorni, Il fondamento etico-religioso del diritto secondo San Tommaso d'Aquino, Milano
1989, p. 10. Testo
25. Cfr. R. Pizzorni, Legge morale, diritto naturale e libertà, in «Acta V Congressus Thomistici
internationalis», vol. II, Roma 1960, pp. 430-441. Testo
26. Gv. 8, 32. Testo
27. Cfr. G. Savonarola, Il trionfo della croce. La ragionevolezza della fede, a cura di M. Negrelli, Bologna
2001, p. 283. Testo
28. Cfr. Sum. Theol ., I-II, q. 23, a. 1; q. 56, a. 4, ad 1. Testo
29. Cfr. Sum. Theol ., I-II, q. 61, a.2. Testo
30. Cfr. Sum. Theol ., I-II, q. 61, a. 3. Testo
31. Sum. Theol ., II-II, q. 168, a. 1, ad 1. Testo
32. Sum. Theol ., I-II, q. 18, a. 9: «Necesse est omnem actum hominis a deliberate ratione procedentem, in
individuo consideratum, bonum esse vel malum»; cfr. ibidem, I-II, q. 18, a. 5: «Bonum ominis est
secundum ratione esse, malum autem quod est praeter rationem. [...] Dicitur autem aliqui actus
humani, vel morales, secundum quod sunt a ratione»; ibidem, I-II, a. 100, a. 2: «Ordo virtutis est ordo
rationis». Testo
33. Sum. Theol ., I-II, q. 1, a. 2: «Idem sunt actus morales et actus humani». Testo
34. Sum. Theol ., I-II, q. 57, a. 1: «Aliae virtutes perficiunt hominem solum in his quae ei convenient
secundum seipsum». Testo
35. Sum. Theol ., I-II, q. 58, a. 2: «[Iustitia] non est nisi unius hominis ad alium». Testo
36. Sum. Theol ., I, q. 21, a. 2; cfr. Ibidem, I, q. 16, a. 4, ad 3: «veritas autem iustitiae est secundum quod
servat id quod debet alteri secundum ordinem legum»; cfr. Ibidem, II-II, q. 109, a. 3, ad 3. Testo
37. Sum. Theol ., II-II, q. 57, a. 1: «Iustitiae proprium est inter alias virtutes ut ordinet hominem in his
quae sunt ad alterum. [...] Aliae autem virtutes perficiunt hominem solum in iis quae ei convenient
secundum seipsum». Testo
38. Sum. Theol ., I-II, q. 66, a. 4: «[Iustitia] est circa illas operations quibus homo ordinatur non solum in
seipso sed etiam ad alterum». Testo
39. Cfr. Sum. Theol ., II-II, q. 58, a. 2, sed contra: «Iustitia ea ratio est qua societas hominum inter ipsos,
et vitae communitas continetur» (Cicerone, De Officiis, I, c. 7); in VIII Ethic., lect. 9, n. 1658: «Iustitia
consistit in communicatione». Testo
40. G. Capograssi, Pensieri a Giulia, Vol. III, Milano 1980, n. 1629. Testo
41. Sum. Theol ., II-II, q. 109, a. 3: «Veritas esta pars iustitiae, inquantum annectitur ei sicut virtus
secundaria principali». Testo
42. C. Gent., III, c. 131: «Societas autem inter nomine conservari non posset nisi unus alium iuvaret». Testo
43. Cfr. Sum. Theol., II-II, q. 58, a. 10: «Materia iustitiae est exterior operatio secundum quod ipsa, vel res
cuius est usus, debitam proportionem habet ad aliam personam». Testo
44. Cfr. Sum. Theol., II-II, q. 58, a. 3, ad 3: «Iustitia non consistit circa exteriors res quantum ad facere,
quod pertinent ad artem: sed quantum ad hoc quod utitur eis ad alterum». Testo
45. Cfr. V. Jervasi, L'azione, materia propria del diritto secondo l'Aquinate, in Sapienza, V, 1951, I, pp. 63-
69. Testo
46. Cfr. R. Pizzorni, La liceità della resistenza alla legge ingiusta secondo S. Tommaso, in Aquinas, IV,
1961, pp. 324-368. Testo
47. Cfr. Sum. Theol., I-II, q. 99, a. 1, ad 2: «Sicut Apostolus dicit (I ad Tim. I, 5), "finis praecepti caritas
est"; ad hoc enim omnis lex tendit, ut amicitiam constituat vel hominum ad invicem, vel hominis ad
Deum». Testo
48. Sum. Theol., I-II, q. 99, a. 2: «Intentio principalis legis humanae est ut faciat amicitiam hominum ad
invicem»; cfr. Quodlibetum XII, q. 16, a. 24: «Finis quem intendit civilis legislator [est] pacem servare
et stare inter cives»; C. Gent., III, c. 117. Testo
49. Cfr. Sum. Theol., I-II, q. 98, a. 1: «Legis enim humanae finis est temporalis tranquillitas civitatis, ad
quem finem pervenit lex cohibendo exteriors actus, quantum ad illa mala quae possunt perturbare
pacificum statum civitatis»; C. Gent., III, c. 34: «Operationes iustitiae ordinantur ad pacem inter
hominess servandam per hoc quod unusquisque quiete quod suum est possidet». Testo
50. Cfr. Sum. Theol., I-II, q. 99, a. 2: «Ita intentio divinae legis est ut constituat principaliter amicitiam
hominis ad Deum»; C. Gent., III, c. 116. Testo
51. In VIII Ethic., lect. 1, n. 1542: «Per amicitiam videntur conservari civitates. Unde legislatores magis
student ad amicizia conservandam inter cives, quam etiam ad iustitiam, quam quandoque
intermittunt, puta in poenis inferendis, ne dissensio oriatur. Et hoc patet per hoc, quod cocordia
assimilatur amicitiae. Quam quidem, scilicet concordiam, legislatores maxime appetunt, contentionem
autem civium maxime expellunt, quasi inimicam saluti civitatis». Testo
52. Pio XII, Omelia pasquale per la pace, 9 aprile 1939, n. 6, in I. Giordani, vol. I, p. 666. Testo
53. V. G. Séailles, La philosophie du travail, Parigi 1923, p. 117: «La charité d'aujord'hui est la justice de
demain, comme la justice d'aujourd'hui fut la charité d'hier»; cfr. M. S. Gillet, Justice et charité, in
«Revue des Sciencies Philosophiques et Théologiques», 1929, I, pp. 5-22; trad. ital., La giustizia e la
carità, in Tabor, II (1948), vol. III, n. 6, pp. 485-496; vol. IV, n. 1, pp. 20-27; G. Del Vecchio, Parerga,
vol. I, p. 103. Testo
54. Sum. Theol., I-II, q. 94, a. 3: «Cum anima rationalis sit propria forma hominis, naturalis inclinatio
inest cuilibet homini ad hoc quod agat secundum rationem. Et hoc est agere secundum virtutem». Testo
55. Sum. Theol., I-II, q. 91, a. 2: «Lumen rationis naturalis, quo discernimus quid sit bonum et malum,
quod pertinent ad legem naturalem». Testo
56. Cfr. Sum. Theol., I-II, q. 10, a. 1. Testo
57. S. Agostino, Confessioni, II, 4, 9; PL, XXXII, 678. Testo
58. Tertulliano, De Anima, c. 41; PL, II, 769. Testo
59. G. Toniolo, Intese internazionali, Roma 1945, p. 162. Anche Dostoevskij aveva scritto: «Chi non crede
in Dio, non crede nemmeno nel popolo di Dio» (I fratelli Karamazof, libro VI). Testo
60. Cfr. M. F. Carnea, Libertà e Politica..., op. cit., p. 113. Testo

Copyright © 2012 Maria Francesca Carnea | reportata@mondodomani.org 

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