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Citazione che non c’entra con il tema del corso, ma con la modalità, il tempo che
stiamo vivendo, da Saggi e discorsi di Heidegger - incipit:
“Tutte le distanze nel tempo e nello spazio si accorciano…”
https://monoskop.org/images/6/63/Heidegger_Martin_1976_La_cosa.pdf
Considerazione su vicinanza e lontananza
Aggettivo sostantivato che deriva dal greco aisthesis (percezione, sensazione, che
non sono la stessa cosa). La sensazione è l’atto irriflesso, reazione di un corpo allo
stimolo; percezione è reazione immediata a uno stimolo sensoriale più la
consapevolezza della percezione stessa. Aesthesis copre l’aspetto semantico.
Aestetic è l’aggettivo che non si ritrova in greco: l’Estetica come disciplina è
un’invenzione recente (metà del Settecento); Platone comunque tocca dei temi legati
all’Estetica, che trova una prima sistemazione in Aristotele, il quale comunque non
parla di Estetica, ma distingue tra Filosofia e ProtoFilosofia (analogo a Teologia). Il
termine nasce con Baumgartner e il suo primo trattato intitolato Aestetica, definita
gnoseologia inférior perché meno potente della gnoseologia in senso stretto, che
riguarda la conoscenza oltre, e legata ai sensi, che sono fallaci.
Prima ancora di arrivare alla storia dell’Estetica: cosa vuol dire occuparsi di Estetica,
indipendentemente dalla storia? L’Estetica è la Filosofia che prende sul serio il fatto
che siamo corpi, cosa accade al pensiero quando cerchiamo la Verità prendendo sul
serio le sensazioni. La modernità inizia a comprendere anche il corpo e le sue
sensazioni nel discorso che arriva, o si associa, al trascendentale. L’Estetica ha a
che fare con l’esperire in quanto corpo.
Per lo stesso motivo (e per la mancanza di un verbo essere) gli orientali non hanno
la stessa nostra ossessione per la definizione, che tende a fissare qualcosa (‘Che
cos’è’); non avendo questa necessità di definizione, gli orientali propendono per
l’instradarsi, il prendere un passo nel movimento. Un movimento armonico e
incentrato sul sé, e che non tende come l’Occidente alla separazione tra me e l’altro
e la conseguente necessità di ‘gettare ponti’; gli orientali sono inclusivi per
predisposizione e pensiero.
I pensatori cinesi e giapponesi, tra gli anni Settanta e Ottanta, traducono e coniano
800 nuovi termini; in Giappone non esistevano termini come Scienza, Filosofia (哲学
Tetsugaku, Zhe xue) che non si tratta di una traduzione letterale, scompare la
dimensione dell’amore e del desiderio (filo). In Oriente dimensione filosofica e
religiosa si intrecciano, mentre in Occidente si distinguono (dal Medioevo in poi
almeno, quando alla fondazione della Sorbonne Filosofia e Teologia si
equiparavano).
Domanda:
il pensiero orientale non è monista o a-duale; alcune lo sono. Non c’è una netta e
distinta separazione. In analogia con Spinoza, materia e spirito sono due modi
diversi di esprimere la vita. Lo stesso Chi si concentra e diventa corpo, si rarefà e
diventa spirito. La sostanza è unica, i modi diversi. Altra cosa è la questione tra cose
e nomi: non esistono cose se non c’è una indicazione della cosa, che altrimenti
rimane un oggetto del mondo.
9/10 marzo
La nozione di Estetica, per Heidegger, aveva un senso molto limitato (per esempio).
Prima di arrivare ad alcune tappe fondamentali del percorso estetico, se si dovesse
suggerire una riflessione in merito ci porterebbe all’Estetica come area filosofica che
si interroga su cosa succede al pensiero quando comprendiamo la corporeità, nel
senso di avere un corpo ed essere un corpo. L’Estetica prende sul serio il fatto che
non siamo spiriti ma esseri incarnati.
Una Filosofia che non prende sul serio il reale lo mistifica. L’Estetica invece
considera la conoscenza reale quanto intellettuale passando per la sensorialità e la
percezione; è la Filosofia teoretica che tiene costantemente presente che facciamo
Filosofia perché abbiamo un corpo.
Il termine Estetica (Aesthetica, dal gr. Aesthesis, aggettivo Aesthetiké non
sostantivato) viene concepito oltre il Medioevo: ciononostante i predecessori di tale
periodo hanno trattato il Bello. Il termine nominale viene creato nel 1750 dal filosofo
tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten, che la definisce come gnoseologia inferior,
quindi più bassa perché meno importante della conoscenza pura, logica e teoretica,
e perché basilare, incentrata sui sensi e quindi più imprecisa; l’unica episteme
stabile era definita dalle questioni eterne. Tutto ciò che è legato alla percezione e ai
sensi dovrebbe restare ai margini della conoscenza filosofica perché non-vera.
L’Estetica è continuo porsi il dilemma di quale sia il confine tra il suo campo di
pensiero e quello di altre discipline. L’Arte per l’Estetica è un tema privilegiato: l’Arte
è un luogo esemplare (nel senso che fornisce esempi) di realizzazione in cui le
conoscenze estetiche e logiche si esibiscono in maniere particolarmente manifeste,
dove vi è una interpretazione della percezione della realtà. Arte pone una diversa
distanza e visione rispetto alla realtà.
Gran parte della produzione artistica viene inglobata in una dinamica economica
dell’Arte: studiare l’Estetica oggi ha senso nell’elaborazione di una capacità critica
più raffinata rispetto a questo flusso continuo di arte “industriale”, a fronte di una
“facilitazione” dell’assimilazione artistica. Si tratta di essere consapevoli delle scelte
che vengono fatte nella fruizione dell’arte a fronte di un’architettura proveniente
dall’esterno (i suggerimenti dei vari software).
Questo meccanismo è stato definito “individualizzazione di massa”, in quanto vi è
una mercificazione dell’individualità per i quali si producono dei singoli individui
identici tra loro. Ciò si ricollega al Gusto, alla capacità di ricezione e di giudizio delle
forme d’arte già trattato nel Settecento. Ad oggi si transita dal Gusto al Consumo,
dall’esercizio critico al consumismo, il quale tocca l’esteticità diffusa che tocca la
nostra sensibilità. L’Arte, in duplice accezione passivo-riflessiva, si consuma.
Dal sanscrito: la radice rta significa fare ordine. Da qui al latino ars e ritus, che hanno
quindi la stessa radice e vogliono entrambe portare un ordine.
Dal giapponese: il termine gei ricorda nel suo ideogramma lo spuntare di una pianta.
L’artista non produce arte nella sua volontà, bensì è un tramite per il quale germina il
nuovo
N.b. la distinzione che applica Platone al Bello distinto dall’Arte, la quale può essere
anche mimetica, quindi una riproduzione fittizia della realtà e quindi ingannatoria.
L’idea di Arte non può essere definita in modo univoco anche se tanti hanno tentato.
Arte è riproduzione di cose, o costruzione di forme, o espressione di esperienze per
cui l’effetto sia di meravigliare, scuotere, commuovere.
Questa è una buona definizione che lascia fuori una cosa importante: il pensiero e la
conoscenza. Riguarda quindi la sola sfera emotiva o si può correlare al campo
“scientifico”.
16/17/18 marzo
“Arte è tutto ciò che gli esseri umani hanno chiamato Arte”
Una definizione vuota e senza senso, che però definisce ciò che non si può
circoscrivere dell’arte. La definizione è di Dino Formaggio, professore dell’Università
di Padova e Milano. Ciò permette di comprendere non solo ciò che viene costruito
secondo una forma, ma anche una sua ridefinizione, per esempio prendendo un
oggetto comune e guardandolo da un diverso punto di vista (Marcel Duchamp e il
pisciatoio). Ciò si accompagna alla definizione già data relativa all’aumento di
conoscenza, non misurabile e comunque incrementabile, alle scosse emozionali,
alla riproduzione di esperienze.
L’Arte ha la prima “scissione” nel Cinquecento quando si distingue l’ars dalla techné
e si assume una serie di regole per concepire e produrre l’opera d’arte. Si inizia a
concepire e sviluppare un’Arte che risponda a un canone di bellezza. Questo si
dipana fino al Novecento, dove le opere abbandonano il canone della bellezza per
orientarsi verso la scossa emotiva, concependo anche il brutto come Arte.
La Forma di un corpo che si mette in scena può essere l’estrema propaggine di un
lungo esercizio: la Forma quindi è determinante per un’opera.
Ancora Tatarkiewicz definisce l’Arte in merito a un sentimento del piacere che non
necessita di possedere l’oggetto-opera d’arte. Si può per esempio apprezzare la
Nona di Beethoven senza voler possedere la partitura originale; è quindi un piacere
disinteressato. Al tempo stesso non è solo il piacere l’origine dell’esperienza
artistica: c’è anche una esigenza di voler fissare determinate esperienze, per
esempio scrivendo, prosa o poesia, per ritrovare una realtà interiore che può
prescindere dall’immagine di un pubblico. Si dà conto di un’esperienza
sovrasoggettiva che possa riguardare un soggetto (che si pone oltre) o un
avvenimento particolarmente importante per una comunità. Molto spesso soggettivo
e sovrasoggettivo si fondono insieme: il soggetto è particolarmente toccato da un
sentimento e lo eleva a universale. Solitamente ciò distingue un grande artista dal
resto.
L’Arte oggi è un concetto allo stato gassoso: sempre di più sembra difficile definirla.
Il Novecento ha reso difficile definire i confini di arte e autore, di museo. Siamo in
un’epoca in cui il mercato dell’Arte è uscito dalla logica museale e sembra si possa
esporre ovunque; al tempo stesso è aumentata esponenzialmente la popolazione
che vuole e vorrebbe vivere di Arte. Probabilmente non è neanche più possibile
scrivere Arte con la A maiuscola. Siamo abituati a pensare al grande artista come a
un emarginato della società che riesce a cogliere delle linee di forza e ne manifesta
la verità immanente e universale. Oggi non è più così: alla visione sacrale della
trascendenza e dello spirituale vi è una dimensione più popolare, comune e
commerciale, dove gli artisti sono incarnati nelle logiche di mercato. La visione
romantica dell’artista libero si è disciolta negli ultimi cinquanta/sessant’anni
all’interno della società.
La Bellezza non è mai esaurita in un’opera. Il Bello continua a richiamare altro Bello.
Sempre Tatarkiewicz presenta diverse definizione di bellezza, così come per l’Arte.
Tra le altre, una che fonda le radici nel pensiero pitagorico è “l’armonia tra le parti, la
loro corrispondenza”, la simmetria e la proporzione. Fino all’Ottocento questa
definizione dura, anche se non è l’unica. Plotino criticò questa definizione, pensando
non al mondo greco ma ai colori, o a una immediatezza data dalla natura nella loro
unità inscindibile: la bellezza come perfezione o riflesso di una dimensione sovra
sensibile. Un’altra definizione può concernere l’adeguatezza di un soggetto alla sua
dimensione intima: per esempio, un dipinto di un cadavere può essere definito bello
perché ricollega a una dimensione appunto intima di un soggetto o della vita.
La definizione di Kant nella terza Critica cita “Bello è ciò che piace universalmente,
senza concetto”: la definizione toglie la soggettività per una pretesa di universalità
ma non dispone di un concetto. A differenza di un giudizio etico o scientifico o logico
non vi è una dimostrazione del bello. Si possono addurre motivazioni ma non
argomentazioni volte a certificare qualcosa come bello.
Il tema del Bello giunge nel Novecento ad essere messo in secondo piano rispetto
all’Arte, anche se viene comunque trattato slegato dal suo legame artistico.
Dall’antichità alla modernità vi è una progressiva soggettivizzazione del Bello; da
una concezione oggettiva del Bello alla soggettività. Kant cerca di comporre un
bilanciamento, ma la modernità sbilancia sulla soggettività del fruitore che
percepisce la Bellezza.
Dal concetto di Bellezza si passa al concetto di Forma, dal greco morphé intesa
come contorno o sagoma e eidos intesa come essenza, forma in senso stretto dove
risuona la radice id., vedere. Per Platone la Forma è un concetto anche ideale e
invisibile, in cui vi è un’armonia. Da un lato la Forma è ciò che si presenta ai sensi,
dall’altra un’essenza concettuale. La Forma è qualcosa che ci fa transitare dal
sensibile al sovrasensibile.
energetico-simbolica”. Lasciare dei segni per saldare un debito con i segni lasciati
dai nostri predecessori e che siamo condannati a lasciare in quanto essere morenti.
24/25 marzo
Premessa sul modo in cui vengono letti i testi: un esempio può essere la lettura
filologica, un altro, che è quello che ci interessa, sono i problemi teoretici che
vengono affrontati da questi testi e il cui tema ancora si ripropone come argomento
di dibattito e di discussione.
Inizieremo il nostro viaggio nel pensiero di Platone dall’Ippia Maggiore, attestato
come un dialogo della giovinezza, in cui quindi è ancora più all’interno del dibattito
che vorrebbe distinguere il pensiero platonico e quello socratico. È un dialogo
aporetico, il quale denota una difficoltà insormontabile e un problema irrisolto (in
greco lo sviluppo di un’aporia si dice diaporein). L’Ippia è interessante dal punto di
vista metodologico: Platone mostra il modo corretto in cui ragionare. Generalmente
in questi dialoghi il dibattito è tra Socrate e i sofisti; la grande questione non è solo
circoscrivere un argomento ma contrapporre il pensiero sofista (-commerciale e
competitivo) e quello socratico, la ricerca della Verità e l’utilità pratica del Sapere.
Dal punto di vista orientale, i sofisti praticano un jutsu, mentre Socrate insegna un do
(michi), una via. La Filosofia, soprattutto per Platone, non si misura in base alla mole
della conoscenza, ma trasforma il sé, è una pratica etica dello stare insieme.
Nei primi dialoghi Platone mostra il metodo - methodos, la “via che porta a”, che
nell’accezione socratica è definito come elenkticos, confutazione: attraverso una
reciproca confutazione per la quale in quattro si vede meglio che in due. La ricerca
attraverso questo metodo dialogico è orientata verso l’essenza delle cose; non si
richiedono esempi, ma la specificità del Bello (in questo caso), eidos e ousia, volte a
rispondere alla domanda fondamentale: Ti esti? Che cos’è?
Un’altra peculiarità di questi dialoghi è l’essere protrettico: un’esortazione quindi a
perseguire l’obiettivo anche se non trova risposta. L’Ippia può essere anche
prolettico, nel senso che anticipa un altro libro in cui si tratta lo stesso tema, ovvero il
Simposio.
Altro punto importante da tenere a mente: non riguarda solo la dimensione estetica
ma la relazione che kalos ha con la concezione di buono, to agathon, caratteristica
che permane nel greco moderno, che suggerisce un porsi a una perfezione etica.
Si passa dunque alla seconda risposta di Ippia: l’oro, in comparazione con le statue
di Fidia. La risposta non sussiste in quanto il concetto di Bello non dipende dal
materiale usato dalla scultura così dall’oggetto che serve in funzione di un altro
oggetto (l’esempio del mestolo d’oro e del mestolo di legno di fico), in una
concezione pratica del Bello (la funzionalità del Bello).
La terza definizione di Ippia, spazientito, verte sulla vita di un soggetto, ricco, sano e
onorato, sepolto dai suoi familiari con tutti gli onori. La definizione verte
sull’universalità del concetto ma dipendente dall’opinione di tutti e che potrebbe
essere confutabile in ogni momento, non da una essenza a sé stante e veramente
universale. Socrate (infatti) contrappone Achille e Ercole a questa risposta.
Inizia quindi [293e] la pars costruens di Socrate, dove si prepara a dare le sue
risposte attorno al Bello. Invoca il daimon, la sua anima consigliatrice (la quale di
solito indica cosa non fare), e propone come prima definizione di Bello ciò che è
conveniente, l’adeguato, l’acconcio, ciò che si adatta bene. Socrate mette in
discussione subito la sua definizione: il Bello è ciò che appare Bello, oppure quella
cosa che fa sì che ogni cosa sia Bella, o nessuna delle due? - qui prende in causa
uno dei grandi temi della Grecia, la contrapposizione tra l’Essere e l’Apparire. Si
giunge alla questione sull’universalità del Bello e sulla sua fondazione ontologica -
cosa che gli orientali non potrebbero fare per la mancanza del verbo Essere. La
questione del Bello comprende anche la funzionalità, di una legge o di una attività,
che adeguate alla situazione sono Belle.
Forse però la convenienza non è la risposta più adatta, dato che questa necessita di
essere riconosciuta e quindi può non apparire ai più. La seconda definizione verte
quindi sull’Utile, intesa come via e mezzo per raggiungere la perfezione. La
confutazione di questa definizione si muove sul potere (la capacità) di fare o non fare
qualcosa, e la capacità intesa come innata e che dovrebbe essere via della
perfezione: ciò non accade (quasi mai). Né la capacità né l’Utilità sono la via del
Bello; si potrebbe pensare sul piano del Vantaggioso, che produce il Bene. Ma il
Bene in quanto causa non può essere causa di sé stesso.
La terza definizione allora giunge ai sensi per eccellenza che determinano piacere
estetico e conoscenza: l’udito e la vista. Socrate mostra la difficoltà e l’ambiguità
della concezione “e”: devono essere presenti entrambi o solo per uno dei due. La
cosa sembra abbastanza capziosa, ma serve a Socrate per portare Ippia in un altro
baratro, ovvero la vicinanza concettuale di esperienze diverse che danno sensazioni
diverse. Si tratta di un esercizio logico di et…et per imparare ad argomentare bene.
30/31/1 marzo-aprile
Dal latino ob-jectum, gettato contro, possiamo ritenere che qualcosa come il
cambiamento climatico sia un oggetto di cui fare esperienza poiché un ‘ritaglio di
mondo’ di cui facciamo esperienza. Magari sarà un’esperienza parziale, poiché non
possiamo esperire tutto il cambiamento climatico ma una parte di esso.
Hermann Schmitz coniò il termine di Nuova fenomenologia (ci cui in Italia
l’esponente principale è Tonino Griffero, scrittore di Atmosferologia, dove definisce
l’atmosfera come un quasi-oggetto: non è un oggetto definito ma vi viviamo immersi,
ogni giorno. Vi è un’altra questione che può essere presa in esame nel libro di Jullien
Le trasformazioni silenziose in cui analizza secondo il pensiero cinese le
trasformazioni lente, di cui non ci rendiamo conto immediatamente ma
all’improvviso, dopo un periodo di ‘gestazione’.
Tornando all’Ippia
[304bc] Il dialogo si avvia alla conclusione con Socrate che continua a ‘adulare’ Ippia
mentre maledisce sé stesso, vittima di una sorte ‘demonica’. Rimane l’apertura
dialogica nell’ultimo monologo di Socrate, in cui continua ad alludere al suo sosia e
ai discorsi di Ippia, che non si legano al Bello perché non chiariscono cosa sia.
Simposio
Termine greco (tradotto anche in latino con Convivio) che significa letteralmente bere
insieme. La costruzione di Platone è anche in questo caso drammaturgica molto
raffinata, che procede da un fatto storico: Agatone, per festeggiare la propria vittoria
a un concorso di poesia, invita a casa sua sette amici per festeggiare. Stabiliscono
una gara: il migliore a pronunciare un discorso su Eros, amore erotico passionale
che sollecita un desiderio di unione con l’oggetto del desiderio.
Eros (Ἔρως) è mediatore, non un intermediario (trova punto di contatto tra i due
opposti) tra la dimensione del cosmo e dell’ideale. Permette a cosmos e all’eidos di
congiungersi, di stare insieme, non sovrapponendosi ma mantenendo un gioco di
polarità, differenza e interrelazione. Altra cosa interessante: la poesia per Platone è
strettamente erotica, e l’erotismo è un motore che permette all’essere umano di
muovere. Uno dei punti cardini del dialogo è l’essere mossi dalla mancanza, e il
compito più arduo di un maestro è di aprire dei vuoti. La mediazione tra cosmo e
idea avviene anche attraverso i corpi, e quindi anche l’Eros come mediatore e
trasmettitore di sapere (il che apre anche la questione della pederastia in senso
‘positivo’ del termine). La componente passionale è fondamentale
Prologo dell’opera
Come negli altri testi di Platone, vi è una sapienza narrativa oltre che filosofica.
Platone è consapevole del paradosso tra scrittura e oralità: per noi è comune
mescolare le due pratiche, mentre ai tempi Platone è un innovatore in questo senso.
Solo nel Novecento si è posta attenzione di nuovo alla distinzione tra il pensiero,
l’espressione orale e la sua scrittura. All’inizio del Simposio quindi Platone antepone
una sorta di prologo che funge da cornice dove Apollodoro si rivolge a chi lo ascolta
(o legge).
Nelle primissime battute viene inquadrato il tema principale del ritrovo e del libro,
ovvero la discussione che verte sull’Amore erotico, in cui chi chiama Apollodoro
chiede lui un flashback, un resoconto del Simposio. La riunione è avvenuta in un
tempo non recente. Apollodoro si rivela come allievo di Socrate da tre anni (non una
scuola formale, Socrate stava in piazza a discutere) e come filosofo, dopo un tempo
in cui si affaccendava senza soluzione di continuità. Il resoconto che ha di
quell’incontro gli è arrivato da Aristodemo, uno degli amanti più assidui di Socrate,
mentre la voce giunta all’interlocutore era di un altro soggetto, Fenice.
Il prologo si chiude con l’esortazione al racconto e Platone, che con la voce di
Apollodoro, fa alcune considerazioni (leggere il libro con attenzione per individuare i
suggerimenti metatestuali).
Subito all’inizio del racconto si pone l’argomento del Bello, con Socrate vestito bene
per raggiungere la casa di Agatone. Non solo: il concetto è reiterato.
Socrate invita Aristodemo al banchetto di Agatone, convincendolo, ma fatto questo si
allontana dallo stesso e lo lascia andare avanti da solo. Vi è qui il tema del maestro
che abbandona l’allievo, come un genitore che lascia la mano del figlio. Socrate è
senza luogo, non si trova, così come è o dovrebbe essere la Filosofia, che non trova
un collocamento specifico, a metà tra una Scienza e un Umanesimo.
Socrate sta pensando. Si è appartato nel vestibolo dei vicini poiché è stato colto da
un pensiero e si isola; Aristodemo esorta a non continuare a chiamarlo, spiegando
l’abitudine di Socrate. L’agire filosofico è una forma particolare del fare, una theoria,
avere una visione; si tratta di raccogliersi in sé stessi, lasciar essere questa visione e
contemplarla. È un diverso tipo di urgenza che porta il filosofo a scollegarsi con la
realtà, una sorta di ‘diverso sentire’, una sensibilità diversa propria del filosofo.
Socrate infine giunge a metà della cena. Agatone lo chiama a sé, in modo da godere
della sua sapienza che lo ha appena colto nel vestibolo del vicino. Socrate, usando
un’allusione che ricorda i vasi comunicanti, elogia ironicamente Agatone (ai limiti
dello sfacciato). Si tratta di capire di che tipo di sapienza stanno parlando: Socrate si
smarca dagli attributi dati da Agatone, che lo vuole localizzare in un topos,
suggerendogli un modo di aprirsi all’interno di sé e che potrebbe portarlo a una
sapienza anche maggiore. Si apre una delle grandi questioni filosofiche: si può
insegnare la filosofia? O da dove sgorga il pensiero corretto, la concettualità,
l’argomentazione?
6/7/8 aprile
I dialoghi iniziano da [178ab], con Fedro che inizia alle origine di Eros, le quali sono
sconosciute; riporta Esiodo e la Teogonia, con le genealogia di Caos. C’è un primo
suggerimento della correlazione tra Eros, Amore e Bellezza e del senso comunitario
legato all’ethos dato da questi. Solo un politico che ama, per esempio, può donarsi
integralmente alla comunità che deve amministrare; Amore ci fa fare le cose migliori,
mantiene la barra dritta, è base del benessere della persona. Fedro rammenta poi il
mito di Orfeo e Euridice paragonandola alla tragedia dell’Alcesti. Il discorso di Fedro
in sintesi, è encomiastico e a favore dell’Amore ideale, non finalizzato a una praticità
(Amore distinto tra ideale e matrimoniale).
Ricezione: shou
Erissimaco amplia il raggio d’azione di Eros dal suo punto di vista medico,
collocandolo in un ambito che si rifà a Empedocle, nella contrapposizione a Odio
come motori della physis basata sui quattro rhizomata. Ritorna poi alla dualità di
Afrodite e a menzionare in tal senso le muse, Urania e Polimnia, alla celestialità e
alla volgarità. È importante che Eros non vada a stravolgere il cosmos, l’ordine.
Ciò rimanda a una concezione di tempo orientale, in cui questo viene concepito dal
punto di vista qualitativo, non cronologico ma in una armonia di opposti in cui si
susseguono le alternanze che nella loro espressione non sono mai l’uno uguale
all’altro. Erissimaco intende Eros nel senso naturalistico; nessuno tra chi parla mette
in dubbio la potenza di Eros e la sua forza propulsiva.
Torna quindi la parola a Aristofane, il cui singhiozzo è passato grazie a uno starnuto;
vi è un’implicita attenzione di Platone al corpo, alla fisiologia. Il suo discorso parte
propria dalla potenza incompresa dagli Uomini di Eros, e prepara il discorso al mito
dell’androgino; l’uso del mito da parte di Platone sembra un retaggio proveniente
dalla filosofia presocratica, il quale mostra la dicotomia tra logos e mythos, tra
discorso ragionato e parola narrativa, riconoscendo una specificità per ogni tipo di
linguaggio, sia esso fonetico, grammaticale, artistico o modale. Il mito è qualcosa
che riguarda la verità che non riguarda la strada della techne e della conoscenza,
bensì nella dimensione poetica: Platone lo riporta appunto per porlo paritetico
all’esercizio logico-argomentativo.
[194e] È l’inizio del discorso di Agatone, il quale sposta dal punto di vista
metodologico la dissertazione su Eros, definita da Aristofane come “tensione verso
l’unità”. In generale, un buon elogio è fatto di una buona argomentazione che indichi
cos’è e cosa produce il soggetto in questione. Inizia quindi ad analizzare i discorsi
dei suoi predecessori: non ritiene come Fedro che Eros sia più antico di Caos, ma
anzi sia il più giovane delle divinità; inerisce inoltre a quali sono le facoltà di Eros.
In questi primi 5 discorsi si è toccato molto poco l’argomento del Bello. Sarà Socrate
a introdurre l’argomento, dopo il discorso di Agatone, introducendosi con la consueta
ironia nei confronti del padrone di casa.
[198d] Socrate mette in campo la verità, sostenendo che i discorsi sentiti non hanno
detto la verità ma hanno portato degli esempi e dei racconti che non definiscono
cos’è Eros (e cos’è il Bello). Non elogia come gli altri, ma prova a dire il suo vero:
mette a confronto la retorica con la verità nel senso di liberazione.
Il discorso verte poi sul riportare il discorso di Diotima da parte di Socrate, che gli
insegnò chi fosse Eros, fuori dalla visione della divinità potente. Un ‘posto’ di
partenza è che, se Eros non è Bello e Buono, non significa sia brutto e cattivo. Nella
dissertazione tra illuminazione e ignoranza, sapere e non sapere, passa il concetto
di metaxu, della via di mezzo, dell’equilibrio tra i due poli. L’essere umano è prodotto
dalla via di mezzo, è una tensione tra la volgarità e la divinità. Eros non è un dio: dio
è tale in quanto bello e buono, beato; se Eros tende a queste cose e non è bello e
buono, allora non è un dio, che non significa sia mortale: ancora la metaxu. Secondo
Diotima, Eros è un daimon, in quanto ciò che è demonico è intermedio tra dio e
mortale.
13/14 aprile
Il Bello è ciò che permette quindi il passaggio dal corpo all’anima. Il possesso di una
tale esperienza, “erotica”, vorrebbe dire troncare questo flusso, questo passaggio,
questa vita che corre da un polo all’altro.
Nel mondo cinese l’Amore è visto come una inclinazione, basata su una logica
polare di yin e yang, di vicinanza e lontananza, di affetto e di disinteresse. Non vi è
un concetto di ‘vuoto’ verso cui muoversi. A livello platonico rimane una tensione
essenziale per la Filosofia, per la ricerca, e la Bellezza è il sentimento che estrae la
sensibilità per porla su un sovralivello.
[204ab] dal discorso di Diotima (Socrate) è la virtù del metaxu, la via di mezzo, dove
poi sottolinea l’importanza di essere amanti, piuttosto che di essere amati. Al [205e]
Diotima afferma che l’Amore non è della metà né dell’intero. Il Bello è un tramite per
il quale l’Intelletto, vedendo in maniera armoniosa il mondo, riesce a comprendere
diversamente l’etica di sé, degli altri e del mondo, e a eludere il male (o il pensare
male). Eros è una tendenza a ciò, e non un possesso (vedi le righe precedenti), un
essere fecondo nei corpi e nelle anime, non nel senso prettamente fisico del termine
ma anche spirituale. Fecondare mette in contatto esseri mortali a un momento, un
qualcosa che ha dell’immortalità; la Bellezza espande le nostre qualità, mentre la
Bruttezza fa sì (o è sintomo) di un chiudersi dentro di sé, trattiene le potenzialità.
[209a] Diotima si riferisce alle fecondità dell’anima: ogni essere umano è in grado di
essere gravido e di partorire, di generare grazie a certi tipi di incontri e di esperienze.
La Bellezza prende il sopravvento grazie al discorso di Diotima: si descrive una
scala, una crescita progressiva e diversificata di ciò è Amore che non concerne il
possesso.
Nel [211a] vi è la dichiarazione di intenti di Socrate su come intenda il Bello e le sue
conseguenze.
[222c] All’epilogo rimane un triangolo amoroso, sul far della notte (rimanere svegli
per la ricerca) composto da Socrate, Agatone e Aristofane. Socrate tenta di
convincerli dell’ambivalenza di comicità e tragedia, entrambi prodotti dall’uomo. Una
volta addormentati, Socrate li lascia e il testo si chiude.
Il Bello è quindi al centro di questi dialoghi; riveste una sorta di ruolo cardine e di
mediazione tra il sensibile e sovrasensibile.
20/21/22 aprile
Tornando al mondo cinese, vi sono una serie di termini interessanti per quanto
riguarda i giudizi e le classificazioni in ambito estetico; non esiste un termine per
‘giudizio’, bensì degli ideogrammi per pin, ‘classificare, organizzare’ e weiwan,
‘gusto, assaporamento, degustazione’. Trattati estetici in Cina risalgono già dal 3°
secolo, dove ci si orienta verso le pratiche artistiche principali: calligrafia, poesia e
pittura, intersecati l’uno all’altro. L’idea di una pittura artistica nel mondo orientale
non deve illudere tanto da ‘sembrare una fotografia’: ciò che interessa è far sentire e
provare la vitalità di una immagine (xiang - che significa anche fenomeno), ovvero il
paesaggio in cui ci muoviamo e la sua forza spirituale, mentre in Platone vi è una
continua distinzione di piani; tutto è immagine e fenomeno. Anche nell’immagine è
presente il chi, qi, l’energia che condensa e evapora senza differenze ontologiche.
Nell’estetica orientale vi è sempre un dinamismo, un movimento tra l’essere e il non
essere e un’immersione nel paesaggio. La pittura orientale si muove secondo le tre
distanze: qualcosa in primo piano, qualcosa sullo sfondo e un vuoto mediano, uno
spazio in cui chi osserva è invitato a riempire con la propria immaginazione ciò che
rimane bianco. Talvolta viene usata la scrittura in primo piano, come una siepe
leopardiana, e sullo sfondo un’immagine: il nulla mediano diventa una sorta di
matrice.
Bambù, pino e pruno sono le tre piante principali della pittura orientale. Il bambù è
simbolo di flessibilità e crescendo in fretta permette al pittore di immaginare
agevolmente questo processo di crescita: ‘dipingere un bambù significa imparare a
crescere con esso’.
Libro della Via e della Virtù
Nel Daodejing vi è una citazione riferita all’immagine: La grande immagine non ha
forma, che mette in contrapposizione la forma definita occidentale e il flusso e
l’attualizzazione di energia orientale. Nel testo di Shitao in cui parla di pittura vi è una
vera e propria trattazione filosofica dove il punto di inizio è il tratto del segmento, che
richiama per il movimento che viene fatto con il pennello il simbolo di infinito; la
teoria è già nella pratica e dipende dalla teoria. Non c’è mai un opposto senza l’altro,
tanto nella teoria quanto ai movimenti per raggiungere la completezza.
I tre termini iniziali sono caratteristici dello Zen: il primo indica l’assenza di sé nel
momento in cui si realizza che il nostro Io è tale poiché sempre in relazione con
l’altro; una sorta di spoliazione dall’ego. Mushin è la condizione mentale perfetta per
la pratica Zen: è come uno specchio che riflette senza trattenere nulla, tanto
dall’oceano quanto da una goccia di rugiada.
Accenno alla nozione di Wabi-sabi, di cui si parla notoriamente nella cerimonia del tè
ma che espongono due significati distinti. Il termine Wabi si riferisce al tempo e alla
sobrietà, alla povertà e alla poco appariscenza. Sabi invece indica una bellezza
malinconica, sempre legata alla dinamica del tempo. Esempio di questo è il
Chashitsu (casa del tè), ovvero un’abitazione poco appariscente che si integra col
paesaggio, che va di pari passo con quella che è la cerimonia del tè, una sequenza
di gesti e di rituali che aspirano alla sobrietà e al tempo stesso alla raffinatezza
(almeno secondo la filosofia di Sen no Rikyu). La casa stessa è pensata per
coinvolgere tutti i sensi, per permettere di utilizzare l’udito o l’olfatto con l'ebollizione
dell’acqua e la sua infusione, con la stanza in penombra e la degustazione del tè.
Tutto ciò riguarda l’esperienza del bello: l’attenzione per ogni singola attimo della
cerimonia. Anche solo l’avvicinamento alla casa del tè è un viale di pietre sconnesse
per ‘obbligare’ all’attenzione in ogni passo. Seguono esempi di Washitsu, ovvero di
stanze giapponesi che rispecchiano determinati canoni e ruotano attorno alla
nozione di Wabi-sabi.
Per quanto riguarda la Pittura e la Calligrafia, nella storia vi è una sorta di rapporto di
continuità e rottura (taglio-continuità, kire-tsuzuki). Il caso della calligrafia è
emblematico nel rapporto di continuità e rottura in rapporto alla tradizione
occidentale, la quale nel Novecento diventa metro di paragone e di rilettura della
tradizione giapponese. Un altro tipo di corrente riguarda gli artisti che si distaccano
completamente dalla tradizione per affiliarsi molto di più all'astrattismo occidentale,
come per esempio il gruppo Gutai o la scuola Mono ha.
Manga
Termine che appare per la prima volta nel 1700; Hokusai nel 1800 attribuisce il
significato di appunti d’immagine. Letteralmente potrebbe essere tradotto con
‘immagini divaganti’, divertenti, svaganti. La prima attestazione di ‘fumetto’ risale al
1300, dove ci sono delle immagini che ‘parlano’. Vi è nel manga una dimensione
interculturale dall’Ottocento, merito di Charles Wirgman, che fonda a 30 anni a Tokyo
The Japan Punch, divenuta famosa con questo ibrido di schizzi
orientale-occidentale, la quale da adito a queste immagini Ponchi-e, 'immagini alla
punch’. C’è chi fece il percorso inverso, come Kitazawa Rakuten, che dopo un
viaggio in Europa divenne famoso in Giappone per il Tokyo Puck.
Inciso sugli occhi grandi: non è una ossessione per gli occhi grandi. Semplicemente,
gli occhi grandi permettono maggiore espressività e perché Osamu Tezuka, padre
dei manga, aveva in mente gli occhi di Topolino e Paperino, in quanto grande fan di
Walt Disney.
27/28/29 aprile
Estetica interculturale
Bernhard Waldenfels
Nozione di Ma 間
Significa ‘intervallo’, ‘fra’, ‘ritmo’, ‘durata’. Simboleggia una porta semi aperta.
Non si tratta di una nozione ontologica; sottolinea come la compresenza, tra una
continuità e una discontinuità, renda comprensibile due opposti: rumore e silenzio,
pieno e vuoto, luce e tenebra. È una parola sincategorematica, privilegiata nel
mondo orientale rispetto alle categorie occidentali.
Nozione di Ku 空
Esprime il concetto di vuoto (si legge sora quando intende il cielo) e in combinazione
con Ma sta a indicare lo spazio, poiché ‘tra i vuoti’.
4/5/6 maggio
Termini tecnici:
Taoismo - termine -ismo occidentale che riflettono parzialmente e rigidamente la
pluralità di scuole e esperienze - fa parte dei tre insegnamenti che non vive in
antitesi con le altre (come nelle religioni occidentali) e si accompagna al
Confucianesimo, ovvero lo studio dei letterati e degli intellettuali che si riferiscono a
Confucio ma che per certi versi attingono anche a fonti precedenti per trasmettere i
classici e la sapienza del passato (così come Confucio - nome latinizzato da 'scuola
del maestre Non). Ultimo, arrivo dopo 400 anni circa il Buddismo, legandosi al
Taoismo; dal XII al XVII secolo vi è un'ampia traduzione dal sanscrito al cinese, e si
sposta poi verso il Giappone. Il Buddismo si radica più in oriente che non in India,
dove prevale l'Indù. Una delle scuole più importanti, la Mahaiana, si radica in
Giappone, Cina e Corea.
Questi tre assi si integrano (tendenzialmente); restando sul Tao ci sono tre testi
fondamentali (fruibili da chi sa leggere, rendendo riti e cerimonie orali predominanti a
discapito della filosofia lasciata ai ricchi) scritti tra IV e II secolo avanti Cristo -
cercare i tre testi: Daodejing (breve e poetico, assimilabile a Omero) Chuan e Lez,
più distesi e filosofici. Il primo indica già una direzione e esprime qualcosa sulla
Bellezza di fondamentale
Prima riga: Il Tao che può essere espresso non è quello autentico.
Il nome che può essere detto non è il nome vero, stabile.
Tao, via, è traducibile come ‘strada, metodo, via’ che contraddistingue metodi e modi
di fare, tanto “artigianali” quanto “teorici”. Non si tratta di un principio secondo la
nozione greca; in un certo modo, è il modello per il quale il reale si conforma, così
come il fiume nell’alveo. Il Tao è immanente agli elementi, non è trascendente: si
avvicina al concetto di sostanza spinoziana. Non incontriamo mai la Sostanza nella
sua totalità (come il Tao), ne incontriamo i particolari, l’ambiente che ci circonda, le
persone, le loro esteticità: siamo nella Sostanza quanto nel Tao, dobbiamo imparare
a muoverci in armonia con esso nel diagramma del taiji, il taiji, (le due estremità del
tetto), ovvero lo Yin e lo Yang. È importante partire dal Taoismo per questo motivo,
per la concezione delle due estremità che si compresenziano e si marcano per la
loro compresenza tra luce e buio, pieno e vuoto. Non si tratta solo di polemos o
dell’heideggeriano auseinandersetzung: è un intreccio, un riconoscimento l’uno
nell’altro, movimento e dinamismo. Tendenzialmente si dice che Yin sia il femminile e
Yang il maschile: nella vita di un essere umano, si comincia Yin per arrivare allo
Yang e tornare allo Yin.
concetto di Wu wei
“Non agire affinché nulla resti di non fatto”
È la più completa idea del non agire, l’azione più efficace per lasciare nulla di non
fatto, che non ha un soggetto protagonista evidente. Si ha bellezza, in questo senso,
quando ciò avviene senza sforzo, con naturalezza. Nello sport, per esempio, il gesto
atletico esteticamente perfetto avviene senza ‘apparente’ sforzo, dopo anni e anni di
allenamento, in cui hanno imparato a far fluire l’azione senza sforzo o pensiero.
Bisogna studiare anni e anni per imparare a non fare nulla, lungi dall’eroismo
macista o dal proattivismo esasperato dell’Occidente. Il vero saggio sa sfruttare le
pieghe di ciò che arriva: questa è la non-azione dei Wu wei.
Lo Yin e lo Yang si ‘complica’ nelle sue cinque fasi: terra fuoco legno acqua e
metallo, in un rapporto di dissoluzione e di generazione tra loro (tentare di descrivere
le frasi partendo dall’acqua: l’acqua spegne il fuoco, il fuoco fonde il metallo, il
metallo taglia il legno, il legno rompe la terra e la terra assorbe l’acqua). Il corpo è a
sua volta un paesaggio, a suo modo in movimento di ri-formazione. Questo
movimento viene mantenuto nella vitalità del qi grazie al kung-fu, per esempio, così
come avviene nel Feng shui per l’armonia dei paesaggi e delle costruzioni.
Buddhismo
Nel V-VI secolo il patriarca Bodhidharma (in cinese Ta Mo, in giapponese Daruma)
porta nell’estremo oriente la filosofia del Buddha, dando poi la possibilità allo Zen
(Giappone, XII-XIII secolo) di svilupparsi. Tra questi sei secoli, grazie ai due monaci
Eisai (Rinzai) e Dogen (Soto) prendono piede queste due filosofie Zen.
‘Via di mezzo’ è l’espressione che solitamente esprime la filosofia del Buddha, tra
l’estrema mortificazione e l’estremo piacere. Anche nel mondo buddhista vi sono
diverse vie per raggiungere l’illuminazione; queste non si escludono (così come in
Occidente) ma coesistono. Da un lato l’illuminazione viene attraverso il Buddha,
dall’altro come nello Zen anche il Buddha può essere un ostacolo e la via dipende
solo da sé.
Il termine Buddhismo viene dalla parola Buddhadharma - “dottrina, insegnamenti del
Buddha”, che significa “il Risvegliato”. Il soggetto in questione è conosciuto come
Siddharta Gautama, un principe della seconda casta indiana (guerrieri) che cresce
nell’abbondanza e nella protezione paterna finché non esce dalle proprietà familiari
per scoprire l’esistenza del male e del dolore. A 29 anni abbandona la famiglia per
addentrarsi nella foresta (antitesi urbana) per ritirarsi in meditazione. Per sei anni si
dedica a pratiche ascetiche (V sec. a.C.): ne prova svariati finché non intuisce che
nessuna di queste salvano dal dolore (non solo corporeo, ma ontologico). Inizia il
suo percorso di insegnamento a 35 anni, insieme ai suoi compagni.
Buddha non lasciò nulla di scritto, così come Gesù o Socrate. Sono i discepoli a
raccogliere migliaia di pagina divise in tre cesti (pitaka):
- Sutta
- Vinaya
- Abhidhamma
Vi sono tre principali scuole o correnti di insegnamenti del Buddha:
- Theravada (o Hinayana)
- Mahayana, vogliono essere più inclusive e non considerano necessaria la vita
monastica. Sono ancora presenti dinamiche hindu, che considerano il
percorso della salvezza nelle reincarnazioni, le quali sfociano nella più alta
forma di vita prima del divino nell’essere maschio. Questi inaugurano la figura
del bodhisattva, un risveglio che non prevede l’entrata nel Nirvana finché non
vi è la liberazione di tutti.
- Vajrayana, definita oggi come buddhismo tibetano (figura del Dalai Lama)
Il Buddhismo si costruisce intorno ai tre gioielli:
- Il Buddha storico, precursore che ha anticipato altre migliaia di buddha
coperte dalla cenere dell’ignoranza. Buddha non è un dio o un profeta: è un
profeta che propone la sua esperienza ad altri esseri umani, senza precludere
le pratiche altrui
- Buddhadharma, ovvero gli insegnamenti (e l’esempio del Buddha)
- Il Sangha, ovvero la comunità, la comunione tra gli altri la cui massima
espressione è universale. L’idea di ecclesia latina viene ‘esplosa’ a ogni
essere vivente e religioso
n.b. Per quanto riguarda gli abiti, l’idea predominante è che le vesti possano essere
combinati e assemblati tra loro
Buddha non si propone come un dio ma come essere umano; nel sutta presente
nelle slide è lo stesso Buddha che porta a decostruire qualsiasi preconcetto, anche
sé stesso, per arrivare alla sperimentazione soggettiva di ogni cosa e alla
valutazione buona o cattiva.
Le quattro nobili verità sono legate ai quattro passaggi di diagnosi, eziologia (causa),
prognosi e cura.
Parte diagnostica
1. La vita è inevitabilmente connessa al dolore
2. L’origine del dolore è dettato dall’attaccamento al desiderio smodato di un ego
che vuole mantenere la sua condizione di agio o di allontanare il prima
possibile il disagio, portando sempre a una proiezione futura
Parte terapica
3. Esiste una via per la cessazione del dolore
4. La via è costituita dall’ottuplice sentiero, che porta al Nirvana (estinzione del
dolore), che porta all’idea che ci sia un ego autosufficiente portatore di dolore.
Una sorta di pratica che porta all’alleviamento del dolore e che possiamo
comprendere, nella nostra lingua, con la mindfullness
L’effetto ultimo della pratica buddhista è la salvezza: ma non si tratta di una salvezza
egocentrica del sé, piuttosto di una salvezza dal sé, un ritorno all’unione.
Raffigurazione che risale al XIII secolo; la prima tappa, incipit del movimento, è
mettersi alla ricerca del Bue poiché si sente che manca qualcosa, c’è una condizione
di insoddisfazione (motivo per il quale nei manga solitamente il protagonista è
orfano). Nella seconda tappa si iniziano a scorgere le orme, e ci indicano che siamo
nella strada giusta e rassicura sul fatto che la prima tappa non sia frutto di pazzia. La
fede relegata alla ricerca è fondata; tutto ciò denota che il Bue, prima, fosse
presente: una sorta di ‘illuminazione’ precorritrice ma che serve di una ricerca per
poter afferrare che era sempre stata lì. Nella terza immagine vi è la percezione del
Bue: si inizia a scorgere, la meta sembra raggiunta; nella quarta il Bue viene
afferrato (con fatica), bisogna riaddomesticarlo. Il Bue viene pacificato nella quinta
immagine; per certi versi può sembrare un compimento, ma in realtà siamo solo a
metà del percorso. Si continua nella sesta immagine con una sorta di riunione tra il
domatore e il Bue: l’animale viene cavalcato, si diventa tutt'uno con l’esperienza. Nel
settimo momento il Bue esce di scena dopo sole quattro apparizioni: l’animale
trascende. Non ci si aggrappa al suo ritorno ma si lascia andare l’esperienza fatta, si
indica la libertà. L’ottava immagine era probabilmente in antichità la fine del
percorso: anche il domatore trascende. Rimane il vuoto dato dalla trascendenza
dell’illuminazione e del sé; niente può essere trattenuto. Con l’ottava, la nona e la
decima sono tre aspetti della stessa dimensione raggiunta: l’energia rimasta
contribuisce al ritorno alla sorgente della vita o a un ritorno nella società, per
condividere e indicare la via dell’illuminazione. Si scopre che la vita è la meta e la
meta è la vita: tutta la ricerca è il punto finale.
11/12/13 maggio
Haiku
Furuike ya
kawazu tobikomu
mizo no oto
Vecchio stagno
una rana si tuffa
un suono d’acqua
Teatro No e Buto
Esempio di estetica che mette in relazione il corpo e il vuoto. Una delle sue
caratteristiche è lo svolgimento a scena aperta in un gioco di luci e ombre, che non
mostrino una chiara divisione tra platea e palco per ‘condividere’ l’esperienza. La
scena è spoglia e una parte è dipinta. Spesso vi è una passerella che porta dal fuori
al dentro e poi un palco.
Il teatro consueto giapponese è il teatro kabuki, assimilabile per certi versi alla
Commedia dell’arte; non hanno maschere ma i volti sono dipinti, dura per delle ore e
tendenzialmente è umoristico. Il Giappone ha tenuto più intrecciati piani artistici che
l’Occidente ha teso a distinguere. Dal punto di vista delle prestazione dell’attore,
Zeami, vissuto nel 1300 circa, si può paragonare al ‘nostro’ Shakespeare; fu anche
teorico dell’arte e canonizzò certe dinamiche: la stilizzazione del gesto per ridurlo
all’essenziale, la depurazione dell’ego attoriale per lasciare lo spazio al personaggio.
Nel caso del teatro No, la maschera elide la personalità soggettiva dell’attore e
servono a rendere riconoscibile le forme; a sua volta, vi sono i maestri di maschere,
coloro che le costruiscono in una sorta di mise en abyme artistico. Un’arte raffinata
che consente, per esempio, a variare l’espressione della maschera dall’inclinazione
del volto.
Questa riduzione si trova anche nel teatro-danza del Butoh, codificato negli anni
Settanta da Hijikata Tatsumi e Ono Kazuo, che mettendo insieme il teatro
giapponese e il teatro d’avanguardia occidentale è a metà tra teatro di
improvvisazione, danza, coreografia. La componente interpretativa è molto forte;
spesso la pratica e l’esercizio diventano una forma continua di arte-terapia, le
movenze producono emozioni, scoppi e deflagrazioni emozionali.
Il primo termine che lo definisce è teatro della tenebre (ankoku butoh): solitamente si
va in scena dipinti di bianco su sfondo nero. L’idea è di riuscire a far muovere il
corpo come se non fosse il soggetto a farlo muovere (sottrazione di Io); imparare a
sentire il vuoto. Non esiste l’esperienza di X o Y, bensì il sentimento che si proietta
tramite i corpi dei figuranti nei movimenti nati dalla loro spontaneità.
Nishida Kitaro
Ryosuke Ohashi
Focalizzazione su alcuni passaggi del libro di Ohashi che sarà tema di esame, in
particolare sul concetto di taglio-dis/continuità (kire tsuzuki) praticato nella
composizione degli Haiku e nella parola che taglia il componimento (kireji).
Il concetto di taglio parte da una universalizzazione concettuale nel quale possiamo
(ovviamente) osservare casi ed eccezioni che confermano linee di tendenze e
orizzonti prospettici che denotano la qualità del pensiero. Il concetto non elimina le
differenze interne: vi è una coerenza di fondo in ogni filosofia con all’interno delle
vaghezze.
Ohashi parla di kire come di una struttura di fondo, anche inconsapevole, della
produzione artistica che aiuta a capire più tradizioni e più opere, seppur distinte. Il
libro fa riferimento anche a un fatto di cronaca (il suicidio di Mishima, critico
nell’occidentalizzazione giapponese) per esplorare il concetto di taglio e di continuità
della tradizione giapponese, di una soglia da oltrepassare e di riti di passaggio come
‘tagli’ in continuità della vita.
Già nella prefazione Ohashi parte dalla nozione di kireji citando l’haiku della Rana
nello stagno: una prima lettura sarebbe la banale descrizione dell’evento. Ogni
evento però è unico, irripetibile, che si dà una sola volta nel mondo (e si scontra con
la continua archiviazione di eventi propria del nostro tempo). L’interruzione, per
quanto banale, del flusso è un momento poetico. Ciò si collega al termine latino
contemplatio, pratica degli àuguri romani che ritagliavano una porzione di cielo per
osservarlo (e quindi contemplare e ritagliare vanno di pari passo nella poesia, dove
si ritaglia uno spazio e un tempo e lo si contempla).
Il primo capitolo parla del teatro No di Zeami: il fiore antico a cui tende Zeami,
essenza poetica del teatro, è qualcosa che non si limita alla figura romantica ma
trasmette metamorfosi (nell’ideogramma: radicale della pianta a cui sottende
l’ideogramma della trasformazione). Mettendovi a fianco la nozione di wabi-sabi,
appare in filigrana il Tempo che diventa bellezza, il suo fluire, in contrapposizione
all’occidentale ricerca della forma che va al di là del tempo. Nella sezione sulla
Osservazione mimica, Ohashi riferisce come Zeami tentò di ricopiare i movimenti di
uomini e donne, giovani e vecchi, per elevare il gesto a forma (concetto di manabu,
di studio ‘imitatorio’) ed elevarlo a kata, raffinazione e istituzionalizzazione del gesto,
in modo che appaia nella sua profondità. Il grande gesto artistico, in questo senso, è
‘recitare’ (per esempio) con grande naturalezza ritagliando gesti quotidiani e
portandoli alla loro profondità. Una nuova vita che sorge dal kire.
Sulla domanda del kire tra volontarismo, forzatura e seguire il flusso: la volontà e la
scelta sono l’istante in cui l’individuo decide e sceglie: da quel momento in poi l’Io
dovrebbe tendere a sciogliere sé stesso nella decisione e nella scelta, fare spazio
dentro di sé togliendo il proprio ego e lasciando entrare la via che ha intrapreso
(domanda posta prendendo ad esempio The Matrix - l’arrivo alla Sorgente).
18/19 maggio
Il quinto capitolo del libro, dedicato a Mishima, si orienta verso l’esperienza della
morte. Mishima voleva rifarsi all’Estetica decadente alla Oscar Wilde; Ohashi non
parla della sua letteratura ma del tempo della morte di Mishima, ripercorre le tappe
degli ultimi anni. Il taglio ritorna in questo tema nella veste del seppuku praticato
dallo scrittore per darsi la morte: un gesto di protesta dove il taglio del ventre
vorrebbe tagliare la patina occidentale che oscura la visione nipponica alla propria
tradizione. La morte si fa massima espressione dell’alterità: Ohashi vuole mostrare
l’indissolubile relazione tra le alterità e gli opposti; secondo Ohashi, Mishima non ha
sopportato la tensione tra vita e morte, tra Bellezza e non-Bellezza. Ha in un certo
modo cercato il suo kata trovandolo nella morte.