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43-63
Articulos
Editores/Editors
Marcelo D. Boeri (Universidad de los Andes, Santiago de Chile)Alejandro G. Vigo (Pontificia Universidad Cat6lica de Chile, Santiago de Chile)
FRANCO TRABATTONI
Asistentes/Assistants
Marisa G. Divenosa (Universidad de Buenos Aires)Andrs Santa Maria (Universidad de los Andes, Santiago de Chile)
Academia Verlag
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Ci si desume anche solo dalla lista assai nutrita delle monografie pi recenti, fra cui: M. H.
Miller, Plato 's Parmenides, Princeton 1986; M. Migliori, Dialettica e Verit. Commentario filosofico al Parmenide di Platone, Milano 1990; C. Meinwald, Plato 's Parmenides, Oxford 1991; K. M.
Sayre, Parmenides ' Lesson, Notre Dame 1994; L. Brisson, Platon, Parmnide, Paris 1994; M. L.
Gill - P. Ryan, Plato 's Parmenides, Indianapolis-Cambridge 1996; R. E. Allen, Plato 's Parmenides,
New Haven-London 1997; F. Fronterotta, ME8EE:I:E. La teoria platonica delle idee e la partecipazione delle cose empiriche. Dai dialoghi giovanili al Parmenide, Pisa 200 I; S. Scolnicov, Plato 's
Parmenides, California, 2003.
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porto tra mondo sensibile e mondo ideale, sia proprio il Parmenide, cio il dialogo in cui la dottrina delle idee viene criticata, e i problemi proposti restano desolatamente senza soluzione.
Se viceversa ci mettiamo dal punto di vista dell'approccio dialogico, 5 non siamo pi costretti a ritenere che il vero scopo (fallito) del dialogo sia quello di
chiarire quella dottrina delle idee che tanto Socrate quanto Parmenide, intesi entrambi come portavoce di Platone, mostrerebbero di accettare. Potremmo supporre al contrario che la vera voce di Platone sia riconoscibile solo in quella dell'autore, il quale avrebbe scritto un dialogo irrimediabilmente aporetico sulla dottrina
delle idee affinch il lettore ne tragga le inevitabili conseguenze: ad esempio, come ritiene lo stesso Gonzalez, per far capire al lettore che non esiste n pu esistere una "dottrina delle idee". E' un'ipotesi che trovo altamente probabile, e che
assumer come base di partenza per le osservazioni che seguono. Ci che distingue la mia tesi da quella di Gonzalez che mentre a suo parere l'inesistenza di
una dottrina delle idee dipende dal fatto che la conoscenza intellettuale, per Platone, ha carattere non proposizionale, io ritengo che questa ipotesi sia accettabile
solo in modo qualificato, e alla luce di alcuni importanti presupposti.
2. Per valutare la possibilit o l' impossibilit che intorno alle idee si possa articolare una vera e propria teoria indispensabile indagare il modo in cui Platone
perviene ad affermare la loro esistenza, perch solo la qualit di questo modo pu
dare indicazioni precise sul grado di "praticabilit" epistemologica dell'ambito
ideale. L'ipotesi che possa esistere una teoria delle idee riposa sui presupposti seguenti. Non solo esiste una netta differenza tra oggetti sensibili e oggetti intelligibili, che sono diversi e separati dai primi, ma l'uomo si trova anche in condizione
di avere direttamente e presentemente disponibile la conoscenza di questi due generi di realt: pi facile, ma anche di gran lunga pi ingannevole, la conoscenza
sensibile degli oggetti materiali; pi difficile, ma incomparabilmente pi esatta e
precisa, la conoscenza di oggetti intelligibili. Se tuttavia verifichiamo sui testi il
modo in cui Platone afferma l'esistenza delle idee, ci accorgiamo che questo presupposto non trova alcun chiaro riscontro. Vediamo subito qualche esempio. Nella parte del Fedone dedicata al tema della reminiscenza Socrate, dopo aver mostrato che ci pu essere anamnesi sia per somiglianza sia per dissomiglianza,
chiede a Simmia (74a9- l2): "C' forse qualcosa che noi diciamo uguale, dico
non nel senso di un legno uguale a un legno o di pietra uguale a pietra n di altre
cose del genere, ma una realt che diversa e al di l di tutte queste cose, l' uguale in s? Diciamo che qualcosa o nulla del tutto?". Ottenuto il consenso di Siromia, che annuisce con trasporto, Socrate prosegue: "E sappiamo anche che cos'
questa cosa in se stessa?" (74b2). Simmia acconsente di nuovo.
Per queste espressioni cfr. G. Press (ed.), Who speaksfor Plato? Studies in P/atonie anonymi-
ty, Lanham 2000 e V. Tejera- R. E. Hart (ed.), Plato 's dia/ogues: the dialogica/ approach, Lewiston 1997.
4
"Perch non esiste una teoria platonica delle idee", in M. Bonazzi- F. Trabattoni (cur.), Platone e la tradizione platonica. Studi di filosofia antica, Milano 2003, p. 31-67.
5
Cfr. F. Trabattoni, "Il dialogo come portavoce dell'opinione di Platone. Il caso del Parmenide",
in Bonazzi-Trabattoni, op. cii. , p. 151 - 178.
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La seconda asserzione di Socrate sembrerebbe confermare proprio quell'immagine della gnoseologia platonica che sopra abbiamo messo in dubbio, e cio:
esiste una realt ideale separata da quella sensibile e gli uomini ne possiedono
una conoscenza diretta. Ma se cosi fosse, perch Socrate avrebbe chiesto previamente a Simmia se ritiene che l'uguale in s esista davvero o se crede viceversa
che non esista affatto? Qui, come in altri casi, Socrate inaugura una argomentazione che verte intorno alle idee mediante una domanda di esistenza, 6 dove
chiaro che tale domanda di esistenza non avrebbe nessun significato nel caso in
cui l'oggetto di cui si parla fosse accessibile in modo diretto a una qualunque facolt intellettuale. Chi potrebbe mai domandare sensatamente "ritieni che la torre
di Pisa sia qualcosa o niente del tutto?", dal momento che l'esistenza di questo
oggetto facilmente accessibile a una conoscenza oggettiva, diretta e indubitabile?7 E' chiaro perci che quando Socrate e Simmia si mettono d'accordo nel dire
che gli uomini possiedono effettivamente una conoscenza dell'uguale in s, tale
conoscenza non corrisponde a un reale contenuto noetico, esplicitabile all'occorrenza, ma si riduce alla persuasione che debba esistere qualcosa come un'uguaglianza perfetta. Ci che gli uomini sanno, in altre parole, solo che la caratteristica essenziale di questa uguaglianza quella di essere perfetta, mentre non si
pu dire, per converso, che percepiscano effettivamente con il loro intelletto un
oggetto conformato in quel modo.
C' qui una interessante analogia con una delle prove costruite da Cartesio
per dimostrare l'esistenza di Dio (che qualche critico chiama prova "ideologica"). Poich noi abbiamo l'idea (nel senso di rappresentazione mentale corrente
nella filosofia moderna) di un essere perfetto, e poich tale idea non pu essere
creata dall'uomo (proprio perch il suo contenuto la perfezione, ossia una caratteristica che un ente fmito non pu ricavare dagli enti finiti), deve esistere nella realt un ente di cui questa idea costituisca la rappresentazione. 8 Ora, ovvio
che un tale argomento, anche volendolo considerare cogente (bisognerebbe dimostrare, come esige Leibniz nei Nuovi Saggi sull'Intelletto Umano, che l'uomo
abbia davvero nel suo intelletto l' idea non contraddittoria di un essere perfetto 9)
riuscirebbe comunque solo a dimostrare che deve esistere qualcosa come un ente
perfetto, mentre non ha il potere di dire che cosa questo essere sia n tanto meno
quali siano i suoi rapporti con le realt non perfette. La presenza nell'intelletto
dell' idea di un essere perfetto non costituisce infatti una rappresentazione di Dio,
6
Ad es. : Prot. 330cl ("la giustizia una certa cosa o nessuna cosa?"), Resp. 608dl3 ("c' qualcosa che chiami bene e male"). Ho affrontato pi in dettaglio il problema delle domande di esistenza
nel dialogo platonico in "Unit della virt e autopredicazione in Protagora 329e-332a", in corso di
pubblicazione.
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perch non ha altro contenuto noetico che questa supposta perfezione. E tale idea
di perfezione viene ovviamente introdotta non gi grazie alla percezione intellettuale di qualcosa di perfetto, ma tramite il ribaltamento dialettico delle relative
imperfezioni che si riscontrano nella realt sensibile: la consapevolezza di tali
imperfezioni ci che fa supporre l'esistenza di una realt perfetta, non certo la
percezione diretta di una realt di quel genere.
Cosi si spiega perch l'argomento del Fedone, pur prendendo le mosse dall'ipotesi dell'esistenza e della conoscibilit delle idee, si trasformi poi in un vero e
proprio argomento di esistenza: perch l'ipotesi di partenza un'ammissione
sommaria e irriflessa, che non corrisponde ad alcun genere di conoscenza reale.
Come nel caso dei geometri di cui si parla nella metafora della linea divisa, i quali conducono le dimostrazioni sulle figure empiriche ma hanno in mente quelle
ideali, l'esistenza di questi ideali per il momento solo oggetto di ipotesi, ma ha
bisogno di essere dimostrata (qui si nasconde la differenza tra il procedimento
della 8tcivow e quello della v6T)ats 10) . Nel Fedone la dimostrazione di esistenza
dell'idea riposa sul fatto che se l'idea dell'uguale (l'uguale perfetto) non esistesse
noi non saremmo in grado, come invece siamo, di renderei conto che le uguaglianze empiriche da noi percepite soffrono di uno scarto rispetto all'uguaglianza
perfetta. L'ipotesi che tali uguaglianze perfette siano state conosciute dall'anima
prima di nascere (dunque esistano in un altro mondo) poi nel ragionamento platonico una conseguenza in un certo modo obbligata, perch occorre rendere ragione del fatto che l'uguale perfetto non attualmente percepito dall'intelletto.
Se infatti fosse percepito potremmo tranquillamente descriverne le caratteristiche
(come si fa con la torre di Pisa), il contenuto noetico dell'idea che lo designa sarebbe assai pi preciso e specifico di un vago attributo di perfezione, e non sarebbero necessarie nessuna domanda e nessuna dimostrazione di esistenza.
Che il passo del Fedone sulla reminiscenza costituisca una vera e propria prova dell'esistenza delle idee confermato indirettamente dal modo in cui Aristotele confuta l'argomento platonico in favore delle idee cosiddetto "dei relativi". 11
Comunque si voglia intendere questo difficile testo, nella descrizione di Aristotele l'argomento platonico si basa sulla possibilit di attribuire l'uguaglianza in
modo sinonimico (cio in modo che indichi effettivamente qualcosa che non
manchi di nulla quanto all'essere uguale, dove implicito che la forma non tollera gradi se non corrompendosi) alle uguaglianze imperfette che si danno nel mondo empirico. E' evidente, dunque, il riferimento al Fedone. Se poi G. Fine ha ragione nel ritenere che Aristotele considerasse questo argomento sostanzialmente
valido (non solo non dice mai che scorretto, ma lo inserisce nel novero di quelli
Non vale qui obiettare che la domanda di esistenza circa le idee si giustifica con il fatto che la
conoscenza degli enti ideali per Platone oggettivamente difficile. Esiste infatti un ' infinit di cose
difficili da conoscere, ma la cui esistenza non affatto in questione.
8
Nuovi Saggi sull 'intelletto umano, Libro IV, cap. IO, 7-8.
10
Su cui rinvio a F. Trabattoni, "Il sapere del filosofo", in M. Vegetti (cur.), Platone. La Repubblica, vol. V, libri VI-VII, Napoli 2003, p. 151-186.
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"pi rigorosi" 12 ), potremmo anche azzardarci a dire che in esso si riflette una delle movenze pi originarie e fondanti del pensiero platonico. Come si legge in un
importante passo della Repubblica, la differenza tra il filosofo e il filodosso consiste nel fatto che il secondo "non ritiene esservi il bello in s n alcuna idea della
bellezza in s che permanga sempre invariata nella sua identit, ma invece crede
che le cose belle siano molte ... non ammette assolutamente che qualcuno dica che
il bello uno, uno il giusto, e cos via", e non sa rispondere al filosofo che gli
obietta "Fra tutte queste molteplici cose belle, o uomo eccellente, gli diremo, ve
n' forse una che non apparir anche brutta? e fra quelle giuste una che non sembrer ingiusta, e fra quelle pie, empia?" (Resp. 478e7-479a8, tr. Vegetti con leggere modifiche). La discriminante, in questo caso, ancora la dichiarazione di
esistenza, non l'effettiva conoscenza dell'oggetto.
N si deve cadere nella trappola di ritenere che l'intuizione diretta delle idee
sia semplicemente il difficile risultato a cui arrivano solo i pochissimi veramente
filosofi. Da un lato, infatti, l'intuizione intellettuale delle idee preclusa a ciascuno. Dall' altro chiunque accetti di abbandonare l' atteggiamento irriflessivo e disimpegnato del filodosso per mettersi a ragionare insieme con Socrate, sar costretto almeno ad ammettere che il giusto, il buono, il bello esistono davvero. 13
La differenza tra il filosofo e il non filosofo (o filodosso) non consiste dunque nel
fatto che il primo, con fatica, arriva a conoscere direttamente le idee, mentre il
secondo non ci arriva mai. Per Platone nessuno pu diventare ao<j>6s , se questo
significa conoscere intuitivamente e compiutamente le idee; ma chiunque pu diventare <j>Lo-ao<j>os se solo ammette l' esistenza effettiva degli universali, e la
necessit di indirizzare verso di essi tutti i suoi sforzi conoscitivi (mentre il filodosso proprio colui che si rifiuta di accogliere queste premesse, e dunque rivolge la sua attenzione al mondo delle cose sensibili e particolari).
Se quanto abbiamo detto accettabile, se ne ricava che per Platone la conoscenza delle idee di carattere indiretto, postulatorio, negativo-ipotetico. Questo
non significa che di esse si possa solo sapere che esistono. Stabilito infatti che la
perfezione necessariamente esiste, si stabilito anche che la procedura della riconduzione, cio la progressiva purificazione dei caratteri empirici verso una
sempre maggiore affinit a quelli ideali, effettivamente possibile (possibilit
che sarebbe negata ove la misura perfetta non esistesse). Cos l'indagine pu indubbiamente fare dei progressi sulla via che porta all'individuazione di un giusto
12
G. Fine, On ideas: Aristot/e 's criticism of Plato 's theory offorms, Oxford, 1993, p. 27, 142159. L' argomento costituisce per Aristotele una confutazione del punto di vista platonico solo in via
accidentale e ad hominem: i platonici, se l'argomento fosse valido, sarebbero costretti a concedere
l'esistenza di idee di relativi, che invece essi per coerenza dovrebbero negare.
13
Con ragione S. Kelsey ("Recollection in the Phaedo", in Proceedings ofthe Boston Area Col/oquium in Ancient Phi/osophy 16 [2000], ed. by J. Cleary - G.M. Gurtler, p. 91-121) ha osservato
che la reminiscenza nel Fedone non intende spiegare solo "the special knowledge characteristic of
the true philosopher", ma soprattutto "the ordinary cognitive achievments of the man in the street"
(p. 94).
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che sia sempre pi giusto (in modo che la contaminazione con l'ingiusto si riduca
progressivamente), di un buono che sia sempre pi buono ecc., ma non pu evidentemente cercare di capire che tipo di sostanza siano questo buono e questo
giusto, quali siano i loro rapporti causali con gli altri oggetti, e in generale chiarire problemi di questo tipo. Per fare ci, in effetti, non ci basta lavorare sui gradi
di un certo carattere, che ci sono parzialmente noti dall'esperienza (tutti hanno
visto cose uguali, cose buone, atti giusti, ecc.), ma sarebbe necessario conoscere
direttamente quel genere di cose che sono al di l e al di fuori dell'esperienza
stessa.
C', in altre parole, un tipo di indagine per cui una "teoria delle idee" intesa
come pura ammissione che i caratteri perfetti esistono davvero - ed la teoria
delle idee cos come risulta dall'argomento dei relativi che lo stesso Aristotele
considerava "pi rigoroso" - risulta non solo utile, ma funge addirittura da condizione di possibilit: l' indagine volta a una progressiva universalizzazione erigorizzazione delle nozioni di giusto, bello o buono. C' invece un tipo di indagine per cui la teoria delle idee intesa come sopra non offre nessun soccorso, perch la sua condizione di possibilit sarebbe la conoscenza intellettuale diretta
delle idee intese come oggetti: l'indagine che vorrebbe spiegare, ad esempio,
che rapporti precisi intercorrono tra gli oggetti-idee e gli oggetti-cose, in che modo i primi esercitano la loro causalit sui secondi, ecc. Tale indagine preclusa
anche ai filosofi, perch nessuno di essi possiede quell'intellezione diretta degli
oggetti-idee che sarebbe necessaria a tale scopo.
La mia tesi che Platone abbia pensato la teoria delle idee esattamente come
ammissione dell'esistenza dei caratteri perfetti proprio perch interessato al primo dei due tipi di indagine sopra elencati (di cui siffatta teoria delle idee condizione di possibilit), e abbia voluto mostrare nella prima parte del Parmenide che
quella teoria strutturalmente incapace di affrontare i problemi, per lui assai meno interessanti, inerenti al secondo tipo di indagine. Il campo di indagine aperto
dalla "teoria delle idee", in altre parole, non riguarda lo statuto antologico delle
idee stesse, ma le qualit che esse rappresentano. La supposizione secondo cui
esistono una bellezza o una giustizia perfette non sufficiente per promuovere
un ' indagine che risponda alla domanda che cosa sono le idee?; sufficiente, invece, per garantire la possibilit di ricondurre le bellezze parziali e le 'giustizie'
parziali e relative che appaiono nel mondo sensibile a una progressiva unit di
senso - anche se il limite ultimo in cui le idee appaiono all'intuizione come una
ben precisa specie di oggetti provvisti di ben precisi attributi non pu mai essere
raggiunto.
Su questa base possiamo tentare di spiegare il significato filosofico del Parmenide. Scrivendo questo dialogo Platone voleva probabilmente mostrare, senza
farsi rappresentare n da Socrate n da Pannenide, che la discussione relativa all.e
idee, ove si spinga al di l di quello che ne dato sapere sulla base della necessit ipotetica per cui esse vengono postulate, conduce a problemi insolubili e forse
anche poco interessanti: ossia che la traduzione dell '"ipotesi delle idee" in "teoria
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delle idee" trascina l'indagine su un terreno vuoto e privo di appigli, proprio perch le idee sono oggetto di ipotesi e non di una conoscenza indipendente. Il Parmenide, in questo senso, si dimostra strutturalmente (ma non solo strutturalmente) affme al trattato gorgiano Sul non essere o sulla natura, dove le inconcludenti
antinomie in cui si imbatte l'esercizio dialettico sono dimostrazione del fatto che
i presupposti parmenidei sono insostenibili. Ma potremmo tentare anche un paragone pi azzardato, e dire che il Parmenide corrisponde in Platone a quella che
Kant chiamava dialettica trascendentale (del resto mi pare ancora del tutto valida
una vecchia affermazione di Paul Shorey, secondo cui Platone non tenta di descrivere le idee pi di quanto non faccia Kant con la cosa in s 14).
3. C' ancora qualcosa che possiamo dire a sostegno di questa tesi? Mi ha
sempre colpito la relativa "banalit" delle critiche contro le idee formulate da
Parmenide. Si pensi ad esempio alle aporie relative alla partecipazione, in cui
l'idea trattata come un oggetto che si pu dividere o moltiplicare. Oppure al tema dell'autopredicazione, attivo nel dialogo in pi punti anche esterni alle due
esposizioni del "terzo uomo", che viene a volte sviluppato secondo una elementare prospettiva sostanzialistica e d cosi origine a problemi di dubbio interesse filosofico. Non necessario condividere certi presupposti Jogicistici di scuola analitica per sospettare, ad esempio, che difficilmente l'idea della grandezza possa
davvero essere stata considerata da Platone una cosa "grande" in modo tale da
creare una contraddizione ove una cosa grande sia grande partecipando di un
frammento di grandezza pi piccolo della grandezza in s (13lc-d). N mi sembra cosi obbligatorio applicare alla "difficolt pi grande" l'assunto dell'autopredicazione in modo letterale quanto basta per far dire a Platone, sulla base di
133d-e, che "l'idea di schiavo , se si pu dire cos, 'schiava' dell'idea di padrone come l'idea di padrone 'padrona' dell'idea di schiavo"! 5 Quantomeno mi
pare necessario tentare preliminam1ente di battere qualche altra strada. Se poi
qualcuno mi obietta che in questo modo vado cercando delle spiegazioni che in
certa misura smentiscono ci che "Platone" testualmente dice nel testo, allora mi
vedrei costretto a ranm1entare che in quei luoghi del dialogo sta parlando Parmenide e non Platone. Insomma, il principio di carit che spinge l'interprete a spiegare le parole del suo autore in un modo meno banale o contraddittorio di quanto
non sembri a prima vista pare essere particolarmente consigliabile proprio con
Platone, in cui la lettera del testo non mai la parola dell'autore, e dunque naturale supporre che quanto egli fa dire ai suoi personaggi debba essere inteso nel
quadro di una struttura compositiva che li trascende.
L'ipotesi di interpretare il Parmenide come una specie di dialettica trascendentale fornisce un'interessante chiave di lettura per chiarire alcuni dei problemi
pi difficili compresi nella prima sezione del dialogo. L'autopredicazione, ad
14
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esempio, non indicher pi l'apertura di intricati (e insolubili) problemi ontoepistemologici, ma verr considerata semplicemente come uno dei mezzi linguistici mediante i quali Platone voleva cogliere la differenza tra la perfetta purezza
delle idee e la relativa imperfezione delle cose sensibili: dire che (solo) la giustizia giusta, ad esempio, equivarr semplicemente a dire che la parziale, relativa
e transitoria giustizia delle cose giuste richiama necessariamente l'esistenza di
una giustizia in s, tale da rappresentare i caratteri della giustizia in modo totale,
assoluto e perenne.16 Questo, in effetti, precisamente il modo in cui l'autopredi
.
cazione presentata nel Protagora. 17 Qualunque aggmnta
non pu che appanre
ora come un'illazione, come un tentativo di costruire una "dottrina platonica"
delle idee "non autorizzata".
Un sostegno a favore di questa ipotesi si ricava analizzando la prima delle
due esposizioni dell'aporia del "terzo uomo" (132a-b). Parmenide esordisce
(132al-4) descrivendo il percorso mediante il quale Socrate potrebbe essere
giunto all'ipotesi delle idee, e Socrate conferma che proprio cos. Socrate crede
all'esistenza di ciascuna idea (t\ v EKaaTov El 5oS' o:Ea9at Elvm) perch,
quando gli sembra (86/;lJ) che molte cose siano grandi, guardando (t56vn) tutte
queste cose grandi gli sembra (5oKEL) che esista un'unica idea (t5a ~ aT~
Elvm). Si ricava, da questo passo, che per Socrate le idee sono oggetto di inferenza, costruita sulla base di un vedere sensibile: questo vedere sensibile fa apparire delle somiglianze, in base alle quali si giunge ad affermare l'esistenza di una
idea unica che renda ragione di tale somiglianza. Il problema del "terzo uomo"
scaturisce, come si evince dalla domanda seguente di Parmenide, dall'atto di collocare sia le cose grandi sia l'idea di grandezza nello stesso insieme delle "cose
grandi". In questo caso, qualora lo sguardo dell'anima si rivolga sinotticamente a
questo nuovo insieme (v waaUT<S' Tij l\Juxi] 'lTL mivTa :81JS' ), si rende necessaria l'ipotesi di una terza grandezza, che dia ragione della somiglianza rilevata tra le cose appartenenti a tale insieme (cose grandi+ idea di grandezza).
16 G. Fine (op. cii., pp. 61-63; ma v. anche p. 52) distingue tra una narrow self-predication
(NSP) e una broad se/f-predication (BSP). Secondo la prima l' idea del bianco essa stessa bianca,
mentre in base alla seconda l'idea del bianco si dice bianca in modo diverso da cui sono dette bianche le comuni cose bianche, e cio: dire che l'idea del bianco bianca significa dire che l'idea del
bianco la ragione esplicativa del fatto che le cose bianche sono tali . E' un'ipotesi interessante, a cui
non c' nulla da obiettare se non che l' idea del bianco pu essere causa della bianchezza delle altre
cose solo se rappresenta il carattere del bianco in modo eminente. Platone, in altre parole, ha affermato il carattere autopredicativo dell'idea non tanto per l'esigenza di stabilime la funzione esplicativa, ma per affermare che le idee rappresentano i caratteri nella loro essenza, ed precisamente da qui
che deriva la loro funzione esplicativa. Se lo scopo fosse solo quello di mostrare che le idee costituiscono la spiegazione delle qualit delle cose, perch mai Platone avrebbe scelto di esprimere questo
concetto con un mezzo obliquo ed equivoco come l'autopredicazione? Quello che Platone vuoi dire,
in effetti, che le idee possono essere causa della presenza di x in altre cose solo se sono esse stesse
x in modo eminente (un modo ovviamente assai diverso del semplice "essere x" delle altre cose): da
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La necessaria esistenza di qualcosa del genere delle idee a mio avviso il motivo per cui Parmenide, nell ' intermezzo tra la prima e la seconda parte del dialogo omonimo, non suggerisce a Socrate di rinunciare del tutto ad essa. Combinando i dati apperentemente contraddittori costituiti da
un lato dal fatto che Socrate espone la "dottrina platonica delle idee" ma non in grado di difenderla, dall'altro che Parmenide la critica in modo serrato ma non per questo ritiene che la si debba abbandonare, si pu individuare quale fosse l' intenzione di Platone: conservare l'esigenza, di per s
inelud ibile, che porta l'indagine a postulare qualcosa come le idee, lasciar cadere gli sviluppi dottrinari indebiti, che conducono a problemi insolubili. Ho svolto pi ampiamente questa ipotesi in "L'errore di Socrate", in Il Parmenide di Platone e la sua tradizione. Atti del III colloquio internazionale
del Centro di ricerca sul neoplatonismo, a cura di M. Barbanti e F. Romano, Symbolon 24, Catania
2002, p. 143-153.
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del terzo uomo, in effetti, la premessa che l'anima possa constatare oggettivamente che l'idea di grandezza una cosa grande nello stesso modo in cui i sensi
constatano oggettivamente che una balena, una portaerei, o la reggia di Versailles
sono cose grandi. Ma ci evidentemente non accade. Ancor meno sar possibile,
di conseguenza, dire che genere di "cose" le idee sono, come sarebbe richiesto
per risolvere le aporie della partecipazione.
4. Un'obiezione tradizionale contro l'immagine "riduttivistica" della teoria
delle idee che abbiamo proposto sopra consiste nel dire che se cosi stessero le cose difficilmente si comprenderebbe la lunga serie di critiche che Aristotele ha rivolto contro di essa, che non solo hanno come bersaglio una dottrina delle idee
intesa come realistica duplicazione delle sostanze, ma si concentrano in larga misura proprio sulle questioni che a mio parere da tale "teoria" sarebbero strutturalmente non trattabili. Su questo problema, e su quello pi ampio di come articolare dal punto di vista teoretico il rapporto Platone/Aristotele, mi sono gi soffermato altre volte, 19 e dunque in questa sede mi limiter a qualche considerazione
aggiuntiva.
Nell'opera di Aristotele esistono alcuni importanti indizi, in primo luogo, del
fatto che egli trovasse la dottrina platonica delle idee per molti versi oscura o incompleta, e che abbia egli stesso supplito a questa incompletezza ricavando le
conseguenze che riteneva logicamente deducibili dal modo in cui i platonici parlavano delle idee, per poi sottoporre a critica la dottrina cosi riformulata? 0 Due
passi significativi a riguardo si trovano nella Metafisica (A 99lal-2 =M l079a
31-33 ; B 1002b27-30) e un terzo nell'Etica Eudemia (ll218all-12). Nel primo
di questi passi Aristotele ammette in modo abbastanza esplicito che l'inserimento
delle idee nel novero delle sostanze l' unico modo in cui egli riesce a comprendere l'asserzione platonica secondo cui le idee esistono accanto alle realt sensibili. Il significato del secondo passo parzialmente analogo (almeno nella misura
in cui qui ci interessa): i platonici pongono le idee con l'obiettivo preciso di dire
che ciascuna idea una sostanza, "anche se - precisa Aristotele - quelli che ne
parlano non si spiegano bene"; il che viene a dire, di nuovo, che la possibilit di
trattare le idee come delle sostanze a tutti gli effetti un'illazione dello Stagirita.
Nel luogo dell'Etica Eudemia, invece, ci che Aristotele chiarisce essere una sua
deduzione la separabilit dell'idea.
Una seconda considerazione, del resto complementare alla prima, ricavabile
proprio dal Parmenide. La correttezza deli' interpretazione sostanzialistica della
dottrina platonica delle idee troverebbe conferma - si suggerisce - nella critica
aristotelica cosiddetta del "terzo uomo", perch tale critica efficace solo contro
una dottrina delle idee interpretata in quel modo. Cos facendo, per, non si tiene
19
Cfr. in particolare Scrivere nel/ 'anima. Verit, dialettica, persuasione in Platone, Firenze
1994, p. 267-274, Platone, Roma 1998, p. 140-143.
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conto del fatto che Platone nel Parmenide ha esposto per ben due volte un argomento del "terzo uomo" sostanzialmente identico a quello proposto da Aristotele,
e non ha tuttavia ritenuto necessario rispondervi, n nel Parmenide n altrove. Se
l'argomento del "terzo uomo" fosse realmente un'obiezione che va a colpire il
modo in cui Platone intendeva le idee, cosi da richiedere una replica da parte sua,
la situazione sarebbe quantomeno singolare: non solo in Platone non c' traccia
di questa replica, ma avrebbe egli stesso anticipato i suoi critici sollevando un' obiezione capace di mettere in crisi il nucleo centrale della sua filosofia! Di fronte
a questa evidente anomalia mi sembra ben pi ragionevole supporre che Platone
non ritenesse affatto necessario rispondere all'argomento del "terzo uomo", perch esso ha di mira una teoria delle idee che va ben oltre le intenzioni platoniche;
e che anzi con il Parmenide - come detto sopra - volesse mostrare in quali aporie insolubili ci si imbatta ove questo accada.
Ci che resta da spiegare, se la mia ipotesi corretta, perch Aristotele non
abbia tenuto conto di questo fatto e abbia utilizzato l'argomento del "terzo uomo" come una critica efficace contro la platonica dottrina delle idee. Qui ci possono aiutare alcune considerazioni di carattere generale. Come ho tentato di mostrare anche in altre sed/ 1 la filosofia per Aristotele scienza delle cause e dei
principi primi in un senso primario ed ultimativo sostanzialmente estraneo all'indole di Platone. 22 Perci l'interesse filosofico principale di Aristotele quello di
individuare quantit, qualit e natura di tali principi. A questo fine egli utilizza in
primo luogo il suo abituale metodo dialettico, raccogliendo le opinioni autorevoli
dei suoi predecessori, tra cui ovviamente anche Platone. Il suo obiettivo, tuttavia,
non quello di ricostruire con esattezza storica le dottrine di questi filosofi, ma
quello di prendere spunto da tali dottrine per tracciare un diagramma il pi possibile completo delle soluzioni che possono essere date al problema proposto. Cos, il procedimento platonico secondo il quale accanto a una bellezza o a una
giustizia sensibili devono esistere anche una bellezza e una giustizia "in s" diviene per Aristotele l'occasione per ricavare da questo genere di asserzioni una
dottrina, a suo avviso da esse logicamente deducibile, in base alla quale i concetti
universali costituiscono una sorta di sostanze separate, tipologicamente affini alle
sostanze sensibili, e di considerare questa dottrina come una delle possibili solu21
Ora/it e scrittura in Platone, Milano 1999, p. 42-54, "L'orientamento al bene nella filosofia
di Platone", in New lmages of Plato. Dialogues on the Idea of the Good, G. Reale - S. Scolnicov
(eds.), Sankt Augustin 2002, p. 294-304; La filosofia antica. Profilo critico-storico, Roma 2002, p.
98-99; 128-129.
22
La netta separazione tra l'attivit teoretica e l'attivit pratica, ove la prima sia intesa come attivit fine a se stessa e la seconda come attivit finalizzata ad altro, un principio spiccatamente aristotelico (come si ricava ad esempio da Metaph. A, o dal primo capitolo di E), che allontana la posizione dello Stagirita dal punto di vista prevalente nell'Accademia (secondo il quale la teoresi anzitutto funzionale alla prassi). Per tale motivo l'incidenza qualitativa e quantitativa di tale principio
stata correttamente utilizzata come uno dei criteri per decidere quali scritti di Aristotele siano presumibilmente da collocarsi nelle vicinanze dell'esperienza accademica (cfr. P. L. Donini, Metafisica.
Introduzione alla lettura, Roma 1995, p. 23-33).
55
zioni al problema dei principi primi della realt che meritano di essere indagate
di per s. Giunti a questo punto dell'analisi, di conseguenza, per Aristotele non
pi di importanza decisiva stabilire con certezza in che misura quella dottrina
possa essere attribuita a Platone (cos come non necessario, ad esempio, stabilire che i "semi" di Anassagora corrispondono esattamente a quelle che Aristotele
chiamava "parti omeomere"). Con questo non voglio dire che Aristotele abbia
deliberatamente scelto di non tener conto del fatto che la dottrina platonica delle
idee non corrispondeva esattamente a quella da lui descritta. Intendo dire che l'ipotesi secondo cui la presenza in Platone di alcune critiche a un certo modo intendere le idee non abbia impedito ad Aristotele di replicare quelle stesse critiche
come obiezioni cogenti contro la dottrina "platonica" delle idee, del tutto compatibile con il modo di lavorare proprio di Aristotele, che era interessato pi a
discutere della cosa e delle sue implicazioni logiche che a seguire alla lettera le
asserzioni dei filosofi di cui si occupava23 (i quali, a suo avviso, a volte si esprimono male, non sono chiari, dicono delle cose volendone dire delle altre, ecc.).
Quanto ora detto equivale ad affermare che le critiche di Aristotele a Platone
appartengono al genere delle contrapposizioni di carattere teoretico, e dunque
non sono decisive per dirimere questioni cruciali di esegesi platonica. Il fatto che
Aristotele rilevi in Platone una determinata carenza, o la mancata soluzione di un
certo problema, non ci obbliga ad affermare senz'altro che Platone avrebbe dovuto risolvere quel problema per salvare la coerenza del suo pensiero. Dobbiamo
invece ritenere in prima istanza che ci si renderebbe necessario solo nella particolare interpretazione della filosofia platonica accolta da Aristotele; in seconda
istanza - ed questo il caso di gran lunga pi frequente - che Aristotele considerasse essenziale risolvere quei problemi da un punto di vista generale, e dunque
rimproverasse a Platone di non averlo fatto, in base alla sua propria immagine
della filosofia e dei suoi compiti.
Che cos stiano le cose, del resto, confermato a volte dallo stesso Aristotele,
come ad esempio proprio nel caso della partecipazione di cui si parla nel Parmenide. Scrive Aristotele in Metaph. A 987b l O sg. che a questo proposito Platone
ha cambiato soltanto il nome, chiamando partecipazione ci che i Pitagorici denominavano imitazione. Sia gli uni che l'altro, tuttavia, "tralasciarono di indagare
(<j>E"iuav .. . (TJTE"iv) che cosa siano la partecipazione e l'imitazione delle idee"
(987bl3-14). Poche pagine pi avanti (99la20-22 =M 1079b24-26) egli aggiunge: "dire che le idee sono paradigmi e che di esse le altre cose partecipano un
parlare a vuoto e per metafore poetiche (KEVooyE"iv CJTl Kal IJ.ETa<j>ops YELV TIOLTJTLKcis)". E' dunque lo stesso Aristotele a dirci che Platone non ha mai
chiarito il problema della partecipazione, ma ne ha parlato piuttosto in modo ge-
23 E' notevole, ad esempio, il fatto che la confutazione dei monisti condotta dallo Straniero di
Elea nel Sofista (244b-245e) non abbia impedito ad Aristotele di rimproverare Platone per aver affermato in modo aprioristico l' unit originaria dell'essere.
56
Franco Trabattoni
24
24
Questo il modo in cui si deve intendere KEVOoye'Lv . Cfr. M. Vegetti, "Kevooye'Lv in Aristotele", in A.M. Battegazzore (cur.), Dimostrazione, argomentazione dialettica e argomentazione
retorica nel pensiero antico, Genova 1993, p. 37-60 e M. Bumyeat, A Map ojMetaphysics Zeta,
Pittsburgh 2001 , p. 19-25.
25
Cfr. F. Gonzalez , op. cit. , p. 50-51. A parere di Fronterotta le critiche di Aristotele alla teoria
delle idee hanno di mira fin dal principio l'insolubile dilemma della partecipazione e della separazione delle idee e mettono con questo l'accento proprio sull 'aspetto contraddittorio di tale dottrina platonica (op. cii., p. 411). In realt la posizione platonica appare contraddittoria proprio e solo a chi dal
principio assume in forma aprioristica il punto di vista aristotelico, perch solo muovendo da questo
ingiutificato presupposto si pu ascrivere a difetto di Platone le sue mancate risposte ai problemi che
gli porr in seguito Aristotele.
26
L'asserzione aristotelica, che suggella le sue argomentazioni volte a dimostrare che dell ' idea
non si d definizione, espressa nella forma di una domanda retorica: TTEl OL TL ouoets opov K<jJpEL aUTGv toac; ... Aristotele, non pu voler dire, in questo caso, che i platonici non definiscono
mai in generale che cos' un'idea, sia perch definizioni di questo tipo sono frequenti nei dialoghi
platonici, sia perch all ' inzio del suo ragionamento aveva esordito scrivendo: oUB 8~ loav ouoe IJ.Lav Eanv p[aaaem (1040a8). Ci che i platonici non fanno, a suo parere, dunque proprio definire, ostendere in forma proposizionale e predicativa, il contenuto noetico delle singole idee.
57
si ridurrebbe, in questo caso, a un contatto puntuale e privato con una realt trascendente, incapace di qualunque ulteriore articolazione.
L'ipotesi che la conoscenza intellettiva in Platone abbia carattere essenzialmente intuitivo, in effetti, pu essere sviluppata in due versioni, la prima delle
quali potrebbe essere definita tradizionale, mentre la seconda pi recente ed innovativa. Secondo la visione tradizionale, essa una sorta di visione interiore
non incompatibile con la dialettica e con l'attivit razionale del :X.6yos-, n alternativa rispetto ad essa. In tale contesto l'Eloos-, ossia l'oggetto della visione, viene in un certo modo a coincidere con il oyos- , cio con le proposizioni che descrivono il contenuto della visione medesima. E' in questa classica forma, notiamo cos di sfuggita, che l'epistemologia di Platone comunemente intesa non
solo nella vulgata dei manuali, ma anche presso quella parte dei filosofi contemporanei che identifica nel platonismo la metafisica dogmatica che ha influenzato
per secoli lo sviluppo della filosofia occidentale?7 Ma accanto a questa forma di
intuizionismo in anni pi recenti se ne sviluppata un'altra, pensata in parte come reazione al dilagare delle letture analitiche del testo platonico dominanti soprattutto tra gli anni '50 e '70, secondo le quali l'interesse conoscitivo di Platone
si rivolgeva essenzialmente alla ricerca delle definizione 8 (e dunque la conoscenza intellettiva in Platone limitata alla corretta formulazione ed organizzazione
di certi enunciati proposizionali). Secondo il nuovo indirizzo, che fatte salve le
rilevanti differenze trova i suoi principali esponenti in W. Wieland, F. Gonzalez
e K. Sayre/9 dire che per Platone la conoscenza intellettuale ha carattere intuitivo
significa dire che la conoscenza delle idee non pu essere espressa in forma proposizionale perch il linguaggio strutturalmente inadatto a farsene portatore.
Questa versione dell' intuizionismo, a differenza della prima, non ritiene che l'd5os- sia identico al oyos-, ed anzi suppone che tra i due vi sia una differenza assolutamente radicale. E' questo il motivo per cui, come si ricava dai titoli gi di
per s significativi di due studi di Gonzalez e Sayre,30 non esiste affatto qualcosa
come la "dottrina platonica delle idee". Una "dottrina", infatti, suppone un veicolo di carattere proposizionale, ed appunto contro il comune modo di trattare il
21
Un esempio saliente quello di M. Heidegger. Nel suo corso sul Sofsta del 1924-25 (vol.
XIX della Gesamtausgabe, Frankfurt a. M. 1992), in cui non a caso sceglie dichiaratamente di interpretare Platone attraverso Aristotele (cfr. ad es. p. Il), Heidegger afferma che in uno dei suoi significati il oyos coincide con l'eroos: ">..6yos soviel wie eroos" (p. 201). Per una ordinata ricostruzione del rapporto Heidegger-Piatone vedi ora il bel libro di A. Le Moli, Heidegger e Platone. Essere,
relazione, differenza, Milano 2002 .
28
Cfr. in proposito F. Gonzalez, Dialectic and dialogue: P/alo 's practice of philosophical inquiry, Evanston 1998, p. 9-10.
29
W. Wieland, Platon und Die Formen des Wissens, Gottingen 1982; F. Gonzalez, Dia/ectic
and Dialogue, op. cit., K. Sayre, Plato 's literary garden: how to read p/atonie dia/ogue, Notre
Dame-London 1995,
3
K. Sayre, "Why P lato Never Had a Theory of Forms", Proceedings of the Boston Area Colloquium in Ancient Phi/osophy 9 (1993) p. 167-199; F. Gonzalez, "Perch non esiste una teoria platonica delle ide", op. cit.
Franco Trabattoni
58
pensiero platonico in tale maniera che i nuovi 'intuizionisti' appaiono polemicamente rivolgersi.
Che dire del quadro ora delineato? A mio parere senz'altro da rifiutare l'identificazione ElBos e oyos, poich il oyos per Platone un mezzo di conoscenza vicario, incapace di procurare una piena e completa conoscenza delle
idee. 31 Detto questo, anche vero a mio avviso che l'unica modalit disponibile
all'uomo per conoscere le idee, per quanto difettiva e incompleta, quella offerta
dal oyos, e che dunque l'uomo non pu contare su nessun genere di conoscenza
intuitiva superiore a quella discorsiva. Perci, se considerate da diversi punti di
vista, sia la posizione "intuizionista" sia quella "proposizionalista" sono parzialmente esatte e parzialmente sbagliate.
Si pu comprendere come questo possa accadere se riflettiamo sul fatto che la
maggior parte degli orientamenti critici odierni relativi al pensiero platonico condivide un presupposto per lo pi implicito e non detto, e cio che il bimondismo
di Platone e l'effettiva trascendenza delle idee rispetto alla realt sensibile non
debbano essere presi sul serio. Si ritiene, in altre parole, che le idee costituiscano
per Platone un oggetto di conoscenza pienamente disponibile nell'esperienza
mondana, vuoi come visione che si traduce in un oyos (ed eventualmente ad esso si riduce, come suo simbolo metaforico), vuoi come visione che rimane ad esso inaccessibile. Nascono cos le tre immagini sopra elencate della gnoseologia
platonica: l) intuizione delle idee che si rispecchia nel logos; 2) conoscenza
esclusivamente proposizionale-definitoria delle idee; 3) intuizione delle idee che
non si pu rispecchiare nellogos. Se invece il bimondismo di Platone viene preso
sul serio, come a mio avviso non possiamo non fare senza restare vittime d pregiudizi d carattere "modemistico", allora la situazione si semplifica in modo notevole. Rimane vero, come vogliono gli intuizionisti, che la conoscenza piena e
completa delle idee ha carattere diretto e non discorsivo; ma tale conoscenza
propria solo dell'anima disincarnata, come insegna la dottrina della reminiscenza;32 rimane anche vero, come vogliono i "proposizonalisti", che nella sua condizione mortale l'uomo non possiede uno strumento conoscitivo superiore al oyos, mediante il quale egli cerca di chiarificare con procedimento continuo ed
31 Ci si ricava, a mio avviso, da pi luoghi dell'opera platonica, dalla fuga nei logoi di cui si
parla nel Fedone nel celebre passo in cui introdotta la metafora della seconda navigazione, all' excursus filosofico della VII Lettera in cui Platone accenna alla debolezza dei /ogoi. Su questo tema ho
in corso una serie di indagini, alcune delle quali non ancora pubblicate. Per quanto riguarda in particolare la "seconda navigazione" rinvio provvisoriamente a Platone, op. cii., pp. 136-138. La lettura
del passo platonico ivi proposta collima perfettamente con il risultati di un'indagine storico-testuale
condotta da Stefano Martinelli Tempesta, "Sul significato di Etmpos TTous nel Fedone di Platone", in Platone e la tradizione platonica, op. cii., pp. 89-125.
32
Nelle ipotesi evoluzioniste del pensiero di Platone si ritiene spesso che la dottrina della reminiscenza sia abbandonata nelle opere pi mature, dove sarebbe stata eventualmente sostituita dalla
dialettica. Ma quest'ipotesi non tiene conto del fatto che tale teoria presente nel Fedro (dialogo
posteriore alla Repubblica e con tutta probabilit cronologicamente vicino al Parmenide) e che ad
essa si allude chiaramente anche nel File bo (34b-c).
59
inesaustivo le tracce della visione diretta delle idee che si sono a suo tempo depositate nella sua anima.
E' chiaro dunque che questa ipotesi non comporta affatto la necessit di eliminare dalla filosofia di Platone l'esistenza di un mondo separato e superiore alla
realt sensibile (cos come suona una ricorrente obiezione). In realt sono ben
lontano dal negare che il mondo delle idee sia separato da quello sensibile, ed anzi nego che l'uomo nella sua esperienza mondana possa disporre di una intuizione diretta delle idee anche per salvaguardare questa separazione. La separazione,
viceversa, messa in forse proprio da interpretazioni "ontologiche", in cui le idee
sono considerate sostanze intelligibili, dunque strutturalmente affini alle sostanze
sensibili sia in quanto oggetti provvisti di attributi sia in quanto passibili d una
conoscenza indipendente e oggettiva (nasce in tal modo la cosiddetta "teoria delle idee"). Ma se fosse possibile conseguire effettivamente questo genere di conoscenza, allora ispo facto la separazione delle idee sarebbe negata, e i due mondi
di Platone si "ridurrebbero" ad uno solo: quell'unico mondo, appunto, che comprende due generi di sostanze, sensibili e intelligibili, diverse sotto molti profili
s, ma identiche quanto all'essere "sostanze" e quanto all'essere conoscibili. Tale
per potrebbe forse essere il mondo di Aristotele, non quello di Platone.
6. Queste ultime osservazioni offrono lo spunto per allargare ulteriormente
l'angolo di visuale, e puntualizzare alcune caratteristiche generali inerenti a quegli orientamenti del pensiero antico che si suole denominare "metafisici". Il nocciolo della metafisica di stampo platonico, che trova le sue prime radici in Platone stesso e poi sviluppa molteplici e diverse varianti nella tradizione accademica,
nel medioplatonismo, e infme nel neoplatonismo plotiniano e post-plotiniano,
costituito dall'unione di una metafisica di genere esemplarista, secondo la quale i
principi intrattengono un rapporto d somiglianza parziale con i principiati, con
una sorta di teologia negativa, in base alla quale la conoscenza piena e completa
dei principi, che in quanto immobili ed immateriali trascendono la realt empirica, riservata a una dimensione ulteriore, qualitativamente diversa da quella
mondana. Il presupposto esemplarista, in questo quadro, non pu in alcun modo
essere considerato contingente, perch appunto la necessit di rinvenire qualcosa che abbia carattere di esemplare l'unica causa efficace per obbligare la filosofia a porsi sulla traccia di principi di ordine metafisico (ossia non appartenenti al
mondo delle realt materiali). Esso, inoltre, garantisce all'ambito dei principi
quel tanto di collegamento con la realt mondana sufficiente per evitare che la separazione metafisica tra cose e principi renda questi ultimi del tutto inutili sotto il
profilo esplicativo e causale. La teologia negativa, e l'epistemologia debole che
le collegata, assicura per parte sua che il presupposto esemplarista non sufficiente a compromettere la reale trascendenza dei principi, perch la parziale somiglianza tra copia e modello non elimina la differenza qualitativa del secondo
rispetto alla prima: per quanto infatti si possa purificare la copia per avvicinarla
al modello, dal punto di vista formale gli rester sempre inferiore. Per usare l'e-
60
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sempio del cerchio che lo stesso Platone chiama in causa nella VII Lettera, aumentando progressivamente i lati di un poligono regolare questo poligono assomiglier sempre di pi ad un cerchio, ma pur pensando questo numero di lati
grande a piacere, un poligono provvisto di tutti questi lati sar sempre cosa qualitativamente diversa dal cerchio. Questa differenza qualitativa pu essere descritta
anche mediante il divario che esiste tra la dimensione fmita in cui confinata la
conoscenza umana e l'infmitezza potenziale della ricerca. Cos come si avr la
nozione precisa di un cerchio solo riuscendo a pensare un poligono con un numero infmito di lati, allo stesso modo si avr una nozione completa di un'idea solo
mediante quella serie inesaustibile di ritocchi necessari per trasformare in identit
la parziale somiglianza tra copia e modello, che quanto dire l'individuazione
del numero sterminato di rapporti che legano quell'idea a tutte le altre. 33 Se questa sorta di teologia negativa, cos come impropriamente l'abbiamo chiamata, costituisce davvero la chiave di volta del "platonismo" nelle sue varie forme, si pu
capire anche perch nella tradizione platonica si siano insinuate a pi riprese venature di scetticismo, che vanno dal socratismo dei dialoghi aporetici di Platone,
allo scetticismo corrente nell'Accademia tra terzo e secondo secolo, fino alle forme di scetticismo teologicamente orientate caratteristiche soprattutto dei neoplatonici post-plotiniani (presso i quali, a partire da Porfirio, la teologia negativa
applicata anche alle idee 34). Questo filone neoplatonico dello scetticismo sopratutto evidente, fra gli altri, nell'ultimo scolarca dell'Accademia, Damascio di Damasco, come opportunamente rilevato da alcuni studi a lui dedicati. 35
Una ben diversa natura, invece, ha l'orientamento metafisico caratteristico
della filosofia di Aristotele. Qui l'ambito della metafisica, o meglio della filosofia
prima, si suddivide tra lo studio della sostanza soprasensibile, che ha caratteristiche almeno in parte simili alla teologia negativa di genere platonico, e l'ontologia, o scienza dell'essere in quanto essere. Per quanto riguarda la prima, interessante osservare che anche in Aristotele si riproduce quella sorta di dialettica
trascendentale che abbiamo visto all'opera negli indebiti tentativi di estendere
l'ambito della metafisica di Platone. Si pensi ad esempio alla nota controversia
intorno alla natura della causalit divina, in cui non assolutamente agevole deci-
33
Allusioni a una dialettica di carattere sostanzialmente infinito non sono infrequenti proprio nel
dialoghi cosiddetti "dialettici". Cfr. Parmenide 136b-d, Filebo 19b (per una interpretazione "dialogica" di questi passi v. F. Trabattoni, "Il dialogo come 'portavoce' dell'opinione di Platone", op. cii.),
Sofista 254c-d, Politico. 285a-b.
34
Cfr. P. Hadot, "L'harmonie des philosophies de Plotin et d'Aristote selon Porphyre dans le
commentaire de Dexippe sur les catgories", in AAVV, P/olino e il neoplatonismo in Oriente e
Occidente, Roma 1974, p. 31-47, qui p. 45; R. Chiaradonna, Sostanza, movimento, analogia. Piolino critico di Aristotele, Napoli 2002, p. 267.
35
A. Linguiti, L 'ultimo platonismo greco. Principi e conoscenza, Firenze 1990; S. Rappe, Reading Neoplatonism. Non-Discursive Th inking in the Texts of Plotinus, Proc/us, and Damascius,
Cambridge 2000; F. Trabattoni, "Filosofia e dialettica in Damascio", in ENm:n: KAI <l>IAIA.
Unione e amicizia. Omaggio a Francesco Romano, Catania 2003, p. 477-494.
61
dere se si tratta di causalit efficiente o di causalit finale. Mentre infatti la sequenza che va dal libro VIli della Fisica al libro A della Metafisica imporrebbe
la scelta in favore della causalit efficiente, perch l'unica necessit di porre l'esistenza di un motore immobile consiste appunto nel fatto che la natura infinita
del moto impone l'esistenza di una causa siffatta, l'indagine relativa alle caratteristiche del motore immobile in quanto tale obbliga a supporre che esso muova
solo in quanto causa fmale. Anche qui, come si vede, la pretesa di condurre la
metafisica oltre le evidenze postulate dalla realt sensibile (un certo tipo di moto
rivela l'esistenza di una causa efficiente ad esso adeguata), fino a tentare una descrizione indipendente dell'oggetto metafisico e della sua attivit causale, trascina l'indagine verso una antinomia difficilmente solubile. 36
Per quanto riguarda la scienza dell'essere in quanto essere, ovvero l'ontologia, non vi in Aristotele al contrario alcuna traccia delle movenze tipiche della
teologia negativa. La scienza aristotelica dell'essere, sia intesa come studio delle
caratteristiche che appartengono all'essere in quanto tale sia intesa come studio
della sostanza e della forma come aspetti primari dell'essere stesso, rappresenta
un ambito del sapere certo difficile, ma realisticamente conseguibile, perch non
impedito da alcuna differenza metafisica originaria. Esso infatti fondato sul presupposto che il pensiero e il linguaggio rispecchino fedelmente e univocamente la
realt delle cose37 e pu contare sul serbatoio di una memoria che semplice accumulo di esperienza e non rinvia - come la reminiscenza platonica - a una dimensione strutturalmente separata. 38 Tutto lascia dunque presumere che l'eventuale imperfezione o insufficienza dei risultati ottenuti derivi solo da errori di
procedura propri del soggetto conoscente, 39 che in quanto tali c' sempre la possibilit di correggere.
7. Alla luce di quanto detto appare abbastanza strano che una vulgata diffusa
indifferentemente tra i filosofi e gli storici della filosofia contemporanei interpreti
la dottrina platonica delle idee come una ontologia analoga a quella di Aristotele,
e non come una teologia negativa, cos come invece stata per lo pi intesa nella
tradizione platonica e neoplatonica. E' vero che Aristotele rifiuta la dottrina delle
idee, fra le altre cose, anche per il fatto che essa non riesce ad essere un'antologia (non riesce ad essere quella "scienza cercata" di cui si parla nel libro A della
Metafisica). Ma questa presa di posizione non dimostra per nulla che Platone
avesse effettivamente intenzione di costruire una "siffatta filosofia", 40 ossia quel-
36
Cfr. il punto sullo status quaestionis, con un essame delle principali posizioni critiche, in E.
Berti, " Il dibattito odierno sulla cosidetta 'Teologia' di Aristotele", Paradigmi 21 (2003) p. 279-297.
37
38
39
Metaph . a, 993b.
40
e,
105lb6-9.
62
Franco Trabattoni
L'obiettivo eudemonistico non toglie il fatto che la filosofia di Platone, proprio per conseguire un siffatto obiettivo, debba affrontare e risolvere complesse
questioni di ordine logico ed epistemologico. Resta inteso, d'altro canto, che ove
una qualche soluzione a tali problemi non possa essere trovata, la filosofia platonica fmirebbe per assomigliare a una raffinata forma di scetticismo, con tutte le
conseguenze spiacevoli gi segnalate dalle tradizioni antiche avversarie di questo
indirizzo (in primo luogo lo stoicismo). E in particolare: se nulla di certo possibile conoscere intorno al bene e ai valori, come si possono trovare le conoscenze
e le direttive utili per promuovere I'E8aqwv(a? Ma questo modo di porre il
problema, in realt, passa ingiustificatamente da un estremo all'altro, supponendo
che l'irraggiungibilit di una conoscenza assoluta (o assolutamente certa) equivalga automaticamente ad ammettere che nulla possa essere conosciuto in generale.
Qui scatta come al solito il dannoso meccanismo delle false contrapposizioni,
che continua essere sistematicamente applicato per classificare le immagini di
Platone nell'alternativa semplice dogmatismo/scetticismo, mentre quasi mai vengono prese sul serio le proposte di una "terza via". Affermare che le caratteristiche determinanti della metafisica e dell'epistemologia platonica impediscono una
chiusura defmitiva della ricerca, quale quella che si produrrebbe ad esempio attraverso una intuizione diretta delle idee, non significa affatto ritenere che tale ricerca sia del tutto inefficace e priva di risultati; significa piuttosto ammettere che
questi risultati devono valere sempre almeno in parte come provvisori, e che la
breccia verso ulteriori approfondimenti deve rimanere strutturalmente aperta. Ritenere che il possesso della verit non si possa mai considerare come assoluto o
defmitivo non equivale a dire che la verit sia assente, ma piuttosto a dire che la
verit si manifesta all'uomo, almeno nella misura in cui egli confinato nella dimensione temporale, come il risultato "meno confutabile" 43 a cui giunto lo stato
attuale dell'indagine, non come l'esito inconfutabile oltre il quale non c' pi
nulla da cercare.
Universit degli Studi di Milano
mostra che Aristotele stesso era consapevole del fatto che la scienza di cui si parla in quel testo costituisce una particolare accezione della "filosofia".
41
Su questo punto cfr. Scrivere nell'anima, op. cit., p. 269, n. 26 e il lavoro di W. Leszl ivi cita-
to.
42
Esempi salienti di "questi ampi" giri si trovano nella Repubblica e nel File bo, dove le lunghe
ed elaborate indagini metafisiche svolgono il ruolo di "medio" per affinare il significato e la comprensione di importanti nozioni etiche: che cos' la giustizia? Che cos' il bene (inteso come vita
buona)?
63
43
Fedone, 85c9-d l.