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Quale metafisica per il terzo millennio?

Enrico Berti
Necessit e futuro della metafisica
Le ragioni della metafisica, e la sua necessit per una filosofia cristiana, non hanno bisogno di
essere illustrate in questa occasione, perch sono note e sono state ricordate in maniera
particolarmente autorevole ed energica nell'enciclica Fides et ratio. Ci che sembra incerto il suo
futuro, perch gran parte della filosofia contemporanea ha affermato la necessit del "superamento
della metafisica". Mi riferisco sia al noto articolo di Carnap su "Il superamento della metafisica
attraverso l'analisi logica del linguaggio" (Erkenntnis, 1932), sia al saggio di Heidegger che porta lo
stesso titolo (1954). Questi due scritti stanno infatti alla base delle due correnti filosofiche oggi pi
diffuse nel pensiero contemporaneo, cio la filosofia analitica, dominante nell'area anglo-americana,
e la filosofia ermeneutica, dominante nell'Europa continentale. Alcuni significativi rappresentanti di
queste due correnti, per esempio l'americano W. V. O. Quine per la prima e l'italiano Gianni
Vattimo per la seconda, continuano a ritenere che la metafisica sia ormai superata e quindi non
abbia alcun futuro.
Ma il quadro complessivo del pensiero filosofico contemporaneo non tutto orientato in
questa direzione ed anzi si pu dire che la situazione, nei confronti della metafisica, ampiamente
mutata rispetto alla prima met del Novecento.
Per quanto riguarda anzitutto la filosofia analitica, il pregiudizio antimetafisico proprio del
neopositivismo, di cui l'articolo di Carnap fu la massima espressione, ormai caduto, ed caduto
insieme con lo stesso neopositivismo, dal momento in cui ci si resi conto che il principio di
verificabilit, in base al quale il neopositivismo pretendeva di confutare la metafisica, risulta esso
stesso inverificabile. La filosofia analitica pi recente ha recuperato un problematica tipicamente
metafisica, riproponendo problemi quali l'esistenza di oggetti diversi (particolari e universali, fisici
e mentali), le categorie degli enti, il criterio di identit, il significato della causa, il valore dello
spazio e soprattutto del tempo. Si cos parlato di "metafisica descrittiva" (Strawson), poi di
"ontologia formale" e infine addirittura di "metafisica analitica". Oggi esiste persino una forma di
"tomismo analitico" (Haldane).
Certo, nell'ambito della filosofia analitica la metafisica si configura essenzialmente come
ontologia, mentre la cosiddetta teologia razionale, cio il discorso metafisico che conduce ad un
principio trascendente, rimane ancora ai margini dell'attenzione. Ma questo fatto dovuto
probabilmente alla natura stessa della filosofia analitica, che, basandosi essenzialmente sull'analisi
del linguaggio, portata a cercare soprattutto spiegazioni di tipo logico-linguistico, e a trascurare
spiegazioni di tipo causale, quali sono quelle su cui si fonda la teologia razionale.
Nell'ambito dellermeneutica filosofica, che risale a Heidegger, ma stata sviluppata
soprattutto da Gadamer in Germania, Ricoeur in Francia e Pareyson in Italia, il pregiudizio

antimetafisico permane in misura maggiore che nella filosofia analitica, per l'influenza dello
storicismo, il quale nell'Europa continentale vanta una tradizione pi forte che nell'area angloamericana. Espressione di questo storicismo appunto il rifiuto della metafisica opposto da
Vattimo.
Tuttavia, anche se a parole si rifiuta la metafisica, di fatto la si pratica, perch la metafisica
criticata da Heidegger, la cosiddetta "onto-teologia", da lui accusata di confondere l'essere con
l'ente, di fatto non un'autentica metafisica, bens una degenerazione di essa, che si riduce ad
essere una fisica. Perci il "superamento" di questa metafisica, proclamato da Heidegger e dagli
ermeneutici, di fatto un superamento della fisica, cio precisamente quello che vuole essere la
metafisica nella sua espressione pi genuina.
Ci particolarmente evidente in un pensatore come Vattimo, il quale, affermando che
l'essere "evento", riconosce che esso "viene da" altro, cio il frutto di una iniziativa altrui. Noi
stessi, secondo il filosofo italiano, siamo frutto di una iniziativa iniziata da altri, cio non
proveniamo da noi stessi. In questa posizione, malgrado le intenzioni dellautore, implicita una
posizione di tipo metafisico, addirittura di tipo teologico, nel senso ovviamente della teologia
razionale.
Necessit di una metafisica essenzializzata
A mio avviso, la metafisica ha la possibilit di riprendersi e di svilupparsi, a condizione che si
rinnovi o, meglio, che si essenzializzi, cio che riduca il suo discorso ad un nucleo irrinunciabile ed
anche inconfutabile. Probabilmente essa potrebbe essere immediatamente accettata dal pensiero
contemporaneo se cambiasse di nome, perch spesso i pregiudizi si fondano su questioni di parole.
Ma sperabile che ci non sia necessario e si riesca a far comprendere ugualmente le ragioni della
metafisica.
La metafisica, per riprendersi, deve essenzializzarsi, nel senso che deve ridurre le sue pretese,
cio la pretesa di essere un sapere sistematico, capace di risolvere tutti i problemi, e la pretesa di
essere un sapere incontrovertibile, capace di risolvere i suoi problemi in maniera definitiva. La
metafisica nel terzo millennio non pu pi essere il sistema completo e articolato che stato
elaborato dall'agostinismo nel primo millennio dell'era cristiana e dalla Scolastica nel secondo
millennio, pur conservando il nucleo perennemente valido di entrambi questi orientamenti. E non
pu pi essere nessuna delle varie metafisiche cristiane elaborate in et moderna (Descartes,
Leibniz, Rosmini, Gioberti, il neotomismo, ecc.). N pu pretendere di rinnovarsi mescolandosi con
posizioni irrimediabilmente antimetafisiche quali il pensiero di Hegel, di Kierkegaard, di Marx,
dell'esistenzialismo.
Per sapere sistematico intendo il complesso di discipline filosofiche che costituivano la
metafisica tradizionale, quella - per intenderci - che stata sottoposta a critica da Kant. Essa
pretendeva di descrivere la struttura complessiva della realt, articolata nelle sue varie parti, in
maniera stabile, cio definitiva, prescindendo dalle conoscenze scientifiche che continuavano a

svilupparsi o integrandole in se stessa mano a mano che si sviluppavano. Mi limito ad alcuni rapidi
accenni a tale metafisica sistematica, per mostrare quale metafisica ritengo oggi improponibile, sia
nella forma gi criticata da Kant sia in forme analoghe che essa ha successivamente assunto. La
metafisica tradizionale, nella sistemazione raggiunta e perfezionata dal leibniziano Christian Wolff,
si divideva anzitutto in una metaphysica generalis ed una metaphysica specialis. La prima, nota
anche col nome moderno di "ontologia", era definita aristotelicamente come scienza dell'essere in
quanto essere, o dell'ente in quanto ente, ma in essa l'essere veniva concepito come un concetto
estremamente astratto, il pi astratto di tutti i concetti, risultato dell'operazione che nella tradizione
della scolastica era chiamata il "terzo grado di astrazione". La totale astrattezza, cio
indeterminatezza, di questo essere rese possibile a Hegel la sua identificazione col nulla.
Inoltre un simile concetto di essere era sostanzialmente univoco, quindi privo di qualsiasi
problematicit. Anche quando esso era concepito come analogo, il che accadeva soprattutto nella
tradizione tomistica, la sua analogia era il risultato di una comparazione tra l'essere delle creature e
l'essere di Dio, espressa mediante la cosiddetta analogia di proporzionalit, o mediante la cosiddetta
analogia di attribuzione, indebitamente estesa dal rapporto tra la sostanza e gli accidenti a quello tra
Dio e le creature. In entrambi i casi si poteva parlare di analogia solo in rapporto a Dio, dunque
l'analogia si rivelava non come un carattere originario della nozione di essere, ma come una teoria
elaborata dopo avere dimostrato l'esistenza di Dio.
Quest'ultima era oggetto della cosiddetta "teologia razionale", o "naturale", prima (o, per
Kant, terza) branca della metaphysica specialis, concepita come una disciplina in tutto e per tutto
distinta dall'ontologia, perch in effetti l'ontologia, in quanto scienza di un essere originariamente
univoco e dunque privo di qualsiasi problematicit, non richiedeva alcun ulteriore discorso.
L'insieme di ontologia e teologia dava luogo a quella che poi sarebbe stata chiamata "onto-teologia"
e che per Heidegger avrebbe riassunto l'intera metafisica tradizionale, con l'aggravante - nella
prospettiva heideggeriana - di avere ridotto l'intero essere ad un ente particolare, sia pure l'ente
sommo, cio Dio, confondendo in tal modo l'essere con l'ente e dunque dimenticando
sostanzialmente l'essere. Dio, a sua volta, era ritenuto oggetto di una dimostrazione, per lo pi a
priori, cio analitica (Anselmo, Descartes, Hegel), dotata dunque della stessa necessit che
caratterizza i teoremi della geometria. Anche quando tale dimostrazione procedeva a posteriori,
cio dall'esperienza, come nella tradizione tomistica, essa consisteva sovente nell'indebita
estensione al di fuori dell'esperienza di un concetto scientifico di causalit, desunto essenzialmente
dalle scienze della natura, in particolare dalla meccanica. Dio, infine, veniva per lo pi definito
come l'Esse ipsum subsistens, cio come l'ente la cui essenza costituita dall'essere stesso,
innescando in tal modo una serie di aporie, quali la presupposizione che vi sia un'essenza
dell'essere, e quindi che l'essere sia sostanzialmente univoco, e che gli altri enti siano tali soltanto
per partecipazione all'essere, differendo da lui pi per grado, cio per quantit, che per natura, cio
per qualit.
Accanto alla teologia razionale la metaphysica specialis comprendeva la "cosmologia
razionale", o metafisica della natura, la quale concepiva la natura, o il mondo fisico, come un

sistema immutabile, creato tutto in una volta e destinato a rimanere sempre identico a se stesso.
Essa considerava, nei suoi sviluppi pi moderni, la creazione del mondo come del tutto
incompatibile con la teoria biologica dell'evoluzione delle specie, e quindi considerava le specie
come entit fisse, immutabili, identificabili con forme, o essenze, eterne. In tale modo la teoria
aristotelica dell'ilomorfismo, che poteva essere estremamente feconda nel campo della biologia
evoluzionistica, come poi si effettivamente rivelata, era ridotta ad una forma di essenzialismo.
Sempre dalla filosofia aristotelica veniva ripresa l'idea di una finalit della natura, la quale era
tuttavia intesa in senso rozzamente antropomorfico e applicata indiscriminatamente a tutti i
fenomeni naturali, in una sorta di universale provvidenzialismo o di finalismo unidirezionale, come
se il fine ultimo di tutti gli esseri naturali fosse costituito da Dio.
Infine la metaphysica specialis si concludeva con una psicologia razionale, o metafisica
dell'uomo, tendente per lo pi a concepire l'uomo in maniera dualistica, cio come costituito di due
sostanze del tutto indipendenti l'una dall'altra, cio l'anima, o la mente, o la coscienza, da una parte,
ed il corpo, o il cervello in quanto organo dirigente dell'intero organismo vivente, dall'altra. Tale
dualismo si ritrova non solo nella tradizione prima platonica e poi cartesiana del "fantasma nella
macchina", notoriamente criticata da Gilbert Ryle, ma anche nel dualismo di un neurologo come
John Eccles, che contrapponeva l'"io" al "suo cervello", ed ancora presente in gran parte del
dibattito sul cosiddetto Mind-Body Problem. In tutte le sue articolazioni tale metafisica pretendeva
di procedere aprioristicamente, elaborando vere e proprie dimostrazioni necessarie, basate
unicamente sull'analisi dei concetti, e quindi del tutto definitive, inconfutabili, incontrovertibili.
Ebbene, credo che tutti possiamo concordare circa l'improponibilit, oggi, di una simile
metafisica, in gran parte logorata dalle difficolt da essa stessa incontrate al suo interno e per la
parte restante resa antiquata, e superflua, dalle conquiste delle varie scienze, della natura e
dell'uomo, che hanno eroso la maggior parte del suo terreno, dimostrando la falsit del fissismo,
dell'essenzialismo, di un certo modo di intendere il finalismo, del dualismo psico-fisico, di una
concezione puramente spiritualistica dell'uomo. Tra gli stessi metafisici quasi nessuno ormai
disposto a sostenere nella sua totalit una simile metafisica, anche se alcuni continuano a sostenerne
alcune parti o a difendere metafisiche ad essa analoghe. Tuttavia, da parte dei critici della
metafisica, si continua a credere che questa sia l'unica metafisica concepibile e quindi che la critica
di essa coinvolga ogni possibile metafisica. Ci particolarmente evidente in quanti continuano a
ripetere l'accusa heideggeriana secondo cui la metafisica sarebbe un'"onto-teologia", o continuano
ad usare un concetto di metafisica che io chiamerei "sovradeterminato", in quanto tendente a
caricare la metafisica di tutta una serie di tesi che ormai nessun metafisico professa (l'esistenza di
"strutture eterne" della realt, l'immutabilit del tutto, l'assolutezza dell'ordine cosmico).
Una metafisica problematica
La metafisica ancora possibile nel terzo millennio e della quale, come vedremo, la filosofia ha
bisogno per essere autentica filosofia, una metafisica estremamente essenzializzata: non una

metafisica nuova, da collocarsi accanto alle precedenti, ma il nucleo irrinunciabile e classico, cio
perennemente valido, che sta alla base di ogni metafisica trascendentistica, sin da quando essa
stata elaborata. E' una metafisica che tiene conto della scienza moderna e contemporanea, dei suoi
sviluppi e dei suoi scacchi, del suo carattere ipotetico ed insieme del suo inarrestabile progredire;
una metafisica limitata nelle sue pretese conoscitive, ma al tempo stesso rigorizzata nella sua
struttura logica, cio nel suo argomentare.
Prima di indicarne, sia pure sommariamente, il contenuto e la struttura argomentativa,
desidero sgomberare il campo da un possibile equivoco. La metafisica non riassume in s l'intera
filosofia. Oltre ad essa possono esistere una filosofia dell'uomo, o antropologia filosofica, che
affronta anche con l'aiuto delle scienze umane il problema dell'unit psicofisica, della coscienza,
delle diverse forme di conoscenza, della libert, della responsabilit, della persona; una filosofia
della natura, che tratta, con l'aiuto delle scienze naturali, il problema della causalit, dello spazio,
del tempo, del finalismo. Certamente esistono un'etica, o filosofia morale, o filosofia pratica, che
tratta del bene, del valore, della norma, della felicit, individuale e collettiva; una filosofia politica,
che tratta dei rapporti tra individuo e societ, della societ politica, dello Stato, del potere, della
sovranit. Certamente esistono una filosofia della logica, un'epistemologia, o filosofia della scienza,
una filosofia del linguaggio, un'estetica, o filosofia dell'arte. Tutte queste discipline sono
autenticamente filosofiche e non si risolvono nella metafisica, n - a mio avviso - dipendono da
essa.
Nemmeno l'ontologia, che pure continua a prosperare, specialmente nella filosofia analitica, si
risolve nella metafisica. A questa non spetta risolvere problemi squisitamente ontologici quali
l'esistenza dei numeri, degli universali, dei significati, o il problema dell'identit, o il problema della
sostanza, dell'essenza. Questi non sono problemi metafisici, se non in senso lato, per cui si chiama
metafisico ogni problema che non risolubile dalla scienza. Ma essi non fanno parte della
metafisica essenzializzata che pu venire riproposta all'alba del terzo millennio.
Il problema autenticamente metafisico, che intendo proporre, pu venire formulato in vari
modi. Il pi classico quale sia la causa prima, ovvero il fondamento ultimo, del mondo di cui
abbiamo esperienza, inteso nel senso pi ampio. Una formulazione pi recente, ma ugualmente
rigorosa, se il mondo cui abbiamo esperienza, inteso nel suo complesso, cio come "intero
dell'esperienza", sia l'intero tout court, cio l'intera realt, il che equivale a chiedersi se esso sia
autosufficiente, indipendente da altro, cio assoluto. Le forme pi avanzate di metafisica
contemporanea, che non hanno voluto proporsi come metafisiche nuove, ma come rigorizzazioni
della "metafisica classica", ad esempio la metafisica proposta in Italia da Gustavo Bontadini (19031989), filosofo dell'Universit cattolica di Milano, o da Marino Gentile (1906-1991), filosofo
dell'Universit di Padova, hanno scelto rispettivamente la seconda e la prima di tali formulazioni ed
hanno insistito nell'affermare che la metafisica un discorso breve, riassumibile in un argomento di
due o tre battute o addirittura nella stessa semplice formulazione del problema.
Per mondo dellesperienza, nel senso pi ampio, si deve intendere non solo tutto ci che
comunque dato ad un soggetto, cio ad una coscienza, ma anche quest'ultima, la coscienza stessa, e

l'atto stesso del darsi ad essa di qualcosa, ovvero l'atto stesso del suo esperire, a tutti i livelli in cui
questo pu avvenire, dalla conoscenza sensibile a quella concettuale, sino a quella propriamente
scientifica; insomma l'intero contenuto dell'esperienza umana, sia individuale che collettiva, sia
attuale, cio presente, che passata e futura, cio storica; in qualunque forma esso venga espresso, sia
conscia che inconscia, sia linguistica che non linguistica, sia naturale, cio spontanea, che culturale,
cio riflessa. Questo l'intero dell'esperienza, cio l'orizzonte entro il quale siamo e ci muoviamo,
portandolo sempre con noi e senza poterne mai fuoriuscire, cio senza poterlo mai trascendere.
Ebbene, il problema metafisico se il mondo dell'esperienza, inteso nel modo che abbiamo detto,
abbia in se stesso la propria ragione ultima, se esso si spieghi interamente da s, se esso insomma
sia l'assoluto, la totalit del reale, o se invece dipenda da altro, abbia il proprio principio in altro, sia
soltanto una parte di un tutto che lo trascende. In altre parole, il problema se l'assoluto sia lo stesso
mondo della nostra esperienza, inteso nel senso ampio indicato sopra, o sia invece altro da esso,
qualcosa cio di trascendente rispetto ad esso.
Questo problema differisce da quella che Heidegger ha chiamato la "questione fondamentale"
(Grundfrage) della metafisica, cio dalla domanda "perch esiste, in generale, l'essente piuttosto che
il nulla?", anzitutto perch la formulazione di esso non fa uso di termini di difficile
semantizzazione, quali "essente" e "nulla", che si prestarono alle note ironie di Carnap. Leibniz, da
cui Heidegger riprende la sua questione fondamentale, l'aveva formulata, come noto, in termini
pi semplici, cio "pourquoi y a-t-il quelque chose plutot que rien?". Ma il nostro problema
differisce dalla domanda heideggeriana anche e soprattutto perch ci che ci fa problema non la
contrapposizione tra essere e nulla, della quale non abbiamo alcuna esperienza, ma la ragione di ci
che ci dato, cio del mondo dell'esperienza. Nella formulazione heideggeriana, e pi ancora in
quella leibniziana, l'aspetto pi valido proprio la domanda del perch, cio di una ragione
sufficiente, nonch la sua portata universale, cio tale da investire l'intero mondo dell'esperienza, a
cui probabilmente vuole alludere la contrapposizione dell'"essente", o del "qualcosa", al nulla.
Di tale questione si tentata una formulazione anche all'interno della filosofia analitica, per
esempio ad opera di E. Tugendhat, filosofo analitico di formazione heideggeriana, il quale - nella
convinzione che la filosofia analitica ricomprenda in s sia l'antica ontologia che la moderna
filosofia della coscienza, ha proposto di riformularne la questione fondamentale nei termini
seguenti: "come ci si pu riferire agli oggetti con espressioni linguistiche?", ovvero: "che cosa
significa comprendere un'espressione di una certa forma semantica o la forma di questa
espressione?". Si tratta, come si vede, di quello che i filosofi analitici chiamano il problema del
riferimento, che - dopo la cosiddetta "svolta linguistica" - certamente, per la filosofia analitica, il
problema dei problemi. La sua portata universale innegabile, perch esso investe l'intero
linguaggio e, dunque, l'intero ambito degli oggetti a cui esso si riferisce, cio l'intero mondo
dell'esperienza. Ma ci che in questa formulazione manca, come in generale mi sembra mancare in
tutta la filosofia analitica, la domanda del perch, cio di una ragione, di un fondamento di ci che
si prende in considerazione, sia esso realt, pensiero, linguaggio o qualsiasi altra cosa.
Nella filosofia ermeneutica, o continentale, la questione fondamentale non viene mai

formulata esplicitamente, a causa del rifiuto della metafisica che caratterizza tale orientamento, ma
tuttavia essa implicitamente presente ogniqualvolta si sottolinea la "finitezza" della condizione
umana, dalla quale in ultima analisi deriva il carattere di non assolutezza, di storicit, di relativit,
che contrassegna ogni interpretazione, anzi la nozione stessa di interpretazione. Ma nemmeno in
essa la condizione umana viene problematizzata, cio investita dalla domanda del perch, del
fondamento, per cui la filosofia ermeneutica corre rischio di assumere la finitezza come unica realt,
il che una contraddizione in termini, dato che il finito per definizione limitato, e limitato
significa necessariamente limitato da altro. Come stato, infatti, efficacemente osservato di recente,
la "sola" finitezza, cio la finitezza considerata come unica realt, si risolve necessariamente in
un'infinit.
Per tornare alle posizioni che, a mio avviso, hanno formulato pi correttamente la questione
fondamentale della metafisica, cio le formulazioni pi recenti della cosiddetta "metafisica
classica", vediamo brevemente come esse hanno creduto di poterla risolvere. Bontadini, rilevando
che l'intero dell'esperienza caratterizzato dal divenire ed interpretando il divenire come
successione di essere e non-essere, rispondeva che esso non pu essere assoluto, perch ci
comporterebbe una contraddizione, la contraddizione di un essere che sorge interamente dal nulla o
si risolve interamente nel nulla. L'unico modo per rimuovere tale contraddizione, secondo
Bontadini, di ammettere che il divenire creato, cio posto in essere, da un atto di potenza
assoluta, riconducibile ad un assoluto trascendente: il "teorema della creazione". Marino Gentile, a
sua volta, rispondeva che il mondo dell'esperienza problematico, cio non si spiega da s, richiede
una ragione che non pu essere ad esso immanente, cio in esso interamente attuata, in quanto ne
estinguerebbe l'evidente problematicit, ma deve essere presente in esso soltanto virtualmente, cio
potenzialmente, come richiesta, come domanda di ragione. Un principio capace di mantenere intatta
la problematicit dell'esperienza, conclude pertanto Marino Gentile, non pu che essere
trascendente, individuale ed intelligente, cio personale: intelligenza totalmente in atto e, quindi,
infinito amore.
Ci che, forse, richiede qualche ulteriore chiarificazione in quest'ultima posizione, che
quella nella quale, per formazione, mi riconosco pi direttamente, come il mondo dell'esperienza
sia problematico nella sua totalit, perch proprio questo viene negato da quanti negano la
metafisica e dunque affermano l'autosufficienza, l'assolutezza del mondo dell'esperienza. Non c',
infatti, alcun dubbio che il mondo dell'esperienza sia problematico nei suoi singoli aspetti, presi
singolarmente, come attestato da un lato dall'esperienza della condizione umana e dall'altro
dall'esistenza del sapere scientifico, cio da svariate forme di "meraviglia", di dubbio, di ricerca, a
volte anche angosciosa, che si propongono di risolvere problemi particolari di qualsiasi genere. Ma
chi ci assicura che esso anche problematico nel suo complesso, cio che esso costituisce di per se
stesso un problema, la cui soluzione non pu essere data da nessuna forma di sapere scientifico? La
risposta a questa domanda analoga a quella che potrebbe essere data a proposito della
problematicit degli aspetti particolari del mondo dell'esperienza. Come la problematicit degli
aspetti particolari del mondo dell'esperienza, cio l'esistenza di problemi particolari, attestata

dall'esistenza del sapere scientifico, che tali problemi si pone e tenta di risolvere, cos la
problematicit del mondo dell'esperienza nel suo complesso attestata dall'esistenza di un discorso,
o di un atteggiamento, che si pone il problema del suo fondamento, cio attestata dalla stessa
esistenza della filosofia.
Non si tratta di un circolo vizioso, come sarebbe il caso se si dicesse che il bisogno della
metafisica attestato dall'esistenza della metafisica stessa, perch questa potrebbe essere
un'illusione, come ritiene la maggior parte dei suoi critici, a partire da Kant. Non si tratta di un
circolo vizioso perch l'esistenza della filosofia, cio di un metadiscorso che riflette su qualsiasi
altra forma di discorso, innegabile, nel senso che la pretesa di negarla comporterebbe a sua volta
un altro metadiscorso, che sarebbe esso stesso filosofia. Ci era stato rilevato gi da Aristotele nel
famoso frammento del Protreptico in cui osservava che, per mostrare che non si deve filosofare, si
deve pur sempre filosofare. Si pu dire pertanto che la problematicit del mondo dell'esperienza
coincide con la problematicit della stessa filosofia, nel senso che colui che la nega rinuncia a fare
filosofia, cio rinuncia a chiedersi la ragione ultima del mondo dell'esperienza.
Certo, nessuno tenuto a fare filosofia, ma coloro che la fanno si impegnano in una forma di
problematizzazione totale della realt, cio in una ricerca integralmente critica, che aspira a liberarsi
da ogni pregiudizio, a risolversi, come diceva Marino Gentile, in "un domandare tutto che tutto
domandare". L'atteggiamento di pura problematicit, cio la problematizzazione integrale del
mondo dell'esperienza, la domanda di quale sia il fondamento ultimo, cio interamente sufficiente,
di esso, coincide dunque con l'atteggiamento di integrale criticit che deve caratterizzare qualsiasi
ricerca filosofica degna di questo nome e che, almeno in teoria, tutti i filosofi dichiarano di voler
professare. E cos come innegabile la filosofia, altrettanto innegabile l'atteggiamento di
problematizzazione integrale del mondo dell'esperienza, cio quella che chiamiamo problematicit
pura. Qualsiasi tentativo di rimetterla in discussione, infatti, non farebbe che riproporre un problema
e quindi riprodurrebbe l'atteggiamento di problematicit, esattamente come il voler dubitare del
dubbio, secondo quanto ha osservato Descartes, non farebbe che riproporre lo stesso dubbio. La
problematicit pura, dunque, improblematizzabile.
Una metafisica essenzializzata, riproponibile all'alba del terzo millennio, si pu riassumere
interamente, a mio avviso, in questo atteggiamento di pura problematicit di fronte al mondo
dell'esperienza, perch esso contiene gi in s la necessit di ammettere la trascendenza
dell'assoluto. Una metafisica di questo genere pu essere definita "metafisica critica", perch
realizza un atteggiamento di integrale criticit, ma anche "metafisica problematica", non nel senso
che la sua esistenza, o la sua possibilit, sia problematica, cio dubbia, e nemmeno nel senso che
essa rimanga ferma al problema e si riveli incapace di darne una qualsiasi soluzione. Quest'ultima
posizione dovrebbe essere definita pi correttamente "problematicismo" e storicamente ha avuto
qualche incarnazione, per lo pi in filosofie di tipo scettico e relativistico. La metafisica
problematica, nel senso qui proposto, tale perch afferma la problematicit del mondo
dell'esperienza e quindi la necessit di un assoluto trascendente, cio capace di spiegare la
problematicit, la finitezza, la parzialit, di esso, senza tuttavia estinguerla, come farebbe un

assoluto immanente. In questo senso essa non affatto scettica o relativistica.


Una metafisica dialettica
Anche dal punto di vista della struttura logica, cio dei procedimenti argomentativi, una
metafisica proponibile nel terzo millennio deve presentarsi come completamente nuova rispetto a
quella tradizionale, soprattutto rispetto a quella forma della metafisica tradizionale che pretendeva
di procedere analiticamente, per mezzo cio di dimostrazioni a priori, analoghe a quelle della
geometria. Essa, a mio avviso, deve essere perci una metafisica "dialettica", dove il termine
"dialettica" inteso nel senso originario, cio antico, del termine. Come noto, la dialettica, per i
Greci, era l'arte di discutere argomentando, in situazioni in cui due interlocutori affrontavano uno
stesso problema, l'uno sostenendo una certa tesi come soluzione di esso e l'altro cercando di
confutarla. Tale arte dialettica comprendeva pertanto due parti: l'una che insegnava a "confutare" il
proprio avversario, cio a indurlo in contraddizione con se stesso, ponendogli delle domande che lo
inducessero a rispondere in un certo modo e deducendo dalle sue risposte qualche conclusione che
contraddicesse le premesse da lui stesso concesse; l'altra che insegnava a resistere ai tentativi di
confutazione compiuti dall'avversario, evitando di dargli le risposte da cui egli potesse dedurre la
contraddizione o "risolvendo" le sue argomentazioni, cio mostrandone la fallacia. Naturalmente sia
l'uno che l'altro interlocutore dovevano argomentare partendo da premesse comuni, i cosiddetti
endoxa, o "opinioni condivisibili".
La metafisica problematica a cui ho accennato procede dialetticamente in entrambi i sensi,
cio cerca di confutare ogni forma di assolutizzazione del mondo dell'esperienza, deducendone delle
contraddizioni, e cerca di risolvere ogni tentativo di confutare la trascendenza dell'assoluto,
mostrandone la fallacia. Poich l'assolutizzazione del mondo dell'esperienza ha storicamente
assunto in passato, e pertanto pu continuare ad assumere in futuro, le forme pi diverse, che vanno
per esempio dal materialismo all'idealismo assoluto, dal positivismo al nichilismo, la metafisica non
potr accontentarsi di mostrare una volta per tutte che l'assolutizzazione del mondo dell'esperienza
contraddittoria, ma dovr ogni volta di nuovo ricondurre le diverse forme che tale assolutizzazione
assume a quella di esse in cui la contraddizione risulta evidente, cio dovr mostrare che ciascuna di
esse non che la particolarizzazione di una posizione pi generale intrinsecamente contraddittoria,
e dovr farlo partendo da premesse che siano di volta in volta condivise dal proprio interlocutore.
Ma anche le negazioni della metafisica, cio i tentativi di confutarla, hanno storicamente assunto e
possono quindi assumere anche in futuro le forme pi diverse, che vanno dal criticismo kantiano
allo scientismo, dal neopositivismo all'ermeneutica. Perci le risoluzioni di esse che la metafisica
dovr compiere saranno ogni volta diverse, nel senso che dovranno mostrare la fallacia di obiezioni
nuove, o ricondurre quelle apparentemente nuove ad altre gi risolte, sempre partendo da premesse
condivise dal proprio interlocutore.
Di conseguenza l'argomentare della metafisica sar sempre aperto, cio non potr mai
considerarsi concluso e dovr continuamente cimentarsi in nuove discussioni, come d'altronde

richiesto dal carattere storico di ogni attivit umana, compresa la filosofia e compresa quella
particolare forma di filosofia che , appunto, la metafisica. Ci non significa che la metafisica non
possa attingere alcuna verit, cio sia un discorso scettico, o relativistico. Ogni confutazione
rigorosa, infatti, confuta definitivamente la tesi sulla quale si esercita, cos come ogni risoluzione
effettiva di una confutazione apparente mostra definitivamente la fallacia di essa. La discussione
pertanto non pu consistere nel riproporre tesi gi confutate o obiezioni gi risolte. Ed ogni
confutazione o risoluzione logicamente corretta implica la verit della tesi opposta a quella
confutata, o della tesi che ha resistito alla confutazione. Ma si tratta di una verit che non mai
definitiva, perch vive della sua stessa capacit di confutare le sue negazioni e di resistere alle sue
confutazioni.
Resta da precisare quali sono le premesse a partire dalla quali la metafisica pu argomentare e
che pertanto devono poter essere condivise dai suoi avversari. Anzitutto va tenuto presente che, se
tali premesse servono per argomentare, devono essere condivise da coloro che sono effettivamente
disposti ad argomentare, cio a discutere. Ci significa che, se qualcuno si rifiuta di argomentare, o
di discutere, inutile cercare premesse che da lui possano essere condivise. Egli si comporta
semplicemente, per ripetere la nota battuta di Aristotele, come un vegetale. Una premessa
condivisibile da tutti l'esperienza, cio il darsi di qualcosa, o l'esistere di qualcosa. Anche colui
che la negasse, infatti, dovrebbe sostenere che l'esperienza apparenza, o illusione, ma in tal modo
sarebbe comunque costretto ad ammettere che esiste l'apparenza, o l'illusione. Che poi ci di cui si
ha esperienza sia qualcosa di unico o qualcosa di molteplice, qualcosa di immutabile o qualcosa che
muta, non dovrebbe essere difficile stabilirlo, mostrando che la negazione della molteplicit o del
divenire istituisce essa stessa una forma di molteplicit o di divenire, e pertanto la molteplicit e il
divenire risultano innegabili.
Un problema pi complesso quello di stabilire se la nozione di cui facciamo uso per indicare
ci che ci dato, ovvero ci che esiste, vale a dire la nozione di "essere" o di "esistenza", abbia un
solo significato, cio sia univoca, o ne abbia molti, cio sia multivoca. La prima tesi, che anche la
pi antica, in quanto risale addirittura a Parmenide, stata ripresa recentemente da alcuni esponenti
della filosofia analitica. Ma contro di essa si potrebbe portare l'argomento di Aristotele secondo cui
l'essere non pu essere un genere, cio una nozione univoca, perch, dicendosi di tutto, si dice anche
delle differenze tra le cose di cui si dice, e dunque deve dirsi con significati diversi. Questa
conclusione pu infirmare gi di per s tutta una serie di posizioni filosofiche, anche metafisiche,
fondate sull'univocit dellessere, ma evidentemente ha bisogno di essere ulteriormente
argomentata.
Un'altra premessa che deve essere condivisa da chiunque sia disposto ad argomentare il
principio di non contraddizione. E' stato dimostrato infatti, mediante il cosiddetto "teorema dello
pseudo-Scoto", che la negazione di esso consente di sostenere tutto e il contrario di tutto, perci
rende irrilevante qualunque tesi si voglia sostenere e banalizza l'intero discorso. I tentativi fatti
nell'ambito della logica moderna o contemporanea di negare il principio di non contraddizione, per
esempio ad opera della dialettica hegeliana o delle cosiddette logiche "paraconsistenti", sono

negazioni parziali, che con la loro parzialit riaffermano la necessit di tale principio. La dialettica
hegeliana, infatti, pretende di essere una negazione incontraddittoria del principio di non
contraddizione, e dunque in qualche modo lo ammette; e le logiche paraconsistenti circoscrivono la
contraddizione, da loro ammessa come violazione del principio, a una zona molto limitata del
sistema di cui sono espressione, riconoscendo che questo nel suo complesso deve essere governato
dal principio di non contraddizione. Un discorso analogo si potrebbe fare per il principio del terzo
escluso, la cui validit stata negata dalla logica intuizionistica di Brouwer e Heiting, ma solo
nell'ambito dei sistemi infiniti, cio indeterminati.
Infine una terza premessa che deve essere condivisa da tutti - sempre, si intende, da tutti
coloro che sono disposti ad argomentare - il cosiddetto "principio di ragione", o di causa in senso
lato (cio non soltanto meccanico). Esso richiede che di qualunque fatto si dia una ragione, cos
come di qualunque tesi si deve dare una giustificazione. Rifiutarsi di farlo equivale a rifiutarsi di
discutere, cio a rifiutarsi di ragionare e, in ultima analisi, a rifiutarsi di fare filosofia (come,
ovviamente, a rifiutarsi di fare scienza). La negazione del principio di causa operata da Hume si
riferisce, come noto, ad una forma molto particolare di causalit, la concatenazione meccanica tra
due fatti, e non implica affatto il rifiuto pi generale del principio di ragione, come provato dal
fatto che lo stesso Hume si servito di tale principio per giustificare la sua tesi. E la negazione del
principio di ragione compiuta da Heidegger nella conferenza dal medesimo titolo, oltre a smentire
quanto lo stesso Heidegger aveva sostenuto in Essere e tempo a proposito della fondamentalit del
"domandare" per la filosofia, rischia di portare ad un atteggiamento di tipo estatico (cfr. la citazione
heideggeriana di Angelo Silesio: "la rosa senza perch, fiorisce perch fiorisce"), che ha pi a che
vedere con la poesia che con la filosofia. Il principio di ragione, infatti, non altro che la stessa
problematicit della filosofia, cio il chiedere ragione, il domandare un perch.
Una metafisica epistemologicamente "debole"
Se si potesse ancora usare il termine ormai abusato di debole, purtroppo legato a una forma
di pensiero di tipo relativistico, si dovrebbe dire che la metafisica del futuro dovr essere una
metafisica epistemologicamente debole, cio povera di contenuto conoscitivo, ma proprio per
questo logicamente forte, cio difficile da confutare. La metafisica del passato, infatti, stata
facilmente confutata, cio si spesso rivelata logicamente debole, perch ha preteso di essere
epistemologicamente forte, cio troppo ricca di contenuto conoscitivo, troppo sistematica, troppo
esaustiva. Mi si consenta pertanto, prima di spiegare meglio che cosa intendo per metafisica
epistemologicamente debole, di chiarire che tale posizione non ha nulla a che vedere col cosiddetto
"pensiero debole", affermatosi in Italia nel corso degli anni ottanta del Novecento e diffusosi anche
in altri paesi sulla scia del cosiddetto pensiero "postmoderno". Il "pensiero debole" un pensiero
che si rifiuta di usare categorie da esso considerate troppo "forti", se non addirittura "violente", quali
vero e falso, bene e male, giusto ed ingiusto. Di fronte un simile atteggiamento, di tipo chiaramente
relativistico, vale l'argomentazione da sempre impiegata contro ogni forma di relativismo, cio che

esso, con la sua pretesa di validit, smentisce se stesso, quando non giunge addirittura, per
l'abolizione della categoria di errore, a ritenersi infallibile.
N, proponendo una metafisica epistemologicamente debole, intendo proporre quella che
nell'enciclica Fides et ratio viene definita "ragione debole", cio una ragione che non ha il coraggio
di misurarsi con i grandi problemi, il problema del senso della vita, del fondamento ultimo della
realt. Quella che propongo, infatti, pur sempre una metafisica, cio un discorso che pretende di
andare al fondo della realt, di indagarne la ragione ultima, e di stabilire nientemeno che la
trascendenza dell'assoluto.
Per chiarire che cosa intendo con questa espressione posso riferirmi all'uso che dei termini
"forte" e "debole" viene fatto a proposito delle teorie scientifiche. Una teoria scientifica "forte"
quando ricca di contenuto conoscitivo, cio fornisce un'informazione molto rilevante, in genere di
carattere universale, su come stanno le cose, e quindi un'indicazione utile per riconoscerle, per
spiegarle, per classificarle. Mi si permetta un esempio molto banale. Ammettiamo che sia una teoria
scientifica l'enunciato "tutti i cigni sono bianchi". Questa sarebbe una teoria scientifica "forte",
perch ci fornirebbe un'informazione molto importante relativa ai cigni, la quale ci consentirebbe,
ad esempio, di escludere che un qualsiasi oggetto non bianco possa essere considerato un cigno.
Invece l'enunciato "alcuni cigni sono bianchi", ammesso che fosse una teoria scientifica, sarebbe
una teoria scientifica "debole", perch ci fornirebbe un'informazione di scarsa utilit, ci farebbe
conoscere abbastanza poco a proposito dei cigni.
Tuttavia, come ben sanno gli epistemologi, specialmente quelli di formazione popperiana, le
teorie scientifiche forti sono, dal punto di vista logico, estremamente deboli, perch facilissimo
confutarle. Tornando all'esempio gi usato, per confutare l'enunciato "tutti i cigni sono bianchi"
basta esibire un solo esempio di cigno nero, o grigio, cosa non difficile da reperire. Invece le teorie
epistemologicamente deboli sono, sempre dal punto di vista logico, molto forti, cio molto difficili
da confutare. Stando sempre al nostro esempio, l'enunciato "alcuni cigni sono bianchi"
difficilissimo da confutare, perch, per riuscire a farlo, bisognerebbe dimostrare che, ogniqualvolta
vediamo un cigno bianco, siamo vittime di un'illusione ottica, il che piuttosto improbabile.
Dunque la "forza" e la "debolezza" epistemologiche di una teoria, cio la sua ricchezza e la sua
povert di contenuto conoscitivo, sono - per cos dire - inversamente proporzionali alla sua "forza"
ed alla sua "debolezza" dal punto di vista logico, cio alla sua capacit di resistere o meno alle
confutazioni.
Lo stesso discorso vale per le tesi filosofiche, come pu essere chiarito dal seguente esempio.
Teorie come l'eleatismo, secondo la quale - semplifico - "tutte le realt sono immobili", o come
l'eraclitismo, secondo la quale "tutte le realt sono in movimento", sono teorie epistemologicamente
molto forti, perch ci forniscono informazioni decisive su come stanno le cose. Esse tuttavia sono
deboli dal punto di vista logico, perch - come nell'antichit avevano gi osservato Platone e
Aristotele - per enunciare la prima comunque necessario compiere un movimento, il che smentisce
che tutto sia immobile, e per tener ferma la seconda comunque necessario ammettere che la sua
verit non muti, il che smentisce che tutto sia in movimento. Invece la tesi secondo cui alcune realt

sono in movimento ed altre sono immobili una tesi debole dal punto di vista epistemologico,
perch povera di contenuto conoscitivo, ma forte dal punto di vista logico, perch difficile da
confutare. Tuttavia non si tratta di una tesi insignificante: essa coincide infatti con una ben precisa
metafisica, per esempio con una metafisica di tipo platonico o aristotelico, che poi la cosiddetta
"metafisica classica".
La metafisica che ritengo capace di affrontare il nuovo millennio, date le attuali condizioni
della conoscenza scientifica e soprattutto dato lo stadio attualmente raggiunto dal processo di
secolarizzazione, una metafisica epistemologicamente debole, perch si limita a proporre, in
sostanza, un'unica tesi, la trascendenza dell'assoluto rispetto al mondo dell'esperienza. Si tratta di
una tesi povera di contenuto conoscitivo, ovvero di informazioni, per il suo carattere estremamente
generico e sostanzialmente negativo. Ma tuttavia essa mi sembra piuttosto forte dal punto di vista
logico, perch per confutarla bisognerebbe riuscire a dimostrare che il mondo dell'esperienza
l'assoluto, cio a dimostrare che gli innumerevoli segni di relativit, di precariet, di insufficienza,
di problematicit che esso presenta, sono tutti delle illusioni. E soprattutto essa mi sembra rilevante
dal punto di vista esistenziale, perch la consapevolezza di vivere in un universo che non
l'assoluto e che pertanto dipende, per la sua esistenza e forse per il suo stesso destino, da altro, pu
incidere in modo determinante sul cosiddetto senso della vita.

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