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Struttura originaria in Severino e mediazione in Hegel: una riflessione sul

concetto di relazione
di Aldo Stella, Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Università per Stranieri di Perugia, Piazza
Fortebraccio 4, 06123 Perugia – aldo.stella@unistrapg.it

Abstract

Hegel evidenzia come l’immediato, cioè il cominciamento, vada inteso anche quale mediazione,
così che ciò che è in sé non può non estrinsecarsi. Severino accoglie il punto di vista hegeliano, ma
assume il cominciamento come fondamento. In tal modo, egli pensa il fondamento (l’originario)
come dotato di una struttura, la quale è la relazione descritta come costrutto mono-diadico, che
consente di determinare il fondamento e di derivarne il sistema delle determinazioni. Hegel, di
contro, non intende la relazione solo come costrutto, cioè come relazione estrinseca, ma anche
come relazione intrinseca, cioè come l’atto che spinge ogni determinazione oltre se stessa. Il
sistema delle determinazioni viene bensì inevitabilmente posto, come sviluppo del cominciamento,
ma insieme viene innegabilmente superato. L’unità del sistema delle determinazioni non può venire
confusa, quindi, con l’unità del fondamento. Quest’ultima è la ragione della ablatio alteritatis, cioè
del togliersi di quella dualità su cui poggia la relazione stessa.
Parole chiave: Severino, Hegel, immediato, mediazione, relazione.

For Hegel, the commencement, which is immediate, needs also to be understood as a mediation, i.e.
as something which cannot but unravel itself. Severino agrees on this proposition, but he also
posits the commencement as the ultimate foundation: something furnished with a structure that
would consist with a mono-dyadic-construct relationship that enables us to identify the foundation
and then derivate from it the system of all determinations. For Hegel, though, relationship is not
only a construct: an extrinsic relationship; but also an intrinsic relationship: the act that pushes all
determinations beyond themselves. Inevitably, since it proceeds from a starting point, the system of
determinations is posited; undeniably, though, it is indeed transcended. The unity of the system of
determinations must not be confused with the unity of its foundation. The latter only is the reason
for ablatio alteritatis, where duality – upon which relationship is based – is transcended.
Keywords: Severino, Hegel, immediate, mediation, relationship.

1. Introduzione
La presente ricerca intende prendere le mosse dall’interpretazione che Severino dà dell’originario,
cioè del fondamento. Egli lo intende come una struttura e noi cercheremo di seguire
l’argomentazione che Severino svolge per giustificare questa sua interpretazione.
Affinché risulti con chiarezza il senso di un originario che si articola al suo interno, così da
configurare appunto una struttura, confronteremo la posizione di Severino con quella espressa da
Hegel a proposito del cominciamento.
Come è noto, Hegel è il pensatore che con più attenzione e profondità ha tematizzato il
concetto di cominciamento e ne ha sottolineato l’intrinseca problematicità. Il cominciamento è, da
un certo punto di vista, un immediato; da un altro punto di vista, la sua stessa mediazione. Ebbene,
proprio il concetto di mediazione riveste in Hegel valore prioritario. A nostro giudizio, v’è un modo
formale di intenderla, che sostanzialmente la riduce a relazione, e v’è un modo che potremmo
definire trascendentale, per il quale la mediazione vale come atto, così che la stessa relazione non
può venire pensata come un costrutto mono-diadico, ma come l’atto del riferirsi, che è poi l’atto del
trascendersi di ogni determinazione, in quanto finita.
Secondo l’ipotesi che cercheremo di sostenere, in Severino sembra operare soltanto il modo
formale di intendere la relazione, con la conseguenza che all’originario viene attribuita una
struttura, la quale è formale proprio perché relazionale. Di contro, a nostro giudizio l’originario si
esprime nell’atto che impone al dato di mediarsi, ossia di trascendere la sua parvente immediatezza,
come emerge innegabilmente dalle indicazioni fornite da Hegel.
Tali indicazioni consentono, quindi, di sottoporre a questione il concetto stesso di relazione
e di mostrare come il modo ordinario di intenderla, cioè come costrutto mono-diadico, debba venire
colto nel suo limite di intelligibilità: tale coglimento costituisce la condizione per intendere la
relazione come l’atto del riferirsi, dunque come la mediazione intrinseca di ciò che si presenta come
immediato, senza esserlo effettivamente.

2. Il principio e la sua struttura

La struttura originaria, che è l’opera fondamentale di Severino, si apre con queste parole: «La
struttura originaria è l’essenza del fondamento. In questo senso, è la struttura anapodittica del
sapere – l’ἀρχὴ τῆς γνώσεως – e cioè lo strutturarsi della principialità, o dell’immediatezza. Ciò
importa che l’essenza del fondamento non sia un che di semplice, ma una complessità, o l’unità di un
molteplice»1.
La prima cosa che deve venire notata è che il fondamento, a giudizio di Severino, si
costituisce di una essenza. Ciò significa che nel fondamento non tutto è fondamentale allo stesso
modo. L’elemento ‘più fondamentale’ degli altri è la struttura, che costituisce il fondamento stesso.
In questo senso, v’è un fondamento del fondamento ed è rappresentato dalla sua struttura.
Tale struttura è quella del sapere anapodittico, che può venire definito il principio della
conoscenza. Come è noto, il sapere anapodittico è il sapere non dimostrabile, ossia quel sapere che
non è esito di una dimostrazione, perché vale come la condizione che fonda ogni dimostrazione. Per
Aristotele, anapodittiche sono le premesse del sillogismo, dette anche ‘immediate’2; per gli Stoici,
invece, anapodittici sono i ragionamenti che stanno alla base di tutti gli altri e ai quali gli altri
possono venire ricondotti. Sia in Aristotele che negli Stoici, quindi, anapodittico è sinonimo di
fondamentale.
Il fondamento, d’altra parte, non può non essere principio (ἀρχὴ) del conoscere (γνώσεως),
giacché è solo il conoscere che va alla ricerca del fondamento della realtà e solo per il conoscere ha
senso parlare di un fondamento (principio). Ma Severino aggiunge una precisazione della massima
importanza: la struttura originaria è la «struttura anapodittica del sapere e cioè lo strutturarsi della
principialità, o dell’immediatezza».
Il senso del discorso di Severino può venire espresso, a nostro giudizio, nei seguenti termini.
Il sapere ha una struttura, giacché si pone come sapere qualcosa e, più radicalmente, come sapersi.
Il sapersi del sapere è la condizione di ogni altro sapere e lo è per la ragione che solo il sapere è
autentico fondamento. Esso fonda se stesso e, proprio per il suo essere autentico fondamento, può
fondare ogni altro da sé. Il sapersi, quindi, opera in ogni altro sapere e, in prima approssimazione,
viene fatto coincidere con la proprietà riflessiva del sapere stesso. In questo suo sapersi, il sapere
viene inteso come se si sdoppiasse, facendosi altro a se stesso e diventando oggetto di se stesso. Il
nostro intento è proprio quello di discutere questo modo di intendere il sapersi del sapere, che lo

1
E. SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981², p. 107.
2
ARISTOTELE, Eth. Nic., VI, 12, 1143b 12; trad. it. di C. NATALI, Etica Nicomachea, Laterza, Roma-Bari 1999, p.
247; ARISTOTELE, An. Post. I, 3, 72b 27; trad. it. di G. COLLI, Secondi Analitici, in Organon, Einaudi, Torino 1955,
p. 267.
assume come un’attività. L’attività si esercita, infatti, su qualcosa, su un oggetto, e può venire intesa
come la relazione che sussiste tra agente e agito.
Il sapere, pensato come attività, ha dunque questa caratteristica fondamentale: è sé nel suo
essere altro a se stesso o, se si preferisce, è sé nel suo farsi altro a se stesso e nel riconoscere che
questo altro è ancora il sapere, ancorché espresso in forma oggettivata. Precisamente per questa
ragione Severino aggiunge che l’essenza del fondamento non è qualcosa di semplice, ossia di
atomico, di indivisibile; al contrario, è una complessità o l’unità di un molteplice. Si tratta di una
unità, perché il sapere ingloba la differenza, così che non si dà una differenza dal sapere, quanto
piuttosto una differenza nel sapere. Che è come dire: il sapere è tanto soggetto quanto oggetto
nonché la relazione che sussiste tra di essi.
In questo senso emerge il concetto di struttura: la struttura è la relazione, per quel tanto che
nella relazione la differenza dei termini viene ricompresa nell’unità del loro riferirsi reciproco.
Come cercheremo di mostrare nel corso della presente ricerca, il nodo teoretico consiste proprio
nell’intendere questo riferirsi. Se lo si intende come un nesso estrinseco tra relati, allora si mantiene
la struttura e il sapersi non può che venire pensato come attività. Se lo si pensa come l’essere
intrinseco dei relati, allora la relazione come medio viene meno e il sapersi, inteso nella sua forma
più autentica e radicale, non può non venire colto come atto.
Per non anticipare troppo quello che dovrà invece emergere dallo svolgersi della nostra
argomentazione, torniamo alle parole di Severino e rileviamo che, nell’usare le espressioni indicate,
egli, almeno da un certo punto di vista, riprende il pensiero di Hegel e il suo modo di intendere il
sapere. Scrive, infatti, Hegel nella Prefazione alla seconda edizione della Scienza della logica: «Il
punto di maggior rilievo, per la natura dello spirito, è il rapporto non solo di ciò che lo spirito è in
sé, verso quello ch’esso è realmente, ma di come lo spirito sa se stesso. Questo sapersi è perciò, in
quanto lo spirito è essenzialmente coscienza, la determinazione fondamentale della realtà sua»3.
L’aspetto per il quale il sapere è sapere qualcosa intorno ad un qualche oggetto non può non
subordinarsi, pertanto, all’aspetto per il quale il sapere è sapere di sé. Nel primo caso, il sapere si
costituisce come «rapporto» (Verhältnis) tra lo «spirito in sé» e la sua oggettivazione. Nel secondo,
invece, lo spirito emerge oltre il rapporto e perviene alla condizione incondizionata che costituisce
non solo il fine del suo procedere, ma anche il suo autentico fondamento. L’ipotesi che sostiene la
nostra interpretazione è che in Hegel si debbano, quindi, distinguere due livelli. Il primo livello è
quello nel quale il sapere si configura come attività o processo; in tale livello il sapere pone se
stesso come altro da sé e per questa ragione vale come sapere procedurale o formale. Il secondo
livello, invece, è quello nel quale il sapere permane uno con se stesso, valendo come l’atto del suo
sapersi; tale atto è operante e fungente in ogni sapere determinato e per questa ragione il sapere vale
come trascendentale o attuale.
Intrinsecamente vincolato al precedente, si pone un altro aspetto fondamentale. Per Hegel, il
vero non può venire inteso come indeterminato, ma deve passare attraverso il processo del suo
determinarsi. Così egli riassume il punto nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito:
«Contrapporre alla conoscenza distinta e compiuta, o alla conoscenza che sta cercando ed esigendo
il proprio compimento, questa razza di sapere, che cioè nell’Assoluto tutto è uguale, – oppure
gabellare un suo Assoluto per la notte nella quale, come si suol dire, tutte le vacche sono nere, tutto
ciò è l’ingenuità di una conoscenza fatua»4. E, poco dopo, aggiunge: «Secondo il mio modo di
vedere […] tutto dipende dall’intendere e dall’esprimere il vero non come sostanza, ma altrettanto
decisamente come soggetto»5. La critica è rivolta tanto all’assoluto schellinghiano quanto alla

3
G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, in: Sämtliche Werke, dritte Auflage der Jubiläumsausgabe, hrsg. v. H.
Glockner, Frommanne Holzboog, Stuttgart 1958, p. 28; trad. it. di A. MONI, Scienza della logica, Laterza, Bari 1974³,
pp. 16-17.
4
G.W.F. HEGEL, Phänomenologie des Geistes, in Sämtliche Werke; trad. it. di E. DE NEGRI, Fenomenologia dello
spirito, La Nuova Italia, Firenze 1976, sec. rist. della sec. ediz. [1960], p. 13.
5
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, p. 13.
sostanza spinoziana: il primo è indeterminato e la seconda è inerte. Di contro, il vero è spirito
perché solo lo spirito è vivo e la sua vitalità consiste nel suo progressivo determinarsi.
Per determinarsi, lo spirito si presenta come attività ed implica il proprio estrinsecarsi, ossia
il passare dall’in sé al per sé, che costituisce la forma dell’oggettivazione. Hegel lo sottolinea con
forza nell’Enciclopedia: «Lo spirito è attività, nel senso in cui già gli scolastici dicevano che Dio
era assoluta attuosità. In quanto poi lo spirito è attivo, questo implica che si estrinsechi. Perciò non
si deve considerare lo spirito come un ens privo di processo, come accadeva nella vecchia
metafisica che separava l’interiorità dello spirito, priva di processo, dalla sua esteriorità. Lo spirito
va essenzialmente considerato nella sua realtà effettuale concreta, e, precisamente, in modo tale che
le sue estrinsecazioni vengano conosciute come determinate mediante la sua interiorità»6.
Per precisare questo concetto, e cioè il suo rifiuto di una verità che risulta indeterminata e
inerte, così egli scrive nella Scienza della logica: «Così l’essere eleatico o la sostanza spinoziana
non sono che l’astratta negazione di ogni determinatezza, senza che in questa negazione stessa sia
posta l’idealità»7.
Da questo punto di vista, la struttura originaria di Severino coglie indubbiamente un aspetto
centrale del pensiero di Hegel. Con essa, infatti, si essenzializza la necessità del principio di
determinarsi e, quindi, di estrinsecarsi. Il principio, questo a nostro giudizio intende dire Severino,
ha una sua essenza, che consiste nella sua struttura relazionale, una struttura che lo apre alla
differenza, dunque alla negazione, e in virtù di questa apertura esso si configura determinatamente,
ponendosi in contrapposizione a quella negazione che vorrebbe negarlo, ma che finisce per negare
se stessa. Precisamente su questo punto dovremo attentamente riflettere.

3. Cominciamento e fondamento

Per Severino, dunque, l’immediato si struttura al suo interno e l’essere principio (o la principialità)
implica precisamente questa struttura. La ragione può venire espressa anche nei seguenti termini: il
principio è tale solo in quanto si pone in riferimento a ciò che segue. Senza il vincolo al principiato,
insomma, il principio non si costituirebbe come principio, così che è questo suo intrinseco riferirsi
ad altro che gli impone una struttura relazionale.
Il centro speculativo dell’intera questione è se il principio, inteso come primo elemento di
una serie, possa venire considerato autentico fondamento. Caratteristica del fondamento, infatti, non
può non essere quella di valere quale fondamento di se medesimo; solo in virtù di questo suo auto-
fondarsi, esso è in grado di fondare l’altro da sé. Il fondamento deve valere quale condizione
condizionante e, proprio in quanto tale, deve essere una condizione incondizionata.
Se non che, il fatto da sottolineare è che il principio, inteso come primo di una serie, non
riesce ad esibire quell’incondizionatezza, che è caratteristica essenziale del fondamento, giacché
subisce il vincolo al principiato. A nostro giudizio, e cercheremo di legittimare il punto di vista che
proponiamo, in Hegel il cominciamento viene distinto dal fondamento e tale distinzione è reperibile
in numerosi passi.
In Hegel, infatti, viene tematizzato a più riprese il concetto di relazione e proprio questa
tematizzazione risulta decisiva per porre la distinzione che abbiamo indicato. Se la relazione viene
intesa in senso ordinario e cioè come medio tra estremi – tale da configurare un costrutto mono-
diadico –, essa decreta la reciprocità dei termini relati, i quali risultano così reciprocamente
condizionati. Di contro, il fondamento deve unilateralmente condizionare il fondato: deve, cioè,
condizionare senza venire condizionato da ciò che esso fonda. Affinché ciò accada, esso deve
sottrarsi alla relazione ordinaria e al circolo che questa propone.

6
G.W.F. HEGEL, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, in Sämtliche Werke; trad. it. di V.
VERRA, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Parte Prima, La scienza della logica, UTET, Torino
1981, p. 182.
7
G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, p. 166.
Il circolo tracciato dalla relazione, del resto, sussiste non solo tra i termini, nel senso che
l’uno c’è perché c’è l’altro, ma anche tra i termini e la relazione, nel senso che i termini ci sono
perché c’è la relazione, ma, reciprocamente e scambievolmente, la relazione c’è perché ci sono i
termini.
La relazione come medio configura, dunque, il circolo della presupposizione, per il quale, se
il posto postula (presuppone) il presupposto, a sua volta il presupposto postula (presuppone) il
posto, cioè si pone solo perché in relazione con il posto, che consente appunto di connotarlo come
presupposto.
Per le ragioni addotte, a noi sembra di poter affermare che il fondamento vale come il
prerequisito, cioè come condizione a parte ante, come condizione trascendentale, laddove il
presupposto si presenta come condizionante posizionale o come condizione empirica, sempre
vincolata al campo dei suoi condizionati e da questi condizionata. In questo senso, il principio altro
non è che il mero presupposto.
La distinzione indicata non fa che esplicitare lo strutturarsi stesso del pensiero riflessivo, che
si pone come l’emergere di un pensiero pensante su un pensiero pensato. Di tale emergenza noi
intendiamo precisamente occuparci, proponendo la seguente interpretazione: se il pensiero pensante
viene inteso come un’attività, secondo le indicazioni fornite dallo stesso Gentile, allora non può non
riproporsi la relazione con il pensato, così che il primo finisce per collocarsi sul piano (livello) del
secondo; di contro, se il pensiero pensante è inteso come atto, allora esso non può valere come la
posizione di ciò-che-viene-pensato, cioè del determinato, ma come il suo toglimento, ossia come la
restituzione del determinato a ciò che in esso v’è di veramente intelligibile: il suo contraddirsi.
La vera questione, insomma, è se la condizione incondizionata e fondante possa venire
determinata, dal momento che il determinato subisce necessariamente il condizionamento da parte
di ciò che consente di determinarlo. Infatti, delle due l’una: aut la condizione fondante viene
determinata, ma allora scade a termine della relazione con il fondato; aut essa emerge oltre il
fondato, e non ne viene condizionata, ma allora non può non emergere anche oltre la
relazione/contrapposizione di determinato/indeterminato.
La tematica è indubbiamente hegeliana. Hegel, come detto, ha analizzato con estrema cura il
concetto di cominciamento e lo ha fatto, in particolare, nel Libro Primo della Scienza della logica.
Egli scrive: «Solo recentemente sorse la coscienza che è una difficoltà di trovare in filosofia un
cominciamento, e solo recentemente si discusse in varia maniera intorno alla ragione di questa
difficoltà e alla possibilità di risolverla. Il cominciamento della filosofia è di necessità o un mediato
[Vermitteltes] oppure un immediato [Unmittelbares], ed è facile mostrare che non può essere né
l’uno né l’altro; cosicché tutte e due le maniere di cominciare son soggette ad esser confutate»8.
Il cominciamento, dice Hegel, non può essere un mediato, perché ciò che è mediato non è
originario; né può essere un immediato, perché l’immediato è indeterminato e da esso non è
possibile dedurre. Potremmo tradurre anche così: il cominciamento di una trattazione filosofica, che
ha come suo obiettivo la verità, non può essere arbitrario, cioè soggettivo, ma non può essere
nemmeno autenticamente oggettivo, cioè assolutamente vero, perché in questo caso non avrebbe
senso andare oltre di esso, così che verrebbe meno il senso del procedere.
Il cominciamento, dunque, configura un problema e ciò da cui propriamente si comincia è la
consapevolezza del carattere problematico del punto di movenza. Come uscire, allora, dall’aporia?
A noi sembra che la strada indicata da Hegel sia questa: si deve riconoscere che la
contrapposizione, proprio in quanto tale, appartiene ad un livello che è solo formale. Essa, cioè,
appartiene al solo pensiero intellettualistico che «determina e tien ferme le determinazioni»9. La
ragione, invece, «è negativa e dialettica, perché dissolve in nulla le determinazioni dell’intelletto»10.
Nel caso del cominciamento, la ragione riconosce che immediatezza e mediazione sono due
determinazioni, che solo astrattamente possono venire prese separatamente l’una dall’altra e

8
G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, p. 51.
9
G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, p. 6.
10
G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, p. 6.
contrapposte in forza di questa loro separatezza. Per Hegel, immediato e mediato sono inseparabili,
così che non si può assumere l’uno a prescindere dall’altro: «Qui si può solo allegar questo, che non
v’ha nulla, nulla né in cielo né nella natura né nello spirito né dovunque si voglia, che non contenga
tanto l’immediatezza quanto la mediazione, cosicché queste due determinazioni si mostrano come
inseparate [ungetrennt] e inseparabili [untrennbar], e quell’opposizione come inesistente»11.
In questo passo, Hegel mette in luce un tema molto importante: l’inseparabilità delle
determinazioni contrapposte. Qui si parla di immediatezza e mediazione, ma il discorso può venire
fatto per ogni coppia di contrapposti. La contrapposizione è una relazione negativa, la quale,
proprio in quanto relazione, pone ciascun termine in forza della relazione all’altro termine. La
riflessione critica, pertanto, investe il concetto stesso di relazione, intesa come medio tra estremi. La
caratteristica dei termini, infatti, è che essi, da un certo punto di vista, esibiscono una propria
identità che consente all’uno di distinguersi dall’altro; da questo punto di vista, l’un termine si pone
di contro all’altro, stante il fatto che omnis determinatio est negatio: ciascuna determinazione è
negazione di ogni altra, così che solo negando è possibile determinare. Del resto, se negare implica
opporre le determinazioni, è altresì da rilevare, e questo è l’altro punto di vista, che le
determinazioni si pongono soltanto mediante il loro riferirsi reciproco: esse si pongono solo perché
si oppongono.

4. Relazione estrinseca e sintesi immanente

La relazione si rivela il luogo nel quale le determinazioni si vincolano per differenziarsi (opporsi) e
si differenziano nel vincolarsi. In essa, i termini esibiscono un’identità, che dovrebbe decretare
l’autosufficienza e l’autonomia della determinazione. Se non che, l’identità, in quanto determinata,
si pone per il suo intrinseco riferirsi ad altra identità, in modo tale che ogni determinazione si rivela
un costrutto intrinsecamente contraddittorio: ogni ‘A’ è in quanto si riferisce a ‘non-A’. Ogni ‘A’,
dunque, è in sé ‘non-A’. Precisamente per questa ragione per Hegel il determinato deve
trascendersi.
Il punto che deve venire sottolineato è il seguente: la relazione intesa come costrutto vale
come relazione estrinseca (äuβerliche Beziehung)12 e non come sintesi immanente (immanente
Synthesis)13. La relazione estrinseca assume come separabile anche ciò che è in sé inseparabile: i
termini della relazione, nel caso specifico immediatezza e mediazione, vengono posti ciascuno
come una determinazione dotata di una propria identità, laddove in effetti immediatezza e
mediazione si pongono perché rinviano reciprocamente l’una all’altra.
La relazione intrinseca implica due conseguenze fondamentali. La prima è che ciascun
termine deve venire pensato come emergente oltre l’aspetto formale che lo identifica
determinatamente, dunque deve venire pensato come un immediato che è anche l’atto del suo
mediarsi. La seconda conseguenza è che, venendo meno la determinatezza formale dei termini,
viene meno anche la relazione intesa nel senso formale del costrutto.
Il costrutto mono-diadico, insomma, ha valenza solo formale, perché a un livello più
profondo il mettere in relazione non può non configurare un unificare che aspira all’unità autentica:
«anche nella più imperfetta unione è contenuto un punto in cui l’essere e il nulla coincidono, e la
differenza loro sparisce (auch in der unvollkommensten Vereinigung ein Punkt enthalten, worin
Sein und Nichts zusammentreffen und ihre Unterschiedenheit verschwindet)»14.
Questo passo, che si riferisce alla relazione-unione di essere e nulla, vale anche per la
relazione-unione di immediatezza e mediazione. L’immediato che Hegel pone quale cominciamento
della logica è l’essere, il quale, proprio perché immediato, è indeterminato. Tale essere, tuttavia,

11
G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, p. 52.
12
G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, p. 34.
13
G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, p. 87.
14
G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, p. 72.
non coincide con il fondamento, ossia con quella condizione incondizionata che funge da
prerequisito della stessa attività unificante. Il fondamento dell’attività unificante, cioè del
conoscere, che è un conoscere per concetti, non può non essere l’unità, come già aveva indicato
Aristotele in forma icastica: «In effetti, noi conosciamo tutte le cose solo in quanto esista qualcosa
che è uno, identico e universale»15.
Di contro, l’essere che vale come cominciamento, proprio per il fatto che è indeterminato,
trapassa nel nulla, così che la mediazione ne costituisce l’intrinseca struttura. Ebbene, questo
mediarsi dell’immediato deve venire inteso in un duplice senso. Per il primo senso, l’essere prima si
pone e poi si media, così che il trapassare dell’essere nel nulla diventa un divenire. Questo senso
appartiene all’ordine formale o fenomenologico, perché mantiene la relazione come medio.
Se non che, oltre questo livello emerge il livello in cui solo l’unità costituisce la verità di
essere e nulla nonché di ogni relazione-unificazione. Poiché solo l’unità veramente è, la dualità (di
essere e nulla, di immediatezza e mediazione, di forma e contenuto, e così via) viene meno, così che
l’atto del relazionarsi, a rigore, risulta l’atto del trascendersi del determinato, cioè una ablatio
alteritatis: «Giacché in quanto s’intendano a questo modo come semplici forme, come diversi dal
contenuto, i concetti vengon presi come fissi in una determinazione che li impronta di finitezza, e li
rende incapaci di comprender la verità, che è in sé infinita (Wahrheit, die in sich unendlich ist).
Benché il vero, sotto un rapporto o sotto l’altro, possa esser di nuovo accompagnato dalla
limitazione e dalla finitezza, questo è però il lato della sua negazione, della sua non verità e irrealtà,
cioè appunto della sua fine, non il lato di quell’affermazione ch’esso è come vero»16.
Il passo è davvero capitale. In esso si esprime il concetto hegeliano di verità. Il vero, nella
sua infinità, cioè nella sua assolutezza, non può entrare in un qualche «rapporto»; «sotto un rapporto
o sotto l’altro», infatti, il vero scade a termine, dunque viene oggettivato, dunque viene limitato e
perde la sua essenza: l’infinitezza. Che è come dire: configurato a muovere da un determinato punto
prospettico (in welcher Rücksicht es sei), il vero viene negato e cessa di essere il reale stesso.
Il vero, insomma, trascende la relazione-contrapposizione di vero/falso nonché la loro
unificazione: «veritas norma sui et falsi»17, si potrebbe dire riprendendo Spinoza.
Tuttavia, poiché l’ordine nel quale ci si pone è quello fenomenologico-formale, cioè l’ordine
del pensare intellettualisticamente (l’ordine del linguaggio), anche per indicare (dire) l’emergenza
del vero lo si deve inglobare nel sistema delle determinazioni, ossia inevitabilmente lo si determina,
ancorché si affermi che esso non è in sé determinabile proprio perché trascendente ogni
determinazione finita.
L’ipotesi interpretativa che proponiamo può venire così espressa: l’ordine nel quale solo il
vero si impone configura l’ordine dell’innegabile, il quale non può venire confuso con l’inevitabile.
Quest’ultimo impone di determinare anche l’indeterminabile e lo impone perché dal dato non si può
prescindere nell’ordine che in forza del dato si costituisce. Ma l’imprescindibilità non è la verità: la
verità, piuttosto, è sapere il limite intrinseco di ciò che si presenta come imprescindibile. Ad essere
imprescindibile è il fatto, ma il fatto è la stessa domanda di ragione che possa legittimarlo. Se il
fatto coincidesse con la verità, la domanda di ragione non sarebbe mai sorta.

5. L’originario come struttura in Severino

Ciò che abbiamo cercato di mettere bene in evidenza è questo punto: per esplicitare che
all’originario, cioè al fondamento o principio, immane la necessità di estrinsecarsi, Severino parla
di struttura originaria, accogliendo dunque il punto di vista hegeliano per il quale la sostanza è
anche soggetto e il concetto è il suo farsi altro a se stesso per tornare in se stesso e valere come in sé
e per sé, cioè come spirito.

15
ARISTOTELE, Metaph., III, 4, 999a 26-27; trad. it. di G. REALE, Metafisica, Rusconi, Milano 1978, p. 151.
16
G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, p. 17.
17
B. SPINOZA, Ethica, parte II, prop. 43, scolio.
Se non che, ciò che vorremmo emergesse con chiarezza è un passaggio ulteriore: Severino
coglie bensì un aspetto fondamentale del punto di vista hegeliano, ma ne dimentica un altro, che, a
nostro avviso, è ancora ‘più fondamentale’, per usare un’espressione che viene legittimata dallo
stesso Severino nel parlare di essenza del fondamento. Ebbene, l’aspetto non considerato – e non
considerato perché lo stesso Hegel lo valorizza inadeguatamente – è quello per il quale il livello in
cui l’originario non può non estrinsecarsi, cioè il livello che abbiamo definito dell’inevitabile, non
può venire confuso con il livello nel quale la dualità e, dunque, la molteplicità vengono ricomprese
e tolte nell’unità del fondamento, livello che abbiamo definito dell’innegabile.
Si badi: in questo secondo livello la molteplicità viene ricompresa nell’unità non nel senso
dell’edificazione del sistema, cioè dell’unità di una molteplicità, bensì nel senso che le
determinazioni si tolgono in quell’uno, che è assoluto, perché solo l’uno assoluto (l’uno metafisico
e non numerico) costituisce l’autentico fondamento.
Per argomentare a favore della nostra ipotesi ermeneutica, seguiamo lo svolgersi del
discorso di Severino. Egli scrive: «Alla struttura originaria compete […] quanto Aristotele rileva a
proposito del principio di non contraddizione: che la sua stessa negazione, per tenersi ferma come
tale, lo deve presupporre. Sì che ad un tempo lo nega e lo afferma: lo nega in actu signato, e lo nega
afferma in actu exercito; e quindi, proprio perché insieme lo afferma e lo nega, non riesce a
negarlo»18.
Rileviamo una differenza significativa che sussiste tra il pensiero espresso da Severino e
quello di Aristotele. Lo Stagirita parla di principio; Severino dice che la struttura è l’essenza del
principio. Ci pare che, su questo punto, Severino vada più a fondo dello stesso Aristotele: se alla
posizione del principio è essenziale la posizione della sua tentata negazione, allora l’essenza del
principio è relazionale: esso è in quanto si rapporta, ancorché si rapporti alla sua tentata negazione.
Il principio, insomma, non è in sé compatto e monolitico, ma articolato e complesso, pur
rimanendo principio. L’unica figura logica che possa conciliare unità e dualità (molteplicità) è la
relazione, intesa appunto come costrutto mono-diadico. La tentata negazione del principio, quindi,
ha un valore enorme: è ben vero che essa si configura come negazione che finisce per negare se
stessa, e per questa ragione il principio emerge come innegabile, ma è altrettanto vero che senza
questo tentativo, anche se fallito, il principio non emergerebbe come principio.
Qual è il rischio di una simile posizione? Far poggiare il vero, cioè il principio, sul falso,
cioè sulla sua tentata negazione. Del resto, anche continuare a parlare di ‘principio di non
contraddizione’ mette in mostra il fatto che il principio postula il ‘non’, cioè la negazione, la quale,
proprio per potersi esercitare su qualcosa, deve postulare la contraddizione. In tal modo, il principio
emerge solo se si pone la contraddizione che rende determinata la negazione: precisamente questa è
la contraddizione che immane al principio di non contraddizione, se il principio viene inteso in quel
senso che Hegel definirebbe intellettualistico.
Qual è, invece, il vantaggio di una simile posizione? La possibilità che la negazione offre di
determinare il principio, il quale, grazie alla negazione, cessa di essere indeterminato. Severino ha
ben presente l’insegnamento hegeliano e spinoziano: omnis determinatio est negatio. Senza la
negazione non compare la determinazione, giacché il de-terminato è posto da un limite, che in tanto
lo pone in quanto lo vincola a ciò che si differenzia da esso, si oppone ad esso, si erge di contro ad
esso, così come ‘non-A’ si erge contro ‘A’, pur costituendone la condizionante posizionale.
Senza la negazione si rimane nell’immediato e indeterminato, in quell’essere che è solo il
cominciamento della Scienza della logica: assumere l’assoluto come indeterminato significa
infilarsi in quella notte in cui tutte le vacche sono nere. La questione, però, è se il negativo possa
essere reciproco e complanare al positivo o, detto altrimenti, se il positivo, che sia autenticamente
tale, possa accettare di essere de-terminato dal negativo. Se così fosse, infatti, ad avere valore
prioritario e fondante sarebbe l’alternativa-opposizione di negativo e positivo: di qui il valore
originario della relazione.

18
E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 107.
Non ci pare senza significato il fatto che Severino usi proprio la parola «presupporre» a
proposito del principio: «la sua stessa negazione […] lo deve presupporre». Ebbene, se di
presupposizione si tratta, allora il principio viene a collocarsi in un circolo, per il quale la negazione
presuppone il principio, ma il principio presuppone la negazione, all’infinito. Il circolo della
presupposizione non mette capo ad un’autentica fondazione, ma solo alla sua contraffazione:
impone all’originario (principio) un’intrinseca struttura relazionale, ossia ingloba la negazione nella
costituzione dell’originario.
Poiché determinato, il principio è anche esposto semanticamente. La sua determinatezza, in
altri termini, lo rende dicibile e Severino può scrivere: «L’esplicitazione della qual cosa esige però
l’esposizione della struttura originaria (mostrare cioè che la negazione della struttura originaria è
possibile solo presupponendo questa struttura stessa – o che la condizione della negazione è quello
stesso che vien negato –: mostrare questo importa innanzitutto che la struttura originaria sia
disvelata, esposta); e quindi esige un notevole sviluppo discorsivo»19.

6. L’originario e la sua esposizione

Per Severino, l’originario può venire esposto perché la sua essenza è una struttura, dunque una
relazione. La relazione è in nuce un discorso e non è affatto un caso che con l’espressione
‘relazione’ si possa intendere proprio un discorso, come nella formula ‘svolgere una relazione’.
L’espressione italiana proviene dal participio passato del verbo latino referre, che significa
‘riportare, riferire’. Il riferire un termine all’altro esprime il valore di segno dei termini stessi: l’uno
c’è per il suo inviare all’altro, così che l’uno è segno dell’altro. Del resto, il discorso intende
riportare (riferire) la cosa, cioè la realtà, per come essa effettivamente è. In tal modo, si potrebbe
affermare che la relazione costituisce l’essenza del dire, sia perché il dire è un riferire, sia perché
ogni discorso è un textus, cioè una tessitura, nel senso dell’intrecciarsi di fili (riferimenti). Questi
riferimenti sussistono tra segno e segno, configurando l’ordine (ordito) sintattico e tra segno e
significato, configurando l’ordine (ordito) semantico.
Gli elementi della struttura originaria, afferma ancora Severino, possono venire reperiti nella
storia del pensiero (discorso) filosofico e, in particolare, essi possono venire ridotti all’«aristotelico
binomio principio di non contraddizione-conoscenza immediata»20, proprio in ragione del fatto che
la dualità è la molteplicità espressa nella sua forma essenziale, oltre che la condizione del porsi
della relazione come costrutto.
Tale binomio non fa che riprodurre la relazione-opposizione di immediato e mediato, i quali
vengono pensati l’uno come vincolato all’altro. In questo senso, è possibile affermare che, poiché
vincolati in forza della contrapposizione, immediato e mediato sono collocati al livello in cui si
afferma il primato della mediazione. Poiché, però, la relazione poggia sull’essere dei termini, il
livello della mediazione poggia su quello in cui si afferma il primato dell’immediato, all’infinito.
Ciò che a noi sembra di poter opporre al discorso di Severino, colto nei suoi punti essenziali,
è quanto segue: se il vincolo non viene inteso come intrinseco tanto all’immediato quanto alla
mediazione e non impone a ciascun termine di trascendere la sua parvente identità determinata, per
il fatto che ciascuna identità determinata è insufficiente a se stessa, allora si finisce con il far
poggiare l’insufficienza dell’un termine sull’insufficienza dell’altro, nella convinzione che la
relazione, intesa come sintesi estrinseca, possa produrre una qualche sufficienza e non produrre,
come invece è, una insufficienza elevata al quadrato.
A noi pare che nel parlare di struttura originaria, e nel far valere un immediato che è in sé
mediazione, si configuri una vera e propria contraddizione. Se, infatti, l’unità degli opposti viene
assunta come fondamento, anzi come la struttura essenziale del fondamento, allora la realtà
intrinseca di quest’ultimo non può non coincidere con il suo stesso estrinsecarsi: «L’esposizione
19
E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 107.
20
E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 108.
concreta della struttura originaria mostra infatti che la metafisica, come teorematicità o categoricità,
appartiene alla struttura stessa dell’immediato. Il sapere metafisico non è, rispetto al fondamento,
un’ulteriorità da conseguire, ma appartiene all’essenza stessa del fondamento»21.
Severino ritiene che la sua posizione configuri un autentico ritorno all’essenza pura della
metafisica e, in particolare, a quella di Parmenide, con una significativa differenza, che rende la sua
posizione ancora più profonda, da un punto di vista teoretico: l’essere di Parmenide non vale più
soltanto come originario, ma viene ad includere anche la consapevolezza di questa originarietà. Non
a caso, Severino scrive: «L’originaria teorematicità metafisica è invece, riguardata da un punto di
vista storico, il ritorno alla pura essenza della metafisica, quale si realizza nel pensiero di
Parmenide; con in più la consapevolezza dell’originarietà di quella pura essenza»22.
Ci pare che questo passo giustifichi quanto da noi affermato e cioè che si parla di struttura
originaria perché solo lo sdoppiarsi in sé dell’essere garantisce il suo diventare consapevole di se
stesso. Una posizione pleno iure hegeliana, in cui la mediazione dell’immediato consente di parlare
di coscienza e di sapere. La struttura, inoltre, non indica soltanto il differenziarsi del fondamento,
ma altresì il suo esporsi, così che «La storia del fondamento è un elemento o un momento essenziale
del fondamento stesso»23. O, in altre parole, «la posizione del fondamento implica essenzialmente il
toglimento della negazione del fondamento; o che questo si realizza come apertura originaria della
verità solo in quanto è in grado di togliere la sua negazione, e quindi solo in quanto sta in relazione
con questa»24.
Quest’ultimo passo viene ulteriormente ribadito e precisato da Severino: «Se la storia del
fondamento è il concretarsi dell’universalità della sua negazione, è infatti in rapporto allo sviluppo
della negazione che il fondamento esercita il suo valore»25. Il punto è centrale e deve venire
adeguatamente meditato. La posizione del fondamento, cioè della verità, è vincolata alla posizione
della sua tentata negazione, la quale nega se stessa perché in sé falsa. La posizione della verità si
vincola, dunque, e pertanto si subordina al falso, così che è solo in rapporto alla negazione, cioè al
negativo, che il positivo «esercita il suo valore», cioè vale come fondamento: «È dunque rispetto
allo sviluppo della negazione (fenomenologia dell’errore) che il fondamento si tien fermo»26.
Secondo noi, avere pensato l’originario nella forma di una struttura comporta avere
decretato il valore originario della relazione. Quest’ultima, inoltre, viene pensata nel modo del
costrutto, perché solo così essa svolge la funzione di determinare l’originario: solo la relazione pone
l’opposizione dei termini, ossia il fatto che l’uno si oppone al venire ridotto all’altro.
Solo la relazione, dunque, pone la negazione, la quale postula comunque di esercitarsi sul
suo negato, dunque postula la relazione con esso. E proprio perché l’originario viene determinato
dalla relazione, che è la condizione di possibilità della negazione, esso può venire espresso da un
giudizio originario: «Chiamiamo “giudizio originario” l’affermazione in cui si realizza la struttura
originaria»27. E da questa affermazione consegue un’altra considerazione, di notevolissima
rilevanza teoretica: «Nella misura in cui la struttura originaria si realizza come una complessità
semantica, l’esposizione dell’originario è un’analisi dei termini che costituiscono tale
complessità»28.
Lo sviluppo del discorso sulla struttura originaria, cioè l’intera opera di Severino, poggia
precisamente sui punti indicati e, in particolare, sul seguente: «Qui importa avvertire che la
fondatezza dell’analisi è data dalla compresenza della sintesi corrispondente. Ossia che la
fondatezza del modo di presentazione della struttura originaria […] è data dalla compresenza del

21
E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 109.
22
E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 109.
23
E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 110.
24
E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 111.
25
E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 113.
26
E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 113.
27
E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 114..
28
E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 116.
modo di presentazione di tale struttura, che consiste nella posizione della relazione dei termini
stessi»29.
Rimane così acclarato il fatto che la struttura originaria è una relazione nella quale
coesistono il momento dell’analisi, per cui i termini sono due e possono venire anche considerati
astraendo l’uno dall’altro, e il momento della sintesi, che unifica bensì i termini, ma senza risolverli
mai nell’autentica unità, che decreterebbe il venir meno della relazione e, dunque, della struttura
originaria. Non di meno, è in forza della relazione, e della negazione da essa implicata (per la quale
l’un termine non è l’altro), che l’originario può venire determinato.
La volontà di determinare l’originario, insomma, impone la necessità di introdurre in esso la
relazione. La struttura originaria si svolge, infatti, come un susseguirsi di riflessioni,
teoreticamente raffinatissime, sul concetto di relazione, che la colgono nella sua intrinseca dinamica
e nel suo articolato costituirsi.
Lo stesso concetto di ‘concreto’, del resto, è espressione di questa dinamica, essendo
vincolato al concetto di distinzione: «Si osservi intanto che il fine della discorsività, intesa come
momento astratto, può essere inteso o come esso stesso l’altro lato dell’astrattezza (ossia come
semplice intuire), o come lo stesso concreto: come unità del discorrere e dell’intuire. Nel primo
caso lo stesso fine è un astratto. Nel secondo caso i termini che stanno nel rapporto finale si
distinguono in modo tale che uno dei distinti non è privato, in quanto distinto, di ciò da cui si
distingue; e cioè è la stessa distinzione come posta: è il distinguere, o appunto il concreto»30.
La concretezza della distinzione, non di meno, consiste nel considerare i distinti anche per il
loro reciproco implicarsi e proprio per questa ragione Severino, in uno dei paragrafi conclusivi della
sua opera e intitolato Aporia e soluzione, scrive: «Questa situazione aporetica [cioè quella
concernente il rapporto tra la totalità della realtà diveniente e l’intero] è risolta nel modo seguente.
In generale, tale aporia si produce solo in quanto, ad un tempo, da un lato la relazione semantica tra
l’intero immutabile e la realtà diveniente viene astrattamente considerata e il concetto della realtà
diveniente è astrattamente separato dal concetto dell’intero immutabile; e dall’altro lato quella
relazione vien tenuta ferma. L’aporia sorge cioè in quanto si vogliono tenere ferme due operazioni
logiche tra loro contraddittorie. […] L’aporetica è dunque tolta in quanto, in primo luogo, si
rinuncia a tenere ferme entrambe quelle due operazioni tra loro contraddittorie; e, in secondo luogo,
in quanto il concetto del diveniente non viene astrattamente separato dal concetto
dell’immutabile»31.
Concreto e astratto si pongono solo all’interno della dialettica relazionale e cioè del
reciproco distinguersi e implicarsi dei distinti nonché dell’assunzione di ciò che è distinto come
separato. L’aporia sorgerebbe, inoltre, per la pretesa di tenere ferme operazioni che sono «tra loro
contraddittorie». Rileviamo, per inciso, che ci pare abbia senso parlare di contraddizione tra due
operazioni distinte solo in quanto si tenta di conciliarle in un medesimo. Proprio per questo ci
sembra un pleonasmo l’espressione «autocontraddittorio», cui Severino frequentemente ricorre:
contraddizione aut è contraddizione con sé aut non è contraddizione affatto.
Il punto più rilevante, tuttavia, è un altro: la relazione ha valore fondamentale. Se non che,
introdurre la relazione nell’intero non può non trasformare l’intero in un composto o, che è lo
stesso, in una «totalità». Che sia effettivamente così lo si evince da numerosissimi passi, ma, in
particolare, da uno di essi che precede quello citato: «Infatti, in quanto l’“essere” vale come lo
stesso intero semantico, come la stessa totalità del positivo, esso include la totalità delle connessioni
L-immediate […]. […] Sì che si può affermare che tale sistema [il sistema delle connessioni L-
immediate] “include” quella connessione [la connessione “L’essere è”], solo in quanto si prescinda
dal fatto che il soggetto della connessione “L’essere è” è la stessa totalità delle connessioni L-
immediate; e si può dire che l’essere “include” quel sistema solo in quanto si prescinda dal fatto che

29
E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 116.
30
E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 123.
31
E. SEVERINO, La struttura originaria, pp. 551-552.
ogni determinazione dell’intero entra in quel sistema per lo meno in quanto essa è identica con sé
medesima e negazione dell’altro da sé»32.
Ciò che intendevamo dimostrare, e che ci pare emerga piuttosto chiaramente dall’opera di
Severino, è che solo la relazione, intesa come struttura dell’originario, consente di determinare
l’intero e di intenderlo come «totalità». Quest’ultima vale come il sistema dei determinati, così che
ogni determinazione viene intesa come determinazione dell’intero stesso. Severino ritiene in tal
modo di poter conciliare l’originarietà del fondamento con la sua determinatezza.

7. Il fondamento come originario

Il punto di vista che abbiamo cercato di illustrare può venire così riassunto: il prezzo che viene
pagato per determinare l’originario è altissimo: il positivo viene vincolato inscindibilmente al
negativo e il vincolo, cioè la relazione, viene assunto come l’essenza stessa del fondamento.
Indubbiamente, intendere la relazione come fondamento svolge due funzioni molto rilevanti.
Innanzi tutto, consente appunto di determinare il fondamento; in secondo luogo, sembra legittimare
l’universo delle determinazioni, le quali, grazie alla relazione, vengono vincolate al fondamento e
giustificate da esso.
Tuttavia, a noi sembra che il valore del fondamento non possa venire confuso con
l’eventuale funzione da esso svolta in riferimento (relazione) ad altro da sé. Il valore non può non
coincidere con l’auto-fondarsi del fondamento, ossia con la sua assolutezza. Quell’assolutezza che,
invece, viene negata dalle funzioni che si pretende esso svolga.
L’universo delle determinazioni necessita di un fondamento proprio perché nessuna di esse è
sufficiente a se stessa, è fondamento di se stessa. Ciascuna, infatti, si pone solo in quanto si vincola
ad altra determinazione, così che pensare il fondamento in forma determinata o pensarlo come
relazione non può non riprodurre la dipendenza: anche la relazione dipende dai relati, quanto i relati
dalla relazione. Se ne ricava che il valore di un fondamento inteso come relazione si risolve nella
funzione che questa dispiega: la funzione dell’unificare ciò che, in effetti, è inseparabile.
Il punto più importante da comprendere è proprio questo, come abbiamo cercato di
evidenziare anche nel discorso svolto sulla concezione hegeliana: l’inseparabile viene riunificato
solo perché insensatamente separato, così che l’unificazione non è mai la restituzione dell’intero,
cioè dell’unità autentica, ma solo la configurazione di un composto. È ben vero che solo il composto
può venire determinato in forza delle sue componenti, ma è altrettanto vero che esso è solo la
contraffazione dell’intero, perché ne postula l’inintelligibile scomposizione, dalla quale – e solo
dalla quale – può acquisire un significato la riunificazione delle componenti.
L’intero è l’unità, ma non intesa come sintesi, bensì come ablatio alteritatis, ossia come il
venir meno dei termini che costituiscono la relazione, cioè come il venir meno delle componenti
determinate, le quali a rigore non restituiscono l’intero in forza della loro composizione
(riunificazione), ma solo la parvente unità del composto.
Se, insomma, il fondamento venisse determinato, allora non potrebbe non ricadere in
quell’ordine dei determinati che costituisce proprio ciò che domanda un fondamento. In quanto
richiesto come assoluto, il fondamento deve emergere oltre la serie (ordine) dei determinati, così
che è preclusa la possibilità di vincolarlo in qualche modo: il suo valore nega la funzione che si
pretende esso svolga.
Con altre parole: se si richiede un fondamento assoluto, e lo si richiede perché solo
l’assoluto è un vero fondamento, allora si deve riconoscere che tale esigenza, espressa dall’ordine
delle determinazioni, non trova un compimento fattuale. Il fondamento che viene richiesto si sottrae
al vincolo e non può, per questa ragione, venire usato strumentalmente. Esso permane un ideale
della ricerca, non un punto d’arrivo che sia determinabile.
32
E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 516.
Tuttavia, questo non significa far ricadere il fondamento nel polo dell’indeterminatezza:
determinato e indeterminato sono i termini di una nuova relazione oppositiva che si pretende inglobi
l’intero, laddove l’intero è tale proprio perché emerge oltre di essa.
In questo senso Hegel, già a muovere dal Frammento sistematico, parla dell’unità dell’unità
e della non unità e sottolinea, poi, il fatto che all’unità autentica non si perviene, ancorché essa sia
la fonte della sua stessa ricerca: «Ma a questa unità non si riflette (Aber auf diese Einheit wird nicht
reflektiert). E nondimeno è soltanto questa unità, che evoca nel finito l’infinito e nell’infinito [che
ancora si contrappone al finito] il finito (im Endlichen das Unendliche, und im Unendlichen das
Endliche hervorruft). Essa è per così dire la molla del progresso infinito (sie ist sozusagen die
Triebfeder des unendlichen Progresses). Questo progresso è l’esterno di cotesta unità, un esterno a
cui la rappresentazione si ferma (Er ist das Äuβere jener Einheit, bei welchem die Vorstellung
stehen bleibt)»33.
Il fondamento, cioè la vera unità, non può non andare oltre ogni contrapposizione, dunque
oltre ogni relazione, inclusa la relazione-contrapposizione di determinato e indeterminato. Per
rendere ancora più chiaro il concetto dell’unità autentica e del suo trascendere i termini che unifica,
Hegel scrive nella Fenomenologia dello spirito: «Così le espressioni: unità di soggetto e oggetto, di
finito e infinito, di essere e di pensare ecc., hanno l’inconveniente che i termini soggetto, oggetto,
ecc. significano ciò che essi sono al di fuori della loro unità; e così nell’unità, quindi, non sono da
intendersi così, come suona la loro espressione»34.
La domanda che si impone, pertanto, è la seguente: come intendere l’unità che trascende
relazione e contrapposizione? Rispondere alla domanda comporta la necessità di ripensare
adeguatamente il concetto di relazione. Abbiamo parlato, infatti, di un duplice modo di intendere
tale concetto, ma non lo abbiamo adeguatamente esplicitato.

8. Il concetto di relazione

Come definire, dunque, il concetto di relazione? Il modo ordinario di intendere la relazione la pone
come un costrutto formato da due termini estremi (‘A’ e ‘B’) e un nesso (r) che li vincola. Per
questa ragione, si parla anche di costrutto mono-diadico e lo si esprime in questa formula: r (‘A’,
‘B’).
Il costrutto relazionale, ancorché costituisca la struttura espressa nella sua forma elementare,
si è rivelato un costrutto problematico. La sua problematicità sta nel fatto che, se la relazione è
pensata come intercorrente tra ‘A’ e ‘B’, allora essa si propone come un nuovo termine, un quid
medium, che tanto unisce ‘A’ e ‘B’, quanto divide ‘A’ da ‘B’. Indicando questo medio con la lettera
‘C’, si vengono così a configurare due nuove relazioni: quella intercorrente tra ‘A’ e ‘C’ e quella
intercorrente tra ‘C’ e ‘B’. Dalle due nuove relazioni originano due nuovi medi, e così via
all’infinito.
L’inaccettabilità di un regressus in indefinitum viene evidenziata da Platone nel Parmenide,
proprio quando l’Eleate riflette sulla relazione tra i modelli ideali e le cose35. Aristotele, nella
Metafisica, sottolinea a più riprese il carattere aporetico del concetto platonico di ‘partecipazione’36,
nel caso in cui la partecipazione esprima la relazione in forma di medio, e tale aporia è stata poi
definita del terzo uomo.
Nel caso della relazione, intesa come costrutto mono-diadico, a noi sembra che si abbia a
che fare con un’antilogia, cioè con una contraddizione, piuttosto che con un’aporia. La
contraddizione, infatti, deve venire intesa nel senso del dicere et non dicere (non nel senso del

33
G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, pp. 144-145.
34
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, pp. 31-32.
35
PLATONE, Parm., 130e-134a; trad. it. di A. ZADRO, Parmenide, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 20-25.
36
ARISTOTELE, Metaph., I, 9, 990b 1-18; trad. it. di G. REALE, Metafisica, Rusconi, Milano 1978, p. 105.
dicere contra, che configura una contrapposizione). Un costrutto, pertanto, risulta contraddittorio
quando toglie ciò che pone: più precisamente, quando toglie nel porre.
Secondo le stesse indicazioni di Aristotele, la contraddizione deve venire distinta dalla
contrarietà. Parlando dell’opposizione, lo Stagirita afferma che contrari sono quei termini che
ammettono termini intermedi (ad esempio, il bianco e il nero, che ammettono una gradazione di
grigi); contraddittori quelli che non li ammettono (ad esempio, bianco/non bianco). I contraddittori,
dunque, danno luogo ad un’alternativa che, per così dire, divide in due sezioni il campo del reale: il
‘qualcosa’ cade necessariamente nell’uno o nell’altro dei due campi37.
L’alternativa è, quindi, una relazione disgiuntiva esclusiva (aut, aut) e la conciliazione dei
termini è impossibile. Tale conciliazione costituisce, appunto, una contraddizione, la quale altro non
è che la conciliazione di inconciliabili. Rileviamo che un pensatore di matrice hegeliana come
Bradley ha tematizzato a lungo il concetto di relazione, del quale ha messo in luce la circolarità. In
Apparenza e Realtà, infatti, così egli scrive: «La nostra conclusione sarà, in breve, la seguente: la
relazione presuppone la qualità [i termini], e la qualità la relazione; nessuna delle due può esistere
indipendentemente dall’altra né in sua compagnia e il circolo vizioso nel quale entrambe si
avvolgono non può essere l’ultima parola sulla realtà»38. A nostro giudizio, più radicalmente, la
relazione costituisce precisamente la conciliazione di inconciliabili, cioè la contraddizione stessa.
Essa, come abbiano già cercato di evidenziare, postula infatti l’identità dei relati (‘A’ e ‘B’)
e la postula secondo la forma in cui l’identità viene ordinariamente concepita e cioè tale che tanto
‘A’ quanto ‘B’ risultino ciascuno identico con se stesso e per questo differente da ogni altro. ‘A’ e
‘B’ sono due identità, cioè due realtà che possono bensì venire distinte, ma solo in quanto
esibiscono una propria autonomia e autosufficienza. Inoltre esse, proprio in forza del loro
distinguersi, possono anche venire assunte indipendentemente l’una dall’altra.
Del resto, se ciascuna identità non potesse venire considerata per la propria autonomia,
allora non potrebbe nemmeno venire codificata e non si potrebbe dire ‘A’ né si potrebbe dire ‘B’.
Se si dice ‘A’, insomma, allora con tale lettera si indica un’identità che si pone indipendentemente
da altro e lo stesso vale per ‘B’.
Se non che, è precisamente a muovere da questo punto che si configura il problema. La
relazione, infatti, viene a conciliare due esigenze che non possono non escludersi reciprocamente.
Da un certo punto di vista, infatti, essa postula l’identità dei relati; da un altro punto di vista, invece,
finisce per negarla. La nega perché richiede che l’identità dell’uno non sia chiusa, cioè
effettivamente autonoma e autosufficiente, ma sia aperta all’identità dell’altro, onde giustificare il
loro vincolo. Il fatto è che proprio il vincolo non si concilia con l’autonomia delle identità, nel senso
che, se ‘A’ è ‘A’ perché è autonomo, nel momento stesso in cui entra in relazione con ‘B’ perde la
sua autonomia e, dunque, cessa di essere ‘A’. Se, infatti, non venisse meno come ‘A’, nessuna
relazione si sarebbe instaurata.
Gioverà ricordare che proprio questo aspetto viene adeguatamente messo in luce da Duns
Scoto, il quale afferma che, se l’unione di ‘A’ e ‘B’ esprime non altro che gli stessi ‘A’ e ‘B’
assoluti, cioè autonomi e autosufficienti, allora il composto di ‘A’ e ‘B’ non differisce in nulla da
‘A’ e ‘B’ separati, così che non è un composto affatto. Con questa conseguenza: la relazione, nel
caso in cui ‘A’ e ‘B’ non subiscano una trasformazione, non si è effettivamente instaurata39.
Per trovare una soluzione al problema indicato, e cioè per evitare che il costrutto risulti
contraddittorio, si potrebbe ipotizzare che ‘A’ sia ‘A’ prima di entrare in relazione con ‘B’ e diventi
‘A1’ dopo essere entrato in tale relazione (e lo stesso varrebbe per ‘B’, che diventerebbe ‘B1’). In
questo caso, però, ci si troverebbe di fronte al fatto che verrebbero a riproporsi due nuove relazioni:
quella tra ‘A’ e ‘A1’ e quella tra ‘B’ e ‘B1’, in modo tale che la difficoltà precedentemente rilevata si

37
Cfr. ARISTOTELE, Metaph., X, 7, 1057a 18-32; trad. it., Metafisica, p. 428.
38
F.H. BRADLEY, Appearence and Reality, Clarendon Press, Oxford 1897, p. 16; tr. it. di D. SACCHI, Apparenza e
realtà, Rusconi, Milano 1984, p. 163.
39
Cfr. DUNS SCOTO, Opus Oxoniense, II, d. 1, q. 4, n. 5, in Opera omnia, ed. Commissione scotistica diretta da C.
Baliç, Typis Vaticanis, Città del Vaticano 1950.
presenterebbe di nuovo. Tanto ‘A’ quanto ‘B’, infatti, dovrebbero valere come due identità che, pur
essendo richieste come autonome, non potrebbero evitare di porsi in forza del rapporto ad altro.
La relazione, pertanto, richiede i termini come se fossero due identità distinte e autonome
(‘A’ non è ‘B’), ma, insieme e contraddittoriamente, come se l’un termine si fondasse sull’altro (‘A’
c’è perché c’è ‘B’; ‘A’ non può stare senza ‘B’). Che è come dire: il costrutto mono-diadico
concilia l’indipendenza dei termini con la loro reciproca dipendenza e, cioè, concilia ciò che è in sé
inconciliabile.
Ci si trova, quindi, di fronte ad un problema e si impone la necessità di uscirne. Per cercare
di risolvere il problema, tanto l’indipendenza quanto la dipendenza dei termini potrebbero venire
intese in senso relativo. Se, infatti, si assumessero l’autonomia e l’autosufficienza dei termini in
senso assoluto, allora non solo si negherebbe il fatto che essi sono in relazione, ma anche il fatto che
‘A’ e ‘B’ sono determinati: ogni identità si determina, infatti, solo perché si differenzia. Tuttavia,
una qualche forma di indipendenza dei termini deve venire mantenuta, se si intende distinguere ‘A’
da ‘B’ e la soluzione potrebbe essere, appunto, quella di considerare l’indipendenza solo relativa.
Reciprocamente e scambievolmente, anche la dipendenza dei termini non potrebbe venire
intesa come assoluta. Se fosse assoluta, allora ciascun termine si capovolgerebbe immediatamente
nell’altro, si confonderebbe con l’altro e, in tal modo, entrambi verrebbero meno, dal momento che
verrebbe meno la determinatezza di ognuno (che poggia sulla loro identità e che consente di
distinguerli), così che verrebbe meno, a fortiori, anche la relazione. Se ne deve concludere che
anche la dipendenza andrebbe intesa in senso relativo.
Per mantenere il costrutto relazionale, dunque, si ipotizza la relativa indipendenza dei
termini e la loro relativa dipendenza. Se non che, anche questo tentativo, volto ad evitare che la
relazione si risolva nella contraddizione, risulta vano. Non si può parlare di relativa indipendenza
dei termini, per la ragione che, anche se l’indipendenza viene intesa nella sua forma ‘debole’, essa
viene smentita dal fatto che l’identità è determinata in forza del suo intrinseco rinviare ad altro da
sé. Se, però, il rinviare è intrinseco, cioè costituisce l’identità, non solo non c’è indipendenza,
nemmeno relativa, ma la stessa dipendenza non può venire intesa come soltanto relativa.
Ciò che consente di de-terminare l’identità è il limite, il quale solo dal punto di vista della
rappresentazione si dispone tra le identità. Da un punto di vista concettuale, invece, esso entra nella
costituzione intrinseca dell’identità, così che il mantenimento di una differenza estrinseca tra le
determinazioni deve venire pensato come disponentesi ad un livello diverso rispetto a quello in cui
vige il loro intrinseco riferirsi.
Il punto sul quale riteniamo di dover insistere, perché centrale, è questo: se la differenza vale
come esterna (estrinseca) rispetto all’identità, allora si impone quello che, seguendo l’indicazione
hegeliana, abbiamo definito l’ordine formale; di contro, se vale il loro intrinseco riferirsi, allora si
impone il superamento dell’ordine formale e tale superamento coincide con la mediazione
dell’immediato, cioè con la consapevolezza che la relazione deve venire intesa come atto e non
come medio tra estremi.

9. L’emergere del fondamento

Riconoscere il valore intrinseco della mediazione, dunque, non può non comportare la
trasformazione dell’immediato, il quale non viene più inteso come un dato o un fatto, ma come
l’atto del suo andare oltre se stesso, l’atto del suo trascendersi.
Si potrebbe anche dire in questo modo, per riprendere quanto abbiamo affermato proprio a
proposito dell’identità determinata: poiché ogni determinazione è se stessa in quanto si riferisce ad
altra determinazione, essa è, in sé, sé e non sé, ossia è una contraddizione. Quando parliamo di
contraddizione, non intendiamo indicare ‘qualcosa che è’, ma qualcosa che è tutt’uno con il suo
negarsi. La contraddizione, insomma, non configura uno status, ma il suo stesso contraddirsi. E
tuttavia, il contraddirsi della contraddizione non significa la cancellazione empirica del dato, ma il
suo inveramento.
Usando ancora la terminologia hegeliana, con l’espressione ‘inveramento’ intendiamo
indicare un Auf-hebung che è un Er-hebung, ossia un togliersi che è un elevarsi. L’espressione
Erhebung è giustificata dal fatto che la determinazione, la quale si pone nell’ordine formale perché
esibisce la propria immediatezza, cioè la propria presunta identità autonoma, se viene colta nel suo
autentico essere, allora si rivela mediazione in atto, dunque il trascendere l’immediatezza sancita
dalla forma, dunque il tendere verso un livello che sia ulteriore.
La mediazione dell’ordine della forma, o ordine della rappresentazione, non significa la sua
sostituzione: il livello in cui la forma si impone non è quello in cui ne emerge il limite di
intelligibilità. Per questa ragione abbiamo sostenuto che il primo livello configura l’inevitabile, cioè
ciò da cui non si può prescindere, laddove il secondo livello configura l’innegabile, cioè il livello
del fondamento, che è innegabile perché è il prerequisito non solo della negazione, ma di ogni
determinazione nonché della relazione tra le determinazioni.
Quanto detto consente di precisare un aspetto che giudichiamo molto importante per
compiere una corretta interpretazione del testo hegeliano. Coloro che pensano che Hegel abbia
sostituito alla logica aristotelica, basata sul principio di non contraddizione, una logica dialettica,
basata sul principio di contraddizione, non hanno compreso che per Hegel la contraddizione non
può non superarsi. Essa deve superarsi perché solo l’incontraddittorio è vero, dunque solo
l’incontraddittorio veramente è.
Hegel lo afferma a più riprese, ma un passo è, a nostro giudizio, davvero esemplare. Il passo
compare in una Aggiunta al paragrafo 119 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche e suona così:
«Ciò che muove il mondo in generale è la contraddizione, ed è ridicolo dire che la contraddizione
non può venire pensata. Quest’affermazione è giusta solo in quanto non ci si può accontentare della
contraddizione e la contraddizione supera se stessa mediante se stessa. La contraddizione superata
non è però l’identità astratta, perché questa è soltanto un lato dell’opposizione. Il risultato prossimo
dell’opposizione posta come contraddizione è il fondamento che contiene in sé tanto l’identità
quanto la distinzione come superate e deposte a puri momenti ideali (ideell)»40.
Il punto cruciale, dunque, consiste nell’intendere il fondamento come trascendente la
relazione-contrapposizione di immediato e mediato o di indeterminato e determinato. Se si afferma
che il vero, poiché assoluto, è indeterminato e indeterminabile, allora non lo si intende davvero
come assoluto, perché lo si assume come un polo della contrapposizione. In effetti, questo diventa il
naturale punto d’approdo di una concezione che rimane vincolata al costrutto relazionale e finisce
per assolutizzarlo.
Rileviamo, a questo proposito, che lo stesso Severino non manca di sottolineare la necessità
di oltrepassare la contrapposizione, se non che poi egli così descrive tale superamento:
«L’oltrepassamento non si realizza però come un “metter da parte” la contrapposizione, ma come la
fondatezza o il valore di uno dei due termini che costituiscono tale contrapposizione:
l’oltrepassamento non è l’emergere di un medio tra l’affermazione e la negazione – onde
l’annullamento le investirebbe entrambe –, ma è, dicevamo, l’emergere del fondamento di uno dei
due termini contrapposti, è il venire a tenersi fermo di uno dei due»41.
Severino, questo è il punto, intende il fondamento in forma determinata, perché lo
contrappone all’indeterminato, cioè all’annullamento della determinazione. Indubbiamente, se si
rimane vincolati all’ordine formale, cioè all’ordine del linguaggio, aut si pone l’assoluto
(fondamento, principio) come indeterminato aut come determinato. In tale ordine, infatti, viene
assunta come indiscutibile la relazione e, in particolare, la relazione disgiuntiva esclusiva, sulla
quale poggia la stessa alternativa vero/falso. A nostro giudizio, invece, la riflessione critica consente

40
G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, p. 321.
41
E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 147.
l’emergere di un ulteriore livello, che trascende quello formale e che permette di riflettere su di
esso. Abbiamo definito ‘trascendentale’ questo livello proprio per distinguerlo dall’altro e per
evidenziare che esso si pone come ulteriore non nel senso che si pone in forza del livello formale,
ma nel senso che coincide con il togliersi del formale, perché in sé insufficiente a se stesso.
Se il superamento poggiasse su ciò che viene superato, non si avrebbe mai effettivo
superamento. Questo punto deve venire tenuto fermo anche per interpretare correttamente il
superamento del finito nell’infinito indicato da Hegel. La soluzione che noi abbiamo cercato di
proporre è la seguente: il superamento è, a rigore, un venir meno a sé di ciò che non è, in sé,
sufficiente a se stesso.
L’insufficienza a sé del formale, del resto, risulta anche da questa considerazione:
l’alternativa vero/falso, da un lato, pone il vero come uno dei termini; dall’altro, vale essa stessa
come vera nel suo comporsi di entrambi i termini. Ciò implica che la verità dell’alternativa, cioè
della relazione, è assunta come disponentesi ad un livello ‘più fondamentale’ rispetto a quello nel
quale il vero compare solo come un termine. Precisamente per questa ragione Severino parla di
essenza del fondamento e ravvisa tale essenza nella struttura relazionale, che vale come la struttura
dell’originario. Il fatto è, però, che assumere come vera la contrapposizione del vero al falso
significa assumere come veri i contrapposti, dunque significa assumere il falso come se fosse vero.
Inoltre, significa porre il falso come condizionante posizionale del vero, ossia come ciò che
consente al vero di porsi come vero: il vero, se viene determinato, si pone solo in quanto si
contrappone.
In conseguenza di ciò abbiamo affermato, da un lato, che il vero, se pensato nel suo essere
autentico, non può venire determinato, neppure come indeterminato, giacché si pone oltre la
contrapposizione; dall’altro, che il livello in cui la relazione vale come fondamento è il livello in cui
si impone la contraddizione. Se non che, e questo è il nodo cruciale, la contraddizione viene
riconosciuta nel suo essere contraddittorio e ciò non può non implicare l’emergere della
consapevolezza incontraddittoria del suo essere, appunto, mera contraddizione.
Il livello in cui si pone la relazione non è, insomma, il livello in cui essa viene colta come
contraddizione; quest’ultimo livello è necessariamente ulteriore rispetto al precedente, emergente su
di esso e oltre di esso. Che è come dire: la consapevolezza del carattere contraddittorio della
relazione si pone in virtù dell’incontraddittorio stesso, il quale costituisce l’originario, il
fondamento, perché trascende l’ordine della forma stante che di tale ordine consente di cogliere il
limite.
In questo senso, si palesa la ragione per la quale l’unità del fondamento, che è
incontraddittoria proprio perché è autentica unità, non può venire ridotta a sintesi, ad unificazione,
che mantiene valenza relazionale, ma deve venire intesa come l’atto del trascendersi della relazione
in quanto costrutto.
Volendo riferirci ancora alla lezione hegeliana, potremmo dire che, se la coscienza mantiene
carattere relazionale, cioè vale come coscienza in cui la forma si distingue dal contenuto, essa si
esprime in forma determinata, finita; proprio in quanto tale, essa non può non richiedere quell’atto
di coscienza, che fonda emergendo: «Ma la coscienza è per se stessa il suo concetto, ed è quindi,
immediatamente, l’atto del sorpassare il limitato (das Hinausgehen über das Beschränkte), e,
poiché questo limitato le appartiene, del sorpassare se stessa (über sich selbst)»42.
A nostro giudizio, De Negri giustamente traduce «das Hinausgehen» con l’espressione «atto
del sorpassare», per la ragione che qui Hegel presenta due forme in cui si esprime la coscienza. La
prima forma si pone in forza del vincolo al limitato e, quindi, può venire definita coscienza
empirica, la quale gravita sui suoi contenuti e si pone mediante essi, così che rimane da essi
determinata. Tuttavia, la coscienza non si risolve nella dimensione empirica, giacché essa è
coscienza anche del proprio limite, ossia del fatto che, in quanto coscienza empirica, si subordina al

42
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, p. 72.
dato. Allorché emerge tale sapere, la coscienza supera la propria forma empirica ed emerge come
coscienza trascendentale.
Il punto è che l’emergenza non va pensata soltanto come qualcosa che si realizza in forza di
ciò su cui si emerge. In quanto così la si pensa, il vincolo con il determinato permane
inevitabilmente. L’emergenza va pensata piuttosto a muovere dalla condizione che la rende
possibile: la coscienza coglie il limite perché lo ha oltrepassato e lo ha oltrepassato perché non si
riduce a ciò che viene limitato da esso.
Ciò che intendiamo sostenere è questo: il fondamento della coscienza trascendentale è
l’assoluto, così che l’atto del sorpassare il limitato non è un atto tetico, ma un atto che toglie, ossia è
l’atto del togliersi del finito. E, di nuovo, l’assoluto non emerge perché il finito si toglie, ma, al
contrario, il finito si toglie, cioè il contraddittorio si contraddice, perché l’assoluto, cioè
l’incontraddittorio, gli impone di contraddirsi: non lo lascia essere come finito se non in quanto il
suo essere coincide con il suo non essere.
Il finito, afferma Hegel, è il suo venir meno a se stesso, il suo contraddirsi. In questo senso,
la stessa contrapposizione di finito e infinito (di immediato e immediato o di determinato e
indeterminato) deve venire correttamente intesa: «l’anima non è né soltanto finita, né soltanto
infinita, ma è essenzialmente tanto finita, che infinita, e quindi né l’una né l’altra cosa»43. Poiché,
insomma, anche l’indeterminato diventa una determinazione, in quanto inscritto nella relazione al
determinato, l’assoluto deve venire pensato come emergente oltre la contrapposizione, dunque oltre
la relazione, senza però dimenticare che la forma inverte l’autentica priorità. Per la forma, l’assoluto
emerge in forza del togliersi del finito; per la considerazione critica, che riconosce il limite della
forma, è il finito che si toglie in ragione dell’essere dell’assoluto.
Hegel esprime con estrema chiarezza come devono venire intesi il concetto di limite e, di
conseguenza, il concetto di illimitato, cioè di assoluto: «Qualcosa viene saputo come limitazione,
come difetto, […] solo in quanto, al tempo stesso, si è già oltre di esso. […] Perciò va considerata
soltanto come mancanza di consapevolezza non capire che proprio la definizione di qualcosa come
finito o limitato contiene la dimostrazione della presenza effettivamente reale dell’infinito, del non
limitato»44. La «presenza effettivamente reale» è il fondamento stesso.
La coscienza in atto è l’unico modo per tradurre l’emergenza del fondamento sull’ordine
delle determinazioni finite. Essa evita di far ricadere il fondamento nel polo dell’indeterminatezza,
ma al tempo stesso consente di intenderlo come irriducibile ad una qualche determinazione. In
questo senso il fondamento vale come la condizione incondizionata in virtù di cui si pone il
trascendersi del determinato.
L’atto del trascendersi del determinato non si subordina al determinato, poiché quest’ultimo
si risolve interamente in quell’atto, ossia nell’andare oltre se stesso: la determinazione, che si
presentava come una realtà in sé e per sé stante, si rivela così un segno, che rinvia non tanto ad
un’altra determinazione assunta come significato, ma a quella condizione incondizionata che di
ogni segno, cioè di ogni determinazione, costituisce l’unico e autentico significato.

10. L’assolutizzazione della dimensione orizzontale

Ridurre il fondamento, e in particolare la sua essenza, al costrutto relazionale, come avviene in


Severino, non può non comportare l’assolutizzazione dell’ordine formale e della dimensione
orizzontale in cui la relazione lo dispone.
L’ordine formale, infatti, viene considerato l’unico possibile e ogni emergenza oltre di esso
viene negata per la ragione che il fondamento è identificato con la struttura di tale ordine. Non ci si
riferisce, dunque, ad un fondamento che trascende la serie, e per questo la fonda, ma ad un

43
G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, p. 180.
44
G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, p. 223.
fondamento che struttura la serie, ossia che consente il suo configurarsi con un ordine e una
determinatezza.
È ben vero, va aggiunto, che nell’ordine formale si pongono anche relazioni asimmetriche,
ma si deve tenere presente il fatto che v’è un senso di simmetria, quindi di complanarità, che
costituisce la relazione come tale e che è legato alla reciprocità che sussiste tra i termini: tale
reciprocità impone all’uno di essere solo in forza dell’altro, così che essi devono venire pensati
come disponentesi al medesimo livello, dunque orizzontalmente.
Ebbene, affermare la relazione come fondamento equivale pertanto a negare nel modo più
radicale ogni forma di emergenza, cioè di trascendenza, da cui consegue l’assolutizzazione di ciò
che è e rimane solo relativo: le determinazioni e l’ordine che esse configurano. Equivale, inoltre, ad
assumere il circolo della presupposizione, che caratterizza il reciproco rinviare dei termini alla
relazione e della relazione ai termini, come una autentica fondazione, dimenticando che il
fondamento è tale proprio perché non presuppone alcunché a se stesso, ma è fondamento di sé e per
questo vale come fondamento di ciò che è altro da sé.
Tuttavia, non si può dimenticare che nella stessa relazione vige e opera una intenzione
unificante, la quale costituisce proprio il fondamento dell’operazione dell’unificare. La relazione
unifica perché intende pervenire a quell’uno che costituisce il senso ultimo dell’unificare, oltre che
la condizione a parte ante dell’unificare medesimo. Che in ogni unificazione, anche la più
imperfetta, debba venire colto un punto (Punkt), in cui i termini coincidono e viene meno la loro
differenza, lo ha scritto con chiarezza Hegel nella Scienza della logica e noi abbiamo riportato il
passo. Che, inoltre, l’unità sia il prerequisito di ogni unificazione, questo lo ha indicato Aristotele
stesso nella Metafisica ed anche questo passo è stato riportato nel presente lavoro.
Per comprendere ancora meglio la differenza che sussiste tra unità e unificazione, facciamo
notare che l’unità è propria dell’intero, laddove l’unificazione configura un composto. Quest’ultimo
non può valere come originario, per la ragione che è l’esito di una precedente analisi, compiuta
sull’intero, e della successiva riunificazione degli elementi ottenuti mediante l’analisi stessa.
Di contro, l’intero è precisamente ciò che l’analisi, dunque l’attività dell’intelletto, richiede
come proprio fondamento, perché solo l’intero precede l’analisi e non deriva da essa.
Del resto, quell’analisi che richiede l’intero come fondamento poi, nell’analizzarlo, non può
non negarlo nella sua interezza, così che essa rivela la contraddittorietà insita nel proprio procedere:
essa procede negando il fondamento stesso del suo procedere.
In effetti, ciò vale per ogni procedura. In ogni procedura, infatti, si richiede bensì un
fondamento che sia autentico perché originario, dunque perché incondizionato, ma poi si finisce per
ridurlo a cominciamento, perché solo quest’ultimo è dotato di quella determinatezza che consente di
derivare da esso la serie delle determinazioni.
Per evitare la contraddizione, si potrebbe cercare di negare la necessità di un fondamento,
come proposto dal cosiddetto ‘pensiero debole’, come se ciò non significasse assumere l’assenza di
fondamento quale autentico fondamento.
L’emergere del fondamento sull’ordine dei fondati, questo è il punto, non configura una
relazione asimmetrica, ma una emergenza: il restituire la verità dell’originario in forza del venir
meno della presunta verità dei fondati, cioè il suo emergere oltre di essi. In questo senso va intesa la
necessità di una mediazione che si eserciti non soltanto sull’immediatezza esibita dalle
determinazioni, ma anche sull’immediatezza esibita dalla relazione intesa come quid medium.
Il mediarsi dell’immediato, pertanto, non può comportare l’inscrivere il dato in un vincolo
relazionale, come pure in numerosi passi del testo hegeliano si lascia intendere. La relazione, in
quanto intesa come costrutto, poggia infatti sull’immediatezza dei termini e su un nesso ridotto esso
stesso a termine, così che, se la mediazione venisse intesa come una relazione, allora non farebbe
che riproporre quell’immediato, che invece domanda di venire superato.
È la relazione intesa come medio, dunque, che deve trascendersi, onde venire intesa come
atto, l’atto del riferirsi, che coglie l’essenza del dato, trasformandolo in segno.
11. Conclusioni

Il discorso che siamo andati svolgendo ha inteso evidenziare come in Hegel l’esigenza di pensare il
fondamento come determinato non possa cancellare l’altra esigenza, e cioè che esso trascenda lo
stesso ordine dei determinati.
L’interpretazione che abbiamo proposto può venire così riassunta: Hegel intende affermare
che il fondamento, considerato sotto un certo aspetto, non può non essere determinato, perché
l’indeterminato non è l’assoluto, ma l’assolutizzazione della negazione, cioè ‘il negativo’. In forza
di questo aspetto, sul quale Hegel insiste con forza perché intende contrapporsi soprattutto a
Schelling, l’assoluto si mantiene come totalità di determinazioni, ancorché ridotte a momenti
dell’assoluto stesso. Se non che, v’è anche un altro aspetto che è presente nelle opere di Hegel:
poiché il fondamento non può non essere assoluto [«l’Assoluto solo è vero, o il Vero solo è
Assoluto (das Absolute allein wahr, oder das Wahre allein absolut ist)»45], esso deve oltrepassare la
stessa contrapposizione di determinato e indeterminato (immediato e mediato; trascendente e
immanente), che appartiene all’ordine formale, cioè all’ordine di cui la relazione costituisce la
struttura portante.
In questo senso egli parla della necessità di considerare il fondamento né determinato né
indeterminato, andando oltre le categorie che vigono e operano nell’ambito della forma. Sempre in
questo senso si giustificano le molteplici affermazioni nelle quali Hegel sottolinea che solo Dio è la
vera realtà: «Entrambe [filosofia e religione] hanno come oggetto la verità, e nel senso più alto – nel
senso che Dio è la verità ed egli soltanto è la verità»46. E ancora: «Quanto al loro senso filosofico, si
presuppone tanta cultura da sapere non soltanto che Dio è effettivamente reale, è ciò che vi ha di più
effettivamente reale, egli soltanto è effettivamente reale, ma anche che, dal punto di vista formale,
l’esistenza in generale è in parte fenomeno, e soltanto in parte è realtà effettiva»47.
Quest’ultimo passo non solo ribadisce che solo l’assoluto è vero, ma altresì legittima la
distinzione che abbiamo proposto e cioè quella tra la considerazione formale e la riflessione
trascendentale. Per la considerazione formale l’assoluto non può non vincolarsi al mondo dei
fenomeni, così che il livello formale non soltanto è quello in cui si dispongono le determinazioni o
enti, e per questo può venire definito ontico, ma altresì è quello nel quale si finisce per inglobare
l’assoluto stesso, negandolo però come assoluto. Di contro, la riflessione trascendentale è quella che
consente di riconoscere che solo l’assoluto veramente è, così che il livello ulteriore è quello che
coincide e si risolve nell’assoluto stesso.
Tuttavia, non si deve dimenticare che l’assoluto viene pensato, cioè viene in qualche modo
determinato. Che è come dire: l’ambito in cui ci si colloca permane quello formale, così che anche
per indicare la necessità di andare oltre tale ambito si è costretti ad usare le categorie della forma.
La stessa espressione ‘oltre’ mantiene ciò che si vorrebbe superare e la distinzione di due livelli si
dispone orizzontalmente, cioè in quell’ordine che pure si intenderebbe trascendere perché
insufficiente a se stesso.
Il nodo è cruciale, ancorché configuri un indubbio problema. A noi è parso di poter
individuare la soluzione nella consapevolezza che ciò che dell’assoluto si impone è precisamente la
sua necessità: solo l’assoluto è la condizione che consente di cogliere il relativo nel suo limite.
Il fondamento, insomma, è quella condizione incondizionata che viene restituita dal togliersi
delle determinazioni, perché in sé contraddittorie. Non si tratta, dunque, di legittimare il
presupposto (cominciamento), nonché il sistema delle determinazioni che su di esso poggia, bensì
di lasciarlo essere come presupposto a se stesso, dunque mai veramente posto.
Le determinazioni si contraddicono perché l’incontraddittorio – e solo l’assoluto è
incontraddittorio – impone il loro intrinseco contraddirsi, così che il fondamento non è l’esito del

45
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, p. 67.
46
G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, p. 123.
47
G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, p. 129.
togliersi delle contraddizioni, ma la ragione di tale toglimento. Da ciò consegue che anche la
duplicità di livelli viene a togliersi per la ragione che il livello trascendentale si rivela ciò che di
autenticamente intelligibile v’è nella forma: il suo innegabile contraddirsi.
Di contro, Severino pensa l’originario in forma di struttura e, quindi, fa della relazione il
fondamento. Se non che, assumere la relazione come l’essenza del fondamento, o come struttura
originaria, non può non comportare l’assolutizzazione dell’ordine formale e delle determinazioni
che lo costituiscono. Se Severino, a nostro giudizio, prospetta solo l’ordine orizzontale, segnato
dalla relazione, Hegel invece indica la necessità dell’emergenza del fondamento e, dunque, indica il
senso di quella verticale, che consente di intendere veramente l’orizzontale, cioè di coglierlo nella
sua finitezza.
Dissolvere la verticale significa non riconoscere la necessità dell’emergere del fondamento
sui fondati e cioè significa confondere l’inevitabile, ossia l’ordine della forma (linguaggio), con
l’innegabile, che è quell’incontraddittorio in virtù di cui la contraddizione, che è il dato, viene colta
e trascesa, proprio perché colta.
Ciascuna determinazione, se pensata nel suo originario trascendersi, viene dunque intesa
come un segno e quest’ultimo dà luogo ad un riferirsi orizzontale, che spinge il segno verso ogni
altro segno, ma anche e soprattutto ad un riferirsi verticale, che spinge il segno verso l’unico e
autentico significato, che dei segni vale quale fondamento.

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