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ARISTOTELE (384 a.C. - 322 a.C.

1.   Vita e opere
Aristotele nasce a Stagira1, nella penisola Calcidica, nel 384 a.C. e muore a Calcide in Eubea nel 322 a.C. Nel
367 a.C. giunge ad Atene per divenire allievo di Platone nell'Accademia. Dopo la morte del maestro nel 347 a.C.
si trasferisce per qualche tempo in Asia Minore. Nel 342 a.C. è chiamato ad educare il futuro Alessandro il Grande,
figlio del re di Macedonia Filippo II. Nel 335-334 a.C. torna ad Atene e vi fonda una sua scuola, il Liceo, noto
anche come Peripato. Nel 323 a.C., alla morte di Alessandro, gli ateniesi anti-macedoni insorgono e Aristotele,
temendo rappresaglie per via dei suoi legami con la monarchia macedone, sceglie di lasciare la città.
Le sue opere sono distinte in essoteriche (destinate al pubblico) ed esoteriche (destinate a circolare solo nella
scuola), queste ultime anche dette acroamatiche. Degli scritti essoterici, per lo più dialoghi, sono arrivati a noi
solo pochi frammenti. Molta più fortuna hanno avuto invece gli scritti acroamatici, riordinati e pubblicati in toto
per la prima volta da Andronico di Rodi nel I secolo a.C.
I temi degli scritti acroamatici sono vari: logica (Organon, titolo collettivo degli scritti su questa materia, che
sono Categorie, De interpretazione, Analitici primi, Analitici secondi, Topici, Elenchi sofistici); metafisica (opera
principale Metafisica); fisica e psicologia (opere principali Fisica e De anima); etica e politica (opere principali
Etica nicomachea e Politica); poetica (opera principale Poetica, giuntaci solo in parte).

2.   Aristotele e Platone
2.1  La diversa intuizione del reale
Alcuni tratti generali del pensiero aristotelico manifestano appieno la distanza dell’allievo dal maestro.
Aristotele, ad esempio, riconosce all’individuo, unione di materia e forma (vd. più sotto), piena dignità di vero
essere, fino a farne nelle Categorie la sostanza prima (vd. più sotto). Al contrario, Platone ha sempre considerato
il singolo individuo, soggetto al divenire, un ente di secondo livello, cioè una mera copia dell’essere vero e proprio
costituito dall’idea universale, eterna e immutabile, che ne è il modello. In conseguenza di questa diversità
fondamentale, se Platone ha sempre considerato il mondo sensibile soggetto al divenire come oggetto di una
conoscenza incerta (l’opinione), al contrario, Aristotele ritiene che, come gli individui del mondo sensibile sono
vero essere, così del mondo sensibile c’è vera scienza, poiché cause e principi rendono il mutamento2 del tutto
intelligibile.
Un ulteriore punto di contrasto nell’approccio dei due filosofi è dato dal fatto che Aristotele, di fronte ai tentativi
platonici di ricondurre la molteplicità all’Uno/Bene, afferma l’assoluta irriducibilità del molteplice all’unità, ad
esempio riconoscendo, come si vedrà sotto, che la riunificazione di tutti gli enti in unità sempre maggiori non
può procedere oltre le 10 categorie3. A tale riconoscimento del molteplice corrisponde da parte di Aristotele il
riconoscimento dell’autonomia di ogni singola scienza, la quale si occupa di un certo campo dell’essere in base
a certi propri assiomi e certi propri principi, laddove in Platone alla riconduzione della molteplicità degli enti
all’unità dell’Uno/Bene corrispondeva la riconduzione delle molteplici scienze all’unica vera scienza: la dialettica.
Infine, mentre in Platone attività teoretica e attività politica appaiono inscindibili, come mostrano i suoi ripetuti
tentativi siracusani e la grandiosa riflessione della Repubblica, in Aristotele, figlio di un’età in cui la polis
comincia a perdere terreno di fronte al regno macedone, e dunque il cittadino comincia a perdere centralità politica,
l’interesse teoretico e quello politico appaiono divaricati, o almeno sulla via della divaricazione, ed è
esplicitamente riconosciuta la preminenza del primo sul secondo.

1
Da qui l’appellativo di Stagirita con cui è spesso chiamato.
2
Cioè il divenire.
3
Il che significa, appunto, che l’essere, ossia la totalità degli enti, è irrimediabilmente molteplice, giacché i tipi fondamentali di essere
sono 10 e tra loro non v’è possibilità d’unificazione.
1
2.2  La critica alla dottrina platonica delle idee
Per Aristotele Platone ha avuto il merito di aver compreso l'importanza della causa formale: le idee infatti non
sono altro che cause formali4. Tuttavia, secondo Aristotele è assurdo immaginare che le idee esistano fuori dalle
cose sensibili (nell'iperuranio) e indipendentemente da esse. Se così fosse, secondo Aristotele le idee non
potrebbero mai essere la causa delle cose in quanto non avrebbero rapporto con esse. Dunque, è necessario che il
principio formale delle cose sia nelle cose stesse. Le forme aristoteliche, quindi, non sono entità trascendenti
(come le idee di Platone), ma strutture immanenti (cioè interne) alle singole cose. Perciò Aristotele afferma che
le idee platoniche sono inutili doppioni delle cose sensibili, portatrici solo di difficoltà. Ad esempio, se possiamo
cogliere la somiglianza tra due uomini solo grazie all'esistenza dell'idea di uomo, sembrerebbe necessaria una
seconda idea che spieghi la somiglianza tra gli uomini e l'idea dell'uomo e poi un'altra che spieghi la somiglianza
tra questa seconda idea, l'idea dell'uomo e gli uomini e così via all'infinito (si tratta del cosiddetto argomento del
terzo uomo, riportato da Aristotele nella Metafisica e già posto in evidenza da Platone stesso nel Parmenide).
2.3  La critica al metodo dicotomico
Aristotele imputa al metodo dicotomico della dialettica platonica l’assenza di un criterio per determinare se
un’idea sia specie di un’altra oppure no, cioè per determinare se un’idea sia un’articolazione essenziale di un’altra
oppure no. Ad esempio, dire “l’uomo è un animale” e “la neve è bianca” equivale, in senso platonico, a dire che
l’idea di uomo partecipa dell’idea di animale e l’idea di neve partecipa dell’idea di bianco. Ma, si chiede Aristotele,
questa partecipazione è uguale? La sua risposta è no, perché in un caso siamo di fronte a una relazione genere-
specie, cioè l’idea di uomo è una determinazione essenziale dell’idea di animale, nell’altro no. Ma come possiamo
affermarlo? Di contro alla mancanza platonica, Aristotele ritiene di aver individuato un criterio utile a separare
le determinazioni essenziali di un termine da quelle non essenziali: le prime rispondono alla domanda “che cos’è?”
posta rispetto al termine in questione, le seconde no. Solo nel primo caso i termini oggetto di riflessione sono da
considerare in rapporto di genere-specie. In effetti, come si vedrà sotto, sarà proprio questo il criterio seguito
dallo Stagirita per individuare le 10 categorie. Tornando all’esempio, se rispetto al termine “uomo” mi pongo la
domanda che “cos’è?”, la risposta è “animale”; invece, se rispetto al termine “neve” mi pongo la domanda “che
cos’è?”, la risposta non potrà essere “bianca”. Allora, concludo che “uomo” è un tipo di animale, cioè “uomo” è
una determinazione essenziale di animale, mentre “neve” non è un tipo di bianco, cioè “neve” non è una
determinazione essenziale di bianco.

3.   Conoscenza e classificazione delle scienze


La Metafisica di Aristotele si apre con una celebre affermazione: «Tutti gli uomini aspirano per natura alla
conoscenza». Tuttavia, i livelli in cui la conoscenza si articola sono diversi e non tutti accessibili a ogni uomo.
Alla base c’è la sensazione, che consiste nella percezione di un certo oggetto qui e ora, quindi in una conoscenza
del particolare. Aristotele dice che la sensazione concerne il “che” delle cose, non il loro “perché”. Il secondo
livello è quello della memoria, che conserva l’informazione dovuta alla sensazione anche quando l’oggetto
percepito non è più presente. Terzo livello è quello dell’esperienza, che è il risultato della ripetizione di un certo
ricordo nella memoria: con l’esperienza si comincia a passare ad una conoscenza di tipo generale. Ulteriore livello
è quello dell’arte5, forma di conoscenza che ormai si rivolge verso l’universale e, dunque, verso il “perché” delle
cose. Per distinguere esperienza e arte Aristotele propone l’esempio dell’arte medica. Finché si sa che una certa
erba ha guarito Tizio, Caio, Sempronio e così via, si rimane al livello dell’esperienza, ovvero si sa che in generale
quell’erba guarisce le persone. Ma non si sa il perché, tanto che potrebbe accadere che l’erba non funzioni senza
che se ne comprenda il motivo. Il medico, invece, non solo sa che l’erba ha poteri guaritori, ma sa anche il perché
e così sa che quell’erba funzionerà sempre (cioè universalmente) in presenza di determinate condizioni e non

4
Per chiarimenti sulla causa formale vd. sotto, nel paragrafo dedicato alla metafisica come aitiologia e in quello dedicato ai principi del
divenire.
5
Da intendere nel senso di tecnica.
2
funzionerà in loro assenza. Anche l’arte, però, non è il livello supremo del sapere, in quanto nell’arte il sapere è
sempre subordinato ad uno scopo diverso da sé. Ad esempio, il sapere del medico non è uno scopo in se stesso,
ma è subordinato allo scopo di guarire. Il livello più alto del sapere è costituito dalla sapienza intesa come ricerca
disinteressata delle cause (cioè del “perché”), ovvero come sapere universale il cui unico scopo è il sapere stesso.
Il passaggio della conoscenza dal “che” (sensazione, memoria, esperienza) al “perché”, stimolato dalla
meraviglia6 di fronte alle cose, segna il trapasso alla scienza (arte, sapienza).
Aristotele, sulla base dell’oggetto e dello scopo, distingue due grandi ambiti della scienza: le scienze che hanno
per oggetto il necessario e hanno il loro scopo in sé stesse e le scienze che hanno per oggetto il possibile e
perseguono scopi esterni a se stesse. Le scienze del necessario, ossia di ciò che è sempre o per lo più nello stesso
modo, sono le scienze teoretiche: metafisica, fisica, matematica. È escluso dal loro dominio tutto ciò che è
accidentale, ossia ciò che può avvenire in modi sempre diversi e appare, quindi, dominato dal caso. Infatti, di ciò
che appare dominato dal caso è impossibile conoscere il “perché”. Le scienze del possibile, ossia di ciò che può
essere diversamente da come è, ma presenta comunque una qualche regolarità, sono le scienze pratiche e le
scienze poietiche. Le scienze pratiche sono etica e politica, il cui scopo è l'orientamento dell'azione umana7. Le
scienze poietiche sono le arti, il cui scopo sono la produzione o la manipolazione di oggetti8.

4.   Metafisica
L'origine del termine metafisica è probabilmente legata al riordino delle opere di Aristotele compiuto da
Andronico di Rodi nel I secolo a.C. Infatti l'insieme di scritti che oggi chiamiamo Metafisica fu posto dopo gli
scritti di fisica e “meta-fisica” significa proprio “al di là delle cose fisiche”. Nato forse per indicare gli scritti
aristotelici posti materialmente dopo quelli di fisica, il termine metafisica è passato ad indicare la ricerca sulle
strutture fondamentali della realtà, che sono dopo il mondo fisico, cioè sono al di là di esso e ne costituiscono il
fondamento. Per definire questo tipo di ricerca, successivamente indicato appunto come “metafisica”, Aristotele
utilizza invece l'espressione “filosofia prima”, della quale nella Metafisica dà quattro diverse, ma convergenti,
definizioni: 1) studio delle cause e dei principi primi della realtà, cioè aitiologia; 2) studio dell'ente in quanto ente,
cioè ontologia; 3) studio della sostanza, cioè ousiologia; 4) studio del divino e della sostanza immobile, cioè
teologia 9.
Le quattro definizioni sono convergenti nel senso che studiare le cause e i principi primi della realtà significa
studiare le cause da cui dipende la totalità della realtà e che a loro volta non dipendono da nulla. Ma ciò significa
studiare le cause non dei singoli enti, ma della totalità degli enti, ovvero le cause dell’ente in quanto ente, cioè a
prescindere da qualunque ulteriore tratto al di là del fatto che esso è. Come si vedrà sotto, a sua volta l’indagine
sull’essere, cioè sull’ente in quanto ente, è primariamente indagine sull’essere fondamentale che è la sostanza e,
a sua volta, l’indagine sulla struttura della sostanza conduce ad ammettere l’esistenza della sostanza divina come
causa efficiente prima dell’essere.
4.1 Metafisica come ontologia e ousiologia10
Quanto alla definizione che fa della metafisica un’ontologia (la seconda), Aristotele osserva che «l'essere si dice
in molti modi», intendendo con ciò sottolineare che il termine “essere” ha diversi significati né completamente
slegati l'uno dall'altro, perché altrimenti anche la semplice comunicazione interpersonale sarebbe impossibile, né
completamente identici tra loro, perché altrimenti sarebbero un unico significato, il che contrasta con l'esperienza

6
Secondo Aristotele, infatti, è la meraviglia (in greco thauma) di fronte alle cose a spingere l’uomo a chiedersi il “perché” delle cose e
a farne, così, un filosofo.
7
“Azione” in greco antico = praxis (da cui pratico).
8
“Produzione” in greco antico = pòiesis (da cui poietico).
9
Con termini di derivazione greca, la metafisica come studio delle cause e dei principi primi della realtà è aitiologia, che letteralmente
significa “studio delle cause”; la metafisica come studio dell’ente in quanto ente è ontologia, che letteralmente significa “studio
dell’essere”; la metafisica come studio della sostanza è ousiologia, che letteralmente significa “studio della sostanza”; la metafisica
come studio del divino e della sostanza immobile è teologia, che letteralmente significa “studio del divino”.
10
Assolutamente da pronunciare usiologia (senza la “o” iniziale).
3
originaria del fatto che abbiamo di fronte molteplici enti e molteplici modi di essere degli enti. L'essere, dunque,
ha una molteplicità di significati né equivoci (del tutto diversi) né univoci (uguali uno all'altro), ma analoghi
(simili, cioè in parte diversi e in parte uguali). Il passo successivo di Aristotele è individuare tra i molteplici
significati dell'essere quelli fondamentali. Essi sono quattro: 1) essere come accidente; 2) essere come categorie
(per sé); 3) essere come vero; 4) essere come atto e potenza11.
Secondo Aristotele l'analogia tra i diversi significati di essere consiste nel fatto che tutti rinviano all'essere come
categorie (per sé), in quanto le categorie sono le determinazioni generalissime tanto dell'essere quanto del
pensiero, in una delle quali ogni ente e ogni concetto rientrano necessariamente. Servendosi della domanda “che
cos’è?” come criterio guida per l’individuazione delle categorie, Aristotele ne individua dieci: sostanza, qualità,
quantità, relazione, agire, subire, dove, quando, avere, giacere. In pratica, per ogni tipo di ente concepibile
Aristotele si chiede “che cos’è?” e la risposta lo porta a costruire delle strutture ad albero (cfr. scheda fornita) al
cui vertice si trovano le dieci categorie. Ad esempio, relativamente all’ente Tizio, la domanda “che cos’è?”
impone la risposta uomo, relativamente a uomo la risposta sarà animale, relativamente ad animale sarà vivente e
relativamente a vivente sarà sostanza. Oppure, relativamente all’ente questa quercia, la domanda “che cos’è?”
impone la risposta albero, relativamente ad albero la risposta sarà pianta, relativamente a pianta sarà vivente -
dunque qui la sotto-colonna12 di Tizio e quella di “questa quercia” si incontrano - e relativamente a vivente sarà
sostanza. Ma relativamente all’ente questo bianco la domanda “che cos’è?” impone la risposta colore,
relativamente a colore la risposta sarà qualità: la sotto-colonna di “bianco” non incontrerà mai quella di Tizio o
di “questa quercia”. Viceversa, prendendo come punto di partenza l’ente questo amaro, la domanda “che cos’è?”
impone la risposta sapore e relativamente a sapore la risposta sarà qualità; quindi la sotto-colonna di “bianco” e
quella di “amaro” confluiscono nella colonna di qualità. Dunque, applicando la domanda “che cos’è?” ad ogni
tipo di ente e procedendo dal particolare (per esempio Tizio) al via via più generale (per esempio uomo, poi
animale, poi vivente, poi sostanza), Aristotele giunge alle dieci categorie, che sono i generi massimi dell’essere
e del pensiero non ulteriormente raggruppabili in unità maggiori.
Le categorie sono i generi supremi dell'essere, nel senso che tutto ciò che è rientra necessariamente in una delle
categorie. Inoltre esse sono i generi supremi del pensiero, nel senso che tutto ciò che è pensabile e predicabile
rientra in una delle categorie. Ora, tra tutte le categorie la più importante è la sostanza perché è presupposta da
tutte le altre. Infatti la qualità è sempre qualità di qualcosa (cioè di una qualche sostanza), la quantità idem, la
relazione è sempre relazione tra qualcosa e qualcos'altro, e così via per tutte le altre categorie. In altri termini,
mentre la sostanza esprime sempre e solo il “che cos’è?” e non inerisce mai all’altro da sè, le altre categorie,
proprio in quanto ineriscono alla sostanza, esprimono determinazioni dell’essere diverse dal “che cos’è?”. Ad

11
1) Essere come accidente indica il significato del verbo essere quando esprime la connessione casuale tra un soggetto e un predicato,
ad esempio nella frase “Marco è biondo”. Proprio poiché riguarda le connessioni casuali, di questo significato dell’essere non può per
Aristotele esservi scienza (dato che la scienza è la conoscenza di ciò che è necessario o almeno regolare); 2) essere come categorie
indica i dieci significati fondamentali del verbo essere quando esprime l’esistenza dei dieci tipi fondamentali di cose che esistono, cioè
le dieci categorie. Infatti la sostanza è (esiste), ma anche la qualità è (esiste) e così la quantità e tutte le altre categorie: ciascuna a suo
modo è (esiste). Quindi ogni categoria è un significato fondamentale dell’essere (sostanza, qualità, quantità etc sono le categorie, come
si vedrà poco più avanti); 3) essere come vero indica il significato del verbo essere quando esprime la corrispondenza tra il giudizio
(cioè la connessione tra soggetto e predicato) e il modo in cui le cose stanno nella realtà. Ad esempio, se guardo il tavolo e dico “Il
tavolo è nero”, tale giudizio significa che è vero che il tavolo è nero; 4) essere come atto e potenza indica il significato del verbo essere
quando esprime rispettivamente la realizzazione della capacità di avere una certa forma e la capacità di avere una certa forma. Ad
esempio, “Marco è un pianista” (in atto) significa che ha realizzato la capacità di avere la forma di pianista, cioè ora sa suonare il piano
e può esercitare l’atto di suonarlo; viceversa, “Marco è un pianista” (in potenza) significa che ha la capacità di avere la forma di pianista,
cioè ci sono le condizioni di partenza perché in futuro sappia suonare il piano, ma ora non può esercitare l’atto di suonarlo.
12
Colonna nel senso che gli enti sono come disposti su una linea verticale che dal basso all’alto va dal più particolare al più universale.
La colonna del primo esempio è: Tizio, uomo, animale, vivente, sostanza. Quella del secondo esempio è: questa quercia, albero, pianta,
vivente, sostanza. Quella del terzo esempio è: bianco, colore, qualità. Quella del quarto è: amaro, sapore, qualità.
In pratica esistono dieci colonne fondamentali, al cui vertice ci sono le dieci categorie. Scendendo verso il basso, ciascuna delle dieci
colonne si ramifica in sotto-colonne, ma la ramificazione di una delle dieci colonne fondamentali non si incontra mai con quella di
un’altra delle dieci colonne fondamentali.
4
esempio, la qualità esprime il “quale è?” di una sostanza, la quantità il “quanto è?” e così via. La sostanza quindi
è il centro di riferimento di tutte le categorie e, poiché le categorie sono il centro di riferimento dei significati
fondamentali dell'essere, la sostanza è il polo unificante dell'essere. Ogni cosa infatti è essere in quanto è una
sostanza (quindi rientra nella categoria sostanza) o un aspetto di una sostanza (quindi rientra in una delle altre
categorie). Ne consegue che l’ontologia aristotelica è in primo luogo una ousiologia.
La sostanza è dunque il concetto chiave della metafisica di Aristotele. Essa è caratterizzata a livello ontologico
da autonomia, nel senso che sussiste di per sé, senza bisogno di appoggiarsi ad altro (come invece fanno le altre
categorie) e determinatezza, nel senso che è un “questo qui” dotato di una certa natura propria che non può non
avere. Ora, se a livello ontologico sostanza è ciò che esiste autonomamente e in maniera determinata, a livello
logico, come accennato poco sopra, sostanza è ciò che non inerisce a qualcosa, ma a cui qualcosa inerisce. Ad
esempio, nelle frasi “il leone è veloce”, “il gatto salta”, “gli occhiali sono scuri”, le sostanze sono il leone, il gatto,
gli occhiali: a tutti questi infatti inerisce qualcosa. Senza queste sostanze anche le cose che ineriscono loro (cioè
è veloce, salta, sono scuri) non hanno senso. Per questa ragione Aristotele afferma che la sostanza è la causa (cioè
la condizione) di tutte le cose.
Tuttavia, non è perfettamente univoco l'utilizzo del concetto di sostanza da parte di Aristotele. Infatti, riflettendo
ulteriormente su che cosa sia la sostanza, egli afferma che essa è sinolo (unione) di materia (ciò di cui una cosa è
fatta) e forma (la struttura immanente ad una certa cosa che organizza unitariamente la materia di quella cosa
rendendo quella cosa proprio quella cosa). Ad esempio, la statua è una sostanza: il bronzo è la sua materia e la
struttura organizzativa che la rende quell’ente determinato che è la statua è la sua forma. Ma lo Stagirita, oltre al
sinolo, chiama sostanza anche la sola forma in quanto la forma è l’essenza che rende il sinolo un qualcosa di
determinato, ovvero l’essenza che rende una cosa ciò che quella cosa è, e dunque che conferisce sostanzialità
all'unione di materia e forma (cioè al sinolo). In effetti, se, come si vedrà più sotto, l’indagine logica sulle
categorie porta Aristotele a considerare sostanza prima l’individuo, sinolo di materia e forma, in quanto
l’individuo è il centro assoluto della predicazione13, punto di vista confermato dall’esperienza sensibile, la quale
ci suggerisce che ad esistere in senso pieno siano gli individui, viceversa l’indagine metafisica sulla sostanza
porta Aristotele a sottolineare il fatto che a rendere sostanza il sinolo individuale è soprattutto la forma ad esso
immanente, in quanto essa è la struttura che organizza la materia in modo tale che quel particolare individuo sia
l’ente che esso è14.

13
L’individuo è infatti sempre soggetto di predicazione (ciò di cui si dice qualcosa) e mai predicato (ciò che si dice di qualcosa).
Prendendo uno degli esempi utilizzati sopra, nella frase “il leone è veloce” il leone è certamente la sostanza, ma il concetto generale
“leone” è in effetti una sostanza seconda proprio perché non indica un individuo. Infatti, supponendo che Fido sia il nome di un leone,
noi potremmo dire: “Fido è un leone”. Sia “Fido” sia “leone” sono sostanze, ma “Fido” è sostanza prima, perché è ciò di cui si può solo
dire qualcosa, mentre “leone” è sostanza seconda, perché, non indicando un individuo, può essere ciò che si dice di qualcosa. Infatti nel
nostro esempio “leone” è ciò che si dice di “Fido”, mentre “Fido” è ciò di cui si dice “leone”. Da notare, però, che le sostanze secondo
possono predicarsi sempre e solo di sostanze; rimane quindi fermo il fatto che la sostanza non inerisce mai ad altro da sé (cioè non
esprime mai aspetti di un’altra categoria).
14
Per quel che ci riguarda può bastare sapere quanto sopra, ma chi volesse approfondire sappia che si tratta di una delle questioni più
intricate della filosofia aristotelica. Giusto per dare l’idea della difficoltà dell’argomento, riporto qui sotto quanto scrivono due studiosi
della filosofia antica.
Enrico Berti nel suo Profilo di Aristotele (pp. 221-22) scrive: «Dovendo pertanto dire che cos’è la sostanza, si può dire non solo che
essa è il composto, ma anche che essa è l’essenza, qualora però per essenza si intenda […] ciò che appartiene a un soggetto come sua
differenza ultima, ossia quel carattere che distingue la sua specie da tutte le altre dello stesso genere, e questo è la sua forma. […].
L’esempio più chiaro che Aristotele usa per illustrare questo tipo di sostanza è quello dell’anima, anzi di un particolare tipo di anima,
l’anima dell’uomo, cioè l’anima intellettiva. Questa è sostanza nel senso che è la causa della sostanzialità dell’uomo: essa non va confusa
con la specie “uomo” e meno ancora col genere “animale”, che in quanto universali, cioè predicati, non sono sostanze – o lo sono,
stando alle Categorie, in senso secondario. L’anima infatti non è predicato, ma soggetto, anche se è universale nel senso che è comune
a molti individui e ne costituisce la differenza specifica. In quanto tale, la forma, a differenza dell’individuo composto, non si genera e
non si corrompe, ma è presente o assente in una certa materia, mentre ciò che si genera e si corrompe è l’individuo. Essa inoltre, in
quanto universale, è l’oggetto proprio della definizione, mentre l’individuo propriamente non si definisce».
Franco Trabattoni nel suo La filosofia antica (pp. 125-26) scrive: «Sostanza in un certo senso sono […] sia il composto (sinolo), sia la
forma […], cioè l’essenza, che è accessibile alla definizione e non è soggetta a generazione e corruzione (nascono e muoiono gli uomini,
non la forma o essenza dell’uomo). Nella teoria che abbiamo ora riassunto si nasconde un’incredibile serie di problemi. […]. Nel libro
5
Al valore sia logico sia ontologico delle categorie, a partire da quella centrale di sostanza, corrisponde il valore
sia logico sia ontologico del principio supremo del pensiero, il principio di non contraddizione 15 . Infatti la
sostanza è ciò che è auto-sussistente e determinato e, dunque, in quanto tale, possiede una natura propria
assolutamente necessaria che è il corrispettivo ontologico del principio di non contraddizione. In effetti, il
principio di non contraddizione, affermando che uno stesso attributo non può riferirsi e non riferirsi alla stessa
cosa nel medesimo tempo e sotto lo stesso aspetto, afferma la determinatezza necessaria della natura di ogni cosa,
la quale, appunto, impedisce di affermare relativamente a quella cosa tutto e il contrario di tutto. In altri termini,
il principio di non contraddizione trova il proprio campo di applicazione nell’ambito di una realtà costituita di
sostanze determinate, relativamente alle quali, proprio perché sono determinate, non si possa affermare tutto e il
contrario di tutto. Ad esempio, se la sostanza uomo possiede come propria natura determinata la razionalità, allora
la proposizione “l’uomo è irrazionale” è contraddittoria poiché significa “l’animale razionale è irrazionale”, il
che equivale ad attribuire predicati opposti al medesimo soggetto nello stesso momento e sotto lo stesso aspetto.
È chiaro però che se la sostanza non avesse alcuna natura determinata necessaria, cioè se non vi fosse sostanza,
allora diverrebbe pensabile tutto e il contrario di tutto. Infatti, se ogni cosa muta senza avere alcuna struttura
necessaria stabile, nulla può avere una realtà determinata tale che di essa non si possa affermare qualunque cosa16.
Di conseguenza, non vi sarebbero nemmeno il vero e il falso né il loro principio supremo: il principio di non
contraddizione.
4.2 Metafisica come aitiologia
La dottrina delle quattro cause, di cui si tratterà ancora poco sotto, è, da un certo punto di vista, un
approfondimento della riflessione sulla sostanza. Le quattro cause sono infatti le condizioni intrinseche ed
estrinseche che rendono una sostanza proprio quella sostanza. Ovvero, ogni sostanza è ciò che è in base alla
propria causa materiale prossima (la materia di cui è fatta), alla propria causa formale (la sua struttura immanente
di organizzazione unitaria), alla propria causa efficiente (ciò che dà origine al mutamento o alla quiete), alla
propria causa finale (il suo scopo, in ambito naturale coincidente con la realizzazione della forma). Facendo alcuni
esempi: una statua di bronzo ha per causa materiale il bronzo, per causa formale la struttura immanente di statua,
per causa efficiente lo scultore e per causa finale il diletto che la statua dà o anche il guadagno che lo scultore ne
ricava. Oppure, ciascuno di noi ha come causa materiale i propri nervi, carne, sangue ossa etc…, come causa
formale la struttura immanente di uomo adulto, come causa efficiente i propri genitori (cioè enti dotati della
struttura di uomo adulto) e come causa finale la realizzazione della propria forma. O ancora, la pianta adulta ha
per causa materiale il legno e le foglie di cui è fatta, per causa formale la propria struttura immanente di pianta
adulta, per causa finale la piena realizzazione di tale struttura e per causa efficiente la pianta adulta che ha generato
il seme da cui si è sviluppata. Come si vede, nel caso delle sostanze naturali la causa formale, finale ed efficiente

VII della Metafisica Aristotele afferma che l’universale non è sostanza (mentre nelle Categorie poteva essere almeno sostanza seconda)
e ci sono buoni motivi per ritenere che la forma abbia caratteri individuali. Egli dice spesso che, ad esempio, che la forma di Socrate è
l’anima, ma è chiaro che l’anima di Socrate è diversa da quella di Callia o da quella di Platone. Se d’altra parte la forma è individuale,
non si capisce come si possa darne una definizione (poiché, come detto, solo l’universale può essere conosciuto). Sembra dunque
necessario pensare che la forma/essenza sia, in un certo senso, duplice: c’è anzitutto la forma individuale (l’anima di Socrate), che è
sostanza in senso proprio e di cui non si dà definizione. Poi c’è la forma intesa come genere (l’anima in generale, identica in Socrate,
Callia e Platone), che non è sostanza in senso proprio e che può essere definita. In questo senso ci può essere conoscenza dell’individuo,
sia pure solo nei suoi tratti universali».
15
Aristotele nella Metafisica ne dà due formulazioni: 1) «È impossibile che la stessa cosa insieme inerisca e non inerisca alla medesima
cosa e secondo il medesimo rispetto»; 2) «È impossibile che la stessa cosa sia e insieme non sia».
16
Per esempio, in una realtà in cui nulla abbia una struttura determinata necessaria la proposizione “la sedia è la non-sedia” è
perfettamente accettabile, anche se nega il principio di non contraddizione (e infatti è per noi incomprensibile). Ed è altrettanto
accettabile la proposizione “la sedia è la sedia e anche la non-sedia”. Noi percepiamo l’assurdità assoluta di queste proposizioni proprio
perché non possiamo far altro che pensare ogni cosa come dotata di una natura determinata che rende impossibile affermare che essa
sia non-se stessa e che essa sia se stessa e insieme non-se stessa. Cioè, il nostro pensiero funziona per forza in base al principio di non
contraddizione per cui qualunque ente non può essere non-se stesso. Ebbene, il fatto che il nostro pensiero abbia per regola assoluta il
principio di non contraddizione (infatti qualunque proposizione lo neghi appare assurda) è per Aristotele il corrispettivo logico del fatto
che la realtà sia costituita da sostanze, cioè da enti dotati di una natura necessaria determinata.
6
coincidono.
Determinati i quattro tipi di causa della sostanza, Aristotele muove alla ricerca delle cause prime relativamente a
ciascun tipo di causa. Quanto alla causa materiale, causa prima sono i quattro elementi fondamentali (terra, acqua,
aria, fuoco), dalla cui aggregazione sono composte le varie materie di cui sono fatte le sostanze corruttibili. I
quattro elementi sono in grado di trasformarsi l’uno nell’altro (ad esempio l’acqua evapora), il che implica
l’ammissione di un sostrato comune a tutti e quattro da concepire come pura potenza (vd più sotto). Accanto ai
quattro elementi che compongono le sostanze corruttibili vi è un quinto elemento, l’etere, che è la materia delle
sostanze eterne, cioè gli astri e i cieli.
Quanto alla causa formale, causa prima non sono altro che tutte le forme esistenti, quelle delle sostanze celesti e
quelle delle sostanze corruttibili. Le forme esistono eternamente negli individui che esse stesse determinano come
tali, rendendo un certo aggregato di materia proprio quell’ente determinato (ad esempio, un uomo o una scimmia
o una quercia e via dicendo). In altri termini, vi sono tante cause formali prime quante specie di enti (viventi e
non viventi).
Quanto alla causa finale, il discorso è analogo a quello relativo alla causa formale. Causa prima in quest’ambito
è infatti la realizzazione della forma (leggere con attenzione la nota 11), dunque vi sono tante cause prime finali
quante forme.
Quanto alla causa efficiente, la ricerca della causa prima porta Aristotele ad affermare l’esistenza della sostanza
immobile divina e dunque a fare della metafisica una teologia.
4.3 Metafisica come teologia
Come si vedrà più sotto, ogni cosa è mossa da altro, poiché ogni motore deve essere in atto rispetto al movimento
di cui è causa. Di conseguenza, o si va indietro all'infinito (il bambino è generato dall'adulto in atto, ma
quest'ultimo rimanda ad altre cause in atto e così all'infinito) o si ammette che deve esistere qualcosa che muove
senza essere mosso. Aristotele chiama questa sostanza immobile “primo motore immobile”: è la causa efficiente
ultima e definitiva, cioè a sua volta incausata. Tale primo motore immobile, in quanto immobile, deve essere atto
puro (infatti se fosse potenza sarebbe mosso da altro) e pura forma (per la stessa ragione di prima). In quanto atto
puro e pura forma il motore immobile deve essere immateriale (infatti se fosse anche materia non sarebbe pura
forma e, dato che la materia è connessa alla potenza, non sarebbe neppure puro atto), perciò non può dare inizio
al movimento del tutto per mezzo di un contatto. Esso, afferma Aristotele, muove tutto come oggetto d'amore. In
altre parole, sono le cose che, amando la perfezione del motore immobile, tendono a realizzare la propria
perfezione, cioè ogni cosa tende a realizzare la potenzialità che essa stessa racchiude portandola in atto (così da
somigliare il più possibile a ciò che è puro atto). Il motore immobile, inoltre, in quanto atto puro e pura forma e
in quanto essere più alto dell'universo, svolge l'attività più alta e slegata dalla materia: pensare. Il pensiero del
motore immobile non può rivolgersi a oggetti a lui inferiori, ma non ci sono oggetti a lui superiori, perciò il suo
pensiero è rivolto a se stesso: secondo una famosissima formula aristotelica, il motore immobile è pensiero di
pensiero. Infine, se è vero che l'uomo, pensando, raggiunge un certo grado di felicità, il motore immobile, essere
perfetto ed eternamente pensante, è eternamente in uno stato di somma beatitudine. Ma eternità, immaterialità,
perfezione e somma beatitudine sono le caratteristiche da sempre attribuite agli dei, dunque il motore immobile
è Dio. Secondo Aristotele esiste un motore immobile per ogni cielo ed egli, come si vedrà più sotto, riconosceva
l'esistenza di una pluralità di cieli (da 47 a 55), perciò il suo è sostanzialmente un politeismo, anche se è stato
osservato che tale politeismo convive con un monoteismo esigenziale (nel senso che il ragionamento proposto da
Aristotele per giungere al motore immobile sembra portare a concludere che esiste un primo motore immobile
finale superiore a quelli dei cieli ricompresi nel cielo di massima estensione).

5.   La fisica
5.1  I principi del divenire (mutamento)
Sin da Parmenide uno dei problemi fondamentali della filosofia è quello di pensare in maniera adeguata il divenire.
7
Seguendo l’eleate, Platone aveva negato che del mondo del divenire si potesse dare vera scienza, intesa come una
conoscenza assolutamente stabile. Aristotele, però, rigettando l’idea platonica secondo cui l’individuo è copia
imperfetta dell’idea, considera la realtà sensibile vero essere e, di conseguenza, afferma che di essa si può avere
vera scienza. Si tratta, perciò, non di espellere il divenire dall’ambito della scienza, ma di individuare le cause e
i principi che lo rendano intelligibile.
Nel compiere tale operazione Aristotele individua tre principi del mutamento: il sostrato, la privazione e la forma.
Il sostrato è la materia che sta sotto il passaggio da un contrario (la privazione) all’altro (la forma) e lo rende così
comprensibile come divenire nella permanenza di qualcosa, il che esclude la commistione tra essere e non-essere,
ritenuta assurda da Aristotele sulla base della riflessione di Parmenide accettata da Platone. Ogni mutamento è
dunque l’acquisizione di una determinata forma da parte di un sostrato che inizialmente ne è privo. Ad esempio,
nel divenire “colto” da parte dello studente Pinco Pallino, quel che accade è che il sostrato Pinco Pallino passa
dallo stato di “non-colto” (cioè lo stato in cui è privo della forma cultura) allo stato di colto (cioè lo stato in cui
possiede la forma cultura). La presenza permanente del sostrato garantisce che il mutamento avvenga entro i
confini dell’essere e perciò lo rende comprensibile.
La dottrina delle quattro cause esposta sopra è, oltre che riflessione sulla sostanza, una riformulazione
approfondita della dottrina dei tre principi del mutamento. La causa materiale e la causa formale sono le cause
intrinseche del mutamento e corrispondono rispettivamente al sostrato-privo di una certa forma e alla forma da
acquisire, la causa efficiente è la causa estrinseca del mutamento, cioè l’elemento esterno al mutamento che gli
dà l’impulso iniziale, la causa finale non è altro che la forma intesa come scopo intrinseco per quel che riguarda
i processi naturali, mentre è una determinazione estrinseca per quel che riguarda i processi artificiali17.
Tutta la riflessione aristotelica sui principi del mutamento converge infine verso la concettualizzazione delle due
nozioni fondamentali di atto e potenza. La potenza è la possibilità da parte della materia di assumere una
determinata forma, l'atto è la realizzazione di questa possibilità, come appare dai due termini di cui si serve
Aristotele per designare l’atto: entelécheia ed enérgheia. Entelécheia, da en (dentro)+telos (fine)+echein (avere),
cioè avere lo scopo in sé, o più semplicemente da entelés (compiuto), significa realizzazione; enérgheia, da en
(dentro)+ergon (attività), cioè attività intrinseca, indica sia l’attuarsi di ciò che è in potenza sia l’attività di ciò
che, essendo in atto, è in grado di svolgere la propria funzione18.
Il divenire, come chiarito una volta per sempre da Parmenide, sarebbe irrazionale, e dunque impensabile, se
consistesse in un passaggio dall'essere al non-essere. Ma Aristotele, attraverso la coppia concettuale atto-potenza,
può affermare che il divenire è un passaggio dall'essere in potenza (ovvero l'essere capace di acquisire una certa
forma di cui è attualmente privo) all'essere in atto (ovvero l'essere dotato di quella certa forma), dunque un
passaggio tutto interno all'essere. La precisa definizione aristotelica del mutamento afferma che il mutamento è
“l’atto di ciò che è in potenza in quanto è in potenza”, ovvero che la cosa che muta muta in relazione al proprio
aspetto per cui è in potenza qualcos’altro, non in relazione al proprio aspetto per cui è in atto. Cioè, il seme muta
in quanto seme che è in potenza pianta, non in quanto seme in atto. Ciò implica che la cosa che muta sia sempre
in potenza in relazione al proprio mutamento e che, di conseguenza, ogni mutamento, cioè ogni passaggio dalla
potenza all'atto, debba avere una causa efficiente esterna al mutamento di cui è causa, ovvero una causa efficiente
già in atto rispetto a tale mutamento. In caso contrario, infatti, non vi sarebbe nulla a dare inizio al mutamento,

17
Lo scopo delle sostanze naturali è sempre per Aristotele interno alle sostanze naturali stesse e coincide con la realizzazione della
propria forma. In breve, ciò esclude qualunque finalismo di tipo antropocentrico e/o teocentrico, secondo i quali lo scopo della natura
sarebbe servire in qualche modo all’uomo, che a sua volta avrebbe per scopo il riunirsi a Dio. Con un esempio, per Aristotele la sostanza
naturale maiale non esiste per fornire all’uomo salami (finalismo antropocentrico), così che l’uomo abbia l’agio e il buon umore per
condurre la sua vita in modo da riunirsi a Dio; semplicemente, lo scopo della sostanza naturale maiale è realizzare al meglio la forma
maiale, cioè è uno scopo interno rispetto alla sostanza maiale. Invece, per Aristotele le sostanze artificiali sono prodotte dall’uomo in
vista di uno scopo esterno alle sostanze artificiali stesse. Ad esempio, lo scultore scolpisce la statua in vista del denaro che ne ricaverà
o del piacere che ne trae o altro ancora.
18
Prendendo come esempio il seme (potenza) e la pianta (atto), l’atto inteso come enèrgheia indica sia il processo di attuazione che dal
seme porta alla pianta sia l’attività che la pianta realizzata è in grado di esplicare.
8
che, di conseguenza, non si produrrebbe affatto, così che la potenza rimarrebbe sempre potenza. Dunque, sebbene
sembri il contrario, l'atto precede la potenza in senso gnoseologico, ontologico e, solo a livello di specie,
cronologico. A livello gnoseologico è necessario sapere che cos’è l’adulto in atto per determinare il bambino
come adulto in potenza, a livello ontologico l’atto è superiore alla potenza in quanto è il compimento della potenza,
che dunque è solo in quanto è in vista dell’atto, a livello cronologico, sebbene sul piano individuale l’essere
bambino preceda l’essere adulto, sul piano della specie perché nasca il bambino è necessario che ci sia già un
adulto in atto.
Bisogna infine osservare che atto e potenza sono concetti relativi. Ad esempio, un blocco di marmo è in potenza
una statua, ma è possibile anche il contrario: basta che io non sappia cosa farmene di una statua di Achille e
desideri trasformarla in un blocco di marmo da vendere al mercato! Allora la statua di Achille sarà in potenza un
blocco di marmo. La catena del divenire è dunque relativa, ma alle sue estremità esistono due punti assoluti: da
un lato la materia prima, dall'altro l'atto primo. La materia prima è pura potenza ed è un concetto limite: secondo
Aristotele non può esistere nulla di reale che sia completamente privo di forma. L'atto primo è pura forma
eternamente realizzata: è il divino.
5.2  Tipi di movimento e cosmologia
Per Aristotele la fisica è lo studio delle sostanze mobili. Egli distingue quattro tipi di mutamento19: 1) sostanziale
(generazione-corruzione), 2) qualitativo (alterazione), 3) quantitativo (aumento-diminuzione della grandezza), 4)
locale (spostamento da un luogo ad un altro). Il più importante è il mutamento locale, che a sua volta si distingue
in: rettilineo dal basso in alto, rettilineo dall'alto in basso e circolare.
Aristotele distingue l’universo in mondo sub-lunare e mondo celeste. Il mondo sub-lunare è quello delle sostanze
soggette a ciascuno dei quattro tipi di mutamento e dunque corruttibili (cioè destinate a scomparire). Gli elementi
materiali costitutivi delle sostanze corruttibili del mondo sub-lunare sono i quattro elementi empedoclei (terra,
acqua, aria, fuoco), derivanti secondo Aristotele da una materia originaria comune che funge da sostrato e assume
le quattro determinazioni fondamentali in base alla presenza in essa dei contrari fondamentali (caldo-freddo e
secco-umido): freddo-secco (terra), freddo-umido (acqua), caldo-umido (aria) e caldo-secco (fuoco). Il
movimento locale delle sostanze corruttibili è quello rettilineo, determinato nella sua direzione in base alla teoria
dei luoghi naturali. Secondo Aristotele ognuno dei quattro elementi, e quindi le sostanze corruttibili che di essi
sono composti, tende a tornare nel proprio luogo naturale determinato dal suo peso. L’elemento terra è portato
dalla sua pesantezza ad occupare il centro dell'universo, l'acqua sta intorno alla terra, poi l'aria e infine il fuoco,
che quindi è il più leggero dei quattro elementi sub-lunari.
Il mondo celeste è quello delle sostanze soggetto solo al mutamento locale, dunque incorruttibili (cioè eterne).
Le sostanze celesti sono fatte di un quinto e diverso elemento: l'etere. Il movimento dell’etere è circolare e quindi
eterno in quanto privo di contrari. L’universo aristotelico è composto di sfere concentriche in numero da 47 a 55
e ha al centro la Terra (anch’essa sferica). Ogni sfera celeste è fatta di etere e alcune hanno incastonati al proprio
interno uno o più astri. La sfera celeste più vicina al mondo sub-lunare è quella della Luna, seguono quelle degli
altri sei astri visibili a occhio nudo20. L’ultima sfera celeste (o la prima, a seconda del punto di riferimento), la
più ampia, comprendente in sé tutte le altre, è la sfera delle stelle fisse (fisse nel senso che le stelle sono concepite
come incastrate nell’etere di cui è composta la loro sfera e quindi come trascinate nel moto circolare della sfera
stessa). Le altre numerose sfere presenti nella cosmologia aristotelica sono inserite per spiegare le irregolarità del
moto del Sole e dei pianeti21 visibili a occhio nudo, le quali non dovrebbero sussistere posto che i moti celesti

19
Aristotele chiama movimento tutti e quattro i tipi di mutamento presentati sopra; noi invece solitamente chiamiamo movimento solo
il mutamento locale. Si usi il termine che si vuole, l’importante, se si scegli di parlare di movimento, è ricordare che il concetto di
movimento di Aristotele è più esteso del nostro. Va da sé che i quattro tipi di mutamento/movimento non sono altro che quattro forme
di divenire, dato che in generale il divenire non è altro che il mutamento in qualunque senso sia inteso.
20
Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno.
21
In effetti, gli antichi chiamavano “pianeta” anche il Sole proprio perché “pianeti” significa “erranti” e tale nome era attribuito agli
astri che paiono muoversi irregolarmente, mentre le stelle fisse del primo cielo erano “fisse” proprio in quanto dotate di moto circolare
9
siano perfettamente circolari. Grazie all’ipotesi dell’esistenza di queste sfere (invisibili a occhio nudo perché
prive di astri), i moti irregolari del Sole e degli altri pianeti erano spiegali come risultato della sommatoria di più
moti circolari regolari incrociati tra loro in modo da dare l’illusione dell’irregolarità.
L’universo aristotelico è perfetto, finito, uno ed eterno. È perfetto in quanto esattamente compiuto e non mancante
di nulla, finito in quanto in uno spazio infinito non ci sarebbe un centro (e ciò sarebbe in contrasto con la teoria
dei luoghi naturali), uno in quanto non ha nulla fuori di sé, eterno in quanto privo di principio e fine (altrimenti
non sarebbe perfetta totalità).
5.3  Spazio e tempo
Nell’analizzare il movimento Aristotele formula una celeberrima definizione dello spazio come “primo limite
immobile del contenente”. Lo spazio è quindi il limite del corpo che contiene un altro corpo, come fosse il limite
della brocca che contiene l’acqua. Lo spazio è quindi concepito come luogo di qualcosa di per sé immobile, nel
senso che un corpo può passare da un luogo a un altro, ma il luogo in quanto limite tra contenete e contenuto
rimane immobile. L’acqua può passare dalla brocca al bicchiere, cioè può cambiare luogo, ma il luogo in sé
rimane immobile. E se sposto la brocca con dentro l’acqua? Vorrà dire semplicemente che il corpo brocca ha
cambiato luogo, non che si è mosso il luogo dell’acqua, il quale, in quanto limite della brocca che la contiene, è
rimasto in effetti perfettamente immobile. Definito in base al fatto di contenere qualcosa, lo spazio, come
accennato, è concepito da Aristotele come luogo di qualcosa. Egli in altre parole non concepisce l'idea di uno
spazio vuoto come realtà a sé stante. L’idea dello spazio come vuoto assoluto, infatti, sarebbe in radicale contrasto
con la teoria dei luoghi naturali perché nel vuoto non ci sono sopra/sotto, destra/sinistra né centro e ciò renderebbe
impossibile attribuire una certa collocazione naturale ad ogni elemento, il che, agli occhi di Aristotele,
equivarrebbe a rendere inconcepibile il movimento locale dato che non si vede per quale ragione qualcosa si
dovrebbe muovere in una condizione in cui ogni punto dello spazio è identico a ogni altro (cioè in una condizione
di vuoto).
Ora, concepire lo spazio come luogo di implica una conseguenza sorprendente, ma necessaria: ogni singola cosa
che si trova nell’universo è contenuta nello spazio, cioè è in un luogo che la contiene, ma non l'universo nella sua
totalità. Infatti, l’universo nella sua totalità non può essere contenuto da qualcosa, altrimenti ci sarebbe qualcosa
fuori dall’universo nella sua totalità, ma allora l’universo nella sua totalità non sarebbe l’universo nella sua totalità,
perché avrebbe qualcosa fuori di sé, ma questo è contraddittorio. Facendo un esempio, l'universo nella sua totalità
non è come una sfera disegnata su una lavagna, ma è come tutta la lavagna ed è chiaro che mentre ogni cosa
disegnata sulla lavagna si trova sulla lavagna, la lavagna non si trova sulla lavagna.
Altrettanto celebre è la definizione aristotelica del tempo come “numero del movimento secondo il prima e il
poi”. Ciò significa che il tempo ha una doppia dimensione, oggettiva e soggettiva. Dal lato oggettivo il tempo
dipende dall’esistenza del movimento, dal lato soggettivo invece dipende dall’esistenza dell’anima che attraverso
la dimensione temporale misura il movimento. Per Aristotele in effetti il tempo è il modo in cui l’anima misura
il movimento, non ciò che è misurato dal movimento; come dire che il tempo misura il movimento delle lancette,
non il contrario.

6.   Psicologia e gnoseologia
Per Aristotele la psicologia, cioè la dottrina dell’anima, è quella parte della fisica che studia le sostanze che hanno
in sé il principio del movimento. Nella principale opera al riguardo, il De anima, l'anima è definita dallo Stagirita
in due modi, come «forma di un corpo organico che ha la vita in potenza» e come «atto primo di un corpo organico
che ha la vita in potenza». In altre parole, l’anima è la presenza in atto in un corpo della funzione vitale, intesa
come principio e struttura organizzativa delle singole funzioni in cui la vita del corpo si esplica. L’anima, dunque,

regolare.
10
non è corpo, ma vi è strettamente connessa, tanto che con il corpo essa muore22. Infatti, la morte non è altro che
il venir meno della funzione vitale del corpo che, appunto, è l’anima. Si manifesta, in questa dottrina dell’anima
come atto del corpo, il rifiuto aristotelico sia del modello materialista, proprio per esempio di Democrito, secondo
cui l’anima è corpo, sia di quello dualista, proprio della tradizione orfico-pitagorica, accolta da Platone, secondo
cui l’anima e il corpo sono sostanze separate, di cui la prima è immortale.
Aristotele opera una tripartizione funzionale dell'anima, cioè individua tra funzioni dell’anima: 1) vegetativa, che
presiede al nutrimento e alla riproduzione. Questa funzione dell’anima è comune a tutti i viventi: piante, animali,
uomini; 2) sensitiva, che presiede a sensibilità e movimento. Questa funzione dell’anima è comune ad animali e
uomini; 3) intellettiva, che presiede alla razionalità. Tale funzione è propria solo dell’uomo.
Trattando della funzione sensitiva e di quella intellettiva, Aristotele delinea la sua gnoseologia. Il primo stadio
della conoscenza è la sensibilità, costituita secondo lo Stagirita dai cinque sensi e dal senso comune. Attraverso i
cinque sensi si percepiscono le forme sensibili degli oggetti d’esperienza, mentre dal senso comune dipendono la
coscienza della sensazione (il sentire di sentire. Ad esempio, il fatto che quando vedo qualcosa percepisco sia ciò
che vedo sia che sto vedendo) e la percezione di ciò che è comune a più sensi, ad esempio il movimento. Secondo
Aristotele la sensazione in atto è un'assimilazione dell'organo di senso all'oggetto sentito, cioè: l’organo di senso
che è in potenza la forma sensibile, quando entra in contatto con essa realizza la propria potenzialità e diviene in
atto uguale alla forma sensibile con cui è entrato in contatto. Ad esempio, l’occhio è in potenza blu e diviene blu
in atto quando entra in contatto con la forma sensibile del blu appartenente all’oggetto che viene visto.
È chiaro da quanto detto che la gnoseologia aristotelica ha un punto di partenza empirista e anti-innatista: la
conoscenza cioè ha origine dall’incontro con gli oggetti empirici, non dalla presenza nell’anima di idee innate.
Il secondo stadio della conoscenza è per Aristotele l'immaginazione o fantasia, intesa come la facoltà di produrre
e combinare immagini mentali indipendentemente dalla presenza degli oggetti empirici. Attraverso
l'immaginazione o fantasia si dà vita alla rappresentazione schematica o fantasma23 dell’oggetto, ovvero alla sua
immagine generale, che è l'antecedente dell'universale o concetto, ma non è ancora l’universale o concetto24.
Il terzo e ultimo stadio della conoscenza è dato dall'intelletto. Esso estrae la forma intelligibile (cioè l’universale
o concetto) dell’oggetto a partire dalla rappresentazione schematica messa a punto dall’immaginazione, a partire
a sua volta dalla forma sensibile dell’oggetto colta dagli organi della sensibilità (cioè i cinque sensi e il senso
comune). Aristotele distingue l'intelletto in passivo e attivo. L’intelletto passivo è in potenza tutte le forme
intelligibili, cioè è la capacità di accogliere su di sé i concetti degli oggetti empirici. Lo si può immaginare come
una tavoletta di cera ancora molle su cui è possibile imprimere le più svariate forme. A questo puto sorge un
problema: l’intelletto passivo può ricevere su di sé la forma intelligibile dell’oggetto, ma non la possiede già in
atto, d’altro lato, anche nella rappresentazione schematica fornita dall’immaginazione la forma intelligibile è
presente solo in potenza. Ma allora è chiaro che è necessario qualcosa che possieda già in atto la forma intelligibile
e che possa così realizzare la duplice potenzialità presente nell’intelletto passivo e nella rappresentazione
schematica. Proprio questo è il ruolo dell’intelletto attivo: esso possiede in sé in eterno e in atto tutte le forme
intelligibili e, proprio per questo, è in grado di astrarre dalla rappresentazione schematica la forma intelligibile
che le corrisponde, la quale può così imprimersi sull’intelletto passivo, che in questo modo si attua, cioè conosce
la forma intelligibile dell’oggetto in questione.
Quanto allo statuto dell’intelletto attivo, il fatto che Aristotele si limiti ad affermare, in maniera un po’ sibillina,
che esso è «divino, separato e incorruttibile» e che «non gli capita di non pensare» ha dato vita ad un dibattito
millenario circa il suo essere proprio di ogni individuo, il che implicherebbe una qualche forma di immortalità
individuale, oppure unico per tutto il genere umano, il che implicherebbe che in quanto individuo l’uomo è
assolutamente mortale, oppure proprio di Dio e non dell’uomo, il che implicherebbe che l’uomo sia come

22
C’è al riguardo una complicazione di cui si dirà più sotto.
23
Quindi “fantasma” in ambito aristotelico significa immagine generale di un oggetto, NON immagine eterea e parlante di un morto.
24
Forma intelligibile = universale = concetto.
11
individuo sia come specie è assolutamente mortale. Nel III secolo d.C. Alessandro di Afrodisia, grande
commentatore di Aristotele, sostenne che l’intelletto attivo sia Dio stesso, quindi del tutto esterno rispetto
all’uomo. Nel medioevo il filosofo arabo Averroè sostenne che non solo l’intelletto attivo, ma anche quello
passivo, sia esterno rispetto all’uomo, il quale sarebbe quindi privo di anima intellettiva; al contrario, il filosofo
cristiano Tommaso d’Aquino sostenne che sia l’intelletto attivo sia quello passivo siano propri del singolo
individuo umano, cui quindi pertiene non solo un’anima intellettiva, ma un’anima intellettiva immortale.

7.   La logica
Aristotele chiamava analitica quel che noi chiamiamo logica, ovvero lo studio del funzionamento del pensiero
da un punto di vista formale, cioè a prescindere dai suoi contenuti. Come tale, la logica è per Aristotele strumento
per l’elaborazione di tutte le scienze. Da qui il nome collettivo di Organon 25 attribuito, probabilmente da
Andronico di Rodi, all’intero corpus delle opere logiche di Aristotele.
Nell’opera intitolata Categorie egli studia la logica del concetto. L'idea di fondo è che tutti i concetti espressi
nelle parole siano organizzabili in alcuni macro-gruppi fondamentali, che al loro interno sono ordinabili in
colonne gerarchiche di generi e specie in modo che ciascun concetto sia specie rispetto al concetto più in alto e
più esteso e genere rispetto al concetto più in basso e più comprensivo26. Ad esempio, nella colonna Giuseppe,
uomo, animale, vivente, sostanza osserviamo che animale è genere rispetto a uomo e specie rispetto a vivente, il
quale a sua volta è genere rispetto ad animale e specie rispetto a sostanza e così via. Man mano che si sale nella
colonna si perde in comprensione/intensione (cioè i concetti riuniscono sempre meno caratteristiche degli enti
cui si riferiscono) e si acquista in estensione (cioè i concetti riuniscono sempre più enti) 27 . All'estremo
dell'estensione Aristotele colloca le dieci categorie già viste nell'ambito della metafisica. Esse sono i predicati
massimi, cioè i concetti più generali possibili: 1) sostanza, 2) qualità, 3) quantità, 4) relazione, 5) dove, 6) quando,
7) agire, 8) subire, 9) avere, 10) giacere. La colonna dell'esempio di prima è una colonna di sostanze. La seguente
è una colonna di qualità: vermiglio, rosso, colore, qualità. La più importante tra le categorie è quella di sostanza
perché, come già detto, tutte le altre esprimono caratteristiche della sostanza. Tra le sostanze Aristotele distingue
le sostanze prime, ovvero i singoli individui (cioè Giuseppe), e le sostanze seconde, ovvero i concetti generali
appartenenti alla categoria sostanza (nell’esempio uomo, animale, vivente). La differenza è che nella
proposizione 28 le sostanze prime possono essere solo il soggetto di cui si dice qualcosa, mentre le sostanze
seconde possono essere sia il soggetto di cui si dice qualcosa, sia ciò che si dice del soggetto (cioè il predicato)29.
Poiché può essere sempre e solo il soggetto, l’individuo, cioè la sostanza prima, è il centro assoluto della
predicazione.
Nel De interpretatione Aristotele studia la logica della proposizione, in particolare gli enunciati apofantici
(dichiarativi), che sono quelli di cui è possibile dire che sono veri o falsi. Ad esempio, le domande non sono

25
Organon in greco significa “strumento”.
26
Si tratta di quanto già esposto nella parte sulla metafisica come ontologia, in quanto le categorie hanno un valore sia logico sia
ontologico.
27
Quindi, l’estensione di un concetto è l’insieme degli enti riuniti sotto quel concetto. Ad esempio, l’estensione del concetto “uomo” è
l’insieme di tutti gli uomini singoli. È chiaro che l’estensione del concetto “uomo” è maggiore dell’estensione del concetto “essere
umano femmina”, poiché l’insieme di tutti gli esseri umani femmina è inferiore a quello degli esseri umani. Viceversa, l’estensione del
concetto “uomo” è ovviamente inferiore a quella del concetto “animale”, perché quest’ultimo concetto comprende più enti.
La comprensione/intensione di un concetto è invece l’insieme di caratteristiche riunite sotto quel concetto. Ad esempio, la
comprensione/intensione del concetto “uomo” è maggiore di quella del concetto “animale” perché “uomo” indica tutte le caratteristiche
comprese in “animale” + la razionalità. E così “animale” è più comprensivo di “vivente” perché indica tutte le caratteristiche di “vivente”
+ dotato di movimento autonomo.
È semplice osservare che tanto più un concetto è esteso, tanto meno è comprensivo e viceversa.
28
In ambito logico i termini “proposizione” e “giudizio” sono sostanzialmente sinonimi di “frase”, cioè indicano la connessione di un
predicato a un soggetto.
29
Ad esempio, il termine “uomo” è soggetto nella proposizione “L’uomo è bipede”, ma è predicato nella proposizione “Socrate è un
uomo”. Invece, “Socrate”, e come lui qualunque altro individuo di qualunque specie animata o inanimata, è sempre necessariamente
soggetto, perché non è pensabile come caratteristica di qualcos’altro, ma solo come ciò che ha delle caratteristiche.
12
enunciati apofantici (“che giorno è?” non può essere né vero né falso), invece asserzioni come “Marco è alto”
sono enunciati apofantici (infatti può essere vero o falso). Aristotele classifica le proposizioni apofantiche
secondo la qualità (affermative o negative) e la quantità (universali, particolari o singolari). La tradizione che
risale alla scolastica medievale30 indica tutte le proposizioni universali affermative con la lettera “A” (dalla prima
vocale del latino adfirmo), tutte le universali negative con la lettera “E” (dalla prima vocale del latino nego), tutte
le particolari affermative con la lettera “I” (dalla seconda vocale di adfirmo) e tutte le particolari negative con la
lettera “O” (dalla seconda vocale di nego)31.
Aristotele osserva poi i rapporti che possono intercorrere tra le proposizioni A-E-I-O. 1) Rapporto di contrarietà
tra proposizioni entrambe universali ma di qualità diversa. Esse (A-E) possono essere entrambe false, ma non
possono essere entrambe vere. 2) Rapporto di contraddittorietà tra proposizioni diverse sia per quantità che per
qualità. Esse (A-O e E-I) non possono essere né entrambe vere né entrambe false: se l'una è vera l'altra è falsa e
viceversa. 3) Rapporto di subalternità tra proposizioni diverse per quantità, ma uguali per qualità. Esse (A-I e E-
O) sono necessariamente entrambe vere se l’universale è vera, ma non viceversa, ed entrambe false se la
particolare è falsa, ma non viceversa. 4) Rapporto di subcontrarietà tra proposizioni entrambe particolari, ma di
qualità diversa. Esse (I-O) possono essere entrambe vere, ma non entrambe false.
Dopo aver classificato le proposizioni e i loro rapporti, Aristotele osserva che il vero e il falso non sono predicabili
dei concetti isolati (ad esempio, “uomo” di per sé non è né vero né falso, “corre” di per sé non è né vero né falso),
ma solo delle proposizioni (ad esempio, “l'uomo corre” può essere vero o falso). Di conseguenza, il vero e il falso
sono nei giudizi, cioè appartengono al livello del pensiero, e non nelle cose, cioè non appartengono al livello
dell'essere; tuttavia, la misura del vero e del falso è nelle cose e non nel pensiero32.
Negli Analitici primi Aristotele studia la logica del ragionamento (concatenazione causale di più proposizioni).
Forma suprema di ragionamento è il sillogismo, che si ha quando, poste le premesse, segue necessariamente la
conclusione. Esempio, premessa maggiore: “tutti gli uomini sono mortali”, premessa minore: “Socrate è un
uomo”, conclusione: “Socrate è mortale”. Nella premessa maggiore compaiono il termine di estensione media
(“uomini”) e il termine di estensione massima (“mortali”); nella minore compaiono il termine minimo (“Socrate”)
e il termine medio. Nella conclusione, il termine minimo e il termine massimo. Si noti che il termine massimo
include il termine medio, che include il termine minimo.
Aristotele distingue tre figure di sillogismo. L’esempio appena fatto è del tipo che Aristotele definisce sillogismo
di prima figura, ovvero quello in cui il termine medio compare come soggetto nella premessa maggiore e come
predicato nella premessa minore. È l’unica figura di sillogismo in cui il termine medio, oltre a comparire in
entrambe le premesse, è effettivamente il termine di estensione media tra gli altri due coinvolti nel sillogismo.
Per questo il sillogismo di prima figura è per Aristotele il sillogismo perfetto. Il sillogismo di seconda figura, per
parte sua, presenta il termine medio come predicato in entrambe le premesse, il che implica che il termine medio
sia in effetti il termine di massima estensione tra i tre coinvolti nel sillogismo. Infine, il sillogismo di terza figura
presenta il termine medio come soggetto in entrambe le premesse, il che implica che il termine medio sia in effetti
il termine minimo tra i tre coinvolti nel sillogismo33.
È da osservare che la validità di un sillogismo non coincide con la sua verità: “Tutti gli uomini sono immortali,

30
Scolastica è il nome della filosofia medievale sviluppatasi tra il XII e il XIV secolo.
31
Esempio di universale affermativa: “tutti i tavoli sono gialli”. Esempio di universale negativa: “tutti i libri non sono tavoli”.
Esempio di particolare affermativa: “alcuni telefoni sono cellulari”. Esempio di particolare negativa: “alcuni bicchieri non sono di
vetro”.
32
In altre parole, la caratteristica del vero/falso appartiene al giudizio, quindi al pensiero, ma dipende dal fatto, quindi dall’essere. Ad
esempio, il vero/falso non può appartenere solo ai concetti isolati di uomo e correre, ma solo al giudizio “l'uomo corre”, costruito dal
pensiero umano; però la verità o falsità di questo giudizio costruito dal pensiero umano dipende da come è la realtà indipendentemente
dal pensiero umano. Infatti, il giudizio sarà vero solo se di fatto, cioè nell’essere (che non è costruito dall’uomo), l'uomo sta correndo o
può correre.
33
Esempio di sillogismo di seconda figura: “nessun gatto è quadrupede”; “ogni uomo è quadrupede”; quindi “nessun uomo è un
gatto”. Esempio di sillogismo di terza figura: “qualche uomo è alato”; “ogni uomo è bipede”; quindi “qualche bipede è alato”.
13
Socrate è un uomo, Socrate è immortale” è un sillogismo valido, ma la cui conclusione è palesemente falsa,
perché false sono le premesse di partenza. Negli Analitici secondi Aristotele studia il sillogismo scientifico (anche
detto dimostrativo), che è quello che parte da premesse vere (e perciò giunge necessariamente a conclusioni vere).
Le premesse di un sillogismo scientifico sono vere se sono conclusione di sillogismi scientifici precedenti, ma
ovviamente le premesse di questi sillogismi precedenti devono a loro volta essere vere e dunque devono
discendere da ulteriori sillogismi ancora più precedenti…ma così si va all’infinito, il che equivale per Aristotele
a non spiegare nulla. Il problema, dunque, è come ottenere premesse vere e prime, cioè che non derivino da
sillogismi precedenti, da cui far partire la serie dei sillogismi. La soluzione non può essere ricorrere al principio
di non contraddizione perché, sebbene esso sia necessariamente vero e condizione di ogni ragionamento, proprio
il suo valore generalissimo rende impossibile per le diverse scienze dedurre da esso la definizione di partenza dei
propri oggetti di ricerca specifici. Dunque, per giungere alle premesse vere e prime da cui sviluppare il sillogismo
scientifico, bisogna percorrere una strada inversa rispetto a quella deduttiva propria del sillogismo34. Aristotele
osserva che nell’uomo la sensazione riguarda sempre casi particolari, ma che l’uomo è in grado di conservare
nella memoria la sensazione e che il ripetersi della sensazione nella memoria genera l’esperienza, la quale induce
a cogliere i tratti generali dell’oggetto della sensazione. Dunque, l’induzione (procedimento dal particolare
all'universale) giunge ad un «universale per lo più», il quale infine è trasformato in comprensione dell'universale
vero e proprio attraverso un atto di intuizione razionale compiuto dall'intelletto35. Quindi, le definizioni delle
varie scienze, cioè le premesse prime e vere da cui dedurre i sillogismi scientifici, sono guadagnate attraverso un
procedimento induttivo coronato da un atto di intuizione razionale.
Nei Topici Aristotele studia la dialettica, ossia il procedimento razionale non dimostrativo basato su premesse
probabili (e non vere come nel sillogismo scientifico). Esso consiste in sostanza nella discussione critica delle
opinioni accettate dai più o dai più sapienti. L’aspetto più interessante della dialettica in Aristotele è il suo
possibile utilizzo scientifico in relazione al problema delle premesse. Laddove, infatti, non sia possibile pervenire
a definizioni di partenza (cioè premesse prime e vere) attraverso il procedimento induttivo-intuitivo di cui sopra,
lo studio scientifico può partire proprio dall’esame critico delle opinioni comunemente accettate o accettate dai
più sapienti, per giungere attraverso confronti e obiezioni a stabilire quale tra esse sia più salda dinanzi ai tentativi
di confutazione. Tale opinione salda costituirà poi il punto di partenza dal quale sviluppare il ragionamento
scientifico sul campo di indagine di volta in volta in questione. Vale la pena di sottolineare che, in effetti, questo
procedimento che ricava il punto di avvio della ricerca scientifica dalla discussione dialettica delle opinioni è
quello quasi sempre seguito da Aristotele nelle sue indagini sia teoretiche che pratiche.
Il procedimento dialettico, per concludere, è anche l’unico in base al quale è possibile mostrare la validità del
principio supremo del pensiero, ovvero il principio di non contraddizione. Infatti, non è possibile dimostrare la
validità di tale principio in maniera diretta perché ogni dimostrazione presuppone già il principio da dimostrare;
tuttavia, si può confutare dialetticamente l’opinione di chi intende negare il principio di non contraddizione. Per
farlo è sufficiente far osservare a colui che nega il sommo principio che nel negarlo lo si afferma, in quanto la
proposizione “il principio di non contraddizione non è valido” è vera se e solo se il principio di non contraddizione
è valido, poiché, se esso non fosse valido, quella proposizione sarebbe sia vera sia falsa e quindi si auto-

34
Si chiama deduzione il ragionamento che da una regola generale deduce (cioè letteralmente “trae fuori”) i casi particolari. Ad esempio,
se conosco la regola generale “tutti i tavoli sono neri”, ne posso dedurre, anche senza sapere null’altro, che questo particolare tavolo di
cui mi parla la mia amica è nero.
35
Ad esempio, ho la sensazione di singoli uomini che camminano su due gambe, la conservo nella memoria, dove poi vanno a confluire
anche i ricordi di tutte le successive sensazioni di singoli uomini che camminano su due gambe. Dal ricordo ripetuto si genera la mia
esperienza generale dell’uomo, la quale mi mette in grado di cogliere come tratto generale dell’uomo il fatto di camminare su due gambe.
Qui interviene l’intuizione razionale attraverso cui la regola generale induttiva “tutti gli uomini visti finora sono bipedi, quindi l’uomo
è bipede” (priva di valore universale perché non posso vedere la totalità degli uomini possibili) diviene un universale vero e proprio:
“tutti gli uomini in ogni tempo e luogo sono necessariamente bipedi”. Aristotele non determina un numero di casi dopo il quale il
generale induttivo è trasformato in universale dall’intuizione razionale; anzi afferma che talvolta l’intuizione razionale può seguire
anche una singola sensazione.
14
negherebbe.

8.   Etica
Principale opera aristotelica sull’etica è l’Etica nicomachea, così chiamata dal nome di colui che ne curò la
pubblicazione: il figlio di Aristotele, di nome Nicomaco.
La riflessione aristotelica sull’etica parte dalla constatazione del fatto che ogni azione presuppone un fine. Ogni
fine, a sua volta, può essere il mezzo per un altro fine, ad esempio il fine del lavoro è il denaro, ma a sua volta il
denaro è il mezzo per giungere ad un altro fine (per esempio, una bella bicicletta). Tuttavia, secondo Aristotele è
necessario porre l’esistenza di un fine in sé che non sia mezzo per altri fini, altrimenti si incorrerebbe in un
regresso all’infinito che renderebbe priva di scopo ogni azione36. Tale fine in sé è identificato dallo Stagirita con
la felicità. Aristotele esclude che la felicità coincida con il piacere sensibile e con la vita politica e afferma che
essa consiste per ogni cosa nell’esprimere al meglio la propria natura, cioè nel realizzare pienamente la propria
forma. Per l’uomo, dunque, poiché l'uomo è l'animale razionale, consiste nell'esercizio ottimale della razionalità.
Questo esercizio è accompagnato dal piacere e ha per condizione la vita politica, ma non coincide con queste
determinazioni. Quanto ai beni esterni (ricchezza, bellezza, onori etc…), in cui normalmente gli uomini ritengono
risieda la felicità, Aristotele afferma che essi non coincidano affatto con la felicità, ma riconosce che siano utili
al suo conseguimento. Ad esempio, sebbene a livello teorico la ricchezza non sia la felicità né sia necessaria per
averla, a livello pratico chi sia dotato di un certo grado di ricchezza, non dovendo lavorare per sopravvivere, sarà
facilitato nel dedicarsi alla cura della propria ragione e, dunque, nel giungere al suo esercizio ottimale, cioè alla
felicità.
Determinata la felicità come esercizio ottimale della ragione, Aristotele osserva però che l’anima umana, oltre
alla funzione razionale, svolge anche la funzione sensitiva, a cui è collegata l’appetizione, cioè il
desiderio/volontà. Sulla base di questa considerazione egli distingue dunque due generi di virtù: le virtù etiche
(del carattere) e le virtù dianoetiche (dell’intelletto).
Le virtù etiche sono diverse, per esempio il coraggio, la giustizia etc, ma in generale la virtù etica consiste nel
dominio delle passioni da parte della ragione. Tale virtù è habitus, cioè disposizione costante alla scelta del giusto
mezzo tra due estremi. Ad esempio, il coraggio è concepito da Aristotele come giusto mezzo tra temerarietà e
viltà. Bisogna però tenere bene a mente che quale sia in ogni singola situazione il giusto mezzo è da determinare
di volta in volta. Non c’è una regola matematica fissa, ma in ogni situazione è necessario capire quale sia il giusto
mezzo. In effetti, proprio nel fatto che, ogni volta che si trova a dover scegliere, un soggetto è in grado di scegliere
il giusto mezzo consiste la virtù come habitus.
Tra le virtù etiche Aristotele si sofferma in particolare sulla giustizia, distinguendola in giustizia distributiva e
giustizia commutativa. La prima, espressione di una proporzionalità geometrica37 , consiste nel distribuire le

36
Cioè, se ogni azione ha uno scopo, ma ogni scopo è a sua volta strumento di un altro scopo, e così all’infinito, è come se nessuna
azione avesse uno scopo vero e proprio perché ogni scopo intermedio è in realtà un mezzo. Quindi, se si dichiara che ogni azione ha
uno scopo e poi si nega l’esistenza di uno scopo in sé che non sia mezzo per altro si cade in contraddizione. Ad esempio, se compio
un’azione per ottenere A, ma in realtà A mi serve solo per ottenere B, chiunque direbbe che il mio scopo è B. Ora, se però anche B mi
serve solo per ottenere C, allora il mio scopo è C. Ma lo stesso giochino è ripetibile con D e così via. Tuttavia, se il gioco va all’infinito
significa che lo scopo della mia azione iniziale non esiste, il che però è contraddittorio rispetto all’idea che ogni azione abbia uno scopo.
Dunque, solo ponendo uno scopo che non sia strumento per qualcos’altro si può affermare che ogni azione ha uno scopo.
37
Proporzionalità geometrica significa che non si assegna a ciascuno la stessa quantità assoluta di qualcosa, ma la stessa quantità relativa
di qualcosa. Invece, proporzionalità aritmetica significa che si assegna a ciascuno la stessa quantità assoluta di qualcosa. Per esempio,
Marco è alto 1,60 M e Mario 1,80 M ed entrambi devono riuscire a vedere qualcosa che è al di là di un muro alto 2 M. Assegnare a
entrambi la stessa quantità assoluta di altezza aggiuntiva significa assegnare a entrambi uno sgabello di 30 Cm. Questa assegnazione
avverrebbe secondo una proporzionalità aritmetica (la quale riguarda la quantità assoluta). Con quale risultato? L’uguaglianza aritmetica
(cioè l’uguaglianza nella quantità assoluta) non coincide con l’uguaglianza geometrica (cioè l’uguaglianza nella quantità relativa), tanto
che Mario vedrà oltre il muro, ma Marco non ci riuscirà. Invece, assegnare a entrambi la stessa quantità relativa di altezza aggiuntiva
significa assegnare a Marco uno sgabello di 50 Cm e a Mario uno di 30 Cm. Ma in che senso è la stessa quantità relativa? Nel senso
che è quello che, relativamente all’altezza di ciascuno dei due, serve loro per arrivare a un’altezza di 2,10 M.
Venendo alle cariche pubbliche, assegnarle secondo un’uguaglianza aritmetica significa che ciascuno, a prescindere dalle sue
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risorse della comunità (cariche politiche, onori o altro) in base al merito di ciascuno. Tale forma di giustizia trova
una applicazione ad esempio nell’ambito delle modalità attraverso cui si accede alle cariche pubbliche, per cui
secondo Aristotele ad un maggior merito economico e sociale (maggiore ricchezza, maggiore prestigio) dovrebbe
corrispondere un accesso prevalente alle cariche pubbliche. La seconda, espressione di una proporzionalità
aritmetica38, consiste nel rendere pari i vantaggi e gli svantaggi delle parti di un contratto, sia esso volontario o
involontario39. Tale forma di giustizia trova una sua applicazione ad esempio nel sistema penale, per cui, se
qualcuno arreca un danno a un altro, dovrà pagare un dazio tale da riportare la situazione in parità.
Le virtù dianoetiche sono cinque, arte, saggezza, scienza, intelletto e sapienza, ma in generale la virtù dianoetica
consiste nell’esercizio stesso della ragione. L’arte è la virtù dianoetica in cui l’attività della ragione è subordinata
alla produzione o manipolazione di oggetti e assume quindi un carattere strumentale che ne fa, agli occhi di
Aristotele, un qualcosa di inferiore rispetto alle altre virtù. Le principali virtù dianoetiche sono saggezza e
sapienza. La saggezza è la regina delle virtù etiche poiché è quell’esercizio della ragione che presiede al
riconoscimento del giusto mezzo e quindi ne rende possibile la scelta. La sapienza è la somma virtù dianoetica,
priva di qualunque fine esterno alla pura conoscenza, in quanto è l’unità di scienza e intelletto. La scienza è la
capacità di effettuare dimostrazioni a partire da principi, l’intelletto è la capacità di cogliere i principi da cui
sorgono le dimostrazioni della scienza. La sapienza, dunque, poiché riunisce in sé questi due aspetti, è l’esercizio
ottimale della razionalità, ovvero il fine supremo dell'uomo: la sua felicità. In altre parole, la sapienza non è altro
che l’attività della ragione in quanto essa è rivolta puramente alla conoscenza del tutto (principi e dimostrazioni).
Aristotele si distanzia perciò da Platone, il quale aveva posto il fine supremo dell'uomo nella figura del filosofo-
re (unione di vita teoretica e vita pratica40). Sebbene la prassi politica rimanga importante per la figura del sapiente
aristotelico, essa non è più centrale. La felicità, la somma sapienza, consistono per lo Stagirita nella pura vita
teoretica.

9.   Politica
In Aristotele etica e politica sono strettamente connesse in quanto il bene del singolo è parte del bene della polis
e può compiutamente realizzarsi solo nell’ambito della polis. Infatti, contro il relativismo sofistico, nella sua
principale opera sulla politica, cioè la Politica, Aristotele afferma che l'uomo è per natura animale politico. A
mostrare la necessità di un tale punto di partenza per la riflessione politica è il fatto che senza una comunità non
è possibile per l’uomo né la vita materiale, come è reso evidente dal fatto che senza qualcuno che se ne prenda
cura nessun bambino potrebbe sopravvivere, né la virtù, come è reso evidente dal fatto che senza una comunità
che provveda alla soddisfazione dei bisogni elementari nessuno potrebbe dedicarsi al puro esercizio della ragione.
La cellula base della comunità politica è costituita dalla famiglia, in greco oikos: unità di affetti e centro di
produzione economica. Essa, infatti, è formata da pater familias e moglie, figli, schiavi (che svolgono un
fondamentale ruolo economico). Solo il pater familias è pienamente libero. Moglie, figli e schiavi sono sottoposti
all'autorità del maschio adulto in quanto dotati di minore razionalità (i figli maschi solo temporaneamente). Ne
consegue, tra l’altro, che per Aristotele il dominio del pater familias sugli altri membri dell’oikos è un bene in
primo luogo per loro. Infatti, se qualcuno di non dotato della razionalità per gestirsi fosse lasciato libero di agire
a proprio piacimento, non potrebbe che venirgliene danno.
In quanto è stato detto è implicita una delle più controverse tesi aristoteliche: l’idea che la schiavitù esista per

caratteristiche (cioè in maniera assoluta), ha esattamente lo stesso accesso di chiunque altro ad esse. Invece, un’assegnazione geometrica
delle cariche pubbliche è relativa alle caratteristiche di ciascun individuo.
38
Vd. nota precedente.
39
Per contratto involontario Aristotele intende qualunque relazione in cui almeno uno dei soggetti coinvolti sia coinvolto contro la sua
volontà. Per esempio, nel caso di un furto c’è una relazione in cui sono coinvolti il ladro e il derubato, ma quest’ultimo evidentemente
è coinvolto nella relazione contro la sua volontà.
40
Vita teoretica=vita contemplativa=vita rivolta alla pura conoscenza disinteressata delle cose. Invece, vita pratica=vita attiva=vita
rivolta all’azione sulle cose.
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natura, cioè che alcuni uomini siano naturalmente schiavi di altri. La condizione di schiavitù è, infatti, connaturata
a quegli uomini che non possiedono una razionalità pienamente sviluppata. Certo, Aristotele si rende conto che
capita di fatto che un uomo libero divenga schiavo in seguito ad una sconfitta in guerra, cioè, in un certo senso,
per caso; ma ritiene che l’esistenza della schiavitù per caso, la quale può essere ingiusta, cioè può riguardare
anche uomini naturalmente liberi, non infici il fatto che la gran parte degli schiavi siano tali per natura. Peraltro,
in maniera non esplicita, ma comunque avvertibile, Aristotele tende a far coincidere il concetto di schiavo per
natura con il concetto di barbaro (cioè non greco), trovando così una legittimazione razionale al dato di fatto per
cui nella Grecia del suo tempo i più tra gli schiavi erano non greci. L’idea è questa: 1) schiavo per natura = minore
razionalità; 2) barbaro = minore razionalità; 3) conclusione: schiavo per natura = barbaro.
L’unione di più famiglie forma il villaggio e l’unione di più villaggi forma la polis. A differenza dell’oikos la
polis è una comunità di liberi. Si tratta infatti della comunità dei pater familias che, attraverso assemblee e cariche
di governo, si dà da sé leggi e gestisce da sé la propria vita.
Quanto alle costituzioni, o forme di governo, possibili per una polis, nella Politica Aristotele le classifica
riprendendo, con alcune variazioni, lo schema di Platone fondato sul numero dei governanti e sulla distinzione
tra costituzioni legittime e costituzioni degenerate. Da un lato, le forme legittime del governo di uno, la monarchia,
del governo di pochi, l’aristocrazia, e del governo di molti, la politeia; dall'altro, le rispettive degenerazioni: per
il governo di uno solo la tirannide, per il governo di pochi l’oligarchia, per il governo di molti la democrazia. Il
criterio che distingue costituzioni legittime e degenerate è dato dal fatto che i governanti delle forme legittime
governano nell’interesse pubblico (cioè della polis), mentre i governanti delle forme degenerate governano nel
proprio interesse. Le forme legittime sono per Aristotele tutte valide, ma favorita è la politeia: una sorta di
costituzione mista tra governo dei molti e governo dei pochi in quanto tutti i cittadini sono chiamati alla vita
politica ma il corpo dei cittadini è formato in gran parte da benestanti (soprattutto piccoli e medi proprietari
terrieri) e le cariche pubbliche sono assegnate di preferenza ai cittadini più in vista per ricchezza e prestigio41.

10.  Poetica
Come per Platone, anche per Aristotele la produzione artistica (pittura, poesia, teatro, etc) è imitazione. Ma, al
contrario di Platone, Aristotele non considera la natura mimetica42 della produzione artistica una ragione per
svalutarne la dignità; anzi, poiché la produzione artistica ha per oggetto il verosimile e non la particolarità
singolare dei fatti effettivamente accaduti, egli la considera dotata di un certo grado di universalità. Insomma,
nella produzione artistica per Aristotele si ha una rappresentazione dell'essenza delle cose.
Della Poetica, l’opera di Aristotele che trattava del bello in generale e della produzione artistica, è sopravvissuta
solo la parte relativa alla tragedia. Per lo Stagirita la tragedia deve essere caratterizzata da unità di azione, tempo
e spazio. Ciò significa che una buona tragedia deve presentare un insieme di eventi circoscritto, ambientati in un
tempo e in uno spazio anch’essi ben delimitati. Ma la parte più notevole della riflessione aristotelica sulla tragedia
riguarda la funzione catartica, cioè di purificazione, che essa svolge. Secondo Aristotele, infatti, lo spettatore
della tragedia, vedendo rappresentati di fronte a sé, e quindi potendo osservare a distanza, invidia, odio, ira, etc,
è come se si liberasse da queste passioni negative perché ne può sentire gli effetti senza però esserne travolto
come se fosse coinvolto direttamente nelle vicende. Anche in questo Aristotele capovolge il giudizio di Platone,
secondo cui la tragedia è dannosa proprio in quanto risveglia e rafforza le passioni negative.

41
Al contrario, nella democrazia secondo Aristotele i problemi sono due soprattutto. 1) Il corpo civico comprende anche i nullatenenti
che, proprio poiché sono nullatenenti tendono a vendersi al miglior offerente, favorendo così la corruzione, e inoltre sono ricattabili
poiché la loro sussistenza dipende da un salario e, quindi, non possono esprimersi liberamente contro colui da cui quel salario dipende.
2) Le cariche pubbliche sono assegnate per puro sorteggio, potendo quindi finire anche nelle mani di cittadini niente affatto virtuosi.
42
Cioè imitativa.
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