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1/2/3 marzo

Corso di Estetica: la questione del Bello

L’obiettivo è mostrare come, a partire da un tema, un pensiero diverso possa dare


un contraccolpo (nello specifico, il pensiero sino-giapponese). Si tratta di un
esercizio filosofico retroattivo che, almeno fino alla tardamodernità, non si è reso
conto delle fondazioni implicite di diversi presupposti impliciti (la stessa cosa vale per
le nozioni di Verità, per esempio). La parte generale sarà un’introduzione all’Estetica:
definizione, se è una disciplina filosofica… per poi passare alla monografia: da
Platone al pensiero sinogiapponese.

Citazione che non c’entra con il tema del corso, ma con la modalità, il tempo che
stiamo vivendo, da Saggi e discorsi di Heidegger - incipit:
“Tutte le distanze nel tempo e nello spazio si accorciano…”
https://monoskop.org/images/6/63/Heidegger_Martin_1976_La_cosa.pdf
Considerazione su vicinanza e lontananza

Sviluppo dei testi:


libro introduttivo di Fabrizio Desideri; si passa poi all’Ippia maggiore e al Simposio di
Platone. Non sarà compreso Plotino nella disamina, a differenza di ciò che è scritto
nel Syllabus. I testi platonici danno il là al discorso occidentale sul Bello (sarebbe
stato altrettanto valido partire dal tema del corpo o della sensibilità). Il confronto con
altre filosofie servirà a valorizzarne l’originalità e al tempo stesso indicarne la
non-universalità. Per esempio, nella filosofia sinogiapponese non vi è la domanda
“Che cos’è il Bello?”, che dipende, tra l’altro, dalla struttura della lingua.

Discorso sui tre stadi dell’apprendimento:


ascolto e assimilazione, rottura e rilascio, con traduzione secondo ideogrammi
giapponesi
(Shu, Ha, Ri, secondo Kanji: 守 破 離)

Introduzione al termine Estetico

Aggettivo sostantivato che deriva dal greco aisthesis (percezione, sensazione, che
non sono la stessa cosa). La sensazione è l’atto irriflesso, reazione di un corpo allo
stimolo; percezione è reazione immediata a uno stimolo sensoriale più la
consapevolezza della percezione stessa. Aesthesis copre l’aspetto semantico.
Aestetic è l’aggettivo che non si ritrova in greco: l’Estetica come disciplina è
un’invenzione recente (metà del Settecento); Platone comunque tocca dei temi legati
all’Estetica, che trova una prima sistemazione in Aristotele, il quale comunque non
parla di Estetica, ma distingue tra Filosofia e ProtoFilosofia (analogo a Teologia). Il
termine nasce con Baumgartner e il suo primo trattato intitolato Aestetica, definita
gnoseologia inférior perché meno potente della gnoseologia in senso stretto, che
riguarda la conoscenza oltre, e legata ai sensi, che sono fallaci.

Prima ancora di arrivare alla storia dell’Estetica: cosa vuol dire occuparsi di Estetica,
indipendentemente dalla storia? L’Estetica è la Filosofia che prende sul serio il fatto
che siamo corpi, cosa accade al pensiero quando cerchiamo la Verità prendendo sul
serio le sensazioni. La modernità inizia a comprendere anche il corpo e le sue
sensazioni nel discorso che arriva, o si associa, al trascendentale. L’Estetica ha a
che fare con l’esperire in quanto corpo.

Domanda: se sullo sfondo di questo corso sussiste l’ipotesi di Sapir-Whorf


I quali nella prima metà del Novecento elaborano una tesi per la quale il linguaggio
plasma o determina il mondo in cui viviamo. Non vi sarebbe uno strato bruto di realtà
su cui poi si innesta la lingua naturale, bensì la realtà è tale per cui il linguaggio
contribuisce alla visione del mondo in un certo modo. L’ipotesi forte attribuisce
pratiche e vita sociale alla struttura linguistica nel quale si è nati e che si pratica,
sostenendo quindi l’incommensurabilità dei linguaggi. Questo sicuramente influisce
sulla lingua usata per scrivere determinati testi, sulla forza e il significato di dati
termini. Curiosità: l’alfabeto potrebbe avere delle origini pittografiche che rimandano
a delle immagini: A per una testa di bue rovesciata, Beta per una donna incinta di
profilo, C per l’utero o la caverna.

Discorso sulla potenza di un linguaggio, sulla forza occidentale e sulle differenze


linguistiche con altre culture. Si sottolinea l’importanza del pensiero sull’Essere
dell’Occidente, che ha determinato la base della scienza e della tecnica, le cui
questioni fondamentali riposano sulla definizioni di essenze (forza, velocità…), che
ha sfondato il mondo contemporaneo imponendo la sua visione, ma che non
riguarda la Verità: la Verità si vede da altre prospettive, come in un cubo del quale si
possono vedere solo 3 facce simultaneamente ma altre 3 rimangono nascoste.

La scrittura scinde materia e anima: indica il materico ma rimanda a qualcosa di


invisibile. La coniugazione dei tempi verbali, prettamente occidentale, non si applica
al cinese, che non ha elaborato una Filosofia del tempo: indizio del rapporto tra
lingue e pensiero molto stretto. Quando parliamo di Estetica non possiamo
prescindere dalla dimensione linguistica. L’interpretazione, l’Ermeneutica di un
soggetto (almeno secondo il prof) si esprime sulla base di una Fenomenicità, la
quale è immediatamente espressa - e appunto interpretata - dal soggetto che
esperisce. Si tratta di un “circolo estetico” dove Fenomeno e Interpretazione si
equiparano e ricircolano: la parola si costruisce dalla sensazione, così come il
bambino “nomina” ma-ma-ma-ma fino a “mamma”. La forza della parola è evocare
ciò che è assente (rimando al ‘gioco del rocchetto’ freudiano).

Il circolo estetico tra Fenomenicità ed Ermeneutica è un Implesso: non vi è aggiunta


(come nel complesso) ma una coesistenza tra fenomeno e interpretazione. Questo
significa studiare l’Estetica - cerca la citazione del maestro Dogen sulla parola e il
pensiero - «Che peccato che essi non sanno che il pensiero è “parole e frasi”, che
non sanno che “parole e frasi” liberano il pensiero.»

Di base, il pensiero ‘orientale’ non ha come fondamento la staticità (dell’Essere) ma


il processo, la relazionalità, il movimento. La processualità nel processo cinese non
ha la visione occidentale di essere e divenire. L’unica stabilità è l’instabilità, la
continua trasformazione, simboleggiato per esempio dal Tao (Tai-Ji-Du 太极图) dove
il Tao non si vede nel simbolo: è il movimento del simbolo stesso.

Per lo stesso motivo (e per la mancanza di un verbo essere) gli orientali non hanno
la stessa nostra ossessione per la definizione, che tende a fissare qualcosa (‘Che
cos’è’); non avendo questa necessità di definizione, gli orientali propendono per
l’instradarsi, il prendere un passo nel movimento. Un movimento armonico e
incentrato sul sé, e che non tende come l’Occidente alla separazione tra me e l’altro
e la conseguente necessità di ‘gettare ponti’; gli orientali sono inclusivi per
predisposizione e pensiero.

Domanda: rapporto asimmetrico tra Occidente e Oriente


l’alterità si muove tra due poli opposti: etnocentrismo ed esotismo. Dall’Oriente vi è
stato uno sforzo maggiore di acquisizione delle filosofie occidentali, mentre da parte
nostra si è tentato di aggiungere e di togliere.

Suggerimenti di testo: E. Magno, Pensare l’India

Pensatori occidentali come Hegel o Schleiermacher ritenevano Cina e India come


all’origine del pensiero (mentre non era altrettanto per l’Africa, per esempio). Lo
strapotere economico occidentale porta nell’Ottocento le aree orientali a chiedersi da
dove deriva questo potere, mettendo in relazione filosofia e potenza economica.
Capiscono che la visione del mondo può essere determinante per piegare la Natura
e la Realtà, tanto da porsi il dilemma della conversione al Cristianesimo (si veda
l’esempio del rapporto con l’ecosistema dal punto di vista della Genesi, se l’uomo sia
padrone del giardino o custode, parte di un ingranaggio).

Suggerimenti di testo: L’idea di Natura tra Oriente e Occidente

I pensatori cinesi e giapponesi, tra gli anni Settanta e Ottanta, traducono e coniano
800 nuovi termini; in Giappone non esistevano termini come Scienza, Filosofia (哲学
Tetsugaku, Zhe xue) che non si tratta di una traduzione letterale, scompare la
dimensione dell’amore e del desiderio (filo). In Oriente dimensione filosofica e
religiosa si intrecciano, mentre in Occidente si distinguono (dal Medioevo in poi
almeno, quando alla fondazione della Sorbonne Filosofia e Teologia si
equiparavano).

Gli asiatici “imparano a camminare su due gambe”, tradizionale e occidentale. Noi


occidentali abbiamo mescolato, come una sorta di soluzione; si potrebbe dire che
dalla Cina potremmo imparare a togliere delle sovrastrutture metafisiche. Ciò non
significa prendere un pezzo o scartarne un altro. Si tratta di attingere, in tedesco
schopfen (sostantivato schopfung) che significa sia creare artisticamente che
attingere dal pozzo. È una distinzione che ritroviamo in Deleuze nella distinzione tra
Filosofia (creazione di concetti), Scienza (creare funzioni) e Arte (creare percetti).
Non è mai un processo ex-novo ma c’è un continuo attingere.
Chi visse una profonda interculturalità fu Raimon Panikkar, figlio di indiano e
catalana, filosofo e presbitero della diocesi di Varanasi che propugnò in vita la
relazione tra diverse culture. Altro pensatore è Francois Jullien, sinologo che
sviluppò la sua idea nell’alterità tra Europa e Cina. Esempi multiculturali orientali
furono Mou Zongsan e Nishida Kitarò.

Suggerimenti di testo: Serge Latouche, L’occidentalizzazione del mondo

È stato l’Occidente a globalizzarsi nel mondo a causa della sua espansione. È


plausibile pensare che l’espansione occidentale sia terminata e ora sia di nuovo il
turno dell’Oriente di portarsi nel mondo. Vi è un carattere cinese che si può tradurre
con sincerità, caratteristica che l’Occidente ha portato in pompa magna nel mondo;
l’Oriente preferisce alla sincerità l’affidabilità: non dire ciò che si pensa ma fare ciò
che si dice. L’affidabilità fonda l’armonia e la fiducia con l’altro e permette la durata
dei rapporti.

Notare che l’Occidente ha “snobbato” la dimensione concettuale dell’Oriente per


importare le discipline del corpo e della mente: per esempio le arti marziali. Questo
ha portato a una consapevole integrazione tra mente e corpo, mentre l’Occidente ha
distinto mens sana in corpore sano. La separazione di mente e corpo ne ha fatto
cadere le pratiche fisiche; nell’antichità filosofia e spiritualità promettevano la
salvezza, ovvero un dare senso alla vita, previa askesis di sé, trasformazione etica,
esercizio dell’essere. Secondo Foucault (Ermeneutica del soggetto), nel periodo
cartesiano si inizia a concepire che la trasformazione etica non è più necessaria per
il perseguimento della Verità. La Filosofia è nata per risolvere l’angoscia del senso
ricorrendo alla Ragione (e non alla fede o al mito). L’intuizione forse più grande di
Socrate e Platone fu il mantenimento vitale della Domanda: non una ricerca delle
risposte ma una continua ricerca: imparare a domandare.

Domanda sul tema della percezione-sensazione dalle Ricerche filosofiche di


Wittgenstein sulla parola dolore.
In Wittgenstein la parola dolore è già cumsustanziale all’esperienza in sé. Il circolo
estetico riprende questa concezione di relazione equiparata di fenomeno e
interpretazione logico-razionale. Le nostre esperienze sono allenate per anni a
vedere cose non per come sono ma per il significato che io e la comunità hanno
attribuito a quella data cosa.

Domanda:
il pensiero orientale non è monista o a-duale; alcune lo sono. Non c’è una netta e
distinta separazione. In analogia con Spinoza, materia e spirito sono due modi
diversi di esprimere la vita. Lo stesso Chi si concentra e diventa corpo, si rarefà e
diventa spirito. La sostanza è unica, i modi diversi. Altra cosa è la questione tra cose
e nomi: non esistono cose se non c’è una indicazione della cosa, che altrimenti
rimane un oggetto del mondo.

9/10 marzo

Che cos’è l’Estetica?

La nozione di Estetica, per Heidegger, aveva un senso molto limitato (per esempio).
Prima di arrivare ad alcune tappe fondamentali del percorso estetico, se si dovesse
suggerire una riflessione in merito ci porterebbe all’Estetica come area filosofica che
si interroga su cosa succede al pensiero quando comprendiamo la corporeità, nel
senso di avere un corpo ed essere un corpo. L’Estetica prende sul serio il fatto che
non siamo spiriti ma esseri incarnati.

Una Filosofia che non prende sul serio il reale lo mistifica. L’Estetica invece
considera la conoscenza reale quanto intellettuale passando per la sensorialità e la
percezione; è la Filosofia teoretica che tiene costantemente presente che facciamo
Filosofia perché abbiamo un corpo.
Il termine Estetica (Aesthetica, dal gr. Aesthesis, aggettivo Aesthetiké non
sostantivato) viene concepito oltre il Medioevo: ciononostante i predecessori di tale
periodo hanno trattato il Bello. Il termine nominale viene creato nel 1750 dal filosofo
tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten, che la definisce come gnoseologia inferior,
quindi più bassa perché meno importante della conoscenza pura, logica e teoretica,
e perché basilare, incentrata sui sensi e quindi più imprecisa; l’unica episteme
stabile era definita dalle questioni eterne. Tutto ciò che è legato alla percezione e ai
sensi dovrebbe restare ai margini della conoscenza filosofica perché non-vera.

Baumgarten inizia a riabilitare la conoscenza sensibile, imprecisa ma quantomeno


fondamentale. I temi fondamentali che riguardano l’Estetica sono l’Immaginazione
(nel senso di produzione di Immagini), il Gusto, il Sentimento, la Fantasia ecc. Il
Romanticismo sarà la prima corrente che farà chiaro riferimento alle tematiche
estetiche. L’Estetica inizia a re-includere ciò che la Filosofia (pura) aveva escluso e
relegato a poeti e letterati. Ancora c’è chi distingue ciò che è prettamente filosofico e
ciò che è artistico e non pensabile in termini filosofici.

L’Estetica è continuo porsi il dilemma di quale sia il confine tra il suo campo di
pensiero e quello di altre discipline. L’Arte per l’Estetica è un tema privilegiato: l’Arte
è un luogo esemplare (nel senso che fornisce esempi) di realizzazione in cui le
conoscenze estetiche e logiche si esibiscono in maniere particolarmente manifeste,
dove vi è una interpretazione della percezione della realtà. Arte pone una diversa
distanza e visione rispetto alla realtà.
Gran parte della produzione artistica viene inglobata in una dinamica economica
dell’Arte: studiare l’Estetica oggi ha senso nell’elaborazione di una capacità critica
più raffinata rispetto a questo flusso continuo di arte “industriale”, a fronte di una
“facilitazione” dell’assimilazione artistica. Si tratta di essere consapevoli delle scelte
che vengono fatte nella fruizione dell’arte a fronte di un’architettura proveniente
dall’esterno (i suggerimenti dei vari software).
Questo meccanismo è stato definito “individualizzazione di massa”, in quanto vi è
una mercificazione dell’individualità per i quali si producono dei singoli individui
identici tra loro. Ciò si ricollega al Gusto, alla capacità di ricezione e di giudizio delle
forme d’arte già trattato nel Settecento. Ad oggi si transita dal Gusto al Consumo,
dall’esercizio critico al consumismo, il quale tocca l’esteticità diffusa che tocca la
nostra sensibilità. L’Arte, in duplice accezione passivo-riflessiva, si consuma.

L’Estetica permette di entrare in un ambito etico: l’esercizio del Gusto è un esercizio


di trasformazione del sé. Richiede cura e responsabilità attraverso un esercizio
critico nello stare presso le cose. È un ambito relazionale di interazione nella
comunità, è un’apertura all’alterità che permette di oltrepassare la propria
soggettività. Lo sguardo è in continua trasformazione (così come gli altri sensi);
parlando di Estetica in questi termini le permette di uscire come disciplina rispetto ad
altre: tutto concorre e questo le permette di considerarsi Filosofia.
Diversi filosofi la definiscono con termini a loro peculiari. Kant nelle Critiche parla di
Estetica trascendentale come Scienza delle condizioni di possibilità della
conoscenza; pochi anni dopo Hegel dirà “Estetica significa Filosofia dell’Arte”, cosa
che Kant non contempla. L’Estetica si dice in molti modi, ‘come diceva Aristotele
dell’Essere, legetai pollakos’. È la percezione artistica che avvia, nel momento in cui
la si ha, una produzione immaginifica-sentimentale, un lavoro del pensiero che
divaga e riporta a ricordi.

Le principali accezione del termine Estetica da Baumgarten in poi:


- teoria della percezione e della sensazione (che si intreccia, al giorno d’oggi,
con studi e valutazioni empiriche, e quindi scientifiche - biologia, neurologia)
- dal Romanticismo: Filosofia dell’arte, sia dal punto di vista della produzione
che della ricezione. Manifestazione del trascendente, momento dello spirito
Assoluto
- teoria della bellezza
- filosofia dell’esperienza
- (ermeneutica delle forme)
- dalla seconda metà del Novecento, nell’analismo anglosassone, c’è stato un
tentativo di ridefinizione
Arte è una pratica prettamente umana che ha visto una sua evoluzione nella storia
dell’uomo: nel mondo greco il termine techne non ha la stessa accezione dell’ars
latina. La tecnica è la capacità di produrre oggetti secondo determinate regole, dove
si distingue ciò che rimane esterno al soggetto (produzione, poiesis) distinta dalla
pratica, interna a un soggetto (pratica, praxis).
È nel Settecento che inizia ad esserci un’idea di arte per come la concepiamo noi,
tra Inghilterra e Francia (le Fine arts e le Beaux arts); già nel Cinquecento si iniziava
a distinguere l’artigianato dall’arte, dal fare produttivo alla creazione in quanto
concretizzazione di uno spirito superiore nell’arte, nella generazione dell’arte (a ciò si
ricollega il tema di genere, delle relegazione delle donne a una subordinazione
maschile perché già generatrici di vita, e quindi esentate e vietate alla generazione
di arte).

Dal sanscrito: la radice rta significa fare ordine. Da qui al latino ars e ritus, che hanno
quindi la stessa radice e vogliono entrambe portare un ordine.
Dal giapponese: il termine gei ricorda nel suo ideogramma lo spuntare di una pianta.
L’artista non produce arte nella sua volontà, bensì è un tramite per il quale germina il
nuovo

Approfondimento di testo: W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee

N.b. la distinzione che applica Platone al Bello distinto dall’Arte, la quale può essere
anche mimetica, quindi una riproduzione fittizia della realtà e quindi ingannatoria.

Dalla distinzione sino-giapponese: yishi e gei jutsu diversificano tra la germinazione


dell’arte e quella che è propriamente techne, ovvero il fare tecnico. A ciò si aggiunge
in giapponese l’ideogramma do (in cinese tao) che indicano la “Via”, la processualità
del cosmo, l’accadere delle cose nel mondo. Non c’è corrente se non vi sono onde,
moti, l’alveo e gli argini di un fiume. Il Tao è l’accadere in moto, non indica la staticità
dell’essere delle cose. Non è nemmeno un principio o arché. Tao significa sia il
processo che l’andare, il sostantivo quanto il verbo. In giapponese do indica la via, la
pratica che ciascuno intraprende per imparare a essere la propria via; nell’ambito del
geijutsu si rimane nel campo del manierismo artistico, l’artificialità della cosa fatta ad
arte in contrapposizione (o imitazione) a quello che è per natura, che in ideogrammi
si esprime con zi ran - shi zen, letteralmente “ciò che si dà da sé”. Natura invece,
dalla physis greca, indicherebbe “ciò che sta per nascere”.

Testo: Zeami https://it.wikipedia.org/wiki/Zeami grande drammaturgo giapponese


(1363-1443) fondatore del teatro No.
Sosteneva in campo attoriale che il grande attore, l’anziano, ha imparato a essere
naturale, mentre il bambino è grezzo, non è naturale; nello specifico, si impara a fare
qualcosa come se fosse naturale.
Domanda: il rapporto tra identità soggettiva che si impone sulla materia (occidentale)
e la distensione orientale, capacità meditativa di calma e ricettività, del lasciarsi
attraversare dal soffio, dall’atmosfera. Nel mondo sino giapponese si inizia a fare
Arte quando ci si libera dell’Io (Mu ga, non-Io, in giapponese Shin no jiko, il sé
autentico e non psicologico) e si procede in sintonia e armonia con la natura. La
grande tradizione sino giapponese dice che l’Arte inizia a scaturire davvero quando
l’Io psicologico lascia accadere qualcosa che non è più volontario al soggetto. Non si
tratta più di individualità (in-divisibile) ma di lasciarsi invadere da energie e influssi
del mondo: c’è una componente empatica fondamentale dove l’Io lascia il posto a
qualcosa di più grande. Si passa dall’idea di essere un’onda congelata nell’oceano a
onda parte di un oceano: nessuna onda esaurisce l’oceano e tutte concorrono allo
stesso. Questo si avvicina alla filosofia di Spinoza e al suo Panenteismo, ‘il divino in
tutte le cose e oltre’.

Consigli di lettura: Eugen Herrigel, Lo zen e il tiro con l’arco

L’idea di Arte non può essere definita in modo univoco anche se tanti hanno tentato.
Arte è riproduzione di cose, o costruzione di forme, o espressione di esperienze per
cui l’effetto sia di meravigliare, scuotere, commuovere.
Questa è una buona definizione che lascia fuori una cosa importante: il pensiero e la
conoscenza. Riguarda quindi la sola sfera emotiva o si può correlare al campo
“scientifico”.

16/17/18 marzo

“Arte è tutto ciò che gli esseri umani hanno chiamato Arte”
Una definizione vuota e senza senso, che però definisce ciò che non si può
circoscrivere dell’arte. La definizione è di Dino Formaggio, professore dell’Università
di Padova e Milano. Ciò permette di comprendere non solo ciò che viene costruito
secondo una forma, ma anche una sua ridefinizione, per esempio prendendo un
oggetto comune e guardandolo da un diverso punto di vista (Marcel Duchamp e il
pisciatoio). Ciò si accompagna alla definizione già data relativa all’aumento di
conoscenza, non misurabile e comunque incrementabile, alle scosse emozionali,
alla riproduzione di esperienze.

La definizione di Formaggio è prettamente nominalistica, non ha un’analisi interna


costruita su altri termini ma si fa contenitore nel quale riempire la corrente o l’epoca
storica artistica, così come diceva Nietzsche - “si può definire solo ciò che non ha
storia” - per identificare qualcosa di sovra-strutturale e sfuggire da un esistenzialismo
a-storico.

Arthur Danto, La trasfigurazione del banale: fu un filosofo americano che si occupò


del concettualismo artistico e della trasformazione del significato da ordinario ad
artistico. Ci sono delle considerazioni da fare su ciò che può essere dozzinale e
scarso e ciò che viene assunto a sacro, vera arte: ciononostante si tratta sempre di
arte in quanto vi è una ridefinizione delle forme, un’imitazione. Il terreno dell’Arte si
sfrange, è un’area fluida.
Altro esempio: Andres Serrano, nel Messico degli anni Ottanta, il quale aveva
immerso dei crocifissi nell’urina, per dimostrare come era ridotta la religione cristiana
e al tempo stesso dimostrare che la cristianità non aveva paura di sporcarsi. Vi fu
una polemica per stabilire se potesse essere definita un’opera d’arte o meno.

L’Arte ha la prima “scissione” nel Cinquecento quando si distingue l’ars dalla techné
e si assume una serie di regole per concepire e produrre l’opera d’arte. Si inizia a
concepire e sviluppare un’Arte che risponda a un canone di bellezza. Questo si
dipana fino al Novecento, dove le opere abbandonano il canone della bellezza per
orientarsi verso la scossa emotiva, concependo anche il brutto come Arte.
La Forma di un corpo che si mette in scena può essere l’estrema propaggine di un
lungo esercizio: la Forma quindi è determinante per un’opera.

Ancora Tatarkiewicz definisce l’Arte in merito a un sentimento del piacere che non
necessita di possedere l’oggetto-opera d’arte. Si può per esempio apprezzare la
Nona di Beethoven senza voler possedere la partitura originale; è quindi un piacere
disinteressato. Al tempo stesso non è solo il piacere l’origine dell’esperienza
artistica: c’è anche una esigenza di voler fissare determinate esperienze, per
esempio scrivendo, prosa o poesia, per ritrovare una realtà interiore che può
prescindere dall’immagine di un pubblico. Si dà conto di un’esperienza
sovrasoggettiva che possa riguardare un soggetto (che si pone oltre) o un
avvenimento particolarmente importante per una comunità. Molto spesso soggettivo
e sovrasoggettivo si fondono insieme: il soggetto è particolarmente toccato da un
sentimento e lo eleva a universale. Solitamente ciò distingue un grande artista dal
resto.

L’Arte oggi è un concetto allo stato gassoso: sempre di più sembra difficile definirla.
Il Novecento ha reso difficile definire i confini di arte e autore, di museo. Siamo in
un’epoca in cui il mercato dell’Arte è uscito dalla logica museale e sembra si possa
esporre ovunque; al tempo stesso è aumentata esponenzialmente la popolazione
che vuole e vorrebbe vivere di Arte. Probabilmente non è neanche più possibile
scrivere Arte con la A maiuscola. Siamo abituati a pensare al grande artista come a
un emarginato della società che riesce a cogliere delle linee di forza e ne manifesta
la verità immanente e universale. Oggi non è più così: alla visione sacrale della
trascendenza e dello spirituale vi è una dimensione più popolare, comune e
commerciale, dove gli artisti sono incarnati nelle logiche di mercato. La visione
romantica dell’artista libero si è disciolta negli ultimi cinquanta/sessant’anni
all’interno della società.

Arriviamo quindi al terzo significato dell’Estetica: teoria della Bellezza.


Molti sono orientati su questo tema: cos’è il Bello, come si compone, come si può
definire. Fin dalle origini dell’Occidente Arte e Bello non sono sempre state
accostate. Già Platone nel Repubblica scindeva i due concetti. Nella riflessione
estetica ante-litteram di Socrate il tema dell’Arte e del Bello compare una sola volta.
Già diverso il rapporto in Plotino, dove all’Arte si attribuisce un valore più importante
ed effettivamente produce un’esperienza di bellezza.
L’idea che ci sia un bello ideale al di sopra dei singoli concreti esempi di cose belle è
un’idea che scaturisce con il pensiero di Platone (o di Socrate) e darà il là al
pensiero occidentale: l’idea che ci sia un senso oltre l’esperienza empirica. Uno degli
impulsi che persiste nei secoli è il rapporto tra Bene e Bello (to agathon e to kalon).
La bellezza e la bontà vengono a fondersi: al bene si può ascendere attraverso una
via privilegiata che è la bellezza, l’unica virtù che può essere percepita sensibilmente
(a differenza, per esempio, della giustizia). Tutto ciò che è transitorio può elevarsi a
qualcosa di intrasitorio e cristallizzato tramite la bellezza. L’etimologia della parola
Bello in italiano deriva dal vezzeggiativo della parola Bonum, bonellum, bellum. e
quindi dal Buono. Anche da qui parte la forte vicinanza tra il Bello e la Bontà, ciò che
è estetico e ciò che è etico.

La Bellezza non è mai esaurita in un’opera. Il Bello continua a richiamare altro Bello.
Sempre Tatarkiewicz presenta diverse definizione di bellezza, così come per l’Arte.
Tra le altre, una che fonda le radici nel pensiero pitagorico è “l’armonia tra le parti, la
loro corrispondenza”, la simmetria e la proporzione. Fino all’Ottocento questa
definizione dura, anche se non è l’unica. Plotino criticò questa definizione, pensando
non al mondo greco ma ai colori, o a una immediatezza data dalla natura nella loro
unità inscindibile: la bellezza come perfezione o riflesso di una dimensione sovra
sensibile. Un’altra definizione può concernere l’adeguatezza di un soggetto alla sua
dimensione intima: per esempio, un dipinto di un cadavere può essere definito bello
perché ricollega a una dimensione appunto intima di un soggetto o della vita.

La definizione di Kant nella terza Critica cita “Bello è ciò che piace universalmente,
senza concetto”: la definizione toglie la soggettività per una pretesa di universalità
ma non dispone di un concetto. A differenza di un giudizio etico o scientifico o logico
non vi è una dimostrazione del bello. Si possono addurre motivazioni ma non
argomentazioni volte a certificare qualcosa come bello.
Il tema del Bello giunge nel Novecento ad essere messo in secondo piano rispetto
all’Arte, anche se viene comunque trattato slegato dal suo legame artistico.
Dall’antichità alla modernità vi è una progressiva soggettivizzazione del Bello; da
una concezione oggettiva del Bello alla soggettività. Kant cerca di comporre un
bilanciamento, ma la modernità sbilancia sulla soggettività del fruitore che
percepisce la Bellezza.

Dal concetto di Bellezza si passa al concetto di Forma, dal greco morphé intesa
come contorno o sagoma e eidos intesa come essenza, forma in senso stretto dove
risuona la radice id., vedere. Per Platone la Forma è un concetto anche ideale e
invisibile, in cui vi è un’armonia. Da un lato la Forma è ciò che si presenta ai sensi,
dall’altra un’essenza concettuale. La Forma è qualcosa che ci fa transitare dal
sensibile al sovrasensibile.

Queste le tre principali modalità di intendere l’Estetica.


Vi è poi un quarto modo (presente nel testo di Desideri) che nella seconda metà del
Novecento inizia a diventare preponderante: l’Estetica come Filosofia
dell’esperienza, non prettamente di arte o bellezza ma di una specifica esperienza
per il fatto che siamo corpi che abitano un mondo. La consapevolezza di avere un
corpo che sta esperendo la voce del professore, il trapano in lontananza, il polso del
maglioncino che tocca metà palmo della mano, il leggero fastidio al retro
dell’orecchio sinistro causato dalla mascherina e dagli occhiali, il ritmo del respiro, la
velocità delle dita che incepiscano nel battere queste parole.
È un tipo di esperienza che si può prendere in oggetto di fronte a un’opera d’arte e
che riporta l’esperienza dell’opera d’arte all’interno delle esperienze nella nostra vita.

Un quinto possibile significato di Estetica può essere quello di ‘Ermeneutica delle


forme’, che ha la stessa radice del dio Hermes, di messaggero e traghettatore di
significati: è l’elaborazione di possibili risposte alla nostra volontà di dare delle forme,
è il tentativo di dare un significato alle domande ‘Perché una data opera ha quei
colori, quelle forme, quella impostazione? Perché questo bisogno di dare forma?’.
L’Estetica intesa in questo senso bypassa la definizione di Arte.

Dal testo di Desideri, pag.73 - il Bello e la Bellezza


“Ogni cosa colta nell’immagine della sua singolare bellezza significa oltre di sé…”
Frase sottolineata per l’importanza che ricopre l’idea della nozione di Bello come un
eccesso di significato che va oltre ai significati dell’opera (interpretazione personale)
e la tensione amicale o erotica verso l’opera che non satura mai la soddisfazione del
raggiungimento di un dato significato; un moto o una tensione verso qualcosa, un
trampolino gettato verso nessuna riva

pagg.126-127, dopo la citazione a Goethe - l’Arte e l’artisticità


“Abilità manuale e potenza intellettuale giocano insieme…”
Usiamo mente e corpo come se fossero due dimensioni (sinogiapponese: shen xin -
shinjin) quando il mondo orientale le concepiscono come un’unità, per esempio,
dalla quale sgorga una spiritualità, si avverte qualcosa di non misurabile

segue - Gesto del dare la forma


“è forse proprio per questo gesto plastico…”
Tramite il gesto vi è una proiezione in un altro mondo, la generazione di qualcosa di
nuovo che prescinde dalla bravura e lascia un segno invisibile, una “incisione

energetico-simbolica”. Lasciare dei segni per saldare un debito con i segni lasciati
dai nostri predecessori e che siamo condannati a lasciare in quanto essere morenti.
24/25 marzo

Platone - Ippia Maggiore e Simposio

Premessa sul modo in cui vengono letti i testi: un esempio può essere la lettura
filologica, un altro, che è quello che ci interessa, sono i problemi teoretici che
vengono affrontati da questi testi e il cui tema ancora si ripropone come argomento
di dibattito e di discussione.
Inizieremo il nostro viaggio nel pensiero di Platone dall’Ippia Maggiore, attestato
come un dialogo della giovinezza, in cui quindi è ancora più all’interno del dibattito
che vorrebbe distinguere il pensiero platonico e quello socratico. È un dialogo
aporetico, il quale denota una difficoltà insormontabile e un problema irrisolto (in
greco lo sviluppo di un’aporia si dice diaporein). L’Ippia è interessante dal punto di
vista metodologico: Platone mostra il modo corretto in cui ragionare. Generalmente
in questi dialoghi il dibattito è tra Socrate e i sofisti; la grande questione non è solo
circoscrivere un argomento ma contrapporre il pensiero sofista (-commerciale e
competitivo) e quello socratico, la ricerca della Verità e l’utilità pratica del Sapere.
Dal punto di vista orientale, i sofisti praticano un jutsu, mentre Socrate insegna un do
(michi), una via. La Filosofia, soprattutto per Platone, non si misura in base alla mole
della conoscenza, ma trasforma il sé, è una pratica etica dello stare insieme.

Ippias Meizon (o peri tou kalou, Intorno al Bello)


281a-304e Stephanus

Nei primi dialoghi Platone mostra il metodo - methodos, la “via che porta a”, che
nell’accezione socratica è definito come elenkticos, confutazione: attraverso una
reciproca confutazione per la quale in quattro si vede meglio che in due. La ricerca
attraverso questo metodo dialogico è orientata verso l’essenza delle cose; non si
richiedono esempi, ma la specificità del Bello (in questo caso), eidos e ousia, volte a
rispondere alla domanda fondamentale: Ti esti? Che cos’è?
Un’altra peculiarità di questi dialoghi è l’essere protrettico: un’esortazione quindi a
perseguire l’obiettivo anche se non trova risposta. L’Ippia può essere anche
prolettico, nel senso che anticipa un altro libro in cui si tratta lo stesso tema, ovvero il
Simposio.
Altro punto importante da tenere a mente: non riguarda solo la dimensione estetica
ma la relazione che kalos ha con la concezione di buono, to agathon, caratteristica
che permane nel greco moderno, che suggerisce un porsi a una perfezione etica.

L’incipit presenta una lunga dissertazione iniziale prima di giungere al tema:


Platone inizia con un gioco retorico, per bocca di Socrate, riferendosi a Ippia e
anticipando il tema del dialogo; notare l’ironia socratica sempre presente, con il
quale definisce Ippia “bello e sapiente”. Ippia era un personaggio storico, sofista, che
girava per insegnare dietro pagamento: Platone mette subito in chiaro
l’autocelebrazione di Ippia alla sua risposta a Socrate, il quale risponde elogiandolo
largamente, per poi piazzare la stilettata, chiamando in causa i filosofi precursori,
che rimanevano alla larga dalla vita prettamente politica.
Ippia è talmente pieno di sé da non rendersi conto delle frecciate socratiche,
attribuendosi una maggiore intelligenza rispetto agli antichi, limitati alla loro
dimensione interiore.Socrate risponde chiamando in causa l’accumulo di
conoscenze, l'affinamento tecnico che può non andare di pari passo con il progresso
morale.
[282b] Socrate richiama il concetto del bello nell’argomentazione di Ippia (a
prescindere dalla sua ironia) e [282c] riprende “l’invettiva” contro il denaro e la
vendita del sapere; Ippia risponde richiamando ancora la Bellezza e Socrate
contro-argomenta ironicamente con l’esempio di Anassagora. In queste poche righe
vi è già l’immagine su cui si muove il dialogo, nella contrapposizione tra la
conoscenza come medium per percepire denaro e l’utilità reale a favore della
comunità.
[284ab] Continua a permanere l’opposizione tra il sapere come merce e il la ricerca
filosofica come esercizio personale, interiore, gratuita, che porta alla trasformazione
etica. Si arriva quindi alla domanda fondamentale [286bc] in cui i due convengono
sulla discussione, tramite domanda socratica (in cui Socrate si “sdoppia” per non
prendere in esame sé stesso, anche se lo sta facendo): in base a cosa sai quali
cose sono belle e quali brutte? Sapresti dirmi cosa è bello? (Ti esti to kalon?) Dove
l’articolo “il”, presente in greco antico, specifica fortemente la domanda sul concetto
di bello.

Dalla domanda di Socrate [286d] e il suo seguito si menziona il confutare, ovvero il


far sì di dimostrare che l’altro sia nel falso tramite argomentazioni. Nell’oriente
questa concezione non è contemplata, si predilige ciò che viene definito come bai jia
百 家, ovvero il riportare l’altro da una parzialità a una totalità dell’argomento.
Socrate invece vuole confutare l’inconsistenza dei sofisti, per dimostrare che si vuole
andare al cuore delle cose (comprendere concettualmente), sottolineando ancora
l’importanza dell’articolo.

Ippia sostiene che sia un argomento facile, e Socrate lo incoraggia di nuovo


adulandolo. Pone però un avvertimento: Socrate si impegnerà a fare obiezioni, in
modo da capire il meglio possibile le risposte che darà Ippia sul concetto di Bello. La
digressione sul tema della Giustizia serve a Socrate per mettere in luce la causa
formale, e quindi parlare della virtù “Bello”, della sua essenza (qui Platone non aveva
ancora specificato la sua dottrina delle idee, eidos e ousia). Mentre Socrate tenta di
andare a fondo del concetto, Ippia si limita a un superficiale esempio: “il bello è una
bella ragazza”.

Lettura del libro di Francois Jullien:


sottolinea la differenza tra definizione e designazione; Ippia si limita a designare.
Questa è la prima definizione di tre che Ippia tenta di dare a Socrate; anche Socrate
tenterà di dare le sue tre definizioni, che saranno comunque non soddisfacenti.
L’aporia del testo lasciata è un metodo, un lavoro fatto di discussione e
discernimento attuato su questo tema come in altri.
Nella confutazione di Socrate alla prima domanda questo dimostra come il concetto
di Bello si può applicare non solo a ragazze, ma a animali e cose; appunto perché
volgari, la risposta di Ippia dimostra che il concetto va oltre, non aveva dato una
definizione alla causa di Bello, la quale non rispetterebbe il principio di identità
paragonando la bella ragazza a una bellezza divina, per la quale allora sarebbe
brutta in comparazione (A=x, se D=x allora A=-x, quindi A=-x).

Si passa dunque alla seconda risposta di Ippia: l’oro, in comparazione con le statue
di Fidia. La risposta non sussiste in quanto il concetto di Bello non dipende dal
materiale usato dalla scultura così dall’oggetto che serve in funzione di un altro
oggetto (l’esempio del mestolo d’oro e del mestolo di legno di fico), in una
concezione pratica del Bello (la funzionalità del Bello).

La terza definizione di Ippia, spazientito, verte sulla vita di un soggetto, ricco, sano e
onorato, sepolto dai suoi familiari con tutti gli onori. La definizione verte
sull’universalità del concetto ma dipendente dall’opinione di tutti e che potrebbe
essere confutabile in ogni momento, non da una essenza a sé stante e veramente
universale. Socrate (infatti) contrappone Achille e Ercole a questa risposta.

Inizia quindi [293e] la pars costruens di Socrate, dove si prepara a dare le sue
risposte attorno al Bello. Invoca il daimon, la sua anima consigliatrice (la quale di
solito indica cosa non fare), e propone come prima definizione di Bello ciò che è
conveniente, l’adeguato, l’acconcio, ciò che si adatta bene. Socrate mette in
discussione subito la sua definizione: il Bello è ciò che appare Bello, oppure quella
cosa che fa sì che ogni cosa sia Bella, o nessuna delle due? - qui prende in causa
uno dei grandi temi della Grecia, la contrapposizione tra l’Essere e l’Apparire. Si
giunge alla questione sull’universalità del Bello e sulla sua fondazione ontologica -
cosa che gli orientali non potrebbero fare per la mancanza del verbo Essere. La
questione del Bello comprende anche la funzionalità, di una legge o di una attività,
che adeguate alla situazione sono Belle.

Forse però la convenienza non è la risposta più adatta, dato che questa necessita di
essere riconosciuta e quindi può non apparire ai più. La seconda definizione verte
quindi sull’Utile, intesa come via e mezzo per raggiungere la perfezione. La
confutazione di questa definizione si muove sul potere (la capacità) di fare o non fare
qualcosa, e la capacità intesa come innata e che dovrebbe essere via della
perfezione: ciò non accade (quasi mai). Né la capacità né l’Utilità sono la via del
Bello; si potrebbe pensare sul piano del Vantaggioso, che produce il Bene. Ma il
Bene in quanto causa non può essere causa di sé stesso.
La terza definizione allora giunge ai sensi per eccellenza che determinano piacere
estetico e conoscenza: l’udito e la vista. Socrate mostra la difficoltà e l’ambiguità
della concezione “e”: devono essere presenti entrambi o solo per uno dei due. La
cosa sembra abbastanza capziosa, ma serve a Socrate per portare Ippia in un altro
baratro, ovvero la vicinanza concettuale di esperienze diverse che danno sensazioni
diverse. Si tratta di un esercizio logico di et…et per imparare ad argomentare bene.

30/31/1 marzo-aprile

Domanda via mail:


Nel capitolo 2 Desideri parla del campo visivo dell’esperienza, distingue tra oggetto
epistemico e oggetto estetico. Come può un oggetto essere estetico oltre che
epistemico (come il cambiamento climatico, per esempio)?

Dal latino ob-jectum, gettato contro, possiamo ritenere che qualcosa come il
cambiamento climatico sia un oggetto di cui fare esperienza poiché un ‘ritaglio di
mondo’ di cui facciamo esperienza. Magari sarà un’esperienza parziale, poiché non
possiamo esperire tutto il cambiamento climatico ma una parte di esso.
Hermann Schmitz coniò il termine di Nuova fenomenologia (ci cui in Italia
l’esponente principale è Tonino Griffero, scrittore di Atmosferologia, dove definisce
l’atmosfera come un quasi-oggetto: non è un oggetto definito ma vi viviamo immersi,
ogni giorno. Vi è un’altra questione che può essere presa in esame nel libro di Jullien
Le trasformazioni silenziose in cui analizza secondo il pensiero cinese le
trasformazioni lente, di cui non ci rendiamo conto immediatamente ma
all’improvviso, dopo un periodo di ‘gestazione’.

Tornando all’Ippia
[304bc] Il dialogo si avvia alla conclusione con Socrate che continua a ‘adulare’ Ippia
mentre maledisce sé stesso, vittima di una sorte ‘demonica’. Rimane l’apertura
dialogica nell’ultimo monologo di Socrate, in cui continua ad alludere al suo sosia e
ai discorsi di Ippia, che non si legano al Bello perché non chiariscono cosa sia.

Simposio

Termine greco (tradotto anche in latino con Convivio) che significa letteralmente bere
insieme. La costruzione di Platone è anche in questo caso drammaturgica molto
raffinata, che procede da un fatto storico: Agatone, per festeggiare la propria vittoria
a un concorso di poesia, invita a casa sua sette amici per festeggiare. Stabiliscono
una gara: il migliore a pronunciare un discorso su Eros, amore erotico passionale
che sollecita un desiderio di unione con l’oggetto del desiderio.

Eros (Ἔρως) è mediatore, non un intermediario (trova punto di contatto tra i due
opposti) tra la dimensione del cosmo e dell’ideale. Permette a cosmos e all’eidos di
congiungersi, di stare insieme, non sovrapponendosi ma mantenendo un gioco di
polarità, differenza e interrelazione. Altra cosa interessante: la poesia per Platone è
strettamente erotica, e l’erotismo è un motore che permette all’essere umano di
muovere. Uno dei punti cardini del dialogo è l’essere mossi dalla mancanza, e il
compito più arduo di un maestro è di aprire dei vuoti. La mediazione tra cosmo e
idea avviene anche attraverso i corpi, e quindi anche l’Eros come mediatore e
trasmettitore di sapere (il che apre anche la questione della pederastia in senso
‘positivo’ del termine). La componente passionale è fondamentale

Prologo dell’opera
Come negli altri testi di Platone, vi è una sapienza narrativa oltre che filosofica.
Platone è consapevole del paradosso tra scrittura e oralità: per noi è comune
mescolare le due pratiche, mentre ai tempi Platone è un innovatore in questo senso.
Solo nel Novecento si è posta attenzione di nuovo alla distinzione tra il pensiero,
l’espressione orale e la sua scrittura. All’inizio del Simposio quindi Platone antepone
una sorta di prologo che funge da cornice dove Apollodoro si rivolge a chi lo ascolta
(o legge).

Nelle primissime battute viene inquadrato il tema principale del ritrovo e del libro,
ovvero la discussione che verte sull’Amore erotico, in cui chi chiama Apollodoro
chiede lui un flashback, un resoconto del Simposio. La riunione è avvenuta in un
tempo non recente. Apollodoro si rivela come allievo di Socrate da tre anni (non una
scuola formale, Socrate stava in piazza a discutere) e come filosofo, dopo un tempo
in cui si affaccendava senza soluzione di continuità. Il resoconto che ha di
quell’incontro gli è arrivato da Aristodemo, uno degli amanti più assidui di Socrate,
mentre la voce giunta all’interlocutore era di un altro soggetto, Fenice.
Il prologo si chiude con l’esortazione al racconto e Platone, che con la voce di
Apollodoro, fa alcune considerazioni (leggere il libro con attenzione per individuare i
suggerimenti metatestuali).

Subito all’inizio del racconto si pone l’argomento del Bello, con Socrate vestito bene
per raggiungere la casa di Agatone. Non solo: il concetto è reiterato.
Socrate invita Aristodemo al banchetto di Agatone, convincendolo, ma fatto questo si
allontana dallo stesso e lo lascia andare avanti da solo. Vi è qui il tema del maestro
che abbandona l’allievo, come un genitore che lascia la mano del figlio. Socrate è
senza luogo, non si trova, così come è o dovrebbe essere la Filosofia, che non trova
un collocamento specifico, a metà tra una Scienza e un Umanesimo.

Socrate sta pensando. Si è appartato nel vestibolo dei vicini poiché è stato colto da
un pensiero e si isola; Aristodemo esorta a non continuare a chiamarlo, spiegando
l’abitudine di Socrate. L’agire filosofico è una forma particolare del fare, una theoria,
avere una visione; si tratta di raccogliersi in sé stessi, lasciar essere questa visione e
contemplarla. È un diverso tipo di urgenza che porta il filosofo a scollegarsi con la
realtà, una sorta di ‘diverso sentire’, una sensibilità diversa propria del filosofo.
Socrate infine giunge a metà della cena. Agatone lo chiama a sé, in modo da godere
della sua sapienza che lo ha appena colto nel vestibolo del vicino. Socrate, usando
un’allusione che ricorda i vasi comunicanti, elogia ironicamente Agatone (ai limiti
dello sfacciato). Si tratta di capire di che tipo di sapienza stanno parlando: Socrate si
smarca dagli attributi dati da Agatone, che lo vuole localizzare in un topos,
suggerendogli un modo di aprirsi all’interno di sé e che potrebbe portarlo a una
sapienza anche maggiore. Si apre una delle grandi questioni filosofiche: si può
insegnare la filosofia? O da dove sgorga il pensiero corretto, la concettualità,
l’argomentazione?

6/7/8 aprile

Ricomincia la lettura del Simposio dal [176a]

Socrate si sottrae all’idea dell’apprendimento per ‘osmosi’; cerca di far trasformare


l’eromenos in erastes, soggetto attivo del proprio sapere.
Inizia il rituale del bere, sicché Pausania inizia a parlare del bere e del farlo con
calma; lo scambio di battute è un pretesto per contestualizzare la discussione,
evitando le ubriacature. Erissimaco propone, prendendo spunto dalle parole di Fedro
e dall’opera di Euripide Melanippe, l’argomento dell’Eros, mai celebrato da poeti e
cantori.

Ordine dei discorsi nell’opera:


Fedro è un retore che fa un discorso sull’Amore dal punto di vista maschile, non
orientato alla procreazione e che lascia il tempo che trova. Succede Pausania, uomo
di mondo e politico (oltre che retore) che cerca di parlare di Eros nel senso
passionale ed etico: Eros ci trasforma perché ci muove. Sarebbe poi il turno di
Aristofane ma gli viene il singhiozzo, artificio retorico di Platone per farlo parlare più
tardi; segue quindi Erissimaco, medico, che parla dell’Amore dal punto di vista
genetico e cosmogonico. Si ritorna ad Aristofane, il quale fa forse il discorso più bello
della serata riguardante il mito dell’androgino (=maschile-femminile). Agatone, quinto
della serata, un poeta tragico che dà un’impostazione metodologica e fa un passo
indietro. Alla fine arriva Socrate, che riporterà il discorso di Diotima, e in chiusura
l’ormai ubriaco Alcibiade, che rimette in campo il rapporto passionale/erotico del
sapere che si rifà alla figura di Socrate.

I dialoghi iniziano da [178ab], con Fedro che inizia alle origine di Eros, le quali sono
sconosciute; riporta Esiodo e la Teogonia, con le genealogia di Caos. C’è un primo
suggerimento della correlazione tra Eros, Amore e Bellezza e del senso comunitario
legato all’ethos dato da questi. Solo un politico che ama, per esempio, può donarsi
integralmente alla comunità che deve amministrare; Amore ci fa fare le cose migliori,
mantiene la barra dritta, è base del benessere della persona. Fedro rammenta poi il
mito di Orfeo e Euridice paragonandola alla tragedia dell’Alcesti. Il discorso di Fedro
in sintesi, è encomiastico e a favore dell’Amore ideale, non finalizzato a una praticità
(Amore distinto tra ideale e matrimoniale).

Tocca quindi a Pausania. Si smarca dal discorso di Fedro e concettualizza due


definizioni di Afrodite: una figura celestiale denominata Afrodite urania e una volgare,
Afrodite pandémia. Pausania va oltre il discorso di Fedro distinguendo i modi di
amare e di concepire il Bello. Tendenzialmente gli uomini si concentrano sul corpo,
alla dimensione del soma e quindi alla ‘volgarità’; il corpo in realtà dovrebbe essere
un tramite per arrivare all’ideale, all’anima. Accenna infatti all’Eros ideale che si
congiunge all’idea di Afrodite urania: una purezza propria del mondo maschile (!). Vi
è poi una definizione di malvagità: malvagio è colui che, volgare, ama il corpo più
dell’anima. Vi è poi una sorta di ‘espressione di preferenza’ a Parmenide piuttosto
che a Eraclito: ciò che è transitorio e temporaneo rende tristi, mentre l’immanenza si
lega alla felicità. Una concezione prettamente occidentale, dove esiste il verbo
essere che fissa nel tempo e la stessa etimologia della parola episteme inferisce a
un sapere che sta (ἵστημι - stare).
I suggerimenti che Platone tenta di lasciare nei discorsi portano a una concezione
dell’Amore che riguarda la ricerca dell’eternità: non una ‘mera’ procreazione, bensì
un tocco istantaneo dell’eterno.

Ricezione: shou

In ogni discorso Platone ha in mente il ruolo dell’Amore come funzione mediatrice.


Dopo Pausania vi è un interludio: sarebbe il turno di Aristofane, ma singhiozzante
cede il posto a Erissimaco, che lo stava assistendo. La presenza di questo scalino
apparentemente pretestuoso, questo escamotage retorico per forse porre
l’attenzione nei due dialoghi successivi. Erissimaco, in quanto medico, sviluppa la
dualità amorosa in diversi modi: Eros muta e cambia a seconda delle condizioni.
Platone ci mostra le diverse coloriture di Eros a seconda di chi pronuncia il discorso;
la scommessa riguarda il finale filosofico.

Erissimaco amplia il raggio d’azione di Eros dal suo punto di vista medico,
collocandolo in un ambito che si rifà a Empedocle, nella contrapposizione a Odio
come motori della physis basata sui quattro rhizomata. Ritorna poi alla dualità di
Afrodite e a menzionare in tal senso le muse, Urania e Polimnia, alla celestialità e
alla volgarità. È importante che Eros non vada a stravolgere il cosmos, l’ordine.

Ciò rimanda a una concezione di tempo orientale, in cui questo viene concepito dal
punto di vista qualitativo, non cronologico ma in una armonia di opposti in cui si
susseguono le alternanze che nella loro espressione non sono mai l’uno uguale
all’altro. Erissimaco intende Eros nel senso naturalistico; nessuno tra chi parla mette
in dubbio la potenza di Eros e la sua forza propulsiva.
Torna quindi la parola a Aristofane, il cui singhiozzo è passato grazie a uno starnuto;
vi è un’implicita attenzione di Platone al corpo, alla fisiologia. Il suo discorso parte
propria dalla potenza incompresa dagli Uomini di Eros, e prepara il discorso al mito
dell’androgino; l’uso del mito da parte di Platone sembra un retaggio proveniente
dalla filosofia presocratica, il quale mostra la dicotomia tra logos e mythos, tra
discorso ragionato e parola narrativa, riconoscendo una specificità per ogni tipo di
linguaggio, sia esso fonetico, grammaticale, artistico o modale. Il mito è qualcosa
che riguarda la verità che non riguarda la strada della techne e della conoscenza,
bensì nella dimensione poetica: Platone lo riporta appunto per porlo paritetico
all’esercizio logico-argomentativo.

Aristofane, col mito dell’androgino, introduce l’argomento della mancanza e della


potenza del symbolon, della metà, della ricerca in quanto condizione ontologica
dell’essere umano. Da una pienezza filosofica concepita da Pitagora al
rovesciamento della Filosofia come ricerca perpetua data dall’incompiutezza
dell'essere umano diviso. Dal punto di vista amoroso, la ricerca d’amore per
ricomporre la divisione operata da Zeus è la ricerca dell’Unità che permette quindi di
ritornare a quella forma androgina originaria. Vi è poi una contrapposizione
positivo-negativa tra l’Unità e la Molteplicità, la riunificazione positiva e la
disseminazione negativa.

[194e] È l’inizio del discorso di Agatone, il quale sposta dal punto di vista
metodologico la dissertazione su Eros, definita da Aristofane come “tensione verso
l’unità”. In generale, un buon elogio è fatto di una buona argomentazione che indichi
cos’è e cosa produce il soggetto in questione. Inizia quindi ad analizzare i discorsi
dei suoi predecessori: non ritiene come Fedro che Eros sia più antico di Caos, ma
anzi sia il più giovane delle divinità; inerisce inoltre a quali sono le facoltà di Eros.

In questi primi 5 discorsi si è toccato molto poco l’argomento del Bello. Sarà Socrate
a introdurre l’argomento, dopo il discorso di Agatone, introducendosi con la consueta
ironia nei confronti del padrone di casa.
[198d] Socrate mette in campo la verità, sostenendo che i discorsi sentiti non hanno
detto la verità ma hanno portato degli esempi e dei racconti che non definiscono
cos’è Eros (e cos’è il Bello). Non elogia come gli altri, ma prova a dire il suo vero:
mette a confronto la retorica con la verità nel senso di liberazione.

Digressione sulla teoria della linea di Platone


Progressione dall’eikasia alla pistis, ovvero dell’immaginazione e delle cose per
come ci appaiono che compongono la doxa, l'opinione, al passaggio nell’episteme,
della scienza, che si compone di dianoia, attività conoscitiva, e di noesis, l’intuizione
che coglie e poi può essere anche argomentata, preparata dall’esercizio dialettico
nel cogliere a furia di fare filosofia (non è così per Hegel, per esempio: ciò si avvicina
più alla filosofia di Schelling).

Socrate pone la questione cercando di togliere la componente relazionale, portando


l’esempio della relazione genitoriale che prevede giocoforza un’alterità.
Pone quindi la questione del Bello vicino alla questione del Bene: Eros risulta una
potenza né Bella né Buona poiché tende a bellezza e bontà, e se vi tende significa
che deve riempire una mancanza.

Il discorso verte poi sul riportare il discorso di Diotima da parte di Socrate, che gli
insegnò chi fosse Eros, fuori dalla visione della divinità potente. Un ‘posto’ di
partenza è che, se Eros non è Bello e Buono, non significa sia brutto e cattivo. Nella
dissertazione tra illuminazione e ignoranza, sapere e non sapere, passa il concetto
di metaxu, della via di mezzo, dell’equilibrio tra i due poli. L’essere umano è prodotto
dalla via di mezzo, è una tensione tra la volgarità e la divinità. Eros non è un dio: dio
è tale in quanto bello e buono, beato; se Eros tende a queste cose e non è bello e
buono, allora non è un dio, che non significa sia mortale: ancora la metaxu. Secondo
Diotima, Eros è un daimon, in quanto ciò che è demonico è intermedio tra dio e
mortale.

13/14 aprile

Riepilogo delle lezioni inerenti al Bello nel Simposio

Il Bello non è un tema centrale (tantomeno quello artistico) ma è strettamente legato


al Bene e a Eros, temi invece centrali dell’opera. Vi è una connessione tra il Bello
naturale è quello che è armonicamente buono, ciò a cui tendiamo.
Parlare di Eros è un modo per parlare di Filosofia, cosa voglia dire e come si fa. Se
per Pitagora il philei era una dedizione, il possedere una pratica, con Platone si ha
l’idea di un qualcuno che, in quanto non possessore, cerca la sapienza, si rivolge a
esse. Possedere vorrebbe dire stasi, e quindi morte; la Vita invece è un continuo
oltrepassarsi. L’idea di Platone sancisce il destino della Filosofia nei secoli a venire.

Il Bello è ciò che permette quindi il passaggio dal corpo all’anima. Il possesso di una
tale esperienza, “erotica”, vorrebbe dire troncare questo flusso, questo passaggio,
questa vita che corre da un polo all’altro.

Nel mondo cinese l’Amore è visto come una inclinazione, basata su una logica
polare di yin e yang, di vicinanza e lontananza, di affetto e di disinteresse. Non vi è
un concetto di ‘vuoto’ verso cui muoversi. A livello platonico rimane una tensione
essenziale per la Filosofia, per la ricerca, e la Bellezza è il sentimento che estrae la
sensibilità per porla su un sovralivello.

[204ab] dal discorso di Diotima (Socrate) è la virtù del metaxu, la via di mezzo, dove
poi sottolinea l’importanza di essere amanti, piuttosto che di essere amati. Al [205e]
Diotima afferma che l’Amore non è della metà né dell’intero. Il Bello è un tramite per
il quale l’Intelletto, vedendo in maniera armoniosa il mondo, riesce a comprendere
diversamente l’etica di sé, degli altri e del mondo, e a eludere il male (o il pensare
male). Eros è una tendenza a ciò, e non un possesso (vedi le righe precedenti), un
essere fecondo nei corpi e nelle anime, non nel senso prettamente fisico del termine
ma anche spirituale. Fecondare mette in contatto esseri mortali a un momento, un
qualcosa che ha dell’immortalità; la Bellezza espande le nostre qualità, mentre la
Bruttezza fa sì (o è sintomo) di un chiudersi dentro di sé, trattiene le potenzialità.

[209a] Diotima si riferisce alle fecondità dell’anima: ogni essere umano è in grado di
essere gravido e di partorire, di generare grazie a certi tipi di incontri e di esperienze.
La Bellezza prende il sopravvento grazie al discorso di Diotima: si descrive una
scala, una crescita progressiva e diversificata di ciò è Amore che non concerne il
possesso.
Nel [211a] vi è la dichiarazione di intenti di Socrate su come intenda il Bello e le sue
conseguenze.

Si termina la lettura del Simposio:

vi è un intermezzo tra il discorso di Socrate e l’intervento ubriaco di Alcibiade.


Platone lo rende ubriaco per mostrare un comportamento privo di freni inibitori.
Alcibiade richiede di poter fare un elogio, non di Eros ma di Socrate, tramite
immagini (eikon): lo paragona ai sileni suonatori intagliati dagli artigiani, che dentro
di sé portano un barlume di divinità, oggettificato nei gioielli all’interno di questi
cofanetti (mezzo uomo mezzo capro, accoliti del dio Pan). Lo paragona inoltre a
Marsia, provetto suonatore che sfidò Apollo in una gara e, perdendo, venne scuoiato
vivo, per il quale gli assomiglia nella bravura affabulatoria. L’elogio di Alcibiade è un
passaggio fondamentale che esprime la filosofia di Platone, la sfera emozionale che
riguarda il mondo del pensiero, la dimensione prettamente ‘umana e artistica’.
[216e-217a] Alcibiade continua il suo elogio prendendo in causa la Bellezza
interiore-esteriore, ponendo una differenza sostanziale e ingannatoria su questo
dualismo e continuando il suo elogio cantando della grandezza di Socrate rispetto
agli aristocratici, superficiali e chiusi in sé.

Al [218be] Socrate risponde ad Alcibiade: continua sulla contrapposizione tra


esteriorità e interiorità tra i due. Socrate non vuole uno scambio paritario, ma vuole
che qualcosa di indicato e non afferrato venga compreso dagli astanti. Una verità
oltre, che non è mai incarnato da un essere o da qualcuno in particolare. Per
Socrate non si tratta di scambiare favori o di travasare informazioni o dati.

[222c] All’epilogo rimane un triangolo amoroso, sul far della notte (rimanere svegli
per la ricerca) composto da Socrate, Agatone e Aristofane. Socrate tenta di
convincerli dell’ambivalenza di comicità e tragedia, entrambi prodotti dall’uomo. Una
volta addormentati, Socrate li lascia e il testo si chiude.
Il Bello è quindi al centro di questi dialoghi; riveste una sorta di ruolo cardine e di
mediazione tra il sensibile e sovrasensibile.
20/21/22 aprile

Il movimento triadico di Shu Ha Ri ci orienta verso un metodo artistico alternativo;


l’Occidente ha lavorato più verso l’individuazione di una tecnica, tanto da renderla
fondamentale per la soggettivizzazione della tecnica stessa a seconda dei vari
artisti. L’Oriente si ferma alla strutturazione di modelli, privilegiandoli rispetto alla
soggettivizzazione e ponendo una critica verso l’individualismo occidentale.

Tornando al mondo cinese, vi sono una serie di termini interessanti per quanto
riguarda i giudizi e le classificazioni in ambito estetico; non esiste un termine per
‘giudizio’, bensì degli ideogrammi per pin, ‘classificare, organizzare’ e weiwan,
‘gusto, assaporamento, degustazione’. Trattati estetici in Cina risalgono già dal 3°
secolo, dove ci si orienta verso le pratiche artistiche principali: calligrafia, poesia e
pittura, intersecati l’uno all’altro. L’idea di una pittura artistica nel mondo orientale
non deve illudere tanto da ‘sembrare una fotografia’: ciò che interessa è far sentire e
provare la vitalità di una immagine (xiang - che significa anche fenomeno), ovvero il
paesaggio in cui ci muoviamo e la sua forza spirituale, mentre in Platone vi è una
continua distinzione di piani; tutto è immagine e fenomeno. Anche nell’immagine è
presente il chi, qi, l’energia che condensa e evapora senza differenze ontologiche.
Nell’estetica orientale vi è sempre un dinamismo, un movimento tra l’essere e il non
essere e un’immersione nel paesaggio. La pittura orientale si muove secondo le tre
distanze: qualcosa in primo piano, qualcosa sullo sfondo e un vuoto mediano, uno
spazio in cui chi osserva è invitato a riempire con la propria immaginazione ciò che
rimane bianco. Talvolta viene usata la scrittura in primo piano, come una siepe
leopardiana, e sullo sfondo un’immagine: il nulla mediano diventa una sorta di
matrice.

Bambù, pino e pruno sono le tre piante principali della pittura orientale. Il bambù è
simbolo di flessibilità e crescendo in fretta permette al pittore di immaginare
agevolmente questo processo di crescita: ‘dipingere un bambù significa imparare a
crescere con esso’.
Libro della Via e della Virtù
Nel Daodejing vi è una citazione riferita all’immagine: La grande immagine non ha
forma, che mette in contrapposizione la forma definita occidentale e il flusso e
l’attualizzazione di energia orientale. Nel testo di Shitao in cui parla di pittura vi è una
vera e propria trattazione filosofica dove il punto di inizio è il tratto del segmento, che
richiama per il movimento che viene fatto con il pennello il simbolo di infinito; la
teoria è già nella pratica e dipende dalla teoria. Non c’è mai un opposto senza l’altro,
tanto nella teoria quanto ai movimenti per raggiungere la completezza.

In due diversi aneddoti che riguardano l’inganno pittorico - occidentale e figurativo da


un lato, dinamico e orientale dall’altro - si manifesta ancora la differenza tra una
tecnica e l’altra: mentre Giotto inganna Cimabue figurando realisticamente dei
chicchi d’uva, i fagiani dipinti da Feng Zhu ingannano il falco per il loro ‘apparente’
movimento. Sono più interessanti, per gli orientali, le figure naturali rispetto al corpo
umano: il corpo umano è più o meno analogo per chiunque, mentre i paesaggi
differiscono molto di più. Un paesaggio si può incorporare secondo i diversi sensi e
poi restituirlo a casa, in separata sede, secondo il ricordo delle sensazioni e la
restituzione dell’incorporato sulla tela. Prendo, trattengo, rilascio.
Non io Non-mente Senza scopo
Muga, Mushin e Mushotoku sono termini importanti per capire l’esperienza estetica
orientale; provengono dalle filosofie e dalle religioni orientali, in particolar modo dal
buddhismo. Il termine sanscrito dhyana (meditazione, assorbimento) diventa in
cinese channa, che è una traduzione fonetica e si pronuncia chen, la cui
conseguente traslitterazione lo fa diventare Zen, che fonda la sua pratica sullo Za
Zen, la meditazione seduta.

I tre termini iniziali sono caratteristici dello Zen: il primo indica l’assenza di sé nel
momento in cui si realizza che il nostro Io è tale poiché sempre in relazione con
l’altro; una sorta di spoliazione dall’ego. Mushin è la condizione mentale perfetta per
la pratica Zen: è come uno specchio che riflette senza trattenere nulla, tanto
dall’oceano quanto da una goccia di rugiada.

Mushotoku è l’atteggiamento a cui ci si deve predisporre nella meditazione: un


atteggiamento che non preveda un tornaconto bensì per la pratica stessa.

Accenno alla nozione di Wabi-sabi, di cui si parla notoriamente nella cerimonia del tè
ma che espongono due significati distinti. Il termine Wabi si riferisce al tempo e alla
sobrietà, alla povertà e alla poco appariscenza. Sabi invece indica una bellezza
malinconica, sempre legata alla dinamica del tempo. Esempio di questo è il
Chashitsu (casa del tè), ovvero un’abitazione poco appariscente che si integra col
paesaggio, che va di pari passo con quella che è la cerimonia del tè, una sequenza
di gesti e di rituali che aspirano alla sobrietà e al tempo stesso alla raffinatezza
(almeno secondo la filosofia di Sen no Rikyu). La casa stessa è pensata per
coinvolgere tutti i sensi, per permettere di utilizzare l’udito o l’olfatto con l'ebollizione
dell’acqua e la sua infusione, con la stanza in penombra e la degustazione del tè.
Tutto ciò riguarda l’esperienza del bello: l’attenzione per ogni singola attimo della
cerimonia. Anche solo l’avvicinamento alla casa del tè è un viale di pietre sconnesse
per ‘obbligare’ all’attenzione in ogni passo. Seguono esempi di Washitsu, ovvero di
stanze giapponesi che rispecchiano determinati canoni e ruotano attorno alla
nozione di Wabi-sabi.

Per quanto riguarda la Pittura e la Calligrafia, nella storia vi è una sorta di rapporto di
continuità e rottura (taglio-continuità, kire-tsuzuki). Il caso della calligrafia è
emblematico nel rapporto di continuità e rottura in rapporto alla tradizione
occidentale, la quale nel Novecento diventa metro di paragone e di rilettura della
tradizione giapponese. Un altro tipo di corrente riguarda gli artisti che si distaccano
completamente dalla tradizione per affiliarsi molto di più all'astrattismo occidentale,
come per esempio il gruppo Gutai o la scuola Mono ha.

I caratteri generali della tradizione sino-giapponese riguardano la forma, ma non nel


senso essenziale del termine, bensì dalla sua attualizzazione e trasformazione; una
trasformazione che non va a scindere i piani del sensibile e del soprasensibile, bensì
li fonde insieme: la sensibilità va a smuovere il piano spirituale. Non ne nasce quindi
un giudizio, bensì vi è un’assaporamento dell’opera, un apprezzamento che non
sfocia in classificazioni.

Manga

Termine che appare per la prima volta nel 1700; Hokusai nel 1800 attribuisce il
significato di appunti d’immagine. Letteralmente potrebbe essere tradotto con
‘immagini divaganti’, divertenti, svaganti. La prima attestazione di ‘fumetto’ risale al
1300, dove ci sono delle immagini che ‘parlano’. Vi è nel manga una dimensione
interculturale dall’Ottocento, merito di Charles Wirgman, che fonda a 30 anni a Tokyo
The Japan Punch, divenuta famosa con questo ibrido di schizzi
orientale-occidentale, la quale da adito a queste immagini Ponchi-e, 'immagini alla
punch’. C’è chi fece il percorso inverso, come Kitazawa Rakuten, che dopo un
viaggio in Europa divenne famoso in Giappone per il Tokyo Puck.

Inciso sugli occhi grandi: non è una ossessione per gli occhi grandi. Semplicemente,
gli occhi grandi permettono maggiore espressività e perché Osamu Tezuka, padre
dei manga, aveva in mente gli occhi di Topolino e Paperino, in quanto grande fan di
Walt Disney.

27/28/29 aprile

Estetica interculturale

Edward Burnett Tylor, definizione di cultura di un popolo:


“La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme
complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il
costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di
una società”.
Cultura si può definire a seconda delle lingue usate: se in italiano, o in inglese,
cultura - civilisation - culture indicano più o meno la stessa cosa, in tedesco per
esempio vi sono delle differenze nei termini Kultur - Zivilisation - Bildung, che può
essere in senso stretto o riferirsi alla formazione, alla continua trasformazione di sé
stessi.

Bisogna distinguere tra il significato di Multiculturalismo e il significato di


Interculturalità, dove nel primo caso si indica una coesistenza, nel secondo un
intreccio tra due o più culture. Una specifica sulla definizione di ‘lingua morta’, in
quanto tale non perché non venga più usata quanto per il fatto che non ha più modo
di cambiare, così come fa una lingua attuale. Così fa il concetto di Interculturalità:
pensare al processo che porta alla commistione di due o più bagagli comunitari.

Possiamo universalizzare il concetto di Estetica?


La nozione di Estetica viene tradotta in tutte le lingue: porta avanti un nocciolo
occidentale che poi trova diverse declinazioni nelle diverse culture.
In generale, l’esperienza estetica ha bisogno di pratica, abitudine e esercizio, che si
differenziano poi dai diversi contesti: per esempio, per un giapponese è
assolutamente normale e raffinato mangiare pesce crudo, cosa per noi inusuale.
Da Occidentali, prendendo spunto dalle considerazioni di Derrida (Pensare a non
vedere, Jacca Book), abbiamo lasciato il predominio al logos: ogni cosa deve avere
una spiegazione verbale. Ciò va a discapito dell’esperienza estetica e
dell’esperienza artistica non solo visiva e verbale, ma soprattutto sensoriale e
esperienziale: l’imitazione, l’apprendimento, l’immedesimazione.

Distinzione tra Estetica interculturale e Estetica comparata

La comparazione è un accostamento tra due elementi che vada a sottolineare le


differenze tra l’uno e l’altra. Non vi è mai una coincidenza perfetta e la relazione si
instaura grazie a un soggetto super partes che valuta i due elementi dall’esterno.
Uno schema rigido triangolare può essere sostituito da uno ‘schema variabile
interdipendente’ (elaborato dal prof. Pasqualotto) per il quale il soggetto viene
trasformato dalla comparazione, così come si trasformano le due filosofie (cioè
trovarne nuove chiavi interpretative); una pratica quindi trasformativa e non
neutralizzante.
La figura del trickster ha una sua valenza in questo gioco di interculturalità e
comparazione poiché esce dalle logiche precostituite e traduttive per ricercare punti
di contatto e innovazioni nel rapporto tra le due filosofie. Il ‘matto’ è sempre stata una
figura fondamentale di mediazione e rottura, portatore di caos e quindi base per
l’instaurazione di una novità, sia culturale o filosofica. Si apre uno scontro tra la
dimensione apollinea e quella dionisiaca, tra ordine e caos, entrambe fondamentali e
insieme generative. Questo tipo di lavoro filosofico può mostrare dei fenomeni di
interferenza (portare a contatto, intrecciare, mettere in tensione), processi che si
danno in relazione con l’alterità.

Si apre quindi la distinzione tra critica e problematizzazione:


la critica è intesa come analisi degli elementi che compongono un pensiero o una
cultura; la problematizzazione rientra invece nel campo della verità e della falsità,
diventando oggetto del pensiero, mostrando quali sono le fallace o le incongruenze
dell’elemento oggetto di problematizzazione.

Edouard Glissant (1928-2011)


Franco-creolo che ha vissuto sulla propria pelle il meticciato, la commistione di
lingua e cultura nella sua scrittura. Coniò la nozione di caos-mondo, uno choc o urto
legato a questi intrecci di connivenze e repulsioni tra culture e persone in cui si
realizza una totalità-mondo. Si abbandona quindi la pretesa di trovare la verità
all’interno della propria soggettività (o del proprio campo d’esperienza) non per virare
verso un sistema totalitario, che cataloga e blocca, ma per approdare al mondo
attraversato dalla pluralità e dalla intersoggettività. Se nella letteratura si comparano
le diverse culture, in filosofia ciò è molto più difficile, forse perché l’eurocentrismo è
ancora imperante.

Bernhard Waldenfels

Altra autore che si è occupato dell’interculturalità tra occidente e oriente a livello


estetico, prima che teoretico o logico. È il contraccolpo che deriva dall’altro, un
pathos che ci viene fatto esperire dall’alterità e che non viene deciso dall'individualità
soggettiva dell’Io. Vi è una dualità nei termini evento/avvenimento, dove il primo
indica la non pronosticabilità e il fenomeno improvviso, il secondo il sopraggiungere
di qualcosa di nuovo. Il corpo si fa come primo luogo di risposta di un’esperienza
estetica: viene colpito pateticamente da ciò che deriva dall’altro esterno a sé ed
elabora poi, mentalmente, ciò che è successo. Vi è sempre un riportare poi l’alterità
a noi stessi, un rapporto continuo di integrazione dell’esterno all’interno per poi
esprimerlo, forse, all’esterno.

La Filosofia interculturale non vuole essere un modo particolare di fare filosofia, ma


utilizza alcune modalità tra le tante possibili per fare emergere un modo, una
pluralità e uno stile di pensiero. L’esercizio interculturale può farsi sia specifico
quanto un ripensamento della filosofia in oggetto in toto, trasformare la
consapevolezza della filosofia che ha di sé stessa. La domanda potrebbe essere:
“Da dove faccio filosofia?”, un esercizio per allenarsi a capire che non vi è uno
sguardo ‘cosmoteorico’ ma siamo sempre e comunque immersi in una cultura che
può guardare ad altre culture, mettendo in discussione la propria.

Esempio di interculturalità fu l’incontro tra Europa e Giappone nella metà


dell’Ottocento, portando alla nascita dei termini ideografici per esprimere
Estetica e Arte:
- Estetica, bigaku
- Arte, geijutsu, geido
Van Gogh è un primo esempio di pittore europeo che va a copiare l’arte
giapponese, nelle forme e nei colori. Dall’altro lato, a Nagano fu costruita nel
1873 la scuola Kaichi con elementi occidentali. Manga e Anime sono
emblematici come commistione di occidentalità e orientalità. L’oriente da
questo punto di vista si è mostrato più adatto ad accogliere ibridazioni e
commistioni con l’occidente e i futuro tecnologico, pur mantenendo le proprie
tradizioni: l’identità viene vista non con immanenza sostanziale ma come un
processo in continuo movimento, dove il qi attraversa ogni cosa, sia essa
naturale o artificiale.

Nozione di Ma 間

Significa ‘intervallo’, ‘fra’, ‘ritmo’, ‘durata’. Simboleggia una porta semi aperta.
Non si tratta di una nozione ontologica; sottolinea come la compresenza, tra una
continuità e una discontinuità, renda comprensibile due opposti: rumore e silenzio,
pieno e vuoto, luce e tenebra. È una parola sincategorematica, privilegiata nel
mondo orientale rispetto alle categorie occidentali.

Nozione di Ku 空

Esprime il concetto di vuoto (si legge sora quando intende il cielo) e in combinazione
con Ma sta a indicare lo spazio, poiché ‘tra i vuoti’.

4/5/6 maggio

L'Estetica del Dao/Tao

Serve per avere un minimo di sfondo concettuale sull'Estetica orientale. È una


scuola cinese che si innesta nel buddhismo per dare vita alla scuola Chan, che in
giapponese si pronuncia Zen. È una concezione fondamentale per capire i caratteri
estetici orientali.

Termini tecnici:
Taoismo - termine -ismo occidentale che riflettono parzialmente e rigidamente la
pluralità di scuole e esperienze - fa parte dei tre insegnamenti che non vive in
antitesi con le altre (come nelle religioni occidentali) e si accompagna al
Confucianesimo, ovvero lo studio dei letterati e degli intellettuali che si riferiscono a
Confucio ma che per certi versi attingono anche a fonti precedenti per trasmettere i
classici e la sapienza del passato (così come Confucio - nome latinizzato da 'scuola
del maestre Non). Ultimo, arrivo dopo 400 anni circa il Buddismo, legandosi al
Taoismo; dal XII al XVII secolo vi è un'ampia traduzione dal sanscrito al cinese, e si
sposta poi verso il Giappone. Il Buddismo si radica più in oriente che non in India,
dove prevale l'Indù. Una delle scuole più importanti, la Mahaiana, si radica in
Giappone, Cina e Corea.

Questi tre assi si integrano (tendenzialmente); restando sul Tao ci sono tre testi
fondamentali (fruibili da chi sa leggere, rendendo riti e cerimonie orali predominanti a
discapito della filosofia lasciata ai ricchi) scritti tra IV e II secolo avanti Cristo -
cercare i tre testi: Daodejing (breve e poetico, assimilabile a Omero) Chuan e Lez,
più distesi e filosofici. Il primo indica già una direzione e esprime qualcosa sulla
Bellezza di fondamentale

Prima riga: Il Tao che può essere espresso non è quello autentico.
Il nome che può essere detto non è il nome vero, stabile.

Una sorte di dimensione apofatica: la dimensione più profonda è ineffabile. Il Tao è


accadere del mondo e nominarlo significa reificarlo. Il mondo orientale ha sempre
inteso l'irriducibilità della pratica estetica al logos. Entrare nell'opera in quanto opera,
non in quanto parola con la quale si può spiegare e che rischia di diventare
espressione della realtà al posto dell'opera stessa (Hegel).

Tao, via, è traducibile come ‘strada, metodo, via’ che contraddistingue metodi e modi
di fare, tanto “artigianali” quanto “teorici”. Non si tratta di un principio secondo la
nozione greca; in un certo modo, è il modello per il quale il reale si conforma, così
come il fiume nell’alveo. Il Tao è immanente agli elementi, non è trascendente: si
avvicina al concetto di sostanza spinoziana. Non incontriamo mai la Sostanza nella
sua totalità (come il Tao), ne incontriamo i particolari, l’ambiente che ci circonda, le
persone, le loro esteticità: siamo nella Sostanza quanto nel Tao, dobbiamo imparare
a muoverci in armonia con esso nel diagramma del taiji, il taiji, (le due estremità del
tetto), ovvero lo Yin e lo Yang. È importante partire dal Taoismo per questo motivo,
per la concezione delle due estremità che si compresenziano e si marcano per la
loro compresenza tra luce e buio, pieno e vuoto. Non si tratta solo di polemos o
dell’heideggeriano auseinandersetzung: è un intreccio, un riconoscimento l’uno
nell’altro, movimento e dinamismo. Tendenzialmente si dice che Yin sia il femminile e
Yang il maschile: nella vita di un essere umano, si comincia Yin per arrivare allo
Yang e tornare allo Yin.

concetto di Wu wei
“Non agire affinché nulla resti di non fatto”

È la più completa idea del non agire, l’azione più efficace per lasciare nulla di non
fatto, che non ha un soggetto protagonista evidente. Si ha bellezza, in questo senso,
quando ciò avviene senza sforzo, con naturalezza. Nello sport, per esempio, il gesto
atletico esteticamente perfetto avviene senza ‘apparente’ sforzo, dopo anni e anni di
allenamento, in cui hanno imparato a far fluire l’azione senza sforzo o pensiero.
Bisogna studiare anni e anni per imparare a non fare nulla, lungi dall’eroismo
macista o dal proattivismo esasperato dell’Occidente. Il vero saggio sa sfruttare le
pieghe di ciò che arriva: questa è la non-azione dei Wu wei.
Lo Yin e lo Yang si ‘complica’ nelle sue cinque fasi: terra fuoco legno acqua e
metallo, in un rapporto di dissoluzione e di generazione tra loro (tentare di descrivere
le frasi partendo dall’acqua: l’acqua spegne il fuoco, il fuoco fonde il metallo, il
metallo taglia il legno, il legno rompe la terra e la terra assorbe l’acqua). Il corpo è a
sua volta un paesaggio, a suo modo in movimento di ri-formazione. Questo
movimento viene mantenuto nella vitalità del qi grazie al kung-fu, per esempio, così
come avviene nel Feng shui per l’armonia dei paesaggi e delle costruzioni.

Buddhismo

Nel V-VI secolo il patriarca Bodhidharma (in cinese Ta Mo, in giapponese Daruma)
porta nell’estremo oriente la filosofia del Buddha, dando poi la possibilità allo Zen
(Giappone, XII-XIII secolo) di svilupparsi. Tra questi sei secoli, grazie ai due monaci
Eisai (Rinzai) e Dogen (Soto) prendono piede queste due filosofie Zen.

‘Via di mezzo’ è l’espressione che solitamente esprime la filosofia del Buddha, tra
l’estrema mortificazione e l’estremo piacere. Anche nel mondo buddhista vi sono
diverse vie per raggiungere l’illuminazione; queste non si escludono (così come in
Occidente) ma coesistono. Da un lato l’illuminazione viene attraverso il Buddha,
dall’altro come nello Zen anche il Buddha può essere un ostacolo e la via dipende
solo da sé.
Il termine Buddhismo viene dalla parola Buddhadharma - “dottrina, insegnamenti del
Buddha”, che significa “il Risvegliato”. Il soggetto in questione è conosciuto come
Siddharta Gautama, un principe della seconda casta indiana (guerrieri) che cresce
nell’abbondanza e nella protezione paterna finché non esce dalle proprietà familiari
per scoprire l’esistenza del male e del dolore. A 29 anni abbandona la famiglia per
addentrarsi nella foresta (antitesi urbana) per ritirarsi in meditazione. Per sei anni si
dedica a pratiche ascetiche (V sec. a.C.): ne prova svariati finché non intuisce che
nessuna di queste salvano dal dolore (non solo corporeo, ma ontologico). Inizia il
suo percorso di insegnamento a 35 anni, insieme ai suoi compagni.

Il canone buddhista (Tripitaka)

Buddha non lasciò nulla di scritto, così come Gesù o Socrate. Sono i discepoli a
raccogliere migliaia di pagina divise in tre cesti (pitaka):
- Sutta
- Vinaya
- Abhidhamma
Vi sono tre principali scuole o correnti di insegnamenti del Buddha:
- Theravada (o Hinayana)
- Mahayana, vogliono essere più inclusive e non considerano necessaria la vita
monastica. Sono ancora presenti dinamiche hindu, che considerano il
percorso della salvezza nelle reincarnazioni, le quali sfociano nella più alta
forma di vita prima del divino nell’essere maschio. Questi inaugurano la figura
del bodhisattva, un risveglio che non prevede l’entrata nel Nirvana finché non
vi è la liberazione di tutti.
- Vajrayana, definita oggi come buddhismo tibetano (figura del Dalai Lama)
Il Buddhismo si costruisce intorno ai tre gioielli:
- Il Buddha storico, precursore che ha anticipato altre migliaia di buddha
coperte dalla cenere dell’ignoranza. Buddha non è un dio o un profeta: è un
profeta che propone la sua esperienza ad altri esseri umani, senza precludere
le pratiche altrui
- Buddhadharma, ovvero gli insegnamenti (e l’esempio del Buddha)
- Il Sangha, ovvero la comunità, la comunione tra gli altri la cui massima
espressione è universale. L’idea di ecclesia latina viene ‘esplosa’ a ogni
essere vivente e religioso

n.b. Per quanto riguarda gli abiti, l’idea predominante è che le vesti possano essere
combinati e assemblati tra loro

Buddha non si propone come un dio ma come essere umano; nel sutta presente
nelle slide è lo stesso Buddha che porta a decostruire qualsiasi preconcetto, anche
sé stesso, per arrivare alla sperimentazione soggettiva di ogni cosa e alla
valutazione buona o cattiva.

Le quattro nobili verità sono legate ai quattro passaggi di diagnosi, eziologia (causa),
prognosi e cura.
Parte diagnostica
1. La vita è inevitabilmente connessa al dolore
2. L’origine del dolore è dettato dall’attaccamento al desiderio smodato di un ego
che vuole mantenere la sua condizione di agio o di allontanare il prima
possibile il disagio, portando sempre a una proiezione futura
Parte terapica
3. Esiste una via per la cessazione del dolore
4. La via è costituita dall’ottuplice sentiero, che porta al Nirvana (estinzione del
dolore), che porta all’idea che ci sia un ego autosufficiente portatore di dolore.
Una sorta di pratica che porta all’alleviamento del dolore e che possiamo
comprendere, nella nostra lingua, con la mindfullness

L’effetto ultimo della pratica buddhista è la salvezza: ma non si tratta di una salvezza
egocentrica del sé, piuttosto di una salvezza dal sé, un ritorno all’unione.

Le 10 immagini dei buoi

Raffigurazione che risale al XIII secolo; la prima tappa, incipit del movimento, è
mettersi alla ricerca del Bue poiché si sente che manca qualcosa, c’è una condizione
di insoddisfazione (motivo per il quale nei manga solitamente il protagonista è
orfano). Nella seconda tappa si iniziano a scorgere le orme, e ci indicano che siamo
nella strada giusta e rassicura sul fatto che la prima tappa non sia frutto di pazzia. La
fede relegata alla ricerca è fondata; tutto ciò denota che il Bue, prima, fosse
presente: una sorta di ‘illuminazione’ precorritrice ma che serve di una ricerca per
poter afferrare che era sempre stata lì. Nella terza immagine vi è la percezione del
Bue: si inizia a scorgere, la meta sembra raggiunta; nella quarta il Bue viene
afferrato (con fatica), bisogna riaddomesticarlo. Il Bue viene pacificato nella quinta
immagine; per certi versi può sembrare un compimento, ma in realtà siamo solo a
metà del percorso. Si continua nella sesta immagine con una sorta di riunione tra il
domatore e il Bue: l’animale viene cavalcato, si diventa tutt'uno con l’esperienza. Nel
settimo momento il Bue esce di scena dopo sole quattro apparizioni: l’animale
trascende. Non ci si aggrappa al suo ritorno ma si lascia andare l’esperienza fatta, si
indica la libertà. L’ottava immagine era probabilmente in antichità la fine del
percorso: anche il domatore trascende. Rimane il vuoto dato dalla trascendenza
dell’illuminazione e del sé; niente può essere trattenuto. Con l’ottava, la nona e la
decima sono tre aspetti della stessa dimensione raggiunta: l’energia rimasta
contribuisce al ritorno alla sorgente della vita o a un ritorno nella società, per
condividere e indicare la via dell’illuminazione. Si scopre che la vita è la meta e la
meta è la vita: tutta la ricerca è il punto finale.

Domanda: le 10 immagini e Matrix: Neo tra ritorno e la Scelta, oriente e occidente.

Il tema del Vuoto

Non un tema propriamente estetico, ma necessario per capire il concetto di Bellezza.


Il concetto di Vuoto va di pari passo con il concetto di Forma, l’uno esiste con l’altro
(come un vaso, per esempio).

Domanda: la relazione tra Vuoto e scultura come ‘creazione di Vuoto’, mancanze


orientale di trattati filosofici. Scultore giapponese: Azuma Kenjiro.

11/12/13 maggio

Haiku

Termine tecnico che connota un tipico componimento (inizialmente haikai - hokku) di


concatenazione poetica del quale era solito essere la parte finale, in una
composizione collettiva dalla struttura metrica precisa. Il grande innovatore di questa
forma è Matsuo Basho (1644-1694), poeta itinerante (e secondo leggenda, un ninja)
famoso per aver scritto molti haiku; acquista la sua specificità come poesia
autonoma, la più breve possibile. Si compone di 17 more o sillabe, tendenzialmente
disposte su tre versi: 5-7-5. Il canone dei tre versi non è rigido, a volte sono disposte
secondo un ordine astratto.

Un haiku non produce senso estetico secondo un sentimento; piuttosto esprime un


vuoto di soggettività e di presenza. Possiamo pensare a questi componimenti come
riferimenti a ‘corollari oggettivi’ (T.S. Eliot) ma non vi è mai l’emergenza romantica di
un Io che si affaccia sulla scena; piuttosto è la registrazione di eventi. Un haiku deve
testimoniare un accadimento spontaneo: è la natura ad essere centro e contenuto
del componimento. In Giappone è normale usare una forma passiva che non denoti
un soggetto agente.
La Bellezza scaturisce non per la prevalenza di un soggetto ma per una contingenza
in cui l’Io si sente parte, L’Haiku è tendenzialmente scritto a mano, quindi vi è una
componente visiva e non solo uditiva (cosa tentata dai futuristi) legandosi alla
bellezza del significante. Uno degli haiku più famosi di Basho (la rana) ha solo in
inglese circa 50 traduzioni, appunto per tentare di dare i più possibili significati e
significanti (sonori) del componimento.

Furuike ya
kawazu tobikomu
mizo no oto

Vecchio stagno
una rana si tuffa
un suono d’acqua

La poesia giapponese e le arti in generale mantengono questo intreccio tra le


diverse arti, mentre in Occidente si tende a scorporare e fissare le diverse arti. Gli
haiku sono contraddistinti da parole fisse che evocano determinate stagioni (kygo).
Altro tecnicismo dell’haiku è il kire ji, ovvero il taglio: una parola, o un suono, che nel
componimento taglia e interrompe, ma mantiene insieme, due parti della poesia
stessa.

Teatro No e Buto

Esempio di estetica che mette in relazione il corpo e il vuoto. Una delle sue
caratteristiche è lo svolgimento a scena aperta in un gioco di luci e ombre, che non
mostrino una chiara divisione tra platea e palco per ‘condividere’ l’esperienza. La
scena è spoglia e una parte è dipinta. Spesso vi è una passerella che porta dal fuori
al dentro e poi un palco.

Il teatro consueto giapponese è il teatro kabuki, assimilabile per certi versi alla
Commedia dell’arte; non hanno maschere ma i volti sono dipinti, dura per delle ore e
tendenzialmente è umoristico. Il Giappone ha tenuto più intrecciati piani artistici che
l’Occidente ha teso a distinguere. Dal punto di vista delle prestazione dell’attore,
Zeami, vissuto nel 1300 circa, si può paragonare al ‘nostro’ Shakespeare; fu anche
teorico dell’arte e canonizzò certe dinamiche: la stilizzazione del gesto per ridurlo
all’essenziale, la depurazione dell’ego attoriale per lasciare lo spazio al personaggio.
Nel caso del teatro No, la maschera elide la personalità soggettiva dell’attore e
servono a rendere riconoscibile le forme; a sua volta, vi sono i maestri di maschere,
coloro che le costruiscono in una sorta di mise en abyme artistico. Un’arte raffinata
che consente, per esempio, a variare l’espressione della maschera dall’inclinazione
del volto.

Questa riduzione si trova anche nel teatro-danza del Butoh, codificato negli anni
Settanta da Hijikata Tatsumi e Ono Kazuo, che mettendo insieme il teatro
giapponese e il teatro d’avanguardia occidentale è a metà tra teatro di
improvvisazione, danza, coreografia. La componente interpretativa è molto forte;
spesso la pratica e l’esercizio diventano una forma continua di arte-terapia, le
movenze producono emozioni, scoppi e deflagrazioni emozionali.
Il primo termine che lo definisce è teatro della tenebre (ankoku butoh): solitamente si
va in scena dipinti di bianco su sfondo nero. L’idea è di riuscire a far muovere il
corpo come se non fosse il soggetto a farlo muovere (sottrazione di Io); imparare a
sentire il vuoto. Non esiste l’esperienza di X o Y, bensì il sentimento che si proietta
tramite i corpi dei figuranti nei movimenti nati dalla loro spontaneità.

Nishida Kitaro

Il primo filosofo giapponese contemporaneo che studia alla occidentale e riflette su


temi orientali. Nel 1900 pubblica un testo in cui tratta il Bello (nello stesso anno in cui
Benedetto Croce pubblica la sua estetica, per 50 anni letta e ritenuta la più grande
opera in tema).
Secondo il filosofo giapponese etica ed estetica vanno di pari passo (non esiste il
‘genio e sregolatezza’); distingue tra Verità logica e Verità emotiva, e quindi estetica,
legata all’intuizione. Il Bello è legato al non-Io: una de-soggettivizzazione che
trascende la singolarità per intuire e toccare nell’istante il Bello.

Ryosuke Ohashi

Focalizzazione su alcuni passaggi del libro di Ohashi che sarà tema di esame, in
particolare sul concetto di taglio-dis/continuità (kire tsuzuki) praticato nella
composizione degli Haiku e nella parola che taglia il componimento (kireji).
Il concetto di taglio parte da una universalizzazione concettuale nel quale possiamo
(ovviamente) osservare casi ed eccezioni che confermano linee di tendenze e
orizzonti prospettici che denotano la qualità del pensiero. Il concetto non elimina le
differenze interne: vi è una coerenza di fondo in ogni filosofia con all’interno delle
vaghezze.

Ohashi parla di kire come di una struttura di fondo, anche inconsapevole, della
produzione artistica che aiuta a capire più tradizioni e più opere, seppur distinte. Il
libro fa riferimento anche a un fatto di cronaca (il suicidio di Mishima, critico
nell’occidentalizzazione giapponese) per esplorare il concetto di taglio e di continuità
della tradizione giapponese, di una soglia da oltrepassare e di riti di passaggio come
‘tagli’ in continuità della vita.
Già nella prefazione Ohashi parte dalla nozione di kireji citando l’haiku della Rana
nello stagno: una prima lettura sarebbe la banale descrizione dell’evento. Ogni
evento però è unico, irripetibile, che si dà una sola volta nel mondo (e si scontra con
la continua archiviazione di eventi propria del nostro tempo). L’interruzione, per
quanto banale, del flusso è un momento poetico. Ciò si collega al termine latino
contemplatio, pratica degli àuguri romani che ritagliavano una porzione di cielo per
osservarlo (e quindi contemplare e ritagliare vanno di pari passo nella poesia, dove
si ritaglia uno spazio e un tempo e lo si contempla).

Il primo capitolo parla del teatro No di Zeami: il fiore antico a cui tende Zeami,
essenza poetica del teatro, è qualcosa che non si limita alla figura romantica ma
trasmette metamorfosi (nell’ideogramma: radicale della pianta a cui sottende
l’ideogramma della trasformazione). Mettendovi a fianco la nozione di wabi-sabi,
appare in filigrana il Tempo che diventa bellezza, il suo fluire, in contrapposizione
all’occidentale ricerca della forma che va al di là del tempo. Nella sezione sulla
Osservazione mimica, Ohashi riferisce come Zeami tentò di ricopiare i movimenti di
uomini e donne, giovani e vecchi, per elevare il gesto a forma (concetto di manabu,
di studio ‘imitatorio’) ed elevarlo a kata, raffinazione e istituzionalizzazione del gesto,
in modo che appaia nella sua profondità. Il grande gesto artistico, in questo senso, è
‘recitare’ (per esempio) con grande naturalezza ritagliando gesti quotidiani e
portandoli alla loro profondità. Una nuova vita che sorge dal kire.

Sulla domanda del kire tra volontarismo, forzatura e seguire il flusso: la volontà e la
scelta sono l’istante in cui l’individuo decide e sceglie: da quel momento in poi l’Io
dovrebbe tendere a sciogliere sé stesso nella decisione e nella scelta, fare spazio
dentro di sé togliendo il proprio ego e lasciando entrare la via che ha intrapreso
(domanda posta prendendo ad esempio The Matrix - l’arrivo alla Sorgente).

18/19 maggio

Una delle questioni fondamentali dell’estetica giapponese è il Tempo che si fa


Bellezza: non vi è un mantenimento nell’Essere (occidentale) che si fissa nell’einai;
nell’Estetica orientale, non essendoci un’ontologia, si sviluppa un ritmo processuale.
Il ritmo scandito nel Tempo si fa Spazio sul foglio, nella pittura calligrafica.

Il quinto capitolo del libro, dedicato a Mishima, si orienta verso l’esperienza della
morte. Mishima voleva rifarsi all’Estetica decadente alla Oscar Wilde; Ohashi non
parla della sua letteratura ma del tempo della morte di Mishima, ripercorre le tappe
degli ultimi anni. Il taglio ritorna in questo tema nella veste del seppuku praticato
dallo scrittore per darsi la morte: un gesto di protesta dove il taglio del ventre
vorrebbe tagliare la patina occidentale che oscura la visione nipponica alla propria
tradizione. La morte si fa massima espressione dell’alterità: Ohashi vuole mostrare
l’indissolubile relazione tra le alterità e gli opposti; secondo Ohashi, Mishima non ha
sopportato la tensione tra vita e morte, tra Bellezza e non-Bellezza. Ha in un certo
modo cercato il suo kata trovandolo nella morte.

Dal libro di Byung-Chul Han, La salvezza del Bello


La salvezza del Bello (il Bello che salverà il mondo) viene legato alla salvezza
dell’Altro: l’opera d’arte compiuta che salva l’altro nella sua visione. Ciò si
contrappone al consumismo: tutto ciò che viene consumato (serie tv, cibo,
sessualità) non può essere relazionato all’alterità perché si annulla nel godimento
isolato e nullificante. In questo legame vi è il Bello: nel movimento di incontro verso
l’altro in cui ci si dimentica di sé si genera bellezza.

Dal libri di Gianrico Carofiglio, La nuova manipolazione delle parole


Tocca (inconsapevolmente) la filosofia confuciana del 正名 zheng ming, della rettifica
delle parole: per purificare il pensiero serve pensare, ripensare, soppesare le parole,
i nomi. Nel capitolo 9 Carofiglio tratta della Bellezza, in relazione all’Etica.

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