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Storia della filosofia I

Antonio Gargano, A. Glielmo

Pubblicato: 2011
Categoria(e): Saggistica, Scienze Umane, Filosofia, Epistemo-
logia, Logica, Sociale
Tag(s): philosophy

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Capitolo 1
Che cos'è la filosofia

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Il termine filosofia
Diogene Laerzio, uno scrittore del III secolo d.C., alle cui Vite
dei filosofi attingiamo la maggior parte delle notizie sui primi
pensatori greci, riporta in questa forma un aneddoto circa il
primo filosofo, Talete: «Si narra che, tratto di casa da una vec-
chia per contemplare gli astri, cadde in un fosso, e la vecchia ai
suoi gemiti disse: “Tu, o Talete, non sai vedere le cose che sono
tra i piedi e credi di poter conoscere le cose celesti?”». Questo
breve racconto è estremamente significativo circa l’interpreta-
zione che del filosofo e della filosofia dà il senso comune, l’opi-
nione comune: il filosofo vive tra le nuvole (il commediografo
Aristofane descriverà appunto Socrate, il filosofo per eccellen-
za, che vive in un «pensatoio» sospeso fra le nuvole), preso dal-
le sue astrazioni, lontano dal mondo reale e concreto. Il «buon
senso» dileggia dunque la filosofia come quella disciplina inuti-
le che «lascia il mondo tale e quale».
Per avviarsi a comprendere che cosa è «filosofia» è senz’altro
utile cercare di capire da che cosa essa si distingue (tra l’altro
uno dei compiti principali della filosofia è quello di cogliere
l’«essenza» delle cose, cioè «ciò per cui le cose sono quello che
sono» e si distinguono dalle altre). È dunque importante stabi-
lire questa prima distinzione: fin dalle proprie origini
la filosofia è stata percepita come distinta dal senso comune.
Mentre il senso comune, l’opinione si ferma alla superficie del-
la realtà, si accontenta di fermarsi a come essaappare ai sensi,
si arresta dunque al fenomeno (dal greco φαίνομαι = appari-
re), la filosofia va oltre l’apparenza, trascende (dal lati-
no trans, al di là di, oltre) il dato, cioè quel che ci sta davanti,
ponendosi alla ricerca di ciò che è al di sotto di ciò che appare,
della sostanza (dal latino substantia, che sta sotto, che è a fon-
damento di).
La filosofia è dunque diversa dal senso comune e spesso è in
polemica con questo. Filosofare non significa semplicemen-
te pensare (il pensiero è un’attitudine generica dell’uomo, che
pensa anche quando deve svolgere un’attività banale, come per
esempio prendere un autobus). Ma in che cosa consisterà que-
sto specifico tipo di pensiero che è il pensiero filosofico? Filoso-
fare — dice Hegel, il maggiore pensatore dell’età post-classica
— è un po’ come nuotare : non si può veramente imparare a

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nuotare se non ci si getta in acqua. Così non è possibile com-
prendere in che cosa consiste il filosofare prima di esercitare la
filosofia. (Anzi, dice Hegel, la filosofia non si può definire
all’inizio: la sola sua definizione «è il risultato dell’intera inda-
gine» filosofica stessa).
A questo punto nel corso dell’incontro c’è stato un primo mo-
mento di dialogo, con tentativi di definizione della filosofia da
parte di alcuni studenti. Ne è emerso il problema del rapporto
della filosofia con la scienza e si è discussa la definizione della
filosofia come un «ragionare per raggiungere fini». Si è rileva-
to come le definizioni contenessero tutte qualche elemento uti-
le. E questo non a caso. Si è detto infatti che la filosofia si diffe-
renzia per esempio dalla religione, in quanto questa tende a co-
gliere la Verità, l’Infinito, Dio, con uno slancio unico, immedia-
to, della fede o del sentimento, mentre la filosofia è invece sfor-
zo di cogliere la Verità attraverso un percorso, attraverso una
serie di passaggi, di mediazioni (= termini intermedi) : in que-
sto senso anche una definizione parziale o anche erronea può
comunque segnare un avanzamento verso la verità ricercata. Si
può dunque dire che la filosofia è un ragionare volto a fini, an-
che se si dovrà cercare di distinguere questo ragionare da
quello per esempio di un artigliere che anch’egli ragiona su co-
me raggiungere il fine di centrare il suo bersaglio con i proiet-
tili a disposizione. I «fini» di cui si occuperà la filosofia saranno
i fini «ultimi», quelli cioè che riguardano l’orientamento com-
plessivo, il «destino», dell’individuo come dell’umanità intera.
Il ragionare è comunque senz’altro connaturato al-
la filosofia, ne è un carattere decisivo, carattere che la diffe-
renzia dalla religione, in cui predominano, come si è detto, al-
tre attitudini umane, quali fede e sentimento, o dall’arte che,
pur non essendo una manifestazione arbitraria come molti oggi
tendono a pensare, è pur sempre espressione di una capacità
creativa, di una ispirazione, di una «divina mania», come disse
Platone.
Tra filosofia, arte e religione c’è un elemento di affinità, si può
dire infatti che esse hanno lo stesso contenuto, mirano allo
stesso oggetto: la Verità, l’Universale, il Divino, il Sostanziale,
la Totalità. L’arte però coglie l’universale sotto la forma di im-
magine sensibile, come insieme di colori, di note, di versi, etc.
La religione coglie l’universale sotto la forma

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di rappresentazione, anch’essa in qualche modo legata al sensi-
bile (le leggende, le narrazioni, le parabole, etc.). La filosofia
coglie invece l’universale nella forma del ragionamento, si sfor-
za cioè di cogliere la sostanza della realtà quale essa è, e
la sostanza (appunto ciò che sta al di sotto delle apparenze) è il
logos (λόγος), una ragione presente nelle cose.
Questa è la grande scoperta della civiltà greca, base della filo-
sofia, della scienza e della civiltà moderna: dietro
l’apparente molteplicità dei fenomeni, al di sotto dell’apparen-
te disordine delle manifestazioni della natura, c’è invece un
profondo ordine, c’è una rigorosa logica, e la mente umana è
perfettamente in grado di riconoscere e di capire quest’ordine,
questa logica: c’è un’intima affinità, c’è un’omogeneità fra la
logica delle cose e la logica della mente umana.
La vera alba dell’umanità, dell’Uomo come noi lo intendiamo,
consapevole cioè del mondo e di se stesso, spuntò dunque in
Grecia. Le altre civiltà, il mondo orientale, erano vissute nel
torpore del mito, si erano cioè sottomesse alla natura conside-
randola imperscrutabile, misteriosa, mossa da forze occulte e
sovrannaturali, minacciose per l’uomo, posto in loro balìa. Que-
sta visione del mondo è ben riflessa dall’arte orientale che ama
le dimensioni sovrumane, le raffigurazioni di animali e di divi-
nità potenti e terribili. L’arte greca invece, con la centralità
della figura umana, colta nella sua armonia, con perfetto senso
delle proporzioni, testimonia della centralità e della potenza
dell’uomo nella mentalità greca, che raffigura gli stessi dei con
figura umana e proporzioni umane. Emblema della mentalità
mitica, è la Sfinge, che sovrasta l’uomo con la sua enigmaticità.
Ma, secondo la leggenda, un uomo greco, Edipo, risolve l’enig-
ma della sfinge e la precipita nell’abisso: illogos sconfigge
il mito, l’uomo si accinge alla comprensione della realtà e della
propria posizione nella realtà.
Torniamo al problema del rapporto fra filosofia e scienza: figlie
entrambe della civiltà greca, scaturiscono entrambe dall’uso
delle facoltà conoscitive superiori, dall’uso della ragione. Sono
dunque affini nella forma, ma differiscono per contenuto: la fi-
losofia tende infatti all’universale, alla totalità, mentre le scien-
ze si occupano di settori, di aspetti particolari della realtà (i fe-
nomeni fisici, gli organismi biologici etc.). Nate in Grecia da un
crogiuolo comune (i primi pensatori greci erano spesso insieme

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filosofi, astronomi, meteorologi, geografi, biologi, etc.), le
scienze particolari si sono via via nella storia distaccate dalla
filosofia (prima la matematica, poi la fisica, quindi la chimica,
infine la biologia e le scienze che si occupano dell’uomo).
La filosofia è la scienza universale dei principi delle singole
scienze (la definizione è di Hegel), nel senso che, lungi dall’op-
porsi alle scienze, vuole anzi fondarle, dare cioè loro fonda-
menti logici, metodologici, concettuali rigorosi. Le scienze par-
tono infatti sempre da determinati presupposti, che danno per
scontati, e che vanno invece anch’essi passati al vaglio della
critica razionale, come fa la filosofia (o, meglio, come dovrebbe
fare: assistiamo infatti nella nostra epoca a una grave crisi del
pensiero filosofico). È in sede filosofica che vengono discusse
categorie (come per esempio la categoria di causalità) di uso
comune nelle scienze, è la filosofia che analizza la validità dei
metodi (deduttivo = dall’universale al particolare, come nelle
dimostrazioni matematiche; induttivo = dal particolare all’uni-
versale, come nella fisica) usati nelle scienze, etc.. Soprattutto
le scienze non analizzano criticamente i propri presupposti,
che vengono invece indagati dalla filosofia. Anche la più rigoro-
sa fra le scienze, la matematica, per esempio, parte sempre da
alcuni presupposti (assiomi) che essa stessa non può provare.
Su quali fondamenti sussistono questi assiomi? La risposta non
viene data nell’ambito della matematica. Riepilogando: un limi-
te delle scienze particolari è che in esse si parte da princìpi
non dimostrati, la filosofia si pone invece come scienza dei
princìpi delle scienze singole.
Un’ulteriore differenza fra scienza e filosofia è stata rilevata
nel distacco fra lo scienziato e il suo oggetto (dal latino obiec-
tum = che sta di fronte) e nel coinvolgimento invece del filoso-
fo nell’oggetto stesso delle sue indagini. Non si tratta, ovvia-
mente, del coinvolgimento emotivo: un astronomo, uno zoologo
o anche un matematico possono senz’altro essere emotivamen-
te partecipi delle loro ricerche, prenderne a cuore i risultati,
sentirsi impegnati con tutta la loro persona nella ricerca, ma
dal punto di vista conoscitivo ciò che indagano è altro da loro
stessi (corpi celesti, animali, figure geometriche, etc.). Anche il
biologo o lo psicologo, che si occupano dell’uomo, si occupano
di un uomo oggettivato, «altro» da loro stessi, «altro» dal sog-
getto osservante. Nella ricerca filosofica invece c’è una

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profonda compenetrazione di soggetto e oggetto, né potrebbe
essere diversamente, vista l’aspirazione della filosofia alla tota-
lità, cui si è accennato.
Questo carattere della filosofia è implicito nel termine stesso
che la designa. Il termine «filosofia» infatti, è composto
da φιλέω (amo) e σοφία (sapienza), etimologicamente quindi
sta a significare «amore della sapienza». Le due componenti
del termine includono uno «sapienza», l’oggetto cui si tende,
l’altro «amore», la tensione del soggetto. Le implicazioni che
ne scaturiscono sono mirabilmente analizzate da Platone nel
suo dialogo Simposio (o Convito): la filosofia è connessa con
l’amore, amore scaturisce, secondo il mito greco, da Eros, Eros
è figlio di πενία , penìa, la povertà ( da cui l’italiano penuria)
e πόρος, il guadagno, la ricchezza. L’atteggiamento filosofico,
cioè l’amore per la sapienza, scaturisce dunque da un avere e
da un non avere contemporaneamente: se si fosse ricchi della
sapienza, se si possedesse già la sapienza, si sarebbe semplice-
mente “saggi” e non “filosofi”. Essere filosofi implica dunque
mancare della sapienza (e averne desiderio), essere ignoranti.
Ma insieme l’essere filosofo implica l’avere già un qualche sa-
pere, possedere già una certa conoscenza di quello che si cerca
(altrimenti non si cercherebbe neppure), implica avere un sen-
tore o una nostalgia (per dirla con un termine romantico) della
verità: l’animale, il bruto, che si trova in una situazione di asso-
luta ignoranza, neppure cerca la sapienza.
La condizione del filosofo, a metà strada fra ignoranza e sa-
pienza, implica un essere sempre in cammino e diventa emble-
matica della stessa condizione dell’uomo, che non è né un Dio
onnisciente, né un bruto assolutamente inconsapevole. Il filoso-
fo, l’uomo, è un essere in cammino, è un essere perfettibile.
La filosofia rimane sempre «amore del sapere»: si avvicina al
suo oggetto, la Verità, ma non la coglie mai pienamente, né po-
trebbe essere altrimenti. Dal punto di vista ontologico (l’ontolo-
gia è la parte della filosofia che si occupa delle strutture ultime
della realtà) il cogliere pienamente l’oggetto sarebbe possibi-
le diventandol’oggetto stesso, sciogliendosi, per così dire, co-
me soggetto. Ma il soggetto ricercante, il filosofo, rimane tale,
non si annienta nell’oggetto, ne resta quindi sempre a una cer-
ta distanza, non lo raggiunge mai pienamente, non raggiunge
mai pienamente la Verità. La ricerca filosofica è quindi

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inesauribile, e comunque mai paga dei risultati raggiunti. Que-
sto non implica però il ricadere nell’ignoranza, nello scettici-
smo, bensì uno sforzo continuo di appropriarsi della verità.
Questo carattere della filosofia è ben espresso dal filosofo neo-
platonico Niccolò Cusano, che paragona laconoscenza perfet-
ta della verità a una circonferenza, in cui è inscritto
un poligono, che rappresenta invece laconoscenza umana, lo
sforzo filosofico di raggiungere la verità. Se si moltiplicano i la-
ti del poligono, aumenteranno i punti di intersezione fra questo
e la circonferenza (sempre più aspetti della verità vengono rag-
giunti dall’uomo), senza però che mai il poligono finisca col
coincidere con la circonferenza, anche procedendo indefinita-
mente nella moltiplicazione dei lati. Pur non raggiungendo
punti conclusivi, la ricerca filosofica, cioè, amplia indefinita-
mente gli orizzonti umani, la consapevolezza che l’uomo ha di
sé e del mondo.
La filosofia implica quindi una ricerca inesauribile delle strut-
ture più profonde della realtà (= oggetto), come del posto che
la nostra umana esistenza occupa in essa e quindi dei compiti
che l’uomo (= soggetto) è chiamato ad assolvere.
Questa compresenza di soggetto e oggetto nella ricerca filoso-
fica non deve però portare a ritenere (come fa l’opinione comu-
ne in disprezzo del rigore della filosofia) che la ricerca filosofi-
ca sia qualcosa di soggettivo nel senso di arbitrario (è oggi fre-
quente l’errore di considerare soggettivo = individuale = arbi-
trario).
Si tende oggi a confondere la filosofia con la Weltanschauung,
come si dice con una parola tedesca composta da Welt (= mon-
do) e Anschauung (= visione, opinione). La filosofia, come si è
detto all’inizio, si distingue dall’opinione. La filosofia, in quanto
tensione verso l’oggettivo, è ben diversa dalla «visione del
mondo» soggettiva, che ognuno si fabbrica, per così dire, da
sé. «Se si prende la filosofia sul serio — ha affermato in un suo
corso di lezioni del 1962 all’Università di Francoforte il filosofo
tedesco Theodor Adorno — il compito della cultura filosofica
deve consistere nella liberazione, attraverso lo stesso lavoro fi-
losofico, da questa idea che uno possa scegliere la
sua Weltanschauung adottando quella che più gli si attaglia —
idea in cui è già implicitamente presente quella di una mancan-
za di necessità e rigore onde la filosofia viene privata della sua

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pretesa di verità. [… ] Direi che la filosofia ha il compito di li-
quidare l’opinione, e cioè di andare al di là di tutte le convin-
zioni che uno ha scelto semplicemente perché gli si attagliano
[… ]. «La filosofia — abbiamo concluso, riprendendo le parole
di Hegel — è scienza oggettiva della verità, scienza della ne-
cessità della verità, conoscenza concettuale, e non già opinare
e filza di opinioni».

Testi

C’imbattiamo quindi subito nella veduta assai comune intor-


no alla storia della filosofia, secondo cui essa non dovrebbe far
altro che ritessere la narrazione delle opinioni filosofiche quali
esse si sono presentate e sono state esposte nel corso dei tem-
pi. Quando si parla con urbanità, a questo materiale si dà il no-
me di opinioni; quelli invece che credono di poter dare un giu-
dizio più profondo, chiamano questa storia addirittura galleria
delle pazzie, o almeno dei traviamenti dell’uomo che si inabissa
nel pensiero e nei puri concetti. Tale veduta la si può udir ma-
nifestare non soltanto da coloro che confessano la loro ignoran-
za in fatto di filosofia (ed essi la confessano, perché secondo
l’opinione comune l’ignoranza non può far loro ostacolo a sen-
tenziare su ciò che sia filosofia, anzi ognuno è sicuro di poter
giudicare del valore e dell’essenza della filosofia senza capirne
un’acca), ma anche da persone che hanno scritto e scrivono
storie della filosofia. Una storia, concepita in tal modo come
una filastrocca di opinioni diverse, diventa curiosità oziosa, o,
se si vuole, interesse di semplice erudizione. Infatti l’erudizio-
ne consiste principalmente nel sapere una quantità di cose inu-
tili, che non hanno in sé alcun contenuto e alcun interesse
all’infuori di quello costituito appunto dal semplice fatto
d’averne conoscenza.
Tuttavia si crede ugualmente di trarre profitto dalla cono-
scenza delle varie opinioni e dei vari pensieri degli altri: si cre-
de ch’essa metta in moto la facoltà del pensare, che susciti an-
che qualche buona idea, vale a dire porga l’occasione di formu-
lare opinioni nuove; la scienza consisterebbe così nel continua-
re a filare opinioni su opinioni.
Se la storia della filosofia fosse soltanto una galleria di opi-
nioni — sia pure relative a Dio e all’essenza delle cose naturali

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e spirituali — essa sarebbe una scienza superfluissima e noio-
sissima, per quante utilità si potessero mai addurre che si rica-
verebbero da siffatto movimento di pensiero e d’erudizione.
Che vi può esser di più inutile che l’imparare una serie di sem-
plici opinioni? che cosa di più indifferente? Basta dare un’oc-
chiata alle opere che espongono la storia della filosofia come
semplice serie di opinioni, per veder subito quanto siano aride
e senza interesse.
Un’opinione è una rappresentazione soggettiva, un pensiero
casuale, un’immaginazione, che io mi formo in questa o quella
maniera. e altri può avere in modo diverso: l’opinione è un pen-
siero mio, non già un pensiero in sé universale, che sia in sé e
per sé. Ma la filosofia non contiene opinioni, giacché non si
danno opinioni filosofiche. Chi parla di opinioni filosofiche, an-
che se ha scritto storie della filosofia. rivela subito la mancanza
dei primi fondamenti. La filosofia è scienza oggettiva della veri-
tà, scienza della necessità della verità, conoscenza concettuale,
e non già opinare e filza di opinioni.
(G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, I, pp.
20-21)

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La storia della filosofia
Diogene Laerzio, uno scrittore del III secolo d.C., alle cui Vite
dei filosofi attingiamo la maggior parte delle notizie sui primi
pensatori greci, riporta in questa forma un aneddoto circa il
primo filosofo, Talete: «Si narra che, tratto di casa da una vec-
chia per contemplare gli astri, cadde in un fosso, e la vecchia ai
suoi gemiti disse: “Tu, o Talete, non sai vedere le cose che sono
tra i piedi e credi di poter conoscere le cose celesti?”». Questo
breve racconto è estremamente significativo circa l’interpreta-
zione che del filosofo e della filosofia dà il senso comune, l’opi-
nione comune: il filosofo vive tra le nuvole (il commediografo
Aristofane descriverà appunto Socrate, il filosofo per eccellen-
za, che vive in un «pensatoio» sospeso fra le nuvole), preso dal-
le sue astrazioni, lontano dal mondo reale e concreto. Il «buon
senso» dileggia dunque la filosofia come quella disciplina inuti-
le che «lascia il mondo tale e quale».
Per avviarsi a comprendere che cosa è «filosofia» è senz’altro
utile cercare di capire da che cosa essa si distingue (tra l’altro
uno dei compiti principali della filosofia è quello di cogliere
l’«essenza» delle cose, cioè «ciò per cui le cose sono quello che
sono» e si distinguono dalle altre). È dunque importante stabi-
lire questa prima distinzione: fin dalle proprie origini
la filosofia è stata percepita come distinta dal senso comune.
Mentre il senso comune, l’opinione si ferma alla superficie del-
la realtà, si accontenta di fermarsi a come essaappare ai sensi,
si arresta dunque al fenomeno (dal greco φαίνομαι = appari-
re), la filosofia va oltre l’apparenza, trascende (dal lati-
no trans, al di là di, oltre) il dato, cioè quel che ci sta davanti,
ponendosi alla ricerca di ciò che è al di sotto di ciò che appare,
della sostanza (dal latino substantia, che sta sotto, che è a fon-
damento di).
La filosofia è dunque diversa dal senso comune e spesso è in
polemica con questo. Filosofare non significa semplicemen-
te pensare (il pensiero è un’attitudine generica dell’uomo, che
pensa anche quando deve svolgere un’attività banale, come per
esempio prendere un autobus). Ma in che cosa consisterà que-
sto specifico tipo di pensiero che è il pensiero filosofico? Filoso-
fare — dice Hegel, il maggiore pensatore dell’età post-classica
— è un po’ come nuotare : non si può veramente imparare a

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nuotare se non ci si getta in acqua. Così non è possibile com-
prendere in che cosa consiste il filosofare prima di esercitare la
filosofia. (Anzi, dice Hegel, la filosofia non si può definire
all’inizio: la sola sua definizione «è il risultato dell’intera inda-
gine» filosofica stessa).
A questo punto nel corso dell’incontro c’è stato un primo mo-
mento di dialogo, con tentativi di definizione della filosofia da
parte di alcuni studenti. Ne è emerso il problema del rapporto
della filosofia con la scienza e si è discussa la definizione della
filosofia come un «ragionare per raggiungere fini». Si è rileva-
to come le definizioni contenessero tutte qualche elemento uti-
le. E questo non a caso. Si è detto infatti che la filosofia si diffe-
renzia per esempio dalla religione, in quanto questa tende a co-
gliere la Verità, l’Infinito, Dio, con uno slancio unico, immedia-
to, della fede o del sentimento, mentre la filosofia è invece sfor-
zo di cogliere la Verità attraverso un percorso, attraverso una
serie di passaggi, di mediazioni (= termini intermedi) : in que-
sto senso anche una definizione parziale o anche erronea può
comunque segnare un avanzamento verso la verità ricercata. Si
può dunque dire che la filosofia è un ragionare volto a fini, an-
che se si dovrà cercare di distinguere questo ragionare da
quello per esempio di un artigliere che anch’egli ragiona su co-
me raggiungere il fine di centrare il suo bersaglio con i proiet-
tili a disposizione. I «fini» di cui si occuperà la filosofia saranno
i fini «ultimi», quelli cioè che riguardano l’orientamento com-
plessivo, il «destino», dell’individuo come dell’umanità intera.
Il ragionare è comunque senz’altro connaturato al-
la filosofia, ne è un carattere decisivo, carattere che la diffe-
renzia dalla religione, in cui predominano, come si è detto, al-
tre attitudini umane, quali fede e sentimento, o dall’arte che,
pur non essendo una manifestazione arbitraria come molti oggi
tendono a pensare, è pur sempre espressione di una capacità
creativa, di una ispirazione, di una «divina mania», come disse
Platone.
Tra filosofia, arte e religione c’è un elemento di affinità, si può
dire infatti che esse hanno lo stesso contenuto, mirano allo
stesso oggetto: la Verità, l’Universale, il Divino, il Sostanziale,
la Totalità. L’arte però coglie l’universale sotto la forma di im-
magine sensibile, come insieme di colori, di note, di versi, etc.
La religione coglie l’universale sotto la forma

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di rappresentazione, anch’essa in qualche modo legata al sensi-
bile (le leggende, le narrazioni, le parabole, etc.). La filosofia
coglie invece l’universale nella forma del ragionamento, si sfor-
za cioè di cogliere la sostanza della realtà quale essa è, e
la sostanza (appunto ciò che sta al di sotto delle apparenze) è il
logos (λόγος), una ragione presente nelle cose.
Questa è la grande scoperta della civiltà greca, base della filo-
sofia, della scienza e della civiltà moderna: dietro
l’apparente molteplicità dei fenomeni, al di sotto dell’apparen-
te disordine delle manifestazioni della natura, c’è invece un
profondo ordine, c’è una rigorosa logica, e la mente umana è
perfettamente in grado di riconoscere e di capire quest’ordine,
questa logica: c’è un’intima affinità, c’è un’omogeneità fra la
logica delle cose e la logica della mente umana.
La vera alba dell’umanità, dell’Uomo come noi lo intendiamo,
consapevole cioè del mondo e di se stesso, spuntò dunque in
Grecia. Le altre civiltà, il mondo orientale, erano vissute nel
torpore del mito, si erano cioè sottomesse alla natura conside-
randola imperscrutabile, misteriosa, mossa da forze occulte e
sovrannaturali, minacciose per l’uomo, posto in loro balìa. Que-
sta visione del mondo è ben riflessa dall’arte orientale che ama
le dimensioni sovrumane, le raffigurazioni di animali e di divi-
nità potenti e terribili. L’arte greca invece, con la centralità
della figura umana, colta nella sua armonia, con perfetto senso
delle proporzioni, testimonia della centralità e della potenza
dell’uomo nella mentalità greca, che raffigura gli stessi dei con
figura umana e proporzioni umane. Emblema della mentalità
mitica, è la Sfinge, che sovrasta l’uomo con la sua enigmaticità.
Ma, secondo la leggenda, un uomo greco, Edipo, risolve l’enig-
ma della sfinge e la precipita nell’abisso: illogos sconfigge
il mito, l’uomo si accinge alla comprensione della realtà e della
propria posizione nella realtà.
Torniamo al problema del rapporto fra filosofia e scienza: figlie
entrambe della civiltà greca, scaturiscono entrambe dall’uso
delle facoltà conoscitive superiori, dall’uso della ragione. Sono
dunque affini nella forma, ma differiscono per contenuto: la fi-
losofia tende infatti all’universale, alla totalità, mentre le scien-
ze si occupano di settori, di aspetti particolari della realtà (i fe-
nomeni fisici, gli organismi biologici etc.). Nate in Grecia da un
crogiuolo comune (i primi pensatori greci erano spesso insieme

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filosofi, astronomi, meteorologi, geografi, biologi, etc.), le
scienze particolari si sono via via nella storia distaccate dalla
filosofia (prima la matematica, poi la fisica, quindi la chimica,
infine la biologia e le scienze che si occupano dell’uomo).
La filosofia è la scienza universale dei principi delle singole
scienze (la definizione è di Hegel), nel senso che, lungi dall’op-
porsi alle scienze, vuole anzi fondarle, dare cioè loro fonda-
menti logici, metodologici, concettuali rigorosi. Le scienze par-
tono infatti sempre da determinati presupposti, che danno per
scontati, e che vanno invece anch’essi passati al vaglio della
critica razionale, come fa la filosofia (o, meglio, come dovrebbe
fare: assistiamo infatti nella nostra epoca a una grave crisi del
pensiero filosofico). È in sede filosofica che vengono discusse
categorie (come per esempio la categoria di causalità) di uso
comune nelle scienze, è la filosofia che analizza la validità dei
metodi (deduttivo = dall’universale al particolare, come nelle
dimostrazioni matematiche; induttivo = dal particolare all’uni-
versale, come nella fisica) usati nelle scienze, etc.. Soprattutto
le scienze non analizzano criticamente i propri presupposti,
che vengono invece indagati dalla filosofia. Anche la più rigoro-
sa fra le scienze, la matematica, per esempio, parte sempre da
alcuni presupposti (assiomi) che essa stessa non può provare.
Su quali fondamenti sussistono questi assiomi? La risposta non
viene data nell’ambito della matematica. Riepilogando: un limi-
te delle scienze particolari è che in esse si parte da princìpi
non dimostrati, la filosofia si pone invece come scienza dei
princìpi delle scienze singole.
Un’ulteriore differenza fra scienza e filosofia è stata rilevata
nel distacco fra lo scienziato e il suo oggetto (dal latino obiec-
tum = che sta di fronte) e nel coinvolgimento invece del filoso-
fo nell’oggetto stesso delle sue indagini. Non si tratta, ovvia-
mente, del coinvolgimento emotivo: un astronomo, uno zoologo
o anche un matematico possono senz’altro essere emotivamen-
te partecipi delle loro ricerche, prenderne a cuore i risultati,
sentirsi impegnati con tutta la loro persona nella ricerca, ma
dal punto di vista conoscitivo ciò che indagano è altro da loro
stessi (corpi celesti, animali, figure geometriche, etc.). Anche il
biologo o lo psicologo, che si occupano dell’uomo, si occupano
di un uomo oggettivato, «altro» da loro stessi, «altro» dal sog-
getto osservante. Nella ricerca filosofica invece c’è una

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profonda compenetrazione di soggetto e oggetto, né potrebbe
essere diversamente, vista l’aspirazione della filosofia alla tota-
lità, cui si è accennato.
Questo carattere della filosofia è implicito nel termine stesso
che la designa. Il termine «filosofia» infatti, è composto
da φιλέω (amo) e σοφία (sapienza), etimologicamente quindi
sta a significare «amore della sapienza». Le due componenti
del termine includono uno «sapienza», l’oggetto cui si tende,
l’altro «amore», la tensione del soggetto. Le implicazioni che
ne scaturiscono sono mirabilmente analizzate da Platone nel
suo dialogo Simposio (o Convito): la filosofia è connessa con
l’amore, amore scaturisce, secondo il mito greco, da Eros, Eros
è figlio di πενία , penìa, la povertà ( da cui l’italiano penuria)
e πόρος, il guadagno, la ricchezza. L’atteggiamento filosofico,
cioè l’amore per la sapienza, scaturisce dunque da un avere e
da un non avere contemporaneamente: se si fosse ricchi della
sapienza, se si possedesse già la sapienza, si sarebbe semplice-
mente “saggi” e non “filosofi”. Essere filosofi implica dunque
mancare della sapienza (e averne desiderio), essere ignoranti.
Ma insieme l’essere filosofo implica l’avere già un qualche sa-
pere, possedere già una certa conoscenza di quello che si cerca
(altrimenti non si cercherebbe neppure), implica avere un sen-
tore o una nostalgia (per dirla con un termine romantico) della
verità: l’animale, il bruto, che si trova in una situazione di asso-
luta ignoranza, neppure cerca la sapienza.
La condizione del filosofo, a metà strada fra ignoranza e sa-
pienza, implica un essere sempre in cammino e diventa emble-
matica della stessa condizione dell’uomo, che non è né un Dio
onnisciente, né un bruto assolutamente inconsapevole. Il filoso-
fo, l’uomo, è un essere in cammino, è un essere perfettibile.
La filosofia rimane sempre «amore del sapere»: si avvicina al
suo oggetto, la Verità, ma non la coglie mai pienamente, né po-
trebbe essere altrimenti. Dal punto di vista ontologico (l’ontolo-
gia è la parte della filosofia che si occupa delle strutture ultime
della realtà) il cogliere pienamente l’oggetto sarebbe possibi-
le diventandol’oggetto stesso, sciogliendosi, per così dire, co-
me soggetto. Ma il soggetto ricercante, il filosofo, rimane tale,
non si annienta nell’oggetto, ne resta quindi sempre a una cer-
ta distanza, non lo raggiunge mai pienamente, non raggiunge
mai pienamente la Verità. La ricerca filosofica è quindi

15
inesauribile, e comunque mai paga dei risultati raggiunti. Que-
sto non implica però il ricadere nell’ignoranza, nello scettici-
smo, bensì uno sforzo continuo di appropriarsi della verità.
Questo carattere della filosofia è ben espresso dal filosofo neo-
platonico Niccolò Cusano, che paragona laconoscenza perfet-
ta della verità a una circonferenza, in cui è inscritto
un poligono, che rappresenta invece laconoscenza umana, lo
sforzo filosofico di raggiungere la verità. Se si moltiplicano i la-
ti del poligono, aumenteranno i punti di intersezione fra questo
e la circonferenza (sempre più aspetti della verità vengono rag-
giunti dall’uomo), senza però che mai il poligono finisca col
coincidere con la circonferenza, anche procedendo indefinita-
mente nella moltiplicazione dei lati. Pur non raggiungendo
punti conclusivi, la ricerca filosofica, cioè, amplia indefinita-
mente gli orizzonti umani, la consapevolezza che l’uomo ha di
sé e del mondo.
La filosofia implica quindi una ricerca inesauribile delle strut-
ture più profonde della realtà (= oggetto), come del posto che
la nostra umana esistenza occupa in essa e quindi dei compiti
che l’uomo (= soggetto) è chiamato ad assolvere.
Questa compresenza di soggetto e oggetto nella ricerca filoso-
fica non deve però portare a ritenere (come fa l’opinione comu-
ne in disprezzo del rigore della filosofia) che la ricerca filosofi-
ca sia qualcosa di soggettivo nel senso di arbitrario (è oggi fre-
quente l’errore di considerare soggettivo = individuale = arbi-
trario).
Si tende oggi a confondere la filosofia con la Weltanschauung,
come si dice con una parola tedesca composta da Welt (= mon-
do) e Anschauung (= visione, opinione). La filosofia, come si è
detto all’inizio, si distingue dall’opinione. La filosofia, in quanto
tensione verso l’oggettivo, è ben diversa dalla «visione del
mondo» soggettiva, che ognuno si fabbrica, per così dire, da
sé. «Se si prende la filosofia sul serio — ha affermato in un suo
corso di lezioni del 1962 all’Università di Francoforte il filosofo
tedesco Theodor Adorno — il compito della cultura filosofica
deve consistere nella liberazione, attraverso lo stesso lavoro fi-
losofico, da questa idea che uno possa scegliere la
sua Weltanschauung adottando quella che più gli si attaglia —
idea in cui è già implicitamente presente quella di una mancan-
za di necessità e rigore onde la filosofia viene privata della sua

16
pretesa di verità. [… ] Direi che la filosofia ha il compito di li-
quidare l’opinione, e cioè di andare al di là di tutte le convin-
zioni che uno ha scelto semplicemente perché gli si attagliano
[… ]. «La filosofia — abbiamo concluso, riprendendo le parole
di Hegel — è scienza oggettiva della verità, scienza della ne-
cessità della verità, conoscenza concettuale, e non già opinare
e filza di opinioni».

Testi

C’imbattiamo quindi subito nella veduta assai comune intor-


no alla storia della filosofia, secondo cui essa non dovrebbe far
altro che ritessere la narrazione delle opinioni filosofiche quali
esse si sono presentate e sono state esposte nel corso dei tem-
pi. Quando si parla con urbanità, a questo materiale si dà il no-
me di opinioni; quelli invece che credono di poter dare un giu-
dizio più profondo, chiamano questa storia addirittura galleria
delle pazzie, o almeno dei traviamenti dell’uomo che si inabissa
nel pensiero e nei puri concetti. Tale veduta la si può udir ma-
nifestare non soltanto da coloro che confessano la loro ignoran-
za in fatto di filosofia (ed essi la confessano, perché secondo
l’opinione comune l’ignoranza non può far loro ostacolo a sen-
tenziare su ciò che sia filosofia, anzi ognuno è sicuro di poter
giudicare del valore e dell’essenza della filosofia senza capirne
un’acca), ma anche da persone che hanno scritto e scrivono
storie della filosofia. Una storia, concepita in tal modo come
una filastrocca di opinioni diverse, diventa curiosità oziosa, o,
se si vuole, interesse di semplice erudizione. Infatti l’erudizio-
ne consiste principalmente nel sapere una quantità di cose inu-
tili, che non hanno in sé alcun contenuto e alcun interesse
all’infuori di quello costituito appunto dal semplice fatto
d’averne conoscenza.
Tuttavia si crede ugualmente di trarre profitto dalla cono-
scenza delle varie opinioni e dei vari pensieri degli altri: si cre-
de ch’essa metta in moto la facoltà del pensare, che susciti an-
che qualche buona idea, vale a dire porga l’occasione di formu-
lare opinioni nuove; la scienza consisterebbe così nel continua-
re a filare opinioni su opinioni.
Se la storia della filosofia fosse soltanto una galleria di opi-
nioni — sia pure relative a Dio e all’essenza delle cose naturali

17
e spirituali — essa sarebbe una scienza superfluissima e noio-
sissima, per quante utilità si potessero mai addurre che si rica-
verebbero da siffatto movimento di pensiero e d’erudizione.
Che vi può esser di più inutile che l’imparare una serie di sem-
plici opinioni? che cosa di più indifferente? Basta dare un’oc-
chiata alle opere che espongono la storia della filosofia come
semplice serie di opinioni, per veder subito quanto siano aride
e senza interesse.
Un’opinione è una rappresentazione soggettiva, un pensiero
casuale, un’immaginazione, che io mi formo in questa o quella
maniera. e altri può avere in modo diverso: l’opinione è un pen-
siero mio, non già un pensiero in sé universale, che sia in sé e
per sé. Ma la filosofia non contiene opinioni, giacché non si
danno opinioni filosofiche. Chi parla di opinioni filosofiche, an-
che se ha scritto storie della filosofia. rivela subito la mancanza
dei primi fondamenti. La filosofia è scienza oggettiva della veri-
tà, scienza della necessità della verità, conoscenza concettuale,
e non già opinare e filza di opinioni.
(G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, I, pp.
20-21)

18
Capitolo 2
Talete, Anassimandro, Anassimene
Dei primi pensatori greci solo in pochi casi ci sono pervenuti
scarni frammenti (come nel caso dell’unico frammento super-
stite di Anassimandro che viene analizzato nel seguito). Per la
loro conoscenza ci dobbiamo affidare dunque a testimonianze,
le più preziose delle quali si trovano nel I libro del-
la Metafisica di Aristotele e nei Dialoghi di Platone, oltre che in
Cicerone e nelle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio.
Sottolineata la difficoltà di attingere l’autentico pensiero dei fi-
losofi «presocratici», si è proceduto a distinguerli secondo la
loro provenienza geografica: la filosofia scaturisce dapprima
nelle colonie greche del Mediterraneo orientale (Ionia) e
dell’Italia Meridionale (Magna Grecia), più aperte agli scambi e
alle influenze con altri popoli, e solo con Anassagora inizia a
fiorire nel centro della grecità: Atene. Delle colonie greche
d’oriente sono originari Talete, Anassimandro, Anassimene,
Eraclito, gli atomisti Leucippo e Democrito, Anassagora (che
poi si stabilì ad Atene); provengono dalla Magna Grecia Pitago-
ra (di Samo, ma vissuto a Crotone), Senofane, Parmenide e Ze-
none (di Elea, l’odierna Ascea, a sud di Salerno), Empedocle di
Agrigento. Secondo Hegel questa differenza di provenienza
geografica si ripercuote anche nella storia del pensiero: nei
pensatori delle colonie dell’Asia Minore prevarrebbe un pensie-
ro ancora molto legato al sensibile (l’acqua di Talete, l’aria di
Anassimene), mentre nei pensatori della Magna Grecia prevar-
rebbe il pensiero più astratto (il numero di Pitagora, l’essere di
Parmenide).
Il primo pensatore della Scuola di Mileto (nella Ionia, in Asia
Minore) — chiamata «scuola» in senso improprio in quanto fra
i suoi membri, Talete, Anassimandro e Anassimene, non ci fu-
rono chiari rapporti di maestro e discepolo — Talete, si

19
distaccò dal senso comune, dalla superficie della realtà, dal
mondo dell’apparenza, ponendosi il problema dell’archè, di ciò
che conferisce unità alla realtà al di là della molteplicità che ci
si presenta immediatamente ai sensi.
Constatata infatti la presenza di innumerevoli entità distinte
fra loro e ciascuna diversa dall’altra, Talete si domanda se non
ci si sia una più profonda unità dietro l’apparente molteplicità.
Se, nonostante il fatto che ci imbattiamo sempre in entità indi-
viduali dotate ciascuna di una propria precisa identità (piante,
animali, uomini, etc.), le vediamo però come parti di un’unica
realtà (ci riferiamo spesso spontaneamente al concetto di
«mondo» o di «universo» come qualcosa di unitario), ciò vuol
dire che tutte le cose devono avere qualcosa in comune e che
ci deve essere un principio unificatore di tutta la real-
tà (αρχή).
Tale principio è identificato da Talete nell’acqua. Talete infatti,
come tutti i primi pensatori greci, è ilozoista (daΰλη = materia
e ζωον = vivente), considera cioè tutta la realtà (anche quella
apparentemente inerte) comeanimata, come dotata di vita.
Se la vita è presente dappertutto nella realtà, il principio unifi-
catore della realtà dovrà coincidere col principio della vita. Ma
la vita dipende dall’acqua (la natura diventa fertile dopo la
pioggia; i corpi sono dotati di vita fino a quando sono impre-
gnati di umore; piante e animali non sopravvivono nei deserti;
il mare brulica di vita; etc.). Talete era convinto che c’è vita do-
ve c’è acqua. L’acqua è dunque principio di vita, è inseparabile
da questa; ma la vita è presente in tutta la realtà, dunque an-
che l’acqua è onnipresente, è l’elemento che unifica tutte le co-
se, è l’archè.
Pur avendo compiuto il passo decisivo per superare l’apparen-
za sensibile (vedere Testi) e pur avendo scorto l’unità sostan-
ziale della realtà (per cui nessuna entità particolare può dopo
di lui essere considerata per sé stante, ma dovrà essere ricolle-
gata al tutto di cui è parte), Talete aveva compiuto un percorso
parziale: dalla molteplicità all’unità. Ma una volta raggiunta
l’unità, come si spiega il processo inverso, il differenziarsi cioè
dell’unità in molteplicità?
Anassimene affronta questo problema identificando il principio
unificatore nell’aria: anche l’aria è presente dovunque e an-
ch’essa è principio di vita, infatti gli organismi vivono finché

20
respirano (anche Anassimene è un ilozoista: il principio unifi-
cante della realtà deve coincidere col principio della vita).
L’aria come archè è però concepita da Anassimene — a diffe-
renza dell’acqua di Talete — come un principio dinamico, che
in quanto tale può dar conto, oltre che dell’unità, anche della
molteplicità. Essa è infatti soggetta al dinamismo del-
la rarefazione e condensazione: per la prima si trasforma in va-
pore e in fuoco, per la seconda in acqua e in terra (vedere Te-
sti). L’aria dà dunque conto insieme della diversità degli esseri
che si presentano ai nostri sensi e dell’esigenza del nostro in-
telletto di trovare una sostanza che unifichi la molteplicità dei
fenomeni.
Anassimandro ritrova il principio unificante della realtà in un
principio più astratto, l’àpeiron (l’illimitato, l’indeterminato),
che riesce a dar meglio conto della compresenza di unità e
molteplicità. Tutte le cose finite partecipano dell’àpeiron, sono
interne ad esso. Per cogliere il rapporto che passa fra l’indefi-
nito e le cose individuali si può pensare all’attività di cartogra-
fo di Anassimandro: i segni che si stagliano sul foglio bianco a
definire paesi, coste, confini (e delimitano dunque cose finite)
non sono disgiungibili dallo sfondo stesso su cui sono stati trac-
ciati: tolto lo sfondo (l’àpeiron) è tolto anche il segno che que-
sto contiene (il finito). Limitato e illimitato, molteplice e unità
si implicano reciprocamente. L’illimitato è presente in tutte le
cose finite, è l’archè.
Nell’unico frammento pervenutoci, Anassimandro afferma che
«da dove gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzio-
ne secondo necessità». Da filosofo naturalista, Anassimandro
osservava probabilmente l’emergere periodico (secondo neces-
sità, secondo una legge naturale precisa) dalla massa indistinta
di una zolla di terra di innumerevoli entità diverse (fiori, pian-
te, germogli, etc.). Ma queste entità diverse, molteplici, indivi-
duali «secondo l’ordine del tempo» periscono, disgregandosi,
perdendo i loro limiti, disfacendosi e rientrando così a far parte
della massa indifferenziata della zolla di terra (l’indefinito,
l’àpeiron). È importante rilevare l’introduzione del concetto
di necessità: esplicitando la nozione greca di «cosmo», Anassi-
mandro vede la realtà come dominata da un ordine e il diveni-
re, il trasformarsi della realtà come svolgentesi secondo leggi
necessarie.

21
Il frammento prosegue sostenendo che gli esseri «debbono pa-
gare (l’uno all’altro) la pena e l’espiazione dell’ingiustizia. Il
frammento, mancante della parola αλλήλοις, l’uno all’altro, è
stato interpretato nel senso che la colpa da espiare è l’esisten-
za stessa, in quanto distacco dal tutto, dall’àpeiron (si è rileva-
to che il tema dell’esistenza come colpa è presente in qualche
modo anche nella dottrina cristiana del peccato originale). Lo
studioso tedesco Diels ha però sostenuto la presenza della pa-
rola αλλήλοις: in questo caso l’ingiustizia consiste nel travali-
care i propri limiti, fissati per ognuno all’interno dell’àpeiron; il
limite viene ineluttabilmente ristabilito dalla giustizia.
Testi:

Talete

Si raccontano vari aneddoti relativi alle sue [di Talete] cono-


scenze e occupazioni astronomiche: «Guardando in cielo per
osservare le stelle, egli sarebbe caduto in un fosso, e la gente
lo avrebbe canzonato, meravigliandosi come mai potesse cono-
scere le cose del cielo chi non vedeva neppure ciò che aveva
davanti ai piedi». La gente ride di queste cose, e ha il vantag-
gio che i filosofi non possono ribatter nulla; ma non capisce che
i filosofi ridono di essa, che certamente non può cadere in un
fosso, giacché vi si trova in perpetuo, incapace com’è di guar-
dare verso l’alto.
(HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, I, 192)
Perciò ritengono [i primi filosofi] che, serbandosi sempre tal
natura, niente cominci ad essere o perisca del tutto: così come
neanche noi diciamo di Socrate né che comincia ad essere as-
solutamente, se divien bello o musico, né ch’egli perisce, quan-
do perde queste doti, perché rimane Socrate come soggetto.
Similmente delle altre cose. Infatti deve esserci qualche natu-
ra, o una sola o più d’una, da cui tutto si genera, conservandosi
essa [… ]. Però non tutti concordano quanto al numero e alla
specie di tal principio; Talete, l’antesignano di siffatta filosofia,
dice che è l’acqua.
(ARISTOTELE, Metafisica, I, 3)
Talete suppone che tutto derivi dall’acqua e in essa si risolva,
perché, allo stesso modo che il seme d’ogni vita come principio
di questa è umido, così anche ogni altra cosa ha il suo principio

22
dall’umidità; perché tutte le piante traggono dall’acqua il loro
nutrimento, e se essa manca inaridiscono; perché perfino il
fuoco del sole e delle stelle, e lo stesso mondo, sono alimentati
dalle evaporazioni dell’acqua.
(PLUTARCO, citato in Hegel, I, 196)
[… ] occorreva allo spirito una grande audacia per negar va-
lore a questa immensa varietà d’esistenza del mondo naturale
e ridurlo ad una sostanza semplice, che, nella sua permanenza,
non nasce né muore, mentre gli Dei hanno pure una teogonia,
hanno forme molteplici e sono soggetti a mutamento. Con l’af-
fermazione che quest’essere è l’acqua è messa a tacere la sbri-
gliata fantasia omerica infinitamente variopinta, vengono supe-
rati questa molteplicità infinita di princìpi frammentari, tutto
questo modo di rappresentarsi il mondo come se l’oggetto par-
ticolare sia una verità per sé stante, una potenza esistente per
sé e indipendente al disopra delle altre; e si ammette quindi
che vi è un unico universale, ciò che è universalmente in sé e
per sé, l’intuizione semplice e senza più elementi fantastici, il
pensiero, che soltanto l’uno è.
(HEGEL, I, 199)
La semplice affermazione di Talete è filosofia, perché essa
non intende l’acqua sensibile, nella sua peculiarità di fronte ad
altre cose naturali, sibbene come pensiero, nel quale tutte
quelle cose si risolvono e sono contenute.
(HEGEL, I, 200)

Anassimene

L’aria si distingue per via di rarefazione e di condensazione


nelle varie sostanze. E rarefacendosi diventa fuoco, condensan-
dosi invece diviene vento, poi nuvola, e ancora più condensata,
acqua, poi terra, e quindi pietra.
(TEOFRASTO in Simplicio, Fisica, 24, 26)

Anassimandro

[… ] principio degli esseri è l’indeterminato (ajvpeiron)… da


dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distru-
zione secondo necessità: poiché essi debbono pagare [l’uno

23
all’altro] (allh;loi") la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secon-
do l’ordine del tempo.

24
Capitolo 3
Eraclito
Platone e Aristotele pongono Eraclito tra i filosofi naturalisti a
fianco di Talete, Anassimandro e Anassimene: egli si sarebbe
posto prima di tutto il problema dell’archè, dando una soluzio-
ne differente da quella degli altri ionici. Ciò che è presente in
tutte le cose, ciò che quindi è fondamento di tutto, l’archè, è
ildivenire stesso di tutte le cose: niente è immobile, ogni cosa
muta e si trasforma continuamente. L’elemento che più si pre-
sta, proprio per la sua mobilità, a simboleggiare il divenire è
il fuoco. Il fuoco ha la caratteristica di poter trasformare tutte
le cose e tutte le cose possono prendere fuoco, trasformarsi in
fuoco: «Mutamento scambievole di tutte le cose col fuoco e del
fuoco con tutte le cose… » dice Eraclito nel frammento 90. Ma
anche un’altra caratteristica del fuoco spingeva probabilmente
Eraclito a vedere in questo elemento l’archè: la fiamma è ani-
mata da un vorticoso dinamismo, cambia in ogni istante, ma,
pur in questo continuo mutamento, resta la stessa e si presta
quindi a indicare la compresenza di unità e pluralità della real-
tà. Il fuoco è uno e multiplo, è se stesso e ad ogni istante è di-
verso da sé. Eraclito intuisce che essere e divenire sono stret-
tamente congiunti, che essere sé e trasformarsi in altro non so-
no due stati completamente distinti e separati. Proprio la diffi-
coltà di rendere idea della compresenza di essere e divenire in
tutte le cose porta Eraclito a esprimersi in un linguaggio appa-
rentemente contraddittorio che gli ha meritato nell’antichità
l’appellativo di «scoteinòs», l’oscuro.
Il fuoco dunque simboleggia il divenire universale, ma la più
importante scoperta di Eraclito è che questo divenire non è ca-
suale e caotico, bensì regolare e ordinato. Egli afferma:
«Quest’ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece
alcuno tra gli dèi o tra gli uomini, ma sempre era, è e sarà

25
fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo giu-
sta misura» (framm. 30).
Eraclito è così il primo assertore del logos, cioè del-
la razionalità presente nella natura, che viene rispecchiata dal-
la razionalità della mente umana.
Tutti i fenomeni della natura avvengono secondo leggi ben pre-
cise, sono soggetti a leggi necessarie e insieme tutti gli uomini
sono dotati di ragione (framm.113). Non tutti gli uomini però
fanno uso pieno della ragione: i più si fermano all’apparenza, ai
sensi, all’opinione: «Pur essendo questo logos comune, la mag-
gior parte degli uomini vivono come se avessero una loro pro-
pria e particolare saggezza» (framm.2). Eraclito polemizza
aspramente con chi vive «dormendo», cioè scambiando le pro-
prie personali opinioni per la realtà oggettiva (come chi sogna
e scambia le proprie fantasie per la vera realtà). Gli «svegli»,
cioè coloro che adoperano la ragione per orientarsi nel mondo,
coloro che seguono il logos, hanno un cosmo comune. «Bisogna
seguire ciò che è comune» dice Eraclito (framm.2). Il logos,
presente in tutti gli uomini, la ragione, facoltà conoscitiva su-
prema, ci mette in contatto con la logica, la razionalità presen-
te nelle cose, ci permette di coglierle nella loro oggettività. Ai
sensi, al sentimento, alle passioni, agli istinti, le varie situazio-
ni, i vari aspetti della realtà si presentano diversi da individuo
a individuo. Sensi, sentimenti, passioni, istinti, sono soggettivi,
la ragione è invece in grado di metterci in contatto con
1’oggettività delle cose, essa è quindi universale, e accomuna
gli uomini, mentre le altre facoltà e attitudini umane portano a
divergenze e particolarismi. Afferma Hegel a proposito delle
posizioni di Eraclito sul logos e della sua polemica con le opi-
nioni: «Il sogno è la conoscenza di qualche cosa che so soltanto
io; l’immaginazione e simili sono appunto sogni. Similmente il
sentimento è il modo per cui qualche cosa è soltanto per me, e
che io ho in me come soggetto particolare; per quanto i senti-
menti siano elevati, quello che io sento è essenzialmente per
me, come individuo. Invece nella verità (colta dalla ragione)
l’oggetto non è immaginario, fatto oggetto soltanto da me, ma
è in sé universale».
Il divenire, che è l’essenza della realtà, si manifesta come con-
tinuo presentarsi di contrari: ogni cosa tende a trasformarsi
nel suo opposto, il giorno in notte, la veglia in sonno, il giovane

26
in vecchio. Il contrasto e l’armonia di forze contrastanti è alla
base di tutta la realtà: «Polemos è padre di tutte le cose»
(framm. 53).

Eraclito, figlio di Blosone o, secondo altri, di Eraconto, nac-


que ad Efeso. Raggiunse l’acme negli anni della sessantanove-
sima olimpiade. Fu altero e superbo come pochi altri, come ri-
sulta chiaramente dal suo scritto, 1à dove dice: «Sapere molte
cose non insegna ad essere intelligenti, altrimenti l’avrebbe in-
segnato a Esiodo, a Pitagora, a Senofane e ad Ecateo»; e poi:
«Essere saggi è solo questo, comprendere la ragione che go-
verna tutto attraverso tutto».
Con tono di rimprovero si esprime anche nei confronti dei cit-
tadini di Efeso perché avevano bandito il suo amico Ermodoro.
Ad un certo punto i suoi concittadini gli proposero di dar loro
nuove leggi: egli rifiutò, sostenendo che la città era ormai in
preda al malcostume politico. Una volta si ritirò nel tempio di
Artemide e si mise a giocare a dadi con i bambini ; agli Efesii,
che lo guardavano stupiti, disse: «Perché vi meravigliate, gente
malvagia? Non è meglio far questo che occuparsi di politica in
mezzo a voi?». Alla fine, non sopportando più la compagnia de-
gli esseri umani, si ritirò dal consesso civile e andò a vivere sui
monti.Fin dalla fanciullezza suscitò meraviglia: da giovane di-
ceva di non sapere nulla; da adulto, diceva di sapere tutto. Non
ebbe maestri: a quanto diceva, aveva studiato se stesso, e in se
stesso aveva trovato tutto quello che c’era da imparare… Il li-
bro che gli viene attribuito si intitola La natura a causa del suo
argomento principale, ma si divide in tre discorsi: sul tutto, sul-
lo Stato, sulla divinità. Eraclito depose il suo libro nel tempio di
Artemide: alcuni credono che lo avesse scritto volutamente in
forma oscura, perché fosse accessibile solo ai competenti, e
perché non fosse motivo di disprezzo l’essere esso alla portata
del volgo.
(DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, IX, 1 sgg.)
Frammenti
Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume, né
due volte toccare una sostanza mortale nello stesso stato; ma
per l’impeto e la velocità della mutazione (si) disperde e di nuo-
vo si ricompone, e viene e se ne va (fr. 91). A chi discenda negli
stessi fiumi, sopraggiungono sempre altre e altre acque (fr.

27
12). Noi scendiamo e non scendiamo in uno stesso fiume, noi
stessi siamo e non siamo. (fr. 49)
Mutamento scambievole di tutte le cose col fuoco e del fuoco
con tutte le cose, allo stesso modo dell’oro con tutte le cose e
di tutte le cose con l’oro. (fr. 90)
Quest’ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece
alcuno tra gli dèi o tra gli uomini, ma sempre era è e sarà fuo-
co sempre vivente, che si accende e si spegne secondo giusta
misura. (fr. 30)
Di questo logos, che è eterno, inintelligenti sono gli uomini e
prima di ascoltarlo e subito dopo averlo ascoltato, perché, pur
producendosi ogni cosa secondo questo logos, somigliano a chi
non ha esperienza, anche quando sperimentano parole e opere
tali quali io spiego, secondo natura analizzando ogni cosa ed
esponendo com’è. Agli altri uomini sfugge quel che fanno da
svegli, come non hanno coscienza di quel che fanno dormen-
do. (fr. 1)
Bisogna dunque seguire ciò che è comune. Ma pur essendo
questo logos comune, la maggior parte degli uomini vivono co-
me se avessero una loro propria e particolare saggezza. (fr. 2)
Dal logos, col quale stanno sempre continuamente insieme
essi discordano e quelle cose in cui ogni giorno si imbattono
appaiono loro estranee.(fr. 72)
Il pensare è a tutti comune.(fr. 113)
Anche colui che alla prova è il più stimato conosce e conser-
va solo opinioni; ma invero Dike coglierà sul fatto gli artefici e i
testimoni di menzogne. (fr. 28)
L’opinione è un male caduco e che la vista in-ganna. (fr. 46)
Non giudichiamo a casaccio delle cose più grandi. (fr. 47)
Assai meglio Eraclito ritenne che le opinioni umane sono sol-
tanto «giuochi di fanciulli». (fr. 70)
Chi parla con intelligenza deve appoggiarsi su ciò che è co-
mune a tutti, come una città sulla legge, anzi molto più salda-
mente. Poiché tutte le leggi umane sono nutrite dall’unica leg-
ge divina; ché essa domina tanto quanto vuole, e basta a tutti e
trionfa. (fr. 114)
Dio è giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, fame-sazietà:
il suo mutare è come quello del fuoco, quando si mescola ai
profumi e prende nome da ciascuno di essi. (fr. 67)

28
Polemos [la guerra] è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli
uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi
gli altri liberi. (fr. 53)
La stessa cosa sono il vivo e il morto, lo sveglio e l’addormen-
tato, il giovane e il vecchio: questi si trasformano in quelli, e
quelli di nuovo in questi. (fr. 88)
Congiungimenti sono intero non intero, concorde discorde,
armonico disarmonico, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte
le cose.<(fr. 10)
Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è con-
corde: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira.
(fr. 51)
Il mare è l’acqua più pura e più impura: per i pesci essa è po-
tabile e conserva loro la vita, per gli uomini essa è imbevibile e
esiziale.(fr. 61)
Una e la stessa è la via all’insù e la via all’ingiù. (fr. 60)

29
Capitolo 4
Pitagora
La filosofia pitagorica rappresenta il trapasso dalla filoso-
fia realistica alla filosofia intellettualistica. I filosofi ionici ave-
vano ritrovato l’archè, il principio unificatore della realtà, in
qualcosa di materiale, per lo più in uno degli elementi della na-
tura (acqua, aria, fuoco). I pitagorici vedono invece
nel numero l’essenza di tutte le cose. Il riconoscimento del po-
tere del pensiero fa un passo ulteriore in avanti: «Si afferma —
dice Hegel — che l’essenza non è sensibile; e così qualcosa del
tutto eterogeneo al sensibile, e alla comune rappresentazione,
viene dichiarato sostanza e vero essere».
Perché Pitagora ritrova l’archè proprio nel numero? Pitagora
nota (come deduciamo da testimonianze, in quanto egli non ha
lasciato alcuno scritto) che il numero è qualcosa di presente
dappertutto; al numero dobbiamo infatti ricorrere se vogliamo
descrivere in maniera oggettiva una qualsiasi realtà. Le varie
qualità dei corpi possono apparire diverse a diversi soggetti:
un daltonico ha una percezione di certi colori diversa da chi ha
una vista normale, la temperatura di un corpo può apparire dif-
ferente a una persona sana e a una persona febbricitante, il gu-
sto di una pietanza può apparire diversa a una persona sana e
a una malata, e così via. I dati matematici e geometrici a cui
possiamo ricorrere per descrivere un oggetto (le dimensioni, la
superficie, il volume, etc.) sono invece identici per tutti. Tutte
le cose sono identificabili e descrivibili in maniera oggettiva,
universale, valida per tutti in base a dati quantitativi, grazie
cioè ai numeri. Il numero è pertanto l’archè di tutte le cose, il
principio unificatore della realtà. Ma, dal momento che i nume-
ri contengono tutti l’unità, in quanto nascono tutti dall’unità
sommata a se stessa, i Pitagorici possono affermare che l’archè
è l’uno.

30
D’altra parte l’uno è presente in tutti i numeri (e quindi in tutte
le cose) anche perché ogni numero è uno, nel senso che
è unico, non è assolutamente confondibile con gli altri, si di-
stingue dal numero che lo precede nella successione numerica,
come da quello che lo segue e da tutti gli altri. Il numero uno
sta quindi a designare una proprietà fondamentale di ogni co-
sa: l’identità con se stessa.
Con il principio dell’uno, Pitagora, oltre a trovare un elemento
unificatore della realtà, trova anche l’elemento di differenzia-
zione, di genesi della molteplicità. Dall’uno, il parimpari, scatu-
riscono infatti per addizione i numeri pari e quelli dispari. Alla
distinzione fra pari (= illimitato) e dispari (= limitato) i pitago-
rici facevano risalire tutte le altre opposizioni della realtà:
tenebre-luce, male-bene, etc. La realtà si presenta dunque pie-
na di entità contrapposte (= Eraclito), ognuna delle quali è ri-
conducibile a numeri. Ma dal momento che i numeri hanno tut-
ti una comune origine nell’unità, essi sono riconducibili gli uni
agli altri: al di là dell’apparente opposizione delle cose, c’è
un’armonia sostanziale. Per questo la musica, fondata sull’ar-
monia che scaturisce dalle opposizioni, è l’arte suprema e ha
un’altissima funzione educativa.
Dalla lettura di testimonianze di Giamblico, Porfirio, etc. si è ri-
saliti al carattere iniziatico della scuola pitagorica (che appare
sempre più chiaramente agli studiosi il risvolto «laico», filosofi-
co della religione misterica dell’orfismo). In Pitagora si profila
per la prima volta la stretta relazione
fra conoscenza e moralitàpropria della filosofia greca. Nella
scuola pitagorica alle superiori conoscenze matematiche e filo-
sofiche veniva «iniziato», cioè introdotto, soltanto colui che ne
era reputato degno dal maestro per aver compiuto passi in
avanti sulla via della purificazione, cioè della virtù, della capa-
cità di autocontrollo. Raggiungere i vertici del sapere significa
imparare a far uso della ragione, senza lasciarsi ingannare
da sensi, passioni,istinti. Essere sapiente diviene equivalente a
essere virtuoso. In Pitagora la conoscenza acquista un caratte-
reesoterico, non è cioè accessibile a tutti (col rischio di un cat-
tivo uso delle conoscenze), bensì è riservata agli iniziati che si
sono dimostrati virtuosi. Pitagora è dunque in qualche modo il
primo esponente dell’intellettualismo etico greco, cioè della
tendenza — propria di tutta la filosofia greca — a far

31
coinciderebene e sapere.
Si è inoltre rilevato come il pitagorismo sia una filosofia del-
la discontinuità: per il parallelismo posto da Pitagora fra arit-
metica e geometria, alla discontinuità fra un numero e un altro
corrisponde un «salto», un vuoto, un non-essere fra un punto
(una particella di materia) e l’altro. Ma la scoperta che la dia-
gonale di un quadrato di lato unitario è uguale a √2, che è un
numero irrazionale, cioè con infiniti decimali, apre la strada al-
la considerazione che fra un punto e l’altro ci sono infiniti altri
punti, che cioè la realtà non è discontinua e molteplice, bensì
continua e unitaria.
Testimonianze
Dicearco racconta che, appena Pitagora giunse in Italia e si
stabilì a Crotone, i crotoniati furono talmente affascinati da lui,
specialmente dopo che egli ebbe ottenuto le simpatie del sena-
to con molti bei discorsi, che i magistrati lo incaricarono di
educare i giovani mediante discorsi adatti alla loro età: egli era
infatti un uomo di grande valore, aveva molto viaggiato, e so-
prattutto era stato eccezionalmente dotato dalla natura, tanto
che il suo aspetto era nobile e grande, e pieno di grazia e di de-
coro il suo modo di parlare, di agire e di fare qualsiasi cosa.
Parlò, dunque, ai fanciulli, che gli si radunavano attorno appe-
na usciti da scuola; e più tardi anche alle donne. Anzi, istituì
un’assemblea di donne. In tal modo la sua fama crebbe sempre
di più, e molti gli divennero compagni: in città non furono solo
uomini, ma anche donne, come Teano, che divenne famosa; ma
lo seguirono anche re e signori delle regioni circostanti, che
erano abitate da barbari. Quello che diceva ai suoi compagni,
nessuno può dirlo con certezza, perché lo custodivano in gran
segreto. Ma le sue opinioni più note sono queste: diceva che
l’anima è immortale, e che può trapassare anche in esseri vi-
venti di altra specie; che quello che è stato si ripete a intervalli
regolari, cosicché non c’è mai nulla di veramente nuovo; che,
infine, dobbiamo considerare come appartenenti alla stessa
specie tutti gli esseri viventi. Fu proprio Pitagora il primo a
portare in Grecia queste opinioni.
(PORFIRIO, Vita di Pitagora, cap. 6)
Questi (gli ammessi al noviziato) da prima si chiamavano, nel
periodo in cui dovevano tacere ed ascoltare,acustici. Ma quan-
do avevano apprese le cose più difficili fra tutte, cioè tacere ed

32
ascoltare, e già avevan cominciato ad acquistare erudizione nel
silenzio, che veniva detto echemuthia, allora acquistavan la fa-
coltà di parlare e di far domande e di scrivere quel che avevan
sentito e di esprimere quel che pensavano. In tal periodo essi si
chiamavan matematici, da quelle arti, cioè, che avevan comin-
ciato ad apprendere e meditare: poiché gli antichi Greci chia-
mavan mathemata (scienze) la geometria, la gnomonica, la mu-
sica e le altre discipline più alte. Quindi, adorni di tali studi di
scienza, passavano a considerare l’opera del mondo e i principi
della natura, e allora infine venivan chiamati fisici.
(A. GELLIO, Notti attiche, I, 9).

Tutti sono d’accordo nel riferire che il complotto fu fatto


mentre Pitagora era assente; ma non tutti concordano nel dire
dove si trovasse in quel momento, perché secondo alcuni era
andato da Ferecide di Siro, secondo altri soggiornava a Meta-
ponto. E sono anche diverse le ragioni che vengono addotte per
spiegare il complotto: tra le altre sembra più plausibile quella
che lo attribuisce al gruppo di Cilone. Cilone di Crotone era
per nascita, per fama e per ricchezza uno dei primi cittadini,
ma era anche aspro, violento, sedizioso e di carattere tiranni-
co; si era messo in testa di entrare a far parte del sodalizio pi-
tagorico, e ne aveva parlato allo stesso Pitagora, ma ne era sta-
to respinto per le ragioni già dette. Per questo, coi suoi amici,
aveva intrapreso una guerra spietata contro Pitagora e i suoi
amici: e tanto violenta fu la guerra di Cilone e dei suoi compa-
gni, che durò finché ci furono pitagorici. Pitagora dovette emi-
grare a Metaponto, dove, secondo una tradizione, morì. Intanto
i cosiddetti cilonei continuarono a lottare con ogni mezzo con-
tro i pitagorici: e tuttavia, per qualche tempo, la nobiltà d’ani-
mo dei pitagorici e la volontà popolare ebbero la meglio, tanto
che le città vollero ancora essere governate da essi. Ma alla fi-
ne i cilonei, che non avevano mai cessato un momento di intri-
gare contro i pitagorici, dettero fuoco alla casa di Milone, dove
quelli si erano radunati per prendere decisioni politiche, e li
bruciarono tutti tranne due, Archippo e Liside: questi, più gio-
vani e forti degli altri, riuscirono ad aprirsi una strada e a met-
tersi in salvo. Il delitto rimase impunito, e i pitagorici smisero
di occuparsi di affari pubblici. Due furono le ragioni che li in-
dussero a questa decisione: l’inerzia delle popolazioni, che non

33
punirono gli autori di un tale e tanto delitto; e la morte degli
uomini più adatti al comando. I due che si salvarono erano en-
trambi tarantini: Archippo se ne tornò a Taranto, e Liside, che
non voleva finire oscuramente la sua vita, passò in Grecia.
(GIAMBLICO, Vita di Pitagora, cap. 248 sgg.)
I filosofi detti Pitagorici si valgono di princìpi ed elementi più
remoti che non facciano i filosofi naturalisti. La causa ne è che
essi non li trassero dalle cose sensibili; degli enti, infatti, quelli
matematici sono senza movimento, eccetto che per ciò che con-
cerne l’astronomia. Tuttavia la loro discussione e trattazione
verte tutta intorno alla natura: giacché essi espongono la gene-
si dell’universo, e osservano ciò che accade nelle parti, muta-
zioni e movimenti di esso, ed in ciò esauriscono (la funzione
de)i loro principi e (del)le loro cause, quasi che fossero d’accor-
do con gli altri naturalisti nel ritenere che l’ente sia proprio ciò
che è sensibile ed è contenuto entro ciò che si chiama il cielo.
Ma, come dicemmo, le cause ed i princìpi, di cui essi parlano,
sono validi a risalire anche ad esseri più elevati, anzi si confan-
no meglio a questi che ai ragionamenti sulla natura.
(ARISTOTELE. Metafisica, I, 8, 990)
Giacché la natura del numero è legge e guida e maestra ad
ognuno di ogni cosa dubbia ed ignota. Poiché non sarebbe ma-
nifesta a nessuno alcuna delle cose né in se stesse né rispetto
ad altre, se non fosse il numero anche la sostanza di questo.
Ora questo, accordando relativamente all’anima tutte le cose,
le rende conoscibili al senso e in rapporto reciproco.
Nessuna falsità accoglie in sé la natura del numero né l’armo-
nia; perché non è conforme ad esse. La falsità e l’invidia sono
della natura dell’infinito, e dell’insensato, e dell’assurdo. La fal-
sità non spira in nessun modo nel numero; poiché è ostile e ne-
mica alla sua natura la falsità; la verità invece è conforme e
connaturata alla stirpe del numero.
(FILOLAO, fr 11)

Altri di costoro stessi dicono che dieci sono i princìpi delle


cose, disposti in serie (di coppie di contrari): finito, infinito —
dispari, pari — unità, molteplicità — destra, sinistra — ma-
schio, femmina — in quiete, in movimento — retta, curva — lu-
ce, tenebre — bene, male — quadrato, a lati disuguali. Nel qual
modo sembra che anche Alcmeone di Crotone abbia pensato:

34
sia che egli abbia attinto da quelli tale teoria, sia essi da lui
perché Alcmeone fiorì quando Pitagora era vecchio, ed affermò
dottrine simili a costoro; dice infatti che la maggior parte delle
cose umane sono a coppie di opposti, ma senza esporre (al pari
di loro) tali opposizioni in ordine determinato, bensì a caso, co-
me bianco nero — dolce amaro — buono cattivo — grande pic-
colo. — Costui dunque le affastellò alla rinfusa con le altre. I
Pitagorici invece determinarono quante e quali fossero le oppo-
sizioni. Dunque da entrambi costoro si può apprendere che i
contrari siano princìpi degli esseri; ma quanti e quali siano, da
una parte sola.
(ARISTOTELE, Metafisica, I, 5, 986)

I Pitagorici ammisero uno spazio vuoto, in cui si compirebbe


la respirazione del cielo, e un altro spazio vuoto, che separe-
rebbe le nature l’una dall’altra, formando la distinzione tra
continuo e discreto; questo si troverebbe anzitutto nei numeri
e separerebbe la loro natura.
(ARISTOTELE, Fisica, IV, 6)

35
Capitolo 5
Parmenide
Le contraddizioni del pensiero pitagorico, che avevano portato
al suo superamento, mostravano che la realtà è continua, che il
vuoto non esiste. Ma, se è cosi, la realtà non è divisa in parti,
non è una somma di realtà minori, bensì è unitaria. Continuità
e unità della realtà sono appunto affermate dalla scuola Eleati-
ca, dapprima con Senofane, con l’affermazione del Dio-uno
contro il politeismo antropomorfico, poi con Parmenide, che af-
ferma l’unità dell’essere, infine con Zenone, il quale trova argo-
menti a favore dalla continuità della realtà.
Parmenide tira le conseguenze della diversità dei possibili ap-
procci conoscitivi alla realtà che già i suoi predecessori aveva-
no individuato: conoscenza sensibile e intellettuale. La prima
— egli afferma con decisione — è illusoria e trae in errore, in-
fatti il mio stato corporeo può variare (sanità, malattia) fornen-
domi impressioni diverse della realtà (ora avvertirò un oggetto
come caldo, ora come freddo) e d’altra parte le sensazioni di
individui diversi sono a volte antitetiche (un daltonico scambie-
rà il verde con il rosso, una persona miope non scorgerà ogget-
ti distanti, ecc.). La via dei sensi andrà dunque respinta come
fallace, come via delle opinioni (dòxai). In contrapposizione a
questa, l’intelletto mostra la via della verità (alèteia).
Mentre i sensi ci mettono di fronte alla molteplicità e al diveni-
re, implicanti il non essere, il pensiero afferma in maniera ine-
quivocabile: «l’Essere è, il non-essere non è». Tra pensiero ed
essere vi è infatti una strettissima connessione: non si può pen-
sare se non l’essere. Nel momento in cui si pensa il non-essere,
il niente, il vuoto, questi diventano essere, perché «sono» in
quanto pensati. Il pensiero non può essere vuoto, è sempre
pensiero di qualche cosa, anche quando questo qualche cosa è
il vuoto stesso. Procedendo con metodo deduttivo (traendo cioè

36
le conseguenze logiche da un’affermazione iniziale), Parmenide
dimostra che l’essere è uno, continuo, immobile, immutabile ed
eterno.
È uno in quanto se vi fosse un altro Essere questo coincidereb-
be con l’Essere stesso in quanto non potrebbe essere separato
da esso: altrimenti, infatti, si dovrebbe ammettere l’esistenza
del non-essere come elemento di separazione. La realtà è dun-
que continua e una. L’Essere è immobile in quanto se si muo-
vesse dovrebbe muoversi verso altro da sé, ma altro rispetto
all’Essere è il non-essere. Dal momento che il non-essere non
è, l’Essere è immobile.
È inoltre immutabile perché se divenisse dovrebbe divenire al-
tro da sé, cioè non-essere, ma il non-essere non è, dunque l’Es-
sere è immutabile.
È infine eterno, perché se fosse stato generato avrebbe dovuto
esserlo dal non-essere (il che è impossibile perché il non-essere
non è) o dall’Essere stesso (e questo implicherebbe che l’Esse-
re preesiste a se stesso).
Con la sua affermazione dell’àrchè come Essere (simboleggiato
nello Sfero, una figura perfettamente compatta, equilibrata e
priva di discontinuità), Parmenide si contrappone ad Eraclito,
come filosofo del divenire. I due pensatori sono però accomu-
nati da una decisa polemica contro il senso comune, contro
l’opinione. Eraclito critica duramente i «dormienti», coloro cioè
che si abbandonano alla opinione, che non seguono la via rigo-
rosa del logos; Parmenide definisce «ciechi» coloro che si affi-
dano al senso, che non si rendono conto che l’unica via per pe-
netrare la realtà oltre l’apparenza è la via del pensiero.
Le due vie di Parmenide, la giusta e la sbagliata, quella della
ragione e quella dei sensi, hanno anche un significato morale.
Esse significano la scelta, davanti alla quale ogni uomo si trova
con la sua responsabilità, fra una vita moralmente buona, pro-
tesa all’universale, e una vita che si chiude angustamente
nell’individuale.
Una scuola, forse una setta, quella di Parmenide. che in Elea-
Velia affondò profonde radici, la cui pianta non è ancora del
tutto esplorata. Certamente una scuola che ha lasciato profon-
de influenze nella terra feconda di filosofi della Magna Grecia e
che, come qualche recente ritrovamento archeologico e felici
intuizioni di Giovanni Pugliese Carratelli fanno intravedere,

37
potrebbe aver avuto un risvolto medico-terapeutico (in quello
stesso territorio, mille e più anni dopo, germogliò la Scuola
Medica Salernitana!). Si può anche pensare che la sacra Y a
due bracci che vediamo su monumenti funebri posteriori di am-
bito neopitagorico, e che simboleggia la decisione del defunto
di fronte al bivio della vita fra vizio e virtù, risalga al veneran-
do Parmenide e alle sue due vie.
Appunto la via giusta è quella della legge della ragione, è ma-
dre della legge umana, di ciò che permette un rapporto stabile
e paritario fra gli uomini. Dike, la dea della giustizia, guida nel
cammino incerto il viandante del poema parmenideo. La legge
è universalità. «Dike vendicatrice possiede le chiavi che aprono
e chiudono», e la porta si apre sulla necessità, sull’ordine ne-
cessario dell’universo. Parmenide è «terribile» anche perché è
il sublime veggente della necessità. «L’antica Grecia — escla-
mò Einstein — fu la culla della scienza moderna. Là avvenne
per la prima volta il miracolo concettuale della nascita di un si-
stema logico: la geometria euclidea». La stessa esclamazione
ammirata si può ripetere per quel greco della Magna Grecia
che fu Parmenide, il primo eroe di quella titanica impresa della
mente umana che consiste nel disvelare le tracce logiche asso-
lutamente necessarie non solo dei sistemi a priori delle mate-
matiche e delle geometrie, bensì anche della realtà fisica.

Frammenti

1 (B 1)
Le cavalle che mi portano, conformemente all’impulso del-
la mia mente, anche ora mi guidarono, poiché m’avevano spin-
to su quella famosa via della dea che porta l’uomo che sa per
ogni dove. Su quella via fui condotto; su quella via infatti mi
portavano le cavalle esperte che tiravano il carro, e fanciulle
indicarono il cammino. L’asse [ruotando] nel mozzo mandava
un acuto stridore, sprizzando faville (poiché era mosso dalle
due ruote che vorticosamente si muovevano da una parte e
dall’altra), quando si affrettarono, le fanciulle figlie del Sole, li-
berato il capo dai veli, a spingermi verso la luce, abbandonan-
do la regione della Notte. Là c’è la porta che divide il cammino
della Notte e del Giorno, col suo architrave e con la sua soglia
di pietra: e la porta, chiara come il cielo, è chiusa da grandi

38
battenti, dei quali Dike vendicatrice possiede le chiavi che
aprono e chiudono.
E allora le fanciulle, esortandola con gentili parole, la
persuasero accortamente a togliere per loro velocemente la
sbarra dalla porta: e la porta si aprì rivelando un ampio pas-
saggio e facendo girare nei cardini, da una parte e dall’altra, i
suoi assi di bronzo fissati con cinghie e con chiodi. Per di là at-
traverso la porta le fanciulle guidarono immediatamente sulla
strada il carro e le cavalle. E la dea mi accolse benevolmente,
mi prese la mano destra con la sua mano, e così, con queste pa-
role, mi parlò: «O giovane, che insieme a immortali guidatrici
vieni alla mia casa portato dalle cavalle, salve! Giacché non
una cattiva sorte ti ha condotto per questa via (che infatti è
lontana dalla via battuta dagli uomini), ma una legge sacra e
giusta. È necessario che tu apprenda ogni cosa, sia il fondo im-
mutabile della verità senza contraddizioni, sia le esperienze de-
gli uomini, nelle quali non è vera certezza. Ma ad ogni costo
anche questo apprenderai, dal momento che le esperienze deb-
bono avere un loro valore per colui che indaga tutto in tutti i
sensi.
2 (B 2)
Ebbene, io t’esporrò — e tu fai tesoro del discorso che odi
— quali siano le sole vie di ricerca pensabili.
L’una che esiste e non può non esistere — è il cammino della
Persuasione (infatti segue la Verità), l’altra che non esiste e
che è necessario logicamente che non esista, e questa io ti dico
che è una strada del tutto impercorribile. Perché ciò che non è
non puoi né conoscerlo (infatti questa conoscenza è irrealizza-
bile) né esprimerlo.
3 (B3)
… infatti è la stessa cosa pensare ed essere.
4 (B 6)
Bisogna dire e pensare che ciò che è esiste: infatti è possi-
bile che solo esso esiste mentre il nulla non esiste: su questo ti
invito a riflettere. Infatti da questa prima via di ricerca ti tengo
lontano, ma anche da quella per la quale uomini che nulla san-
no vanno errando, uomini con due teste. Poiché l’incertezza
che hanno nel petto guida la loro mente indecisa; ed essi si la-
sciano trascinare, sordi e insieme ciechi, storditi, gente che
non sa giudicare, per la quale è la stessa cosa e poi non lo è più

39
il considerare l’esistere e il non esistere e [per la quale] in ogni
caso c’è sempre un cammino in senso inverso.
5 (B5)
… per me è lo stesso da quale punto cominciare: lì infatti
di nuovo ritornerò.
6 (B 4)
Guarda come anche le cose lontane, per mezzo della men-
te, divengano sicuramente vicine: infatti non scinderai ciò che
è dalla sua connessione con ciò che è, né separandolo comple-
tamente dalla sua connessione sistematica con tutti gli altri en-
ti, né costituendolo in se stesso.
7-8 (B7-B8)
Poiché giammai si potrà imporre con la forza questo, che
esistono le cose che non esistono.
Ma tu allontana i tuoi pensieri da questa via di ricerca; né l’at-
teggiamento dispersivo degli uomini ti costringa lungo questa
altra via, facendo uso di occhi che non vedono e di orecchie
rimbombanti, usando vuote parole, ma giudica con la ragione
le prove piene di argomentazioni polemiche da me addotte. Ri-
mane ora solo da parlare della via che esiste: su questa via vi
sono molti segni, in relazione al fatto che, ciò che è, è ingene-
rato e indistruttibile.
È infatti compatto nelle sue parti e immutabile e senza un fine
a cui tendere: non era né sarà, poiché è ora un tutto omoge-
neo, uno, continuo. E infatti quale origine gli cercheresti?
Come e da dove potrebbe essere accresciuto? Da ciò che non è
non ti permetterò né di dirlo né di pensarlo: poiché esso non è
né esprimibile né pensabile dal momento che non esiste. E qua-
le necessità l’avrebbe spinto a nascere prima o dopo, se comin-
cia dal nulla?
Pertanto è necessario che esista in assoluto o non esista affat-
to.
Né mai la forza della certezza concederà che da ciò che non è
nasca qualcosa accanto a ciò che è.
Perciò né nascere né perire gli ha permesso Dike allentando i
suoi vincoli, ma lo tiene saldamente. Su queste vie dunque la
decisione consiste in questo: esiste o non esiste. Si è deciso
dunque, com’era necessario, di lasciare una delle vie come im-
pensabile e inesprimibile (non è la vera via, infatti) mentre l’al-
tra esiste ed è autentica.

40
Come potrebbe, ciò che è, esistere nel futuro? Come potrebbe
nascere?
Se infatti era, non è; così pure, se ancora deve essere, non è.
Così si eliminano i concetti incomprensibili di nascita e morte.
Neppure è divisibile, giacché è tutto uguale: né vi è in qualche
parte un di più che gli impedisca d’essere continuo, né un di
meno, ma è tutto pieno di essere.
Perciò è tutto continuo: poiché, ciò che è, è tutt’uno con ciò
che è.
Inoltre è immobile nei limiti di potenti legami, senza principio
né fine, poiché nascita e morte sono state respinte lontano ad
opera della vera certezza. E rimanendo sempre se stesso, nella
propria identità, riposa in se stesso e così rimane saldo nel suo
luogo; infatti la possente Necessità lo tiene nei legami del limi-
te che d’ogni parte lo avvolge, poiché ciò che è non può essere
incompiuto.
Infatti non manca di nulla: ciò che non è invece manca di tutto.
Ed è la stessa cosa il pensare e ciò che è pensato.

41
Capitolo 6
I sofisti
Viviamo in un’epoca sofistica. Da che cosa è caratterizzata la
sofistica? Dal dominio dell’opinione, dalla convinzione che la
verità non possa essere raggiunta. Viviamo in un’epoca domi-
nata dall’opinione, dalla sfiducia nella possibilità di raggiunge-
re la verità, dallo scetticismo, e il dominio dell’opinione si fa
sentire oggi con mezzi più potenti che all’epoca sofistica greca,
cioè con i mezzi di comunicazione di massa. I modelli di esi-
stenza vengono imposti da creatori di opinioni, non certo ispi-
rati da filosofi o da chi si sforza di indagare la verità. Vedremo
come i sofisti teorizzano il relativismo e come alla luce della fi-
losofia di Socrate e di Platone il relativismo e lo scetticismo
nella conoscenza, che comportano l’individualismo e l’egoismo
nella vita pratica, possono essere sconfitti perché sono logica-
mente infondati. Possiamo riassumere così i tratti della sofisti-
ca: sofistica vuol dire regno dell’opinione, sfiducia nella possi-
bilità di raggiungere la verità, quindi relativismo, scetticismo,
soggettivismo, e di conseguenza individualismo. Cerchiamo di
collocare i sofisti all’interno della storia della filosofia. Non mi
voglio attardare sulla Atene di Pericle, sulla Atene della metà
del quinto secolo, di cui trovate chiare notizie nei vostri ma-
nuali: quando intendo collocare i sofisti nella storia della filoso-
fia, voglio dire che i sofisti costituiscono un momento necessa-
rio nella storia della filosofia, non possono non comparire a un
certo punto, dopo i naturalisti, come non possono non essere
superati poi da una posizione come quella di Socrate e di Plato-
ne. I Greci avevano ragione sul fatto che c’è una logica in tutte
le cose, ma se c’è una logica in tutte le cose ci sarà una logica
anche nella storia della filosofia: la storia della filosofia segue
un filo di sviluppo ben saldo.
Il primo momento della storia della filosofia è rappresentato

42
dai naturalisti presocratici, dall’attenzione al mondo oggettivo,
al mondo naturale; è spiegabile che all’attenzione per il mon-
do oggettivo, esteriore — la natura —, segua un periodo invece
di attenzione rivolta sul soggetto, sull’uomo. I sofisti sono gli
autori di una “rivoluzione antropologica” nella filosofia, nel
senso che al naturalismo orientato alla conoscenza
dell’oggetto, di ciò che è fuori di noi, fanno seguire una filoso-
fia che si rivolge al mondo propriamente umano, al mondo dei
soggetti. Da Talete ad Anassagora troviamo discorsi
sull’essere, sulla natura, ma quasi mai discorsi sull’uomo, sui
rapporti umani, sulla politica, sulla morale: questo invece è
l’oggetto del secondo grande momento della storia della filoso-
fia, la sofistica. In che senso la sofistica era uno sviluppo neces-
sario? Non solo perché alla curiosità rivolta all’oggetto doveva
far seguito la meraviglia rivolta al soggetto, ma era uno svilup-
po necessario anche per quanto era avvenuto dopo Parmenide.
Parmenide aveva affermato che l’essere è e il non essere non è,
e su questa base aveva negato la pluralità e il movimento, co-
me aveva confermato poi il suo discepolo Zenone. Dopo Parme-
nide si assiste, per così dire, a una rivincita della pluralità, del
mondo sensibile, basti pensare alla pluralità delle radici e degli
elementi di Empedocle, alla pluralità dei ‘semi’ di Anassagora,
alla pluralità degli atomi di Leucippo e Democrito. Parmenide
ha irrigidito tutto nell’unità assoluta dell’essere. Per reazione,
dopo Parmenide, c’è stata una rivalutazione del mondo empiri-
co, del mondo sensibile, del mondo materiale, della pluralità
delle cose materiali in contrapposizione all’unità dell’essere.
Alla fine di questa fase nascono i sofisti, la cui filosofia è anti-
parmenidea per eccellenza: i sofisti costituiscono uno sviluppo
delle filosofie antiparmenidee sul piano del mondo dell’uomo.
Tra poco analizzeremo brevemente lo scritto Sul non essere di
Gorgia, che si può considerare come il “manifesto”, come il te-
sto più emblematico della sofistica: reca un titolo significativo
e pretende appunto di confutare sistematicamente le tesi par-
menidee sull’essere. Ma confutare Parmenide, negare l’unità,
significa affermare la pluralità, rifiutare l’assoluto di Parmeni-
de significa affermare il relativo: è appunto quello che fa Gor-
gia.
La sofistica sosterrà contro Parmenide che l’assoluto non esi-
ste, che non è fondata la pretesa di accedere all’assoluto col

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pensiero, che esiste la pluralità e che la conoscenza è fondata
sui sensi. Al pensiero parmenideo viene contrapposta la cono-
scenza sensibile, ma questa è una forma di conoscenza forte-
mente legata all’individuo: l’individuo sano o l’individuo malato
percepiscono una stessa pietanza come dolce o come amara a
seconda appunto del loro stato di salute, anzi nello stesso indi-
viduo si può avere una mutazione del gusto proprio perché so-
pravviene una malattia, e quello che era percepito prima come
dolce viene percepito poi come amaro. Affidarsi ai sensi vuol
dire affidarsi a una forma di conoscenza, ad una facoltà cono-
scitiva, che porta inevitabilmente a posizioni personali, a posi-
zioni di carattere individuale. Quindi: rifiutato Parmenide, ne-
gata l’unità, caduta la fiducia nel pensiero, eretti i sensi a uni-
co criterio di conoscenza , si cade nella conoscenza relativa
all’individuo, nel relativismo, nel soggettivismo. Ma le filosofie
sono coerenti: se sarò soggettivista nella conoscenza, sarò di
conseguenza soggettivista anche nella morale: la morale sofi-
stica si configura pertanto come centrata sull’individuo, quindi
prende l’aspetto o di edonismo (vale a dire che il bene viene
fatto coincidere col piacere, che è qualche cosa ovviamente di
individuale), o diutilitarismo (il bene viene fatto coincidere con
l’utile). La morale sofistica, coerentemente con le sue premes-
se conoscitive e ontologiche, sarà una morale o edonistica o
utilitaristica. C’è poi un’esasperazione di questa tendenza nella
seconda sofistica, per esempio in Trasimaco, un personaggio
che compare nei dialoghi di Platone. La seconda sofistica, co-
me spesso avviene per la continuazione di qualche cosa di ori-
ginario, è un peggioramento, una degenerazione della prima
sofistica: in essa si avrà la nascita del fenomeno — anch’esso
oggi attuale — del “positivismo del potere”: non soltanto la ri-
cerca dell’utile, ma la pretesa che tutti gli altri debbano essere
subordinati al mio utile. Il positivismo del potere implica una
decisa presa di posizione per il fatto che il più forte ha ragione
di vincere, ha ragione di sottomettere i più deboli, in quanto
l’unico criterio di validità è dato da ciò che ha successo, ciò che
si impone. A prescindere dal fatto che si imponga con la forza o
senza forza, ha sempre ragione chi vince. Nella degenerazione
estrema della sofistica, si afferma il positivismo del potere.
Riepiloghiamo la costellazione di concetti della sofistica: ab-
bandono dell’assoluto, abbandono della verità, trionfo

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dell’opinione, quindi relativismo, scetticismo, soggettivismo, in-
dividualismo, edonismo, utilitarismo, tutte cose che sono per-
fettamente coerenti tra di loro. Infatti, se non esiste la verità,
esisteranno le opinioni, e a questo punto la sofistica affermerà
un fatto contraddittorio, come vedremo tra breve, cioè che tut-
te le opinioni si equivalgono: è chiaro che se non c’è un criterio
oggettivo per trovare la verità quanto ognuno afferma equivale
a quanto affermano gli altri: «tutti sanno tutto» — affermeran-
no i sofisti — nel senso che tutte le opinioni sono ugualmente
degne e si equivalgono. Se tutte le opinioni sono equivalenti,
che cosa ne consegue? Che cercherò di imporre la mia opinio-
ne all’altro: non potremo discriminare tra la mia opinione e la
sua sulla base di quale è più vera, e cercheremo semplicemen-
te di prevaricare l’uno sull’altro. La prima forma di prevarica-
zione è la retorica. Non c’è verità, allora cercherò di impormi
non con un ragionamento vero, ma semplicemente muovendo
gli affetti, tentando di commuovere, di entusiasmare, di far le-
va sull’invidia, sulla gelosia, sullo spirito di vendetta, sullo slan-
cio emotivo, cioè sui sentimenti e sulle passioni, che sono sem-
pre qualche cosa di ambiguo, di soggettivo. La retorica, come
arte del persuadere, come arte del ben parlare, si sostituisce
alla filosofia. E nella seconda sofistica, in Trasimaco, se non
riesco a persuadere posso addirittura usare la violenza: con
Trasimaco il soggettivismo sofistico getta la maschera.
Rilevato l’aspetto negativo della sofistica, si deve però riflette-
re su questo: se la sofistica è un momento necessario nella sto-
ria della filosofia, vuol dire che ha una sua logica, vuol dire che
contiene una sua parte di verità. La sofistica è qualcosa di ne-
gativo perché innalza l’opinione contro la verità, il soggettivi-
smo contro l’oggettività, ma apre la strada per poter capire la
verità su un piano molto più alto, che sarà il piano di Socrate e
di Platone. La sofistica costituisce un momento di antitesi, cioè
di contrapposizione al pensiero e al costume precedenti, al na-
turalismo presocratico e alla morale arcaica, ma, introducendo
il fermento critico, sia pure in maniera demolitrice, prepara
forme di ragionamento più elevate di quella di Parmenide, che
saranno le forme di ragionamento di Platone. La sofistica costi-
tuisce quindi un’antitesi rispetto alla filosofia naturalistica, un
momento negativo, ma nella storia della filosofia non c’è mai
un momento completamente negativo, in cui tutto è da buttare

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via. Nella sofistica, col suo raffinamento nella capacità di argo-
mentare, di ragionare, si presenta qualche cosa di molto positi-
vo, che Socrate e Platone faranno proprio.
Questo aspetto è stato colto molto bene da Hegel nelle sue Le-
zioni sulla storia della filosofia. Hegel dice che i sofisti sono
stati “i maestri della Grecia” nel senso che sono stati i primi ad
avere una cultura come noi la intendiamo e a cercare di diffon-
derla. Nella Grecia prima dei sofisti ci sono stati grandi pensa-
tori naturalisti, ma non si proponevano di diffondere le loro co-
noscenze o di educare i giovani, né questo veniva fatto dalla
casta sacerdotale, che era dedita solo ai sacrifici, alle cerimo-
nie sacre, ecc. I sofisti sono i primi maestri dell’umanità, cioè
sono i primi uomini di cultura che cercano di diffondere la cul-
tura, per questo Hegel li definisce “maestri della Grecia” e li
chiama “illuministi”, nel senso che sono i primi che intendono
mettere tutto a confronto con la luce dell’intelletto, col pensie-
ro, anche se mettendo tutto a confronto col pensiero, inteso in
maniera soggettiva, distruggono tutto. Ma qual è più precisa-
mente il loro ruolo positivo? Fino a loro, per quanto riguarda lo
studio della natura c’erano stati i naturalisti, per quanto ri-
guarda il mondo dell’uomo, la morale, la politica, che non era-
no state oggetto di indagine filosofica, era valsa l’autorità della
tradizione, delle caste sacerdotali, dell’aristocrazia; i sofisti
rompono l’autorità della tradizione, rifiutano l’atteggiamento di
fede indiscussa nelle divinità olimpiche. I sofisti introducono
una capacità di ragionamento al posto dell’accettazione passi-
va di contenuti morali; purtroppo distruggono questi contenuti
morali, ma introducono una mentalità critica, abituano al con-
fronto col pensiero. L’elemento positivo della sofistica consiste
dunque nel fatto che essa è ‘illuminismo’, tentativo di illumina-
re col pensiero il dogma, cioè le credenze non dimostrate. La
sofistica è contro l’atteggiamento fideistico e dogmatico di os-
sequio all’autorità, di ossequio alla tradizione: si possono ac-
cettare contenuti solo se sono stati passati al vaglio del pensie-
ro. Questo pensa il sofista, e in questo svolge un’azione forte-
mente innovativa nella storia della civiltà. In proposito dice He-
gel:«Il termine di ‘cultura’ è indeterminato, significa in genera-
le ‘coltivare’, ‘elevare coltivando’, se lo vogliamo precisare ha
questo significato: ciò che il pensiero libero deve conquistare
lo deve trarre da sé come propria convinzione». I sofisti

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stabiliscono questo di importante: posso accettare solo quello
di cui sono convinto, non posso accettare la regola tramandata
fideisticamente o l’imperativo, il comando di una autorità; l’au-
torità e la tradizione li debbo filtrare alla luce del mio pensiero,
devono diventare una mia convinzione. «Non si crede quindi
più, ma si investiga»: all’atteggiamento fideistico si sostituisce
l’atteggiamento riflessivo. «Insomma si tratta di ciò che nei
tempi moderni è stato chiamato illuminismo». Illuminismo si-
gnifica richiesta di legittimazione: se mi si vuol imporre qual-
che cosa, mi si deve addurre il motivo della sua validità, non
me lo si può imporre sulla base di un’autorità quale che sia. «Il
pensiero va in cerca di princìpi generali coi quali giudicare tut-
to ciò che deve valere per noi; e per noi non ha valore se non
ciò che si conforma a tali princìpi. Il pensiero prende dunque a
comparare il contenuto positivo con se stesso, a dissolvere la
precedente concretezza della fede». Il pensiero diventa il punto
di riferimento.
I primi che hanno iniziato a introdurre la riflessione all’interno
dei rapporti umani, quindi nella sfera della morale, della politi-
ca e della società, sono stati i sofisti. Hanno dato vita alla “rivo-
luzione antropologica”, mettendo l’uomo al centro della realtà.
La ragione non investiga più l’essere, la natura, ma gli stessi
rapporti umani. I sofisti contribuiscono ad affermare che il pen-
siero è la suprema istanza, è il supremo tribunale: Niente viene
accettato se non è passato davanti al tribunale del pensiero: «Il
pensiero, dunque, il pensiero identico a sé volge la sua forza
negativa [si manifesta come critica, perciò Hegel parla di “for-
za negativa”] contro le molteplici manifestazioni particolari
della teoria e della pratica, contro le verità della coscienza na-
turale [cioè della coscienza ingenua] contro le leggi e i principi
vigenti nella loro immediatezza». Tutto deve essere spiegato,
non può restare immediato, senza spiegazione: «E ciò che alla
rappresentazione appare saldo, nel pensiero si dissolve, e la-
scia così da un lato che la soggettività particolare faccia di se
stesso un primo e un saldo e riferisca tutto a sé». La sofistica è
soggettivistica, ma porta un avanzamento nella storia del pen-
siero: la centralità del pensiero anche riguardo alle cose uma-
ne. Questo passo viene compiuto con molta eleganza e sempli-
cità da Protagora.
Protagora se la cava molto sbrigativamente con i problemi

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affrontati dai suoi predecessori. Egli afferma: «Riguardo agli
dei, non ho la possibilità di accertare né che sono, né che non
sono, opponendosi a ciò molte cose: l’oscurità dell’argomento e
la brevità della vita umana». I problemi dell’essere, del non es-
sere e del divenire, i problemi che hanno affrontato Parmenide
e Eraclito, i problemi dell’essenza della realtà — questo vuol
dire con la parola gli dei — sono impossibili da spiegare; sep-
pure fossero spiegabili, la vita umana è troppo breve per rag-
giungere questo obbiettivo, quindi è meglio lasciarli stare.
L’essere, il non essere, il divenire, Protagora li considera pro-
blemi insolubili e sposta l’attenzione direttamente sul mondo
umano. Ma se non c’è possibilità di raggiungere l’essere, l’og-
gettività, è chiaro che il punto di riferimento può diventare solo
il soggetto: ne segue la famosa affermazione che caratterizza
tutta la filosofia di Protagora: «Misura di tutte le cose è l’uomo:
di quelle che sono per ciò che sono, di quelle che non sono per
ciò che non sono». Platone commenta questa frase nel senso
che si debba intendere per misura la norma di giudizio e
per cose i fatti in genere, sicché il senso è questo: «Che l’uomo
è la norma che giudica tutti i fatti, di quelli che sono per ciò
che sono, di quelli che non sono per ciò che non sono, e perciò
egli ammette solo ciò che pare ai singoli individui e in tal modo
introduce il principio di relatività. Secondo lui dunque chi giu-
dica delle cose è l’uomo. Infatti tutto ciò che appare agli uomi-
ni anche è: e ciò che non appare a nessun uomo, neppure è».
Di questo famoso detto di Protagora si possono dare due inter-
pretazioni, che in fondo non sono molto diverse l’una dall’altra:
nella proposizione «misura delle cose è l’uomo» per ‘uomo’ si
può intendere o l’individuo o l’uomo con la ‘U’ maiuscola, l’es-
sere umano. Se si intende che di tutte le cose misura è l’indivi-
duo, ci ritroviamo nel relativismo più pieno: ogni individuo ha
caratteristiche diverse dall’altro e quindi avrà una prospettiva
sul mondo diversa dall’altro; ma anche se, come dice Hegel,
forse Protagora intendeva che di tutte le cose misura è l’uomo
nel senso dell’umanità, con le sue facoltà conoscitive e i suoi
strumenti di conoscenza, in ogni caso è perso il riferimento
all’oggettività e si cade nel relativismo: è l’uomo che crea i me-
tri, vale a dire i modi per misurare le cose. Queste misure sono
soggettive, non mi forniscono il dato effettivo su ciò che mi tro-
vo di fronte, mi dicono soltanto qualche cosa di relativo a me

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soggetto. Protagora fonda dunque il relativismo: tutto è relati-
vo al soggetto, che questo soggetto sia l’individuo o che sia
l’uomo come umanità, la differenza non è proprio moltissima.
La prima sofistica — cioè quella di Protagora e Gorgia — è ani-
mata da buoni ideali. I primi sofisti in sostanza affermano: «Noi
abbiamo scoperto la potenza della parola, ma è importante che
questa potenza venga usata a fin di bene». La critica di Platone
sarà in breve questa: «Cari miei, sostenete pure che la parola
può essere usata a fin di bene, ma, visto che scardinate il rife-
rimento a valori oggettivi, niente implica che la parola non ven-
ga usata a fin di male». Protagora è convinto che l’arte della
parola si possa usare per far passare le persone da convinzioni
cattive a convinzioni migliori, facendo leva sugli affetti, su bel-
le immagini, ecc., ma una volta che questo diventa un che di
arbitrario, legato alla persona che parla, la quale può voler
persuadere al male, lo strumento della parola diventa neutro.
La retorica in quanto tale può essere animata da buone inten-
zioni, può essere messa al servizio del bene, ma l’appello pura-
mente emotivo può essere contrastato da un altro appello, al-
trettanto puramente emotivo, di senso opposto. La comunica-
zione in quanto tale, la retorica, il bel discorso, sono neutri:
possono essere usati per il bene, ma possono anche essere usa-
ti per istigare alla violenza: nella retorica non si ritrova nessu-
na soluzione per i problemi umani. Avere buone intenzioni,
esplicitare queste buone intenzioni con la parola, cercare di
coinvolgere gli altri in queste buone intenzioni può avere qual-
che utilità, ma sicuramente non costituisce l’elemento risoluti-
vo, perché rimane sempre all’interno della soggettività: l’appel-
lo può partire da una persona buona, cadere come seme nel
cuore di una persona altrettanto buona e fruttificare, ma ciò è
legato al fatto che già soggettivamente ci sia una predisposizio-
ne, e quindi può avvenire anche il contrario. Quello che invece
ha una forza stringente è il ragionamento logico, è il ragiona-
mento di tipo matematico, per cui, se si dimostra un teorema,
esso si impone con la forza dell’oggettività della dimostrazione.
Nel dialogo Teeteto, Platone onestamente riconosce che in
questi suoi avversari ci sono buone intenzioni. Dice Protagora
nel dialogo: «Io affermo, sì, che la verità è proprio come ho
scritto: che ciascuno di noi è misura delle cose che sono e che
non sono, ma c’è una differenza infinita fra uomo e uomo per

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ciò appunto che le cose appariscono e sono all’uno in un modo,
all’altro in un altro. E sono così lontano dal negare che esista
sapienza e uomo sapiente, che anzi chiamo sapiente colui il
quale, trasmutando quello di noi cui certe cose appaiano e so-
no cattive, riesca a far sì che codeste medesime cose appaiano
e siano buone. E tu non combattere il mio ragionamento inse-
guendolo ancora nelle parole, ma vedi piuttosto di intendere
così sempre più chiaramente che cosa voglio dire. Ricorda quel
che già prima dicemmo, che a chi è malato i cibi sembrano e
sono amari, a chi sta bene al contrario sembrano e sono grade-
voli {ribadisce: le cose appaiono a ognuno in un modo], se non
che non è lecito inferire da ciò che di questi due l’uno è più sa-
piente dell’altro, infatti non è possibile e nemmeno si deve dire
che l’ammalato, perché ha tale opinione, è ignorante, ed è sa-
piente il sano perché ha opinione contraria, bensí bisogna mu-
tare uno stato nell’altro, perché lo stato di sanità è migliore».
Questa è la formulazione più chiara del soggettivismo: il mala-
to e il sano si equivalgono, il primo ha l’impressione che la me-
dicina sia amara, il secondo ha l’impressione che sia dolce, en-
trambi hanno una precisa convinzione basata sui loro sensi,
ma, dice Protagora, bisogna mutare uno stato nell’altro, perché
lo stato di sanità è migliore. Ma come fa ad affermare che lo
stato di sanità è migliore se non ha una teoria per identificare
ciò che è vero e confrontarlo con ciò che è falso? Ha detto che
tutto è vero e tutto è falso, che il malato ha ragione come il sa-
no, come fa a dire poi che lo stato di sanità è migliore?. Per suo
buon cuore poi aggiunge: «E così anche nell’educazione biso-
gna far passare l’uomo da un’abitudine peggiore a un’abitudine
migliore». Ma se non edifico una teoria per cui posso identifi-
care quello che è migliore e quello che è peggiore come posso
modificare in meglio le cose? A questo punto Platone è sferzan-
te con la sua ironia nella prosecuzione del Teeteto: «Quanto al
resto la sua affermazione mi piace moltissimo, che cioè quel
che pare a ciascuno questo anche è. Mi ha meravigliato solo
l’inizio del suo discorso, che cioè al principio della
sua Verità [cioè di un discorso che si intitola «Verità»] non ab-
bia affermato che misura delle cose è il porco o il cinocefa-
lo [una scimmia con la testa a forma di cane] o qualunque altro
più strano essere dotato di senso». Arbitrariamente Protagora
sceglie un punto di riferimento, ma perché non sceglierne un

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altro? Perché non scegliere il porco o la scimmia, dice ironica-
mente Platone? «Ma d’altra parte c’è Protagora che mi tira col
dirmi: è l’uomo che definisce e giudica le cose, e cose sono
quelle che cadono sotto i suoi sensi, mentre quelle che non ca-
dono sotto i suoi sensi neppure esistono nel numero delle for-
me e della sostanza» — quindi è ribadito il soggettivismo.
Passiamo a Gorgia, l’altro grande sofista. La dottrina di Gorgia,
abbiamo detto, è simmetrica e antitetica rispetto a quella di
Parmenide: Parmenide afferma che l’essere è, e che c’è uno
stretto legame tra essere e pensiero, Gorgia dice esattamente
il contrario. Nel suo scritto Sul non essere egli sostiene che
niente esiste, cioè l’essere non è, che seppure esistesse non sa-
rebbe conoscibile, seppure fosse conoscibile non sarebbe co-
municabile. Viene demolito sia il piano ontologico, sia il piano
gnoseologico, sia il piano della comunicazione, si arriva a quel-
lo che è stato chiamato ‘nichilismo’ (dalla parola nihil, ‘niente’
in latino): cioè annientamento totale di tutti i valori e di tutte le
prospettive. Platone riassume la dottrina di Gorgia così: «Gor-
gia, nel suo libro intitolato Del non-ente o della natura si fonda
su tre capisaldi che si svolgono, articolandosi uno di seguito
all’altro: uno e primo è che nulla è; secondo, che se anche al-
cunché è, è umanamente inafferrabile; terzo, che se pure è af-
ferrabile, è certo incomunicabile e non spiegabile agli altri». I
ragionamenti di Gorgia sono molto sottili: oggi quando si rim-
provera a qualcuno di essere un sofista gli si vuol dire che è un
sofisticato ragionatore e che cerca di ingannare con sottigliez-
ze. In breve, qual è il ragionamento di Gorgia? L’essere non
esiste perché, dice Gorgia, se l’essere esistesse, o dovrebbe es-
sere eterno, o dovrebbe essere generato. Possiamo ripercorre-
re brevemente questa argomentazione che dà l’idea, cui ho ac-
cennato prima, dello sviluppo delle capacità di analisi dovuto ai
sofisti, tesaurizzata da Socrate e Platone. Dice Gorgia: se l’es-
sere esiste, o è eterno o è generato; ora, eterno non può esse-
re, perché se è eterno vuol dire che non ha un principio, se non
ha un principio vuol dire che non ha un limite, se non ha un li-
mite è illimitato, è indeterminato, e, paradossalmente, se è illi-
mitato e indeterminato non è in nessun luogo, ma se non è in
nessun luogo allora non è. Vi ripeto: se l’essere è eterno vuol
dire che è senza principio, cioè non ha un limite iniziale, è illi-
mitato, se è illimitato vuol dire che non è in nessun luogo, ma

51
ciò che non è in nessun luogo non è, quindi l’essere non è. Que-
sto se l’essere è eterno. Se l’essere è invece generato, esso o è
stato generato dal non essere, o è stato generato dall’essere:
dal non essere non può essere stato generato (per il buon moti-
vo che il non essere per definizione non è), ma non può essere
stato generato neppure dall’essere, perché l’essere è ciò che è,
è ciò che è già, e proprio perché è già non può essere generato,
si creerebbe una contraddizione tra generante e generato
all’interno dello stesso essere: l’essere non può essere genera-
to se è già. Se l’essere non è né eterno, né generato, esso non
è.
Gorgia afferma poi che, ammesso pure che l’essere fosse, non
sarebbe conoscibile. Scinde il pensiero e l’essere, che Parmeni-
de aveva unito. La sua argomentazione è questa: se immagino
carri che corrono sul mare, ciò non implica che simili carri esi-
stano. In questo modo intende dire che non c’è un legame
stretto tra pensiero e essere: posso pensare una cosa che non
esiste, posso pensare Pegaso, il cavallo alato, posso pensare la
chimera, posso pensare i carri che corrono sul mare, cose che
non sono: non c’è quindi una perfetta corrispondenza tra pen-
siero e essere. Oltre ad usare questo esempio fa anche un ra-
gionamento un po’ più sottile: se c’è un’equazione tra essere e
pensiero, si dovrebbe dire simmetricamente: se ciò che è, è
pensabile, allora ciò che non è non è pensabi-
le; è e pensabile devono corrispondere simmetricamente, se
questo è vero, deve essere vero che non è è uguale a non pen-
sabile. Ma lo schema in cui è = pensabilecrolla, perché la chi-
mera, Pegaso il cavallo alato, ecc. li posso ben pensare mentre,
essendo non esistenti, dovrebbero essere anche non pensabili;
invece essi sono non esistenti, ma pensabili, allora, se non è ve-
ra la seconda proposizione che era simmetrica alla prima, non
è vera neppure la prima, cioè che ciò che è è pensabile: tra es-
sere e pensiero si crea una frattura e quindi la realtà non è co-
noscibile. L’argomentazione centrale è che tra essere e pensie-
ro c’è separazione: se posso pensare cose che non esistono
questo vuol dire che non c’è corrispondenza fra pensiero e es-
sere. Ripeto, per Gorgia se voglio sostenere che ciò che è è an-
che pensabile devo pure sostenere che ciò che non è non è
pensabile.
Più semplice l’argomentazione per cui seppure l’essere

52
esistesse e fosse conosciuto non sarebbe comunicabile. Gorgia
rileva che tra le parole e le cose c’è una scissione: in sostanza
quando pronuncio la parola ‘bicchiere’ sto usando un flatus vo-
cis, sto ricorrendo a un suono, che in un’altra lingua corrispon-
de a un altro suono. Quando uso la parola ‘bicchiere’ — ancora
più quando comunico per esempio un sentimento — non c’è
identità tra il flatus vocis, il suono, il segno grafico che segnala
la cosa e la cosa stessa: una cosa è la parola e un’altra cosa è
l’oggetto, la cosa stessa. Oltre alla frattura tra pensiero ed es-
sere c’è frattura tra parola e cosa. Se non c’è identità tra paro-
la e cosa, non si può comunicare, si cade nel solipsismo, nella
chiusura dell’io in se stesso: cade l’intersoggettività. Se non c’è
comunicazione, non c’è possibilità di comunicare, non c’è so-
cialità, e al sociale si sostituisce ovviamente l’individuale. Il
percorso sofistico è completo.
Gorgia stesso era animato dalle migliori intenzioni e sosteneva
che la parola può essere usata a fin di bene, ma tra poco vedre-
mo che Platone invece dimostra che tutto questo porta a una
situazione catastrofica. Gorgia illustra la potenza della parola
nell’Elogio di Elena. Elena, di solito, in tutta la tradizione, era
condannata come colei che aveva causato la guerra di Troia,
era stata portatrice di innumerevoli mali. Gorgia si diverte in-
vece a dimostrare esattamente l’opposto di quanto veniva co-
munemente creduto: «Esporrò ora le cause per le quali era na-
turale che Elena partisse per Troia. Ella fece quello che fece o
per volontà di fortuna o per ordine degli dei o per decreto della
Necessità, oppure rapita con violenza, o persuasa dalle paro-
le». Si ingegna a mettere in campo una serie di ipotesi che di-
scolpano Elena: se è stata persuasa è ancor meno colpevole
che se fosse stata costretta con la violenza o dai fati, perché la
parola ha una potenza enorme: «Se, invece, fu la parola a per-
suaderla e ad ingannare l’animo suo, neppure questo è difficile
a difendersi, sciogliendo l’accusa nel modo che segue: gran do-
minatore è la parola, che con piccolissimo corpo e invisibilissi-
mo riesce a compiere divinissime cose. Essa è, difatti, capace
di calmare la paura, di allontanare il dolore, d’infondere gioia,
di accrescere la pietà. E ora spiegherò come questo avvenga.
Ciò deve essere dimostrato anche all’opinione degli ascoltatori.
Tra la potenza della parola e la condizione dell’anima c’è lo
stesso rapporto che c’è fra ciò che prescrivono i farmaci e la

53
natura dei corpi. Come alcuni farmaci eliminano dal corpo al-
cuni umori, certi altri farmaci altri umori, e alcuni troncano le
malattie, altri la vita, così alcune parole addolorano, altre dilet-
tano, altre impauriscono, altre ispirano coraggio in chi ascolta,
altre infine avvelenano e ammaliano l’anima con una qualche
malefica persuasione. E così abbiamo dimostrato che se ella fu
persuasa dalla parola, non commise alcuna colpa, ma fu solo
sfortunata». È il famoso elogio della potenza della parola, della
potenza della persuasione contro la verità.
Vorrei infine prendere in considerazione tre decisive critiche
radicali alla sofistica che sono di origine platonica. Le tesi della
sofistica sono: lo scetticismo, il relativismo e il soggettivismo. I
sofisti sostengono che non c’è una verità oggettiva da conosce-
re, ma valgono solo le opinioni, e quindi vale la retorica che
permette di far prevalere la propria opinione su quella degli al-
tri. Lo scetticismo dei sofisti si riannoda intorno ad alcune pro-
posizioni che Platone nel Protagora, cioè nel dialogo intitolato
proprio al grande sofista, magistralmente smonta in una ma-
niera che vale ancora oggi. L’argomentazione nella sua essen-
zialità è questa: prima di tutto i sofisti pensano che nessuno co-
nosca niente veramente. Ora, dire che nessuno conosce niente,
cioè che c’è l’ignoranza assoluta, è falso, perché se affermo che
c’è l’ignoranza assoluta, cioè l’assoluto non sapere, pretendo di
sapere qualche cosa, cioè pretendo di sapere che c’è il non sa-
pere: allora il non sapere (cioè l’ignoranza) non è assoluto, ma
è relativo, quindi si sa qualche cosa, e basta che si sappia qual-
che cosa perché lo scetticismo sia sconfitto. Affermo che c’è
una assoluta ignoranza, cioè che nessuno di noi può sapere
niente, ma nel fare questa affermazione sto affermando proprio
di sapere che non si sa niente.
Come si fa a dimostrare la falsità dell’opinione di un altro? Il
modo più banale è quello di contrapporgli un’altra opinione, in-
vece il metodo di Socrate e di Platone è quello di dimostra-
re l’autocontraddittorietà di ciò che afferma l’avversario, per-
ché se enuncio semplicemente un’altra affermazione mi metto
già dalla sua parte, cioè riconosco implicitamente che ci sono
tante opinioni. Platone smonta la sofistica non col contrapporre
all’errore della sofistica una sua verità; egli analizza le affer-
mazioni dei sofisti e mostra che sono autocontraddittorie, cioè
si distruggono da sé: questo è il metodo giusto per confutare.

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Ora, appunto, l’affermazione che c’è una assoluta ignoranza è
falsa, perché se faccio questa affermazione pretendo di sapere.
Per i sofisti, inoltre, non si sa niente; di conseguenza, valgono
solo le opinioni, che si equivalgono, e pertanto si può dire che
tutti sanno tutto. Platone fa rilevare questo: che se pretendo di
dire che è vero che tutti sanno tutto non dovrei neppure fare
questa affermazione, perché dovrebbe essere già nota a tutti,
quindi anche questa affermazione è autocontraddittoria. Ma,
soprattutto, come smonta lo scetticismo, cioè il primo cardine
della sofistica? I sofisti affermano — se vogliamo ridurre il loro
pensiero a una formula — che tutto è falso. Ora, se affermo
che tutto è falso, pretenderò poi che la mia affermazione è fal-
sa, o che essa non lo è? Se dico che tutto è falso e pretendo che
questa mia affermazione sia vera, sto dicendo che c’è una veri-
tà, quindi non è vero che tutto è falso; se è vero invece che io
voglio sostenere proprio che tutto è falso, allora è falso anche
quello che sto dicendo, cioè che tutto è falso, e quindi esiste
qualche cosa di vero: Platone non lascia scampo a Protagora e
alla sofistica, cioè all’affermazione dello scetticismo integrale
che tutto è falso e che bisogna accontentarsi delle opinioni. Ta-
le posizione è falsa perché — ve lo ripeto in quanto penso sia
importante che voi apprendiate questo tipo di ragionamento —
se affermo che tutto è falso la mia affermazione sarà anch’essa
falsa, allora non sarà vero che tutto è falso, quindi esiste una
verità e ci si deve mettere a cercare la verità: questa è una pri-
ma possibilità; se sostengo invece che tutto è falso tranne la
mia affermazione, di fatto sto sostenendo che almeno una veri-
tà c’è. Quindi in tutti e due i casi, o che io pretenda che l’affer-
mazionetutto è falso sia vera, o che io pretenda che sia falsa,
sto pur sempre ammettendo che esiste la verità, e lo scettici-
smo risulta infondato.
Lo stesso tipo di ragionamento Platone fa per il relativi-
smo: tutto è relativo. Come ha detto Protagora, «l’uomo è me-
tro di tutte le cose»: quello che appare a me è vero per me,
mentre quello che appare a un altro è vero per lui. L’afferma-
zione tutto è relativo risponde a uno schema simile a quello
di tutto è falso. Se sostengo che tutto è relativo è relativo pure
il fatto di affermare che tutto è relativo, ma, se è relativo
che tutto è relativo, c’è qualche cosa di assoluto. Se invece pre-
tendo che dire che tutto è relativo è una frase che si riferisce a

55
tuttotranne quello che sto dicendo io, quello che sto dicendo
pretende di essere assoluto, quindi riconosco che c’è qualche
cosa di assoluto. Anche il relativismo, l’anticamera del sogget-
tivismo, è falso perché è autocontraddittorio. Ripeto: se nella
frase tutto è relativo, faccio rientrare anche la frase stessa, al-
lora la frase stessa è relativa e si smentisce, se invece pretendo
che tutto è relativo tranne quello che sto affermando, quello
che sto affermando lo considero assoluto, allora il relativismo è
falso come lo scetticismo. Ed è falso anche il soggettivismo,
cioè l’individualismo.
Infatti, che cosa implica la teorizzazione di questo terzo cardi-
ne della sofistica, cioè del soggettivismo o dell’individualismo?
Protagora, Gorgia e tutti i sofisti conversavano di continuo e
cercavano di convincere con le loro argomentazioni, quindi,
mentre sostenevano il soggettivismo, cioè l’individualismo, fa-
cevano però ricorso alla comunicazione, e quindi ammetteva-
no l’intersoggettività, cioè pretendevano di convincere e per-
tanto di poter comunicare. L’intersoggettività è il contrario del
soggettivismo: il fatto che io sostenga come sofista una teoria
soggettivista e poi pretenda di imporre questa teoria soggetti-
vista ragionando, discutendo, cercando di persuadere, significa
che sto cercando di avere la meglio comunicando con gli altri,
ma la comunicazione è possibile solo sulla base dell’intersog-
gettività. Quindi proprio nel momento in cui voglio sostenere la
mia tesi soggettivistica e individualistica sto facendo appello a
un elemento sociale, comune, intersoggettivo, cioè al contrario
di quanto voglio sostenere. Mentre sto negando la socialità e
l’intersoggettività le sto riconoscendo implicitamente proprio
perché cerco di comunicare.
Queste in breve le argomentazioni contro scetticismo, relativi-
smo e soggettivismo che vengono addotte nelProtagora e
nel Menone. Voglio far riferimento, per concludere, al dialo-
go Gorgia in cui — con una struttura simmetrica in tre parti —
viene smantellata la teoria di Gorgia. Si può tentare di semplifi-
care le argomentazioni platoniche in questo modo: se dico che
l’essere non è conoscibile già sto dicendo di conoscere qualche
cosa dell’essere, cioè sto affermando di conoscere la sua inco-
noscibilità, e se dico che l’essere non è comunicabile sto cer-
cando di comunicare ciò che non è comunicabile: quindi anche
le frasi centrali di Gorgia nella dottrina del ‘non essere’ sono

56
autocontraddittorie, perché Gorgia pretende che non si possa
conoscere niente dell’essere, ma questa è già una conoscenza,
e pretende che non si possa comunicare niente dell’essere, ma
con questa affermazione sta comunicando, quindi è autocon-
traddittorio. Soprattutto nella argomentazione centrale
del Gorgia troviamo il rigetto del ‘positivismo del potere’, della
‘forza normativa del fattuale’. Che cosa vuole dire? Gorgia ha
abolito ogni parametro oggettivo, ha abolito ogni valore, allora,
anche se è di buon cuore, la testimonianza che la retorica deve
essere usata bene approda di fatto al ‘positivismo del potere’,
cioè all’affermazione che non esiste nessun punto di riferimen-
to esterno agli individui, non esiste nessun valore come la bon-
tà, la giustizia, la verità, ecc. Questi valori, che Socrate e Plato-
ne riedificheranno su solide basi logiche, non esistono più, non
esistono punti di riferimento oggettivi: il soggetto diventa l’uni-
co punto di riferimento. Platone allora dimostra come Gorgia,
se vuole essere conseguente, deve abbandonare le sue buone
intenzioni, deve dire che tutto è centrato sull’individuo, e se
l’individuo non riesce a imporsi con la persuasione si deve im-
porre con la forza e, quindi, quello che vale come norma è la
forza dell’individuo: non ci sono valori, norme, ma la forza di-
venta normativa. La forza che si impone è semplicemente la
forza fattuale, quella che esiste, (quella che è posita, posta),
siamo appunto al ‘positivismo del potere’.
Ancora un breve riferimento alla confutazione dell’altro aspet-
to dell’individualismo. Vi ho detto che l’individualismo — mora-
le dei sofisti — o sfocia nell’edonismo o nell’utilitarismo, cioè
nell’affermazione che la vita si deve basare sul piacere o
sull’utile, e che appunto la virtù e il bene coincidono col piace-
re o con l’utile. Lo smantellamento di questa teoria sofistica è
operata da Platone nel Filebo. In questo dialogo ci sono due
personaggi oltre a Socrate, Filebo, che dopo poche battute
dall’inizio del dialogo si addormenta, e Protarco. Socrate pone
il problema: la vita deve essere orientata in base al piacere —
cioè a qualche cosa di individuale — o deve essere orientata in
base al pensiero, alla ragione, che è qualche cosa di comune a
tutti, di universale? Protarco, come discepolo dei sofisti, sostie-
ne che la vita deve essere orientata sul piacere, ma sarà co-
stretto ad ammettere che il piacere non è comprensibile senza
uno sforzo di ragione e quindi non è qualche cosa di

57
indipendente, in quanto è sottoposto alla ragione, e pertanto la
ragione è superiore al piacere.
«Dunque, esaminiamo e giudichiamo la vita di piacere e la vita
di pensiero guardandole separatamente? — chiede Socrate
— Poniamo che non vi sia pensiero nella vita del piacere, né
piacere nella vita del pensiero, infatti se pure l’uno o l’altro dei
due è il bene, bisogna che non abbia più bisogno proprio di nul-
la [se il piacere deve essere la guida principale della vita, non
deve avere bisogno di niente altro, e così a sua volta il pensie-
ro, cioè dobbiamo indagare se sono veramente autonomi, se
possono avere forza di per se stessi] se invece l’uno o l’altro ci
apparisse bisognoso di qualcosa non è più possibile comunque
che questo sia realmente il bene per noi [cioè, se il piacere non
fosse capace di dare autonomamente un indirizzo non potremo
prenderlo come guida]». Socrate: «Orbene vuoi che cerchiamo
di metterli alla prova su di te? Dunque rispondi: accetteresti tu,
Protarco, di vivere tutta la tua vita nel godimento dei piaceri
più grandi? Penseresti di avere bisogno ancora di qualcosa se
possedessi ciò integralmente?». Protarco: «Nient’affatto!». So-
crate: «Guarda bene: forse del pensare, dell’usare dell’intelli-
genza, del calcolare le cose necessarie e di tutte quante le cose
a queste sorelle, tu non avresti bisogno almeno un po’?». Pro-
trarco: «E perché? Con il godimento avrei, in un certo qual mo-
do, tutto». Socrate: «Se dunque tu vivessi così sempre, potresti
godere per tutta la vita dei piaceri più grandi?». Protarco:
«Perché no?». Socrate: « Ma senza possedere né intelligenza,
né memoria, né scienza, né opinione vera non avverrebbe ne-
cessariamente che tu ignori innanzitutto proprio questo, se go-
di o non godi, tu che saresti vuoto di ogni pensiero?». In altri
termini, se il piacere esistesse da solo, come tu sostieni, come
faresti a percepire il piacere stesso e a fare un calcolo dei pia-
ceri maggiori o minori, ad avere una traccia di memoria dei
piaceri, e a essere consapevole se stai provando piacere o no?
Quindi Protarco deve rispondere: «Necessariamente». Socrate:
«E certo, parimenti, se non possedessi una memoria, seguireb-
be necessariamente che non ti ricorderesti neppure che una
volta godevi; che non rimarrebbe neppur un qualsiasi ricordo
del piacere che ti accade di provare nel presente; che poi, non
possedendo una opinione vera, non potresti ritenere di godere
mentre godi, e che, essendo privo di capacità di calcolo, non

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potresti neppure calcolare che godrai nel futuro, che infine tu
viva non una vita da uomo, ma quella di un polmone mari-
no [una medusa] o degli animali marini dal corpo racchiuso in
una conchiglia [cioè saresti come un vegetale, a meno che tu
non voglia ammettere che percepisci il piacere, che lo sai pro-
grammare per il futuro, ne segui una traccia di memoria, ecc.;
il piacere è dunque collegato col pensiero, quindi non è autono-
mo]. È così? Oppure possiamo pensare in qualche altro modo
contrario a queste affermazioni?» Protarco: «E come ?». Socra-
te: «Potremmo noi dunque scegliere una vita di questo gene-
re?»Protarco: «Questo ragionamento, Socrate, mi ha messo per
ora in una totale impossibilità di parlare».
Una teoria del piacere come quella sofistica contraddice dun-
que se stessa perché deve ammettere un calcolo dei piaceri, e
questo calcolo viene fatto razionalmente: chiunque, tranne ap-
punto un essere bruto, cerca di calcolare i piaceri, per esempio
per evitare di avere dolori maggiori in conseguenza di un pia-
cere. Va inoltre rilevato che, se voglio teorizzare, come fanno i
sofisti, la superiorità del piacere, questa teorizzazione verrà
svolta in base a un ragionamento, e ciò implica: primo, che il
piacere non è indipendente dalla ragione;secondo, che se sto
formulando una teoria edonistica sto usando la ragione come
fonte di argomentazione, e quindi sto riconoscendo la superio-
rità della ragione. La teoria della superiorità del piacere è con-
traddittoria, e deve dare spazio alla ragione. Protarco come so-
stenitore del piacere, dell’individualismo, viene sconfitto, per-
ché testimonia che il piacere, come calcolo dei piaceri, come
memoria dei piaceri, come percezione e consapevolezza dei
piaceri, non è scisso dalla ragione, dal pensiero; come teoria
del piacere è una teoria, e quindi è una argomentazione della
superiorità del piacere, che deve però riconoscere implicita-
mente la sovranità della ragione. Perché questo dialogo in cui
parla solo Protarco con Socrate si intitola Filebo? Filebo si ad-
dormenta all’inizio del dialogo. Che cosa vuol dire ? Che si con-
cede al piacere immediato, è l’edonista più coerente: in quel
momento è stanco, e segue la via dell’istinto addormentandosi,
ma addormentandosi lascia il campo ai suoi antagonisti, quindi
il piacere, se si manifesta in maniera immediata, come ricerca
pratica del piacere, cede alle argomentazioni e alla ragione. Fi-
lebo si addormenta, non può argomentare niente, rimane

59
ottuso in una vita vegetale — il polmone marino, la medusa, la
conchiglia. Se invece il sofista che vuole sostenere il principio
della sovranità del piacere si mette ad argomentare, allora ca-
de in contraddizione con se stesso, perché argomentando fa ri-
corso alla ragione, al pensiero e riconosce implicitamente la lo-
ro superiorità sul piacere. La teoria edonistica dei sofisti è
sconfitta in ogni caso.
Mi è parso utile riportare queste argomentazioni platoniche
perché penso sia utile che le conosciate e adoperiate perché
servono anche oggi per contrastare le tendenze di carattere
soggettivistico. Vedremo nella prossima lezione come Socrate,
a partire dall’estremo soggettivismo dei sofisti, usando proprio
l’arma della loro capacità dialettica, riesca ad avviare il discor-
so di una fondazione oggettiva, universale dei valori, che sarà
poi completata da Platone nella sua Repubblica.

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Capitolo 7
Socrate
Il primo periodo della filosofia greca, quello dei naturalisti pre-
socratici, è rivolto al mondo esterno, all’oggettività. I presocra-
tici si interessano della natura, e a questo loro interesse per il
mondo oggettivo corrisponde nella vita pratica delle poleis gre-
che l’osservanza di valori imposti dalla tradizione, dall’autorità:
valori in qualche modo “oggettivi”, accettati in maniera dogma-
tica, acritica. Nella prima fase del pensiero greco, nei naturali-
sti presocratici, si manifesta l’attenzione per l’oggetto, per ciò
che è contrapposto all’uomo, per la natura, e si manifesta una
tendenza all’oggettività anche nella vita etica. I naturalisti si
interessano pressoché esclusivamente della natura; solo con i
sofisti si verifica una rivoluzione antropologica e l’uomo viene
messo al centro della riflessione filosofica.
L’irrompere dei sofisti sulla scena introduce — abbiamo detto
— la soggettività nella riflessione filosofica; non soltanto l’at-
tenzione si sposta dall’oggetto, cioè dalla natura, al soggetto,
al mondo dell’uomo, ma si pretende che si possano avere solo
punti di vista soggettivi. I sofisti in fondo sono anti-filosofi, la
loro dottrina è la retorica, l’arte del ben parlare; ma perché la
retorica diventa per loro decisiva? Perché non c’è più verità,
non c’è più un riferimento oggettivo; quello che conta sono le
convinzioni personali, individuali, soggettive, e queste non han-
no una possibilità di verifica, di riscontro oggettivo, quindi si
possono soltanto imporre le une o le altre, e si imporranno me-
glio se saranno veicolate attraverso bei discorsi: la retorica,
l’arte del ben parlare, l’arte della persuasione, diventa fonda-
mentale. Ma nella fase di degenerazione della sofistica, se non
basta il bel discorso, se non basta la retorica per imporre la
mia convinzione, potrò far ricorso anche alla forza, e infatti
nella seconda sofistica si delinea il “positivismo del potere”. La

61
sofistica può dunque considerarsi come il momento dell’affac-
ciarsi deciso della soggettività nel mondo della filosofia.
Le figure di Socrate e di Platone ricostituiscono l’oggettività,
ricostituiscono l’orientamento dell’esistenza in base a valori
oggettivi, universali, che trascendono l’individuo, ma riescono
a fondare col ragionamento questi valori oggettivi, quali il be-
ne, la virtù, il coraggio, la giustizia. I punti di riferimento
dell’azione pratica sia dell’individuo sia della collettività, tanto
della morale quanto della politica, vengono ricostituiti su un
piano oggettivo, ma in maniera ben diversa dalla tradizione,
cioè da quello che era stato il primo momento della civiltà gre-
ca. Per sintetizzare, e per dare un’immagine netta della opera-
zione che compiono Socrate e Platone, si può dire questo: la
Grecia presofistica aveva contenuti giusti, contenuti veri: giu-
stizia, aretè, saggezza, misura nel comportarsi, lealtà, rispetto
dei genitori e degli dei, insomma i valori tradizionali. I valori-
guida dei Greci arcaici erano giusti, orientati al bene, ma
la forma in cui questi contenuti erano veicolati e venivano im-
posti era sbagliata: era la forma dell’autorità, l’autorità della
tradizione o della religione olimpica, comunque qualche cosa di
non sottoposto a un vaglio critico. I contenuti veri di morale
privata e pubblica si imponevano nella società greca attraverso
una forma sbagliata, la forma dogmatica, e dogma significa ve-
rità non dimostrata, accolta in maniera acritica. I sofisti in que-
sto quadro costituiscono un passo in avanti, ma un passo in
avanti contraddittorio. Essi propongono la forma giusta, che è
quella dell’argomentare, del riflettere, del ragionare. I sofisti
scardinano i valori tradizionali, sottoponendo tutto a discussio-
ne. Però, pur avendo instaurato la forma giusta, cioè il ragiona-
mento, l’argomentazione, impongono o cercano di imporre i va-
lori sbagliati, i contenuti sbagliati, cioè quelli della soggettivi-
tà, dell’arbitrio, i contenuti legati all’individuo, per cui la mora-
le sofistica finisce con l’essere o una morale in cui il bene coin-
cide col piacere (edonismo) o con l’utile (utilitarismo). Per rias-
sumere: nella Grecia presofistica abbiamo contenuti giu-
sti e forme sbagliate; nei sofisti abbiamo una forma giusta, cioè
l’argomentazione, ma contenuti sbagliati, cioè contenuti di ca-
rattere arbitrario, individuale. Il grande sforzo di Socrate e di
Platone è quello di trovare un modo per identificare contenuti
giusti, cioè i contenuti oggettivi di verità, di bellezza, di bontà,

62
di coraggio, di virtù, attraverso la forma giusta, che è quella
della riflessione critica, del vaglio razionale. In Socrate e Plato-
ne a un contenuto oggettivo cioè universale, deve corrisponde-
re una forma adeguata, cioè universale (e quindi razionale).
Sulla scorta di Hegel, si possono paragonare i sofisti agli illu-
ministi; l’illuminismo implica la fiducia nella ragione, che illu-
mina tutte le conoscenze e tutti gli atteggiamenti umani. I sofi-
sti hanno avuto il merito di essere i primi illuministi, cioè i pri-
mi a sostenere che tutto deve essere passato al vaglio critico
della ragione. Ma questo mettere al centro la ragione avviene
in maniera ambigua, facendo sfociare tutto il loro discorso
nell’idea che l’uomo è la misura di tutte le cose. A questo punto
si ha una dissoluzione delle certezze, dei punti di riferimento
della società tradizionale greca, animata da forti ideali che ave-
vano portato anche, ad esempio, alla vittoriosa resistenza con-
tro i Persiani. Faccio questa premessa anche per cercare di da-
re l’idea dell’atmosfera in cui avviene il fatto veramente sor-
prendente: la condanna a morte di Socrate, su cui ci sofferme-
remo in seguito. La condanna di Socrate si spiega con questa
atmosfera: i valori tradizionali sono crollati ad opera del tarlo
critico sofistico, provocando una grave crisi, che porta alla fine
dell’egemonia ateniese, e Socrate viene appunto assimilato ai
sofisti. C’è in proposito una frase molto efficace nel dialo-
goSofista di Platone: «Il lupo assomiglia al cane, l’animale più
selvaggio assomiglia all’animale più domestico». Questa affer-
mazione un po’ enigmatica si riferisce evidentemente a Socra-
te; Socrate è stato scambiato per un sofista ed è stato condan-
nato a morte perché è stato visto soltanto l’aspetto negativo
della sua opera, il fatto che seminava il dubbio. La società ate-
niese non si è resa conto che non era un lupo come appariva,
non era un lupo come i sofisti, bensí era un cane. Vale a dire
che alla sua opera corrosiva, al tarlo critico, al dubbio, faceva
seguire una parte costruttiva, la maieutica, la nascita della ve-
rità dall’intimo dell’individuo. Gli Ateniesi non intesero questa
seconda metà dell’opera di Socrate, ma si soffermarono sulla
parte distruttiva, e quindi lo condannarono a morte scambian-
dolo per il peggior sofista, per colui che aveva semplicemente
distrutto i valori tradizionali, che non credeva negli dei e semi-
nava l’ateismo e la corruzione tra i giovani. Anche a noi, se non
stiamo attenti, Socrate si presenterà come un lupo, cioè

63
sembrerà semplicemente un continuatore della sofistica, men-
tre invece è un eroe del pensiero, che dalla sofistica cerca di
trarre le armi del ragionamento, ma per rivolgerle contro la so-
fistica stessa, al fine di edificare la verità su nuove basi.
Il metodo, la chiave decisiva che Socrate adopera per compiere
questa operazione, consiste nel mostrare l’autocontraddittorie-
tà della sofistica. Socrate riesce a dimostrare che quanto affer-
mano i sofisti è falso, ma non perché eserciti anch'egli un’arte
del bel discorso contrapponendo buoni sentimenti e valori edi-
ficanti ai valori distruttivi e all’atteggiamento individualistico
dei sofisti, perché, se avesse fatto questo, Socrate sarebbe ve-
ramente stato anch’egli un sofista. Socrate invece respinge il
discorso lungo, cioè il discorso che tende a muovere gli affetti,
a persuadere, e adopera piuttosto la brachilogia, come viene
detto nei dialoghi di Platone, cioè il discorso breve, composto
di rapide domande e risposte, che portano a far emergere la
debolezza, la contraddittorietà dell’avversario. Si tratta di
un’arma di ricerca della verità molto importante: Socrate non
contrappone una sua verità alle presunte verità dei sofisti, ma
riesce a mostrare che queste sono internamente contradditto-
rie, cioè che si autocancellano. Ma, se si autocancella il discor-
so della soggettività e dell’individualismo, evidentemente è ve-
ro il discorso opposto, cioè quello dell’oggettività e della comu-
nità, della socialità. Faccio alcuni esempi: la sofistica arriva
all’affermazione che non c’è verità, ma l’affermazione che non
c’è verità è autocontraddittoria, perché l’affermazione stessa
pretende di essere vera, e allora mentre come sofista dico che
non c’è verità, Socrate mi dimostra che, nel momento in cui sto
affermando che non c’è verità, sto pretendendo però di dire
una cosa vera, e quindi ammetto l’esistenza della verità. Allo
stesso modo il sofista è un relativista: tutto è relativo, ma se af-
fermo che tutto è relativo starò pretendendo però di dire qual-
che cosa di assoluto, e quindi starò ammettendo che la mia af-
fermazione ha pretese di assolutezza, quindi sto riconoscendo
che esiste un assoluto. Confutando i sofisti, Socrate dimostra
che esiste la verità, che esiste l’assoluto, e naturalmente a que-
sto punto si tratta di mettersi alla ricerca della verità e dell’as-
soluto. Teniamo dunque presente questo quadro di connessio-
ne, ma anche, nello stesso tempo, di netta distinzione di Socra-
te con la sofistica.

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Il fraintendimento del ruolo di Socrate emerge con chiarezza
nella commedia Le nuvole di Aristofane (del 423 a.C.), dove il
filosofo viene presentato come abitatore di un pensatoio sospe-
so tra le nuvole. Socrate vive con la testa tra le nuvole, vive in
un mondo vacuo di chiacchiere, di sofismi, si direbbe oggi, cioè
di discorsi sottili, ma capziosi e falsi. A questo Socrate che vive
nel pensatoio tra le nuvole si rivolgono prima un padre, poi un
figlio; il padre, Strepsiade, cerca rimedio contro i suoi credito-
ri, e Socrate gli fornisce una serie di argomentazioni per libe-
rarsi dai creditori, ma, quale rappresentante del mondo arcai-
co, Strepsiade è un personaggio rozzo e non riesce a impadro-
nirsi bene dei ragionamenti che Socrate gli suggerisce. Per
questo preferisce mandare il figlio, Fidippide, che è più brillan-
te, più giovane, più sveglio, a imparare lui le tecniche di argo-
mentazione, ma Socrate gli insegna a liberarsi dell’autorità del
padre, per cui il figlio finisce con l’esautorarlo, col bastonarlo
addirittura. A questo punto Strepsiade, irritato, vedendo in So-
crate colui che distrugge l’autorità paterna, l’autorità degli dei,
colui che insegna a rendere più forte il discorso più debole, co-
me dirà poi Platone, distrugge il pensatoio tra le nuvole di So-
crate. Quindi anche Aristofane, che era una personalità molto
attenta, molto brillante dell’Atene del V secolo, presenta Socra-
te come il più acuto dei sofisti.
Mi sono soffermato su Le nuvole di Aristofane, perché, come
sapete bene, tentare di conoscere il “vero” Socrate costituisce
un problema veramente arduo: Socrate non ha lasciato niente
di scritto, e quindi si pone il problema di risalire alle testimo-
nianze indirette del suo pensiero. Come è stato detto, Socrate
fu un seminatore, ha sparso semi nella cultura ateniese, e que-
sti semi hanno fruttato in maniera diversa, in dipendenza dal
terreno in cui sono caduti. Possiamo dai semi cercare di risali-
re al seminatore, ma essi hanno fruttificato in maniera diversa.
Delle fonti del suo pensiero quattro sono le più importanti; la
prima, non però in ordine di importanza, sono le commedie di
Aristofane. Ma è chiaro che le commedie di Aristofane ci danno
indicazioni non affidabili sulla figura di Socrate, perché Aristo-
fane lo ha frainteso considerandolo un sofista, inoltre da artista
ci metteva del suo nel descrivere una figura così singolare co-
me quella socratica. Una seconda fonte sono i Detti memorabili
di Socrate, opera di Senofonte. Senofonte era un discepolo

65
abbastanza fedele di Socrate, ma viene accusato dalla critica di
essere stato un moralista, che ha voluto lasciare un bel quadro
di questo suo maestro finito così tragicamente, quindi i
suoi Detti memorabili sono una raccolta di belle citazioni, che
dovrebbero essere socratiche, ma vengono decisamente abbel-
lite da Senofonte per fornire un ricordo edificante del maestro.
Se quindi Aristofane sicuramente ha peggiorato Socrate e lo ha
messo in ridicolo da buon commediografo, Senofonte è caduto
nell’eccesso opposto, cioè ha fatto un po’ di agiografia, lo ha vi-
sto come una specie di santo ante litteram e ha cercato di de-
scriverne l’altezza morale. Disponiamo di altre due fonti più de-
cisive. Fondamentale è quella di Platone. Le sue opere giovanili
sono i dialoghi che si chiamano appunto “socratici”, in cui è
molto difficile scindere la figura di Socrate da quello che inve-
ce pensa in maniera originale Platone. Per illustrare questo
problema farò solo riferimento a un aneddoto riportato da Dio-
gene Laerzio, un autore che descrive le vite dei filosofi antichi.
Egli racconta che Socrate, alla vigilia del giorno in cui gli si
presentò Platone, giovane e brillante aristocratico ateniese,
che intendeva accodarsi al gruppo di coloro che lo seguivano,
sognò un cigno che a un certo punto spiccava il volo dal suo
grembo e se ne andava in cielo liberamente. Mi pare che que-
sto aneddoto molto bello esprima tutta la difficoltà di risalire al
pensiero originale di Socrate partendo da Platone; che cosa
vuol dire infatti questo aneddoto? Lo splendido cigno si trova
nel grembo di Socrate, però poi spicca un volo libero: Platone è
una personalità filosofica di una tale grandezza che non può
evitare, negli stessi dialoghi giovanili, di descrivere il Socrate
protagonista dei suoi dialoghi con tratti che vengono da lui, da
Platone. Scindere Socrate da Platone è molto arduo. Riepilo-
ghiamo: Aristofane non è affidabile perché è troppo critico, Se-
nofonte è troppo benevolo e troppo agiografico, Platone è trop-
po grande per non averci messo anch’egli del suo nel descrive-
re Socrate come protagonista dei dialoghi.
Anche l’ultima fonte, Aristotele, è discussa. Aristotele afferma
che Socrate è una pietra miliare della storia del pensiero, per-
ché ha scoperto l’universale e l’induzione. Tutto questo è criti-
cato dagli storici della filosofia, però ha una base di verità: So-
crate sarebbe colui che ha scoperto il fatto che al di là delle
singole azioni giuste c’è la giustizia, al di là dei singoli atti di

66
coraggio c’è il coraggio, cioè avrebbe segnato la strada, che sa-
rà poi pienamente percorsa da Platone, dell’elevazione dall’in-
dividuale, dal particolare, da quello che colpisce i sensi, all’uni-
versale. Socrate, “scopritore del concetto”, secondo Aristotele
avrebbe individuato l’universalità e il metodo per raggiungerla,
cioè il metodo induttivo, che è quello che va dal particolare
all’universale. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un
filosofo di primissima grandezza, che evidentemente ha inter-
pretato quello che è stato il vero messaggio di Socrate. Allora,
per ricostruire questo vero messaggio, non resta che cercare di
considerare anche le vicende di Socrate; perciò nell’ultima par-
te della nostra conversazione ci soffermeremo a leggere qual-
che passo dell’Apologia di Socrate, cioè del discorso che egli
avrebbe tenuto in sua difesa prima di essere condannato a
morte, e poi a considerare il suo atteggiamento alla vigilia
dell’esecuzione della condanna a morte.
Socrate rimane in gran parte un personaggio enigmatico, ma,
paradossalmente, proprio per questa sua enigmaticità, finisce
con l’avere un’influenza, non solo nella storia del pensiero, ma
anche nella storia più generale della civiltà, talmente grande
da essere stato paragonato da qualcuno a Cristo, proprio per il
fatto che, pur non avendo lasciato un messaggio scritto suo
proprio, ha esercitato un’influenza grandissima. L’influenza
esercitata nei secoli da Socrate dipende in fondo dal fatto che
egli ha diffuso come insegnamento fondamentale quello che di-
ceva ironicamente di avere letto sul frontone del tempio di Del-
fi, cioè il famoso “conosci te stesso”. Il messaggio di Socrate è
l’invito a riconoscere e coltivare la propria capacità di orientar-
si nel mondo sulla base della propria autocoscienza. Socrate dà
questo contributo alla civiltà occidentale, mentre altre civiltà
sono schiacciate dall’autorità, dalla tradizione e non si risolle-
vano mai da questo peso. Socrate dona all’uomo occidentale la
centralità di se stesso: la verità c’è (al contrario di quello che
dicono i sofisti), però essa scaturisce dal proprio intimo; la con-
vinzione non può essere altro che un possesso personale, rag-
giungibile soltanto con lo sforzo personale, e quindi ognuno dei
discepoli di Socrate è un buon socratico proprio in quanto ma-
nifesta una personalità diversa dall’altro. Aristippo e Antistene,
ad esempio, dicono cose molto diverse da Platone: sono tutti e
tre socratici, ma sono buoni discepoli di Socrate proprio

67
perché sviluppano ognuno una propria personalità. Socrate ha
insegnato che ognuno non deve cercare punti di riferimento
esterni, non deve cercare la verità fuori di sé, bensí dentro di
sé. Diventa chiaro che è stato coerente nel non scrivere, per-
ché in fondo scrivere significa ipotizzare che si siano raggiunte
verità, e che queste verità si possano andare poi ad attingere
nei libri. Scrivere, per Socrate, sarebbe stato contraddittorio
con l’essenza della sua dottrina: se la verità deve scaturire
dall’interno dell’uomo, dare all’individuo l’appoggio esterno di
un libro, che magari col passare del tempo acquista sempre più
un’aura di autorità, significa dirgli: «Non preoccuparti di misu-
rarti tu stesso con la realtà, di raffinare le tue capacità critiche,
il tuo spirito di osservazione e la tua intelligenza, non ti preoc-
cupare, perché tanto la verità sta scritta lì, nel libro. Ti puoi
anche addormentare, puoi fare a meno dell’uso del tuo intellet-
to, tanto la verità la puoi attingere facilmente con uno sforzo
esteriore». Con il suo “conosci te stesso” Socrate ci ha lasciato
un messaggio perenne, che è ancora valido, ma ci mette nella
difficoltà di ricostruirne la figura, per cui in fondo ognuno si ri-
trova il suo Socrate, perché paradossalmente ognuno si avvici-
na tanto più a Socrate quanto più è se stesso.
Come si metteva in moto il meccanismo di avvicinamento a se
stessi? Socrate ha esercitato un metodo per rimettere ognuno
sulla traccia di se stesso. Il padre dell’esistenzialismo, Kierke-
gaard, ha detto che Socrate è un barcaiolo, nel senso che tra-
ghetta gli individui dalla sponda dell’ottusità, dell’agire sempli-
cemente per sentito dire, all’altra sponda, quella dell’autoco-
scienza, per la quale si agisce non in base al sentito dire, alle
mode o alle autorità, ma perché si è convinti di quello che si fa;
messo l’individuo sull’altra sponda, il barcaiolo se ne va via.
Socrate cioè riesce a compiere questo prodigio: di far passare
l’individuo, l’uomo occidentale, dal sonno, dall’ottusità del vive-
re credendo in valori mai controllati criticamente (oggi si di-
rebbe il vivere secondo la tradizione, o secondo la moda, che
sono due varianti diverse di un atteggiamento antisocratico),
all’autocoscienza, alla sorveglianza critica, ma questa sorve-
glianza critica ognuno la deve esercitare da sé. Una volta che
ha portato il passeggero sulla sponda, il barcaiolo Socrate lo la-
scia a se stesso nella terra dell’autocoscienza, della critica, del-
la razionalità, che ciascuno deve esplorare da se stesso.

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Come operava Socrate questo passaggio da sponda a sponda?
Con un metodo, termine che, come sapete, viene dal gre-
co odós, che significa strada. Socrate trova una strada per fare
questo, insegna un metodo, che, come ogni buon metodo nella
storia della filosofia, consta di una pars destruens e
una pars construens. La parte distruttiva è quella che ha più
colpito gli Ateniesi ed ha portato, come abbiamo detto, a identi-
ficarlo come un sofista. Se si vogliono costruire atteggiamenti
giusti, proiettati verso la verità, bisogna prima distruggere la
concrezione di false credenze che l’individuo si porta dentro,
bisogna prima sgombrare il terreno e poi si può cominciare a
costruire l’approccio alla verità. La parte distruttiva ha come
sua prima manifestazione l’ironia. Questa non significa disprez-
zo dell’altro, implica infatti tra l’altro anche una forte autoiro-
nia di Socrate. Per dare un’idea dell’ironia socratica vorrei leg-
gere una parte dell’Apologia di Socrate, cioè del suo discorso
difensivo quale Platone ce lo ha raccontato. Socrate viene por-
tato in tribunale con l’accusa di avere seminato la corruzione e
l’ateismo tra i giovani, di indagare le cose della natura, di non
credere negli dei. Egli si difende pressappoco così: «Si è sparsa
la voce di una mia tracotanza, di una mia superbia, di una mia
pretesa di sapere, ma in effetti tutto questo è nato dal mio ami-
co Cherefonte, che è andato all’oracolo di Delfi e ha sorpren-
dentemente appreso dall’oracolo che io ero l’uomo più sapien-
te». Procede dicendo ai suoi accusatori, ma anche al pubblico
degli Ateniesi: «Voi sapete che Cherefonte fu mio amico sin da
giovane, parteggiò per il vostro partito democratico, con voi
condivise il recente esilio e con voi ritornò. Voi sapete come
era impetuoso Cherefonte in ogni sua impresa; un giorno andò
a Delfi e osò consultare l’oracolo su questo. Cittadini non bor-
bottate. Cherefonte chiese dunque se c’era qualcuno più sa-
piente di me, e la Pizia [cioè la sacerdotessa portavoce del dio
di Apollo] rispose che non c’era nessuno. Su ciò vi potrà dare
testimonianza suo fratello qui presente, perché Cherefonte è
morto». Cherefonte dunque, amico di Socrate, va a consultare
l’oracolo; col riferimento alla consultazione dell’oracolo Socra-
te vuol dire: «Io non disprezzo la religione olimpica: mi si accu-
sa di ateismo, ma io non voglio distruggere i vecchi valori. Cer-
chiamo solo di capire che cosa essi significano. Li voglio acco-
gliere, ma ponendoli su nuove basi, quindi accetto che ci sia un

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oracolo, però non possiamo fermarci al vecchio atteggiamento
per il quale il messaggio dell’oracolo viene accolto passivamen-
te. Esso deve essere passato al vaglio della ragione, deve esse-
re sottoposto ad una interpretazione razionale: l’oracolo ha
detto che io sono l’uomo più sapiente, apparentemente è una
cosa falsa, infondata, eppure non può avere sbagliato; ma in
che senso sarà vero quello che ha detto? Devo mettermi a cer-
care di capire in che senso questo è vero».
«Guardate perché vi dico questo: sto per spiegarvi donde ebbe
origine la calunnia. Udito il responso riflettei: che cosa vuol di-
re il dio, a che cosa allude? Sono consapevole di non essere sa-
piente né poco, né molto, che cosa vuol dire allora quando af-
ferma che sono il più sapiente di tutti? Certo non mente perché
non gli è lecito; per molto tempo restai incerto su che cosa vo-
lesse dire. Poi controvoglia mi volsi a cercarlo e mi recai da
uno di quelli considerati sapienti, convinto che soltanto così
avrei confutato il responso e mostrato all’oracolo:“costui è più
sapiente di me, ma tu dicevi che ero io”». Socrate si mette in
giro, alla ricerca di qualcuno più sapiente di lui, per smentire
eventualmente l’oracolo, e si imbatte prima di tutto in un uomo
politico. «Esaminandolo a fondo — non è necessario che ne di-
ca il nome, basti dire che era un politico col quale, valutando e
discutendo, mi successe ciò che sto per dirvi — mi parve che
egli sembrasse sapiente a molti altri e soprattutto a se stesso,
ma che non lo fosse. Allora provai a mostrargli che credeva di
essere sapiente, ma non lo era, e così diventai odioso a lui e a
molti dei presenti. Allontanandomi, ragionai tra me stesso: “Di
costui sono più sapiente. Forse nessuno di noi due sa nulla di
bello e di buono, ma costui crede di sapere qualcosa e non sa,
mentre io non so e non credo neppure di sapere, pare dunque
che almeno in questa piccola cosa io sia più sapiente di lui: ciò
che non so non credo neppure di saperlo”. Di qui mi recai da
un altro di quelli considerati ancora più sapienti e ne ricavai la
stessa opinione, anche in questo caso divenni odioso a lui e a
molti altri». Si inizia dunque in questo modo a diffondere l’odio
per Socrate in Atene, ma quel che più importa è che qui viene
fondata la famosa teoria del sapere di non sapere: Socrate non
ironizza semplicemente verso l’interlocutore, ma anche verso
se stesso, e si riconosce non sapiente; però, mentre l’altro ha la
tracotanza di credere di sapere, pur essendo ignorante, ed è

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quindi doppiamente ignorante, Socrate, sapendo di non sapere,
è in possesso di una certezza molto solida. Può sembrare un
gioco di parole, ma in effetti con questa formula Socrate com-
pie proprio la scoperta dell’atteggiamento filosofico: il sapere
di non sapere. La filosofia greca classica, quella che appunto
parte da Socrate, la filosofia rinascimentale, la filosofia classi-
ca tedesca, cioè i più alti momenti della storia della filosofia,
hanno proprio questo concetto al centro: l’uomo è un essere in-
termedio. Socrate col ‘sapere di non sapere’ vuol dire che l’uo-
mo è un essere intermedio tra ignoranza e sapienza, tra imper-
fezione e perfezione e quindi, essendo intermedio, sta al cen-
tro. Quello di Socrate è un grande discorso umanistico: l’uomo
non è un animale immerso nella totale ignoranza, non è un bru-
to, non ha un destino segnato da meccanismi istintuali, ciechi,
che deve seguire per forza nell’ottusità permanente, e non è
neppure un dio onnisciente. L’uomo non è assolutamente igno-
rante e non è completamente sapiente, è un essere intermedio,
e in questa situazione intermedia sta la sua grandezza: non es-
sendo né ignorante, né sapiente, sa di non sapere, ma questo
sapere di non sapere vuol dire che sa già qualche cosa. Quindi
non è assolutamente ignorante e sta sulla strada del sapere.
C’è in embrione in questa formula socratica tutta la storia della
filosofia, ma anche in qualche modo della stessa civiltà occi-
dentale: l’uomo non è un ente dato una volta per tutte come gli
altri enti della natura, che obbediscono a un meccanismo a cui
non possono sfuggire; l’uomo invece è perfettibile, si crea da
sé, può ascendere alla consapevolezza e può diventare miglio-
re, può progredire, e la filosofia è l’atteggiamento propriamen-
te umano perché meglio esprime la natura intermedia e in
cammino dell’uomo. La filosofia è qualche cosa di perennemen-
te intermedio, perché significaamore del sapere, non possesso
del sapere, implica una tensione continua al sapere: l’atteggia-
mento filosofico è l’atteggiamento propriamente umano. L’uo-
mo è filosofo se è veramente uomo, perché appunto sa di non
sapere, cioè si trova teso verso la conoscenza, verso la sapien-
za: non le raggiunge mai pienamente, ma vi aspira di continuo.
Si apre così la strada al progresso indefinito per l’umanità, alla
perfettibilità; sia il singolo individuo, sia l’umanità nel suo com-
plesso sono perfettibili: l’uomo non è ignorante e non è assolu-
tamente sapiente, non raggiunge mai l’onniscienza, ma si

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avvicina indefinitamente al sapere e alla conoscenza, quindi è
filosofo nel senso che sta continuamente sulla strada, ha sem-
pre il desiderio, l’amore del sapere, anche se non lo riesce a
raggiungere mai appieno.
Il primo meccanismo del metodo di Socrate, l’ironia, consiste
nello scuotere le certezze. Di fronte ad esempio a Eutifrone,
che sta andando in tribunale a denunciare il padre credendo di
sapere che cosa sia la pietà e la giustizia, oppure nell’incontra-
re lo stratega Lachete, che è sicurissimo di sapere che cosa è il
coraggio, Socrate agisce ironizzando su queste loro presunte
certezze e facendo crollare la sicumera, la tracotanza dei suoi
interlocutori. Crollate le certezze, subentra il momento più
drammatico, il dubbio, che costituisce il secondo momento del-
la pars destruens del metodo di Socrate. Il dubbio che si ritro-
va nella storia della filosofia può essere di due tipi. Ci può esse-
re un dubbio scettico o sofistico o sistematico, che è quello dei
sofisti, è il dubbio che rimane fine a se stesso: si dubita perché
non c’è niente di vero e si rimane in una atmosfera di incertez-
za; ci dobbiamo accontentare delle opinioni perché la verità
non si può raggiungere. Anche i sofisti ricorrevano al dubbio,
ma il loro era un dubbio scettico, cioè fondato sull’ipotesi che
non c’è verità, ovvero un dubbio sistematico, nel senso che es-
so diventa un sistema filosofico. Gli Ateniesi sbagliarono cre-
dendo che il dubbio di Socrate fosse di quel tipo. Invece il dub-
bio di Socrate è metodico, cioè è una strada verso la verità. In
altri termini, mentre col dubbio scettico, sistematico, si parte
dal dubbio per rimanere all’interno del dubbio, col dubbio so-
cratico, col dubbio metodico, si parte dal dubbio per arrivare
alla verità: il punto d’approdo è del tutto opposto. Il meccani-
smo che innesta il dubbio è molto semplice, si può usare molto
facilmente, e se si usa bene è efficace, mentre se si usa male è
solo distruttivo: è la domanda ti èsti, che significa “che cosa
è”? Socrate mette in moto il dubbio semplicemente chiedendo
che cosa è quello che sta facendo l’interlocutore, e questo dà lo
spunto ad Aristotele per dire che Socrate è lo scopritore del
concetto; infatti chiedere: “che cosa è?” significa chiedere l’es-
senza di una cosa, cioè quello per cui una cosa è quello che è e
si distingue dalle altre, cogliere il cuore di una cosa, la sua es-
senza, espressa dal concetto.
Prendo un esempio da un dialogo di Platone, l’Eutidemo. Di

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fronte al problema di come è giusto comportarsi Eutidemo, sol-
lecitato da Socrate, si dice sicuro di saperlo risolvere, e cade
nell’errore in cui cadono tutti coloro a cui si chiede che cosa è
quello che stanno facendo: inizia a enumerare i comportamenti
giusti: «Ecco, per esempio, fra i comportamenti giusti ci mette-
remo sicuramente il non mentire, il non ingannare e il non ru-
bare», ed è convinto di avere detto, in questo modo, cose giu-
stissime, di avere sbaragliato l’avversario. Socrate gli replica
pressappoco: «Allora siamo d’accordo che sarà giusto non men-
tire. Ma se, per esempio, io sono uno stratega, sono un genera-
le, e i miei soldati stanno subendo un rovescio militare, sono
scoraggiati e rischiano di essere travolti, ma li rassicuro che
stanno per giungere i rinforzi e allora essi riprendono coraggio
e riescono a capovolgere le sorti della battaglia, a respingere il
nemico e a salvarsi; so che i rinforzi non stanno arrivando e
quindi dico una bugia, ma con questa bugia salvo la vita dei
miei uomini e capovolgo le sorti di una battaglia. Ho mentito,
ma ho agito bene o ho agito male? È giusto quello che ho fatto,
oppure non è giusto?». Naturalmente Eutidemo deve ricono-
scere che è giusto, e quindi che ci possono essere casi in cui è
giusto mentire. Allora egli si trincera dietro l’affermazione che
sicuramente sarà giusto non ingannare. E Socrate ribatte più o
meno: «Ma se sono il padre di un bambino ammalato che non
vuol prendere una medicina amara e gliela mescolo con una
gradevole pietanza, cosicché la prende senza accorgersene e
guarisce nonostante la sua avversione per la medicina, certo,
l’avrò ingannato, ma per il suo bene, quindi l’inganno in quanto
tale sembra a prima vista qualche cosa di sicuramente ingiu-
sto, ma un inganno come quello descritto non si potrà chiama-
re ingiustizia». Naturalmente Eutidemo deve acconsentire, ma
si arrocca sul furto, e dice che rubare è sicuramente una cosa
scorretta, che non si deve fare. Socrate gli porta quest’altro
esempio: «Se ho un amico che è in una crisi di scoramento e
sta per prendere una spada per uccidersi e io gli rubo la spada
e lo salvo, poi, quando gli è passato il momento di abbattimen-
to, gli spiego che l’ho salvato sottraendogli temporaneamente
la spada, non avrò fatto bene?». Eutidemo deve accettare che
questo sarà un comportamento irreprensibile. Socrate procede
sempre in questo modo, quindi finisce con il seminare il dub-
bio, certo, ma un dubbio orientato a far prendere

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consapevolezza che non si può accettare un precetto a occhi
chiusi, non si può dire: rassicuriamoci, ci sono questi contenuti
di comportamento, come il non mentire, il non ingannare, che
sono giusti. Anche nel discorso di Lachete si fanno una serie di
esempi: questo generale afferma che il coraggio consiste nel
gettarsi a capofitto nel pericolo, ma Socrate dimostra che quel-
la è una forma di ignoranza, in quanto non rendersi conto del
pericolo è ottusità, è temerarietà, non è coraggio. La mentalità
comune si rassicura nel fatto che ci sono una serie di contenuti
buoni, una serie di contenuti giusti, una serie di contenuti co-
raggiosi. Socrate riesce a dimostrare invece che non si può sta-
re così tranquilli: non sono accettabili elenchi di azioni giuste o
coraggiose. Ognuno di noi dovrà orientarsi con la sua capacità
critica, usare la ragione vagliando le alternative, cercare l’es-
senza autentica delle virtù. Si tratta di acquisire anche un abi-
to, una capacità di orientamento, una chiarezza mentale che
non si possono facilmente conquistare imparando a memoria
formule, oppure impadronendosi una volta per tutte di una dot-
trina.
La parte distruttiva del metodo comprende l’ironia e il dubbio.
La parte costruttiva consiste nella maieutica. Socrate dice,
scherzando su se stesso, di esercitare l’arte della maieutica,
quella che realmente aveva praticato la madre, cioè l’arte della
levatrice. Si paragona alla madre e afferma: «Come mia madre
aiutava a venire alla luce esseri umani, aiutava i corpi a parto-
rire, assisteva le donne gravide, io aiuto a partorire le anime
degli uomini, le menti degli uomini. Il mio dialogare serve a far
emergere la verità, che è già contenuta nell’individuo». Per So-
crate la verità non può mai venire dall’esterno, essa è un parto
interiore, è presente nell’individuo, anche se viene per lo più
schiacciata dalle false opinioni. La verità viene soffocata, ma
permane all’interno; Socrate non può insegnarla, ma può aiuta-
re a farla venire alla luce, sgombrando il terreno dalle false
credenze, dai falsi punti di riferimento, e facendo emergere la
capacità di pensiero dell’interlocutore.
C’è in Socrate una grande fiducia nelle capacità critiche, nelle
capacità di orientamento, nella ragione umana. È importante
sottolineare questo aspetto, perché, arrivati a questo punto, si
può pensare che, traendo tutto dall’individuo, Socrate sostenga
un individualismo di tipo sofistico. Invece Hegel, nostro punto

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di riferimento, afferma che Socrate è un individuo cosmico-sto-
rico, è una di quelle personalità che hanno prodotto una svolta
nella storia umana. Quale rivoluzione ha portato Socrate? La ri-
voluzione della libertà dell’autocoscienza: non sono più accet-
tati contenuti tradizionali, dogmatici, autoritari; tutti i contenu-
ti devono scaturire dall’interno dell’individuo. La coscienza de-
ve attingere il vero in se stessa, questo è il messaggio socrati-
co: «L’uomo deve pervenire alla verità per opera propria»,
spiega Hegel. Questo è il messaggio universale di Socrate, que-
sta è la scoperta di Socrate. Però Hegel aggiunge: «Il vero pen-
siero pensa in modo che il suo contenuto non è meno soggetti-
vo che oggettivo». Per Socrate il cogliere un contenuto con il
pensiero significa cogliere un qualcosa di oggettivo, non espri-
mere un contenuto personale, nel senso deteriore di individua-
le, di arbitrario, portato di altre facoltà quali il sentimento, la
passione, l’istinto. Se, abituato alla dialettica, alla maieutica
socratica, uso la ragione, secondo Socrate raggiungo un ele-
mento oggettivo, che traggo da me, perché la ragione sta in me
e non è l’oracolo che devo andare a consultare a Delfi, ma è
uno strumento che mi mette in contatto con l’oggettivo, con
l’universale. Raggiungere un contenuto con uno sfor-
zo personale di carattere razionale significa cogliere un conte-
nuto di carattere universale. Viviamo invece in una situazione
in cui i contenuti più arbitrari vengono proposti come modelli
di esistenza e come punti di riferimento. L’insegnamento socra-
tico è completamente opposto: i contenuti che possono riempi-
re le nostre esistenze sono infiniti, ma i contenuti giusti sono
pochi e vanno identificati sulla base dello sforzo del ragiona-
mento, della vigilanza critica.
Socrate non ha predicato bene e razzolato male. Nell’uso della
razionalità è stato coerente fino alla fine, fino a bere la cicuta.
Torniamo all’Apologia: Socrate prosegue la sua indagine, e, do-
po i politici, va a visitare i poeti. Anche i poeti sembrano molto
sapienti per le opere che compongono, ma in effetti non sanno
neppure dar bene ragione di quello che hanno scritto, in quan-
to frutto d’ispirazione. Eppure i poeti pensano di essere sapien-
ti e pretendono di sapere anche quello che non sanno. Quindi
sono più ignoranti di Socrate, e così pure gli artigiani, diremmo
oggi i tecnici, i professionisti, che cadono in un altro errore:
possiedono un sapere particolare, sanno fare bene i falegnami

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per esempio, sanno costruire bene le navi, ma sapendo fare be-
ne questo si illudono di poter discettare anche su tutto il resto.
E naturalmente su tutto il resto dicono stupidaggini, perché af-
fermano cose non maturate secondo una esperienza, secondo
una riflessione Anche i tecnici finiscono con l’essere più igno-
ranti del filosofo, cioè di colui che è consapevole della propria
ignoranza.
Vorrei anche riferire le riflessioni di Socrate sulla morte, che
rivelano la coerenza del suo atteggiamento razionale. Socrate
afferma che bisogna aver paura di quello che si sa possa recare
danno, ma rispetto a ciò che non si conosce non si può avere
un atteggiamento di terrore e di fuga: «Temere la morte infatti
non è altro, cittadini, che credere di essere sapiente senza es-
serlo e credere di sapere ciò che non si sa, perché nessuno sa
se la morte non sia il maggiore di tutti i beni per l’uomo, ma
tutti la temono come se sapessero con certezza che è il mag-
giore dei mali; e non è ignoranza questa, anzi la più biasimevo-
le, credere di sapere ciò che non si sa? In questo forse cittadini
sono differente dalla maggior parte degli uomini, questo è il
punto su cui posso dire di essere più sapiente di qualcuno, che
non sapendo abbastanza delle cose dell’Ade non credo neppure
di saperne, so invece che commettere ingiustizie e disobbedire
a chi è migliore di noi, dio o uomo, è cosa brutta e cattiva, per-
ciò davanti ai mali che so essere mali non temerò e non fuggirò
mai quelli che non so se siano anche beni. Sicché anche se ora
mi assolveste, dando torto ad Anito, il quale diceva che non si
doveva farmi comparire qui fin da principio, o, una volta che
ero comparso, non si poteva non condannarmi a morte, perché,
vi diceva, se io fossi scampato alla condanna, i vostri figli, pra-
ticando gli insegnamenti di Socrate, sarebbero stati tutti com-
pletamente corrotti, — se di fronte a ciò mi diceste: “Socrate,
noi ora non ascolteremo Anito, ma ti assolveremo a patto però
che tu non passi più il tempo in queste ricerche a filosofare, e
se sarai sorpreso a farlo ancora morirai”. Se dunque, come ho
detto, voi mi assolveste a queste condizioni, vi direi: “Ateniesi,
io vi voglio molto bene, ma obbedirò al dio piuttosto che a voi,
e finché avrò respiro e ne sarò capace non smetterò di filosofa-
re, di esortarvi, di dare indicazioni a chiunque di voi incontri,
dicendogli come al solito: “Ottimo tra gli uomini, tu che sei Ate-
niese, della città più grande e più illustre per sapienza e

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potenza, non ti vergogni di prenderti cura delle ricchezze per
accumularne il massimo, della reputazione, degli onori, e di
non curarti e preoccuparti dell’intelligenza, della verità e
dell’anima perché diventi la migliore possibile?». Proseguendo
nel suo discorso Socrate esorta di nuovo giovani e vecchi a non
curarsi né del corpo, né delle ricchezze prima e più intensa-
mente che dell’anima in modo che essa diventi la migliore pos-
sibile. Egli dice: «Io sono stato uno che ha curato anime, che
ha fatto il levatore, l’ostetrico di anime, questo farò fino alla fi-
ne. Non datemi la grazia a condizione che io smetta di filosofa-
re, perché smettere di filosofare non mi è possibile, in quanto
la filosofia è l’essenza dell’esistenza dell’uomo». Ancora
nell’Apologia è detto: «Qualcuno potrebbe forse dire: “una vol-
ta andato via da noi Socrate, non sarai capace di vivere silen-
zioso e tranquillo?” — Questo è il punto su cui è più difficile
convincere alcuni di voi, se dico che questo significa disobbedi-
re al dio e che perciò è impossibile che io stia tranquillo, voi
non mi crederete, come se facessi ironia, se invece dico che il
bene massimo per l’uomo è il discorrere ogni giorno della virtù
e delle altre questioni su cui mi sentite discutere esaminando
me stesso e gli altri, e che una vita senza ricerca non è degna
di essere vissuta, crederete ancora meno a queste mie parole».
Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta: l’uomo è
per sua natura animato dall’intelligenza, se all’uomo non è per-
messo conoscere, ragionare e discutere, la vita sua non è vita
umana, è vita vegetativa. Di nuovo a proposito della morte c’è
nell’Apologia un brano molto bello in cui si dice: «La morte o
consiste in un sonno senza sogni o è continuazione della co-
scienza». Nel primo caso è paragonabile all’oblio totale di sé, e
Socrate dice di non ricordare notti più piacevoli di quelle in cui
non ha sognato niente e si è risvegliato nella piena inconsape-
volezza di quanto gli era passato nella mente durante la notte.
«Quindi se la morte è la perdita totale della coscienza, cioè io
non sono più io, allora è la cosa più bella che mi è capitata e
non mi fa paura. Se invece continuo a rimanere me stesso, allo-
ra anche gli altri saranno rimasti loro stessi, quindi io nell’Ade
mi troverò molto meglio che qui, perché qui posso parlare con
voi che siete persone intelligenti, Ateniesi, cittadini della città
più civile del mondo, ma nell’Ade incontrerò Omero, Esiodo, i
grandi poeti, i grandi condottieri del passato e quindi lì potrò

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discutere, cioè potrò continuare ad esercitare l’arte del dialo-
go, con tutti i grandi delle generazioni precedenti. Se non ri-
mango me stesso non mi importa della morte, e se rimango me
stesso, come gli altri, con cui continuerò a dialogare, non mi fa
paura la morte e accetto la condanna».
Vengo ora all’ultima parte della vicenda di Socrate, ricostruita
nel discorso del Critone, cioè il dialogo intitolato da Platone col
nome di questo discepolo (e pare quasi coetaneo) di Socrate.
Pronunciata la condanna, Socrate deve bere la cicuta. Ma egli
ha settanta anni e la condanna a morte è stata decisa con una
piccola minoranza di voti; c’è chi è disposto a chiudere un oc-
chio, e Critone ha trovato il modo di corrompere i carcerieri:
Socrate potrebbe lasciare facilmente la prigione. In questo fa-
moso dialogo Critone va da Socrate, a dirgli che il giorno dopo
la condanna verrà eseguita (era stata sospesa perché si era in
un periodo durante il quale per motivi religiosi non si potevano
eseguire le condanne a morte e quel periodo stava finendo).
Critone cerca di muovere gli affetti di Socrate ricordandogli i
figli, anzi fa leva su tutte le possibili corde perché accetti di
fuggire dal carcere. E arriva a dire: «Se tu non fuggi, noi, i tuoi
amici più fraterni, saremo rimproverati per non aver voluto
sborsare il danaro per farti uscire, faremo una gran brutta figu-
ra». Cerca proprio di trovare tutti gli argomenti per indurre
Socrate a uscire dal carcere e a salvarsi, ma non ci riesce.
La morte di Socrate è un fatto di una gravità enorme, perché
implica che l’uomo che usa la ragione, cioè il filosofo per eccel-
lenza, è rifiutato dalla comunità, la polis non lo accetta, non c’è
la fa a sopportarlo e se ne libera nella maniera più violenta,
condannandolo a morte. La morte di Socrate significa una sor-
ta di divorzio, di separazione netta, di frattura, tra l’uso della
ragione e la società. Di fronte a questo gravissimo evento alcu-
ni seguaci di Socrate prenderanno la via della fuga, come i cini-
ci, come Diogene il quale si apparterà dalla comunità. L’altra
soluzione, esattamente opposta, è quella di Platone: la vita
umana è vita di comunità, ma la vita della comunità deve esse-
re regolata dalla ragione. La soluzione di Platone sarà non sol-
tanto che il filosofo resta nella città, ma deve restare come so-
vrano della città: i filosofi devono diventare i reggitori dello
Stato.
Come reagisce Socrate alla condanna da parte dei suoi

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concittadini? L’epilogo della vita di Socrate è veramente un fat-
to su cui riflettere, perché lo scopritore dell’autocoscienza vie-
ne condannato a morte non soltanto mentre è innocente, ma
essendo convinto di avere fatto del bene alla città. I processi in
Grecia si dividevano in due parti: nella prima si perveniva alla
condanna o all’assoluzione. Poi c’era una seconda parte, in cui
si stabiliva quale pena dovesse avere il condannato. Socrate
viene condannato di stretta misura. A questo punto c’era da de-
cidere se comminargli la morte o altre pene, e come condanna-
to poteva scegliere di proporne una. Socrate dice di poter pro-
porre al massimo una piccola multa: è povero, ma gli amici gli
darebbero un aiuto. Però non propone neppure questo. E inve-
ce fa un discorso in cui afferma: «Sono stato come un tafano,
un insetto che punge un animale sonnacchioso», paragonando
la città a un cavallo generoso, ma un po’ assonnato. «Io sono
stato l’insetto che vi ha tenuto svegli, se me ne vado, voi vi ad-
dormenterete e finirete nell’ottusità. Sono stato un dono del
dio alla città, quindi, semmai, mi dovreste dare una pensione —
come si direbbe oggi — mi dovreste ospitare nel Pritaneo. Co-
me pena propongo dunque di essere onorato come chi ha reso
un alto servigio alla città». Socrate è pienamente consapevole
non solo di essere innocente, ma anche di aver reso un grandis-
simo servigio alla città, cioè di aver aperto le menti di tanti gio-
vani alla consapevolezza. Allora perché accetta di rimanere nel
carcere e addirittura di bere la cicuta? Va rilevato che questo
tipo di condanna capitale implicava che il condannato dovesse
personalmente infliggersi la morte, bevendo questo veleno po-
tentissimo.
Socrate: «Caro Critone, il tuo zelo vale molto se accompagnato
da una certa correttezza, altrimenti, quanto più è grande, tanto
più mi è grave. Bisogna esaminare se dobbiamo fare o no ciò
che tu dici — cioè fuggire — perché io non ora per la prima vol-
ta, ma sempre sono stato tale da prestare ascolto a niente altro
di me, che alla ragione, la quale calcolando [cioè vagliando il
bene e il male], mi è parsa la migliore». Il ragionamento è pres-
sappoco questo: «Di tutte le componenti della mia personalità
ho sempre seguito la ragione, e adesso non mi posso mettere a
seguire le altre voci. Allora, se la ragione mi dirà che è bene
fuggire, fuggirò, ma se la ragione, contro il mio istinto vitale,
che è l’istinto più forte, mi dirà che devo rimanere, resterò e

79
accetterò la condanna a morte. Non posso, ora, ripudiare i ra-
gionamenti che facevo in passato, neppure se questo comporta
il dover affrontare la morte». Riprende il discorso che Critone
ha fatto sulle opinioni dicendo: «Riprendendo prima di tutto il
discorso che hai fatto sulle opinioni, dicevamo bene o no, in
passato, che ad alcune opinioni bisogna prestar mente e ad al-
tre no?». Il discorso di Socrate è questo: le opinioni sono tante,
ma non tutte sono equivalenti, pertanto esse devono essere
comparate tra di loro e quella che la ragione indica come più
giusta va seguita. Le opinioni non sono tutte equivalenti, quindi
ad alcune bisogna prestar mente, ed altre no. «O questo era
ben detto prima che dovessi morire, mentre ora è diventato
chiaro che si parlava per parlare ed era veramente un gioco di
bambini [cioè non abbiamo fatto i filosofi così, perché discetta-
vamo del mondo: noi parlavamo di noi stessi]. Desidero esami-
nare con te, Critone, se quel ragionamento sembrerà diverso
ora che sono in questa situazione o lo stesso, e se quindi lo la-
sceremo andare o l’ascolteremo. Quelli che credono di dire
qualcosa hanno sempre detto, mi pare, ciò che ho detto poco
fa, cioè che delle opinioni umane bisogna apprezzarne molto al-
cune e per nulla altre; questo, Critone, non ti pare ben detto?
Umanamente parlando tu sei almeno fuori dal pericolo di dover
morire domani e la disgrazia presente non ti dovrebbe dunque
influenzare. Osserva allora: non ti sembra ben detto che non
bisogna apprezzare tutte le opinioni degli uomini, ma alcune sì
e altre no, e neppure di tutti gli uomini, ma di alcuni sì e di al-
tri no? che dici non è ben detto?». Critone risponde che è ben
detto. «E che bisogna apprezzare le buone opinioni e non le
cattive, e buone sono quelle dei saggi e cattive quelle degli
stolti?». «Come no». «E come si diceva in questa altra questio-
ne? Un uomo che si dedica alla ginnastica e la sta praticando,
presta attenzione alla lode e al biasimo e all’opinione di ogni
uomo, o soltanto di colui che è medico o maestro di ginnasti-
ca?». Critone: «Soltanto di questo». «Dunque deve temere i
biasimi e fare buona accoglienza alle lodi di questo solo, non
dei più. Egli deve dunque comportarsi, cioè fare ginnastica,
mangiare e bere, nel modo che sembrerà a quell’unico che è un
competente intenditore, e non nel modo che sembrerà a tutti
gli altri insieme, è così? E chi non ascolta quello solo e disprez-
za la sua opinione, le sue lodi e apprezza invece quelle dei più,

80
anche se non sono affatto competenti, non ne subirà qualche
danno?». Questo è un tipico ragionamento socratico: si fa cioè
una piccola digressione e si concorda sul fatto che non bisogna
accettare l’opinione dei più (se vogliamo, è contro il principio
di maggioranza bruto, che è sempre ottuso, perché la maggio-
ranza può anche volere l’errore, la distruzione, la morte, o, più
semplicemente, scempiaggini). Allora non si dovrà accettare
l’opinione dei più; se ci troveremo di fronte a un problema di
buona crescita o di buona cura del corpo staremo a sentire
l’opinione dei più o l’opinione del maestro di ginnastica e del
medico? È ovvio che ascolteremo il medico e il maestro di gin-
nastica. Il discorso prosegue: qui si tratta non del bene del cor-
po, che è secondario, ma del bene dell’anima; dobbiamo fare
adesso quello che ci dicono i più, oppure quello che implicano
la giustizia e la coerenza con se stessi? E la coerenza e la giu-
stizia implicheranno che si debba accettare la condanna a mor-
te. Perciò Socrate riprende: «Allora guarda. Se ce ne andiamo
di qui contro il volere della città, facciamo male a qualcuno, e
precisamente a chi meno si dovrebbe, o no? E ci atteniamo a
ciò che abbiamo riconosciuto giusto o no?». Critone: «Non so
rispondere alla tua domanda, Socrate, perché non capisco».
Socrate: «Allora considera la cosa così: se mentre siamo sul
punto di scappare di qui arrivassero le leggi e l’insieme della
città, si fermassero davanti e dicessero: “Dicci, Socrate, che co-
sa hai in mente di fare? Con questa azione a cui ti accingi non
pensi forse di distruggere noi, le leggi, e l’intera città per
quanto sta in te? Credi che possa ancora esistere e non essere
sovvertita quella città in cui le sentenze pronunciate non hanno
forza, anzi sono rese inefficaci e distrutte da privati cittadini?”.
Che cosa risponderemmo, Critone, a queste e altri simili paro-
le? Molte cose si potrebbero dire, soprattutto da parte di un re-
tore, in difesa di questa legge infranta, la quale prescrive che
le sentenze pronunciate abbiamo vigore. Risponderemo ad essi
che la città ci ha fatto ingiustizia e non ha sentenziato retta-
mente? Risponderemo questo o che cosa?». Critone: «Questo,
per Zeus! Socrate». Si solleva questo problema: se me ne vado
contravvengo a una legge; quale legge? La legge per cui la sen-
tenza che è stata emessa deve essere anche eseguita. Sono sta-
to condannato a morte ingiustamente, ma secondo legge, e c’è
inoltre una legge che implica che le sentenze devono essere

81
efficaci; devo dunque bere la cicuta, se non bevo la cicuta il ri-
sultato significativo non è che mi salvo la pelle, ma è che offen-
do le leggi. Ma le leggi che cosa sono? Le leggi sono la stessa
città, perché la città, la polis, che equivale allo Stato, si fonda
sulle leggi; la convivenza tra gli uomini è possibile per il fatto
che è regolata da leggi, senza le leggi esiste semplicemente —
scusate il gioco di parole — la legge della giungla, la sopraffa-
zione reciproca. La comunità è possibile esclusivamente sulla
base della regolamentazione dei rapporti fra i suoi membri, in
base a norme che devono essere rispettate da tutti: nel mo-
mento in cui infrango la legge, io, Socrate, di fatto ripudio la
città, ripudio la comunità. Questo è il ragionamento importan-
tissimo che fa Socrate: «E che cosa risponderemmo se le leggi
dicessero: “Socrate, ci siamo accordati anche in questo, tu e
noi, o piuttosto di attenerci alle sentenze pronunciate dalla cit-
tà?”. Se ci meravigliassimo delle loro parole forse rispondereb-
bero: “Socrate non meravigliarti delle nostre parole, ma ri-
spondi: anche tu sei solito servirti del domandare e rispondere.
Che cosa hai da rimproverare a noi e alla città per cercare di
distruggerci? Prima di tutto, non siamo noi che ti abbiamo fatto
nascere? Non è per mezzo nostro che tuo padre sposò tua ma-
dre e ti generò? Rispondi dunque: a quelle leggi tra noi che re-
golano i matrimoni rimproveri di non essere buone?”. “Non
rimprovero nulla, risponderei”. “E a quelle che regolano l’alle-
vamento e l’educazione dei figli in cui anche tu sei stato educa-
to? Le leggi dirette a questo scopo non hanno disposto bene,
prescrivendo a tuo padre di educarti nella tecnica delle Muse e
nella ginnastica?”. “Bene, risponderei”. “Sia, ma poiché sei na-
to e sei stato allevato ed educato, potresti dire in primo luogo
di non essere nostro figlio e nostro servo tu e i tuoi progenito-
ri? Se è così, credi che tra te e noi i diritti siano uguali, e che
tu hai il diritto di ricambiare qualsiasi cosa noi tentiamo di far-
ti? O mentre di fronte a tuo padre o al tuo padrone, se ne avevi
uno, il tuo diritto non era uguale a loro, non avevi cioè il diritto
di ricambiare i mali che ne subivi e di ribattere se oltraggiato e
percuotere se percosso o altre cose simili: di fronte alla patria
e alle leggi, invece, questo ti sarà permesso, per cui se noi ten-
tiamo di mandarti a morte ritenendolo giusto, cercherai in
cambio, per quanto ti è possibile, di mandare a morte noi, le
leggi e la patria, e dirai che facendo questo agisci giustamente,

82
tu che pratichi veramente la virtù?”». Qual è il ragionamento di
Socrate? Sono nato perché c’erano leggi che regolavano il ma-
trimonio, altrimenti non sarei venuto alla luce; sono stato alle-
vato grazie a leggi che tutelavano l’educazione dei bambini; ho
potuto sopravvivere perché c’erano leggi che garantivano la
giustizia, la sicurezza, ecc. Per tutta la mia vita ho accettato le
leggi: «Non me ne sono andato — dice — non sono emigrato,
né ho cercato di persuadere la città a fare leggi migliori, quindi
le ho accettate; ora non posso, nell’unico momento in cui le
leggi non sono a mio favore, non rispettare questo patto e di-
struggere le leggi, dare questo esempio così nefasto perché
così mi conviene. La mia convenienza infatti non conta, quello
che conta è la legge come garanzia della comunità». Questo fa
capire molto meglio tutto il discorso precedente: Socrate in-
centra tutto sulla coscienza, ma la coscienza individuale entra
in contatto con contenuti oggettivi, con contenuti talmente og-
gettivi che l’individuo, anche in base all’istinto più profondo
che ha, quello di sopravvivenza, non si può ragionevolmente
contrapporre a essi; tra questi contenuti che la ragione ricono-
sce ci sono anche le leggi che rendono possibile la comunità.
Tutto ciò implica da parte di Socrate una concezione del potere
e dello Stato opposta rispetto a quella dei sofisti e molto impor-
tante. Per i sofisti viene prima l’individuo e poi lo Stato: l’indi-
viduo fa nascere lo Stato per una sorta di contratto che gli indi-
vidui stipulano tra di loro, accordandosi perché ci siano regola-
menti, leggi. I sofisti sono contrattualisti: gli individui, accor-
dandosi tra di loro, creano regolamenti per vivere rispettandosi
reciprocamente. In questa concezione dei sofisti c’è un fonda-
mento soggettivo: la legge nasce dall’accordo degli individui,
se l’individuo è in disaccordo, in casi estremi si sottrae anche
alla legge. La concezione socratica invece è una concezione
per cui lo Stato, cioè la polis, la patria, come egli dice, viene
prima degli individui, perché l’universale viene prima del parti-
colare; l’individuo si deve adeguare all’universale, non può sop-
primere l’universale o sostituirsi ad esso: non c’è un contratto
fra gli individui che dà luogo alle leggi, ma il singolo cittadino
ha un contratto con le leggi, che non a caso sono personificate
nel racconto di Socrate. Le leggi sono lo Stato organizzato, che
è precedente a lui e che gli ha permesso di nascere. Esse costi-
tuiscono la vita stessa della comunità, la quale si è data

83
determinate forme di convivenza, che precedono il singolo indi-
viduo. Il filosofo, anche con il suo spirito critico, non può sop-
primere arbitrariamente, e meno che mai per un interesse per-
sonale, quello che è il retaggio della vita associata, cioè le leg-
gi. Esse hanno una maestà infinitamente superiore, vengono
prima di lui; egli non le ha fatte nascere, ma sono le leggi che
hanno fatto nascere lui. È un ragionamento molto importante;
oggi predomina una tendenza soggettivista che vede lo Stato
come secondario rispetto all’individuo, invece lo Stato è prece-
dente dal punto di vista logico rispetto all’individuo.
Socrate: « “Osserva, dunque”, potrebbero continuare le leggi:
“Se è vero ciò che diciamo, cioè che non è giusto ciò che ora
cerchi di farci, noi che ti abbiamo generato, allevato, educato,
che abbiamo partecipato a te e a tutti gli altri cittadini tutti i
beni di cui disponevamo, tuttavia dichiariamo di avere dato a
chiunque degli Ateniesi lo desideri, in quanto è nato ed è iscrit-
to come cittadino, e conosca le faccende della città e noi leggi,
la possibilità, se non siamo di suo gradimento, di prendere le
proprie cose e andarsene dove vuole. Nessuna di noi leggi osta-
cola o vieta a chi di voi vuole andare nelle colonie di farlo, se
noi nella città non siamo di suo gradimento, o di risiedere in
qualche paese straniero, o di andare dove vuole con le proprie
cose; ma chi di voi rimane qui e vede il modo con cui pronun-
ciamo le sentenze, amministriamo la città nel resto, costui di
fatto ormai ci ha dato il consenso che farà ciò che noi ordinia-
mo, e se egli non obbedisce commette ingiustizia in tre modi:
primo, perché disobbedisce a noi che lo abbiamo generato; se-
condo, perché disobbedisce a noi che lo abbiamo allevato; ter-
zo, perché dopo aver consentito a obbedirci, né obbedisce, né
cerca di persuaderci se non facciamo bene qualche cosa [le
leggi sono cioè perfettibili se uno le persuade, cioè persuade
la polis].Infatti noi proponiamo e non imponiamo rudemente di
fare ciò che comandiamo, ma lasciamo la scelta di una delle
due cose, o di persuaderci, o di eseguire, mentre egli non fa né
una cosa, né l’altra. Socrate, obbedisci a noi che ti abbiamo al-
levato e non apprezzare i figli, la vita, ogni altra cosa più della
giustizia, affinché giunto nell’Ade tu possa dire tutto questo in
tua difesa a quelli che comandano laggiù; come qui lo scappare
non sembra meglio, né più giusto, né più santo, né per te, né
per nessun altro dei tuoi, così non sarà meglio neppure là una

84
volta che tu vi sia giunto”». Socrate, secondo me, non si vuol ri-
ferire alle leggi dell’Ade, né crede di trovare qualche giudice
ultraterreno; qui c’è un concetto più profondo: le leggi dello
Stato sono la continuazione delle leggi stesse della natura; il
mondo è un cosmo, cosmo significa tutto ordinato: se si viola
l’ordine nelle leggi umane è come se si violasse un ordine co-
smico, il che costituirebbe il classico peccato diybris, di traco-
tanza, di prepotenza individuale. «Ora te ne vai, se consenti,
dopo aver subito ingiustizia, non da noi leggi, ma dagli uomi-
ni, [cioè: se offendi noi leggi ti allontani dal consesso umano,
non ti sottrai solo alla legge]. Se fuggirai così vergognosamen-
te, ricambiando ingiustizia con ingiustizia e male con male, vio-
lando i patti e gli accordi assunti con noi e facendo male a colo-
ro a cui meno dovresti, cioè a te stesso, agli amici, alla patria e
a noi, finché vivrai noi ti perseguiteremo e laggiù le nostre so-
relle, le leggi dell’Ade, non ti accoglieranno benevolmente, sa-
pendo che per quanto sta in te hai cercato di distruggere an-
che noi. Non lasciarti convincere ad assecondare le proposte di
Critone più che noi».
Critone a questo punto si arrende, e Socrate il giorno dopo be-
ve la cicuta e muore. È un fatto molto significativo che il filoso-
fo della critica incentrata sull’uso delle facoltà razionali dell’in-
dividuo proprio sulla base di queste facoltà razionali identifichi
non solamente un universale astratto, il bene, il vero, ma
ununiversale concreto nelle leggi dello Stato, e le accetti al
punto da bere egli stesso la cicuta pur potendo sottrarsi a que-
sto; mi sembra che senza questo epilogo la figura di Socrate
potrebbe dare adito a interpretazioni ancora soggettivistiche,
ma dopo che accetta questo tipo di morte apre veramente la
strada a Platone, cioè alla nuova fondazione dell’oggettività.
È importante riferirsi a un “universale concreto”, perché tra
legge e giustizia ci può essere una differenza, cioè ci possono
essere leggi ingiuste; ma non è un caso che Socrate usi quella
parola che abbiamo letto alla fine del Critone, cioè ‘persuasio-
ne’. Le leggi gli dicono: “Tu non ci hai persuaso a migliorarci”.
Infatti le leggi possono essere lontane dalla giustizia e quindi
possono essere migliorate, ma solo se, appunto, per migliorarle
si accettano quali sono, quali si presentano storicamente deter-
minate. In quella frase che insegnamento si può cogliere? A
meno di ipotizzare che sull’esempio di Socrate si debba

85
accettare qualsiasi martirio da parte di qualsiasi Stato, sia pu-
re ingiusto, bisogna cogliere invece questo messaggio: che le
leggi dello Stato possono essere lontane dalla giustizia, e allora
il compito del cittadino sarà quello di farle progredire verso la
giustizia. La giustizia è l’ideale delle leggi, quindi se le leggi
sono troppo distanti da essa il mio compito sarà quello di farle
progredire verso la giustizia; ma la giustizia che cosa è? È uno
dei grandi ideali universali. Allora l’antagonismo rispetto alle
leggi sarà possibile? Sì, secondo l’insegnamento di Socrate, ma
soltanto da un punto di vista più universale, più vicino all’uni-
versale, non da un punto di vista più particolare. In altri termi-
ni, se sono Socrate nella cella alla vigilia dell’esecuzione della
condanna a morte non posso fuggire. Ed egli giustamente non
fugge, perché altrimenti farebbe prevalere un principio indivi-
duale di utilità personale contro un principio più universale in-
carnato dalle leggi finora accettate. Posso criticare le leggi, ma
le posso criticare soltanto da un punto di vista più universale.
Faccio un esempio molto banale; di fronte a una legge fiscale
ingiusta l’atteggiamento giusto, socratico, non è quello di dire:
“Non pago le tasse, faccio l’evasore fiscale”. Se la legge fiscale
è ingiusta, non posso contrappormi ad essa sulla base della mia
individualità, bensí operando perché diventi più equa. La legge
è sottoponibile a critica, ma solo da un punto di vista più uni-
versale di quello che essa incarna. È opportuna la presenza
all’interno della comunità di una forza che faccia emergere una
maggiore universalità: questa forza è data dalla filosofia. Ma la
filosofia è stata espulsa dalla polis con la condanna a morte di
Socrate. Si è aperto un grave problema che sarà affrontato da
Platone.

86
Capitolo 8
Platone
Il pensiero di Platone ruota tutto intorno alla sua famosa affer-
mazione, secondo la quale o i filosofi devono diventare sovrani,
governanti, oppure i sovrani devono diventare filosofi: fino a
quando non si sarà creata una saldatura stretta, addirittura
personale, tra filosofi e governanti, l’umanità non potrà acce-
dere al benessere e alla felicità. Questa tesi così forte, che Pla-
tone stesso riconosce essere provocatoria, è il nocciolo della
sua filosofia. La filosofia platonica converge in questa afferma-
zione decisiva: «I filosofi devono diventare i reggitori dello Sta-
to». Platone si pone il problema del potere come centrale per-
ché è il problema lasciato aperto dalla morte di Socrate. La
morte di Socrate è un evento che sconvolge le coscienze. So-
crate è l’uomo più probo, più onesto, più amante della ragione
che ci sia in Atene, la città splendente di civiltà, eppure Socra-
te, che è il più acuto utilizzatore della suprema facoltà della ra-
gione, viene condannato a morte. La condanna a morte di So-
crate fa nascere il “problema Socrate”; chiunque altro si metta
a filosofare dopo Socrate, a partire dai suoi discepoli diretti,
non può eludere questo problema, e direi che non lo possiamo
eludere neppure noi oggi. Di fronte al “problema Socrate” i so-
cratici danno soluzioni diverse: Aristippo di Cirene e i cirenaici
si ridurranno all’individualismo e penseranno che non c’è altro
da fare che condurre una vita basata sul piacere; ci sarà una ri-
sposta molto più radicale dei Cinici, cioè di Antistene, ma so-
prattutto di Diogene: la polis, la città-Stato ha respinto il filoso-
fo, ha respinto colui che adopera la ragione; allora il filosofo,
colui che vuole ragionare, si apparta dalla polis, dalla comuni-
tà, e va a vivere nell’isolamento, nella famosa botte della leg-
genda, fuori della comunità, cerca di essere autosufficiente
proprio per non avere niente a che fare con i propri simili,

87
rompe ogni comunicazione. Di fronte alla soluzione individuali-
stica dei Cirenaici, di fronte alla fuga dei Cinici, c’è la terza
grande soluzione, quella di Platone: se Socrate è stato condan-
nato a morte, ciò è avvenuto perché nella polis invece di domi-
nare la ragione domina l’irrazionale; invece di dominare la ra-
gione, che è universale e che mira al bene comune, dominano
passioni, istinti, interessi, tendenze di carattere individualisti-
co. La città dovrà essere conformata alla ragione, nella città si
dovrà imporre la razionalità, e cioè l’universalità. Questo sarà
possibile soltanto da parte di chi coltiva la razionalità stessa, di
chi cerca la visione dell’universale, cioè dei filosofi. Questa, in
due parole, la soluzione che proporrà Platone. Per giungere a
questo Platone dovrà intessere un discorso di grandiosa porta-
ta per definire la filosofia e la figura del filosofo. E soprattutto,
se egli vorrà sostenere — come sostiene — che nella città deve
dominare l’universale e non devono prevalere spinte particola-
ri, dovrà dimostrare che nella realtà e nella conoscenza c’è
l’universale, cioè che l’universale c’è e che è conoscibile. Se
l’universale c’è ed è conoscibile esso si potrà tradurre anche
nella pratica, altrimenti questo sarà impossibile. Di conseguen-
za Platone, per creare le basi di una filosofia fondata sull’uni-
versale, dovrà battere in tutte le sue forme il pensiero sofistico,
come già aveva iniziato a fare il suo maestro Socrate. Cerchia-
mo di vedere come Platone arriva a tutto questo.
Il primo problema da affrontare è quello del rapporto con So-
crate. Questo rapporto traspare dall’immagine di Diogene
Laerzio: Socrate un giorno sogna di avere in grembo un cigno,
ma questo animale splendido vola via, si allontana da lui; il
giorno dopo si presenta Platone nel circolo dei giovani che
ascoltano Socrate e dialogano con lui: Platone è il più bel frutto
del dialogare socratico, ma si distacca dal suo maestro. C’è un
rapporto di continuità-distinzione fra Socrate e Platone: esso
prima di tutto si manifesta a proposito del fatto che Platone
scrive, e questo sembra un tradimento del maestro. Socrate in-
fatti non ha scritto niente perché ha sostenuto che ognuno de-
ve conoscere se stesso, deve trarre la verità dalla propria inte-
riorità; ha sostenuto che lo scritto implica la pretesa di avere
una verità già codificata, già cristallizzata, già pietrificata, che
si può andare ad attingere semplicemente leggendo, con uno
sforzo esteriore. Socrate, invece, convinto che la verità alberga

88
nel più profondo dell’uomo, di ogni singolo individuo, non ha
scritto niente. Platone scrive, questo sembra un tradimento del
maestro. Ma bisogna riflettere su come scrive: Platone scrive
prima di tutto in forma dialogica, a parte le lettere. Il fatto che
si tratti di dialoghi implica questo: che vengono presentati di-
versi punti di vista su un problema, e quindi il lettore non vive
la lettura in maniera passiva, con l’idea che troverà una verità
bella e fatta; anzi, specialmente nei primi dialoghi, quelli che
sono denominati ‘socratici’, alla fine non si arriva a nessuna
conclusione. La forma del dialogo implica che non viene depo-
sitata una verità: il lettore è portato a identificarsi o con l’uno o
con l’altro degli interlocutori, a scegliersi la sua posizione e poi
a proseguire in qualche modo nel ragionamento egli stesso. In
questo senso Platone resta fedele a Socrate, perché il lettore è
costretto a una forte partecipazione, a prendere posizione, a
continuare da sé il discorso. Altrettanto importante è il fatto
che Platone dissemina i suoi dialoghi di splendidi miti. Questi
miti sono talmente belli che hanno fatto dire che Platone non è
solo il più grande filosofo, ma è anche il più grande scrittore
dell’antichità. Qual è il senso della loro presenza nei dialoghi?
Quando Platone affronta un tema veramente importante dice di
solito: «posso riferirti un racconto degli antichi… », oppure:
«ho sentito raccontare che a Naucrati d’Egitto… », ecc. ecc.,
cioè prende distanza da quanto dice e lo mette in forma di im-
magini, in forma di leggende, di storie, di favole. Questo impli-
ca da parte del lettore il dover interpretare racconti fantastici
di bighe che volano nel cielo, di guerrieri che resuscitano e tor-
nano sulla terra a raccontare la vita dell’Ade, di prigionieri in-
catenati in una caverna, ecc.. Platone avrebbe potuto anche in
quei casi usare un linguaggio strettamente filosofico; è dunque
evidente che egli intenzionalmente, proprio sui punti più deli-
cati, non ha voluto dare soluzioni, ma è ricorso a immagini di
fantasia che richiedono uno sforzo di interpretazione.
Platone è stato però forse ancora più fedele a Socrate, e questa
è una scoperta degli ultimi anni. Sapete che la più famosa delle
lettere di Platone è la Settima lettera, in cui il filosofo racconta
della sua vita; si tratta di una specie di autobiografia molto in-
teressante. Platone nella Settima lettera racconta dei suoi tre
viaggi in Sicilia. Egli non ha semplicemente elaborato una teo-
ria della Repubblica ideale, il che ha fatto dire che Platone è un

89
utopista oppure è un’idealista nel senso deteriore del termine,
definizione che, come vedremo, è del tutto inesatta. Platone ha
cercato di mettere in pratica, per quanto era possibile, quello
che egli stesso suggeriva, cioè che i governanti, i sovrani, colo-
ro che reggono lo Stato diventino filosofi. Ha intravisto oppor-
tunità in questo senso in Sicilia e c’è andato tre volte a suo ri-
schio e pericolo: ha fatto naufragio, è stato preso prigioniero, è
stato venduto come schiavo, è stato riscattato dai suoi amici.
Platone dunque ha rischiato di persona per tentare di tradurre
in pratica le idee della Repubblica, cioè di quello che è forse il
suo capolavoro. Ora, la Settima lettera di Platone fino a qual-
che tempo fa era considerata apocrifa, cioè non scritta da lui.
Uno dei motivi per sostenere che essa non fosse di Platone era
che proprio dopo le prime battute si trova un’affermazione pa-
radossale, che suona pressappoco così: «Badate che di tutte le
cose che ho più a cuore non ho scritto niente». Questo è sem-
brato un indizio del fatto che la lettera fosse falsa, visto il note-
vole numero di opere scritte da Platone, tutte molto impegnati-
ve. Come è possibile che egli affermi che non ha scritto niente
su quello che gli sta più a cuore? Oggi l’autenticità della Setti-
ma lettera è definitivamente dimostrata, ed è nata una scuola
interpretativa, che tengo a ricordare in questa occasione,
la Scuola di Tubinga, di cui il maggiore esponente è stato il
compianto Konrad Gaiser. Gaiser, con i suoi collaboratori, pri-
mo tra tutti Hans-Joachim Krämer, e con suoi discepoli più gio-
vani, quali Vittorio Hösle e Christoph Jermann, ha sviluppato
questa ipotesi: Platone ha avuto un atteggiamento simile a Pi-
tagora, che si circondava di una cerchia più intima di discepoli,
una cerchia esoterica, ristretta, cui si affiancavano insegna-
menti essoterici, cioè rivolti all’esterno, agli uditori esterni; le
dottrine più segrete non venivano scritte ed erano comunicate
solo ad allievi particolarmente fedeli e che avevano dato prova
della loro moralità. Potrebbe darsi che Platone abbia fatto
qualche cosa del genere. Konrad Gaiser, il quale ha tenuto
all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici un corso di lezioni
poi pubblicate col titolo Platone come scrittore filosofico, è riu-
scito a dimostrare che nei dialoghi più importanti di Platone ci
sono accenni che, se correttamente interpretati, rinviano a dot-
trine discusse solo verbalmente e non scritte. Se questo è vero,
come la Scuola di Tubinga afferma, avremmo un’altra

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testimonianza della fedeltà di Platone a Socrate: Platone ha
scritto quello che gli sembrava di poter scrivere e lo ha fatto in
forma dialogica, in forma mitica, per stimolare alla ricerca; non
ha preteso di imporre verità cristallizzate, non solo, ma ha ela-
borato anche una dottrina che non ha scritto mai. Un rapporto
dunque, di continuità e insieme di distinzione con Socrate.
Che cosa di Socrate viene raccolto da Platone? Sicuramente la
ricerca dell’universale. Abbiamo detto che i sofisti avevano da-
to il via alla maggiore sfrenatezza possibile della soggettività:
erano caduti nello scetticismo. Le opinioni per i sofisti sono tut-
te equivalenti, esistono tante verità quanti sono gli individui,
non esiste un’unica verità. Questo portava a conseguenze gravi
in campo politico. Quando abbiamo parlato dei sofisti abbiamo
visto che da questo punto di partenza c’era una tendenza ad
arrivare alla tirannide. Perché? Abbiamo fatto questo discorso:
se ci sono tante verità — meglio, tante opinioni — e nessuna si
impone per il suo riferimento oggettivo, allora usiamo la retori-
ca e cerchiamo di imporre la nostra ‘verità’ agli altri, infioran-
dola di belle parole, commuovendo gli ascoltatori, eccitandone
gli affetti. Ma se, a un certo punto, la persuasione non basta
più, la retorica non funziona, allora — i sofisti della seconda on-
data lo dicono apertamente — si impone il positivismo del pote-
re, cioè il più forte si fa strada, al di là delle parole e al di là
della retorica, anche con la violenza. Da una parte la sofistica
con Gorgia e i discepoli di Gorgia arriva dal punto di vista poli-
tico alla tirannide, dall’altra parte con Protagora ispira una
certa democrazia indifferenziata: se tutte le opinioni sono equi-
valenti, in pratica tutti hanno ragione. La soluzione che si deli-
nea in Socrate e che poi matura in Platone è questa: che è falsa
sia la democrazia senza limiti di Protagora, sia la tirannide di
Gorgia e dei discepoli di Gorgia. Perché degno di detenere il
potere e quindi di guidare la comunità non è il tiranno, né la
maggioranza (che può anche avere opinioni false): è degno di
guidare la comunità colui che usa la ragione. Ma perché colui
che usa la ragione? Perché se realizzare il benessere della co-
munità significherà fare il bene di tutti, bisognerà avere uno
sguardo rivolto alla totalità, all’universale, e questo sguardo
appunto è lo sguardo del filosofo. Socrate aveva aperto il di-
scorso dell’universalità; chiedendo: «che cos’è?» ai vari Euti-
frone, ai vari Lachete, ecc.; chiedendo: «che cos’è la virtù, che

91
cos’è la giustizia, che cos’è il coraggio?», aveva aperto la stra-
da, sia pure in maniera solo critica, all’affermazione che esisto-
no universali, cioè esiste una giustizia di cui le azioni giuste so-
no un rispecchiamento, esiste un coraggio di cui le azioni valo-
rose sono una manifestazione, e così via. Abbiamo detto che
Aristotele sostiene che Socrate è lo scopritore del concetto,
cioè dell’universale. Questa iniziale scoperta di Socrate viene
portata a piena maturazione da Platone: Platone elabora la
teoria delle idee.
La parola idea ha una radice che viene dall’aoristo del ver-
bo orào. Per chi studia il greco al liceo classico è facile ricor-
darsi questo: il verbo orào significa vedere, id è la radice
dell’aoristo, del passato remoto, da cui viene il latino video. Ciò
significa che la parola idea implica la visione: le idee sono qual-
che cosa che si vede (sia pure, diremo tra poco, con l’occhio
dell’intelletto). È un punto molto importante, che voglio sottoli-
neare: idea è qualche cosa di oggettivo, qualche cosa che si ve-
de. Oggi quando parliamo di idee di solito superficialmente in-
tendiamo qualche cosa che è propria della nostra mente, un
possesso del nostro intelletto, un che di soggettivo. Il sostanti-
vo “idealista” oggi spesso viene usato in un senso un po’ dete-
riore, per indicare un sognatore. Per Platone l’idea invece è il
cuore della realtà, la struttura fondamentale della realtà, per-
ché l’idea è qualche cosa che c’è e si vede, si vede appunto con
gli occhi dell’intelletto. Platone parla nel Fedonedi una “secon-
da navigazione” con cui si può giungere all’idea. I Greci erano
un popolo di navigatori; quando era possibile si sfruttava la for-
za del vento, quando il vento calava bisognava mettere mano ai
remi. Che cosa vuol dire Platone quando dice che l’idea si rag-
giunge con la seconda navigazione? La prima navigazione è
quella dei sensi: la prima via di conoscenza è la conoscenza
sensibile; però con la conoscenza sensibile si conoscono singo-
le cose belle, singole azioni giuste, singoli fatti virtuosi o corag-
giosi, ma non si arriva al coraggio in sé, alla giustizia in sé o al-
la virtù in sé a prescindere dai casi specifici; i sensi ci mettono
in contatto soltanto con quello che è individuale, con quello che
è particolare. Per cogliere l’idea, cioè l’universale, è necessaria
una seconda navigazione, cioè ammainare le vele della sensibi-
lità e mettersi ai remi dell’intelletto. Già in questo paragone
della navigazione si capisce che Platone è un grande filosofo

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sintetico. Egli non rifiuta le posizioni dei suoi predecessori, ac-
coglie la conoscenza sensibile, ma le attribuisce un valore limi-
tato. Recupera anche quello che c’è di buono nella sofistica, co-
me pure il divenire di Eraclito, però fa culminare la conoscenza
in qualche cosa di molto più vicino alla contemplazione dell’es-
sere, all’unione tra pensiero e essere di Parmenide. L’unione di
conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale è quanto mai
esplicita nel mito della caverna.
Attraverso la seconda navigazione, cioè attraverso la riflessio-
ne razionale, si arriva a vedere che c’è una struttura ideale del
mondo sensibile. Quando si dice questo a prima vista si dà l’im-
pressione di affermare qualcosa di assurdo. Eppure basta ri-
flettere sul fatto che anche la materia più bruta è pur sempre
organizzata, ha pur sempre una struttura. Quando Platone af-
ferma che le idee sono qualche cosa di oggettivo e di indipen-
dente dal mondo sensibile vuol dire che qualunque parte del
mondo sensibile presenta un ordine, una struttura, ordine che
è ripetibile all’infinito e che non si esaurisce in quella determi-
nata entità. Se consideriamo una molecola d’acqua, che è com-
posta di idrogeno e ossigeno, la materialità di quell’acqua si
può esprimere semplicemente con una formula che designa
quella conformazione della materia. Anche la parte più elemen-
tare di materia, una goccia d’acqua, una molecola d’acqua,
presenta comunque una struttura, e tale struttura non si esau-
risce in quella molecola d’acqua, ma è ripetibile in infinite altre
molecole. Quando parlo degli alberi l’essere dell’albero non si
esaurisce tutto quanto negli alberi che vedo, né negli alberi
che finora l’umanità ha visto; ‘l’alberità’ in quanto tale, l’albero
in sé, sta molto al di là di tutti gli alberi messi assieme: messi
assieme tutti gli alberi sensibili ne saranno possibili ancora in-
finiti altri. E il coraggio che finora si è manifestato sulla terra
non esaurisce tutto il coraggio possibile: si può con sicurezza
affermare che anche l’umanità futura potrà dire di assistere ad
azioni coraggiose. Lo stesso discorso vale per la giustizia o la
bellezza: tutte le cose belle del mondo non si possono cataloga-
re, in quanto la bellezza è qualche cosa che va al là di tutte le
cose belle. Ora, tutte le cose belle o tutte le azioni giuste sono
cose empiriche, fatti sensibili, fatti tangibili. Evidentemente la
bellezza, la giustizia, la virtù, il coraggio, e anche ‘l’alberità’,
sono qualche cosa invece che sta al di là del mondo sensibile,

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che non si esaurisce in tutte le cose sensibili di quel genere
messe assieme. Al di là in latino si esprime con trans, perciò si
dice che l’idea è trascendente. Ripeto: se ‘l’alberità’ non si
esaurisce in tutti gli alberi che posso vedere o che ha visto
l’umanità finora, ciò vuol dire che ‘l’alberità’ (o la bellezza o la
giustizia), non sono completamente risolte nelle azioni giuste o
nelle cose belle o negli alberi. Se non sono tutte quante risolte
e racchiuse nelle cose concrete, alberità, bellezza, giustizia,
ecc. saranno anche al di là delle cose concrete, cioè saranno
trascendenti rispetto al mondo sensibile. Il mondo ideale è un
altro mondo, che sta al di là del mondo sensibile. In un famoso
mito Platone si riferisce a questo mondo come Iperuranio. Tut-
to questo è stato espresso in maniera mirabile e plastica da
Raffaello nel famoso affresco della Scuola di Atene nelle stanze
del Vaticano, dove vengono raffigurati tutti i maggiori filosofi
greci idealmente a colloquio fra loro a prescindere dalla crono-
logia, riuniti in un porticato; in primo piano ci sono Platone e
Aristotele, Platone indica verso il cielo, Aristotele verso la ter-
ra: per Platone l’essenza delle cose, quello per cui le cose sono
ciò che sono, è trascendente, sta al di fuori della loro consi-
stenza fisica, per Aristotele è immanente, è interna ad esse.
Per rendere con maggiore chiarezza il pensiero di Platone in
proposito vi propongo i passi 74 a-c e 100 c-e del Fedone, nei
quali viene esposta la dottrina delle idee: «Vedi allora, rispose
Socrate, se la cosa sta così. C’è qualche cosa di cui noi affer-
miamo che è uguale: e non voglio dire di legno a legno, di pie-
tra a pietra o di altro simile; bensí di cosa che è di là e diversa
da tutti questi eguali, dico l’eguale in sé? [l’eguaglianza con la
‘E’ maiuscola, l’idea di eguaglianza]. Possiamo di questo egua-
le in sé affermare che è qualche cosa, o non è nulla affat-
to? — Dobbiamo affermarlo sicuramente, disse Simmia; proprio
così. — E conosciamo anche ciò che esso è in se stesso? - Cer-
to, rispose. - E di dove l’abbiamo avuta questa conoscenza?
Non l’abbiamo avuta da quegli uguali di cui si parlava ora, o le-
gni o pietra o altri oggetti qualunque, a vedere che sono ugua-
li? Non siamo stati indotti da questi uguali a pensare a
quell’eguale che è pur diverso da questi? O non ti pare che sia
diverso? Considera anche da questo punto. Pietre uguali e le-
gni uguali non accade talvolta che appariscono, anche se gli
stessi, a uno eguali e a un altro no? [Due pietre uguali non

94
sono mai uguali perfettamente, quindi vuole avviarsi a dire: in
natura l’uguaglianza perfetta non esiste, perciò l’idea di ugua-
glianza non può essere stata ricavata dalla natura]. E, dimmi,
l’uguale in sé si dà mai il caso che apparisca disuguale, e in-
somma l’uguaglianza disuguaglianza? — Impossibile, o Socra-
te. — Infatti non sono la stessa cosa, disse Socrate, questi
uguali e l’uguale in sé». Cioè, gli uguali terreni, gli uguali sen-
sibili che Tizio o Caio possono vedere, non sono mai perfetta-
mente uguali. Non essendo perfettamente uguali non possono
essere stati la scaturigine dell’idea di uguaglianza. «Ma pure,
disse, è proprio per via di questi uguali, benché diversi da
quell’uguale, che tu hai potuto pensare a fermare nella mente
la conoscenza di esso uguale, non è vero?». Che cosa vuol dire
con quest’altra frase? È vero che l’uguaglianza, l’idea di ugua-
glianza non è tratta dalle cose sensibili, però è proprio la rifles-
sione sulle cose sensibili che ci fa pervenire all’idea dell’uguale
in sé, cioè un uguale con la ‘U’ maiuscola, fuori delle cose sen-
sibili. Si delinea quello che ho detto poco fa, che la conoscenza
sensibile non è respinta come in Parmenide o Zenone, seguace
di Parmenide, che nega il movimento in maniera drastica con i
suoi famosi paradossi. No. La conoscenza sensibile è valida, ma
è soltanto un avvìo: si parte dagli uguali che ci si trova di fron-
te, che non sono mai perfettamente uguali, per riflettere su
questo e ricavarne che ci dev’essere un’uguaglianza in sé, che
non può essere stata estratta dagli uguali sensibili. La cono-
scenza sensibile è importante, ma solo come avvìo della cono-
scenza, che poi deve essere coronata dalla riflessione intellet-
tuale. «Ecco che proprio qui, disse, in questo processo, tu hai
avuto necessariamente un caso di reminiscenza». Che cosa
vuol dire? Le cose sensibili ci fanno ricordare delle essenze
ideali; torneremo su questo concetto fondamentale, secondo il
quale conoscere è ricordare, la conoscenza è reminiscenza.
Un discorso analogo Platone lo fa riguardo alla perfezione. Nel-
la realtà sensibile non ci imbattiamo mai in qualche cosa di as-
solutamente perfetto, eppure abbiamo l’idea di perfezione. Op-
pure ancora, noi usiamo il concetto di unità, ma non vediamo
mai una cosa che è assolutamente una, perché quando dicia-
mo un albero,un gatto oppure un tavolo, qualunque cosa noi
vediamo sotto l’aspetto dell’unità, essa è sempre in effetti com-
posta da molteplici parti. Il concetto di unità non lo ricaviamo

95
dall’esperienza sensibile, perché non troviamo mai l’unità di
fronte a noi. Chi può dire di avere mai visto l’unità? Chiunque
ha sempre visto cose molteplici, l’unità pertanto è il derivato di
una contemplazione intellettuale ed è innata, la si ritrova nella
nostra mente a prescindere dalle esperienze sensibili e prima
di esse.
Passiamo alla lettura di 100 c-e: «Esamina dunque, egli disse,
quello che da codesti punti consegue, se anche a te pare lo
stesso che a me. A me pare infatti che, se c’è cosa bella all’in-
fuori del bello in sé, per nessuna altra cagione sia bella se non
perché partecipa di codesto bello in sé». Per quale motivo una
cosa bella è tale? Di solito a questa domanda si reagisce con
l’enumerazione di qualità che sarebbero in quanto tali belle e
conferirebbero bellezza alle cose. Platone dimostra che queste
qualità non definiscono assolutamente le cose belle, perché
possedute da alcune cose le fanno definire belle, possedute da
altre, invece, magari le rendono ancora meno pregevoli. La bel-
lezza non dipende da una qualità sensibile specifica che si può
catalogare; eppure, se esistono cose belle dovranno avere in sé
la bellezza: altrimenti perché sarebbero belle? Avranno in sé la
bellezza, ma non esauriranno tutta la bellezza, perché nessuno
potrà mai affermare che una cosa esaurisce in sé tutta la bel-
lezza. Allora la bellezza evidentemente è qualche cosa che tra-
scende la singola cosa bella; fa essere bella quella cosa in
quanto essa partecipa della bellezza, ma la bellezza nella sua
pienezza, con la ‘B’ maiuscola, il ‘bello in sé’, come dice Plato-
ne, starà altrove. «E così dico, naturalmente, di tutte le altre
cose. Consenti tu che la causa sia questa? — Consento, rispo-
se. — E allora, riprese Socrate, io non capisco più e non posso
più riconoscere le altre cause, quelle dei dotti. E se uno mi dice
perché una qualunque cosa è bella, sostenendo che è bella o
perché ha un colore brillante o perché ha una sua figura o co-
munque per altre proprietà dello stesso genere, ebbene, io tut-
te codeste altre cause le lascio perdere, perché in esse tutte mi
confondo; e mi tengo fermo a questa mia, sia pur essa semplice
e grossolana e forse anche sciocca: e cioè che niente altro fa sì
che quella tal cosa sia bella se non la presenza o la comunanza
di codesto bello in sé, o altro modo qualunque onde codesto
bello le aderisce. Perché io non insisto affatto su questo modo,
e dico solo che tutte le cose belle sono belle per il bello [cioè

96
perché partecipano dell’idea di bellezza]. E questo pare a me
che sia l’argomento più sicuro per rispondere a me stesso e ad
altri; e, tenendomi stretto a questo, penso che non potrò mai
cadere, e che per me e per ogni altro la cosa più sicura da ri-
spondere sia questa, che le cose belle sono belle per il bello. O
non pare anche a te così?» Le cose belle sono dunque tali per
la presenza in esse dell’idea di bellezza. Le idee si manifestano
come qualche cosa che sta al di là del mondo sensibile, come
qualche cosa di oggettivo, di universale, si manifestano insom-
ma con le caratteristiche dell’essere di Parmenide. Si può dire
che Platone ha moltiplicato l’essere di Parmenide in tanti esse-
ri che sono appunto le idee delle cose, modelli delle cose, ca-
ratterizzati, come l’essere di Parmenide, dall’eternità e dall’im-
mobilità. Opposto a questo mondo ideale, c’è il mondo sensibi-
le. Il mondo sensibile invece equivale al mondo eracliteo del di-
venire, del molteplice; ma il molteplice ha per Platone in sé
una impronta del modello ideale.
Questo è un problema. Platone non lo nasconde, tanto è vero
che lo affronta ricorrendo al mito del Demiurgo; il Demiurgo
sarebbe, nel grande dialogo Timeo, una divinità che plasma le
cose sensibili secondo il modello delle idee, come uno scultore
che guarda un modello e dà forma all’argilla o al legno. Ma le
cose sensibili sono fatte di materia, e la materia oppone una
certa resistenza, per cui il Demiurgo, pur essendo un artefice
divino, non riesce mai a fare le cose perfette, pienamente con-
formi alle idee che contempla. Il mondo sensibile pertanto è un
mondo di imperfezione, che però partecipa della perfezione. È
significativo che questo problema venga affrontato con un mi-
to, perché il rapporto tra mondo delle idee e mondo sensibile è
veramente problematico. Va rilevato che il Demiurgo non equi-
vale al Dio cristiano: spiega il mondo sensibile, ma non spiega
la realtà intelligibile, la quale si spiega da se stessa, e così pure
non crea la materia, che esiste da sempre, ma le dà soltanto
forma. L’idea, oltre a essere qualche cosa di oggettivo, di onto-
logicamente consistente — cioè proprio una struttura della
realtà, — è però nello stesso tempo una struttura della mente,
perché l’uomo è in possesso delle idee, se le ricorda — come
vedremo tra un attimo — e le adopera. Quindi l’idea è una
struttura ontologica, è una struttura della realtà, ed insieme è
una struttura gnoseologica, cioè una struttura della mente

97
umana. In altri termini Platone non sta facendo altro che ripe-
tere a un livello più alto il discorso dei presocratici e soprattut-
to di Eraclito, di Pitagora e anche di Parmenide, e cioè che c’è
una stretta congiunzione, uno stretto parallelismo tra la realtà
e la mente dell’uomo; è il grande concetto greco del lògos,
dell’affinità, dell’omogeneità tra mondo e mente umana, che
permette all’uomo di essere il padrone del mondo e di far na-
scere la scienza e la tecnica.
Come si conoscono le idee? Per Platone le idee si conoscono in
quanto si posseggono; sono innate. Leggiamo qualche passo
dal dialogo Menone. Socrate vi sostiene che conoscere è ricor-
dare: anche in questo Platone è in stretta continuità con il suo
maestro. Socrate afferma “conosci te stesso”, cioè sostiene che
la verità è all’interno dell’uomo; “conoscere è ricordare”, la fa-
mosa affermazione di Platone, significa la stessa cosa: ricorda-
re vuol dire trovare dentro di sé, quindi si tratta di uno svilup-
po della dottrina socratica del “conosci te stesso”. Menone di-
ce, rivolto a Socrate: «In che senso dici che non apprendiamo e
che quello che denominiamo apprendere è reminiscenza? Puoi
insegnarmi che sia davvero così?». Socrate: «L’ho detto, Meno-
ne, poco fa, che sei capace di tutto! Certo, mi chiedi ora se io
possa insegnare, proprio a me, che sostengo non esistere inse-
gnamento, ma reminiscenza, per vedermi cadere subito in con-
traddizione con me stesso». Menone è sottile: se la verità non
fosse interna all’uomo, ma esterna, la verità si potrebbe inse-
gnare, si potrebbe inculcare in un altro. Socrate afferma invece
che la verità non si può insegnare, ma si deve ricavare da se
stessi, e allora dice: «Mi stai tendendo un tranello: pretendi
che io ti insegni qualche cosa». Menone: «No, per Zeus, Socra-
te, non avevo affatto questa intenzione, ma l’ho fatto per abitu-
dine. E allora, se puoi, comunque sia, dimostrami che davvero
è così, dimostramelo!». Socrate: «Non è certo facile, ma per
amor tuo ugualmente mi ci impegno. Chiama uno di questi mol-
ti servi del tuo séguito, quello che vuoi, sì che proprio in lui
possa darti la dimostrazione che desideri». A questo punto Me-
none introduce uno schiavo, un servo del tutto ignorante, e So-
crate riesce a fargli dimostrare teoremi di geometria semplice-
mente ragionando. Con questo che cosa vuol sostenere? Che
c’è una capacità innata di elaborare conoscenze.
Naturalmente quando Platone sostiene che conoscere è

98
ricordare non si riferisce alle verità di fatto: che Socrate sia
vissuto in Atene o che Cesare abbia varcato il Rubicone, questi
fatti empirici, contingenti, si possono apprendere soltanto o da
testimonianze o dall’esperienza diretta. Che un bicchiere cade
è un fatto che posso sapere soltanto se lo vedo, soltanto, per
così dire, se mi rivolgo all’esterno, se acquisisco un’esperienza.
Ma il sapere non è questo. Il sapere è la capacità di scorgere le
strutture della realtà. Non la cosa bella, ma la bellezza che ren-
de belle le cose belle, non l’azione giusta, ma la giustizia in sé;
il vero sapere è conoscenza intellettuale, non conoscenza empi-
rica. Nel linguaggio scolastico di oggi si direbbe che la cono-
scenza empirica è nozionistica: che Socrate ha bevuto la cicuta
in un certo anno, che Cesare ha varcato il Rubicone in un certo
altro anno, che il bicchiere è caduto in questo momento sono
fatti contingenti, sono fatti appurati per via empirica, non è
questo il sapere. Il sapere è la capacità di orientarsi nel mondo
in maniera razionale. E il raffinamento di questa capacità, l’ac-
crescimento del sapere, avviene non per attingimento
dall’esterno, ma per raffinamento interiore. Platone non vuole
dire altro che questo: lo spirito umano, l’intelletto umano, con-
tiene in se stesso tutto l’essenziale. In questo senso l’uomo non
dipende da niente fuori di se stesso per conoscere, l’uomo è as-
solutamente libero, perché dipende da uno sforzo intellettuale
proprio, non attinge dall’esterno. Siamo agli antipodi rispetto
ai sofisti. Hegel a questo punto annota: «I sofisti invece preten-
dono di dare la vista ai ciechi». Pretendere di dare le conoscen-
ze dall’esterno è per Platone come dare la vista ai ciechi. La vi-
sta la si ha, e avendo la vista si possono conoscere, vedendole,
le cose; avendo la vista dell’intelletto si possono conoscere le
idee, e le si possono riconoscere nelle cose sensibili. La vista
dell’intelletto non è possibile infonderla dall’esterno. Se non si
può ricavare dall’esterno, si può ricavare dall’interno. Se le co-
se stanno in questi termini, come si spiega il fatto che uno co-
nosce di più e un altro conosce di meno? Che uno arriva alla
contemplazione filosofica delle idee e un altro invece rimane
nel brago, nella melma — come dice seccamente Platone, forse
riferendosi a dottrine orfiche? Questo Platone lo spiega, di nuo-
vo, con un mito, con il famoso mito dell’Iperuranio.
Il mito dell’Iperuranio non deve essere visto come una fonda-
zione della metempsicosi. Platone sarebbe sinceramente ben

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poco significativo se avesse semplicemente sostenuto la trasmi-
grazione delle anime — che era già stata affermata da Pitago-
ra, e dall’orfismo. Vediamo che cosa può significare il mito
dell’Iperuranio — cioè il mito della biga alata. È noto il raccon-
to: prima di incarnarsi in un corpo, l’anima correrebbe in un
cielo (uranòs) che sta oltre il cielo (ypèr). In questo cielo Iperu-
ranio si trovano i modelli eterni delle cose, le idee. L’anima
percorrendo l’Iperuranio contempla le idee. L’anima si presen-
ta con l’aspetto di una biga alata: un carro guidato in piedi da
un auriga, che simboleggia l’anima razionale dell’uomo. A trai-
nare la biga sono un cavallo bianco e un cavallo nero. Il cavallo
nero, che è focoso , tende a portare fuori strada, a dare scosso-
ni , a far sobbalzare la biga, e simboleggia l’anima concupisci-
bile, vale a dire la sfera degli istinti. L’altro cavallo, quello
bianco, è un cavallo generoso, di buona razza, che però tende a
correre un po’ troppo e dev’essere tenuto anch’esso a freno
dall’auriga: corrisponde all’anima irascibile, cioè alle passioni.
Che cosa vuole dire Platone con questo mito? Continuiamo pri-
ma di tutto con il racconto. L’anima compie il percorso nell’Ipe-
ruranio sotto forma di biga alata; se l’auriga non riesce a tene-
re bene a freno, a guidare bene con le briglie e con i morsi i
due cavalli, tenderà ad andare fuori strada, ad avere tanti sob-
balzi, a correre troppo: di conseguenza non potrà contemplare
le idee. Arrivata alla fine di questo percorso l’anima precipita
giù e si incarna in un corpo. In questo racconto fantastico si ce-
la un significato profondo, che è questo: si possono contempla-
re le idee solo se si adopera la ragione, perché le idee sono
l’universale; e la ragione è l’organo che appunto può afferrare
l’universalità. Ma se la ragione è disturbata, è distratta dalle
passioni o dagli istinti, se le passioni e gli istinti (per loro natu-
ra individuali) non sono tenuti a freno, guidati dalla ragione,
l’auriga non potrà contemplare bene le idee. Non avendo con-
templato bene le idee, quando si sarà incarnato in un corpo
non le potrà ricordare con chiarezza. Che cosa significa che
non le potrà ricordare bene? Si troverà di fronte a fatti indivi-
duali, a episodi, a dover compiere scelte, insomma vivrà la sua
esperienza di uomo, ma non sarà in grado di far risalire quello
che i sensi gli dicono alla sostanza ideale, si fermerà al partico-
lare, al piccolo, al frammento, rimarrà chiuso in un orizzonte
molto ristretto. Se invece, prima della nascita — ma questo

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prima della nascita vuol dire, in effetti, durante la vita — l’auri-
ga è riuscito a guidare bene le passioni e gli istinti, e ha con-
templato bene le idee, le saprà riconoscere bene nelle cose, sa-
rà in grado di elevarsi dalla conoscenza sensibile alla cono-
scenza intellettuale, di passare dal particolare all’universale;
sarà capace di avere uno sguardo d’assieme e potrà vivere una
vita ispirata all’intelletto, ispirata alla conoscenza, alle idee, e
quindi rivolta all’universale.
Le idee sono i modelli delle cose, ma sono soprattutto il bene.
L’idea, cioè, è una struttura di carattere ontologico e gnoseolo-
gico — come abbiamo detto — ma è anche un valore in sé per-
ché in fondo ogni idea è la perfezione, il bene, di quel determi-
nato settore di realtà. ‘L’alberità’, cioè, è l’albero in sé, è il be-
ne dell’albero, è la perfezione dell’albero; la giustizia con la ‘G’
maiuscola non ha niente della parziale imperfezione delle azio-
ni giuste, o dei giudizi più o meno giusti che danno i giudici nei
tribunali, è proprio la perfezione della giustizia. Le idee quindi
sono non soltanto strutture ontologiche e gnoseologiche, ma
anchestrutture morali. Allora sostenere che «l’uomo che tiene
a bada le passioni e gli istinti può conoscere bene le idee» vuol
dire che può non soltanto conoscere bene, ma anche agire be-
ne: tutte e due le cose insieme. Per Platone — come già per So-
crate e per Pitagora — vale l’intellettualismo etico: il bene con-
siste nel sapere. Se si contemplano le idee ci si può comportare
bene, cioè orientando la propria esistenza verso l’universale,
ispirato dall’idea stessa. Il bene consiste nella contemplazione
delle idee, premessa per il ben agire: si inizia ad intravedere
perché sono i filosofi che devono reggere lo Stato. Il mito
dell’Iperuranio fonda dunque non la metempsicosi, bensí la
spiegazione del perché l’uno conosce di più, e l’altro conosce di
meno, e illustra l’unione del conoscere con il bene. Se una per-
sona vive una vita orientata all’interesse personale,
all’egoismo, all’istinto, al soddisfacimento esclusivo dei propri
bisogni e desideri, non conoscerà mai il bene. Potrà avere co-
noscenze di un altro genere (e che non sono vera conoscenza):
conoscerà fatti empirici. Avrà il possesso di un sapere pratico,
nozionistico, ma non avrà il sapere nel senso forte del termine,
che è sempre, per Platone, un sapere anche del bene. Con Ari-
stotele nascono invece le discipline particolari con la loro auto-
nomia. Per Platone il sapere culmina nel sapere filosofico, che

101
è il sapere del bene. Esso non può essere ristretto a una frazio-
ne dello scibile, sicché, per esempio, la matematica si occupe-
rebbe di una cosa, la biologia di un’altra, la fisica di un’altra.
Tutte queste discipline, in fondo, ciascuna nel proprio settore,
devono risalire all’intelligibile, cioè devono risalire all’idea. Ma
se risalgono all’idea, risalgono al bene. Quindi tutto il sapere è
unificato e collegato alla dimensione morale, mentre, invece,
oggi viviamo in una società in cui la scienza sta da una parte e
la morale dall’altra, e le singole scienze pensano di occuparsi
di realtà separate. Per Platone, il sapere è uno ed è strettamen-
te collegato al bene, e quindi sono unite anche la vita teoretica,
la conoscenza e la vita pratica, la morale.
Alcuni conoscono di meno e altri conoscono di più perché ci so-
no alcuni che conducono una vita di tipo più materialistico,
egoistico, istintivo, passionale, ottuso, ecc. e altri che invece
riescono a contemplare l’idea e a elevarsi alla conoscenza
dell’universale. Ma, una volta conosciuto l’universale, quale sa-
rà il nostro rapporto con esso? Platone è stato a torto accusato
di essere un utopista, un sognatore; anche nel linguaggio cor-
rente si dice ‘platonico’ per indicare un atteggiamento che non
ha efficacia nella realtà. Il rapporto dell’uomo con l’idea è illu-
strato Platone con un altro mito: il mito di Eros, il mito che co-
glie l’essenza della filosofia, cioè l’essenza della dimensione
umana. Eros — dice Platone nel Simposio, questo grandissimo
dialogo considerato una delle più belle opere della letteratura
mondiale — è il figlio di Penìa e Pòros, cioè il figlio della pover-
tà e della ricchezza (in italiano i due nomi suonano entrambi
femminili, ma in greco uno è femminile, l’altro è maschi-
le; pòros significa ricco di risorse, ricco di espedienti). Eros è il
dio che mette in moto gli uomini, che produce e anima la vita.
Che cosa significa il fatto che questo dio nasce da povertà e
ricchezza ed è l’ispiratore del comportamento umano? Il com-
portamento dell’uomo — se consideriamo l’Uomo con la ‘U’ ma-
iuscola, cioè l’uomo che vuole essere consapevole di sé — si
colloca in una situazione intermedia tra il non avere e l’avere,
cioè tra il non avere conoscenza e l’avere conoscenza, tra l’es-
sere ignorante e l’essere sapiente. La condizione dell’uomo è
caratterizzata dal non essere né un animale, né un dio onnipo-
tente; è una condizione intermedia. Da una parte c’è il pieno
possesso dell’idea, il partecipare del mondo ideale e dall’altra

102
c’è l’abbrutimento totale del mondo animale. L’uomo sta a me-
tà tra queste due realtà, sa di non sapere, come ha detto Socra-
te: il mito di Eros costituisce una ripresa del tema socratico del
sapere di non sapere. L’uomo è ignorante, ma qualche cosa la
sa, non è completamente ignorante, allora il suo compito, la
sua specificità, è quella di tendere verso la verità, verso l’idea-
le: l’idea funziona come un elemento di tensione per l’uomo.
L’uomo non possiede l’idea pienamente, non vive nel mondo
dell’Iperuranio, bensí nel mondo sensibile. Ma l’uomo sa — e lo
sa sempre di più quanto più riflette, cioè quanto più è filosofo
— che il mondo sensibile non è né il mondo della materia bruta
pura e semplice, il mondo in cui soddisfare semplicemente gli
istinti, il mondo ottuso dell’animale, né il mondo della perfezio-
ne divina, delle essenze ideali: sa che è un mondo intermedio,
in cui all’interno del sensibile si scorge l’intelligibile. Quindi la
caratteristica dell’uomo è diessere in cammino, cioè di essere
animato da una tensione continua verso l’intelligibile, verso
l’ideale, verso la perfezione, verso l’universalità. Superare tut-
te le inerzie che lo inchiodano al proprio egoismo, al proprio
particolare e tendere verso l’universale, sia nella conoscenza,
sia nella vita pratica: questo è il compito dell’uomo. L’ideali-
smo platonico pertanto non implica il sogno; sono sbagliati sia
il sogno, l’utopia, sia l’adagiarsi all’accettazione del mondo co-
me è e il regolarsi automaticamente in base al come viene, in
base a quello che fanno gli altri, a quello che dettano le mode,
ecc. ecc. Non bisogna né pensare che il mondo sia tutto appiat-
tito nell’immutabilità, né pretendere una perfezione che poi,
siccome non riscontriamo in realtà, rinviamo su un piano di so-
gno, su un piano onirico. Viviamo in un mondo che è interme-
dio; la tensione nostra dev’essere quella ad avvicinare la realtà
all’ideale. Lo sforzo di avvicinare la realtà all’ideale è l’essenza
dellaRepubblica di Platone.
La Repubblica è un’opera di grande ricchezza di contenuti, ma
ruota intorno a un concetto fondamentale: Platone sostiene che
la repubblica deve essere animata dall’universale. L’universale,
nella comunità umana, si risolve in una cosa molto concreta: la
giustizia. Se la comunità deve essere giusta, ogni parte, ogni
singolo individuo devono avere una loro proporzione, devono
essere collocati bene. Tutto ciò che favorisce la sproporzione
deve essere eliminato. Platone dice per esempio: «Se la virtù e

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il danaro si mettono sui piatti della bilancia l’una fa saltare l’al-
tro»; cioè virtù e danaro stanno in opposizione tra di loro. Non
si possono mettere tutti e due sulla bilancia perché altrimenti
l’una fa saltare l’altro: se c’è la virtù non c’è il danaro, se c’è il
danaro non c’è la virtù. Sostiene che la ricchezza non è qual-
che cosa che riguardi semplicemente il singolo individuo e non
la polis, perché la ricchezza si traduce in potere, si proietta su
un piano che va oltre se stessi e la propria famiglia e incide
nella vita della comunità. La ricchezza deve essere eliminata
perché sbilancia la vita della comunità e spinge l’individuo a
una vita ottusa e rinchiusa in se stesso, rivolta non all’universa-
le, ma al particolare. Per questo Platone respinge nel-
la Repubblica la proprietà privata, almeno per coloro che sono
destinati a reggere lo Stato. Sapete che Platone nello Stato ve-
de un uomo in grande: la repubblica viene paragonata a un in-
dividuo di grandi proporzioni. Anche questo paragone ha un
profondo significato: lo Stato precede gli individui. Mentre ab-
biamo visto che nei sofisti viene prima l’individuo e poi lo Sta-
to, già Socrate, nel suo dialogo immaginario con le leggi
nel Critone, si sottomette alle leggi, accetta di bere la cicuta —
pur essendo innocente — perché riconosce una preesistenza
delle leggi rispetto a lui, una sovranità delle leggi che non può
essere contestata da lui come individuo, che anzi è nato perché
esisteva lo Stato, cui deve tutto. Per Socrate e per Platone —
contro i sofisti — lo Stato precede l’individuo. Lo Stato è come
un individuo in grande: come l’individuo ha l’anima razionale,
l’anima irascibile, l’anima concupiscibile, così lo Stato è com-
posto da tre classi: i sapienti — cioè i filosofi, che dovranno es-
sere i reggitori dello Stato; poi coloro che seguono la passione
positiva del coraggio — i guerrieri, che saranno con i filosofi i
custodi dello Stato; infine coloro che vivono in base all’anima
concupiscibile (che può essere però, anch’essa, moderata dalla
virtù della temperanza), gli artigiani, i produttori di merci ma-
teriali. Ora, Platone sostiene che se gli artigiani hanno proprie-
tà privata, non è un grande danno, ma esclude la proprietà pri-
vata per i partecipanti alle classi dirigenti della società. Per
questo egli è stato visto come un anticipatore del comunismo.
In qualche modo lo è pure; secondo lui, cioè, la proprietà priva-
ta, e specialmente la proprietà privata che trasborda nella sfe-
ra pubblica, va evitata perché porta a uno squilibrio, alla

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rottura di quello che deve essere il principio regolativo della vi-
ta dello Stato: la giustizia. Diogene Laerzio nelle Vite dei filoso-
fi racconta che gli abitanti di Cirene e poi quelli dell’Arcadia
avevano offerto a Platone di diventare loro legislatore, di recar-
si da loro per poter stendere una costituzione giusta. Platone
avrebbe inviato lettere sia a Cirene, sia in Arcadia, in cui
avrebbe detto pressappoco: «Vengo a compiere questo lavoro
di codificazione se voi, però, accettate che nella costituzione
sia compresa l’eliminazione della proprietà privata. Altrimenti
non mi fate perdere tempo, perché questo è il primo requisito
per uno Stato giusto». Sia la regione dell’Arcadia, sia Cirene
respinsero questa ipotesi, e Platone non si cimentò con lo scri-
vere una costituzione precisa, ma delineò una sua Repubblica
ideale. La Repubblica ideale non è da intendere come un’inven-
zione della mente umana. Per Platone l’idea della Repubblica è
come l’idea di Bellezza e l’idea di Giustizia: è chiaro che non
avrò mai la Repubblica ideale su questa terra, ma, come dovrò
tendere a essere giusto nella mia esistenza privata, così, se sa-
rò impegnato nella vita dello Stato, tenderò alla Repubblica
ideale. È vero che non esiste una Repubblica ideale; ma non
nel senso che è un’utopia, un sogno. Non esiste perché è l’ob-
biettivo a cui deve tendere la repubblica imperfetta in cui ci ri-
troviamo a vivere. Quindi operare per la repubblica, per lo Sta-
to significherà cercare di avvicinarlo all’ideale platonico, e av-
vicinarlo all’ideale platonico significa avvicinarlo all’universale.
Chi sarà in grado di fare questo? Platone risponde: soltanto il
filosofo. Il filosofo chi è? È colui che scorge l’universale, ma so-
prattutto scorge non semplicemente il mondo delle idee, ma
l’idea delle idee, cioè il Bene.
A questo punto possiamo leggere il passo 517 a-c del-
la Repubblica: «Tutta questa immagine, caro Glaucone, conti-
nuai, si deve applicarla al nostro discorso di prima: dobbiamo
paragonare il mondo conoscibile con la vista alla dimora della
prigione, e la luce del fuoco che vi è dentro al potere del so-
le [si riferisce al mito della caverna]. Se poi tu consideri che
l’ascesa e la contemplazione del mondo superiore equivalgono
all’elevazione dell’anima al mondo intelligibile, non concluderai
molto diversamente da me, dal momento che vuoi conoscere il
mio parere. Il dio sa se corrisponde a vero. Ora, ecco il mio pa-
rere: nel mondo conoscibile, punto estremo e difficile a vedersi

105
è l’idea del Bene; ma quando la si è veduta, la ragione ci porta
a ritenerla per chiunque la causa di tutto ciò che è retto e bel-
lo… ». Dalla conoscenza sensibile si passa a quella intellettua-
le, che culmina nell’idea del Bene, che è l’idea che unifica tutte
le idee, perché ogni idea è il bene nella sua sfera. Per questo
Platone dice che l’idea del Bene è come il sole del mondo intel-
ligibile: è l’idea delle idee, è quella per cui tutte le idee sono la
perfezione nel loro campo. Se le singole idee sono le ma-
trici, le cause delle cose, l’idea del Bene è l’idea suprema che
presiede a tutta la realtà. Poi continua: «… nel mondo visi-
bile essa genera la luce e il sovrano della luce, nell’intelligibile
largisce essa stessa, da sovrana, verità e intelletto». Quindi
l’idea del Bene da una parte è una struttura della realtà, una
struttura ontologica; però nell’intelligibile «largisce verità e in-
telletto», cioè è anche una struttura decisiva della mente
dell’uomo. È una struttura oggettiva del mondo e una struttu-
ra soggettiva della mente. Poi Platone aggiunge: «E chi vuole
condursi saggiamente in privato o in pubblico deve vederla».
L’idea del Bene è dunque anche una guida per l’azione. Platone
qui sta contestando punto per punto lo scritto di Gorgia Sul
non essere. Gorgia infatti aveva sostenuto: «L’essere non esi-
ste, se pure esiste non è conoscibile, se pure è conosciuto non
è comunicabile». C’era uno scetticismo sul piano ontologico:
l’essere non è; c’era un agnosticismo e uno scetticismo sul pia-
no della conoscenza: seppure c’è non si può conoscere; inoltre,
pure se fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile, cioè
ognuno vive di per sé la sua vita perché non si può comunicare
con gli altri, non c’è una vera intersoggettività. Intersoggettivi-
tà significa comunicazione, ma significa anche comunità; per il
sofista Gorgia non c’è vera vita comunitaria, ognuno vive in
una sfera separata. In Gorgia, nello scritto Sul non essere, c’è
scetticismo sulle strutture del mondo, sulle strutture conosciti-
ve e sull’agire dell’uomo; qui invece Platone ribalta completa-
mente la posizione e sostiene che: «C’è un fondamento preciso
sia nella struttura della realtà, sia nella conoscenza, sia nella
vita pratica». Questo orientamento comune a tutta la realtà è
l’idea del Bene. Ora, come si farà a conoscere l’idea del Bene?
Come si arriva a questa idea tra le idee? Attraverso la filosofia
che, nella speculazione matura di Platone, si identifica con la
dialettica.

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“Dialettica” è un termine che ha avuto una grande fortuna nel-
la storia della filosofia. In origine significa semplicemente dia-
logo, dialogare, scambiarsi idee; non è un caso che Platone, fi-
losofo del dialogo, sia il filosofo della dialettica. Leggiamo ora
la Repubblica, 533 c-d e 534 b - 535 a. Va prima rilevato che
nellaRepubblica, nel mito della caverna, si è delineato questo
discorso: gli uomini vivono in una caverna, cioè nell’ottusità,
nella sensibilità che dà loro false impressioni della realtà; poi si
possono elevare: uscendo fuori della caverna vedono i riflessi
delle cose — il che simboleggia la conoscenza matematica; infi-
ne sollevano lo sguardo, si abituano alla luce, che in un primo
momento li abbaglia, e vedono gli oggetti, infine riescono a fis-
sare il sole, che rappresenta l’idea del Bene, sole del mondo in-
telligibile. Platone vuol dire: non ci si può fermare alla cono-
scenza sensibile, anche se questa ha la sua dignità, e non ci si
può fermare neppure alla conoscenza matematica, perché que-
sta parte da ipotesi, cioè presenta una debolezza: è molto rigo-
rosa, ma si fonda su postulati non dimostrati. Dobbiamo arriva-
re a una conoscenza superiore alla matematica, a una cono-
scenza anipotetica, cioè non ipotetica, e assolutamente sicura:
e questa è la conoscenza che dà la dialettica. Non è facile dire
in che cosa consiste la dialettica; ricorriamo di nuovo alle paro-
le di Platone: «Ebbene, dissi io, il metodo dialettico è il solo a
procedere per questa via, eliminando le ipotesi [quindi è supe-
riore al metodo matematico che si fonda su ipotesi], verso il
principio stesso, per confermare le proprie conclusioni; e pian
piano trae e guida in alto l’occhio dell’anima, realmente sepol-
to in una specie di barbarica melma, valendosi dell’assistenza e
della collaborazione di quelle arti che abbiamo considerate, ar-
ti che spesso abbiamo chiamato scienze, conforme all’uso, ma
cui dobbiamo dare un nome diverso, più fulgido di ‘opinione’,
più oscuro di ‘scienza’». Cosa vuol dire? Le altre scienze, le al-
tre forme di conoscenza ci aiutano, ma non sono un fatto deci-
sivo; le dobbiamo considerare qualche cosa di superiore all’opi-
nione — perché l’opinione è pura e semplice soggettività — ma
esse non giustificano i loro presupposti. Le scienze particolari
fanno ricorso a categorie, strumenti concettuali, presupposti,
metodi, che non sono dimostrati nell’ambito di quella scienza
stessa, ma in ambito filosofico.
La conoscenza in senso forte deve eliminare le ipotesi, deve

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essere fondata su se stessa, e la conoscenza fondata su se stes-
sa è solo la filosofia intesa come dialettica. Come farà la filoso-
fia a eliminare le ipotesi? Confrontandole in base alla ragione
tutte una ad una ed eliminandole una dopo l’altra. Come si farà
a procedere a questa eliminazione? Ciò avviene in un dialogo
(è importante notare che dialogo significa circolazione, scam-
bio, di lògos, cioè di ragione) che può essere o un dialogo reale
tra persone o un dialogo ideale con ipotesi diverse; le si mette
a confronto fino a che ne rimane una sola, per eliminazione
delle altre. Perciò il dialogo è così importante per Platone:
«Ora, non chiami tu dialettico chi si rende ragione dell’essenza
di ciascuna cosa?». Essere dialettico, essere filosofo vorrà dire
cogliere l’essenza, cioè ciò per cui una cosa è quello che è e si
distingue dalle altre, capire l’identità di ogni cosa; mentre inve-
ce chi vive nella melma, nel fango, cioè chi vive nell’opinione,
chi vive nel sensibile, confonde tutto, non riesce a distinguere.
Il filosofo, il dialettico sarà colui che riesce a distinguere le co-
se, a rendersi ragione dell’essenza di ciascuna di esse, della
collocazione di ciascuna di esse nel contesto complessivo della
realtà: «E chi non ne è capace, non negherai che, nella misura
in cui non riesce a darne ragione a sé e ad altri, in tale misura
ne abbia intelligenza? Per il bene è lo stesso. Considera il caso
di chi non sa definire realmente l’idea del Bene, isolandola da
tutto il resto [infatti definire l’idea del Bene significherà dire
che cosa è il bene e che cosa lo distingue dal giusto, dal bello,
dall’ingiusto, dal brutto, ecc. ecc., cioè coglierne l’identità pre-
cisa]; di chi, come in battaglia [qui la battaglia è il dialogo], su-
perando ogni prova e sforzandosi di comprovare il suo punto di
vista non secondo l’opinione, ma secondo l’essenza, non riesce
tuttavia a superare tutti questi ostacoli con la sua ragione infal-
libile:… ». Teniamo presente che per Platone la ragione è infal-
libile, cioè la ragione adoperata bene non può sbagliare. C’è un
grandissimo orgoglio della potenza della conoscenza umana:
l’uomo può entrare in contatto con le idee, con la realtà nelle
sue strutture più profonde; però deve esercitarsi a eliminare
tutte le ipotesi false, a vincere la battaglia contro le ipotesi non
fondate. «… non dirai che un simile individuo non conosce il
bene in sé, né alcun altro bene, ma che, se per caso ne coglie
un’immagine, la coglie con l’opinione, ma non con la scienza?».
Mi posso trovare a compiere un’azione buona senza saperlo,

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senza avere previsto che quello sarebbe stato bene e invece
un’altra cosa sarebbe stata male, ma invece è importante avere
una scienza del bene e non arrivarci per combinazione. «E che
passa la sua vita presente in sogno e torpore e, prima ancora di
risvegliarsi in questo nostro mondo, giunge nell’Ade per dor-
mirvi un sonno completo?». Forse qui Platone aveva in mente i
dormienti di Eraclito: chi agisce in base all’opinione, chi si affi-
da a quello che non è fondato, chi non riesce a operare un’ana-
lisi critica delle situazioni, vive come in un sogno; come diceva
con piglio critico Eraclito, chi usa il lògos vive da sveglio, gli al-
tri, che non usano la ragione, e vivono in base all’opinione, vi-
vono dormendo. Anzi Platone è ancora più sarcastico e dice: si
abituano a vivere dormendo fino a che poi li raggiunge il sonno
eterno, vegetano, si potrebbe dire, fino a che non cadono nel
sonno eterno dell’Ade. «Si, per Zeus!, fece egli, affermerò tutto
questo, e con energia. —Allora quei tuoi ragazzi che ora così, a
parole, allevi ed educhi, se giorno verrà che li alleverai effetti-
vamente, non potrai lasciare, secondo me, che governino lo
Stato e siano arbitri delle decisioni supreme, se sono estranei
alla ragione come linee irrazionali [quindi devono essere com-
penetrati della ragione per governare lo Stato] — No, certa-
mente, rispose. — Imporrai loro per legge di coltivare special-
mente quell’educazione che li renderà capaci di interrogare e
di rispondere nel modo più scientifico? — Ne farò una legge, ri-
spose, d’accordo con te. — Non credi, ripresi, che la dialettica,
elevata com’è, possa essere per noi una specie di coronamento
dei nostri studi? e che non si possa giustamente porre nes-
sun’altra disciplina più in alto di essa? e che ormai sia termina-
ta la trattazione delle discipline? — Io si, rispose». La suprema
disciplina è la scienza del bene, che implica il saper identifica-
re il bene in ogni singola situazione. Chi possiede questa scien-
za del bene è il filosofo, per il fatto che si esercita nell’uso della
ragione e cerca di capire in ogni situazione qual è il bene.
Può sembrare a una considerazione superficiale che il filosofo
sia una specie di tiranno, oppure che ci sia in Platone una con-
cezione aristocratica, ma non è così, perché il filosofo è filosofo
fino a quando usa la ragione; nel momento in cui non usa più la
ragione non è più filosofo e non è certo più adatto a governare.
Qui non viene ipotizzata un’aristocrazia del sangue blu che si
tramanda il potere per un accidente, appunto l’appartenenza a

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una stirpe: non ci si trova a governare perché si ha una carat-
teristica peculiare — invece di avere il sangue blu si ha la ra-
gione. No. Il problema è questo: che se la ragione la si esercita,
si è filosofi, e allora secondo Platone si individua il bene e si
deve governare lo Stato; se si è presi dall’individualismo,
dall’egoismo e non si esercita la ragione, si deve essere tenuti
lontani dal potere. Non si tratta quindi di una teoria di caratte-
re aristocratico, bensí di una teoria fondata su questa concezio-
ne: si può fare il bene se si conosce il bene, e si conosce il be-
ne, che è l’idea suprema, se si conosce il mondo intelligibile
mediante l’uso della ragione, la facoltà che mette chi è virtuo-
so, disinteressato, in contatto con l’universale. Se si conosce il
bene si capisce qual è il senso del mondo: il bene è ciò che dà il
senso alle cose. Solo chi conosce il senso del mondo, — anzi
Platone usa un termine preciso: soltanto chi ha una ‘sinossi’,
vale a dire (da orào e syn) una visione complessiva delle cose
— può capire che cosa è il bene e quale è il bene in ogni deter-
minata circostanza, e quindi è a lui che tocca governare. Se go-
verna chi conosce il bene, i Socrate potranno sopravvivere nel-
la polis: non ci sarà più un’Atene che sopprime il maggiore
esponente della razionalità. A questo punto saranno i filosofi,
gli emuli di Socrate, a governare la città; a questo bisogna ten-
dere: che la ragione, l’universale, il disinteresse incarnati da
Socrate siano nel cuore della polis, cioè nel cuore dello Stato.

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