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Aristotele, Metafisica, Libro A (alfa elaton).

A1: GERARCHIA DI CONOSCENZA.


Per Aristotele l’uomo per natura aspira al sapere, al netto delle considerazioni su schiavi, donne e bambini
che fa altrove (Politica e De partibus animalium) e che farebbero pensare agli uomini solo come maschi
adulti liberi.
La base della conoscenza risiede nei sensi, punto di partenza per ogni acquisizione futura. Difesa
dell’aisthesis (“Niente è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi”, Tommaso d’Aquino). Tra i sensi il
privilegiato è la vista (tradizione antica, anche Platone nonostante la sua svalutazione dei sensi) ma anche
l’udito. Vista però intesa come un vedere intellettivo che ci rende visibile l’idea intelligibile (che sia separata
o immanente).
La sensazione è base della conoscenza ma tutti gli animali la possiedono, la differenza sta nel saper usare la
memoria (ricordare una cosa che si è ascoltata o percepita con la sensazione). Tra gli animali, perciò, chi
possiede la memoria è più intelligente di chi non la possiede e chi possiede la facoltà uditiva è ugualmente
più intelligente di chi non la possiede (poiché ascoltando è capace di apprendere).
La differenza tra uomo e animale non sta quindi nelle facoltà sensibili (memoria, sensazione,
immaginazione) ma nella techne (arte o tecnica) che permette all’uomo di andare oltre la sola conoscenza
del particolare verso gli universali. Questa è diversa dalla semplice esperienza, perché coglie il perché delle
cose, la loro origine, la loro causa, e non solo il che di una cosa. La techne, inoltre, si distingue dalla scienza
in quanto non riguarda solo la sfera teoretica del conoscere ma anche quella del piacevole e dell’utile.
Troviamo quindi una scala di tappe conoscitive che vanno da quelle basilari che l’uomo condivide con gli
animali, a quelle più complesse e più propriamente umane: sensazione, (immaginazione: momento
intermedio tra sensazione e memoria in cui l’immagine è ancora presente e non appartiene al passato),
memoria, esperienza e arte, scienza. Questa gerarchia è però diversa dalla linea spezzata di Platone: non
rappresenta infatti due mondi l’uno contrapposto all’altro ma un cammino dialettico in cui ciò che segue
supera ciò che precede senza però annullarlo ma inverandolo.
L’esempio che riporta Aristotele riguardo la differenza techne/esperienza è quello della medicina. Gli
empirici raccolgono dati e redigono una casistica (la medicina x giova a Socrate e Callia presi
individualmente) mentre il medico ricerca il perché un determinato farmaco funzioni su diversi pazienti (la
causa), dal particolare (empirici) all’universale (medici). Dal punto di vista pratico l’empirico sarà
avvantaggiato ma non dal punto di vista del sapere: nel mondo del lavoro chi sa solitamente ha un ruolo
dirigenziale e dirige chi possiede l’esperienza (fuoco che brucia senza sapere il perché). Questi sono perciò i
primi caratteri della sapienza: chi la possiede conosce le cause e dirige e insegna a chi non le possiede.
Per questo motivo l’arte piò dirsi sapienza più dell’esperienza, e tra le varie arti quelle belle sono più
sapienti perché libere da finalità pratiche (arti utili). Le arti belle o piacevoli sono perciò vicine alla scienza
suprema che Aristotele chiama sophia ma non sono ancora perfette e dovranno cedere lo scettro alla
sapienza.
La scienza, infatti, è il sapere disinteressato per eccellenza (rispetto alle altre due arti, una ricerca l’utile,
l’altra il piacevole. La scienza, inoltre, riguarda cose eterne e immutabili, ciò che non può essere
diversamente da quello che è. A costituire le due scienze per eccellenza per Aristotele sono la fisica
(indagine naturalistica), la matematica e la filosofia prima o metafisica (indagine teologica).

A2: CARATTERI DELLA SAPIENZA E RUOLO DELLA MERAVIGLIA.


Introduzione sulla dialettica. Dialettica (scienze del per lo più) vs metodo apodittico o dimostrativo (scienze
esatte). La dialettica parte dalle endoxa (proposizioni endossali), ovvero quelle premesse condivise
comunemente da quasi tutti. Uno degli usi della dialettica è quello diaporetico, in grado di scorgere il vero e
il falso sviluppando le aporie in entrambe le direzioni. Ma in quest’occasione Aristotele si rifà ad un’altra
accezione del metodo dialettico, quello “in rapporto agli incontri” che gli permetterà di giungere ad una
definizione condivisa di sapienza. Il punto di partenza di tale indagine saranno le proposizioni più note
rispetto a noi (endoxa, modi di dire: legomena, fatti empirici: phainomena) attraverso le quali giungeremo a
conoscere le cose più note per natura. Rispetto alla sapienza si passa perciò ad elencare i caratteri, 6, del
sapiente, caratteri di cui più facilmente si fa esperienza; è sapiente chi: 1) chi conosce tutte le cose ma in
generale e non nei particolari; 2) chi conosce le cose più difficili, quelle alle quali non si può arrivare con la
semplice percezione sensibile; 3) chi conosce le cause delle cose; 4) chi sa insegnare queste cause; 5) chi
possiede quella scienza che viene desiderata per sé stessa e non in vista di altro; 6) chi possiede la scienza
più sovrana di tutte. Questi caratteri del sapiente vengono traferiti alla scienza di cui si occupa che avrà
perciò le seguenti caratteristiche: 1) conoscenza dell’universale; 2) conoscenza delle realtà più difficili
perché lontane dalla sensazione; 3) scienza delle cause e dei principi primi e perciò più esatta (perché meno
sono i principi da cui parte); 4) scienza più atta a insegnare perché conosce le cause delle altre scienze; 5)
scienza più desiderata; 6) scienza più sovrana perché indaga sul fine ultimo di tutte le cose.
Il passo successivo vede Aristotele trovare l’origine del filosofare nella meraviglia provata dinanzi a ciò che
non si conosce e che ci rende consapevoli di non sapere. La sapienza in questo senso è scienza più
disinteressata perché volta al solo sapere e non all’utile o al piacevole. Vengono distinte quindi le arti in
pratiche, poietico-produttive e teoretiche (queste ultime più importanti: fisica, matematica e metafisica). Tra
queste ultime la metafisica è maggiore perché superiore è il suo oggetto, oggetti sia separabili che immobili
(al contrario delle altre due scienze). La meraviglia conduce l’uomo ad indagare prima sulle cose che sente
più vicine e poi allontanarsi gradualmente (astronomia, geometria come l’incommensurabilità della
diagonale con i lati del quadrato, origine dell’universo).
Aristotele conferisce dignità al mito in quanto tentativo di dare una spiegazione a cose a prima tutta
inspiegabili.
La sapienza è una scienza divina (sia perché ha come oggetto Dio, sia perché risiede nelle facoltà divine) e
l’uomo, perciò, può solo avvicinarsi ad essa e mai possederla completamente (se non per poco tempo). Solo
Dio è sophos, l’uomo al massimo può essere philo-sophos (amante del sapere ma mai pienamente
sapiente). Il verso di Simonide deve essere inteso in questa direzione, a richiamare i limiti umani verso
quella che è una scienza divina. La sapienza ci avvicina a Dio per quanto possibile, ma questo per gli esegeti
di Aristotele (Alessandro di Afrodisia e Ascelpio) non deve esser causa di invidia della divinità, poiché questa
non nasce in chi è assolutamente buono.
Ogni scienza sarà più necessaria della filosofia ma nessuna maggiore di quest’ultima; questo per i caratteri
della divinità, libertà (scienza che viene dopo aver esaudito i bisogni primari e secondari dell’uomo con le
arti utili e le arti belle) e teoreticità (sapere disinteressato).

A3: LE 4 CAUSE, DEFINIZIONE E STORIA NEI PRIMI FILOSOFI.


Definita la sapienza, Aristotele passa a parlare delle cause prime che definiscono l’oggetto di tale scienza.
Egli individua quattro diverse cause:

1) La causa formale: sostanza, o ousia, la sua essenza (ciò che risponde alla domanda “che cos’è?”.
2) La causa materiale: il sostrato (come lo è il bronzo per la statua). La materia per Aristotele era un
concetto terziario rispetto a forma e sinolo ma è comunque indispensabile per il darsi nella realtà.
Questa rappresenta l’oggetto delle forze di privazione e di forma grazie alle quali diviene da
qualcosa e va verso qualcosa, da potenza diventa atto ed entelechia.
3) La causa motrice, o efficiente: la causa che innesca il movimento e il mutamento (passaggio da
qualcosa verso qualcos’altro come lo è il padre per il figlio o il produttore per il prodotto).
4) La causa finale: opposta a quella motrice poiché non rappresenta l’origine del movimento ma il fine
a cui questo tende. Il fine è il bene. Una causa finale è la salute per la passeggiata.

Ha inizio qui la sezione storiografica della Metafisica in cui Aristotele introduce le dottrine dei suoi
predecessori. Critica: la parzialità dello Stagirita accusato di rileggere le dottrine altrui alla luce della sua;
Elogio: aver segnato Talete come iniziatore della filosofia ed averlo distinto dai teologi che spiegavano i
fenomeni ricorrendo al mito come Esiodo e Omero. Per Aristotele il grande errore dei primi filosofi fu quello
di considerare come causa la sola causa materiale.
Talete è l’iniziatore di quella filosofia che cerca il principio nella natura e che non si accontenta delle
spiegazioni mitiche. Egli pone il principio nell’acqua osservando come tutto in natura tragga origine
dall’umido.
La differenza tra Talete e i teologi per Aristotele non sta quindi nel principio posto (già quanti lo avevano
individuato nell’acqua) ma nel tipo di indagine portata avanti.
La trattazione dei primi filosofi riguarda poi i monisti e in particolare le figure di Anassimene e Dionigi di
Apollonia che posero come principio materiale l’aria. Troviamo poi il fuoco di Eraclito e di Ippaso di
Metaponto. Vengono poi menzionati i pluralisti: Empedocle con le sue quattro radici (aria, acqua, fuoco e
terra di cui quest’ultima nuova rispetto agli latri tre elementi già presentati individualmente in passato come
principi), e Anassagora per il quale il principio è infinito e identificato nei semi (che Aristotele chiama
omeomerie). Diverso per monisti e pluralisti è la generazione della realtà dai principi: rarefazione e
condensazione dell’unico sostrato per i monisti, aggregazione e disgregazione dei vari elementi.
Alcuni pensatori antichi per Aristotele ebbero il merito di introdurre una causa motrice che fosse in grado di
spiegare il movimento che dalla privazione o potenza porta alla forma o atto. Tra questi Aristotele cita
Parmenide e introduce parte della sua dottrina legata all’immobilità e alla negazione del movimento che poi
più avanti criticherà più approfonditamente. L’allusione di Aristotele vede in Parmenide la presentazione di
altre due cause oltre all’uno: questi principi sono quello del fuoco e della notte (una terza via tra verità e
doxa, tra ciò che è e ciò che non è, che permette la comprensione del mondo fisico. Per gli esegeti
Alessandro e Ascelpio il fuoco fungerebbe da causa motrice e la notte da causa materiale.
Oltre Parmenide, l’introduzione di una causa motrice è ravvisabile solo nei pluralisti e in particolare
Aristotele cita Ermotimo e Anassagora di Clazomene, i quali però ponendo come causa motrice il nous
fraintesero il tipo di causa e non la trattarono come una causa finale (come avrebbero dovuto), una critica
che verrà riproposta anche più avanti.

A4: LA CAUSA MOTRICE NEI PRESOCRATICI, PREGI E DIFETTI.


Il confondere quelle che agli occhi di Aristotele sono cause finali con cause motrici non fu prerogativa del
solo Empedocle o Anassagora ma anche di Esiodo e di Parmenide rispetto al ruolo giocato dalle forze di
Amore e Desiderio.
Viene di nuovo citato Empedocle: prima elogiato per aver introdotto, oltre alle quattro radici, due cause
motrici contrapposte, Amicizia e Discordia, la prima responsabile dell’aggregazione e delle cose belle e la
seconda della disgregazione e delle cose brutte; dopo criticato per aver interpretato questi principi non in
direzione di cause motrici ma di principi morali del bene e del male (lettura aristotelica). Empedocle inoltre
utilizzerebbe le quattro radici come se fossero due soltanto: il fuoco da una parte, e aria, acqua e terra
dall’altra.
Tutti i filosofi precedenti hanno perciò trattato due cause (materiale e motrice) ma inconsapevolmente,
come un lottatore non esercitatosi che assesta buoni colpi ma senza averne scienza. La stessa critica rivolta
a Empedocle tocca poi Anassagora colpevole di porre il nous ma di usarlo come un deus ex machina per
spiegare i fenomeni che non riesce a spiegare normalmente (critica presente già in Platone, Fedone).
Viene presentata poi la posizione degli atomisti (Leucippo e Democrito) che riconducono la realtà ad atomi
e vuoto, essere e non essere, ma in modo diverso rispetto agli eleati, ovvero ridando dignità ontologica al
non essere (non essere esiste non meno dell’essere). La varietà degli enti (aggregazione di atomi) viene
ricondotta alle differenze degli atomi rispetto a ordine, posizione e figura. Gli atomisti sono considerati da
Aristotele alla stregua dei monisti in base a due somiglianze: 1) atomi e vuoto come principi materiali (come
acqua, aria e fuoco); 2) ordine, posizione e figura principi responsabili delle modificazioni della materia
(come rarefazione e condensazione).

A5: I PITAGORICI.
Questo è il capitolo riservato ai pitagorici (intesi qui come i diretti seguaci di Pitagora e non come i pitagorici
di seconda generazione contemporanei degli atomisti). La testimonianza di Aristotele, criticata per
moltissimi anni, è stata riscoperta come affidabile in base alle distinzioni che traccia tra le dottrine
pitagoriche e quelle di Platone (contro le tesi medio e neoplatoniche che vedevano in Pitagora
l’antecedente filosofico del loro maestro). Il principio dei pitagorici (il numero e le sue componenti: limite e
illimitato) è per Aristotele, infatti, più vicino alla causa materiale dei presocratici che alle forme platoniche.
La generazione del reale per i pitagorici trae origine dal limite e dall’illimitato, ovvero dal pari e dal dispari
(caratteri del numero) che danno origine all’uno (detto parimpari) e poi da questo agli altri numeri e di
conseguenza al resto della realtà. Aristotele critica qui la falsa sistematicità di tale dottrina e lo fa in
particolare in riferimento all’antiterra (un decimo pianeta inventato per far diventare i pianeti dieci, numero
perfetto, e non nove, come realmente osservabili). Per Aristotele, dunque, anche i pitagorici posero il loro
principio soltanto come una causa materiale.
Aristotele parla poi dei pitagorici di seconda generazione (il riferimento è ad Archita e Filolao, non citati, e
ad Alcmeone, citato). Questi posero come principi alcune coppie di contrari ma ancora li posero come cause
materiali, considerandoli come elementi delle cose, immanenti a quest’ultime.
Viene nuovamente riconsiderato il pensiero degli eleati: meno preciso quello di Senofane (l’appartenenza
alla scuola è dubbia nonostante i numerosi punti di contatto) e Melisso, più puntuale quello di Parmenide,
basato sull’immobilità e sulla negazione del movimento ed elogiato da Aristotele (già in A3) per aver
individuato una terza via per spiegare il mondo fisico, quella dei principi del fuoco e della notte (che
Aristotele riporta con natura) in cui Aristotele vede una causa motrice e una causa materiale.
Aristotele fa qui un riassunto di quanto detto finora, dividendo i filosofi in due gruppi:

1) Coloro che hanno posto soltanto la causa materiale, che sia essa unica (Talete, Anassimene,
Diogene di Apollonia, Ippaso, Eraclito) o molteplice (Empedocle, Anassagora, Leucippo e
Democrito).
2) Coloro che hanno posto, oltre alla causa materiale, anche una causa motrice, che sia essa unica
(Anassagora) o molteplice (Empedocle).

In ogni caso, per Aristotele, nessuno di questi ha parlato delle cause in modo chiaro ed esplicito.
Egli ritorna infine nuovamente sulla dottrina pitagorica dicendo che, nonostante in limite/illimitato sia
ravvisabile la causa motrice e materiale, essi posero il numero non come attributo delle realtà diverse da
questo, ma come sostanza a tutti gli effetti. Viene criticata tale dottrina dicendo che i pitagorici devono
essere considerati alla stregua degli altri materialisti, poiché posero il numero come una realtà materiale
piuttosto che come una causa formale vera e propria (struttura intelligibile della cosa). Il numero nei
pitagorici insomma allude ad una causa formale ma in realtà è ancora soltanto una causa materiale.

A6: PLATONE.
L’intero capitolo è dedicato alla filosofia platonica, riletta alla luce della dottrina aristotelica delle cause.
Questa filosofia viene contrapposta a quella esposta nel capitolo precedente, quella dei pitagorici, con le
quali dottrine vengono confrontate quelle platoniche. Vengono prima rilevate le influenze di Platone: Cratilo
e la filosofia eraclitea da un lato, Socrate dall’altro. Da Eraclito Platone riprende il tema del continuo
scorrere e mutare delle cose sensibili (per cui di queste non è possibile avere scienza); da Socrate invece
Platone riprende la ricerca dell’universale, delle definizioni (quelle realtà che accomunano più cose dello
stesso genere). Combinando queste due influenze viene fuori la dottrina platonica delle Idee: visto che del
sensibile non si può avere scienza perché è in continuo divenire, e perciò non vi si possono rinvenire
universali, allora questi andranno ricercati altrove, nel mondo soprasensibile delle Idee (la realtà vera e
propria dalla quale deriva il mondo sensibile di cui le varie cose ricevono l’esistenza partecipando delle
Forme). Viene a questo proposito mossa da Aristotele la prima critica verso il platonismo, riprendendo la
dottrina dei pitagorici: quando Platone per spiegare il concetto di omonimia (in Categorie sono omonime
due realtà con lo stesso nome ma con essenze diverse. In Platone omonime sono le Forme con le realtà
sensibili: Idea di giustizia e singolo uomo giusto) parla di partecipazione (metexis) delle cose sensibili
rispetto alle Idee non sta inventando nulla ma riprende appieno la concezione pitagorica di imitazione
(mimesis) degli enti sensibili nei confronti dei numeri, cambiandone solo il nome. Aristotele presenta
dunque le due filosofie come affini in molti punti e critica a loro il fatto di non aver spiegato in cosa consista
questo processo di imitazione/partecipazione. Questo, riferito a Platone, non è però vero, in quanto questi
approfondisce cosa sia per lui partecipazione con due teorie: quella del rapporto modello/immagine e
quella della fabbricazione del cosmo sensibile ad opera del Demiurgo (Timeo), che ci fanno dire con
sicurezza che Platone si serva sia del concetto di partecipazione che di quello di imitazione per spiegare il
rapporto mondo intelligibile/mondo sensibile,
Un’altra analogia tra le due dottrine Aristotele la rinviene nell’importanza concessa al numero: nei pitagorici
i numeri sono sostanza delle cose (e strumenti per la conoscenza del reale), per i platonici gli enti
matematici sono realtà a sé stanti a metà strada tra le Idee (per il loro essere eterni e immobili) e il mondo
sensibile (per il loro essere molteplici). Inoltre, come per i pitagorici le realtà sensibili sono formate dagli
elementi dei numeri, così per i platonici gli elementi che compongono le Forme sono gli stessi che
compongono il sensibile; questi elementi nei pitagorici sono il limite e l’illimitato, nei platonici l’Uno e la
Diade, dove il primo risponde ad una causa formale, il secondo ad una causa materiale.
Uno ---- Limite (peras) ---- causa formale
Diade ---- Illimitato (apeiron) ---- causa materiale

Tuttavia, le due dottrine presentano anche molte differenze, evidenziate dallo stesso Aristotele. La prima
consiste nello statuto affidato ai numeri, per Pitagora ancora materiale, trascendente per Platone. La più
grande differenza sta dunque nella scoperta platonica della dialettica (derivata da Socrate) che gli permette
di staccarsi dal sensibile e considerare come vera realtà quella intelligibile e perciò di considerare le Forme
come causa formale e non materiale (come avevano fatto i pitagorici con i numeri). Un’altra differenza sta
nell’interpretazione differente dell’illimitato: per i pitagorici realtà unica, per i platonici diviso in grande e
piccolo e chiamato perciò Diade. Perciò all’Uno platonico corrisponde il limite pitagorico e la causa formale,
mentre alla Diade l’illimitato e la causa materiale. È qui che si innesta l’altra critica di Aristotele verso
Platone: se l’Uno è causa formale e la Diade materiale, allora dalla materia dovrebbe potersi generare un
solo prodotto (es. un solo tavolo dal blocco di legno, un solo figlio dall’utero materno), invece i platonici
fanno derivare dalla Diade tutti i numeri. In conclusione, per Aristotele anche la teoria platonica è confusa e
inadeguata (poiché indaga su sole due delle quattro cause, quella formale delle Idee e dell’Uno e quella
materiale della Diade) al pari delle dottrine presocratiche precedentemente analizzate. Riassumendo per
Platone dalla Diade, in virtù della sua partecipazione all’Uno si generano le Forme (e i numeri); sempre dalla
Diade, in virtù della partecipazione alle Forme, si genera il mondo sensibile.
Tuttavia, è ravvisabile un’incongruenza della disamina aristotelica: nelle ultime righe del capitolo assimila
l’Uno e la Diade di Platone alle cause poste da Anassagora (Intelletto e omeomerie) e Empedocle (Amicizia e
Discordia), solo che precedentemente le aveva definite cause efficienti, definizione che non ritroviamo per
quelle platoniche, ricondotte a quella formale e a quella materiale. Questo passaggio rivela un’ulteriore
incongruenza, nel paragonare le diverse cause platoniche con quelle di Anassagora e di Empedocle, una
causa diventa principio del bene, l’altra del male; tuttavia, per Platone il male non ha una valenza
intelligibile e non è un vero e proprio principio, il male perciò non ha alcuna valenza ontologica ed esiste
solo nel sensibile (Teeteto).

A7: RIEPILOGO.
Questo è un capitolo riassuntivo in cui Aristotele riprende tutte le dottrine trattate finora e le riunisce in
diversi gruppi a seconda della causa trattata:

1) Causa materiale. Fanno parte di questo gruppo tutti i filosofi che hanno considerato una causa
materiale, che sia essa corporea o incorporea, unica o molteplice. Vi ritroviamo Platone (Diade
grande-piccolo, molteplice e incorporeo), i pitagorici (illimitato, uno e incorporeo), Empedocle (le
quattro radici, corporeo e molteplice) e Anassagora (omeomerie, corporeo e molteplice). Pur se non
direttamente menzionati da Aristotele, rientrano in questo gruppo Talete, Anassimene, Eraclito e un
altro filosofo non meglio identificato che pose come causa materiale un elemento più denso del
fuoco e più sottile dell’aria.
2) Causa motrice. Tra coloro che menzionano una causa motrice responsabile del mutamento del
sostrato materiale ritroviamo Empedocle (Amicizia e Discordia), Anassagora (Intelletto) e Parmenide
(Amore).
3) Causa formale. Solo i platonici vengono menzionati nell’aver rinvenuto una causa formale e di
averla identificata con le Forme e con l’Uno. Queste, infatti, non possono essere né cause materiali
(poiché in questo ruolo troviamo la Diade), né cause motrici (perché immobili), perciò saranno
cause formali. In particolare, la Diade partecipando dell’Uno genera Forme e numeri, partecipando
delle Forme dà vita agli enti sensibili.
4) Causa finale. Nessun filosofo tra quelli presentati ha, secondo Aristotele, preso in considerazione la
causa finale, ciò in vista di cui, o meglio, alcuni l’hanno riconosciuta, per poi però trattarla in modo
sbagliato: è il caso di Empedocle e Anassagora che la confondono con una causa motrice (Amicizia e
Intelletto sono principi del bene ma non nel senso del fine da ricercare quanto piuttosto dell’origine
del movimento) ma anche di Platone in cui l’Uno solo accidentalmente è causa finale e più
propriamente si comporta da causa formale nel suo essere principio del bene (in poche parole l’Uno
sarebbe alla base dell’esistenza delle cose, la loro essenza, ma non rappresenta il fine per il quale
queste esistono).

Il capitolo si conclude con un autoelogio di Aristotele verso la sua dottrina, che sembra essere perciò più
completa di quella di tutti gli altri filosofi che l’hanno preceduto in quanto questi, al contrario dello Stagirita,
non hanno trattato in maniera corretta tutte le tipologie di cause evidenziate dallo stesso.

A8: PRIMA CONFUTAZIONE (MONISTI, EMPEDOCLE, ANASSAGORA, PITAGORICI).


I capitoli 8 e 9 sono dedicati alla confutazione delle dottrine precedentemente esposte. In questo capitolo
troviamo le critiche a: 1) i monisti; 2) a Empedocle; 3) ad Anassagora; 4) ai pitagorici. Il capitolo successivo
sarà invece dedicato interamente alla confutazione della dottrina platonica.

1) Riguardo i monisti, qui Aristotele non cita nessuno ma in base alla chiamata in causa dei principi di
acqua, fuoco e aria non è difficile individuare i suoi bersagli: Talete, Anassimene e Diogene, Eraclito
e Ippaso. Quattro sono i loro errori:
a) Aver considerato i soli enti corporei.
b) Non aver fornito una spiegazione del movimento (che pure è un tratto caratterizzante del
mondo sensibile).
c) Non aver ricercato l’essenza delle cose, non averne fornito quindi una causa formale.
d) Aver accordato importanza ad un solo principio, senza tener conto del perché sia
ontologicamente privilegiato rispetto agli altri, e senza aver considerato il trasformarsi dei
principi l’uno nell’altro. Non tengono conto, perciò, di cosa venga prima secondo riunione
(l’elemento primo sarà quello più semplice, cioè il fuoco dal quale deriverebbero gli altri) e cosa
invece venga prima secondo separazione (l’elemento primo sarà il più complesso, ovvero
l’acqua o la terra, che nessuno dei monisti ha considerato, dal quale per separazione si
genererebbero gli altri elementi).
2) Come per i monisti, anche le quattro radici di Empedocle sembrano non bastare per spiegare la
natura. Due sono le obiezioni di Aristotele verso l’agrigentino: a) il carattere di eternità e
immutabilità che Empedocle concede ai suoi principi; b) l’incertezza e l’incoerenza di Empedocle nel
decidere se la causa motrice sia una o duplice.
a) Assumendo l’immutabilità delle radici, Empedocle negherebbe la stessa generazione (e
corruzione) alterazione delle realtà sensibili. E per tener conto di questa non sarebbe ricorso
neanche ad un unico sostrato materiale che mutando da origine al resto del mondo (come i
monisti, che difatti hanno identificato generazione con alterazione.
b) È questa una critica, riguardo l’ambiguità della causa motrice empedoclea, che Aristotele aveva
già presentato: le forze di Amore e Discordia non tengono fede alla loro natura e a volte Amore
separa e Discordia riunisce. Per Aristotele, quindi, non varrebbe la pena di identificare due
cause motrici in quanto ognuna sembra poter compiere entrambe le azioni.
3) Anassagora è l’unico tra i pensatori qui trattati a ricevere una certa importanza da Aristotele, anche
se egli non si spinse fino alle conclusioni più estreme che i suoi ragionamenti implicavano. La
dottrina anassagorea infatti per Aristotele potrebbe essere accostata ad altre più recenti, come
quella platonica, e questo per la somiglianza dei principi che i due filosofi hanno posto: l’Intelligenza
anassagorea (detta Uno per sottolinearne la natura unica e non mescolata) sembra rimandare
all’Uno platonico e quindi ad una causa formale, mentre il secondo principio (mescolanza di tutti gli
elementi, detta altro per distinguerla dall’unicità del nous) sembra rimandare alla Diade platonica e
quindi ad una causa materiale. Questa lettura che contrappone il nous alla mescolanza
collocherebbe Anassagora più in alto rispetto agli latri filosofi della natura; non se si propende per
una seconda interpretazione che vede anche l’Intelletto invischiato nell’assoluta mescolanza e non
ad essa estraneo. Anassagora è quindi trattato in maniera duplice: positiva per aver intuito una
causalità diversa rispetto ad altri filosofi, negativa per non aver spinto le sue giuste intuizioni fino ad
una dottrina delle cause completa.
4) Con Anassagora si chiude il capitolo esclusivamente dedicato ai materialisti (dato che anche la
dottrina di Anassagora si risolve in una trattazione del solo mondo sensibile). Comincia quindi la
trattazione di questi filosofi che trattarono anche le sostanze incorporee, ovvero Pitagora (qui in A8)
e Platone (in A9). La critica contro i pitagorici si suddivide in quattro punti:
a) Pur avendo posto dei principi più vicini a realtà incorporee rispetto a quelle dei naturalisti, i
pitagorici continuarono ad occuparsi del mondo sensibile.
b) Non hanno posto una spiegazione al movimento e al mutamento del sostrato, non hanno perciò
posto una causa motrice. Impossibile, perciò, spiegare anche generazione e corruzione, dato
che sempre di movimento si parla.
c) Pur ammettendo che dal numero intelligibile possa discendere la realtà, non sarebbe
ugualmente possibile spiegare le proprietà degli enti sensibili a partire dalle proprietà dei
numeri (pesantezza e leggerezza, ad esempio, sono proprietà degli enti naturali e non delle
realtà matematiche).
d) Un’ultima contraddizione dei pitagorici è la seguente: da una parte hanno identificato numeri e
cose sensibili, dall’altra hanno detto che i numeri sono cause dei corpi sensibili,
contraddicendosi. Sarebbe stato più coerente distinguere due tipologie di numero, come fa
Platone a proposito dei numeri matematici (intermedi tra Idee e mondo sensibile) e dei n
numeri intelligibili (Idee dei numeri). Numero numerante (intelligibile) vs numero numerato
(sensibile). I pitagorici invece parlano di un solo numero che coincide con le cose naturali ed è
quindi non causa formale ma materiale.

A9: SECONDA CONFUTAZIONE (PLATONE).


L’intero capitolo 9 è dedicato alla confutazione dei platonici rispetto alla loro teoria delle Idee, quella degli
enti matematici e quella dei principi. Aristotele, infatti, sostiene che questi hanno irragionevolmente
duplicato la realtà opponendo le Idee intelligibili alle cose sensibili, in modo che ad ogni cosa della natura si
faccia corrispondere un’idea che ne condivide il nome. Ecco un primo errore: se per i platonici le Idee sono
in numero minore rispetto alle cose sensibili, per Aristotele queste devono essere dello stesso numero o
comunque non inferiori di numero.
Aristotele continua poi smontando quegli argomenti che per i platonici dimostrerebbero l’esistenza delle
Idee (sostenendo che tali argomenti dimostrerebbero fin troppo, ovvero l’esistenza di tipi di Idee che
neanche i platonici accettano). Interessante è notare come Aristotele per parlare dei platonici utilizzi la
prima persona plurale, facendo passare l’immagine di un Aristotele ancora legato alla scuola platonica ma
comunque pronto a metterne in discussione le dottrine fondanti. Quattro sono i contro-argomenti di
Aristotele, testimoniati da Alessandro di Afrodisia (contenuti nel testo De ideas di Aristotele a noi non
pervenuto):

1) Argomento “desunto dalle scienze”: per i platonici gli oggetti delle diverse scienze sono oggetti
eterni ed immutabili (perciò non sensibili) che fungono da modello per i sensibili. I platonici
chiamano questi oggetti Idee. Ebbene per Aristotele, questo argomento non dimostra l’esistenza
delle Idee ma solo di qualcosa di diverso rispetto agli oggetti sensibili e singolari (non è detto quindi
che queste siano Forme).
2) Argomento “uno sui molti”: per i platonici esiste un uno al di sopra dei molti che conferisce dignità
ontologica alle cose sensibili, con cui non si identifica e da cui è separato: è solo in vista dell’Idea
intelligibile di uomo che ogni uomo è un uomo. Per Aristotele tale argomento dimostra però anche
l’esistenza di Idee non accettate dagli stessi platonici: Idee di negazioni e di cose che non esistono.
Anche non-uomo (che si predica di qualunque cosa non sia un uomo), seguendo questo
ragionamento, è uno su molti, ma ammettere un’Idea del non-essere è assurdo.
3) Argomento “del pensare qualcosa anche dopo che questo si sia corrotto”: per i platonici noi siamo
in grado di pensare ad un uomo anche dopo che questi è morto, è perciò chiaro che ciò che
pensiamo va al di là del sensibile e dell’individuale, e poiché non possiamo pensare ciò che non
esiste, ciò che pensiamo sono dunque le Idee. Per Aristotele neanche questo argomento dimostra
l’esistenza delle Idee, in quanto se si è in grado di pensare ciò che non c’è più, le Idee appunto,
allora si dovrebbe ammettere l’esistenza di Idee di cose che non esistono ma di cui abbiamo una
certa nozione (chimera e centauro). Anche in questo caso si arriva all’assurdità del postulare un’Idea
del non-essere.
4) Qui Aristotele passa a trattare gli argomenti platonici più rigorosi (definizione data non da Aristotele
ma da Alessandro), quelli che non si limitano a postulare l’esistenza delle Idee ma che fanno
riferimento alla loro paradigmaticità pur sollevando nuove problematiche (esistenza di Idee di
relativi (a), non ammesse dai platonici, e terzo uomo (b)).
a) Per quanto riguarda l’esistenza delle Idee dei relativi, Aristotele prende ad esempio quello
dell’”uguale”, trattato dallo stesso Platone nel Fedro in merito alla prova dell’immortalità
dell’anima (basata sulla sua reminiscenza). L’esistenza dell’Idea di uguale che dimostra
l’uguaglianza degli enti sensibili che partecipano di tale Idea, è per Aristotele la prova
dell’esistenza di Idee di relativi, essendo il concetto di uguale relativo. I platonici stessi, nella
visione di Alessandro, smentivano l’esistenza di Idee di relativi in quanto per loro le Idee
sussistono di per sé, mentre l’essere dei relativi sussiste nel rapporto degli uni con gli altri,
secondo la stessa definizione di relativi che diede Aristotele nelle Categorie.
b) Pur ammettendo che le Idee esistano e siano separate dal sensibile come i platonici vogliono,
dovremmo ammettere l’esistenza di una terza Idea, intermedia rispetto all’Idea intelligibile e
alle cose sensibili che si predicano di questa. L’esempio riportato è quello dell’uomo, da qui la
contro-argomentazione del terzo uomo, una classe intermedia che condivida le caratteristiche
delle altre due. Non solo, ammettendo l’esistenza di un terzo uomo, ce ne sarà poi un quarto, e
un quinto, e così all’infinito. È questo l’errore, secondo Aristotele, in cui cade chi ipostatizza
(ovvero rende separate) quelle realtà che invece non sono altro che dei predicati comuni a più
soggetti. Per Aristotele, dunque, è impensabile che una cosa tragga il suo essere da un’Idea ad
essa separata, e la moltiplicazione degli enti che ne deriva (infiniti uomini tra l’uomo sensibile e
l’Idea di uomo) ne è la spiegazione dell’insufficienza teorica. Piuttosto per Aristotele un ente
trae il proprio essere da sé stesso (immanenza).

L’obiezione aristotelica mira poi a far notare come le due dottrine più importanti nello schema platonico
(quella delle Idee e quella delle cause, quindi dell’Uno e della Diade, da cui derivano le stesse Idee) non
possano coesistere. Questa obiezione parte ancora una volta dalle conseguenze paradossali in cui
cadrebbero i platonici considerando le Idee come qualcosa di separato, ipostatizzato, rispetto al sensibile, e
non semplicemente come un predicato comune a più enti. Così facendo infatti, la stessa Diade non sarebbe
più principio delle Idee ma deriverebbe a sua volta dall’Idea di Diade.
Inoltre, per Aristotele le Idee platoniche non rappresentano altro che un’inutile copia della realtà sensibile
sia che si consideri la loro sinonimia che la loro omonimia rispetto alle cose sensibili: se sono sinonimi allora
hanno la stessa sostanza e sono la stessa cosa, per cui le Idee non sono superiori alle cose sensibili; se sono
omonimi non ci sarà nulla in comune tra Idee e copie sensibili, per cui viene a cadere qualunque ipotesi di
paradigmaticità e causalità.
A questo proposito Aristotele vaglia la teoria platonica delle Idee attraverso quella propria della causalità,
per far notare come le Idee non possano fungere né da causa motrice, né da causa formale. Non da causa
motrice poiché queste sono immobili ed eterne, e sembra impossibile che da queste cose immobili
scaturisca il movimento che contraddistingue il mondo sensibile. Né da causa formale proprio in virtù della
loro ipostatizzazione, della loro separatezza con i sensibili che dovrebbero dunque trarre il loro essere da
loro stessi.
Ora Aristotele passa a confutare il fatto che gli enti sensibili possano derivare dalle Idee, e lo fa confutando i
modi in cui questa derivazione accadrebbe (per i platonici): paradigmaticità, partecipazione e imitazione. In
particolare, imitazione e partecipazione perdono ogni loro dignità e vengono ridotte da Aristotele a
metafore poetiche, parole vane, in quanto è possibili, anche non ponendo un modello ideale, che si
generino cose simili. Cade quindi ogni rapporto copia-modello (anche quello relativo alla costruzione del
mondo sensibile ad opera del Demiurgo), il quale, se fosse ammesso, si dovrebbe ammettere anche la
partecipazione di una cosa sensibile ad una molteplicità di Idee (l’esempio è quello dell’uomo che
parteciperà e sarà copia non solo dell’Idea di uomo, ma anche di animale, di bipede, e così via). E allo stesso
modo ci dovrebbero essere delle Idee che fungano da modello di altre Idee che saranno loro copie (Idea di
uomo che è modello dell’uomo sensibile ma copia dell’Idea di animale).
Inizia qui una nuova critica che Aristotele rivolge a Platone: quella secondo la quale le Idee sono numeri, e
in qualità di numeri, cause del sensibile (dottrina che non traiamo dai dialoghi, ma che fu parte degli
agrapha dogmata, delle lezioni orali intorno al Bene delle quali Aristotele è il principale testimone).
Aristotele si chiede in che modo i numeri intelligibili, Idee-numero, possano essere la causa del sensibile.
Una spiegazione poterebbe essere che gli stessi enti sensibili sono numeri. Ma a questo punto dovrebbe
esserci una differenza tra i due tipi di numero, altrimenti sarebbero la stessa cosa. Ma questa differenza non
può risiedere soltanto nell’eternità delle Idee in quanto eternità non è sinonimo di causalità. Se invece si
considerano gli enti sensibili non più come numeri ma come rapporti numerici, poiché in tal caso anche le
Idee dovrebbero essere rapporti numerici e dunque non semplici ma composte di parti (l’esempio è quello
di Callia dove la sua Idea = rapporto numerico di aria, acqua, terra e fuoco, e della sua Idea corrispondente,
l’Idea di uomo = rapporto numerico delle Idee di aria, acqua, terra e fuoco). Così dicendo per Aristotele è
chiaro che le Idee non possano essere numeri e che non siano semplici ma composte.
Inoltre, le Idee non possono essere numeri poiché i numeri si generano dall’addizione di più numeri mentre
le idee non nascono dall’addizione di più Idee.
Per Aristotele è inutile anche la nozione intermedia di numero matematico (intermedio tra il numero-Idea e
il numero sensibile), proprio perché se intermedio dovrebbe condividere caratteristiche con gli altri due
livelli, ma, a questo punto, se condividesse le sue unità di cui è composto con il numero-Idea sarebbe allora
lo stesso numero intelligibile, e viceversa considerando il rapporto con il numero sensibile.
Si è quindi detto che né le Idee né i principi platonici dell’Uno e della Diano posso svolgere il ruolo di cause
motrici (per via della loro immobilità) né di cause formali (Idee come nient’altro che un duplicato del mondo
sensibile, dove il rapporto che intercorre tra le due realtà, la partecipazione, non è altro che una metafora
poetica). Ma per Aristotele questi principi non possono corrispondere nemmeno ad una causa finale (ciò in
vista di cui, la causa più scientifica per Aristotele, in quanto ci ridà la cosa conosciuta nella sua interezza e
realizzazione, ovvero nella sua entelechia), particolarmente importante nel pensiero aristotelico, che
pertanto è stato definito teleologico o finalistico. Ricapitolando, per Aristotele, i principi platonici atti a
spiegare la realtà, in verità non spiegano né l’origine del movimento, né l’essenza delle cose, né il loro fine.
Aristotele imputa questo fallimento platonico al fatto che Platone considerò come scienza epistemologica
privilegiata la matematica invece che la filosofia. Questo fatto però noi sappiamo non esser vero: Platone
infatti nella Repubblica, esponendo la propria teoria gnoseologica ed epistemologica, accorda priorità alla
dialettica rispetto alle scienze matematiche (viste come il “preludio della vera canzone che si deve
imparare”). Questa priorità la si ritrova anche analizzando la teoria platonica della linea divisa, dove la
dianoia (ragione discorsiva che si occupa degli enti matematici) è sottoposta alla noesis (contemplazione
delle Idee).
La critica aristotelica investe poi la concezione platonica degli enti geometrici che nella visione dello
Stagirita non possono essere né Idee (perché le Idee sono numeri), né realtà intermedie (perché non sono
di natura matematica), né possono appartenere al sensibile (poiché nel sensibile vige corruzione e
mutamento). Per descriverli c’è dunque bisogno di un quarto ordine di realtà che però non trova spazio
nella dottrina platonica.
Continua Aristotele commentando la pretesa platonica di trovare principi che siano comuni a tutti gli enti
(Uno e Diade). L’argomentazione aristotelica si basa su due argomenti: la polivocità dell’essere e le
categorie. Secondo la prima sostiene che l’essere non è univoco ma pollakòs (può dirsi in molti modi) ed è
perciò impossibile ridurre ad unità tutte le sfumature degli esseri per far in modo che sottostiano ad un
unico principio (l’essere è polivoco e perciò polivoci saranno i principi). Secondo le categorie, i principi validi
per una di queste non sono adatti a descrivere le altre, data l’impossibilità di ridurre tutte le categorie ad
unità.
Allo stesso modo se si ammettesse che gli enti hanno tutti gli stessi elementi, si dovrebbe ammettere
l’inutilità della molteplicità delle scienze che studiano i loro oggetti a partire dai principi che gli sono propri e
dire invece che esiste soltanto un’unica scienza universale dell’essere. Tuttavia, è impossibile ipotizzare tale
scienza universale senza considerare le conoscenze particolari provenienti dalle altre scienze (troviamo qui
una critica implicita alla teoria platonica della reminiscenza espressa nel Menone, dove uno schiavo riesce a
dimostrare un teorema geometrico pur essendo ignorante in materia. Per Aristotele dunque nessuna
scienza è innata e qualsiasi conoscenza presuppone conoscenze precedentemente acquisite (si pensi alla
definizione di uomo come animale razionale; dovrò prima sapere cosa significhino gli altri due termini per
poter comprendere cosa vuol dire uomo). In questo modo una scienza universale che annulli quelle
particolari sarà impossibile, dato che senza le conoscenze particolari non ci sarà neanche quella universale.
La conclusione del capitolo contesta la scarsa o nulla rilevanza che nella teoria platonica è riservata alla
sensazione. Se per Platone questa è fuorviante, per Aristotele è un primo passo obbligatorio per approdare
alla vera sapienza, niente sarà nell’intelletto che prima non sia passato attraverso i sensi.

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