Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Tommaso d'Aquino
di Maria Francesca Carnea (21 marzo 2012)
Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l'esistenza di
valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano, ed
esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna
maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo
riconoscere, rispettare e promuovere (n. 71).
Dall'indole sociale dell'uomo appare evidente come il perfezionamento della persona umana e lo
sviluppo della stessa, sono tra loro interdipendenti.2 Spesse volte, però, sfugge la coscienza di ciò
che si è, e sempre per amore di chiarezza, trovo opportuno riprendere delle definizioni che, nel
raffronto con la modernità, possono essere altamente esplicativi. Penso, innanzi tutto, alla
definizione stessa di persona.
Sumptum est nomen personae a personando eo quod in tragoediis et comediis recitatores sibi ponebant
quandam larvam ad repraesentandum illum, cuius gesta narrabant decantando» (il nome persona è stato
tratto da personare perché nelle tragedie e nelle commedie gli attori si mettevano una maschera per
rappresentare colui del quale, cantando, narravano le gesta) (I Sent., d. 23, q. 1, a. 1).
Il merito di avere elaborato una definizione adeguata del concetto di persona spetta a Severino
Boezio. In uno dei suoi opuscoli teologici egli scrive: «La persona è una sostanza individuale di
natura ragionevole» (persona est rationalis naturae individua substantia) (Contra Eutichen et
Nestorium, c. 4). Dalla definizione boeziana risulta che persona non dice semplicemente
individualità singola, né semplicemente natura, né semplicemente sostanza. L'individualità
singola infatti può appartenere anche all'accidente (tutti gli accidenti concreti sono individuali);
per dar luogo alla persona non bastano né la natura né la sostanza, che possono anche essere
elementi generici. Ma neppure l'unione di individualità, natura e sostanza fa ancora la persona;
questi elementi appartengono anche a un sasso o a un gatto, che non sono persone. Sono ancora
elementi che rientrano nel genere prossimo. Per definire adeguatamente la persona occorre
aggiungere ai tre elementi precedenti la differenza specifica che distingue gli uomini dagli animali,
la quale consiste nella razionalità. Così si ottiene esattamente quanto ha scritto Boezio: rationalis
naturae individua substantia.
Questa celebre definizione fu vivacemente discussa nei secoli XII e XIII. Riccardo di S. Vittore ne
propose un'altra che non riuscì a soppiantarla. S. Tommaso però, sin dagli inizi del suo
insegnamento, si decise a tenere quella di Boezio, perfezionandola con qualche importante
precisazione. Il Doctor humanitatis3 ha un concetto altissimo della persona. Questa, a suo
giudizio, è quanto di più perfetto esiste nell'universo: «Persona significat id quod est
perfectissimum in tota natura, scilicet substantia in natura rationalis» (I, q. 28, a. 3).
Egli guarda alla persona dal punto di vista ontologico e la considera quindi come una modalità
dell'essere, ossia di quella perfezione che nella sua filosofia è la perfectio omnium perfectionum e
l'actualitas omnium actuum, ed è proprio rispetto a questa perfezione che la persona occupa il
gradino più alto: l'essere nella persona trova la sua attuazione più piena, più eccellente, più
completa. Per questo motivo tutti gli enti che si fregiano del titolo di persona, sono enti che
godono di una dignità infinita, di un valore assoluto: sia che si tratti di Dio, degli angeli o
dell'uomo.
Il concetto di persona è un concetto analogico: non si predica allo stesso modo, ossia
univocamente, di Dio, degli angeli e dell'uomo, ma secondo un ordine di priorità e posteriorità
(secundum prius et posterius); tuttavia, esso designa sempre la stessa perfezione fondamentale: il
sussistere individuale nell'ordine dello spirito. Come dice S. Tommaso con il suo linguaggio sobrio
e preciso: «Omnne subsistens in natura rationali vel intellectuali est persona» (C. G., IV, c. 35).
Convinto della bontà della definizione boeziana della persona, l'Aquinate quindi la difende dalle
obiezioni di chi la contestava chiarendo il senso dei quattro termini che la
compongono: rationalis, natura, individua, substantia, e facendo vedere che se questi termini
sono intesi nel senso giusto sono tutti indispensabili per avere un concetto adeguato di persona:
«sostanza individua di natura razionale»,4 il che importa capacità d'intelletto ed espressione di
volontà. Sappiamo come oggetto dell'intelletto sia la verità e, oggetto della volontà sia il bene.
Rappresentano questi due elementi fondamentali quel motore capace di rendere l'uomo cosciente
di se e, nello stesso tempo, di poter operare in nome di verità per il bene comune.
Il rispetto della persona non è solamente un portato del Vangelo, ma anche un portato della virtù
cardinale, della Giustizia.5 Come modalità di relazione intersoggettiva, il diritto si struttura come
specifica risposta alle esigenze, ontologicamente oggettivabili, della coesistenza; il diritto, laico nel
suo principio, riconosce le spettanze dell'uomo in virtù della sua dignità di essere umano.
Fondamentale a questo riguardo è l'opzione per la libertà che caratterizza lo spirito laico: opzione
che chiede l'appoggio essenziale del diritto, poiché non esiste esperienza reale di libertà che non
debba essere mediata attraverso la giuridicità.6
Vedi di intendere bene cos'è questo mestiere della levatrice e capirai più facilmente cosa voglio dire. [...]
Ora, la mia arte di ostetrico, in tutto il rimanente assomiglia a quella delle levatrici, ma ne differisce in
questo, che opera sugli uomini e non sulle donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi. E la più
grande capacità sua è che io riesco, per essa, a discernere sicuramente se la psiche del giovane partorisce
fantasma e menzogna oppure cosa reale e vitale. Poiché questo ho in comune con le levatrici, che anch'io
sono sterile di [...] sapienza; ed il biasimo che già altri mi hanno fatto, che interrogo si gli altri, ma non
manifesto mai io stesso il mio pensiero su alcuna questione, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E
la ragione è appunto questa, che il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare».
Al fondo della concezione etica di Socrate è quindi la convinzione secondo la quale tutti gli uomini
possano agire razionalmente se posti in condizioni di farlo, cioè se educati. La condizione
fondamentale perché questo avvenga sta tuttavia nella trasmissione non tanto del sapere, ma del
modo in cui si perviene al sapere, cioè facendo domande ed ottenendo in risposta una definizione
esaustiva. La domanda consiste nel chiedere per avere una definizione esaustiva «Che cosa è
questo?» Ad esempio: «Che cosa è la giustizia?».
Socrate ritiene sia possibile, dunque, pervenire ad una conoscenza della giustizia, non attraverso
casi particolari, esempi di giustizia, ma proprio sapendo che cosa è. È solo sapendo che «cosa è»,
secondo Socrate, noi possiamo comportarci giustamente. Questo «che cosa» deve essere infatti
identico in ogni uomo giusto e in ogni azione giusta. Questo carattere, o tratto distintivo,
rinvenibile in ogni individuo considerato giusto o in ogni azione valutata come giusta, è in
sostanza un'idea, un concetto, un tratto universale. È proprio in questo tipo di domanda, quindi
che germina, per così dire, la successiva teoria platonica delle idee.
Tuttavia, è in Socrate che l'idea di «idea», come forma suprema di conoscenza, comincia a farsi
strada. Senza «idee», cioè rappresentazioni e definizioni esaustive di «cose» che non sono cose,
ma qualità, attributi, valutazioni di comportamenti umani, dunque elementi immateriali dovuti a
giudizi, vere e proprie astrazioni, non vi può essere vera conoscenza; questa non può essere
trasmessa; quindi non vi può essere vera educazione o formazione. Quasi tutti i dialoghi giovanili
di Platone contengono questa ricerca: nel Carmide si chiede cosa sia la temperanza, nel Lachete si
vuole sapere cos'è il coraggio, nel Liside si vuole definire l'amicizia, nell'Ippia Maggiore si prova a
definire la bellezza, nell'Eutifrone la domanda verte sulla santità e, sopratutto, nel primo libro
della Repubblica, la domanda verte sulla definizione di giustizia.
Socrate fu, in questo senso, assolutamente coerente, quando, invitato dai suoi discepoli a fuggire
dal carcere, dove era stato ingiustamente rinchiuso per essere messo a morte, si rifiutò di farlo per
coerenza con la sua dottrina, incentrata, appunto, sulla «cura dell'anima» e sulla non violenza.
Fuggire dal carcere, secondo il Filosofo ateniese, avrebbe significato rispondere all'ingiustizia con
l'ingiustizia e contraddire, di conseguenza, nel momento della prova il suo messaggio di fondo:
coerenza tra interiorità ed esteriorità, rispetto delle Leggi, di per sé giuste, poiché l'ingiustizia
nasce dal cuore degli uomini, vivere secondo virtù e giustizia.
Leggiamo il passo che conferma a tutto tondo come Socrate giudichi il fuggire una forma di
violenza verso le Leggi: «Non si deve disertare, né ritirarsi, né abbandonare il proprio posto, ma, e
in guerra e in tribunale e in ogni altro luogo, bisogna fare quello che la Patria e la Città
comandano, oppure persuaderle in che consiste la giustizia: mentre far uso di violenza non è cosa
santa [...]» (Critone, 51 B). E nell'Apologia di Socrate (30 D; 41 D), contro i suoi accusatori, egli
rileva in modo splendido come il virtuoso custodisca nella sua stessa virtù la difesa più alta, la
rocca inespugnabile anche per coloro che, senza alcuno scrupolo, mandano a morte un uomo
ingiusto:
Io non credo che sia possibile che un uomo migliore riceva danno da uno peggiore. Anito potrebbe
condannarmi a morte, cacciarmi in esilio e spogliarmi dei diritti civili. Ma, queste cose, costui e forse altri
con lui crederanno che siano grandi mali, mentre io non penso che lo siano. Io credo, invece, che sia un
male molto più grande fare quelle cose che ora fa Anito, ossia cercare di mandare a morte un uomo contro
giustizia.
Il falso sapere, la sapienza superficiale e libresca degli eruditi, smaschera l'inconsistenza dei sofisti
e dei retori, lasciando, infine, agli interlocutori il compito di arrivare alle conclusioni. Dicendosi
sapiente della propria ignoranza egli smaschera, per così dire, la presunzione altrui, la presunta
sapienza che gonfia i petti e rende arroganti. Tuttavia, in realtà, la confutazione socratica non è
diretta solo contro la presunzione intellettuale dei retori e dei dotti, ma anche contro l'ignoranza
vera e propria, l'ignoranza che l'uomo ha di se stesso e delle cose che hanno realmente un valore
nella vita. Pertanto non si limita solo a far crollare certezze intellettuali infondate, ma anche valori
morali, o per meglio dire, immorali. Scrisse così Gianbattista Vico:
Chi pecca, cade per ignoranza, ciò lo insegna Socrate, il qual vuol parimente che in un qualche modo abbia
la scienza ad essere riguardata come una virtù. Imperocché chi dopo diligente esame venisse a riconoscere
chiaramente la verità, non solo dalla colpa si disporrebbe, ma anzi studierebbesi di rettamente operare.
Ed aggiungeva, in guisa di esempio, i medesimo Socrate che niuno può essere né liberale, né magnifico, se
non conosce la ragione del collocare i benefici, o dello spendere con magnificenza.19
La legge naturale, scritta ed impressa nell'animo di ciascuno, non è altro che la ragione stessa, che ci
comanda di fare il bene, e proibisce di fare il male [...] Legge naturale [che] è la stessa legge eterna, ossia
la stessa eterna ragione di Dio creatore e reggitore del mondo, inserita nelle ragionevoli creature, e
motrice di queste agli atti debiti ed al fine».22
7. L'intelligenza scopre
Poiché l'anima ragionevole è la forma propria dell'uomo, in ciascun uomo c'è l'inclinazione
naturale ad agire secondo la ragione: secundum rationem. E ciò equivale ad agire secondo la
virtù: secundum virtutem.54 Abbiamo, pertanto, una duplice partecipazione della legge naturale
nell'uomo: nell'intelletto e nella volontà. Nell'intelletto, è l'impressione o l'inserzione di un lume di
ragione naturale, «lumen rationis»,55 come una luce della ragione naturale, che ci indica il
cammino della nostra umanità, e ci permette di discernere i principi immutabili del male e del
bene, per cui l'uomo può conoscere con la ragione il suo fine naturale e può liberamente dirigersi
verso di esso, deducendo da quei principi le scelte concrete, universali o particolari che siano. Per
S. Tommaso, quindi, la legge naturale è più «lumen», cioè capacità di scoperta della legge eterna,
che la somma dei singoli precetti scoperti una volta per sempre. Nella volontà, è l'impressione o
l'inserzione di una fondamentale inclinazione a trovare la via giusta del farsi uomo, del divenire
umano, integrato e inserito nel divenire cosmico; inclinazione a cercare la felicità e la piena
espansione del proprio essere, in quanto è inclinazione al fine debito e all'operatività che orienta
convenientemente l'uomo allo sviluppo della propria persona e a diventare operatore di bene.
S. Tommaso, dopo averci detto che la legge di natura è la partecipazione della legge eterna nella
creatura razionale, spiega che noi la sperimentiamo come «naturalem inclinationem ad debitum
actum et finem». L'inclinazione è l'elemento genetico, che si accoppia al fine e ci orienta verso di
esso, per cui vi siamo naturalmente inclinati antecedentemente a ogni conoscenza intellettuale. È
importante rilevare che S. Tommaso definisce la natura come la sostanza di un essere,
e naturale come ciò che conviene a tale sostanza, ciò che è naturalmente intrinseco all'essere.56
Se l'uomo ha tale natura per cui senza la giustizia non può vivere, o non può vivere bene, egli deve
avere per natura una conoscenza proporzionata dei principi di giustizia, cioè del diritto naturale,
del quale, se i primi principi sono evidenti, le sue altre indicazioni richiedono un travaglio
intellettuale, per cui si deve raddoppiare il desiderio di conoscere la verità per adempierla.
Nessuna legge, iniquità o ingiustizia potrà mai distruggere questa legge naturale, riflesso in noi
dalla legge eterna di Dio, come sapientemente dice s. Agostino: «Lex tua [Domine] scripta est in
cordibus hominum, quam ne ipsa quidem delet iniquitas continua».57 E Tertulliano osserva che la
legge naturale potrà oscurarsi in noi, quando nel nostro animo non abita Dio, ma essa non potrà
mai estinguersi del tutto, perché è da Dio: «Potest enim obumbrari, quia non est Deus; extingui
non potest, quia a Deo est».58
O si ammette Dio o si nega ogni autorità, ogni diritto, ogni dovere ed ogni morale; chi non
ammette Dio e non riconosce i diritti di Dio, non riconoscerà nemmeno i diritti dell'uomo:
«Bisogna rivendicare i diritti di Dio, ed allora vedremo ripristinati anche i diritti dell'uomo, i
diritti che Gesù ci apportò da 2000 anni con la Redenzione» ,59 come scrive il Toniolo. Non si può
cancellare Dio e pensare poi che la morale rimanga intatta; se si cancella il valore più alto, si
cancellano anche gli altri valori o per lo meno diventano incerti, semplici convenzioni sociali,
arbitrari o totalmente relativi ai contesti socio-culturali.
«L'amore di sé», ribadendo l'insegnamento di Caterina da Siena, è radice «dell'ingiustizia»; una
critica condotta fino in fondo, fino alle esigenze della verità, è la base della giustizia, e la chiave del
bene comune. C'è qualcosa di più, che nasce dal profondo dell'essere umano e che, rannicchiato in
qualche angolo nascosto del nostro cuore, fa fatica a volte a riconoscere se stesso e a riconoscere
l'altro come suo simile, creatura nata ad immagine e somiglianza di Dio. Ciò, compiutamente, ci
riporta all'assunto dottrinale di Tommaso d'Aquino illustratoci nella Summa Theologiae, I-II, q.
94., a. 2: l'intelligenza scopre... Se l'uomo è segno altissimo dell'immagine divina, se questo segno
è dato dalla sua libertà soprattutto, ecco allora che la società degli uomini non può avere altro
tessuto connettivo che quello della carità, una carità ovviamente che va ben oltre una solidarietà
esistenzialmente necessitata.
Riconoscere l'enorme importanza che un'analisi della natura razionale e politica dell'uomo riveste
per l'etica, porta a potenziare il concetto non solo della coerenza logica dell'intelligibilità delle
singole azioni, ma anche il profilo propriamente morale, relativo a una visione dell'uomo
com'esecutore libero e responsabile del fine sostanziale della sua natura, continuamente
impegnato nel perfezionamento umano e morale di sé.60
I vostri commenti
Saremo felici di ricevere commenti a questo articolo. Nel caso abbiate dato l'assenso, il vostro commento
potrà essere eventualmente pubblicato (integralmente o in sintesi). Grazie!
1. Cfr. A. Lobato, La dignità della persona umana. Privilegio e conquista, Bologna 2003, pp. 303-
304. Testo
2. Cfr. GS 25. Testo
3. Giovanni Paolo II chiama S. Tommaso «Doctor Humanitatis»: è il nome che diamo a S. Tommaso
d'Aquino perché era sempre pronto a cogliere i valori di tutte le culture (Allocuzione ai partecipanti
all'VIII Congresso Tomistico Internazionale, 13-9-1980; Insegnamenti, III, 2 [1980] 609). Testo
4. Cfr. Tommaso d'Aquino, La Somma Teologica, trad. e comm. a cura dei Domenicani Italiani. Testo
latino dell'Ed. Leonina, Ed. Salani, 1949-1975, I, q. 29, a.1. Testo
5. Cfr. F. D'Agostino, Il Diritto come problema teologico ed altri saggi di filosofia del diritto, Torino,
1977, pp.119-120. Testo
6. Cfr. F. D'Agostino, Il Diritto..., op. cit., pp.130-133. Testo
7. Tommaso d'Aquino, Summa Contra Gentiles, Marietti, Romae 1961, vol. III, Liber III, cap. 117, n.
2894-2900, pp. 175-176. Testo
8. Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, Typis Petri Fiaccadori, Parmae 1852, I, q. 96, a. 4: «Primo
quidem, quia homo naturaliter est animal sociale: unde homines in statu innocentiae socialiter
vixissent», p. 384. Testo
9. Tommaso d'Aquino, De Regimine Principum, Marietti, Torino 1948, Liber I, cap.1: «Naturale autem
est homini ut sit animal sociale et politicum in multitudine vivens, magis etiam quam omnia alia
animalia, quod quidam naturalis necessitas declarat», p. 1. Testo
10. Cfr. J. Maritain, I diritti dell'uomo e la legge naturale, Milano 1977, p. 9: «Il bene comune [...] è la
buona vita umana della moltitudine, di una moltitudine di persone, ossia delle totalità carnali e
spirituali insieme, e principalmente spirituali, benché accada loro di vivere più sovente nella carne che
nello spirito». Testo
11. L. Ferretti, Lettere di S. Caterina da Siena, Vergine Domenicana, tip. S. Caterina, Siena 1918, Voll. 5,
Lett. N. 367, a' Magnifici Signori Difensori del Popolo, e Comune di Siena, Vol. V, p. 279. Testo
12. Cfr. P. Pajardi, Caterina la Santa della Politica, Ricerche e riflessioni sul pensiero etico, giuridico,
sociale e politico di Santa Caterina, Milano 1993, pp. 13-14. Testo
13. Cfr. M. F. Carnea, Libertà e Politica in S. Caterina da Siena, Monopoli 2011, p. 115. Testo
14. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, trad. di C. Natali, Milano 2000, 1139a 35, pp. 225-227. Testo
15. La scelta è la causa motrice ('ciò a partire da cui'); l'agire con successo è la causa finale ('ciò in vista di
cui'). Il desiderio e il ragionamento in vista di qualcosa, costituiscono la connessione tra motore e fine,
mentre causa formale dell'agire virtuoso è lo stato abituale del carattere, e la causa materiale è
l'insieme dei movimenti fisici del corpo. Testo
16. Il pensiero è pratico in quanto orienta il desiderio, cfr. De Anima, 433a 18-20: «la parte desiderante
infatti è ciò che muove, e il pensiero muove per questo, cioè perché principio del pensiero è il
desiderabile». Testo
17. Quindi il fine cui tende il desiderio, e che è determinato dal ragionamento pratico, è il dare vita ad
un'azione singola corretta, in una circostanza particolare, non lo stabilire una regola generale, valida
per ogni caso, cfr. 1151a 16: «nelle azioni il fine è principio» e 18-19: «è la virtù [...] che ci insegna
corrette opinioni sul principio». Testo
18. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, op. cit., 1139b 5, p. 227. Testo
19. Cfr. G. B. Vico, Opere giuridiche. Il diritto universale, a cura di P. Cristofolini, Firenze, 1974, p.
82. Testo
20. M. Cordovani, Prolusione all'università di Firenze, in Memorie domenicane, L (1933), p. 164; cfr. G.
Graneris, Contributi tomistici alla filosofia del diritto, Torino 1949, pp. 11-14; P. M. Van
Overbeke, Saint Thomas et le droit, in «Revue thomiste», LXIII (1955), III, pp. 519-521; S. Cotta, Il
concetto di legge nella Summa Theologiae di S. Tommaso d'Aquino, Torino 1955; E. Galan Y
Gutierrez, Ius naturae, Madrid 1961; G. Fasso, La legge della ragione, Bologna 1964; Idem, Storia
della filosofia del diritto, vol. I: Antichità e Medioevo, Bologna 1966; J. M. Aubert, Legge divina --
Leggi umane, trad. ital., Roma 1969. Testo
21. Cfr. Sum. Theol., I, q. 21, a. 2: «Et sic etiam dicitur in nobis veritas iustitiae». Testo
22. Leone XIII, Encicl. Libertas, 20 giugno 1888, n. 6, in I. Giordani, Le Encicliche sociali dei Papi, vol. I,
Roma, 1957 p. 127. Testo
23. Cicerone, Pro Cluentio, LIII, 145: «Legum ministri magistratus, legum interpretes iudices; legum
idcirco omnes servi sumus, ut liberi esse possimus». Testo
24. Cfr. R. Pizzorni, Il fondamento etico-religioso del diritto secondo San Tommaso d'Aquino, Milano
1989, p. 10. Testo
25. Cfr. R. Pizzorni, Legge morale, diritto naturale e libertà, in «Acta V Congressus Thomistici
internationalis», vol. II, Roma 1960, pp. 430-441. Testo
26. Gv. 8, 32. Testo
27. Cfr. G. Savonarola, Il trionfo della croce. La ragionevolezza della fede, a cura di M. Negrelli, Bologna
2001, p. 283. Testo
28. Cfr. Sum. Theol ., I-II, q. 23, a. 1; q. 56, a. 4, ad 1. Testo
29. Cfr. Sum. Theol ., I-II, q. 61, a.2. Testo
30. Cfr. Sum. Theol ., I-II, q. 61, a. 3. Testo
31. Sum. Theol ., II-II, q. 168, a. 1, ad 1. Testo
32. Sum. Theol ., I-II, q. 18, a. 9: «Necesse est omnem actum hominis a deliberate ratione procedentem, in
individuo consideratum, bonum esse vel malum»; cfr. ibidem, I-II, q. 18, a. 5: «Bonum ominis est
secundum ratione esse, malum autem quod est praeter rationem. [...] Dicitur autem aliqui actus
humani, vel morales, secundum quod sunt a ratione»; ibidem, I-II, a. 100, a. 2: «Ordo virtutis est ordo
rationis». Testo
33. Sum. Theol ., I-II, q. 1, a. 2: «Idem sunt actus morales et actus humani». Testo
34. Sum. Theol ., I-II, q. 57, a. 1: «Aliae virtutes perficiunt hominem solum in his quae ei convenient
secundum seipsum». Testo
35. Sum. Theol ., I-II, q. 58, a. 2: «[Iustitia] non est nisi unius hominis ad alium». Testo
36. Sum. Theol ., I, q. 21, a. 2; cfr. Ibidem, I, q. 16, a. 4, ad 3: «veritas autem iustitiae est secundum quod
servat id quod debet alteri secundum ordinem legum»; cfr. Ibidem, II-II, q. 109, a. 3, ad 3. Testo
37. Sum. Theol ., II-II, q. 57, a. 1: «Iustitiae proprium est inter alias virtutes ut ordinet hominem in his
quae sunt ad alterum. [...] Aliae autem virtutes perficiunt hominem solum in iis quae ei convenient
secundum seipsum». Testo
38. Sum. Theol ., I-II, q. 66, a. 4: «[Iustitia] est circa illas operations quibus homo ordinatur non solum in
seipso sed etiam ad alterum». Testo
39. Cfr. Sum. Theol ., II-II, q. 58, a. 2, sed contra: «Iustitia ea ratio est qua societas hominum inter ipsos,
et vitae communitas continetur» (Cicerone, De Officiis, I, c. 7); in VIII Ethic., lect. 9, n. 1658: «Iustitia
consistit in communicatione». Testo
40. G. Capograssi, Pensieri a Giulia, Vol. III, Milano 1980, n. 1629. Testo
41. Sum. Theol ., II-II, q. 109, a. 3: «Veritas esta pars iustitiae, inquantum annectitur ei sicut virtus
secundaria principali». Testo
42. C. Gent., III, c. 131: «Societas autem inter nomine conservari non posset nisi unus alium iuvaret». Testo
43. Cfr. Sum. Theol., II-II, q. 58, a. 10: «Materia iustitiae est exterior operatio secundum quod ipsa, vel res
cuius est usus, debitam proportionem habet ad aliam personam». Testo
44. Cfr. Sum. Theol., II-II, q. 58, a. 3, ad 3: «Iustitia non consistit circa exteriors res quantum ad facere,
quod pertinent ad artem: sed quantum ad hoc quod utitur eis ad alterum». Testo
45. Cfr. V. Jervasi, L'azione, materia propria del diritto secondo l'Aquinate, in Sapienza, V, 1951, I, pp. 63-
69. Testo
46. Cfr. R. Pizzorni, La liceità della resistenza alla legge ingiusta secondo S. Tommaso, in Aquinas, IV,
1961, pp. 324-368. Testo
47. Cfr. Sum. Theol., I-II, q. 99, a. 1, ad 2: «Sicut Apostolus dicit (I ad Tim. I, 5), "finis praecepti caritas
est"; ad hoc enim omnis lex tendit, ut amicitiam constituat vel hominum ad invicem, vel hominis ad
Deum». Testo
48. Sum. Theol., I-II, q. 99, a. 2: «Intentio principalis legis humanae est ut faciat amicitiam hominum ad
invicem»; cfr. Quodlibetum XII, q. 16, a. 24: «Finis quem intendit civilis legislator [est] pacem servare
et stare inter cives»; C. Gent., III, c. 117. Testo
49. Cfr. Sum. Theol., I-II, q. 98, a. 1: «Legis enim humanae finis est temporalis tranquillitas civitatis, ad
quem finem pervenit lex cohibendo exteriors actus, quantum ad illa mala quae possunt perturbare
pacificum statum civitatis»; C. Gent., III, c. 34: «Operationes iustitiae ordinantur ad pacem inter
hominess servandam per hoc quod unusquisque quiete quod suum est possidet». Testo
50. Cfr. Sum. Theol., I-II, q. 99, a. 2: «Ita intentio divinae legis est ut constituat principaliter amicitiam
hominis ad Deum»; C. Gent., III, c. 116. Testo
51. In VIII Ethic., lect. 1, n. 1542: «Per amicitiam videntur conservari civitates. Unde legislatores magis
student ad amicizia conservandam inter cives, quam etiam ad iustitiam, quam quandoque
intermittunt, puta in poenis inferendis, ne dissensio oriatur. Et hoc patet per hoc, quod cocordia
assimilatur amicitiae. Quam quidem, scilicet concordiam, legislatores maxime appetunt, contentionem
autem civium maxime expellunt, quasi inimicam saluti civitatis». Testo
52. Pio XII, Omelia pasquale per la pace, 9 aprile 1939, n. 6, in I. Giordani, vol. I, p. 666. Testo
53. V. G. Séailles, La philosophie du travail, Parigi 1923, p. 117: «La charité d'aujord'hui est la justice de
demain, comme la justice d'aujourd'hui fut la charité d'hier»; cfr. M. S. Gillet, Justice et charité, in
«Revue des Sciencies Philosophiques et Théologiques», 1929, I, pp. 5-22; trad. ital., La giustizia e la
carità, in Tabor, II (1948), vol. III, n. 6, pp. 485-496; vol. IV, n. 1, pp. 20-27; G. Del Vecchio, Parerga,
vol. I, p. 103. Testo
54. Sum. Theol., I-II, q. 94, a. 3: «Cum anima rationalis sit propria forma hominis, naturalis inclinatio
inest cuilibet homini ad hoc quod agat secundum rationem. Et hoc est agere secundum virtutem». Testo
55. Sum. Theol., I-II, q. 91, a. 2: «Lumen rationis naturalis, quo discernimus quid sit bonum et malum,
quod pertinent ad legem naturalem». Testo
56. Cfr. Sum. Theol., I-II, q. 10, a. 1. Testo
57. S. Agostino, Confessioni, II, 4, 9; PL, XXXII, 678. Testo
58. Tertulliano, De Anima, c. 41; PL, II, 769. Testo
59. G. Toniolo, Intese internazionali, Roma 1945, p. 162. Anche Dostoevskij aveva scritto: «Chi non crede
in Dio, non crede nemmeno nel popolo di Dio» (I fratelli Karamazof, libro VI). Testo
60. Cfr. M. F. Carnea, Libertà e Politica..., op. cit., p. 113. Testo