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Appunti di Storia della filosofia I, prof. Lucio Cortella.

Storia della filosofia (Università degli Studi di Cagliari)

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STORIA DELLA FILOSOFIA I – LEZIONE 1 – 06/02/13 – Lucio Cortella

INTRODUZIONE
L’obiettivo dell’esame è quello di indagare su una Storia della Metafisica, da Parmenide a Hegel. Per gli studenti del primo
modulo è necessaria la prima parte della dispensa fino a Schelling (prime 200 pagine). In particolare per gli autori citati tra quelli da
studiare bisogna porre attenzione principalmente alle loro argomentazioni sulla Metafisica. Il Secondo modulo tratterà della tesi
hegeliana.

METAFISICA: Andonico di Rodi ne parla per la prima volta, riferendosi ai libri di Aristotele che vengono dopo “La Fisica” di
Aristotele. Questi libri “metafisici” contenevano quello che Aristotele chiamava Filosofia Prima, cioè quella disciplina che cercava
nel sovrasensibile, al di là delle cose fisiche.

La Metafisica dovrebbe avere i seguenti caratteri:

1. Sovrasensibile
2. Ontologico
3. Pretesa di Totalità
4. Pretesa di Verità

Questi caratteri non si ritrovano più nella filosofia contemporanea, forse rimane solo un concetto debole di ontologia tra gli Analitici,
ma questi sembrano più fare un catalogo di quello che esiste, rispetto al cercare il perché di queste.

Una storia con un grande inizio, ma anche con una fine, una dissoluzione. Perché ripercorrerla? Perché forse qualche suo strumento
argomentativo lo usiamo ancora, o per i grandi concetti che ci ha regalato. Ma la metafisica è realmente finita? O si è solo
trasformata? La Metafisica ha continuamente trasformato sé stessa, per questo possiamo parlare di Storia. In realtà non stiamo
parlando di un’unica metafisiche, ma di tante intrecciate tra di loro. Queste sono conquiste recenti dovute ad Hegel, che si definisce
l’ultimo metafisico, colui che la porta a conclusione. Per lui questo vuol dire aver raggiunto l’obiettivo stesso!

Tesi di Hegel: In realtà la metafisica ha avuto sempre come oggetto, fin dall’inizio, il Pensiero: esso per questa stessa storia ha
parlato sempre di sé stesso! Quando parlava di Mondo, Dio, Anima, Natura, Necessità, in realtà parlava sempre e solo di sé stesso.

Hegel ha poi tematizzato in due maniere il Pensiero:

 Il mondo Greco, che è pervenuto all’Idea, intendendo questa non semplicemente come un qualche pensiero che mi sta
nella testa, ma concependola come realtà oggettiva che sta di fronte a noi, quasi totalmente manifeste. Secondo Hegel
filosofia dell’essere e filosofia dell’idea erano uguali, era una scienza delle cose.
 Il mondo Moderno, per la maggior parte cristiano e germanico, che ha concepito il Pensiero come Spirito, la riflessività su
di sé, valorizzando quindi il lato soggettivo.

Ma possiamo considerare valida questa tesi, anche se come vedremo presa nel suo scorrere storico tra i vari autori avrà carattere più
dinamico riguardo ai suoi particolari oggetti. In ogni caso sono state due grandi fasi della Filosofia. E’ comunque discutibile la presa
di fondo di Hegel, che nella sua tesi radicali sostiene che noi non usciamo mai dal pensiero, che il pensiero sia la totalità. Ora è una
tesi inaccettabile: fare filosofia non vuol dire forse rispondere ai perché? Produrre argomentazioni e dimostrazioni? Legare concetti?
Ma i concetti sono solo Strumenti per spiegare le cose che ci sono fuori, diranno dopo Hegel.

E del fatto che sia l’ultimo metafisico? La fine della storia della metafisica si colloca nella scoperta che un gruppo di pensatori nel
corso di 2500 anni parlava solo a sé stesso quando raccontava delle capacità di Dio, quando si riferiva a Sostanza o quando parlava di
Anima? –varie sfaccettature del pensiero?

Ma di Hegel parleremo sicuramente meglio durante la seconda parte del corso, per ora quello che dobbiamo fare è: ripercorrere la
storia della metafisica, verificare la tesi greca, verificare quella moderna e comprendere la sua “conclusione”.

LE ORIGINI
Secondo la Storiografia Filosofica l'atto di nascita della Metafisica avviene con Platone, e il suo mondo delle idee. Vi è poi una tesi
storiografica di Aristotele, che all'inizio dei testi fa una breve storia dei Filosofi prima di lui: sostiene che prima di platone si
potevano chiamare tutti Fisici, da Physis.

I Fisici: in realtà questi primi filosofi, tra cui troviamo anche Parmenide, non sono semplicemente dei naturalisti. Il loro problema
verteva alla ricerca dell'origine di tutte le cose, l'Archè, Questa totalità che essi appunto chiamano Physis. La Filosofia inizia grande,
ponendosi come indagine sulla totalità. Si ricerca non tanto l'origine temporale, ma soprattutto il suo fondamento, la ragione delle
origini del tutto. La ricerca, in sostanza, di un principio naturale.

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PARMENIDE
Visse nella prima metà del 500 a.c. in Grecia. Parmenide rispetto ai suoi predecessori compie un passo fondamentale della Filosofia:
il suo intento non è più ricercare l’Archè ma indagare sull’Essere, su cosa vuol dire questo concetto di Physis, la natura, su quali sono
le sue caratteristiche fondamentali, e poi semmai domandarsene l’origine. (di lui abbiamo il Perì Physis, il Poema sulla Natura)

 Fr. 2: in questo frammento Parmenide pone esplicitamente il suo pensiero intorno all’Essere, caratterizzandolo: l’Essere è
ciò che non è possibile che non sia, la totale opposizione al Nulla. Esistono due vie che portano all’Essere: una che viene
subito esclusa, quella della doxa; poi c’è la via del vero Essere. Noi concepiremmo l’Essere solo questa radicale diversità
dal Nulla. (Qui inizia l’Ontologia, che abbiamo trovato anche tra i caratteri della metafisica)
 Fr. 7: né l’abitudine né l’esperienza dei sensi, ma il Logos ci dice questa verità

Ora possiamo porci due riflessioni. Innanzitutto dobbiamo ricordarci che essendo estremamente arcaico, la risposta alla questione
intorno all’essere sembri un po’ astratta e il modo di trattare l’argomento abbastanza simbolico. Secondariamente da questi
frammenti non si capisce bene cos’è il Niente, quest’estrema contrapposizione: essa basta per fare ontologia? Hegel dirà che essi
sono talmente astratti da arrivare a coincidere! Da questa estrema opposizione però Parmenide riuscirà a tentare di indagare cosa ne
consegue, trovando dei caratteri dell’Essere.

 Fr. 8: in questo frammento enuncia le varie qualità che deve avere l’Essere così inteso. Parmenide sostiene che esso è:
-Eterno: esso non ha un’origine, altrimenti ci sarebbe stato qualcosa all’infuori dell’Essere. Da notare che per definire
eterno Parmenide non usa il termine aiòn -che vorrebbe dire sempre nei tempi, dice che è nun -ora; per lui infatti il tempo
assomiglia quasi ad un’eterno presente, ed è più radicale di Melone. Da notare che la ricerca di un’origine perde di
importanza.
-Intero: E’ necessario che sia intero e compatto. Esso infatti non può avere delle fratture in cui si infili il non-essere! Tutto
è pieno di essere! Da notare che qui non vi è alcuna negazione del molteplice. Si può dire che Platone con il suo parricidio
abbia un’interpretazione un po’ deviata dagli influssi di Melone e dei Megarici.
-Immobile: Nel senso di senza principio e senza fine. Parmenide dirà che sono i mortali che danno nomi sbagliati alle cose
e in ciò si ingannano, dicendo parole come vita o morte dell’Essere, gli uomini a due teste che dicono una cosa e poi
l’esatto opposto.
-Ecc…

La seconda parte del Fr. 8 ha molte interpretazioni, ed è una delle più discusse. Sembra infatti voler creare una sorta di
Fisica alternativa.

Come vedremo alcuni degli attributi dati all’Essere saranno poi dati anche a Dio, con la differenza che per Parmenide esso non è un
ente superiore, ma che è la caratteristica della totalità. Ma l’esperienza? I mortali sbagliano a parlare di essere e non essere, per loro
sono identici e non identici.

 Fr. 4: parla di presenza o assenza rispetto all’idea di Essere e non Essere.


 Fr. 9: opposizione come luce e notte sono sempre Essere, e Parmenide vuole utilizzare questa similitudine per tentare una
Fisica.

STORIA DELLA FILOSOFIA I – LEZIONE 2 – 07/02/13 – Lucio Cortella

LA VERA NASCITA DELLA METAFISICA: PLATONE


Si tratta qui dell’episodio cruciale: non ci sarebbe stata la storia della Metafisica senza Platone, e bisogna considerare che ora la
Filosofia Contemporanea è in gran parte antiplatonica. Egli cercherà di risolvere il problema della visione parmenidea: conciliare
l’esperienza come compresenza di essere e non-essere (l’impensabile per lo stesso Parmenide).

Almeno inizialmente, però, Platone non si concentra su questo tema. L’elaborazione della sua ontologia prende le mosse da Socrate,
utilizzando come strumento principale la cosidetta dottrina socratica del concetto, chiedersi il perché di un certo concetto. Nei primi
dialoghi platonici infatti troviamo spesso Socrate a chiedere le definizioni dei concetti, il “che cos’è?”, cercare e trovare l’elemento
comune dei vari modi di mostrarsi e di essere. Questo chiedere che cos’è è cercarne la verità, la sua essenza profonda. Socrate
pretende sempre una risposta a queste domande dai suoi interlocutori, per passare dalla superfice alla profondità di un concetto.

 Dialettica Socratica: secondo Socrate attraverso il dialogo si riesce a superare il punto di arrivo dei Sofisti: essi pensavano
che nel conflitto delle opinioni fosse necessario imporre con la forza, con la violenza del linguaggio, la propria opinione.
Ma appunto questa imposizione non è verità, ma doxa.

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Socrate invece sostiene di aver trovato il metodo che permette di superare questo conflitto, tra le interpretazioni si direbbe
oggi, attraverso l’arte della dialettica. Essa consiste nel domandare al proprio interlocutore le ragione per le quali egli le
pensa così; successivamente queste stesse ragioni verranno sottoposte all’élenchos, la verifica delle ragioni.

LA SVOLTA METAFISICA DI PLATONE


Ma se il risultato di questo metodo socratico porta all’universalità del particolare, esso non può essere semplicemente un prodotto
delle nostre facoltà soggettive! Queste verità universali devono perciò essere il fondamento delle verità particolari

“Poniamo dunque che esista un bello in sé, un buono in sé, un grande in sé, e così via: le quali cose se tu mi concedi e ammetti che
esistono realmente, io ho speranza, movendo da queste, di scoprire la vera causa e di dimostrarti che l’anima è immortale” Par. 49,
Fedone, Platone.

Ma questo Bello in sé, esiste realmente? La tesi di Platone, che fa parlare così il suo maestro Socrate nel Fedone, è che per dire che
una cosa è bella, bisogna in qualche modo già sapere cos’è questo bello; e allora le cose saranno belle quando parteciperanno al bello
in sé, realtà ontologica che lo sostiene.

Ma dove si trova questo bello in sé? Una delle antitesi ricorrenti è che io posso vedere il cavallo, ma mai la cavallinità! In fondo, noi
facciamo sempre esperienze singolari! Quindi se queste cose in sé sono innegabili, perché altrimenti non potrei dire di quello grande
e di quell’altro bello, ma se di queste stesse cose io non faccio esperienza, allora questi si trovano in una realtà sovrasensibile. Essi
infatti si colgono solo con l’intelletto, non con la sensibilità.

To Eidos o Idea: il significato primario di eidos è aspetto esteriore, come una cosa si mostra, che si fa vedere. Platone non considera
le idee come le consideriamo noi, cioè qualcosa di privato e soggettivo, ma l considera proprio la forma strutturale della vera realtà.
Platone radicalizza, e pone l’eidos come qualcosa che è visibile solo dall’intelletto, lo scollega dall’occhio e lo collega al noûs,
l’intelletto. Dire che la realtà vera e sovrasensibile è eidos vuol dire che essa è massimamente visibile appena la indaghiamo, non c’è
bisogno di chissà quale iniziazione esoterica! L’Idea allora è l’ultimo risultato di un dialogo socratico, è un sapere pubblico, non
privato: attraverso lo scambio delle opinioni e il metodo arriviamo a scorgere la realtà con l’intelletto.

“…Ma tu, per paura, come si dice, della tua propria ombra e della tua ignoranza, ti terrai stretto all’appoggio sicuro di codesta
ipotesi e risponderai solo in questo modo. Che se poi qualcuno si orsini contro codesta ipotesi per se sola, lo lascerai dire e non
risponderai se prima tu non abbia esaminato le conseguenze che da quella risultano, e cioè se ti pare siano d’accordo fra loro o no;
e, quando ti bisogni di dar conto di codesta ipotesi in sé, allora procederai allo stesso modo ponendo a sua volta un’altra ipotesi,
quella che ti sembri via via la migliore fra quelle che sono più in alto cioè di carattere più universale, fino a che tu non giunga a
qualcosa che sia sufficiente per sé medesimo;…”Par. 49, Fedone

Il noûs coglie le idee solo attraverso questo confronto dialettico.

Ma con la fine del 6° libro e l’inizio del 7° della Repubblica di Platone arriviamo al nodo cruciale che ci presenta i 4 livelli per
l’intelleggibile:

 Immaginazione
 Credenza
 Ragionamento, deduzione
 Noesis, intellizione

“Allora comprendi che per il secondo segmento dell’intelleggibile io intendo quello cui il discorso attinge con il potere dialettico,
considerando le ipotesi non principi, ma ipotesi nel senso reale della parola, punti di appoggio e di slancio per arrivare a ciò che è
immune da ipotesi, al principio del tutto; e, dopo averlo raggiunto, ripiegare attenendosi rigorosamente alle conseguenze che ne
derivano, e così discendere alla conclusione senza assolutamente ricorrere a niente di sensibile, ma alle sole idee passando per idee;
e nelle idee termina tutto il processo.” XXI, Libro 6° della Repubblica, Platone.

Co la scoperta della realtà sovrasensibile nasce davvero la Metafisica. La caratteristica di questo mondo è la chorismòs, la
separatezza (rispetto al mondo sensibile), che i latini tradurranno con trascendenza. Ma cosa significa? Non è uno stare sopra, perché
sarebbe sempre spaziale. Indica invece un diverso modo di esistenza: l’Iperuranio (sopra il cielo), cioè il mondo delle idee. Esso si
trova in nessun luogo e dappertutto, non è sensibile, ma il sensibile partecipa alle idee che sono il suo fondamento, il fondamento del
particolare. Questa è però l’unica vera realtà, quella a cui arriviamo con la dialettica, e le idee sono la stessa ousìa (sostanza) degli
enti particolari, e loro condizione di esistenza.

L’operazione di Platone consiste quindi nel decretare che la verità risiede nelle idee, e che queste sono la vera realtà. Questa ha per
lui tutte le caratteristiche dell’essere parmenideo; ma in Parmenide non troviamo la differenza tra sensibile e intelleggibile: Platone
recupera ed eleva l’essere parmenideo come causa della realtà sensibile.

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“Ma udito una volta un tale leggere da un libro, come diceva, di Anassagora, e dire che c’è una mente ordinatrice e causa di tutte le
cose, io mi rallegrai di questa causa. […] e, pensai, se la cosa è così, vuol dire che questa mente ordinatrice ordina tutte le cose nel
loro insieme e ogniuna dispone singolarmente nel modo che per essa è il migliore.” Par. 46, Fedone, Platone.

Al di sopra di tutte le idee, vi è l’idea di Bene, che le rende possibili e gli conferisce esistenza, ed esistono perché esiste il loro bene.
Questa diventa condizione della conoscenza vera (obiettivo parmenideo), e le idee vengono ad essere anche condizione di verità delle
cose.

Es: Su che base possiamo dire più grande o più piccolo? Bisogna avere il criterio della grandezza, la cosa quindi non può essere
conosciuta senza l’idea universale, che è condizione della verità del particolare.

L’Universale precede il Particolare

Ma dove abbiamo imparato queste idee? Platone sostiene una teoria innatista, secondo cui l’anima contempla le idee prima di
reincarnarsi. Conoscere diventa così ricordare. Ma se abbiamo la stessa ontologia parmenidea nel mondo intelleggibile, vale anche
nel mondo sensibile? Secondo Platone qui non valgono le caratteristiche dell’essere parmenideo, perché con generazione e
corruzione del sensibile gli enti sono tali (5° libro della Repubblica) che sono tra essere e non-essere. Sono a metà strada, metaxy’,
nel niente mescolato all’essere. E la verità risiede solo nel mondo delle idee, mentre nel mondo sensibile abbiamo la doxa.

SECONDO PLATONE
Obiezione: ma come possiamo accettare che una cosa sia e non sia nel mondo sensibile? A questa domanda ritorna nel corso di due
dialoghi: Il Parmenide e il Sofista. Infatti non è più accettabile avere due ontologie: se l’essere sensibile diviene come può essere
sorretto dall’identico e dall’immobile? Esiste allora nel mondo delle idee la stessa idea del divenire, che è e non è? Bisognerà quindi
cercare nel mondo ideale le ragioni del divenire.

Platone mette in discussione la quiete, ammettendo il movimento? Come può giustificare la differenza tra le idee senza mettere in
discussione che l’iperuranio sia un unico e solo essere? In questo modo salterebbe tutta l’ontologia!

Soluzione: Bisogna distinguere tra non-essere assoluto e non-essere relativo, tra i due significati della parola essere. Il non-essere
relativo viene ad essere la non opposizione assoluta, ma siamo costretti a dire questo non-essere per diversificare, per considerare che
questo idea rappresenta questo e non altro, riuscendo comunque a salvaguardare l’ontologia del vero essere e renderlo compatibile
con il divenire sensibile.

“LO STRANIERO. Quando noi parliamo di “ciò che non è”, è evidente che noi non parliamo di un opposto di “ciò che è”, ma solo
di una cosa diversa. TEETETO. Come? LO STRANIERO. Quando, per esempio, parliamo di qualche cosa che non è grande; ti pare
che noi indichiamo allora, col nostro dire, il piccolo piuttosto che l’uguale? TEETETO. E come? LO STRANIERO. E dunque quando
si dirà che negazione significa opposizione, noi non concederemo questo, ma soltanto invece ammetteremo che qualche cosa di altro
indicano le particelle negative, come un’ e on’, preposte ai nomi che le seguono, o piuttosto poste davanti alle cose alle quali sono
applicati i nomi pronunciati dopo la negazione. TEETETO. Assolutamente.” Par. 41, il Sofista, Platone

Ogni ente diventa così identico a sé stesso e diverso dagli altri, partecipando a queste due idee, perché senza il non-essere relativo
non avremmo la determinatezza e la differenza. Ma dire che l’Essere è solo uno non giustifica la pluralità delle idee, eppure il
linguaggio si basa sui significati distinti. Platone sostiene quindi che le idee sono tutte implicate tra di loro, sono symplokè,
intrecciate. L’essere senza il non-essere relativo non sarebbe neppure pensabile, sarebbe non determinato. Avviene così il Parricidio
Platonico (nel sofista), riferito a Parmenide, che viene compiuto nei dialoghi platonici dallo stesso Straniero di Elea. Viene così
risolto il problema della pluralità, riportando la differenza e l’alterità delle idee nell’iperuranio, e queste si muovono in esso non
come uno spazio, ma per distinguersi l’una dall’altra.

Ma il problema del divenire non è ancora risolto.

STORIA DELLA FILOSOFIA I – LEZIONE 3 – 08/02/13 – Lucio Cortella

PRIMO PUNTO: DISTACCO PLATONE-ARISTOTELE


In che cosa consiste il distacco, sempre per quanto riguarda l'ontologia metafisica, di Aristotele rispetto al suo maestro Platone. Il
punto fondamentale consiste in una tesi, da dimostrare, cioè la concezione aristotelica secondo cui, contro Platone, anche l'essere
sensibile può essere sostanza, ousia, e non solo come in Platone l'essere intelleggibile e l’idea. Già nella lezione precedente abbiamo
cercato di dimostrare come Platone avesse avviato una prima riforma dell'ontologia parmenidea che permettesse anche al sensibile di
essere parte dell’Essere, come metaxy’. Ma Platone diceva che ousia è solo l'idea, non il sensibile. Aristotele invece sostiene che le
sostanze appartengano anche al mondo naturale, physis. Comporta la ricomposizione del mondo sensibile e intellegibile, che Platone
aveva prima diviso.

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Aristotele porta fino alle estreme conseguenze la riforma platonica dell'ontologia parmenidea, capovolge però completamente
l'impostazione: infatti, secondo Aristotele, sono proprio le essenze universali a non poter essere sostanza. Per Platone erano solo
questi sostanza! Perché Aristotele critica l'unica sostanza che era per Platone, introducendo la sostanzialità negli enti sensibili?
Riflettiamo sul temine ousia, che si trova in particolare sul capitolo 5 riguardante le categorie nel libro Z della metafisica,
fondamentale per capire il concetto di sostanza. La caratteristiche principale è l'indipendenza ontologica: la sostanza non può
dipendere da nient'altro che da se stessa, non ha bisogno di altro per sussistere ma solo del suo essere. Radicale e totale indipendenza.

Ecco allora il punto di svolta: se questo è il carattere della sostanza, le cosiddette qualità universali, cioè bianco, grande, bello,
animale, cioè i caratteri universali, non possono essere indipendenti, bensì esistono solo se esiste la sostanza individuale che
caratterizzano. Questa è la differenza tra dipendenza e indipendenza. Esiste allora solo come predicato l'esser uomo, predicato (o
attributo) di una sostanza che è l'uomo in sè, esiste solo con il soggetto. Questa argomentazione, basata sull'indipendenza ontologica,
mette fuori gioco gli universali platonici, che non possono esistere di per sè. Per Platone era vero il contrario: l'universalità, per lui, è
condizione di possibilità del particolare. Aristotele capovolge con questa argomentazione sull'indipendenza.

“(g) Risulta evidente da queste riflessioni che nulla di ciò che è universale è sostanza e che nulla di ciò che si predica in comune
esprime alcunché di determinato, ma esprime solo di che specie è la cosa.” Libro settimo capitolo tredicesimo Metafisica.

Questo punto ci pone un problema: se ciò che esiste è solo la sostanza concreta e individuale, potrebbe non essere necessario che
esistano sostanze sovrasensibili. Infatti per Platone il sovrasensibile era reso possibile e necessario per riconoscere l’esistenza degli
universali. Ma per Aristotele essi non devono esistere al di fuori. Vedremo che non sarà proprio così per lui, ma esisterà solo a una
condizione, cioè che sia individuale, sostanza. Ma ne parleremo la prossima lezione.

SECONDO PUNTO: DISCUSSIONE PLATONE-ARISTOTELE


Andiamo in profondità su cosa è la sostanza in concreto per Aristotele: cosa è emerso? Che essa ha due caratteristiche principali:
indipendenza ontologica, sussistenza di per sè, e la determinatezza, l'individualità, la non generalità. Troviamo questi due caratteri
in quello che per Aristotele è il significato fondamentale della sostanza.

Secondo Aristotelela sostanza è sostrato, la parola greca è hypokeì menon, da stare sotto. Ma anche sub iectum, sub stratum, come
verrà tradotto dai latini. Ci sono quindi almeno tre significati di questa nozione, potremmo addirittura tradurlo con fondamento senza
forzarlo troppo: ad esempio la parete regge il bianco, regge il bello, ecc.. Che la sostanza tra questi significati abbia anche soggetto, si
capisce molto bene anche da una di queste definizioni:

“Infatti, i caratteri della sostanza sono soprattutto l’essere separabile e l’essere alcunchè di determinato: perciò la forma e il
composto di materia e forma sembrerebbero essere sostanza a maggior ragione che non la materia.” “Il sostrato è ciò di cui
vengono predicate tutte le altre cose, mentre esso non viene predicato di alcun’altra” Libro settimo, capitolo terzo, Metafisica

Prendiamo ad esempio questa proposizione: “Socrate è un uomo”. Socrate è il soggetto, il sostrato e la sostanza, mentre uomo è un
attributo. E' come se nel linguaggio trovassimo la sostanzialità, e che l'attributo sussiste solo se c'è questa sostanza. Non diremo mai
che “l'uomo è Socrate”.

“Sostanza nel senso più proprio, in primo luogo e nella più grande misura, è quella che non si dice di un qualche sostrato, né è in
qualche sostrato, ad esempio, un determinato uomo, o un determinato cavallo. […] Così, il termine uomo si dice di un sostrato, ad
esempio di un determinato uomo” Capitolo 5, Categorie

Proprio in questo capitolo dell'analisi della categoria di sostanza, del significato della sostanza, chiama i sostrati sostanze prime, e le
distingue dalle sostanze seconde, gli universali, i generi e le specie. Perchè seconde? Perchè esse possono esistere solo se esiste il
soggetto determinato.

“Quanto poi alle sostanze seconde risulta da un lato evidente di per sé, che non sono un sostrato. La nozione di uomo, infatti, si dice
bensì di un sostrato, ad esempio di un determinato uomo, ma non è in un sostrato, dal momento che l’uomo non è in un determinato
uomo.” Capitolo 5, Categorie

Vi sono poi differenze tra sostanze seconde e qualità in generale, come tra uomo e bianco. Mentre il bianco esiste in un sostrato, le
sostanze secondo si predicano ma non esistono in un sostrato. Ma volevo mostrarvi un’altra citazione:

“Oltre a ciò, la ragione per cui le sostanze prime si dicono sostanze in massimo grado consiste nel fatto che esse stanno alla base di
tutti gli altri oggetti, e che tutti gli altri oggetti si predicano di esse, oppure sussistono in esse.” Capitolo 5, Categorie

Il sostrato è condizione necessaria per essere sostanza, ma non è sufficiente, perchè ci sono sostrati che non sono sostanze. Per essere
sostanza infatti non basta stare sotto, essere soggetto di inerenza, ma è necessario essere qualcosa di determinato. Aristotele ha una
parola per determinato, questo qui, tode ti: deve esserci la possibilità di indicare questa cosa qui. Il sostrato per eccellenza è la
materia, tutti gli enti sensibili e corruttibili sono enti materiali, costituiti di materia. Ma la materia presa per sé sola è così

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indeterminata da non poter essere sostanza pur essendo sostrato, tuttavia è ciò di cui sono fatte le cose, ma in quanto priva di forma
non può essere sostanza. Dunque qui stiamo toccando la sostanza, per essere sostanza deve essere materia e forma, quello che
Aristotele chiama Synolon (materia+forma). Tutti gli enti materiali che noi tocchiamo, sono tutti composti da materia indeterminata,
comune a tutti gli enti fisici, ciò che li distingue l'uno dall'altro è la forma. E’ questa la risposta aristotelica alla sostanza platonica.

TERZO PUNTO: DIVERSI MODI DI ESSERE


Data questa concezione aristotelica della sostanza, che rapporto c'è tra sostanza e ontologia parmenidea? Se la sostanza è composto di
materia e forma, a differenza dell'idea platonica, questa sostanza è soggetta al divenire, è corruttibile. Ma ovviamente se diviene
significa che c'è il non essere, comportando tutti i problemi che abbiamo visto avviarsi con la concezione parmenidea e platonica. Nel
sofista Platone aveva apportato la sua modifica alla concezione parmenidea, dividendo il non essere in assoluto e relativo. Ma quella
soluzione platonica significava una soluzione del problema del molteplice, risolvendo uno dei problemi dell'ontologia parmenidea.
Ma non risolveva, invece, il problema del divenire: il problema è quando un essere diventa non essere, e il non essere diventa essere.
Ma Platone almeno aveva il mondo intellegibile non diveniente, ma ora che Aristotele tira giù le sostanze dal cielo platonico e le
mette nel mondo il problema si ingrandisce.

Qual è la soluzione? E’ in direzione completamente diversa da Platone: consiste nel ripensare il divenire diversamente da come era
stato pensato da Platone e Parmenide, che era per loro una corruzione, e via di mezzo. Aristotele ritiene che questo punto di vista,
cioè che il divenire si spieghi solo con il non-essere e con l'essere, non sia giusto e non ve ne sia bisogno. Aristotele la rifiuta in toto.
Non è passaggio da essere a non essere, ma passaggio tra due diverse modalità di essere. La sua soluzione è la differenza tra potenza
e atto. E' questo il punto: il divenire è il passaggio da qualcosa che è potenzialmente qualcos'altro, a qualcosa che diventerà in atto
qualcos'altro. Sia essere in potenza che in atto è sempre essere, non c'è quindi passaggio tra non-essere e essere. Ciò ovviamente
comporta una concezione dell'essere completamente diversa da quella parmenidea. La tesi di Aristotele, in parte anticipata dal sofista
di Platone, è che ci siano diversi significati dell'essere. In parte perché nel sofista Platone aveva parlato di diversi significati di non-
essere, trovandolo compatibile con l’ontologia parmenidea e con il molteplice nel suo essere relativo. Ma Aristotele ci dice che ci
sono diversi significati anche dell'essere, che si dice in tanti modi, leghetai pollachòs.

“L’essere, inteso in generale, ha molteplici significati: (1) uno di questi –si è detto innanzi- è l’essere accidentale; (2) un secondo è
l’essere come vero e il non essere come falso; (3) inoltre, ci sono le figure delle categorie (per esempio l’essenza, la qualità, la
quantità, il dove, il quando, e tutte le restanti); e, ancora, oltre tutti questi, (4) c’è l’essere come potenza e atto” Libro Sesto,
capitolo 2, Metafisica.

QUARTO PUNTO: LO SCOGLIO DEL DIVENIRE


Questo essere che si dice in molti modi, ha un nodo problematico sul terzo significato, riguardante le categorie. L'essere si dice
secondo una qualità: la parete è bianca. Poi si dice secondo quantità: la parete è grande, o piccola, diciamo l'essere secondo la
quantità. Poi secondo tempo e luogo: l'albero è là, noi siamo qui. In tutti questi significati usiamo la parola essere. Anche la relazione,
tizio è figlio di caio. Questi diversi modi di dire l'essere mostrano che l'essere non si dice in un solo modo, mentre secondo Aristotele
Parmenide intende l'essere solo in un modo, solo non non-essere. Ma Aristotele ci dice che non è l'unico modo di essere. La
molteplicità e la differenza, tema platonico del sofista, sono la dimensione originaria dell'essere secondo Aristotele, è il dirsi in molti
modi: lo vediamo nel linguaggio -si dice in tanti modi-, lo apprendiamo dal linguaggio, è una sorta di evidenza originaria, è dentro il
linguaggio. Ma benché si dica in molti modi, si dice in relazione a una modalità fondamentale. Questa è la sostanza:

“Pur dicendosi in tanti significati, è tuttavia evidente che il primo dei significati dell’essere è l’essenza, la quale indica la sostanza”

Essenza, to ti esti, che cos’è?, nozione socratica. I modi fondamentali dell'essere si richiamano ad uno che li rende tutti possibili, un
fatto fondamentale, che è l'essere sostanza. La possibilità di dire che la sedia è qui, è in forza della sostanza sedia che possiamo dire
questo di questa sedia. Queste varie categorie si riferiscono sempre alla sostanza. Le categorie garantiscono la pluralità, ma il
riferimento alla sostanza consente a questa pluralità di riferirsi a un sostrato comune. Senza la sostanza, è bene notare, le categorie
non possono esistere. Ne deriva che il significato sostanza non è la stessa cosa di essere, potremmo quasi dire che per Aristotele la
sostanza è un caso particolare dell'essere, uno fra tanti ma che rende possibile tutti gli altri modi di dire l'essere. Il carattere
fondamentale della sostanza, e qui è il nodo, è quello della permanenza. Cosa significa? significa che la sostanza permane all'interno
di una molteplicità di attributi. La sedia permane all'interno della variabilità degli stati.

“E in verità, ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre, costituisce l’eterno oggetto di ricerca e l’eterno problema: “che
cos’è l’essere” equivale a questo: “che cos’è la sostanza”[…] perciò anche noi dobbiamo esaminare che cos’è l’essere inteso in
questo significato.” Libro settimo, capitolo 1, Metafisica

Aristotele ha trasformato la problematica ontologica in una problematica ousiologica. Perché ritiene insensato ragionare solo
sull'essere? Perché significa troppe cose! Abbiamo bisogno di un significato determinato, come quello di sostanza!

Il divenire è reso possibile dalla sostanza, che permane ma cui gli attributi cambiano. Qui sorge però un problema: Aristotele dice che
la sostanza è ciò che permette di divenire, distinguendo tre tipi di movimento resi possibili, come ci mostra nel libro 5° della Fisica. Il

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problema allora è: i tre tipi diversi di mutamento, secondo traslazione, lo spostamento da qui a lì, la sostanza rimane inalterata; poi
secondo la quantità (sempre secondo categorie), ad esempio può aumentare o diminuire, anche qui cambia solo l'attributo; la terza
trasformazione, è l'alterazione, cioè mutazione secondo qualità, ad esempio parete che diventa nera da bianca, da un contrario
all'altro.

Ma attenzione, c'è una possibilità di mutamento nel quale la sostanza non rimane inalterata: è il mutamento secondo corruzione e
generazione. Anche qui abbiamo una categorie, è il mutamento sostanziale. Qui cambia la sostanza stessa: l'albero che si
incenerisce. La sostanza di prima è sostituita da un'altra, il sostrato è stato travolto dal mutamento. Questo tipo di mutamento,
secondo Aristotele, non implica il passaggio da essere a non essere, e si guarda bene da reintrodurre Parmenide, perché per lui si
passa sempre da un tipo di sostanza ad un altro tipo di sostanza, da diverse configurazioni. C'è passaggio da un essere in atto a quello
in potenza, ma viene comunque messo in discussione il carattere di permanenza della sostanza, infatti non permane il sinolo
determinato! E' un problema, la soluzione è molto complicata e lascia aperte molte discussioni. Ma se il sinolo non permane,
possiamo ancora chiamarlo sostanza? Il divenire secondo corruzione e generazione di sostanza mostra che c'è un tempo in cui non c'è
questa sostanza. Allora, il punto, complicato: dobbiamo andare alla ricerca di una sostanza che pur nella corruzione, permane. E’ il
problema esemplificato dal 7° libro della Metafisica. In questo caso cosa permane? due cose, anche in questo mutamento: la materia
(come indeterminata), ma non possiamo dire che la materia è sostanza (è indeterminata!).

Ma c'è una seconda cosa: è la forma. Questo è il punto a cui volevo arrivare, ed è complesso. Aristotele dice forma utilizzando a
volte il termine morfè, a volte eidos, che è la famosa parola platonica per le idee. Aristotele la usa per indicare la forma che unita alla
materia compone il sinolo. Nel capitolo 8° del libro 7° Aristotele fa un esempio, quello della sfera di bronzo. L'artigiano ha il bronzo
senza forma, dopo l'opera diventerà una sfera. Questo è un cambiamento sostanziale, come unità di materia bronzo e forma sferica. In
questo caso, quali sono gli elementi rimasti come permanenti? la materia permane, il sinolo cambia, è diverso, ma anche la forma non
cambia: la forma sferica non può divenire, ma doveva preesistere alla costruzione della sfera di bronzo. Della forma non c'è
generazione. Perché Aristotele sostiene questo? Perché la forma non può divenire? Perché il divenire è sempre passaggio da una
forma all'altra, da una forma indeterminata a una sferica. Se ci fosse il divenire della forma, avremmo la necessità di presupporre
un'altra forma della forma, da cui si passa ad un'altra forma della forma! Il divenire della forma, avrebbe bisogno di altre forme di
partenza e d'arrivo, altrimenti richiama un regresso all'infinito! Quello che diviene è il sinolo ma non i due componenti. Nel Capitolo
8 della Metafisica troviamo l’argomento aristotelico riguardante la permanenza della forma. Per Aristotele abbiamo allora trovato
alla fine la vera sostanza, l’eidos.

STORIA DELLA FILOSOFIA I – LEZIONE 4 – 13/02/13 – Lucio Cortella

ARISTOTELE
Continuiamo a parlare della Metafisica di Aristotele. Per ora abbiamo trattato quattro punti, in questa lezione ne verranno affrontati
altri tre. Ma quali erano i punti precedenti?

1. Aristotele critica la concezione platonica di sostanza universale, sostenendo che questa per esistere deve essere sostenuta
dagli elementi particolari.
2. Tratta le sostanze nelle Categorie, sostenendo che esse devono avere due tratti: un sostrato (che consente gli attributi) e
individuale (cioè determinata, particolare)
3. La sostanza viene trattata come sinolo (composto) di questi due tratti, soggetta al divenire. Viene cambiata la concezione
dell’essere, che nelle categorie ha molteplici significati, che sussistono però su un significato principale che è la categoria
fondamentale della sostanza.
4. Questa concezione della sostanza-essere viene messa in discussione dal movimento sostanziale, diverso dagli altri tipi di
movimento, che dissolve la sostanza (libro 7° Metafisica). Serve quindi un significato di sostanza che permanga nel
dissolvimento del sinolo, e che non sia materia (perché questa è indifferenziata e indeterminata). Questa è la eidos, la
permanenza e ingenerabilità della forma, che non può divenire perché dovrebbe avere la materia (attraverso l’argomento
del regresso all’infinito).

Eidos qui ha un significato diverso rispetto a Platone. Infatti se la forma è sostanza essa non può essere universali, deve essere quindi
particolare: “risulta che sono unica e medesima la cosa singola e l’essenza”. Per Aristotele infatti l’essenza è particolare, e inerisce
nella cosa qui. Ma questo porta ad un problema abbastanza irrisolvibile: dov’è la forma dopo che l’oggetto se ne va? Ma per
Aristotele la forma non è materiale ma nemmeno sensibile.

PUNTO 5: TESI TEOLOGICA


E’ necessario, perciò, formulare delle forme separate, nonostante la base della forma sia immanente e sensibile. Troviamo qui in
Aristotele un sovrasensibile, che però è sempre individuale e non universale.

Troviamo così il carattere teologico della Metafisica, della Filosofia Prima: per ora la spiegazione è sempre stata molto materialistica,
perché abbiamo bisogno di un sovrasensibile? Perché nonostante l’indipendenza ontologica del sinolo, esso è coinvolto nel divenire e

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in quanto materia è in potenza altro. Il movimento sostanziale del sinolo però per essere spiegato ha bisogno di qualcosa al di fuori, al
di là. (Libro 8° Fisica, Cap1)

Tesi Teologica: Il movimento deve essere assunto come eterno. Perché? Aristotele comincia confutando la tesi opposta, l’origine del
movimento, perché se le cose sono mosse è necessaria una causa che le muova, un motore. Infatti se il movimento ha avuto una
origine, deve esserci stato un tempo in cui non c’era, in cui era tutto fermo. A quali condizioni però poteva stare fermo? Doveva
esserci una causa che non lo faceva muovere, quindi un altro movimento come motore che ferma l’altro motore, e così all’infinito. Il
secondo argomento è che se questo motore si mette in moto da solo deve aver avuto una causa del suo movimento.

“In conclusione, prima del primo cambiamento, vi dovrà essere un cambiamento ancora precedente” Libro 8 cap. 1° Fisica

Aristotele a questi aggiunge un altro argomento: non solo il movimento è eterno, ma è eterno anche il tempo. Qui va contro Platone,
che nel Timeo sosteneva l’origine del tempo ad opera del demiurgo. L’argomento è questo: non ci può essere il tempo senza gli
istanti, ma in questo caso non ci può essere il primo istante, perché per definizione esso esiste solo con l’esistenza dell’istante
precedente e successivo, come intermedio. “Il tempo è numero del movimento secondo il prima ed il poi” Libro 4° Fisica. Per capire
il tempo abbiamo bisogno del movimento, altrimenti non avremmo alcun modo di percepirlo. Ma dunque, se il tempo è la nostra
misurazione del movimento ed il movimento è eterno, allora lo è anche il tempo.

Ma non c’è movimento senza una causa, un motore. La causa del movimento non deve essere intesa temporalmente, non è un ente
che ha messo qualcosa in moto, ma deve essere una causa eterna, come una sorta di fondamento eterno del fondamento. A questo
problema è dedicato il 12° libro della Metafisica, il libro teologico per eccellenza.

PUNTO 6: IL MOTORE IMMOBILE


Questo punto tratta di questa causa, di questo motore eterno. Esso non potrà essere a sua volta in movimento, altrimenti sarebbe
mosso a causa d’altro, non sarebbe il motore primo. Ma come può un motore immobile muovere? Esso ha delle caratteristiche
particolari.

Esso infatti non ha nulla di potenziale, altrimenti potrebbe divenire e muoversi. Non basta che sia semplicemente atto come tutti i
sinoli, ma esso non deve avere nulla di potenziale. Esso è quindi un atto puro, non ha niente in potenza, ma non avere nulla in
potenza significa allora non essere nulla di materiale, perché altrimenti diverrebbe. Esso non è né potenza né materia, è puro atto e
pura forma, comunque sostanziale perché è dipendente solo da sé (indipendenza ontologica) ed è un qualcosa di particolare (non
universale). Esso è ciò che fa muovere tutte le cose da sempre.

Ma ancora non sappiamo come possa questo motore immobile muovere tutte le altre cose. Esso, in quanto puro atto, ha realizzato
pienamente se stesso, tutte le possibilità che aveva la sua sostanza sono diventate reali. Non esiste quindi nulla al di fuori di esso che
esso stesso non abbia già compiutamente realizzato, è il compimento del tutto. Il punto focale è che esso non muove come causa
efficiente, ma come causa finale, il fine dell’universo. Qui bisogna però sottolineare che questo movimento non è lineare, imperfetto,
ma bensì circolare ed eterno. Esso è quindi il fine che non sarà mai possibile raggiungere, perché altrimenti il movimento finirebbe,
esso è il fine ma non la fine.

Esso non avendo nulla di materiale non può essere oggetto di esperienza sensibile, si presenta quindi come sostanza sovrasensibile
determinata. Esso è inoltre necessario, non può essere diversamente da com’è. Necessità nel senso greco vuol dire non diveniente: il
sinolo contingente per esempio vuol dire che esso può essere diverso da com’è, essere diveniente.

PUNTO 7: DIFFERENZA TRA ARISTOTELE E LA RILETTURA MEDIEVALE


La concezione greca di Dio viene fuori quasi di soppiatto, come un’ovvietà. Per Aristotele non è neanche da dimostrare che il motore
immobile sia Dio. Le parole greche in questione sono theìon (divino) e theòs (dio). Aristotele non solo dice esplicitamente che il
motore immobile è divino, ma dice che esso è Dio. Infatti esso è un principio unico, non è possibile che ve ne siano due, altrimenti o
sarebbero la stessa cosa oppure uno muove l’altro. Ma esso è unico principio primo, non unico Dio: la cosa è particolarmente
evidente nel libro 8° della Metafisica. Vi sono infatti molte sostanze divine, molti motori dipendenti dal primo, ed essi sono i motori
mobili assimilabili ai cieli nella visione tolemaica. Questa concezione è chiaramente politeistica.

“Dagli antichi e dagli antichissimi è stata tramandata ai posteri una tradizione, in forma di mito, secondo la quale questi sono gli
Dei, e il divino circonda la natura tutta.[…] Di queste, se, prescindendo dal resto, si prende solo il punto fondamentale: cioè
l’affermazione che le sostanze prime sono dei, bisogna riconoscere che essa è stata fatta per divina ispirazione.” Libro 12°, cap 8,
Metafisica

Mancano però ancora alcune caratteristiche che però ritroviamo nel 7° e 9° capitolo del Libro 12 della Metafisica. Esso infatti è vita:
da esso dipende infatti tutto il movimento, e perciò la stessa vita. La seconda caratteristica, particolarmente importante, è che esso è
attività. Ma cosa vuol dire attività, se esso è immobile? Bisogna innanzitutto distinguere tra pràxis (quell’attività che ha il fino dentro
di sé, ad esempio: voglio essere buono) e poìesis (produzione, con un fine esterno a sé, ad esempio: l’attività di fare delle scarpe).

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Dio non produce, perché altrimenti vi sarebbe qualcosa al di fuori di lui come atto, esso non crea nulla. Ma allora che tipo di attività?
Quella più eccellente di tutte, il pensiero, che agisce senza aver fini al di fuori di sé e senza produrre qualcosa. Tuttavia sappiamo
che non si dà pensiero senza oggetto del pensiero; ma questo oggetto non può essere esterno a lui, l’oggetto del pensiero sarà quindi
il pensiero del pensiero, nòesis nòeseos. Ha come oggetto sé stesso, intelligenza e intelleggibile è lo stesso in Dio. Riflettiamoci: cosa
vuol dire questo? Dio è compimento delle potenzialità, quindi pensando a sé stesso pensa a tutte le cose, non c’è realtà che non abbia
trovato compimento in lui. Questo discorso riceverà l’ammirazione di Hegel.

CONCLUSIONI
1. Unico principio primo ma non unico Dio.
2. Il Dio aristotelico non è un Dio creatore (pràxis non poìesis). Nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si conserva in un
movimento eterno. E poiché le cose sono eterne esiste Dio. Il mondo contingente non ha bisogno del necessario per
esistere, è autosufficiente, ma ne ha bisogno per muoversi.
3. Tutta la teologia aristotelica ha radici preminentemente fisiche, essa serve per spiegare la fisica del movimento. Essa non è
sensibile, ma si può pensare ad essa come le moderne leggi fisiche.

STORIA DELLA FILOSOFIA I – LEZIONE 5 – 14/02/13 – Lucio Cortella

TOMMASO D’AQUINO E LA MEDIEVALE


Rispetto ad Aristotele, stiamo facendo un salto storico di circa 1500 anni. Se vi è ancora qualcuno che oggi promuove la Metafisica,
questi sono coloro che seguono ancora la sua dottrina, che rimane forse l’unica Metafisica contemporanea di matrice cristiana.

Problema: Il nostro problema è la comprensione della rivelazione cristiana e il suo rapporto con la Metafisica. Quando arriva nella
scena essa non si propone come filosofia, visione del mondo, ma come una religione salvifica. Tuttavia essa implica una concezione
filosofica. Questo sarà il problema degli intellettuali cristiani, la razionalizzazione del messaggio rivelatore cristiano: la teologia è
infatti rivelata, ma deve ancora essere argomentata e dimostrata.

Il Medioevo è l’epoca in cui si cerca di creare questa istanza. Per gli intellettuali all’opera essa non è solo possibile, ma addirittura
non si dà contrasto tra i contenuti della Metafisica greca e la Metafisica cristiana, come se vi fosse lo stesso oggetto tra i due
(contando però alcune correzioni cristiane come il politeismo, la creazione).

Da dimostrare: che quella medievale è una metafisica diversa da quella greca. Essa non propone solo una nuova concezione di Dio,
ma una riforma delle stesse basi ontologiche greche. Questa visione dipende da due concetti di rottura radicale rispetto ai greci:

 Monoteismo: Per i greci il divino è il naturale, la stessa natura è sacra e permeata di divino. Per i cristiani invece Dio è
sopra la natura, e per i greci sarebbe invece desacralizzare la stessa natura. Il mondo cristiano è senza dei, l’unico Dio sta al
di sopra, in una sorta di ateizzazione del mondo.
 Dio Creatore: Se Dio è creatore, significa che il mondo non potrebbe sussistere senza di lui, e che tutte le cose sono
totalmente dipendenti da esso con la conseguente rottura di quella indipendenza ontologica sostenuta da Aristotele. Questa
differenza assoluta tra Dio e mondo è inconcepibile per i greci. Ma non c’era della trascendenza anche in Platone e
Aristotele? Iperuranio e Motore Immobile? Tuttavia questi concetto greco di sovrasensibile non introduce un concetto così
forte come quello di un Dio creatore. Nessuna delle trascendenze greche è causa efficiente che produce l’essere del mondo,
ma è semmai la ragione, la causa finale, ciò che consente. La materia non è creata dalle idee, e il Demiurgo non crea la
materia ma la ordina. Per i cristiani invece Dio è causa in senso pieno dell’essere.

TOMMASO E IL DE ENTE ET ESSENTIA


E’ l’opera giovanile di Tommaso D’Aquino, scritta nel 1235. Essa si colloca nel secolo della scoperta dei temi aristotelici, di cui
prima si conoscevano solo le opere logiche. I libri di Aristotele entrano nel medioevo attraverso gli arabi, che li conservano e
commentano, e attraverso la Spagna entrano nell’universo latino, prima fondamentalmente platonico.

L’impianto metafisico di Tommaso, aristotelico con un sottile platonismo, discute la differenza tra esistenza ed essenza che forma
ogni sostanza. Essenza indica le qualità essenziali della cosa, non basta che essa esista, ma deve appunto essere determinata. Tutti gli
enti infatti sarebbero tutti essere, quindi uguali, se non vi fosse l’essenza.

Tesi di Tommaso: L’unione tra le due componenti, nelle sostanze create, non è una cosa necessaria. Questo significa che le sostanze
create sono un fatto, non vi è alcuna necessità che esse siano così e non altrimenti. Così l’unione di essenza ed esistenza è un fatto,
non è una necessità. Ma come separare queste due?

Se noi abbiamo l’essenza (quiddità) non vuol dire che abbiamo anche l’esistenza necessariamente: posso pensare una certa essenza
senza che essa esista (es: fenice). Questa è esattamente la contingenza del mondo che esce da questa separabilità, questa unione
accidentale di essenza ed esistenza che caratterizza le sostanze create, che sono quindi solo possibili.

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Questo rapporto può anche essere pensato come potenza (essenza) e atto (esistenza), diversamente da Aristotele. L’essenza di sua
natura, con le sue sole forze, non comporta che possa anche esistere, ma è anzi necessario un intervento di un altro, che può essere a
sua volta un altro essere contingente (ma questo avrebbe ancora bisogno di altro) o un essere necessario.

Argomento principale: in Dio essenza ed esistenza è un’unione necessaria, perché la stessa essenza di Dio è di essere, è un’unione
necessaria. Quindi gli enti contingenti richiedono la creazione per passare dalla potenza all’atto. Il mondo è per la sua partecipazione
con Dio, per il fatto che da lui riceve l’essere. Questa ci sembra però una forzatura, che l’essere venga dato. Abbiamo qui due rotture
fondamentali:

1. La concezione di un ente capace oltre che di essere, di concedere essere ad altri enti. Il Dio cristiano è si necessario, ma
anche i greci pensavano questa autosussistenza; è più che altro questa capacità di concedere essere ad altro, creandolo che
abbiamo la prima fondamentale rottura con il mondo greco.
2. La messa in discussione del principio ex nihilo nihil fit. Se abbiamo la creazione, vuol dire che il mondo esce dal niente.
Ma per Agostino l’essere del mondo non esce da Dio, altrimenti sarebbe generato e non creato. E’ la stessa potenza
dell’intervento divino che crea dal nulla e non da sé stesso.

Punto Focale: la creazione divina permette che l’essenza del mondo (potenziale) diventi essere in atto. Tommaso riesce a sostenere
la tesi senza violare il ex nihilo, usando oltretutto un argomento aristotelico. Esso infatti è un passaggio dalla potenza all’atto, non dal
nulla all’essere. In realtà certamente (elemento platonico) l’essenza del mondo è in Dio, e il lato creativo è farlo passare all’atto senza
farlo uscire dal nulla. Ma nel passaggio da potenza ad atto, l’essere del mondo che è separato dall’essere non è dentro Dio (la cui
essenza è l’esistenza), ma esce dal niente grazie all’intervento di Dio, ponendo una radicale contingenza del mondo.

TOMMASO E IL SUMMA THEOLOGICA


In questo testo abbiamo le dimostrazioni dell’esistenza di Dio, le 5 vie. Esse sono la dimostrazione per (1)ex parte motus, (2)ex
rationae causae efficientis, (3)ex possibili et necessario, (4)ex gradibus, (5) ex gubernatione rerum.

Ci soffermeremo particolarmente sulla terza, la più importante e con più potenza argomentativa. Un definizione migliore di questo
argomento sarà effettuata da Leibniz, ma è particolarmente rilevante per capire la differenza tra essere del mondo e essere di Dio,
oltre ad affermare la naturale contingenza del mondo.

Argomento Ontologico: (chiamato così da Kant, non da Tommaso) Si sostiene che possano esistere solo esseri contingenti, questo
argomento serve a smontare questa tesi per affermare che essa è un’ipotesi inconsistente.

“Tra le cose ne troviamo alcune che hanno la possibilità di essere e di non essere. Ma è impossibile che esistano sempre, poiché ciò
che ha la possibilità di non essere, in qualche tempo non è. Perciò, se tutto potesse non essere, in qualche tempo non ci sarebbe stato
nulla di esistente. Ora, se questo fosse vero, anche ora non vi sarebbe nulla di esistente, poiché ciò che non è comincia ad essere
solo per mezzo di qualcosa che è. Perciò, se in qualche tempo non vi fosse stato nulla di esistente, sarebbe stato impossibile per
qualsiasi cosa cominciare ad esistere, e così ancora ora nulla sarebbe esistente, il che è assurdo. Perciò, non tutti gli enti sono
puramente possibili, ma deve necessariamente esistere qualcosa di necessario. Ma… […] E ciò tutti gli uomini chiamano Dio”
Articulus III, Summa Theologica.

Questa è l’enunciazione più evidente della contingenza radicale del mondo, un’esistenza temporalmente limitata. Per i greci
contingenza non significava mai nullità del mondo in qualche tempo, per Aristotele era sempre un passaggio da un essere ad un altro,
il mondo rimane eterno.

Sembra inoltre che Tommaso non ammetta l’ex nihilo, ma invece lo usa in questa dimostrazione. Se fosse vero che un tempo non
c’era nulla, si potrebbe pensare che vi sia nulla anche adesso. Ma qualcosa comincia ad essere solo in forza di qualcos’altro (e qui
Tommaso curva il principio) che è. Il passaggio dal nulla all’essere è quindi ammissibile solo se vi era già qualcosa, un altro essere.

Questo discorso è ricavato dall’ontologia greca, ma è diverso perché permette una condizione per il passaggio dal nulla all’essere
grazie a questo essere necessario (nel senso cristiano: non può darsi un tempo in cui non sia), che nasce appunto da questo
argomento. Vi sono così due tipi di necessità:

1. Necessità causata da altro, che possono dare esistenza e provengono da Dio, come le pure forme di Aristotele (cfr cap.4 De
Ente)
2. Necessità “prima”, che non risale all’infinito (qui viene usato l’argomento aristotelico). Infatti noi non possiamo ammettere
una necessità di per sé, ma piuttosto una che causi in altre cose la necessità, e questo è Dio

Il punto fondamentale di questo argomento è il modo tipicamente cristiano di comprendere il rapporto tra necessario e contingente.
Questa nozione è infatti possibile solo se consideriamo la rivelazione divina della creazione. Con Tommaso abbiamo il primo
episodio di questa contingenza radicale, che verrà successivamente ulteriormente radicalizzata dalla scolastica.

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STORIA DELLA FILOSOFIA I – LEZIONE 6 – 15/02/13 – Lucio Cortella

LA MEDIOEVALE E SANT’ANSELMO
Con questa lezione concluderemo il nostro incontro con la Metafisica medioevale. Torniamo un attimo indietro: in quale contesto
ontologico si sviluppa una delle dimostrazioni, o vie, delineate da Tommaso? Essa si sviluppa nella totale e radicale contingenza del
mondo.

Torniamo indietro di circa 200 anni rispetto a Tommaso, nel mezzo dell’undicesimo secolo. La ricerca filosofica qui non avviene
nelle università, come nell’epoca di Tommaso, ma bensì nei monasteri. E’ qui che incontriamo Anselmo D’Aosta che, dopo la prima
dimostrazione di Dio nel Monologion, compie una seconda e più importante dimostrazione, che vuole essere definitiva, nel 1077 nel
suo testo Proslogion, in particolare nel secondo capitolo.

Dimostrazione dell’esistenza di Dio: questa prova parte dalla definizione di Dio, Tommaso la considera una prova interessante
proprio perché essa di basa su una definizione.

“L’ente di cui non si può pensare qualcosa di maggiore”

La prova conferma la radicale differenza tra l’essere del mondo e l’essere di Dio. Con questa definizione Dio deve essere pensato
come esistente. Essa però sembra solo apparente perché non si tratta di una vera e propria dimostrazione, ma qualcosa come
un’immediata intuizione, senza il bisogno per essere confermata di passaggi logici o argomentativi/dimostrativi. Scrive Anselmo:

“E questo sei tu, Signore Dio nostro. Dunque tu esisti così veramente Signore Dio mio, che non puoi neppure essere pensato come
non esistente. E giustamente. […] In verità, di tutto ciò che è all’infuori di te solo, si può pensare che non sia” Cap. 3, Proslogion

L’argomento, come intuizione, finisce qui? Non basta: essa va difesa da coloro che hanno intenzione di obiettare. E’ quindi un
argomento difensivo, o meglio confutativo: si tratta cioè di mostrare la contradditorietà dell’obiezione, cioè che si può pensare Dio
come non esistente.

“Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande non può essere solo nell’intelletto. Se infatti è almeno nel
solo intelletto, si può pensare che esita anche nella realtà, il che è maggiore. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore è
nel solo intelletto, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Ma evidentemente
questo non può essere. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste, senza dubbio, sia nell’intelletto sia nella realtà.”
Cap. 2, Proslogion

Qual è la struttura di questo argomento? E’ una confutazione dialettica. Cosa va mostrato falso? Che l’ente di cui non si può pensare
il maggiore esiste solo nella nostra mente. La confutazione avviene con una seconda ipotesi: che questo ente esista sia nell’intelletto
che nella realtà. Infatti semplicemente dal confronto di queste due ipotesi, il secondo concetto è maggiore del primo, e quindi questo
è contradditorio, secondo un concetto molto quantitativo. Si tratta di un argomento breve ma dalla complessa articolazione interna.
Questo argomento ha affascinato tutta la storia della Metafisica, ed esso verrà più volte trasformato. Ci limiteremo ora alle obiezioni
dei suoi contemporanei e non a quelle moderne (come quella di Kant).

LE OBIEZIONI ALL’ARGOMENTO DI ANSELMO


1. La prima riguarda la premessa, cioè la possibilità di concepire Dio a priori con la sua stessa definizione. Il monaco
Gaunilone prende la parte dell’insipiente, colui che non sa, sostenendo che questi non può certo comprendere bene questa
dimostrazione razionale di Dio perché solo chi già crede in Dio può pensarlo così, Anselmo presuppone cioè la fede pur
volendo rivolgersi all’insipiente. Questa obiezione viene ripresa da Tommaso, che pensa che l’argomento anselmiano non
sia una buona prova proprio perché non possiamo darne definizione razionale a priori. Tommaso infatti cercherà di
dimostrarlo a posteriori, a partire dalle cose più note e con una serie di passaggi dimostrare che l’essenza di Dio è
l’esistenza.
2. La seconda obiezione mette in discussione il passaggio dal concetto all’esistenza. Verrà appunto chiamato argomento
ontologico perché dal concetto implica la realtà. Ma già il monaco Gaunilone pone l’obiezione: io potrei pensare alle isole
beate, in cui vi è qualsiasi tipo di bene, ma per quanto posso pensarlo ciò non comporta la loro esistenza. Anselmo
risponderà: non possiamo confondere il concetto di Dio con quello delle isole beate, perché di queste si può per definizione
pensarne molte altre di maggiori. Ma questa obiezione può essere riformulata: l’argomento di Anselmo dimostra l’unità del
concetto di Dio con la sua esistenza, ma continua ad esistere solo nel pensiero, non siamo mai usciti al pensiero.

Cartesio riprenderà questo argomento cercando di ovviare a queste due obiezioni, ma in un contesto epistemologico, non teologico-
ontologico come Anselmo

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GUGLIELMO OCCAM E LA FINE DELLA SCOLASTICA


Come avviene la dissoluzione della scolastica? Perché con Cartesio sembra si riparta da zero? Per saperlo dobbiamo tornare alle
università del 13° e 14° secolo: con Tommaso e la rottura con la concezione greca dell’essere. Questa radicale trascendenza viene
enfatizzata dagli scolastici, in particolare con i francescani inglesi.

Importante in questo contesto è Duns Scoto, francescano come Ockham, entrambi provenienti dalla scuola di Oxford, entrambi
sottolineano questa radicale trascendenza. Per Scoto Dio vuol dire estrema volontà, assoluta libertà, entrando qui in collisione con
l’essere necessario. E questa nozione di libertà ci viene direttamente dalla rivelazione cristiana, non dalla ragione. Siamo qui costretti
a separare la Teologia Metafisica e razionale dalla Teologia della fede. Comincia qui infatti ad incrinarsi il rapporto tra Metafisica e
Teologia, secondo Scoto infatti anche il miglior concetto razionale è in realtà un modo piuttosto povero di vedere Dio.

Ockham (1280-1349): E’ l’ultimo grande pensatore della scolastica, ma è anche colui che la porta alla sua dissoluzione. Le sue
concezioni e i suoi argomento sono decisamente moderni rispetto ai suoi contemporanei, infatti verrà scomunicato e molte delle sue
tesi saranno ritenute eretiche. La sua concezione ha due basi fondamentali:

1. Dio Trascendente: esso è incomprensibile per la ragione umana. E’ inoltre così divinamente libero che esso può fare del
mondo quello che vuole, ed è onnipotente. Questa concezione comporta la fine della Teologia Metafisica, perché l’unico
modo per contemplare Dio è attraverso la sola fede.
2. Approccio Empiristico: La nostra conoscenza si fonda sull’esperienza sensibile, è totalmente radicale, e l’unica
conoscenza cera è l’intuizione sensibile, l’oggetto immediatamente presente con cui ci scontriamo. Evidente è solo ciò che
ho di fronte. L’unica realtà intuibile sarà il particolare, in collisione con Platone, e per questo si può definire come un
nominalista (gli universali sono solo parole, non esistono nella realtà). Questa concezione è abbastanza vicina ad Aristotele,
l’universale viene utilizzato al posto dell’enunciazione di ogni singolo particolare.

E’ questa singolare integrazione di empirismo radicale e profonda fede che aiuterà la dissoluzione della scuola scolastica.

CONSEGUENZE DELLA DISSOLUZIONE DI OCCAM


1. Conseguenze Teologiche: è impossibile dimostrare Dio razionalmente, e viene perciò criticata la prova di Anselmo
(“l’esistenza di qualunque cosa non è oggetto di dimostrazione, essa può essere solo mostrata”). Vengono inoltre criticate
le 5 vie tomistiche, in particolare le prime due (moto e causa) perché Ockham sostiene che si può potenzialmente regredire
all’infinito, usando lo stesso argomento aristotelico dell’eternità contro l’argomento aristotelico dell’impossibilità del
regresso all’infinito. E’ da notare che l’infinito verrà concettualizzato solo nei moderni. Ockham però può parlare di un
primo conservatore dell’universo, nel senso cioè che si può pensare solo causalmente e attualmente. Ma anche questa causa
che conserva il nostro mondo, potrebbe essere differente o non esserci se si concepiscono infiniti mondi, per cui non si può
trovare Dio in questo modo. La ragione arriva solo ad un Dio probabile, esso nella sua pienezza è inaccessibile
all’intelletto, solo la fede può. Non si può più darne alcuna caratteristica, ed anche il mondo esiste solo perché scelto da
Dio, che avrebbe potuto scegliere altro.
2. Conseguenze Metafisiche: la radicale trascendenza di Dio significa radicale contingenza del mondo, di cui Dio decide le
leggi. Ockham arriva a mettere in discussione il principio di causa-effetto, saldissimo in tutti i predecessori, perché questo è
volontà di Dio ma potrebbe essere diversamente. Questa è un’anticipazione della problematizzazione moderna della
nozione di causa-effetto, che passerà per l’occasionalismo cartesiano fino ad Hume, anche se qui viene tematizzata solo
attraverso l’assoluta libertà di Dio. Critica inoltre la sostanza, dicendo che noi non conosciamo che accidenti, senza mai
fare esperienza sensibile della sostanza in sé (empirismo radicale). Inoltre io non faccio mai esperienza di una causa finale,
essa esiste solo perché siamo portati ad introiettare i nostri fini negli oggetti, la usiamo solo per descrivere certe cose del
mondo. Non posso inoltre conoscere l’anima, in quanto non ho mai la possibilità di intuirla.
3. Conseguenze Epistemologiche: il nostro sapere non può mai essere assoluto, esso infatti dipende dalle intenzioni di Dio,
quindi è sempre ed assolutamente contingente. Arriva addirittura a dire che non ho nessuna possibilità di dimostrare che
l’oggetto che ho davanti a me sia davvero di fronte a me e non altrove, visto che Dio potrebbe darmi una percezione
diversa, data la sua onnipotenza è l’estrema contingenza del sensibile (ritroveremo qualcosa di simile in Cartesio). In
questo modo anche il primato dell’intuizione viene indebolito dalle conseguenze della rivelazione di Dio.

Conclusione: netta separazione tra Teologia e Metafisica, l’unica vera conoscenza di Dio è attraverso la fede. Sono quindi possibili
due tipi di sapere. Il dubbio cartesiano sarà figlio della radicalità occamiana.

STORIA DELLA FILOSOFIA I – LEZIONE 7 – 20/02/13 – Lucio Cortella

CARTESIO E LA FILOSOFIA MODERNA


Cartesio segna l’atto di nascita della Filosofia Moderna. E non solo la inaugura, ma con lui è come se la filosofia cominciasse di
nuovo, daccapo: la fine della scolastica è stata infatti la fine di un paradigma di pensiero, e Cartesio si incarica di trovare alla filosofia
un nuovo fondamento. Questo è il soggetto, chiamato da lui pensiero, non in generale, ma il suo in particolare; questa impostazione

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soggettivistica è chiaramente in conflitto con i principi assoluti dell’ontologia metafisica. Ma questo conflitto non arriva subito, e lo
stesso Cartesio è ancora legato ai temi e ai modi della scolastica. Bisogna infatti che la soggettività entri nell’ontologia dell’essere e
della sostanza.

Potremmo infatti tracciare due fasi della modernità: la prima pensa la sostanza insieme alla soggettività, la seconda la vede separati.
Ma questo lo vedremo successivamente.

IL DUBBIO IPERBOLICO
Ma come fa Cartesio a pervenire a questo principio? Il testo di riferimento sono le Meditazioni Metafisiche, dove troviamo nella
prima meditazione il punto di partenza stesso. Questo è il procedimento scettico: Cartesio assume il punto di vista di questa vecchia
scuola, dicendo che ha intenzione di mettere tutto in dubbio nel tentativo di ricercare qualcosa che si tenga ben saldo.

“[…], di tutte le opinioni che avevo altra volta accolte come vere, non ve n’è una della quale non possa ora dubitare, non già per
inconsideratezza o leggerezza, ma per ragioni fortissime e maturamente considerate: di guisa che è necessario che io arresti e
sospenda oramai il giudizio su questi pensieri, e che non dia loro più credito di quel che darei alle cose, che mi paressero
evidentemente false, se desidero di trovare alcunchè di costante e sicuro nelle scienze.” Prima Meditazione.

Cartesio arriva a porre un’ipotesi estrema: immagina un genio maligno che lo inganna su tutte le sue percezioni, facendogli avere
sensazioni di oggetti che non esistono, così da radicalizzare il dubbio iperbolico. Ma dubitare di tutto non significa che tutto è falso,
significa invece che non posso ritenere vero qualcosa di non profondamente dimostrato. Il dubbio scettico diventa allora un metodo
per stabilire la verità, pronto a stabilire cosa non posso dubitare come vero, indubitabile: porta a cercare una verità in senso forte del
concetto.

Nella seconda meditazione intenderà appunto constatare se vi sia qualcosa di assolutamente indubitabile. La cosa particolarmente
interessante di questa ricerca metafisica dell’incontrovertibile è che essa è intesa da Cartesio come negativa, mettendo tutto in
dubbio, e che questa è l’unico modo per ottenere qualcosa di positivo: solo mettendo in discussione, come aveva inaugurato la
dialettica socratica, posso fare davvero filosofia. Ma perché negativa? Perché l’indubitabile non può essere oggetto di dimostrazione,
queste infatti hanno bisogno di premesse, e queste dovrebbero essere altrettanto indubitabili: in questo caso noi avremmo già un altro
fondamento incontrovertibile da dimostrare. E’ la ricerca scettica che può aiutare a trovare l’indubitabile, che allora non sarà
dimostrato ma bensì mostrato. Una volta ben saldo, esso potrà fungere da premessa per altre dimostrazioni.

 Argomento Cartesiano: Io posso dubitare di tutto, posso pensare che non esista nulla di quello che vedo o sento, ma non
posso dubitare di esistere. Infatti la mia stessa esistenza è la condizione di questo dubbio. Se non esisto infatti non potrei
nemmeno dubitare della mia esistenza, e anche se posso pensare che il genio maligno mi stia ingannando su tutto, esso non
può ingannarmi se non esisto: ogni volta che dubito della mia esistenza, la confermo. Essa così non viene dimostrata, ma è
mostrata come condizione del poter dubitare di tutto.

Il tipo argomentativo è una procedura confutativa, tipicamente negativa. Cosa viene confutato? Che io non esisto, cioè che il dubbio
radicale non si possa estendere alla mia esistenza. In che modo? Mostrando che c’è una precondizione del fatto che posso pensare di
non essere, cioè la mia esistenza.

Lo scetticismo è usato contro lo scetticismo stesso. Vi era un obiezione classica contro lo scetticismo: se “tutto è falso” allora “è vero
che tutto è falso”, è un autoriferimento. Questa viene usata da Cartesio per mostrare che non è possibile dubitare di tutto, che c’è un
indubitabile. Questo indubitabile verrà chiamato nel Discorso sul Metodo e in Principi di filosofia con la formula di Cogito ergo
sum.

“[…], bisogna infine concludere, e tener fermo, che questa proposizione: Io sono, io esisto [Ego sum, ego existo], è necessariamente
vera tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito.” Seconda Meditazione.

Il dubbio per Cartesio è un pensiero, il mio stesso essere ingannato è un pensiero, e se ho un pensiero è necessario che io esista.
Questo è un orizzonte intrascendibile: la filosofia a partire da Kant chiamerà questo orizzonte trascendentale, cui io non posso mai
andare fuori. Ma cosa vuol dire che io esisto? Vuol dire che sono corpo? Che è vero che io ho due braccia, corro, mangio?
Assolutamente no: di tutte queste cose bisogna continuare a dubitare. Indubitabile è solo il fatto di avere questi pensieri, e solo
questo, mentre che io viva in questo mondo e che questo esista realmente è ancora dubitabile. Io sono Res Cogitans, una cosa che
pensa.

“Io non ammetto adesso nulla che non sia necessariamente vero: io non sono, dunque, per parlare con precisione, se non una cosa
che pensa [sum igitur praecise tantum res cogitans], e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione, i quali sono termini il cui
significato m’era per lo innanzi ignoto.” Seconda Meditazione.

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Possiamo qui permetterci un’obiezione: ma se esiste solo il pensiero, come può esistere questo senza il cervello? Teniamola in
sospeso, vi risponderemo dopo.

SOSTANZE CARTESIANE: RES COGITANS


Cartesio parla di Res come di sostanza, alla maniera dei greci e dei medievali, cercando di conciliarvi il soggetto. Ma noi questo non
lo abbiamo dimostrato, attraverso questi procedimenti. L’argomento di Cartesio è un tipo di argomentazione solo logica, non
ontologica: il cogito (per dirla con Kant) è solo una condizione di possibilità logica del dubitare. Ma secondo Cartesio si è così
dimostrata una sostanza, e questa è addirittura l’anima, quindi ben oltre i suoi passi concettuali. Ma cos’è per lui allora la sostanza?
Abbiamo una definizione nei Principi Metafisici, al paragrafo 51: “Sostanza è una cosa che esiste in tal modo che non ha bisogno
che di sé medesima per esistere.”

Non siamo così molto distanti dal concetto aristotelico, ma allora dire sostanzialità del pensiero vuol dire non aver bisogno di altro
per esistere, quindi neanche il cervello, rispondendo all’obiezione precedente. Esso ha indipendenza ontologica. Il senso è comunque
nuovo, perché per Aristotele il mio pensiero non è una sostanza, ma un attributo di una sostanza; qui invece il pensiero diventa prima
sostanza, indubitabile.

Sappiamo però che il pensiero non è quasi mai pensiero in generale, ma è sempre di qualcosa, pieno di rappresentazioni del mondo.
A queste Cartesio da il nome di idee, e dice che il pensiero è fatto di idee (contrariamente al senso platonico, qui viene usata
un’accezione più simile al nostro modo di intendere un’idea, cioè una nozione soggettivistica e privata). Ma queste mie idee sono
indubitabili quanto il pensiero? E’ chiaro che Cartesio non la pensi così, ma per lui l’indubitabilità del pensiero è l’indubitabilità che
il pensiero abbia delle idee, non che il contenuto di queste idee sia indubitabile.

“Infine io sono lo stesso che sente, cioè che riceve e conosce le cose per mezzo degli organi di sensi, poiché di fatto vedo la luce, odo
il rumore, sento il calore. Ma mi si dirà che queste apparenze sono false e che io dormo. Sia pure: tuttavia è certissimo almeno che
mi sembra di vedere, udire, di scaldarmi.” Seconda Meditazione.

Fino a qui il mondo è solo una serie di idee e sensazioni confuse che ho del mondo, dovunque lo vedo il mondo è idea. Mi muovo
sempre in un universo di mie rappresentazioni, Kant chiamerà questo con il nome di Idealismo Cartesiano. Il contesto infatti è
completamente idealistico, tale che è impossibile dimostrare che esiste un mondo vero al di là delle mie rappresentazioni. Abbiamo
così il vero compito della Metafisica secondo Cartesio: dimostrare l’esistenza di un mondo esterno al di là dell’orizzonte delle nostre
idee e sensazioni confuse. A questo punto non abbiamo altra strada che vagliare un’analisi interna delle nostre idee, alla ricerca di un
grimaldello che ci permetta di trovare il mondo esterno. Posso così trovare, nelle mie rappresentazioni, tre tipi di idee (Terza
Meditazione):

1. Idee innate: sono idee che ho sin dalla nascita


2. Idee avventizie: sono idee che credo mi vengano dal mondo esterno
3. Idee fattizie: sono idee che sono state da me stesso inventate

Vista l’impossibilità di dimostrare le seconde, bisognerà vagliare le prime (tra le innate viene menzionata, per esempio, la
matematica). Tra questo tipo di idee ve né una molto particolare, che è quella di Dio. L’impegno diventa a questo punto quello di
vedere se da questo ente sommamente perfetto riesco a dimostrare che c’è almeno qualcos’altro oltre a me. Da notare che questo fa si
che sia più facile dimostrare l’esistenza di Dio che l’esistenza del mondo esterno.

LE TRE PROVE CARTESIANE DELL’ESISTENZA DI DIO


Queste prove dovranno essere prove a priori, perché ci stiamo muovendo dalla sola idea di Dio. Non possiamo infatti dimostrare a
posteriori come Tommaso D’Aquino, che parte dal mondo esterno, per noi ancora indimostrabile.

1. Prima Prova: si tratta di cercare la causa della nostra idea innata di perfezione. Questa idea non può provenire da me
stesso, perché se io l’avessi prodotta non sarei finito ed imperfetto come sono (e questo è provato dal fatto che non conosco
la verità e che dubito). Deve perciò essa provenire da un ente assolutamente perfetto: Dio.
Obiezione: ma questo fatto che esistano le cause ontologiche non è stato dimostrato, potrebbe infatti essere solo una mia
idea errata.
2. Seconda Prova: prende le mosse dal cogito. Se esso è indubitabile, qual è la sua causa? E’ proprio vero che può esistere dì
per sé solo? Potrei essere io stesso la causa di me, e in quel caso sarebbe sostanza in senso pieno, ma io non posso essermi
autoprodotto perché, se mi fossi prodotto da solo e avendo l’idea di perfezione, mi sarei creato perfetto. All’origine allora
della mia imperfezione non può essere l’imperfezione stessa, ma dobbiamo presupporre un ente sommamente perfetto: Dio.
Obiezione: Anche qui si suppone una nozione ontologica di causa, e si presuppone che avendo io l’idea di perfezione e
causa avrei la possibilità di crearmi assolutamente perfetto. Ma il vero problema è che non posso crearmi dal niente.
3. Terza Prova: è un Argomento Ontologico, la più potente delle tre prove cartesiane, e si basa su un’analisi dell’idea di
perfezione.

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“Ma, tuttavia, quando vi penso con maggiore attenzione, trovo manifestamente che l’esistenza non può essere separata
dall’essenza di Dio più di quel che dall’essenza di un triangolo rettilineo l’equivalenza dei suoi tre angoli a due retti,
oppure dall’idea d’una montagna l’idea di una vallata.”

STORIA DELLA FILOSOFIA I – LEZIONE 8 – 21/02/13 – Lucio Cortella

LA TERZA PROVA CARTESIANA DELL’ESISTENZA DI DIO


La lezione precedente ci mancava da approfondire questa terza argomentazione dell’esistenza di Dio. Il problema soggettivistico di
Cartesio è il grande problema che sarà affrontato dalla Metafisica moderna, cioè il compito di rintracciare la realtà esterna a partire
dalla rappresentazione fenomenica. Per questo Cartesio comincia ad analizzare tutti i vari tipi di idee, cercando tra queste un modo
per superare la teoria che un genio maligno ci inganni riguardo l’esistenza del mondo. Tra queste si concentra sulle idee innate, in
particolare su quella di perfezione, che spera di poter usare come grimaldello.

 Terza Argomentazione: questo argomento ontologico è più preciso di quello che fu preparato da Anselmo D’Aosta, parte
infatti dalla considerazione di ente sommamente perfetto come parte dell’idea di Dio. Questa infatti ha caratteri necessari
rinvenibili dalla sua stessa idea, e tra questi troviamo quello di sommamente buono, onnipotente, infinito, caratteri senza i
quali non avrei l’idea di questa assoluta perfezione. Ed essendo sommamente perfetto, esso non può mancare dell’esistenza
che appartiene anche ad un essere imperfetto come me.
Qui vediamo che mentre l’argomento di Anselmo si basava sul confronto quantitativo dell’idea dell’ente di cui non si può
pensare il maggiore, Cartesio parte solo dall’idea stessa di perfezione, che considera chiara e distinta, superando
l’obiezione di Gaulinone che parlava di una confusione anselmiana rispetto all’idea di Dio. Cartesianamente è infatti
distinta come quella che si può avere riguardo la somma degli angoli interni di un triangolo. Contro l’obiezione di
Gaulinone che sosteneva che questa realtà esiste comunque solo nel pensiero, Cartesio oppone che questa non è solo una
rappresentazione perché essa si presenta come vera e dimostrata, e quindi non esistente solo nel pensiero ma anche nella
realtà. Successivamente avremo l’obiezione di Kant a questo argomento.

Abbiamo così dimostrato che esiste un mondo esterno al cogito, perché esiste almeno un ente, e questo è il sommamente perfetto, che
sta fuori di me. Ed essendo perfetto non può ingannarmi, o permettere che un altro ente mi inganni, perché altrimenti mancherebbe di
perfezione. Passiamo così da un Dio ingannatore a un Dio come garante stesso della realtà esterna. Continua ad essere vero solo ciò
che è chiaro e distinto (cioè non oscuro e non confuso), e di ciò che non è così possiamo continuare a dubitare.

LA TERZA SOSTANZA CARTESIANA: LA RES EXTENSIA


La concezione cartesiana ci porta così ad un Dio epistemologico: “La verità della scienza dipende dalla sola esistenza di Dio”. A
questo punto possiamo, fuori dalle nostre sole rappresentazioni, provare l’esistenza del mondo esterno. Abbiamo quindi da
dimostrare due cose:

1. Che c’è qualcosa di esterno: per dimostrare questo Cartesio può ora tornare, grazie all’evidenza dell’esistenza di Dio, a
vagliare le idee avventizie, che prima erano state completamente respinte per l’ipotesi dell’esistenza del demone maligno.
Ma egli esclude anche che esse siano create da me, e se queste allora vengono dal mondo esterno abbiamo tre possibilità: o
vengono da Dio (ma lui non può ingannarmi), o provengono da un altro ente che mi inganna (ma Dio sommamente buono
non lo permetterebbe), quindi esiste un mondo esterno.
2. La natura della realtà esterna: ma ora che abbiamo dimostrato l’esistenza del mondo esterno, ci dobbiamo domandare
come è fatto. E’ veramente come ce lo rappresentiamo? Visto che i sensi mi ingannano, facendomi per esempio vedere il
sole come piccolo quando in realtà è molto più grande della terra stessa, devo sempre e solo attenermi al criterio
dell’evidenza. Ma cosa è evidente a tal punto da dimostrarmi l’esistenza di un mondo esterno?

“Io riconosco in me alcune altre facoltà [facultates: proprietà, caratteristiche], come quelle di cambiar di luogo, di
assumere atteggiamenti diversi, e simili, che non possono essere concepite, come le precedenti, senza qualche sostanza a
cui ineriscano, né, per conseguenza, esistere senza di essa; ma è evidentissimo che queste facoltà, se è vero che esistono,
debbono inerire a qualche sostanza corporea o estesa, e non da una sostanza intelligente, poiché nel loro concetto chiaro e
distinto vi è sì qualche specie di estensione, che vi si trova contenuta, ma niuna specie d’intelligenza.”

L’estensione viene così ad essere la proprietà essenziale del mondo esterno, che rimane sempre possibile grazie alla
garanzia del Dio epistemologico, ed ha per questo carattere si sostanza indipendente: come infatti il pensiero può esistere senza
l’estensione, così l’estensione può esistere senza il pensiero.

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LE CONCLUSIONI DI CARTESIO
1. Oltre a Dio esistono almeno altre due sostanze (Res Cogitans e Res Extensia) che hanno tra loro caratteri diversi. Ma a
questo punto possiamo domandarci come si relazionano i due mondi, perché in fondo non è forse vero che con
l’intellegibile io vedo il mondo esteso? Come posso giustificarlo? Cartesio pone un punto intermedio tra questi due mondi,
cioè il luogo del senso comune, la ghiandola pineale. Ma in questo modo non si risolve il problema: questo luogo
intermedio infatti non viene collocato, e non si capisce in quale dei due mondi sia. Questo sarà comunque il problema
principale del Dualismo Cartesiano, su cui si arrovellerà tutta la filosofia moderna.
2. L’estensione è carattere evidente del mondo esterno, nonché unico chiaro e distinto (oltre a ciò che è strettamente legato
all’estensione, cioè forma e movimento). Ed è proprio per questo che possiamo avere un paradigma geometrico. Ma questo
mondo puramente geometrico non è solo pensato? Posso mai vivere questo mondo geometrico senza densità, o colore, o
temperatura? E’ quindi solo un oggetto dell’intelletto? Questo prodotto del pensiero allora, che è qualità essenziale del
mondo esterno, lo troviamo solo con il pensiero e solo nel pensiero? La filosofia successiva porterà alla luce questo
idealismo sotterraneo, che si muove sotto il realismo cartesiano.

BARUCH SPINOZA E LA SUA METAFISICA


Con Spinoza possiamo trovare la filosofia più organicamente compatta della modernità, oltre ad Hegel. Di origine ebrea, vive in
olanda dopo l’espulsione dalla penisola iberica. La sua opera principale, Etica Dimostrata Geometricamente, viene pubblicata dai
suoi allievi dopo la sua morte. Essa non tratta solo dell’etica, e soprattutto nella prima parte è un’opera teologico-metafisica, e tratta
perciò di Dio. E mentre in Cartesio avevamo un idealismo soggettivo che convive con un realismo esteso, con Spinoza abbiamo una
nuova ripartenza della concettualizzazione di sostanza, nonostante la presa di posizione soggettivistica cartesiana.

“Definizione 3. Per sostanza intendo ciò, che è in sé, ed è concepito per sé: vale a dire ciò, il cui concetto non ha bisogno del
concetto di un'altra cosa, da cui debba essere formato.” Prima Parte, Etica.

Tuttavia Spinoza pensa che questa totale indipendenza non si trovi nelle Meditazioni cartesiane, perché pensiero ed estensione
dipendono da Dio, quindi totalmente dipendenti dalla creazione, come sosteneva anche Cartesio. Questo per Spinoza è inaccettabile,
perché una sostanza deve essere causa sui, cioè causa di sé, sostanza come oggetto principale dell’ontologia spinoziana. E anche se
sembra che Spinoza non faccia alcun riferimento al metodo del dubbio iperbolico, in realtà sostiene che anche lo stesso pensiero sia
dubitabile, perché dipende da altro da sé. Il principio cartesiano ha infatti solo indipendenza logica, non indipendenza ontologica: per
Spinoza invece si toglie il dubbio solo con ciò che è sostanziale ontologicamente. Ma qual è allora questa sostanza? Per lui essa è
incondizionata e illimitata, secondo le definizioni che ne dà. Essa è inoltre solo affermazione, non ammette alcun tipo di negazione.

“Definizione 6. Per Dio intendo l’ente assolutamente infinito, cioè la sostanza che consta di infiniti attributi, di cui ognuno esprime
eterna e infinita essenza.”

“Proposizione 8. Ogni sostanza è necessariamente infinita.”

La proposizione 8 è una conseguenza sia della causa sui che dell’indipendenza ontologica. Quindi la sostanza coincide con Dio, ciò
che non sta in Dio o è nulla o esiste grazie a lui.

“Proposizione 15. Tutto ciò che è, è in Dio, e niente può essere né essere concepito senza Dio.”

Tutto quello che abbiamo, non essendo sostanze, esistono per altro, e questo altro è Dio che è unica sostanza.

“Proposizione 14. Oltre Dio non si può né dare né concepire alcuna sostanza.”

Solo la sostanza esiste, e la sua esistenza non può essere negata ed è assolutamente indubitabile: e se qualcosa esiste, esiste in essa.
Da notare che se l’essenza della sostanza implica l’esistenza, torniamo in un certo senso all’interno dell’Argomento Ontologico, solo
che mentre in Cartesio è una conseguenza e arriva dopo il cogito, per Spinoza essa è la stessa base di partenza.

“Proposizione 7. Alla natura della sostanza appartiene di esistere [pertinent existere]. Dimostrazione: la sostanza non può essere
prodotta da altro […]; sarà perciò causa di sé cioè (per la definizione 1) la sua essenza implica necessariamente l’esistenza, ossia
alla sua natura appartiene di esistere.”

Dio è l’ente necessario, pensato il quale non possiamo non pensarlo come esistente. Per alcuni studiosi questo sarebbe un secondo
tipo di argomento ontologico, ma si potrebbe sostenere a questo punto che anche quello di Cartesio sia un argomento ontologico
diverso.

“Proposizione 11. Dio, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, di cui ognuno esprime eterna ed infinita essenza,
necessariamente esiste.”

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Qui vediamo comparire una cosa, l’attributo, preso infinitamente. Ma cosa si intende per attributo?

“Definizione 4. Per attributo intendo ciò, che l’intelletto percepisce della sostanza, come costituente la sua essenza.”

Per capire queste proposizioni e definizioni abbiamo bisogno di due elementi: da una parte l’attributo è essenza della sostanza, tale
che se nego uno dei suoi attributi la sostanza stessa sparisce. Ma Spinoza non si limita a questo: sostiene infatti che vengono percepiti
dall’intelletto. Questo non può conoscere direttamente la sostanza, ma può farlo attraverso i suoi attributi. Di questi attributi però ne
percepiamo distintamente solo due, cioè il pensiero e l’estensione: Spinoza recupera il cartesianesimo, ma dice che questi non sono
sostanza, bensì attributi dell’unica sostanza.

“Proposizione 1. Il pensiero è attributo di Dio, ossia Dio è cosa pensante.” Seconda parte etica

“Proposizione 2. L’estensione è attributo di Dio, ossia Dio è cosa estesa [Res extensa]” Seconda parte etica

“Proposizione 7. L’ordine e la connessione delle idee è identico all’ordine e alla connessione delle cose [ordo et connexio rerum
idem est ac ordo et connexio idearum]” Seconda parte etica

In Spinoza quindi non vi sono più problemi di connessione tra intellegibile ed esteso, perché essi sono la stessa cosa, nella stessa
unica sostanza. Qui salta anche il problema di giustificare il mondo esterno, perché non stiamo più partendo nelle nostre
considerazioni dal soggetto. Resta da spiegare, quindi, come nell’infinitezza si possa spiegare il finito.

STORIA DELLA FILOSOFIA I – LEZIONE 9 – 22/02/13 – Lucio Cortella

DEUS SIVE NATURA: SPINOZA


Siamo ancora all’interno del 17° secolo, un altro dei grandi secoli della filosofia per i suoi illustri esponenti. Il punto fondamentale di
Spinoza è la definizione di sostanza, da cui deriva tutta la sua metafisica, grazie al fatto che l’esistenza di questa sostanza è
innegabile per definizione, come innegabile è la sua infinità e singolarità. Questa sostanza è Dio, caratterizzato da infiniti attributi
infiniti che la fanno sussistere e sono necessari. Di questi ne conosciamo due, il pensiero e l’estensione cartesiani, entrambi infiniti, e
appartenenti alla stessa sostanza come due facce della medesima realtà.

“Proposizione 2. Né il corpo può determinare la mente a pensare, né la mente può determinare il corpo al moto o alla quiete, o a
nessun’altra cosa (se altro v’è).” Parte terza etica

“Scolio. […] Onde viene che l’ordine o concatenazione delle cose è lo stesso, sia che la natura venga concepita sotto questo, sia
sotto quell’attributo; e conseguentemente anche, che l’ordine delle azioni e delle passioni del nostro corpo è per natura simultaneo
all’ordine delle azioni e delle passioni della mente.” Parte terza etica

Ci resta quindi da spiegare un unico elemento: se tutte le proprietà della sostanza sono infinite, come riusciamo allora a collocare il
nostro pensiero, il nostro corpo, la nostra idea, cioè tutte le cose finite di cui abbiamo percezione? Spinoza sostiene che “ogni
determinazione è una negazione”, perché infatti una cosa determinata negherebbe ciò che non è. Qui Spinoza intende negazione in
senso radicale, perciò la determinazione non è essere, è fondamentalmente negativa, e viene chiamata modo. Ad essere pienamente è
infatti solo la sostanza infinita.

“Definizione 5. Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò, che è in altro, per cui anche viene concepito.” Prima parte
etica

Il modo sussiste solo nella sostanza, è una sua affezione, cioè una modificazione della sostanza inessenziale, perché infatti essenziali
sono solo gli attributi, senza i quali la sostanza non potrebbe sussistere. I modi quindi potrebbero tranquillamente non esserci, e in
questo senso infatti si può dire di loro che sono contingenti, ma essendo nella sostanza dipendono comunque sempre da questa. Nel
mondo però è sempre tutto necessitato dalla stessa natura della sostanza.

“Proposizione 29. Nella natura delle cose non c’è niente di contingente; ma tutte le cose sono determinate dalla necessità della
divina natura ad esistere e ad operare in qualche modo.” Prima parte etica

Possiamo allora vedere la sostanza secondo due prospettive: da una parte la sostanza come natura naturante, cioè vista dal suo lato
infinitamente creativo; dall’altra la sostanza come natura naturata, “generato” dalla sostanza, cioè tutti quei modi finiti che sono
presenti nella nostra percezione. Essi sono tuttavia due aspetti della stessa realtà. Non vi è a questo punto nessuna differenza tra Dio e
la natura, che appaiono quindi come la stessa sostanza sotto diverse ottiche. In Spinoza non troveremo mai una parola sulla creazione
del mondo da parte di Dio, perché è esso stesso il mondo, e non vi è nulla al di fuori di Lui. Dio allora è causa del mondo, causa sui,
ma non nel senso tomistico di causa transitiva (consente alle cose di esistere fuori di lui) ma piuttosto come causa immanente.

“Proposizione 18. Dio è la causa immanente e non già transitiva di tutte le cose.” Prima parte etica.

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Spinoza fu espulso dalla comunità ebraica di Amsterdam, con accuse di empietà, e sarà spesso bollato come un ateo. Tuttavia questa
seconda accusa appare totalmente infondata, perché come dirà Hegel in Spinoza vi è addirittura troppo Dio, visto che tutto è Dio ed è
fondamento di tutte le cose. Da questo deriva che Spinoza può semmai essere bollato come un panteista, perché per lui c’è solo Dio e
il mondo è sempre dentro di lui. La visione del creazionismo cristiano con la sua trascendenza radicale di Dio e totale contingenza
del mondo è dall’autore superata in questo modo.

Resta tuttavia un problema irrisolto in questa compiuta metafisica. Non siamo infatti riusciti a spiegare come giungiamo al finito.
Data la definizione di sostanza, c’è davvero bisogno che nel mondo esista il finito e i modi? Ma se così non è, come si spiegano i
corpi e le altre cose finite? Per Spinoza finora è stato abbastanza semplice spiegare come il finito non ha vera realtà riconducendolo
all’infinita sostanza. Ma risulta decisamente più difficile per lui spiegare perché l’infinito dovrebbe ricondurci al finito, sotto quale
necessità. Una risposta a questo quesito ci viene dai discepoli, che ci riferiscono che alla questione Spinoza rispondeva che, partendo
dall’infinito attributo dell’estensione, si ricavava un primo modo altrettanto finito, cioè il movimento, e questo movimento non può
che essere movimento di qualcosa di finito, un oggetto o modo finito che si sposta nella sostanza. Ma entrambi i passi sono
problematici: innanzitutto non è detto che data l’estensione possiamo ricavare direttamente il movimento, o non si capisce per quale
necessità; secondariamente, presuppone che il movimento sia movimento di cose finite e non altro, cercando così di dimostrare le
cose finite partendo dalle stesse cose finite, in un circolo vizioso.

IL TERZO METAFISICO DEL 17° SECOLO: LEIBNIZ


E’ interessante notare come tra le metafisiche di Cartesio e Spinoza intercorrano solo più o meno 30 anni, che sono più o meno quelli
che separano Spinoza da Leibniz. Rispetto a Spinoza però vi sono notevoli divergenze, se non altro di intenti: Leibniz infatti vuole
trovare e argomentare la contingenza e la libertà, rispetto alla necessità; vuole inoltre risolvere la sostanzialità nel soggetto, rispetto al
risolvere il soggetto nella sostanzialità, attraverso la fissazione della sostanzialità stessa del pensiero. La conseguenza di questa
impostazione sarà una concezione potentemente idealistica, che inaugurerà la corrente tedesca.

Ma qual è la base da cui partono le considerazioni di Leibniz? Parte da una forte critica alla materia, mostrando come questa non
abbia alcuna sussistenza per conto suo. Questo comporterà una critica alla stessa estensione, perché ogni estensione può essere divisa
all’infinito, e in questo modo viene evidentemente negato ogni atomismo materiale (atomo = non divisibile). Ma appunto se la
materia è divisibile all’infinito, essa non può avere nessuna consistenza, e non può essere considerata come sostanza. La passività
materiale è quindi illusoria, non è in alcun modo sostanziale. Per cui il fondamento della materia non è la stessa materia, ma questa
sostanza è l’attività, che si manifesta attraverso dei particolari punti di forza, dunque non qualcosa di esteso o di materiale.

“§ 1. La definizione della sostanza. Sostanze semplici (monadi) e sostanze composte. La sostanza è un Essere capace di azione, ed è
semplice oppure composta: a) la sostanza semplice è senza parti; b) la sostanza composta è un assemblamento di sostanze semplici,
cioè di monadi – monas è una parola greca, che significa l’unità o ciò che è uno. Le sostanze composte, cioè i corpi, sono delle
molteplicità; mentre le sostanze semplici, cioè le vite, le anime e gli spiriti, sono delle unità. Ed è necessario che ci siano sostanze
semplici dappertutto, perché senza il semplice non ci sarebbe affatto il composto; e, di conseguenza, tutta la natura è piena di vita.”

Se allora la sostanza è una forza spirituale e non estesa o materiale, la stessa estensione viene ad essere un epifenomeno di queste
forze, che non hanno vera consistenza. La materia sarà allora nient’altro che monadi spirituali passive, inerti. Questa sostanza
unitaria ed indivisibile, questi centri di forza atomici, vengono appunto chiamate monadi. Le caratteristiche fondamentali di queste
monadi sono unità, indivisibilità, l’attività (attributo fondamentale), spiritualità, e molteplicità. Quest’ultima si presenta come una
novità rispetto alle precedenti metafisiche.

E’ da notare che in questo senso la soggettività, che è monade spirituale, viene ad essere l’unità originaria e atomica della materia.
Ma non tutte le monadi sono consapevoli di sé, autocoscienti: esse infatti si sviluppano attraverso l’attività sostanziale che è
spirituale, e in quanto sostanza necessaria. Quando una monade non si è ancora sviluppata è in sé stessa inerte, passiva, e viene ad
essere come detto pura estensione. Leibniz chiama le monadi che sono consapevoli di sé Spirito, ed è il grado massimo di sviluppo;
questa particolare coscienza della propria coscienza verrà chiamata appercezione. Con lui allora il cogito cartesiano diventa lo stesso
mattone della realtà.

Le monadi come sostanze sono sussistenti di per sé, e dipendono solo dalla creazione di Dio. Per il resto questa sostanza è del tutto
indipendente e libera. Leibniz, al contrario di Spinoza, parla di una molteplicità di sostanze, ma a patto che queste non si influenzino
a vicenda. Ma se non vi è tra queste monadi atomiche nessuna influenza, allora quella particolare monade che è il nostro spirito è un
limite intrascendibile da cui non possiamo mai uscire. Da qui ne viene che tutto ciò che viviamo o percepiamo è assolutamente
innato, e significa che siamo noi a creare le nostre stesse rappresentazioni. Questa concezione del pensiero è assolutamente inedita, e
verrà ripetutamente ripresa dal successivo idealismo: il pensiero non ha natura rappresentativa ma bensì produttiva, e anzi
profondamente autoproduttiva. Vista da questo punto però la monade è anche la stessa totalità, perché è tutto ciò che per me esiste,
come specchio dell’universo, perché noi non entriamo mai in contatto con le altre monadi.

Questa impossibilità di uscire dal pensiero non presuppone infatti che non esistano altre monadi, e questa mossa di Leibniz riesce a
conciliare il trascendentalismo (non esco mai dalle mie rappresentazioni) e il realismo (c’è una realtà esterna e questa è formata dalle

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altre monadi). E se l’universo viene in questo senso considerato come la totalità delle monadi, esso è totalità di totalità. Questa
singolare concezione si potrebbe quasi chiamare realismo spiritualista, per questo modo in cui concilia i due diversi modi di pensare
l’universo.

Tuttavia il mantenimento del sostanzialismo porta ad una concezione forzatamente dogmatica del mondo esterno, perché infatti non
ho alcun modo di dimostrarlo se non esco mai dalla mia monade e sono autoprodotto, oltre a non aver nessuna influenza dalle altre
monadi. Che rapporto vi è allora tra questo mio idealismo interno e il realismo esterno? Come riesco a conciliare le mie
rappresentazioni del mondo con quella realtà esterna a cui esse rinviano? Qui Leibniz parla di armonia prestabilita come atto di Dio
nella creazione del mondo, che ha fatto si che le mie rappresentazioni corrispondano alla stessa realtà monade e così per tutte le
monadi.

LE PROVE DI LEIBNIZ
Le giustificazioni dell’esistenza di Dio proposte da Leibniz hanno poco o nulla di religioso, serve più che altro infatti, come già fu
per Cartesio, come garante epistemologico e metafisico: senza Dio buona parte dell’impianto leibiniziano crolla.

 Argomento Ontologico: rispetto agli altri argomenti ontologici, si sofferma particolarmente sul fatto che l’idea di Dio
possa essere razionale, anzi perfettamente razionale perché non essendo contradditoria, niente ci impedisce di dirla come
vera.
 Argomento “ex contingentia mundi”: secondo l’argomento tomistico, il punto debole della concezione contingente è che
se tutto fosse contingente, vi sarebbe un tempo in cui non vi era nulla, e così dovrebbe essere ora perché non si sarebbe
potuto creare niente dal nulla; Leibniz trasforma questo argomento, dicendo che dobbiamo pensare la contingenza non già
come qualcosa che fosse stato nulla, ma bensì come qualcosa che non ha in sé ragione sufficiente a sostenere la sua
esistenza. La contingenza ha infatti bisogno di altre ragioni, che non siano a loro volta contingenti.

“37. […] E’ pertanto necessario che la ragion sufficiente o ultima sia al di fuori della catena o serie di tali dettagli delle
contingenze, per quanto infinita possa essere questa serie.”

Leibniz non ha alcun problema a sostenere che le ragioni sulle cose contingenti possano essere rinviate all’infinito. Ma niente accade
senza la possibilità, per chi conosce abbastanza le cose, di rendere una ragione che sia sufficiente a spiegare perché avviene così e
non altrimenti.

“§ 8. […] Pertanto, la ragion sufficiente che non ha più bisogno di un’altra ragione deve essere al di fuori di questa serie di cose
contingenti e trovarsi in una Sostanza che ne sia la causa: e tale sostanza occorre che sia un essere necessario recante in sé la
ragione della sua esistenza. Diversamente, non si avrebbe mai una ragion sufficiente presso cui arrestare la regressione. Questa
ragione ultima delle cose è ciò che chiamiamo Dio.”

STORIA DELLA FILOSOFIA I – LEZIONE 10 – 27/02/13 – Lucio Cortella

L’EMPIRISMO BRITANNICO
Per arrivare all’episodio conclusivo, che unisce Kant ed Hegel, bisogna attraversare un passaggio decisivo, cioè per l’empirismo
britannico. Parleremo quindi di Locke (inglese), Berkeley (irlandese), Hume (scozzese). Fondamentalmente si parla di 50 anni di
storia, il primo è il Saggio sull’Intelletto Umano di Locke del 1690, i Principi della Conoscenza dell’Intelletto Umano di Berkeley
1710, e poi il Trattato sulla Natura Umana di Hume del 1730. Questi anni sono decisivi per l’esperienza filosofica. La tesi che non si
può trascendere il pensiero è ancora forte dopo Leibniz, e per questo il pensiero empirista radicalizza il lato soggettivistico e
idealistico in due sensi:

1. Pro-Leibniz: gli empiristi arriveranno anche loro all’intrascendibilità delle rappresentazioni empiriche, cioè non si può
trovare un oggetto esterno a noi oltre l’orizzonte del nostro pensare.
2. Anti-Leibniz: tutte queste rappresentazioni che non si possono superare verso l’esterno, non costituiscono nessuna
sostanza (né spirituale né monade). L’orizzonte del pensare non può più essere concepito come sostanza, e questo
costituisce la forte critica della sostanzialità del soggetto

PRO-LEIBNIZ: L’INDIMOSTRABILITA’ DEL MONDO ESTERNO


Bisogna sottolineare, per quanto riguarda il primo punto, le differenze tra questi autori. Locke è un empirista realista: le nostre idee
sono prodotte dagli oggetti materiali che stanno fuori e dietro di esse, e sono le cause delle nostre rappresentazioni sensibili. Queste
idee, dette semplici, possono poi essere rielaborate con l’intelletto fino ad ottenere idee complesse, che diventano quindi idee
formate da più idee semplici, elaborazioni che partono sempre dalla base empirica. Il fatto che queste idee semplici siano prodotte
dall’oggetto che sta di fronte ad esse, non significa però che le nostre idee siano una perfetta rappresentazioni delle cose che stanno al
di fuori di noi, riprendendo in questo senso il dubbio cartesiano. Queste infatti ci mostrano le qualità dell’oggetto, cioè quello che la

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tradizione metafisica chiamava i predicati e le proprietà di una data sostanza, e attraverso queste percepisco l’oggetto. Ma non tutte le
qualità che noi percepiamo appartenenti all’oggetto, appartengono propriamente all’oggetto, ma bensì solo quelle qualità che
vengono percepite da più sensi, per esempio l’estensione. Queste sono chiamate da Locke qualità primarie ed originarie, per esempio
l’estensione, la misura e il movimento, tutte le qualità cioè geometriche quantificabili. Sono anche qualità inseparabili dal corpo,
perché senza queste non avremmo l’oggetto, e questo argomento recupera l’esempio cartesiano della modificazione della cera.

“9. Ciò posto, bisogna distinguere nei corpi due specie di qualità. Anzitutto, quelle che sono interamente inseparabili dal corpo, in
qualunque stato esso sia, in modo che esso le conserva sempre, quali che siano le alterazioni e i cambiamenti che il corpo viene a
subire o la forza che si eserciti sopra di esso. […] Queste qualità le chiamo qualità originali o primarie, e sono la solidità,
l’estensione, la figura, il numero, il movimento o il riposo.” Saggio sull’intelletto umano, Libro 2, Capitolo 8

Da queste qualità si distinguono quelle percepite da un senso solo, come l’odore percepito solo dall’olfatto, e queste vengono
chiamate secondarie, distinzione per primo elaborata da Boyle. Sono secondo Locke l’effetto delle qualità primarie sui nostri organi
di senso: l’oggetto è fatto da estensione, ma questa è come se emanasse delle particelle o proprietà invisibili che vengono percepite
dai nostri organi di senso che vengono da esse modificate. Non appartengono all’oggetto, ma ai nostri sensi.

“13. Possiamo concepire allo stesso modo come siano prodotte in noi le idee delle qualità secondarie, ossia mediante l’azione di
qualche particella insensibile sui nostri sensi. […] Così stando la cosa, abbiamo diritto di supporre che questa specie di particelle,
quando vengono a colpire i diversi organi dei nostri sensi, producano nelle nostre menti le diverse sensazioni che abbiamo dei colori
e degli odori dei corpo” Saggio sull’intelletto umano, Libro 2, Capitolo 8

Già da questa impostazione Locke rimane fondamentalmente un cartesiano: non solo che il mondo esterno esiste, ma anche che la
natura del mondo esterno è fondamentalmente legata a quelle qualità che già Cartesio aveva definito. Cambia però l’argomentazione,
perché con Locke non serve l’esistenza di Dio per giustificare il mondo esterno, ma l’argomentazione è che vi sono più organi di
senso che testimoniano questa esistenza degli oggetti. C’è inoltre un secondo elemento di distinzione, ed è la sua critica alla sostanza:
per Locke la sostanza non è altro che un’idea complessa, una combinazione o astrazione di più idee semplici che si riferiscono a una
sola qualità. La sostanza allora non è qualcosa che appartiene realmente all’oggetto, ma è una rielaborazione che io faccio con
l’intelletto a partire da differenti idee semplici arbitrariamente. Essa infatti non è mai oggetto della nostra esistenza, come invece lo
sono le qualità sensibili.

Questa critica radicale di Locke alla sostanza incrina il realismo lockiano, cioè la concezione che esista una realtà fuori di noi. La
sostanza non sta nelle cose, ma nella nostra testa, quindi il mondo al di fuori è fatto solo di quelle proprietà che percepiamo attraverso
più sensi, cioè quelle qualità chiamate primarie. E’ quindi un realismo delle qualità primarie, contrariamente al realismo cartesiano
basato sulle sostanze.

“Sono le qualità ordinarie osservabili nel ferro, o in un diamante, messe insieme, che formano la vera idea complessa di queste
sostanze, che un fabbro o un gioielliere, ordinariamente, conosce meglio di un filosofo: il quale, per quando vada parlando di forme
sostanziali, di quelle sostanze non ha altra idea che non sia foggiata mediante una raccolta delle idee semplici che si trovano nella
sostanza” Par 3, Cap 23, Libro 2, Saggio sull’intelletto umano.

Questo realismo un po’ indebolito viene ancor più radicalizzato da Berkeley, un vescovo irlandese. Quando scrive questo trattato, ha
come obiettivo principale lo smontaggio del residuo del realismo lockiano. Intende mettere in discussione principalmente
l’argomentazione riguardante l’estensione del mondo esterno, e questo attraverso tre obiezioni:

1. La distinzione lockiana tra qualità primarie e secondarie è del tutto inconsistente, e con questo argomento attacca nel cuore
l’impianto lockiano. Un’estensione infatti, ponendo che esista fuori di noi senza qualità secondarie, è in realtà la stessa
percezione di queste qualità secondarie, senza cui io non posso percepire gli oggetti. Le due qualità allora sono strettamente
legate tra loro: quindi o entrambe sono solo nelle mie rappresentazioni, o entrambe sono nella realtà esterna.
2. E’ impossibile che una qualità primaria produca nei miei organi di senso una qualità secondaria. Non si capisce come un
corpo fatto solo di estensione darmi la percezione sensibile di un gusto, un suono o un colore. Questa era la base invece
della teoria di Locke.
3. Le qualità primarie non hanno alcuna oggettività, non abbiamo nessuna possibilità di pensare che le qualità primarie
esistano realmente fuori di noi in un oggetto. La base lockiana era la concordanza dei sensi, ma questa per Berkeley è
indimostrabile: la percezione tattile che ho di un oggetto, e la percezione visiva di questo, sono infatti incomunicanti e
anche se vi fosse questa sintesi una somma di due proprietà soggettive non fa un’oggettività.

Conclusione: il punto focale è che in realtà le cosiddette qualità primarie sono ugualmente idee soggettive al pari delle altre. Noi non
abbiamo alcuna prova dell’esistenza del mondo esterno, questa si propone come una radicalizzazione dell’idealismo. L’unico mondo
di cui possiamo parlare è quello delle nostre percezioni e rappresentazioni. L’unica ontologia possibile è quella delle nostre
rappresentazioni, risolvendo totalmente l’empirismo in un idealismo in una coincidenza: un idealismo empirico. L’unico essere di
cui possiamo parlare è l’essere delle nostre rappresentazioni.

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L’unica realtà esistente è il nostro spirito. Qui ritroviamo l’ascendenza cristiana, ma Dio qui non diventa una giustificazione
dell’esistenza della materia: Dio ha creato gli spiriti e un mondo di spiriti, e noi viviamo in questo mondo puramente spirituale.
Questa dissoluzione totale del mondo esterno non arriva ad un totale scetticismo, cioè che non esiste nulla, perché c’è ancora un
ancoramento teologico per Berkeley. Dio è origine di tutte le nostre idee.

Nel libro “Trattato sulla natura umana” di Hume, del 1738, si mette in discussione la realtà materiale e la sussistenza del mondo
esterno, portando avanti le conseguenze di Berkeley. Per Hume le’sistenza del mondo esterno è un’idea. Qui abbiamo una nuova
concezione del termine idea, completamente inedita: Hume ritiene che vi siano delle rappresentazioni vivaci, le impressioni, che
sono l’oggetto preciso delle nostre sensazioni; vi sono poi le impressioni sbiadite, meno vere sotto un certo punto di vista perché
sono la rielaborazione o il ricordo delle impressioni, e sono chiamate idee. Queste ultime sono abbastanza simili alle idee complesse
lockiane. Hume sostiene che noi non abbiamo alcuna possibilità di capire e dimostrare se esiste un mondo esterno, come sosteneva
anche Berkeley, ma possiamo cercare la genesi di queste idee, cioè come possano quindi prodursi in noi, e in particolare l’idea di
mondo esterno. Questa idea viene sostanzialmente dall’unirsi di molteplici impressioni collegate: nasce dal fatto che abbiamo la
rappresentazione di qualcosa che sta di fronte a noi, e abbiamo più rappresentazioni successive che connettiamo e colleghiamo allo
stesso oggetto. Noi facciamo invece di queste rappresentazioni successive una simile all’altra l’idea di una continuità dell’oggetto che
quindi dovrebbe stare fuori di me. Ma questa è solo la nostra immaginazione e la memoria: la capacità che noi abbiamo di trattenere
una rappresentazione per più tempo di quanto non ci venga presentata, e pensare che il mondo esterno esista e sia continuativo.
L’idea del mondo esterno ha allora natura puramente psicologica ed abitudinaria, che consiste nel riunire più rappresentazioni,
producendomi un mondo esistente al di fuori di me. Ma non c’è nessun motivo logico che possa giustificare questa mia abitudine:
essa è un’esigenza quotidiana essenziale, ma è una fede nell’esistenza del mondo. Una fede che non è Faith, fede religiosa, ma Belief,
una credenza a cui io credo benché non vi sia nessuna dimostrazione della sua esistenza.

Al pari dell’esistenza del mondo tutti gli oggetti metafisici (Dio, causa-effetto, ecc…) sono tutte costruzioni soggettive,
assolutamente indimostrabile. La radicalizzazione del soggettivismo viene chiamato fenomenismo, l’unica cosa certa di cui
possiamo parlare è il fenomeno, ciò che si mostra. Ma ciò che si mostra è semplicemente una rappresentazione, non possiamo
pensare ad oggetti che esistano al di fuori in nessun modo. Qui prende piedi un vero e proprio scetticismo, visto che non vi è nessun
garante dell’esistenza del mondo esterno. Mentre la filosofia di Berkeley può essere definita come un idealismo empirico, quella di
Hume è senza dubbio un idealismo fenomenistico.

ANTI-LEIBNIZ: L’INDIMOSTRABILITA’ DEL SOGGETTO


Non solo non possiamo dimostrare un mondo esterno oggettivo, ma non possiamo nemmeno dimostrare l’esistenza di un soggetto
che sta dietro le rappresentazioni: posso muovermi solo all’interno di queste. Cosa sosteneva Locke? Secondo lui, esiste il soggetto
ma non esiste la sostanza soggetto: esiste l’identità dell’io, ma questa identità non può essere originato dalla sostanza perché questa è
totalmente arbitraria. E’ semplicemente la percezione di una percezione, cioè non quella che ha per oggetto il mondo esterno ma
verso il mondo interno, attraverso una consapevolezza della coscienza. L’Io allora è realmente esistente e questa idea complessa è
semplicemente un prodotto della mia coscienza, e l’io è intuibile attraverso un’intuizione. L’argomento lockiano ricalca quello
cartesiano per quanto riguarda la conclusione, ma cambia l’argomentazione: dice semplicemente che si può intuire sé stesso e in ciò
sta l’identità, una sorta di autointuizione. Da questo punto di vista rimane cartesiano, consentiva cioè di far sussistere e salvare la
soggettività pur riducendo a illusione la concezione di sostanza e criticandola.

Hume mette in questione anche questa conclusione lockiana. Per lui possiamo parlare ragionevolmente solo delle nostre
rappresentazioni, e non anche di un soggetto identico che stia dietro a queste rappresentazioni. Non abbiamo nessuna possibilità di
parlare di un contenitore in cui si situano le varie idee, non possiamo in alcun modo dimostrare questa identità personale. Ma tra
queste rappresentazioni che io ho, dell’esterno, del mio corpo, delle mie percezioni interne, c’è indubbiamente anche la
rappresentazione dell’io. Ma questa appunto è solo un’idea, una costruzione arbitraria tanto quanto quella del mondo esterno.
Questa può comunque essere spiegata psicologicamente, trovando la sua genesi: essenziale come per il mondo esterno è la funzione
decisiva della memoria, cioè il ricordo di nostre passate impressioni che ci permette di associarle attraverso somiglianza traendone
identità e continuità.

“L’identità dipende, dunque, da qualcuna di queste tre relazioni: di rassomiglianza, di contiguità e di causalità; e poiché la vera
essenza di queste tre relazioni consiste nel produrre un facile passaggio da un’idea ad un’altra, ne segue che le nostre nozioni
d’identità personale derivano esclusivamente dal cammino piano e ininterrotto del pensiero attraverso una serie d’idee connesse,
conforme ai principi su esposti.” Libro I, Parte IV, Sezione Sesta, Trattato sulla natura umana

La soggettività è allora solo un’associazione di particolari impressioni somiglianti tra di loro, e non esiste al di fuori di questo. Non si
può allora parlare di soggetto ma solo di rappresentazioni, che si presentano così intrascendibili sia in direzione dell’oggetto sia in
direzione del soggetto che sta dietro.

“Ma, fatta eccezione di qualche metafisico di questa specie, io oso affermare che per il resto dell’umanità noi non siamo altro che
fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con un inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento. […] La
mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano in

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un’infinita varietà di atteggiamenti e situazioni. E non si fraintenda il paragone del teatro: a costruire la mente non c’è altro che le
percezioni successive: noi non abbiamo la più lontana nozione del posto dove queste scene vengono rappresentate, o del materiale di
cui è composta.” Libro I, Parte IV, Sezione Sesta, Trattato sulla natura umana

Ovviamente qui rimangono in sospeso alcuni grossi problemi: il primo è la posizione rigidamente fenomenista in cui il soggetto è
fondamentalmente passivo di fronte alle sue rappresentazioni, ma allora da dove vengono queste stesse rappresentazioni? Leibniz
aveva risolto dicendo che la monade era sostanzialmente attiva e creava la rappresentazione, e Berkeley aveva la creazione di Dio; il
secondo in questione riguarda la capacità costruttiva del nostro pensiero per Hume, tanto è vero che le idee sono costruzioni
attraverso memoria, costanza, somiglianza e immaginazione; ma se noi non siamo soggetti e il soggetto non esiste, chi è che
costruisce queste rappresentazioni? Noi neghiamo la sua esistenza ma gli diamo delle funzioni. Kant risolverà questo problema
lasciato in eredità dal fenomenismo, non riportando però avanti la vecchia metafisica oramai devastata dall’empirismo britannico.

STORIA DELLA FILOSOFIA I – LEZIONE 11 – 28/02/13 – Lucio Cortella

L’INIZIO DELLA FILOSOFIA CLASSICA TEDESCA


Questa lezione comincerà a trattare di quella corrente in cui tutti i nodi cruciali della Metafisica classica e medievale si intrecciano tra
loro dando forma compiuta ad una nuova filosofia. Anche qui parliamo di meno di 50 anni di storia, quella che porta dalla Critica
della ragion pura di Kant del 1781 alla Scienza della logica hegeliana del 1816: si tratta di un vertice della storia della filosofia
occidentale come non si verificava dalle filosofie di Aristotele e Platone.

La grande opera di Kant, cioè il suo testo sulla Critica della ragion pura, è diviso in tre grandi sezioni: l’Estetica trascendentale e la
Logica trascendentale, a sua volta divisa in Analitica trascendentale e Dialettica trascendentale. Nell’Estetica Kant tratta della sua
teoria sulla percezione e sulla sensibilità, mentre nell’Analitica tratta dell’intelletto e nella Dialettica tratta della ragione. Cercheremo
di rintracciare nelle sue tesi l’empirismo humiano, sottolineando in che senso Kant recupera questa tradizione e di come dentro
questa porti la svolta per un suo superamento.

KANT E IL RECUPERO DELL’EMPIRISMO


L’empirismo ricorda come noi non abbiamo la possibilità di conoscere al di fuori dell’esperienza dei sensi, e che questa sia
insuperabile: noi non possiamo infatti trascendere né questa né le nostre rappresentazioni, non possiamo andare al di là di esse e non
possiamo nemmeno vedere ciò che sta dietro ad esse. L’esperienza, per Kant, non uscire dalle rappresentazioni. Al pari degli
empiristi Kant crede nell’intelletto, non associandosi assolutamente ad un voto sensismo, sostenendo che la nostra esperienza
comincia con i sensi e da questi noi riusciamo a ricavare l’intelletto. Le nostre sensazioni di un qualsiasi oggetto sono molteplici e
disarticolate, e per conoscere io devo unificarle attraverso l’intelletto, e questa è la sua funzione principale: sintetizzare ciò che viene
dato come materiale sensibile. Senza la sensazione l’attività dell’intelletto non ha alcun senso.

Ma cosa succede se l’intelletto prova a produrre prescindendo dal materiale sensibile? Esso produce delle idee, qualcosa che non va
bene, intese nel senso della critica Humiana. Questa procedura è illegittima: ne abbiamo bisogno psicologicamente, ma è
ingiustificata e si realizza sempre come costruzione arbitraria perché stiamo tentando di prescindere dal sensibile. Tutte le
conoscenze metafisiche sono ideali, quindi non hanno alcun criterio e valore di verità, e Kant le raggruppa in tre grandi idee: Anima,
Mondo e Dio. Quando l’intelletto produce queste idee svincolate dal sensibile esce di suoi compiti, cominciando a ragionare per
conto suo, diventando cioè ragione. Questa non ha più alcun rapporto con la verità e, prescindendo dai dati sensibili, è parvenza –
Schein- e quindi totalmente arbitraria, come Kant esporrà nella Dialettica trascendentale. Quando invece l’intelletto organizza i dati
sensibili produce apparenza –Erscheinung- vera, fenomeno, e questo tema è trattato nell’Analitica trascendentale. Questa è una
decisiva distinzione: prima avevano entrambe a vedere con la verità. Questa tornerà prepotentemente con Hegel che però invertirà i
termini, e in questo senso si può dire che Kant porti avanti l’empirismo

KANT E LA CRITICA ALL’EMPIRISMO


L’obiettivo di Kant è di far proprie le importanti acquisizioni dell’empirismo, cercando però di riformarlo profondamente e superarne
i limiti emersi. Cosa rimprovera principalmente all’empirismo? Esso manca di capire la giusta funzione dell’intelletto,
considerandolo come estrinseco e secondario ai sensi, perché sostengono che ci basterebbero solo queste rappresentazioni
direttamente sensibili. Per Kant invece l’intelletto è un momento necessario non solo alla conoscenza, ma alla stessa conoscenza
sensibile: io non posso aver alcuna immagine di un oggetto se sono dotato solo di sensibilità, ho bisogno dell’intelletto.

“I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche.” Introduzione, Logica trascendentale, Critica della
ragion pura

Se non possiedo l’attività dei concetti, e ho solo le intuizioni, non posso vedere. L’empirismo non riesce a comprendere come sono
fatte le nostre rappresentazioni, e per loro esse sono solo qualcosa di passivo, e pensano che basti questa passività e che anzi devo
limitarmi propriamente a questa. Per Kant però non c’è solo questa datità passiva, perché essa non basta per spiegare le nostre

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rappresentazioni sensibili, ma ho bisogno dell’attività dell’intelletto. Questo contributo leibiniziano che riguarda l’attività del
pensieri nell’intervenire nelle nostre percezioni verrà ripresa qui da Kant, perché per lui conoscere è sempre un operare, un fare
sintesi. Ma in cosa consiste esattamente questa attività dell’intelletto? Per Leibniz era un produrre innato che ha le già le sue basi
nella stessa monade.

LA CONCEZIONE KANTIANA DELLA CONOSCENZA


In che cosa consiste, esattamente, quest’attività sintetica? In che senso può essere necessaria alla stessa sensibilità e non venire solo
successivamente? Bisogna mettere in luce i limiti di una conoscenza puramente sensibile: per Kant essa è incapace di mostrarci degli
oggetti. Cosa sono infatti per lui le intuizioni del materiale sensibile? Esse sono una serie di infiniti punti sensibili, che sono le varie
sensazioni: questi punti, presi separatamente, sarebbero incapaci di darci da soli l’interezza degli oggetti che percepiamo, e questo
argomento è trattato con particolare attenzione nella sezione dell’Estetica trascendentale. Secondo Kant noi possiamo rimanere nel
campo del sensibile e già questo è una sorta di sintesi di questi vari punti, in sostanza la stessa sensibilità fornisce già una prima
sintesi degli infiniti punti sensibili collocandoli in un qui ed in un ora, cioè le due forme dello spazio e del tempo. Queste concezioni
non sono qualcosa che ci proviene dall’ambiente esterno, ma sono delle sintesi fatte da noi che ci permettono di organizzare
preliminarmente il materiale sensibile. Le percezioni interne si distinguono da queste perché è possibile collocarle solo nel tempo. In
questo caso non c’è l’intelletto che agisce, e queste sono forme sensibili di organizzazione che non provengono dall’esterno: noi
conferiamo spazialità e temporalità, ed esse sono forme a priori. Tempo e spazio sono la stessa condizione di possibilità del
conoscere, non solo realtà in sé e sono le forme con cui organizziamo il contenuto, cioè i dati sensibili. Questa visione è
profondamente lontana dalla concezione cartesiana, perché per Kant lo spazio è contenitore e forma a priori, condizione stessa del
dato, e sono sensibili e non coscienti. Ma questo non basta per conoscere l’oggetto. Se disponessimo solo di spazio-temporalità
avremmo solo una serie di punti collocati ma totalmente irrelati tra loro, completamente disaggregati, che non ci danno alcuna
immagine dell’oggetto.

LA FUNZIONE CATEGORIALE DELL’INTELLETTO


Abbiamo appena visto che la sensibilità ha due forme con cui organizza i dati, e così anche l’intelletto ha queste forme che fungono
come funzioni organizzative. Queste forme non saranno sensibili ma bensì appunto intellettuali, e vengono chiamate da Kant
Categorie, termine che troviamo spesso nella tradizione metafisica a partire da Aristotele, che le concepiva come le diverse modalità
ontologiche dell’essere. In Kant esse non hanno significato ontologico, ma principalmente linguistico, ed infatti li ritrova all’interno
dei giudizi (predicato + soggetto): attraverso queste 12 categorie non solo organizziamo il linguaggio, ma il nostro stesso pensiero, ed
essi sono concetti puri, puramente formali, non empirici ed a priori. Sono sostanzialmente i 12 modi in cui unifichiamo il materiale
organizzato e sintetizzato spazio-temporalmente dalla sensibilità, e grazie a questa sintesi ulteriore operata dalle categorie
dell’intelletto otteniamo l’oggetto conosciuto.

Prendiamo ad esempio la categoria della sostanza: cosa ci permette di ottenere? Ci permette di unificare il sensibile nella cosa
dell’oggetto, riuscendo così ad organizzarlo in modo di attribuirgli sostanzialità, la permanenza dell’oggetto che ci permette di
ritenere che questo esista anche quando non lo vedo, indipendentemente dalla mia percezione di questo; questa è l’attività
dell’intelletto che interviene attraverso la forma della sostanza, sintetizzando dati sensibili diversi e successivi. Per Hume era fede
che l’oggetto rimanesse anche quando non è percepito, mentre per Kant noi non possiamo fare altrimenti. Questo sarà uno dei
problemi più grandi, a detta dello stesso autore, da argomentare nella Critica. Essa è necessità logica. Vi sono 4 modi prevalenti di
organizzazione di queste 12 categorie:

1. Quantitative: unità (questo è un oggetto), pluralità (questi sono più oggetti), totalità (questi sono tutti gli oggetti).
2. Qualitative: realtà (ciò che consente di dire che è reale), negazione (per distinguere un oggetto da un altro), limitazione (il
confine tra cose diverse).
3. Relazione: sostanza-accidente, causa-effetto (ci permette di connettere i movimenti), azione reciproca (azione-reazione).
4. Modalità: esistenza (è), possibilità (è possibile che), necessità (è necessario che).

Abbiamo qui il punto centrale dell’empirismo kantiano: l’azione dell’intelletto è essenziale perché noi percepiamo un oggetto:
l’intelletto non serve solo a fare la sintesi e rendere possibile la rappresentazione dell’oggetto, ma rende possibile l’oggetto stesso. La
stessa nozione di oggetto è qualcosa di possibile solo perché ci sono le categorie. In Kant rappresentazione e oggetto non sono la
stessa cosa, per una rappresentazione basta forse la sola sensibilità dei vari punti, ma per l’oggetto è necessaria la sintesi
dell’intelletto attraverso le varie categorie. Questa distinzione tra rappresentazione e oggetti era sconosciuta prima di Kant: se riduco
il mondo a rappresentazione, come Hume, non spiego come faccio a distinguere tra la mia rappresentazione del libro e il libro,
sempre rimanendo nel mio mondo interno. I moderni avevano dissolto questa distinzione dentro l’esperienza, e questo è uno dei
grandi guadagni della tradizione kantiana.

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Ebbene questi oggetti sono il prodotto dell’intelletto, sono costituiti da questo: la prestazione specifica dell’intelletto ci permette di
dare alla nostra rappresentazione soggettiva costituzione oggettiva, sempre all’interno della mia esperienza. Il mondo così non è più
ridotto a sola rappresentazione. Si riesce quindi a distinguere questi oggetti delle rappresentazioni, e Kant li chiama fenomeni, che
sorgono sotto l’azione delle categorie. Per Hume invece i fenomeni erano le rappresentazioni, mentre ora con Kant sono gli oggetti:
l’intelletto rende possibile l’oggettività degli oggetti. Risultato delle categorie, senza queste non avremmo nemmeno gli oggetti, non
solo la conoscenza di questi.

“Dunque, la semplice forma dell’intuizione sensibile esterna, cioè lo spazio, non costituisce ancora una conoscenza; essa si limita
ad offrirci il molteplice dell’intuizione a priori in vista di una conoscenza possibile. Ma se voglio conoscere qualcosa nello spazio,
ad esempio una linea, debbo tracciarla, cioè operare sinteticamente una determinata congiunzione del molteplice dato, in modo che
l’unità di questa operazione sia ad un tempo l’unità della coscienza (nel concetto di una linea); solo così si costituisce la conoscenza
di un oggetto (uno spazio determinato).” §17, Analitica trascendentale, Libro I, Cap II

Questa è una novità assoluta nella storia della Metafisica, ed era prima del tutto sconosciuta: essa non è idealismo cartesiano, per cui
tutto è idea ed estensione; ma non è nemmeno idealismo empirista per cui tutto quanto è rappresentazione. L’intelletto è legislatore,
che mi da le regole delle categorie.

STORIA DELLA FILOSOFIA I – LEZIONE 12 – 01/03/13 – Lucio Cortella

KANT: CONGIUNZIONE TRA INTELLETTO E SENSIBILITA’


Nella lezione precedente ci siamo soffermati sulla concezione kantiana dell’intelletto: punto cruciale è che questo sia estremo
legislatore delle nostre rappresentazioni, come ordinatore dei sensi. Questa nozione è assolutamente centrale per la conoscenza
dell’oggettività, ovvero per la datità dell’oggetto.

Qui sorge però il problema dello schematismo: per far apparire un mondo di oggetti non sembra infatti sufficiente l’azione
dell’intelletto. Le categorie sono solo dei concetti: senza questi noi non potremmo pensare gli oggetti, anzi non potremmo nemmeno
vederli. Ma come possono questi concetti e categorie ordinare immediatamente il dato sensibile? E’ necessario trovare una struttura
con cui i concetti possano interferire ed entrare nella sensibilità, facendo si che i sensi possano vedere attraverso questi concetti puri.
Questa congiunzione tra categorie e sensibilità è da Kant ritrovata in quelli che chiama schemi, questi devono essere a priori e
tuttavia dev’essere qualcosa di sensibile: non devono essere intellegibili come le categorie, ma devono obbedire a queste. Questi
schemi allora sono questo punto intermedio di congiunzione tra la sensibilità che è solo passiva e l’intelletto che è solo attivo, sono
cioè due facoltà molto diverse. Funzione principale è che questi schemi permettono che la sensibilità ordini immediatamente tra le
due forme a priori spazio-temporali e le 12 categorie. E’ pur vero che la forma più generale della sensibilità è il tempo, perché ordina
anche le percezioni interne mentre lo spazio solo quelle esterne.

Lo schema è allora una categoria che diventa tempo: per esempio la mediazione fra la categoria di sostanza e il tempo è lo schema
della permanenza, così come lo schema tra azione reciproca e tempo è la simultaneità. Lo schema cerca così di organizzare il
materiale sensibile in modo che possa essere ordinato dall’intelletto. Esso è il cardine, regge tutta la struttura kantiana senza il quale
l’impianto non reggerebbe, e non permetterebbe così di attuare quella rivoluzione copernicana come è stata chiamata. Copernico
insegna a Kant come il cambio di prospettiva possa risolvere alcuni problemi altrimenti insolubili. Ma qual era il punto di vista
classico? Era che il soggetto influiva sulla percezione dell’oggetto, ma non si capiva come generavano questi oggetti.

 Rivoluzione copernicana di Kant: ora è l’oggetto a reggere il soggetto. All’interno del pensare dobbiamo distinguere tra
quello che chiamiamo oggetti e quello che chiamiamo rappresentazione, tutti comunque fenomeni della soggettività.

NUOVA CONCEZIONE DI TRASCENDENTALITA’


La parola trascendentale compare per la prima volta proprio con Kant, anche se era già stato pensato fin da Cartesio, come quella
soggettività che non si riesce a trascendere. Il secondo senso di Kant, però, è completamente inedito, e significa costitutivo: il
pensiero è costruttivo nei confronti dell’oggetti, perché unifica, sintetizza e organizza. Il soggetto tuttavia non viene inteso come
sostanza, ma qui acquista un valore superiore a quello attribuibile alla vecchia nozione di sostanza, perché attraverso le categorie
permette di costituire le sostanze e i soggetti. Questa concezione categoriale ha notevole importanza: queste “sostanze” non sono più
realtà in sé, presenti nel mondo, come vorrebbe il realismo metafisico; ma non sono nemmeno delle mere idee come sosteneva
l’empirismo. Le categorie sono forme trascendentali, inaggirabili, necessarie, costruttive, condizione di possibilità dell’oggettività,
sempre rimanendo dentro l’orizzonte del soggetto. Questo riduce tutto ciò che l’ontologia metafisica credeva esistente in sé o nelle
cose in particolari funzioni logiche.

Cosa dobbiamo pensare quindi dei concetti universali? La storia della Metafisica ci fornisce molti esempi, come quello innatista di
Platone o come il nominalismo degli Empiristi. La risposta di Kant è che le categorie precedono il particolare, ma non precedono

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come se noi avessimo degli innati contenuti di conoscenza che ricordiamo, ma bensì solo come delle forme, come delle funzioni che
ci permettono di conoscere, ed infatti le categorie fanno parte della Logica trascendentale.

Questa concezione permette di vedere con occhi nuovi la storia della Metafisica: per millenni si pensava che sostanza, causa,
necessità, fossero realmente esistenti e reali, mentre l’empirismo aveva radicalmente fatto piazza pulita di queste concezione
spiegandole come abitudini psicologiche. Per Kant gli empiristi hanno ragione a dire che queste non sono esistenti realmente, ma
sbagliano quando considerano queste cose come completamente arbitrarie. Quando noi sostanzializziamo queste forme, stiamo
usando le categorie in modo sbagliato, trasformando le normali funzioni dell’intelletto in ragione, creando idee sbagliate ed illusorie.
La storia della Metafisica ha parlato per millenni di queste cose, ma ha compiuto l’errore di crederle esistenti in sé. Perché per Kant
dobbiamo essere empiristi? Perché una forma per funzionare ha assolutamente bisogno di un contenuto, il materiale sensibile da
unificare.

Il materiale, il dato, può venire solo dalle intuizioni. E qui abbiamo due possibilità: da una parte possiamo pensare che possiamo
intuire direttamente con l’intelletto per giungere alle idee; dall’altra l’intelletto non intuisce, il materiale non ci può venire da queste
intuizioni intellettuali, ma solo ed unicamente dalle intuizioni sensibili. L’unico ambito a cui le categorie possono applicarsi sono i
contenuti spazio-temporali provenienti dal molteplice sensibile, e solo questi. Quando le categorie non attingono a questi si applicano
a concetti vuoti, si applicano a un materiale che non c’è, girano a vuoto. Le categorie non possono funzionare per conto loro, e da
qui il nome dell’opera kantiana: critica alla ragione pura. Vuole mostrare i limiti dei ragionamenti, cioè la stessa esperienza,
riconfermando il punto focale dell’empirismo.

“§22. La categoria non ha altro uso per la conoscenza delle cose che quello di essere applicata a oggetti dell’esperienza.” Analitica
trascendentale, Libro I, Cap II

Per conoscere qualcosa allora non basta pensare, ma ho bisogno di intuire: se mi limito a pensare ho solo forme vuote prive di
contenuto. La conoscenza allora non si riferisce alle intuizioni pure di spazio e tempo, con queste infatti possiamo avere soltanto la
matematica, ma essa non è conoscenza se non viene riferita a qualcosa e per questo rimane una forma. Allo stesso tempo i concetti
puri, le categorie, da soli non producono alcun tipo di conoscenza, ma vengono bensì applicati ai contenuti empirici. Le due cose
possono funzionare solo insieme.

“Pertanto le categorie mediante l’intuizione non ci procurano ancora conoscenza alcuna delle cose se non per mezzo della loro
possibile applicazione all’intuizione empirica: esse, dunque, non servono che alla possibilità della conoscenza empirica. Ma questa
prende il nome di esperienza. In conclusione, le categorie servono non alla conoscenza delle cose, se non in quanto queste sono
oggetti di esperienza possibile. Questa proposizione è della massima importanza perché stabilisce i limiti dell’uso dei concetti puri
dell’intelletto rispetto agli oggetti, così come l’Estetica trascendentale ha stabilito i limiti dell’uso della forma pura della nostra
intuizione sensibile.” §22, Analitica trascendentale, Libro I, Cap II

IL SOGGETTO IN KANT
Ma vi è un altro problema molto complicato che ancora non è stato ben vagliato, ed è la questione della soggettività. Per un verso
possiamo dire che Kant accetta la critica alla sostanzialità del soggetto che hanno messo in campo gli empiristi. Tutta la terza parte
della critica, cioè la Dialettica trascendentale, contiene la critica all’idea di anima e alla sua sostanzialità. Per Kant questo
travisamento della metafisica si basa su un paralogismo, un sillogismo fallace, che contiene un errore interno. Questo caratterizza
tutta la dottrina razionale dell’anima: la pretesa di conoscere l’anima attraverso la ragione, cioè fuori dall’esperienza sensibile. Ma in
cosa consiste questo paralogismo?

“Il procedimento della psicologia razionale è dominato da un paralogismo che trova espressione nel seguente sillogismo:

-Ciò che non può essere pensato diversamente che come soggetto, non esiste diversamente che come soggetto, perciò è sostanza.

-Ma un essere pensante, considerato semplicemente come tale, non può essere pensato diversamente che come soggetto.

-Dunque, esso esiste soltanto come tale, ossia come sostanza.” Dialettica Trascendentale, Libro II, Cap I

Questo paralogismo è confutato per il fatto che viene mostrata una confusione tra i significati del termine soggetto: nella premessa
maggiore ha a che vedere con il sostrato delle intuizioni, ciò che ha un’esistenza reale; nella premessa minore invece ci si riferisce
all’autocoscienza. La categoria di sostanza ha dei limiti di funzionamento, infatti può agire solo su oggetti di intuizione. Ma il
soggetto nella visione introspettiva non è intuito? Cosa intuisco quando mi soffermo sulle mie sensazioni interiori? Quello che
percepisco guardando al mio interno è solo il materiale sensibile.

“Così, per la conoscenza di me stesso, in aggiunta alla coscienza, cioè al pensare me stesso, si rende necessaria l’intuizione di un
molteplice in me, per determinare quel pensiero.” §25, Analitica trascendentale, Libro I, Cap II

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L’anima resta perciò un’idea illusoria della ragione. Tuttavia il fatto che il soggetto non sia sostanza, il fatto che non sia un’anima,
non significa per Kant che il soggetto in quanto tale sia illusorio. Ma come mai non arriva alla conclusione di Hume? Il discorso che
fa Kant parte dalla domanda sul qual è la condizione per cui io ho delle rappresentazioni, pensandola come gli empiristi. Questa
condizione viene ad essere il processo di unificazione, perché infatti non vi può essere alcuna rappresentazione senza questa
funzione unificatrice. Ma questa operazione, questo processo, può essere daccapo una rappresentazione? Questo non è possibile,
perché altrimenti richiederebbe un’altra unificazione. La condizione della rappresentazione è sintesi, e questa non può essere ridotta
ancora a rappresentazione, deve essere reale e devo presupporla. Kant la chiamerà Io penso.

“§ 16. Dell’unità sintetica originaria dell’appercezione.

L’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; in caso diverso, si darebbe in me la rappresentazione di qualcosa
che non potrebbe esser pensata; il che equivale a dire che la rappresentazione sarebbe impossibile o, per me almeno, sarebbe
nulla.” Analitica trascendentale, Libro I, Cap II

Il passo appena citato è uno dei passi kantiani più celebri. Ma perché lo chiama così? Perché questo processo avviene con i pensieri,
con i concetti dell’intelletto. Non si tratta qui della riproposizione dell’argomento cartesiano, bensì vi troviamo di più: non si possono
dare rappresentazioni empiriche senza pensiero, senza unificazioni, categorie, senza la struttura dell’io penso. Questa viene chiamata
da Kant deduzione trascendentale, ed è un altro dei problemi più difficili affrontati nella critica anche a detta dello stesso autore.

“Ma fra i concetti di diversa specie che costituiscono il così vario tessuto della conoscenza umana, ce ne sono alcuni che sono
determinato anche per l’uso a priori (del tutto indipendente da ogni esperienza), e questa loro legittimità abbisogna sempre di
deduzione; infatti, per la giustificazione di tale uso, le prove ricavate dall’esperienza non sono sufficienti, essendo necessario sapere
come questi concetti possano riferirsi a oggetti che non traggono la loro origine da alcuna esperienza. La spiegazione del come i
concetti a priori si possano riferire a oggetti, costituisce ciò che io chiamo la deduzione trascendentale dei medesimi, deduzione
trascendentale che distinguo dalla deduzione empirica, la quale fa vedere come un concetto sia acquisito mediante l’esperienza e la
riflessione su di essa, e riguarda pertanto non la legittimità, ma il fatto da cui risulta il possesso.” §13, Analitica trascendentale,
Libro I, Cap II

STORIA DELLA FILOSOFIA I – LEZIONE 13 – 06/03/13 – Lucio Cortella

KANT: I RISULTATI DELLA DEDUZIONE TRASCENDENTALE


Con la deduzione trascendentale Kant vuole mostrarci l’inaggirabilità del soggetto, che pur senza la percezione di questo esso deve
esserci, e l’io penso accompagna ogni mia rappresentazione. Questo è la condizione di tutti i miei atti di pensiero. In questo caso
viene considerato come unità analitica dedotta logicamente, a condizione però che esso sia unità sintetica di tutte le mie
rappresentazioni, partecipi ad ogni mia rappresentazione. E’ importante capire in questo contesto cosa intenda Kant per deduzione:

“Quando parlano di legittimità e pretese, i giuristi distinguono in ogni dibattito giuridico la questione concernente ciò che è di
diritto (quid iuris) dalla questione di fatto (quid facti), ed esigendo la dimostrazione per l’uno e l’altro punto, chiamano la relativa al
primo –quella cioè che deve dimostrare la legittimità o anche la pretesa giuridica- deduzione.” §13 Libro I, Cap II, Analitica
Trascendentale

L’uso di questo termine non è del tipo usuale, non parte dalle premesse per dedurre qualcosa, non è un processo di tipo logico ma
bensì giuridico, e infatti usa la metafora del tribunale. Giuridico significa: che diritto ha (quid iuris)? Significa trovare la legittimità e
la pretesa attraverso cui la deduzione viene ad essere giustificata, mostrando questa stessa pretesa. La pretesa qui in gioco è che
l’intelletto sia condizione stessa di ogni rappresentazione, è una pretesa di trascendentalità, di cui non si possono aggirare le categorie
e l’io penso.

“La spiegazione del come i concetti a priori si possano riferire a oggetti, costituisce ciò che io chiamo la deduzione trascendentale
dei medesimi, deduzione trascendentale che distinguo dalla deduzione empirica, la quale fa vedere come un concetto sia acquisito
mediante l’esperienza e la riflessione su di essa, e riguarda pertanto non la legittimità, ma il fatto da cui risulta il possesso.” §13
Libro I, Cap II, Analitica Trascendentale

Non si possono vedere oggetti senza il riferimento ai concetti puri. Kant argomenta cominciando dalle rappresentazioni, e mostrando
come attraverso la deduzione vi siano alcune condizioni senza cui non potremmo averle, è un’argomentazione che porta a ciò che sta
dietro le mie rappresentazioni. Nell’Estetica trascendentale era più facile dimostrare la trascendentalità delle forme di spazio e tempo,
ma ora risulta più difficile dimostrare la necessità dei concetti puri. La deduzione trascendentale vuole arrivare a concepire che noi
non vedremmo alcun oggetto senza l’attività unificatrice e sintetizzante delle categorie, praticata dalle stesse funzioni dell’io penso.
Per Hume si poteva dare rappresentazione anche senza il soggetto, ma lo scacco di Kant è dimostrare che queste sono nulla senza
l’unificazione dell’io penso, e quindi come questo sia imprescindibile e decisivo.

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L’IO PENSO
Abbiamo a questo punto tutte le condizioni per rispondere alla domanda sulla natura dell’io penso, visto che sappiamo che non può
essere né sostanza né anima. Ma cos’è allora questa soggettività? E’ la facoltà di unificare, la capacità di unificazione della mia
esperienza possibile e della totalità di questa. Non è qualcosa di psicologico come intendeva Hume, perché non possiamo percepirlo
o intuirlo: quanto rivolgo la mia attenzione all’interno di me stesso vedo solo fenomeni interni già unificati, ma non vedo e non posso
percepire questo io penso. Allora si tratta di una unità puramente logica, che rende possibile l’esperienza: l’appercezione o
autocoscienza originaria non potrà mai essere una vera conoscenza.

“Nella sintesi trascendentale del molteplice delle rappresentazioni in generale, e pertanto nell’unità sintetica dell’appercezione, io
sono cosciente di me stesso non già come apparisco a me stesso, né come sono in me stesso, ma solo che sono. Questa
rappresentazione è un pensare, non un intuire” §25, Analitica Trascendentale, Libro I cap 2

L’io penso è così la forma delle forme, la condizione e l’attuatore dell’unificazione del molteplice dei dati materiali nella mia
esperienza.

 Conclusione: senza dati sensibili questa forma non sarebbe niente, senza il molteplice il soggetto non esiste perché non
avrebbe nulla da unificare. Questa è una sottilissima concezione del soggetto, la cui dimostrazione sembra portare a
qualcosa di simile a quella di Cartesio, ma allo stesso tempo è assolutamente distante: il cogito è indubitabile, ma questo
non vuol dire che sia un sum di per sé come sostanza, perché non ho mai possibilità di intuirlo in alcun modo.
Quest’argomento attraverserà di soppiatto tutta la Dialettica trascendentale.

DIALETTICA TRASCENDENTALE E GLI ERRORI DI RAGIONE


L’uso corretto dei concetti sta quindi in un buon uso dell’intelletto, mentre in caso contrario abbiamo la ragione: non è possibile usare
i concetti fuori dall’intuizione, pena la non legittimazione. Nella Dialettica trascendentale Kant punterà a demolire i vecchi pilastri
metafisici, le tre grandi idee di Dio, Anima e Mondo.

Come sappiamo le idee per Kant sono illusioni dettate dalla ragione, e una di questa riguarda il Mondo, ovvero la pretesa di poter
dire qualcosa sul cos’è la totalità del mondo. Kant sostiene che io non posso mai fare esperienza della totalità del mondo, perciò non
ho la possibilità di usare coerentemente le categorie su dati sensibili per capire se questo sia finito o infinito, oppure libero o
necessario, perché infatti in questi casi starei usando delle categorie fuori dall’esperienza, generando così delle antinomie, delle
contraddizioni irrisolvibili.

Per quanto riguarda l’idea di Dio, questa è altrettanto indimostrabile quanto la sua esistenza, perché per dirlo esistente dovrei usare la
determinata categoria su cose di cui non posso avere alcuna esperienza né intuizione. Se invece decido di fare ugualmente questo
ragionamento, creo un’idea come illusione trascendentale, assolutamente non legittima. Ma non è semplicemente una conoscenza
falsa: è un’inevitabile tendenza della ragione a cercare di andare al di là delle sue intuizioni sensibili da cui è difficile trattenersi. Il
compito della Critica alla ragion pura è proprio quello di mostrare e mettere in guardia da questo bisogno e limite umano. Non poter
dimostrare Dio comunque non vuol dire che esso non possa esistere, ma questo punto verrà vagliato nella Critica alla ragion pratica.

Nella Dialettica trascendentale Kant prenderà in esame le 3 dimostrazioni più forti dell’esistenza di Dio, cercando di demolirle. Egli
dimostrerà che una volta smontato l’argomento ontologico gli altri non riescono più a reggersi:

1. Argomento Ontologico: Kant affronta una critica radicalmente nuova, che ha poco a che vedere con quelle precedenti a
lui: l’obiezione principale prima di lui riguardava il problema del passaggio dall’esistenza per me nella mia mente alla sua
effettiva esistenza nella realtà, ma Cartesio l’aveva in un certo senso superata con l’idea della assoluta perfezione di Dio.
Ma Kant non ha intenzione di mettere in discussione il passaggio dal pensiero alla realtà, su cui molti si erano soffermati;
mette bensì in discussione che l’essenza di Dio implichi analiticamente l’esistenza per la sola analisi interna del contenuto
dell’essenza. Kant contesta quest’analisi perché ritiene che l’esistenza dipenda unicamente da giudizi sintetici, e l’analisi
dell’essenza di Dio ci porta in ogni caso a tutti i gradi di perfettibilità analiticamente recuperabili, senza però che
l’esistenza appaia come uno di questi. Ad esempio possiamo dire che analizzando l’essenza del triangolo, che esista o non
esista, l’analisi della sua essenza non cambia. L’esistenza quindi non appartiene ad un oggetto analiticamente, ma solo
sinteticamente.

“Cento talleri reali non contengono assolutamente di più di cento talleri possibili. Infatti, poiché i secondi stanno a
significare il concetto, e i primi l’oggetto e la sua posizione in sé, se l’oggetto possedesse qualcosa in più del concetto,
questo non esprimerebbe integralmente l’oggetto e non ne sarebbe il concetto adeguato. Certamente, rispetto alle mie
disponibilità finanziarie i cento talleri reali contengono qualcosa in più del mero concetto di essi (ossia della loro
possibilità). Infatti, quanto alla realtà, l’oggetto non è contenuto in modo meramente analitico nel mio concetto, ma si
aggiunge invece sinteticamente a questo concetto (che è una determinazione del mio stato), senza però che i cento talleri

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pensati subiscano il benchè minimo accrescimento in virtù di questo essere, che si trova fuori dal mio concetto.” Dialettica
trascendentale, Libro II, Cap III

2. Argomento Cosmologico: Criticando in questo modo l’argomento ontologico, Kant colpisce anche la nozione stessa di
essere necessario spinoziano, che diventa inconsistente per il semplice fatto che l’essenza di una cosa non ne può implicare
l’esistenza. Da questo parte la critica per l’argomento cosmologico che abbiamo trovato prima in Aristotele e quindi
compiutamente con Tommaso, in cui la stessa contingenza implica il necessario come esistente. Anche qui non abbiamo la
classica obiezione che dalla contingenza non segue la necessità. L’implicazione qui in atto è puramente logica: ma il
concetto di necessario è qualcosa di più di un concetto? Perché questo esista realmente abbiamo bisogno dell’argomento
ontologico, e implicherebbe che la necessità sia qualcosa di più di una delle categorie dell’intelletto, di una forma di
unificazione per connettere i dati sensibili. La grande critica di Kant alla Metafisica è che questa ha considerato tutti i modi
di unificare l’intelletto, tutte queste forme, come cose realmente esistenti, e non come forme logiche che ci permettono di
connettere i fenomeni: tutta la Dialettica trascendentale parte da questa critica.

3. Argomento Fisico-teleologico: E’ sostanzialmente la 5° via di Tommaso, cioè il ritrovare un fine in tutte le cose a cui
queste necessariamente puntano. Kant sostiene che non vi è nulla nella natura che ci dia a vedere che ogni cosa ha un fine,
l’organizzazione del mondo non mi mostra mai questo fine imprescindibile a cui puntano tutte le cose. Per dimostrare
questo argomento bisogna ricorrere all’argomento cosmologico, che a sua volta deve ricorrere all’argomento ontologico,
che però si è dimostrato insussistente.

IL PUNTO DI ARRIVO KANTIANO: LA COSA IN SE’


Ci resta quindi un’ultima importante questione: la cosa in sé. Uno dei punti fondamentali sin qui raggiunti è che il mio apparato
conoscitivo è fatto solo di quelle forme a priori che sono i concetti puri, che senza il molteplice in forma di materiale dato sarebbero
totalmente vuoti. Ma allora deve necessariamente esserci qualcosa al di fuori del soggetto, perché senza questo non vi sarebbe nulla
da unificare e quindi non avremmo nessun soggetto.

Questo materiale è però inconoscibile, perché lo posso conoscere solo una volta unificato dalle mie forme a priori, lo conosco già
formato. Qualsiasi cosa sia essa è totalmente inconoscibile, seppur il fatto che vi sia è una necessità logica. Come lo chiama Kant?

 Oggetto trascendentale: Esso non è un oggetto che sia passabile di una qualsiasi intuizione empirica, è al di fuori
dell’esperienza. Ma noi non possiamo che presupporlo trascendentalmente, ed è per questo che Kant lo chiama in questo
modo, e dobbiamo presupporlo una volta condiviso l’io penso trascendentale.
 Noumeno: lo chiama così per indicare che è il corrispettivo del fenomeno. Deriva da nous, quello che la metafisica di
Platone definiva come intellegibile, ma che con Kant acquista un ulteriore significato. Di esso infatti io non posso avere
mai alcuna intuizione: non esistendo le intuizioni intellegibili potrei averne solo sensibili, ma esso non è mai oggetto di
esperienza. Fossero possibili le intuizioni intellegibili potremmo avere una nozione positiva di noumeno, ma visto che non
possiamo averle dovremo accontentarci di una nozione negativa, come concetto limite logicamente legittimato.
 “Cosa in sè”: E’ una cosa che sta al di fuori delle mie forme di organizzazione, è la realtà in quanto totalmente
indipendente da noi, e Kant la distingue così dal “cosa per me”, è ciò che sta al di fuori. Noi infatti intuiamo sempre
attraverso le forme a priori di spazio e tempo, ma la cosa in sé è fuori da queste due forme sensibili che sono il mostro
modo di organizzare il molteplice. Ma nonostante io non possa mai conoscerla devo presupporla, non attraverso
l’esperienza, ma con una riflessione trascendentale, dobbiamo poterla pensare senza mai conoscerla. Anche nel momento in
cui riuscissimo a conoscerla, sarebbe una “cosa per me”.

Questa concezione Kantiana non è esente da alcune problematiche: quando infatti la pongo come pensabile ma non conoscibile, ho
l’obbligo di dire cosa sto pensando. Quando Kant ci parla dell’io penso ci dice cosa sta pensando, ci dice che è una forma, che ha la
funzione di unificare, che è un qualcosa di determinato, ma quando invece parla della cosa in sé non può dire assolutamente nulla,
per cui i due termini non sono perfettamente corrispettivi. La chiama cosa in sé ma è evidente che non è una cosa, altrimenti sarebbe
già unificata dalle categorie, e nemmeno posso pensarla come reale o esistente o necessaria o causa delle mie rappresentazioni,
perché anche queste sarebbero categorie che si devono per forza riferire a qualcosa di intuibile. Per questo la chiama anche causa non
sensibile delle rappresentazioni, e deve essere esistente (altrimenti l’io penso non avrebbe materiale) ma non deve essere esistente
(come intendiamo noi le cose attraverso la categoria). Questo sarà il lascito che Kant darà all’idealismo tedesco, che sarà proprio il
tentativo di risolvere questo problema della cosa in sé.

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STORIA DELLA FILOSOFIA I – LEZIONE 14 – 07/03/13 – Lucio Cortella

FICHTE E LA DOTTRINA DELLA SCIENZA


Il periodo successivo alla pubblicazione della Critica kantiana è caratterizzato da due istanze: la filosofia kantiana si è imposta
profondamente nella filosofia tedesca, lasciando però il problema della cosa in sé e della sua configurazione; dall’altra parte ha ruolo
preponderante una nuova istanza che Kant aveva trascurato, cioè la necessità di fondare la filosofia con un principio e da li dedurre
tutto il resto e questo principio doveva essere l’io penso kantiano, che non è ancora stato portato alle sue estreme conseguenze.

Nel 1794 viene pubblicata da Fichte il suo libro La dottrina delle scienze, che nel pieno del dibattito sulla nuova filosofia kantiana
intende appunto partire dal principio dell’io penso per dedurre da li tutto il resto e cercare la cosa in sé. Tuttavia questo testo fa
partire un grande dibattito tra i filosofi sul fatto che Fichte tolga o no la cosa in sé, perché in effetti l’autore ci dice che bisogna
considerare l’io penso come produttore anche della molteplicità. Secondo Kant l’io produce l’oggettività degli oggetti, ma
presuppone un esterno da unificare. In Fichte invece l’io non dipende più da un molteplice esterno: l’oggettività che incontriamo non
possiamo considerarla come esterno, ma come prodotto della stessa autolimitazione del soggetto. Qualunque dato del molteplice,
comunque assunto, è qualcosa prodotto dall’interno, perché appena lo riesco a pensare rientra nell’io, come un non-io momento
stesso dell’io.

Ma cosa intende ora Fichte con l’io penso? Per Kant l’io era qualcosa di finito e limitato, che addirittura per esistere come forma ha
bisogno per forza di un mondo esterno da unificare: esso infatti non può intuire nulla che non sia sensibile. Ma Fichte intitola così la
prima parte della sua Dottrina della Scienza:

“Parte prima - §1: Primo principio assolutamente incondizionato”

Kant avrebbe respinto immediatamente questo incondizionato: vorrebbe infatti dire che l’io non dipende da altro che da sé stesso.
Com’è possibile allora questo capovolgimento? Fichte argomenta attraverso cinque passaggi:

1. Se l’io si rivolge a sé stesso riesce a conoscere sé stesso, contrariamente a quanto intendeva Kant. L’intelletto insomma è
capace di intuizione intellettiva diretta, e questa avviene tramite quella che Fichte chiama autointuizione intellettuale.
2. Ma cosa conosco attraverso questa autointuizione? Quello che intuisco quando conosco me stesso è il pensiero che conosce
sé stesso nell’atto di pensare. Non troviamo una sostanza o un dato, ma una attività: l’esistenza stessa dell’io non è un fatto,
ma un atto, un’attività originaria.
3. Ma in cosa consiste questa attività che io scopro grazie a questa autointuizione? Io scopro il pensare nell’atto di pensarmi,
questa stessa attività del pensarsi, come se mi osservassi davanti allo specchio mentre mi guardo. Il pensiero non sta
facendo nient’altro che pensarsi, e nel farlo produce questa attività senza attingere nulla al di fuori di me. L’io non è nulla
al di fuori dell’atto di pensarsi del pensiero, autocreandosi e determinandosi proprio attraverso quella produzione che è
questa stessa autointuizione.

“Quindi, il porsi dell’Io per se stesso è la pura attività di esso – L’io pone se stesso ed è in forza di questo puro porsi per
sé stesso; e viceversa: l’Io è, e pone il suo essere in forza del suo puro essere - Esso è, in pari tempo, l’agente ed il
prodotto dell’azione. […] L’Io è, perché ha posto se stesso. […] (Per spiegazione. Si ode domandare: che cosa ero io
dunque prima che giungessi all’autocoscienza? La risposta naturale a questa domanda è: io non ero affatto, poiché io non
ero Io. L’Io è soltanto in quanto ha coscienza di sé.” Parte I, §1, Dottrina della Scienza

4. L’io dipende solo da questo atto, è perciò condizionato solo da sé stesso, quindi totalmente incondizionato. In Kant anche
la stessa spontaneità delle Categorie dipendeva sempre dall’esterno, in Fichte invece l’io è spontaneo in sé, come
autocreazione nel momento stesso in cui pensa il suo pensarsi. L’io è assoluto, sciolto da qualsiasi condizione.

“L’Io originariamente pone assolutamente il suo proprio essere” Parte I, §1, Dottrina della Scienza

5. Allora, ogni altra verità dipende da questo primo principio, perché qualunque altra cosa sia pure la più indubitabile sarà
ugualmente condizionata. Fichte dice per esempio che anche A = A ha una condizione, cioè deve almeno essere pensata, e
dunque dipende dall’io e si conclude nell’io. Qui vediamo la forte influenza di Spinoza, tornato alla ribalta grazie a una
critica di Jacobi, perché possiamo vedere tutto il resto come i modi spinoziani che dipendono sempre da qualcosa di
assolutamente incondizionato.

IL SECONDO PRINCIPIO DELLA DOTTRINA


Ma in tutta questa pretesa assolutezza dell’Io, è del tutto irrilevante la cosa in sé come qualcosa che non sia l’Io? Verrebbe da dire di
si, vista la decisa incondizionatezza dell’Io; ma le cose non stanno proprio così, perché qui interviene il secondo principio. Noi infatti
non possiamo negare che ci sia il non-io nella nostra coscienza empirica. E’ ovvio però che questo non-io dipende dall’Io.

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“§2: Secondo principio condizionato nel suo contenuto” Parte I, §2, Dottrina della Scienza

Qualunque verità è condizionata e dipende dall’Io, ma la nozione dell’opporre noi non riusciamo a dedurla dal porre del porsi dell’Io
del primo principio. Qui allora subentra una notazione importante:

“[…] poiché la forma dell’opporre è così poco compresa nella forma del porre, che le è anzi piuttosto opposta. L’atto d’opporre si
produce perciò senza alcuna condizione e assolutamente” Parte I, §2, Dottrina della Scienza

E’ così incondizionato e condizionato: è condizionato rispetto al contenuto, perché essi dipendono interamente dall’Io, ma quanto
alla sua forma è incondizionato perché non abbiamo la possibilità di dedurlo dal primo principio.

“E qui ancora un’osservazione importante, che da sola potrebbe ben bastare a porre la dottrina della scienza nel suo vero punto di
vista e renderne affatto chiara la peculiare teoria. Secondo la spiegazione ora dara, il principio della vita e della coscienza, il
fondamento della sua possibilità è bensì compreso nell’Io, ma per esso non sorge ancora una vita reale, una vita empirica nel
tempo; ed un’altra vita è per noi affatto impensabile. Affichè tale vita reale sia possibile, c’è bisogno ancora per questo di un urto
particolare sull’Io da parte di un non-io.” Parte III, §5, Dottrina della Scienza

Abbiamo bisogno di questo non-io, irriducibile all’Io e radicalmente opposto, che viene posto da Fichte come un primo motore al di
fuori dell’Io che condiziona urtando l’incondizionato.

“La dottrina della scienza è dunque realistica. Essa mostra che è assolutamente impossibile spiegare la coscienza delle nature finite
se non si ammette l’esistenza di una forza indipendente da esse, affatto opposta a loro. ” Parte III, §5, Dottrina della Scienza

“Tuttavia, malgrado il suo realismo, questa scienza non è trascendente, ma resta trascendentale nelle sue più intime profondità.
Essa spiega certo ogni coscienza con qualcosa, presente indipendentemente da ogni coscienza; ma anche in questa spiegazione non
dimentica di conformarsi alle sue proprie leggi; ed appena vi si riflette su, quel termine indipendente diventa di nuovo un prodotto
della sua propria facoltà di pensare, quindi qualcosa di dipendente dall’Io, in quanto deve esistere per l’Io (nel concetto dell’Io)”
Parte III, §5, Dottrina della Scienza

Il non-io deve essere indipendente per la sua funzione di urto rispetto all’Io, ma appena ci pensiamo diventa un pensato, quindi
dipendente. Questa è la contraddizione realistico-trascendetale che attraversa tutta la Dottrina, e Fichte ha intenzione di trovarvi
molte mediazioni: essa verrà profondamente mediata ma mai completamente risolta.

“La cosa in sé è qualcosa per l’Io e quindi nell’Io, ma che tuttavia non deve essere nell’Io: quindi qualcosa di contradditorio, ma
che tuttavia, come oggetto di un’idea necessaria, deve essere posta a base di tutto il nostro filosofare, e che in ogni tempo, soltanto
senza che si avesse chiara coscienza di essa e della contraddizione che vi si trova, è stata il fondamento di ogni filosofare e di tutte le
azioni dello spirito finito.”

La Dottrina della Scienza sarà una serie di mediazioni nel tentativo di risolvere questa contraddizione. Fichte riuscirà però attraverso
queste mediazioni dove Kant non era riuscito, cioè a dedurre compiutamente le categorie.

LE MEDIAZIONI DI FICHTE
La prima mediazione di questa contraddizione è il terzo principio, una via intermedia che consiste nel fatto che il non-io, quando
anche lo chiamo completamente irriducibile, l’ho pensato e diventa in questo modo ridotto momento dell’Io: “Io oppongo nell’Io
all’Io divisibile un non-io divisibile”. Qui la nozione di divisibilità non sta ad indicare altro che vi sono dei limiti tra i due, che si
limitano cioè l’un l’altro come due momenti dell’Io. Riesce in questo modo a mediare la contraddizione? A prezzo di rendere il non-
io riducibile, non riuscendo quindi a risolverla e neppure con le successive mediazioni, pur passando nella deduzione delle categorie
dai due soli principi.

Nella famosa Sintesi E della dottrina cercherà di togliere l’opposizione soggetto-oggetto tipica della teoria della conoscenza, cioè che
l’oggetto è un dato indipendente da me. Per Kant l’io non può produrre a piacere il dato, ma solo unificare questo materiale sensibile
indipendente. Fichte sostiene però che per quanto indipendente da me e per quanto mi voglia passivo rispetto a questi, appena lo
immagino esso è immediatamente dipendente da me. Il mio essere affetto da un non-io è attività dell’io, è l’io stesso a porsi come
determinato. Ma come avviene questo in concreto? Attraverso l’autolimitazione: la mia infinita produzione si autolimita, negando se
stessa, e quindi producendo altro da sé, e la mia stessa passività viene ad essere prodotto della mia attività.

“L’Io si pone come determinato dal non-io […] perciò quando l’Io pone in sé un quanto determinato di negazione, esso pone, nello
stesso tempo, un quanto determinato di realtà nel non-io e viceversa.” Parte II, §4 – Sintesi E, Dottrina della Scienza.

La negazione di me è produzione dell’oggetto, che nasce proprio da questa negazione di me stesso.

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“Questa reciprocità dell’io in sé e con se stesso, in cui esso si pone assieme come finito e infinito – reciprocità che consiste quasi in
una lotta con se stessa e che perciò riproduce se stessa, poiché l’io vuole unificare l’inconciliabile, e ora tenta di accogliere
l’infinito nella forma del finito, ora, respinto, pone di nuovo l’infinito fuori di quella forma e nello stesso momento tenta un’altra
colta di accoglierlo nella forma della finità – questa reciprocità è la facoltà dell’immaginazione” Parte II, §4 – Sintesi E, Dottrina
della Scienza.

Focale è allora questa immaginazione produttiva, quella che Kant trovava con gli schemi, come un punto di incontro tra la sensibilità
e le categorie, schemi che appunto chiama immagine.

“Il non-io è esso stesso un prodotto dell’Io che determina se stesso, e non è nulla di assoluto o posto fuori dall’io” Parte II, §4 –
Sintesi E, Dottrina della Scienza.

E tuttavia questa autolimitazione è possibile solo grazie all’urto originario. La cosa in sé è tolta come materiale che ci viene
dall’esterno, ma allo stesso tempo è necessario mantenerla per il bisogno dell’urto originario. L’Io è finito e infinito, finito per la
condizionatezza dall’urto ma infinito perché comprende sempre tutto ciò che può essere pensato. Il vero lascito della Dottrina
riguarderà la natura di continuo autosuperamento.

STORIA DELLA FILOSOFIA I – LEZIONE 15 – 08/03/13 – Lucio Cortella

SCHELLING E L’IDEALISMO TRASCENDENTALE


Un autore complesso, la filosofia di Schelling è una filosofia differenziata, ha un’evoluzione particolarmente marcata perché durante
la sua vita ha sostenuto diverse tesi. Si potrebbero dividere le sue fasi in una prima fondamentalmente fichtiana, una seconda nel
periodo di Jena con Hegel con cui collabora per la scrittura di un giornale, e poi l’ultima fase tarda, post-hegeliana per la sua aspra
critica, fase interessante per la filosofia contemporanea per lo snodo della presa di distanza dal pensiero idealistico.

Ci soffermeremo sulla seconda fase, con le opere Sistema dell’idealismo trascendentale e Esposizione del mio sistema filosofico,
entrambe prodotte agli albori del 1800. Già dal titolo della prima opera si capisce che siamo all’interno della proposta fichtiana:
secondo Schelling è una riproposizione del sistema fichtiano, tuttavia c’è qualcosa di rilevante e diverso. Nonostante questa
concordanza con Fichte, già si cerca di andare al di là di questo sistema. Si tratta di un idealismo trascendentale senza la cosa in sé,
che non è più necessaria per la costruzione del sistema: il molteplice per Fichte è un processo di autolimitazione dell’io, non un dato
ma una produzione, contro Kant. Nonostante che, però, il materiale sensibile fosse prodotto dall’io, era necessaria comunque un non-
io irriducibile, la cosa in sè, per due motivi: non posso dedurre l’opporre dal porre, e, conseguentemente, il non-io deve essere
assunto come principio indipendente dall’io almeno secondo la forma, in quanto per il contenuto almeno pensato lo penso io; Il
secondo è l’urto originario, che rende possibile la nascita dell’autocoscienza, consapevole di sé.

Se Schelling tenta di eliminare questa cosa in sé, deve eliminare entrambe queste ragioni: coerentizzerà l’idealismo trascendentale
fichtiano in senso compiutamente idealistico, superando quel realismo di fondo di Fichte. All’inizio però non si accorge di questa
correzione del sistema, di questa cattiva interpretazione.

1. L’oggettività è del tutto deducibile dalla soggettività, non è necessario un principio esterno. L’argomento è un argomento
fichtiano: l’originario è l’autocoscienza, in cui troviamo l’oggetto e il soggetto. Dire che l’io è autocoscienza vuol dire che
è allo stesso tempo soggetto conoscente e oggetto conosciuto.

“La prova generica dell’idealismo trascendentale è tratta solo dalla proposizione dedotta precedentemente: mediante
l’atto dell’autocoscienza, l’io diviene oggetto a se stesso.” Sezione seconda, Sistema dell’idealismo trascendentale.

“[Dobbiamo] trovare un punto, in cui l’oggetto e il suo concetto, l’oggetto e la sua rappresentazione siano
originariamente, semplicemente e senza alcuna mediazione, una cosa sola” Sezione prima

“8) Grazie a questa più precisa delimitazione, il problema è bell’e risolto. Quell’identità immediata di soggetto ed oggetto
lì solo può esistere, dove il rappresentato è anche a pari tempo il rappresentante, l’intuito è anche l’intuente. Ma questa
identità del rappresentato e del rappresentante esiste solo nell’autocoscienza; ecco perciò trovato nell’autocoscienza il
punto richiesto.” Sezione prima

2. Eliminazione dell’urto originario. Come sorge l’autocoscienza? In parte da quello che abbiamo trovato in questo primo
punto troviamo le risorse per superare questo problema. Per la nascita dell’autocoscienza basta un’autolimitazione del
soggetto, basta che l’infinita attività dell’io diventi finita. Questa prova si trova sui 4 passaggi che trovate a pagina 193 e
194 della dispensa, in che modo cioè accade che il soggetto ponga l’oggetto dentro di sé senza bisogno di un principio
esterno. Il processo di autolimitazione, quell’immaginazione produttiva nella famosa sintesi E di Fichte che produceva
l’oggettività delle rappresentazioni, per Schelling non genera solo l’oggettività del rappresentato ma anche il sorgere
dell’autocoscienza.

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“c) Che quest’attività originariamente infinita (questa sostanza di ogni realtà) diventi oggetto per se stessa, e perciò finita
e limitata, è condizione dell’autocoscienza. Il problema è: come questa condizione sia pensabile. L’io è originariamente
puro produrre che si estende all’infinito, e mercè cui non diverrebbe mai un prodotto. Adunque l’io, per nascere a se stesso
(per essere, non solo producente, ma anche prodotto, come nell’autocoscienza), deve porre dei limiti al suo produrre.”
Sezione seconda

L’autolimitazione genere l’autocoscienza, porre dei limiti vuol dire che nasce un oggetto per me, dunque ciò che è opposto
all’io è perfettamente deducibile dall’io, deducendo l’opporre dal porre riuscendo dove Fichte credeva di non riuscire.
Immaginate questa infinita attività di produzione, e quando l’io si contrae genera l’autocoscienza, che è strettamente legata
alla finitezza, tema decisivo che troveremo in Hegel. Se c’è pura infinitezza non c’è autocoscienza, e tutta l’oggettività è
quindi deducibile dall’io come appunto una sua contrazione, autolimitazione.

“[…] che anzi l’esistenza di quella costrizione deve essere dedotta dalla medesima natura dell’io; ben più, la questione
intorno al fondamento di quella costrizione presuppone un’attività originariamente libera, che è una cosa sola con quella
legata, e così è. La libertà è l’unico principio al quale si è riportata ogni cosa; e noi vediamo nel mondo oggettivo, non già
un esistente fuori di noi, ma solamente la limitazione interna della nostra propria attività libera. L’essere in generale è
solo espressione di una libertà impedita.” Sezione seconda

Tutte le cose non sono che conseguenza della libertà, e questa è la tesi capitale dell’idealismo. Per Kant l’io penso non
aveva nulla a che fare con la libertà, che era fulcro della critica alla ragion pratica.

Schelling qui coerentizza Fichte, ma la cosa interessante è che nonostante questa sua fedeltà al sistema fichtiano comincia a mettere
in discussione alcune parti dell’idealismo. Ribadisce che l’io è il principio di tutto, la base, tuttavia per Schelling questo io, questo
principio, è unità di soggetto e oggetto.

“Nello stesso fatto di sapere –in quanto io so- l’oggettivo e il soggettivo sono così uniti, che non si può dire a quali dei due tocchi la
priorità” Introduzione §1, Sistema dell’idealismo trascendentale.

Qui l’insistenza è esattamente sull’assoluta e immediata unità di soggetto e oggetto, ma è chiaro che se l’originario è unità immediata
avremo difficoltà ad intendere questo originario come soggetto. Possiamo ancora intenderlo così? E’ un nodo problematico. Schelling
avverte che questo io originario, nel mentre produce l’oggettività del mondo, non può nell’atto essere cosciente, difatti nessuno di noi
è cosciente di produrre degli oggetti, anzi quando siamo coscienti siamo coscienti di essere determinati dagli oggetto. E’ un io
prodotto inconscio, allora, non consapevole, e infatti Schelling parla di attività pienamente cieca. Però allora quando produce non
può essere autocoscienza. E’ un singolare paradosso: quando l’oggetto e il soggetto sono indistinti, l’autocoscienza non è ancora
sorta. Quando invece sono distinti, abbiamo l’autocoscienza ma non quell’originario che unisce immediatamente tanto che non
possiamo dire a quale dei due appartenga la priorità. Schelling si rende conto che l’originario non può più essere inteso
fichtianamente come un io, proprio a cavallo tra le due opere. Il problema sarà quello di trovare allora questo concetto di unità, che
verrà trattato nell’opera successiva, uscita insieme alla differenza tra le filosofie di Schelling e Fichte edita da Hegel.

SCHELLING E L’ ”ESPOSIZIONE DEL MIO SISTEMA FILOSOFICO”


Siamo nel 1801, l’opera è molto breve. Qui abbiamo la risposta a quel problema che già era stato evocato attraverso l’analisi delle
strutture di fondo: come dobbiamo intendere l’originario? Lo dobbiamo intendere come indifferenza totale di oggettivo e soggettivo,
nessuna differenza tra i due, qualcosa che non si può più definire come soggetto. L’idea di Schelling, maturata dalle tesi fichtiane, è
insomma che l’Assoluto è qualcosa in cui l’oggetto e il soggetto sono assolutamente identici, nessuna opposizione né differenza che
sono appunto segno di differenza e di limite. Questa identità originaria, precede tutte le differenze e tutte le contiene come indistinte.
Questo Assoluto non può neppure essere distinto dal sapere che lo conosce, perché altrimenti avremmo nuovamente la separazione.
Il sapere dell’oggetto è indistinto dall’oggetto stesso. Questo assoluto è chiamato da Schelling la Ragione: è la ragione che sa
quest’oggetto ed è la ragione che è oggetto del sapere.

“§1. SPIEGAZIONE. Chiamo ragione la ragione assoluta, o la ragione in quanto è pensata come indifferenza totale del soggettivo
dall’oggettivo.” §1, Esposizione del mio sistema filosofico

Questa Ragione, o assoluta indifferenza, è totalità: all’infuori della ragione non vi è nulla, perché raccoglie tutto il soggettivo e tutto
l’oggettivo.

“§3. La ragione è semplicemente una [unità], e semplicemente uguale a se stessa”

“§4. La suprema legge per l’essere della ragione, e, giacchè nulla è fuorchè la ragione, per tutto l’essere (in quanto è compreso
nella ragione), è la legge dell’identità”

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“§10. L’identità assoluta è senz’altro infinita”

“12. Tutto ciò che è, è l’identità assoluta stessa”

L’esposizione ricorda quella spinoziana, per l’importante riscoperta di questo filosofo. Qui la ragione è intesa come il regno della
verità, inversamente da Kant per cui era il regno della parvenza. E’ significativo che Schelling usi la nozione kantiana di ragione per
introdurre il regno della verità, è un capovolgimento di Kant. E’ poi evidente, terza osservazione, che essendo la ragione questa
identità assoluta, essa non può contenere al suo interno mediazioni né dimostrazioni, e non può in alcun modo essere dimostrato,
perché altrimenti dovremmo introdurre limitazioni, passaggi e distinzioni nell’Assoluto, che può quindi solo essere intuito. Siamo
fuori dal ragionamento…

Dove stanno le differenze allora? Non possono stare dentro la Ragione, perché altrimenti non sarebbe più identità assoluta, ma non
possono nemmeno starne fuori, perché fuori dalla ragione non c’è niente!

“§25. Riguardo all’identità assoluta non è immaginabile alcuna differenza quantitativa. […] La differenza quantitativa è possibile
solo all’infuori dell’identità assoluta.”

Abbiamo in un certo senso il problema del finito. Perciò le differenze, quindi il finito, non sono imputabili alla ragione, ma bensì un
prodotto della riflessione, inteso come intelletto, che genera appunto questa finitezza che spacca l’identità, regno della parvenza. Qui
Schelling sta elaborando il materiale concettuale che poi utilizzerà Hegel.

“§28. Non c’è nessun singolo essere o una cosa singola in sé. Poiché il solo in sé è l’identità assoluta […] Annotazione. Nulla “è”
neppure in sé all’infuori della totalità, e se qualcosa si scorge fuori della totalità, questo è solo in virtù d’una separazione arbitraria
del singolo dal tutto, che è prodotta dalla riflessione, ma che non avviene affatto in sé, giacchè tutto ciò che “è” è uno, ed è nella
totalità l’identità assoluta stessa.”

Dunque è parvenza. I termini usati da Schelling sono quelli di Spinoza, qui l’idealismo trascendentale si è perfettamente trasformato
in uno spinozismo: l’unica sostituzione è la sostituzione della sostanza spinoziana con l’assoluto, e a differenza dei due attributo
spinoziani di pensiero ed estensione qui abbiamo soggetto ed oggetto, che però qui sono identici e assolutamente indistinti. Lo
scontro con Hegel sarà prossimo, la verità di Schelling non è nel giorno, in cui distinguiamo, ma la notte, l’unità indistinta di tutto,
che verrà ripresa dal romanticismo tedesco nei suoi racconti. Ritorna anche qui però lo stesso identico problema di Spinoza, cioè il
problema dei modi finiti che dovrebbero essere infiniti, e del come dedurli; e poi dalla sostanza eterna deriva l’esterno, ma come mai
riusciamo a trovare le cose contingenti? Qui il contesto è molto diverso, non è più il contesto ontologico spinoziano, ma idealistico.
Qui il punto focale è la libertà, l’incondizionatezza e l’autonomia, il dipendere solo da se stesso secondo la dottrina della libertà di
Kant, per gli idealisti è l’assoluto, solo l’assoluto è assolutamente libero. Ma se l’assoluto è libero secondo Schelling, non posso
ammettere un assoluto libero che sia inconscio: come può l’inconsapevole essere libero? Perché ci sia libertà ci deve essere perfetta
autotrasparenza, se non c’è questa assoluta visione di me attraverso me stesso non sono libero. Ma appunto questa autocoscienza è
solo finità, non c’è autocoscienza dell’infinità, e quindi la libertà pretende la rottura della libertà originaria, perché solo dallo
spezzarsi dell’indistinto si genere l’autocoscienza.

Che cosa rimane? Che io devo comunque riuscire a dedurre dall’indistinzione la differenza, cioè è necessario che dall’indistinzione
nasca l’indifferenza altrimenti la libertà non può diventare consapevole di se e autonomo, ma detto questo non ho fatto una
deduzione: se io ho solo l’indistinzione e l’identità e non c’è nulla fuori di questo, come posso dedurre da questo una libertà
differente e consapevole? Potrei ammetterlo se nell’assoluto le differenze fossero presenti internamente, ma Schelling lo nega. Il
mondo resta indeducibile. Il tardo Schelling dice che il mondo è un fatto, non vi è alcun fondamento, è indeducibile, scenario
completamente diverso da quello di cui qui ci siamo occupati. Resta comunque l’obiezione decisiva: se l’assoluto è assoluta
indistinzione, le differenze limiteranno l’assoluto, contraddicendo.

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