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IL METODO MORFOLOGICO: UN CONFRONTO TRA GOETHE E

WITTGENSTEIN

Guglielmo Guglielmelli Matricola: 355811 Unipr

1. Abstract

All'inizio degli anni Trenta del Novecento, Wittgenstein si rese conto che la teorizzazione
dell’analisi logica-proposizionale del Tractatus logico-philosophicus era «indifendibile»1. Suddetta
nozione, che in un secondo periodo viene denunciata, si risolve in una metamorfosi del pensiero del
filosofo austriaco, in una sua vera e propria metanoia. In questa fase di allontanamento, comincia a
riferirsi criticamente al Tractatus, luogo che, secondo l’autore stesso, fu viziato da un atteggiamento
filosofico eccessivamente dogmatico. In questo senso, siffatto momento di presa di distanza del
filosofo dalla sua precedente teorizzazione viene definita dagli interpreti “secondo Wittgenstein”.
Il presente lavoro costituisce il tentativo di comprendere e delineare la relazione che sottostà e
intercorre tra il metodo morfologico del “secondo Wittgenstein”, in particolar modo il Wittgenstein
delle Ricerche filosofiche, e la teoria morfologica di Johann Wolfgang von Goethe espressa nel
saggio La metamorfosi delle piante.

2. Goethe

La riflessione di Goethe sulla morfologia ha origine dai suoi studi di botanica e di zoologia. Il
termine morfologia apparve in modo inedito nella storia del pensiero occidentale proprio grazie a
Goethe che, similmente a Wittgenstein, se ne avvalse come strumento metodologico ed operativo
attraverso il quale investigare e inquisire il vivente. Il metodo, basandosi sull’osservazione e sulla
percezione diretta dei fenomeni mediante i cinque sensi, permetterebbe di ottenere risposte a quesiti
senza dover far ricorso ad un trascendentalismo di stampo kantiano o di carattere platonico,
evitando dunque la presa in causa di un mondo iperuranico situato al di là dell’esperienza sensibile.
Così facendo, non ci si baserà più sul porre un’essenza auto-celantesi e auto-nascondentesi coglibile
unilateralmente con l’intelletto intellegibile o mediante uno schematismo categoriale, il che
compete esclusivamente ad un Io trascendentale dettante le condizioni di esistenza dell’Io empirico.
1
Diego Marconi, Guida a Wittgenstein, cap. II Transizione, p. 65.
Secondo Goethe, la causa dell’apparire fenomenico non è un alcunché di leggendario e di mistico,
un al-di-là invisibile, bensì qualcosa che appare, che si manifesta, che è visibile e assolutamente ed
eminentemente osservabile: è la forma esteriore ed esterna del vivente con le sue infinite
configurazioni che appaiono essere causa ed effetto di sé medesima e del soggetto di cui è forma.
Qui sta la verità per Goethe: nel suo apparire estrinseco e mutevole, nel suo schönen Shein2. Tale
attitudine conoscitiva è tipica dell’uomo il quale, come sostiene Adolf Portmann, è nato per vedere.
L’autore de La metamorfosi, grazie ai suoi studi di fisiognomica con Johann Kasper Lavater, iniziò
a interessarsi di tutto ciò che potesse essere visibile e a entrare nel flusso di questa teoria, che vede
in ciò che è osservabile l’essenziale. La fisiognomica fu un settore del sapere caratterizzato
dall’acquisizione di possibili ipotesi conoscitive attraverso l’osservazione e l’interpretazione della
forma esterna di particolari segni naturali. Queste attività si prefiggevano lo scopo di sussumere le
caratteristiche spirituali o interne, come ad esempio i tratti psicologici o morali, alla contemplazione
esterna o fisica, dando così origine all’assunzione del paradigma dialettico esterno/interno 3.
L’esterno, in quanto segno di ciò che è al suo interno, venne considerato la base attraverso la quale
suddetta branca del sapere operava; essa divenne così quella sezione della conoscenza che ridette
importanza a tutto ciò che s’intese come «involucro» 4 in quanto rivestimento esterno. Grazie alla
messa in correlazione dei segni esterni del viso e del corpo con le caratteristiche psicologiche e
morali quest’ ultime non vennero più descritte come ciò che è essenziale o come ciò che forma
l’apparire, ma come qualcosa che sottostà pedissequamente, in quanto non visibili al visibile, alle
loro estrinsecità osservabili, in modo tale che da queste ramificazioni esterne si possa riconoscere
l’interno dell’essere vivente. In breve, l’esterno denota già per Goethe le abitudini e le consuetudini
del soggetto ispezionato: sul cranio del bue le linee che vi sono presenti comunicano la pesantezza e
la ridotta mobilità dell'animale. Osservazioni analoghe valgono anche per altri animali come il
castoro o il toporagno nei quali le linee fini e acute visibili sul cranio rivelano la loro rapidità
nell’esplorazione visiva. La debole mandibola, così come la mancanza di canini aguzzi, denota che
si tratta di animali che si cibano di prede morte. Gli animali che cacciano invece si caratterizzano
per la forte potenza muscolare conferitagli dalla presenza di mascelle e mandibole vigorose, nonché
dalla morfologia dei denti caratterizzati da almeno una coppia di canini acuminati, così come la
fronte dell’elefante esprime memoria e intelligenza e quello della iena un’inflessibile ostinazione 5.
È fuor d’ogni dubbio che anche in questo luogo la relazione, la dialettica, interno/esterno è
preservata. In un lasso di tempo relativamente breve, Goethe, acuendo e sensibilizzando in modo
2
Paola Giacomoni, Le forme e il vivente, p. 9.
3
Intesa anche come dialettica essenza/fenomeno o in termini heideggeriani come nascondimento/svelamento-non
nascondimento (Unverborgheneit).
4
Ivi, p. 29.
5
Ivi, p. 43.
esponenziale l’osservazione, implementando in aggiunta ad essa l’attenzione verso nuovi elementi
minimi, infinitesimali, considerati dalla fisiognomica di Lavater insignificanti, abbandona la
fisionomia e inaugura un nuovo metodo basato su un’osservazione ancora più minuziosa e
meticolosa della precedente: è l’avvento della goethiana morfologia considerata un' evoluzione alla
precedente dottrina fisiognomica condivisa con Lavater. La morfologia viene rubricata come
scienza a tutti gli effetti da Goethe, il quale, per poter riuscire in questa missione, dovrà affrontare e
disapprovare il vigente meccanicismo newtoniano orientato a leggere negli esseri viventi
terminologie, equazioni ed espressioni matematiche e a porre, al di là dell'apparenza sensibile delle
manifestazioni naturali, le leggi attraverso le quali è possibile spiegare la molteplicità intrinseca alla
natura stessa. Obbiettivo della morfologia è quindi quello di rappresentare o, per meglio dire,
presentare in maniera ostensiva le regole del visibile e non quello di spiegare ricercando cause e
principi che eccedono per grandezza e prepotenza metafisica la sfera della fenomenicità. Il motto di
Goethe è infatti: darstellen und nicht erkliiren (rappresentare e non spiegare), motto che risuonerà
in Wittgenstein con la celeberrima espressione linguistica «non pensare, ma osserva!» 6.
Di sottofondo, come sostrato [Grund] al pensiero morfologico goethiano vi è l’idea che la natura di
per sé stessa è un tutto-intero organico e vivente, una leibniziana totalità armoniosa (sympnoia
panta) e dinamica. Proprio a questo riguardo Goethe rielabora, riadatta e riconfigura il termine
aristotelico di entelecheia, comparso per la prima volta nella Fisica: Goethe sceglie deliberatamente
di allontanarsi dall’interpretazione che ne dà il filosofo greco in quanto predeterminismo implicito e
quiescente, un prefinalismo, iscritto, insito, nell’essenza stessa del vivente. Entelecheia è per
Aristotele anzitutto perfezione e compimento, in questo senso non compete ad essa il movimento, il
tendere, il modificarsi, il moto irrefrenabile e incontenibile della natura goethiana, il dinamismo
puro della metamorfosi, della trasformazione da una forma in un’altra, forma intesa come un
«elemento sensibile-organizzato conoscibile essenzialmente nel suo mutare» 7. È presentata dal
filosofo di Stagira come un qualcosa che è già predato: una finalità predefinita presente nel
germoglio o nell’embrione, la quale andrà a formare, a determinare, i mezzi attraverso i quali
l’essere vivente in questione potrà arrivare a configurarsi nel suo stadio apicale: in termini
aristotelici, nel suo «grado di divenire massimo». Tutto questo, osserva Goethe, toglie la variabilità,
l’infinita variazione dei soggetti, difatti, non si troverà mai un albero uguale ad un altro poiché
l’interazione di un essere vivente con l’ambiente non è mai la stessa pur appartenendo alla stessa
specie; le ramificazioni sono diverse da arbusto ad arbusto, altrettanto le radici, la forma del tronco
ecc. Il filosofo tedesco, infatti, parla dell’entelecheia come di una sovrabbondanza creativa,
avvicinandosi sensibilmente all’interpretazione che ne diede Leibniz. Quello che contraddistingue
6
Ricerche filosofiche, §66.
7
Ivi, p. 164.
Goethe dai suoi predecessori - come Linneo, dal quale prende la terminologia di “metamorfosi” - è
esattamente questo vitalismo spinto, questo dinamismo puro e assoluto. La riflessione goethiana
sull’organismo e sulla natura vivente sfocia nella teoria «della serie continua delle forme e di
metamorfosi»8. La concezione dinamica della forma, come Bildung, ottenuta da Goethe col metodo
comparativistico - ovvero quell’atteggiamento da parte del morfologo dell’osservare le somiglianze,
le parentele e le affinità che intercorrono tra vari oggetti - implica una concezione anticlassica della
forma, nel senso che è da intendersi come ciò che presuppone il passaggio attraverso il chaos:
apparente disordine che il mutare continuo porta con sé. È questo il caso della foglia ne La
metamorfosi delle piante. Alla base di questo scritto vi è l’idea che a mutare sia un unico organo
della pianta: la foglia. Fin dai primi paragrafi Goethe descrive la formazione tipica della pianta in
modo rigorosamente dettagliato e attraverso terminologie spesso e volentieri molto tecniche. È
proprio attraverso l'osservazione e l’indagine morfologica dell’autore sugli enti botanici che nasce
l’idea secondo la quale i cotiledoni, primigene piccole foglie che sbucano dal terreno, siano quelle
stesse foglie embrionali che andranno a svilupparsi e a configurarsi come foglie caulinarie. Quest’
ultime, irrigidendosi e irrobustendosi, daranno forma al caule, o volgarmente al tronco, il quale a
sua volta si ramificherà in base all’interazione, al dialogo dialettico con l’ambiente che lo circonda
nei modi più diversi. I rami, anch’essi foglie, in un determinato punto del tempo ciclico si
estroflettono nei nodi dai quali avrà origine la foglia, la quale in un altro specifico periodo, a
determinate temperature e con le giuste condizioni metereologiche, si trasformerà nel sepalo. Dal
sepalo poi gli stami, la corolla, i petali e fino all'origine del fiore, il cui metamorfosato diverrà il
frutto. Goethe osserva mediante ricerche al microscopio che gli organi riproduttivi, ossia i fiori, si
originano e prendono forma dai vasi a spirale che costituiscono l'ossatura della foglia, mostrando in
questo modo un'identica costituzione interna e dimostrando come il fiore sia la modificazione di un
identico tessuto vegetale di una stessa forma. A proposito scriverà: «gli osservatori hanno da tempo
riconosciuto in generale e studiato in particolare l’affinità segreta fra quelle parti esterne delle
piante - come le foglie, il calice, la corolla, gli stami - che si sviluppano l'una dopo l'altra, e per così
dire l'una dall'altra»9. Come affermato, ordunque, Goethe sostiene la produzione di un organo da
parte di quello che temporalmente lo precede. Come si può notare ogni organo della pianta è foglia:
Alles ist Blatt, afferma Goethe. Letteralmente, tutto è foglia.
La metamorfosi secondo il filosofo non è una creazione ex novo di un organo mediante cause
esterne sovrasensibili, quasi divine; non è neanche un fenomeno di derivazione nel senso di
filiazione di un organo vegetale in uno novizio, quanto più l’alterazione dell’identico tessuto

8
Marilena Andronico, Antropologia e metodo morfologico, cap II Morfologia e grammatica, La Città Del Sole, 1998,
p.139.
9
Johann Wolfgang von Goethe, La metamorfosi delle piante, § 4.
vegetativo, la loro sostanziale affinità e somiglianza 10. Il continuum del processo metamorfico, che
inizia dai cotiledoni e che culmina nella formazione del frutto, ha alla base la ripetizione di uno
schema che verte sul movimento di estensione e di riduzione. Questo misterioso processo apre il
sipario ad una danza armoniosa tra l'espansione e la contrazione: un richiamo primordiale al ritmo
vitale del cuore e al suo intrinseco moto sistolico e diastolico. A partire dalle foglie embrionali, le
foglie caulinarie mostrano un notevole sviluppo ed evoluzione rispetto alle prime, specialmente
nella loro espansione periferica. Tuttavia, quando arriviamo al calice, assistiamo a un processo
inverso ovvero un movimento di contrazione dei margini. Allo stesso modo, si osserva che la
corolla si forma attraverso un processo di espansione: i petali, infatti, sono generalmente più grandi
dei sepali e notiamo che, mentre gli organi del calice si contraggono, questi si espandono
ulteriormente presentandosi come nuovi organi, completamente diversi. La loro struttura raffinata e
inedita, il loro colore e il loro profumo renderebbero difficile riconoscerne l'origine, ciononostante
mediante l’osservazione diretta è possibile ricostruire la loro ontogenesi. Questo schema abituale di
espansione e di contrazione della pianta fa sì che oltre a sottostare ad un tempo lineare - tempo
rispetto al quale sono vincolati tutti gli esseri viventi e non viventi - essa sottostia anche a un tempo
di carattere ciclico: il tempo dell’eterno ritorno non dell’eguale o dell’identico ma del simile, una
palingenesi che è in modo idealistico sempiternamente identica sé 11 ma che morfologicamente
appare con molte variazioni. In definitiva, un ricominciamento o rigenerazione che in modo
sostanziale crea sempre la stessa cosa ma che si manifesta sempre in modo diverso dal precedente:

La natura crea forme eternamente nuove; ciò che esiste non è mai stato; ciò che fu non ritorna - tutto
è nuovo, eppur sempre antico. C'è in lei una vita eterna, un eterno divenire, un moto perenne; eppure,
non fa un passo avanti. Si trasforma di continuo, non conosce un attimo di quiete. Ignora
l'immobilità; colpisce di maledizione l'indugiare. È salda. Il suo passo è misurato, rare le eccezioni,
invariabili le sue leggi.12

3. Wittgenstein.

Ludwig Wittgenstein soleva leggere Goethe, tant’è che come frase d’overture delle Ricerche
filosofiche pensava di riportare una massima del poeta tedesco presente nell’Allerdings: Natur hat

10
P. Giacomoni, Le forme e il vivente, p. 91.
11
È il caso dell’Urpflanzen, o pianta originaria, che viene descritta da Goethe come un modello, o un archetipo,
inalterabile in quanto è da intendersi come un’intellegibile, un’idea metodica, che non conferisce senso al reale, come
potrebbe essere per la teoria della metessi platonica, ma che ci permette di comprendere che una data pianta è
effettivamente una pianta, ci consente di ricercare l’unità formale nel mondo naturale.
12
Goethe, J. W. (1952). Goethes Werke. (Hamburger Ausgabe), vol. 13, tr. it. 1983, pp. 152-153.
weder Kern noch Schale (la natura non ha né nocciolo, né scorza) 13, al fine di richiamare la base
della morfogenesi goethiana, ovvero ciò che è conoscibile è osservabile, facendola propria e
trasmigrandola dalla biologia alla filosofia del linguaggio. È proprio questa asserzione goethiana
che ha in mente quando nel Libro blu si muove criticamente verso l’idea platonica secondo la quale
la filosofia nel suo farsi debba essere necessariamente un mezzo di collegamento tra la molteplicità
e l’unità, riunendo sotto un unicum sovra-empirico tutte le variazioni di un concetto più generale
posto come ciò che conferisce essenza a queste ultime diramazioni specifiche:

L’idea che, per comprendere il significato di un termine generale, si debba trovare l’elemento
comune a tutte le sue applicazioni ha paralizzato la ricerca filosofica: non solo non ha portato ad
alcun risultato, ma ha anche indotto il filosofo a respingere come irrilevanti i casi concreti, l’unica
cosa che avrebbe potuto aiutarlo a comprendere l’uso del termine generale. Quando Socrate pone la
domanda: «Che cos’è la conoscenza?», egli non considera neppure una risposta preliminare
un’enumerazione di casi di conoscenza». (Libro blu, p. 30).

In questo estratto Wittgenstein ha in mente il celebre dialogo platonico dedito alla ricerca
dell’essenza della conoscenza: il Teeteto.
Nel dialogo, quando Socrate propone come tema la definizione di che cosa sia (tì èsti), la
conoscenza, il protagonista, dal quale l’opera prende nome, crede di poter rispondere alla domanda
socratico-platonica percorrendo e procedendo sul terreno degli esempi: muovendosi non in modo
teoretico riconducendo quindi la totalità all’uno, ma in un senso genuinamente pratico ovverosia nel
non postulare pretenziosamente un unico e prestabilito denominatore comune sovrasensibile che
ricolleghi e riunisca ogni infinita variazione particolare e peculiare ad un ipotetico primo principio
ordinatore. Alla domanda sulla natura del conoscere Teeteto risponde rammemorando che vi è un
sapere del geometra, dell’astronomo e dell’artigiano alludendo alla necessità di ancorare e di legare
le parole alle loro diverse modalità di impiego evitando di avvolgerle platonico-kantianamente ad
un trascendentale, il quale, essendo posto nel nessun-luogo e nel nessun-tempo parmenideo, detta
regole in un dove e in un quando ben precisi. L’unico modo con cui Socrate possa rispondere a
suddetta impostazione di Teeteto è l’ironia:

Ma la questione, o Teeteto, non era questa di che cosa si dà conoscenza, né quante sono le
conoscenze; non richiedevo io, con la mia domanda, un’enumerazione di conoscenze; bensì volevo
sapere che cosa è essa la conoscenza in sé. O dico cosa senza senso? (Teeteto, 146e).

13
Marilena Andronico, Antropologia e metodo morfologico, cap II Morfologia e grammatica, La Città Del Sole, 1998,
p. 174.
Ovviamente l’intento platonico in questo dialogo è di approdare alle idee. Alla molteplicità degli
esempi che ci stanno difronte, anzi in un senso eminentemente wittgesteiniano, in cui vi siamo
immersi completamente dentro, in quanto corrispondono alla nostra prassi consuetudinaria, il
filosofo deve reagire con uno sforzo della ragione che afferri quell’unica entità concettuale che non
è data sul terreno fenomenico ma che deve essere pensata affinché si possa scorgere il motivo che ci
permetta di dire di qualcosa che è ciò che è. L’errore secondo Wittgenstein è stato quello di cercare
dietro a ogni variabile un’unica idea, un identico nocciolo, un nucleo concettuale, che fissi la totalità
variegata degli esempi. Sempre nel Libro Blu l’autore risponde così:

Ma non dimentichiamo che una parola non ha un significato datole, per così dire, da un potere
indipendente da noi, così che possa esservi una sorta di ricerca scientifica di ciò che quella parola
significa realmente. Una parola ha il significato che qualcuno le ha dato. (Libro blu, p. 40).

Quello che Wittgenstein sta cercando di dire in questo paragrafo è chiaro: le parole hanno un
significato che noi stessi gli diamo. Questo egli può asserirlo in base alla sua teoria del seguire una
regola, secondo la quale la regola medesima è data dalla prassi e dal movimento pratico a cui noi
prendiamo parte in un determinato gioco linguistico. In altri termini, noi dobbiamo sì seguire delle
regole che coordinano i nostri atti ma queste regole, o leggi, non sono un qualcosa di autocreatosi
bensì sono il frutto della nostra interazione e della nostra compartecipazione nell’agire. Ogni gioco
linguistico ha le sue regole da dover seguire, le quali dipendono da un lato dalla forma di vita, ossia
da un determinato tipo di comunanza sociale che sancisce una precisa cultura, delle precise
abitudini e dei precisi usi e costumi, all’interno della quale il gioco viene a trovarsi; dall’altro
dipendono dalla forma di natura che obbliga una certa entità, un certo oggetto, a seguire la natura di
cui è fatto. Una comunità di leoni ha delle regole da seguire ben visibili dall’esterno così come
l’uomo, ma le une sono diverse dalle altre in quanto la natura che forma il leone è sostanzialmente
diversa da quella che forma l’uomo. Questa diversità ci spinge a seguire regole originate da una
certa prassi collettiva e condivisa.
Non è in torto dunque Teeteto per Wittgenstein, il quale ha risposto a Socrate seguendo il metodo
morfologico riportando fedelmente esempi concreti di concetti: disporsi sul terreno degli esempi
vuol dire innanzitutto ancorare il concetto alle sue infinite illustrazioni, sancire, non una
spiegazione o una delimitazione, bensì una descrizione dell’operare del concetto. Se ad esempio mi
venisse chiesto cosa significhi la parola gioco non sarei in grado di trovare una definizione adeguata
e concisa, sarei tentato, invece, di riportare una serie di esempi, descrivendo quanto più fedelmente
possibile come si gioca a diversi giochi. Come dice espressamente Wittgenstein: «l’esemplificare
non è un metodo indiretto»14, come invece potrebbe essere la spiegazione, esso rappresenta l’unico
mezzo per venire a capo di un concetto. Giocare con gli esempi è l’unica possibilità di trovare un
fondamento del gioco che non vada al di là del gioco stesso. Un concetto può essere spiegato, o
meglio dispiegato, mediante descrizione di esempi variopinti se e solo se gli esempi sono
imparentati tra di loro in modo tale da darne una continuità. Ritornando all’esempio del “che cosa
sia un gioco”, Wittgenstein ci illustra nelle Ricerche filosofiche che i giochi possono essere una
molteplicità innumerevole, una molteplicità in essa simile che permane aperta in quanto sempre
nuovi giochi vi possono addizionare. Possono esserci giochi, i quali vengono svolti da una persona
sola, ad esempio i solitari, altri che vengono svolti da più persone come il gioco della pallavolo; i
due si assomigliano, stanno insieme, in quanto in entrambi si può vincere o perdere. Tuttavia, in
altri giochi non esiste né la vittoria né la sconfitta, ne è un caso il giocare con le bambole. Il gioco
del solitario, quello della pallavolo e quello delle bambole sono assimilabili l’uno all’altro poiché a
tutti e tre si può giocare in un edificio, a casa o in un palazzetto dello sport, oppure all’aperto.

Osserva, ad esempio, i giochi da scacchiera, con le loro molteplici affinità. Ora, passa ai giochi di
carte: qui trovi molte corrispondenze con quelli della prima classe, ma molti tratti comuni sono
scomparsi, altri ne sono subentrati. Se ora passiamo ai giochi di palla, qualcosa di comune si è
conservato, ma molto è andato perduto. (Ricerche filosofiche, §66)

Queste somiglianze, che mantengono compatti e coesi gli elementi di un concetto, tengono anche
salda la relazionato tra due o più concetti. Esse, per dirla secondo le parole di Hegel, manifestano
una fluidificazione di determinazioni e di configurazioni che permette loro di cambiare nel tempo e
di generare nuovi esemplari connessi con i precedenti: un intrinseco divenire costante che permette
la relazionalità con il simile.
Wittgenstein chiama queste somiglianze dal §65 al §71 delle Ricerche filosofiche somiglianze di
famiglia.
Così come il gioco del solitario è simile al gioco della pallavolo per il fatto che si vinca o si perda,
ma dissimile da quest’ultimo in quanto nel primo si gioca da soli e non in due o più, così, allo stesso
modo, in una famiglia un figlio può avere gli occhi come la madre, il naso diverso da questa ma
simile a quello del padre e avere la corporatura dello zio paterno senza che ci sia un tratto, o un
insieme di tratti, comune a tutti i membri della famiglia. Un terreno universale tra le varie
esemplificazioni di un concetto non vi è, non è presente, né a priori né a posteriori. Per Wittgenstein
non è possibile tracciare aprioristicamente la mappa che descrive e insieme circoscrive l’ambito del
significato, poiché le forme del significare sono storicamente mutevoli e dipendono dalle infinite

14
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, § 71.
possibili forme di vita degli uomini: esistono infinite possibili modalità di impiego di un dato
concetto. Il tentativo di definire a priori la molteplicità dei giochi linguistici si scontra così con la
constatazione della loro infinita varietà e della loro intrinseca dinamicità: «non pensare, ma
osserva!»15
La morfologia wittgenstieniana è il metodo che sta alla base di tutte le proposizioni presenti nelle
Ricerche filosofiche. Con le somiglianze di famiglia, tuttavia, questa metodologia viene a
manifestarsi in tuttala sua luminosità e chiarezza: il continuo richiamo agli esempi o alle forme
esterne del linguaggio, e della prassi più in generale, è presente per risolvere, o per meglio dire
dissolvere, alcuni problemi rigorosamente filosofo-metafisici. Le osservazioni dirette sul mondo ci
inducono a porre la filosofia non più come una disciplina che ha il dovere di ricondurre tutto
all’unità, sbattendo più e più volte la testa creandosi dolorosi bernoccoli e dando vita talvolta a
grandi rompicapi. Essa diviene piuttosto una disciplina che, tramite l’esamina fattuale dei dedali di
stradine e di piazze che rendono la città tale, conduce a una chiarificazione dei termini da utilizzare,
sbarazzandosi in questo modo di quelle nomenclature metafisiche avvolte da millenni di alone di
mistero e di tenebre, come se costituissero una latebre angusta, al fine di riporre nuovamente
l’accento, la prospettiva, sui termini del linguaggio del senso comune, il quale secondo
Wittgenstein, possiede tutto ciò di cui si ha bisogno. Città, in questo esempio, è da intendersi
metaforicamente come il linguaggio, il quale, esattamente come la suddetta, è stracolmo di sentieri
e di viuzze diverse, talvolta larghe, talvolta strette, talvolta vecchie e storiche e talvolta recenti e
periferiche:

Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze,
di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete
di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi (Ivi, § 18).

Si è detto che la regola non è un principio, non risiede nella mente di chi pensa, bensì dimora nella
concatenazione di esempi in cui si mostra, negli occhi di chi osserva, nella prassi che ad essa si
richiama. Le pratiche sociali abitudinarie, quelle che Wittgenstein chiama forme di vita
(lebensform), cioè, come si è detto precedentemente, forme in cui si è addensata, concretizzata, una
determinata vita umana, possono essere considerate come una variabile antropologica, una
suddivisione della vita umana in differenti culture o tradizioni, le quali dettano le condizioni di
possibilità, ossia rendono plausibili l’insorgenza di specifici giochi linguistici e fanno in modo che
una determinata forma linguistica debba poter seguire delle regole pre-impostate dalla lebensform
stessa. Un medico-psichiatrico, appartenente alla cultura occidentale, che visita un paziente affetto

15
Ivi, §66.
da schizofrenia non lo rinchiuderebbe in un pozzo completamente buio e incatenato strettamente,
come invece potrebbe accadere in alcune culture dell’Africa, all’interno delle quali gli schizofrenici
devono esser considerati alla stessa stregua di determinati demoni maligni. Se dovesse farlo, il
soggetto dell’esempio, verrebbe radiato dall’albo dei medici giacché metterebbe in pratica una
azione che non si confà alla vasta gamma di applicazioni di una particolare regola; sarebbe tuttavia
corretto e adeguato se appartenesse a quelle culture africane, a quelle forme di vita.

Il seguire una regola, ovvero il sapere di dover sottostare pedissequamente a un comando, è dato
dalla prassi condivisa; quindi, per coloro che appartengono allo stesso gioco linguistico essa è
saputa automaticamente. Per chi invece condivide la stessa forma di vita ma non rientra in quel
gioco linguistico di cui vorrebbe apprendere la regola ha bisogno, da parte dei partecipanti, di una
descrizione, ovverosia delle esemplificazioni, utilizzando ancora una volta il metodo morfologico,
attraverso le quali è pensabile, e quindi wittgesteinianamente dicibile ed eseguibile, in quanto
termini che godono di una convergenza simultanea e sincronica, il discernimento della regola, la
quale, praticandola, permette l’accesso al gioco linguistico. Purtuttavia, secondo Wittgenstein,
anche per coloro che giocano un’altra lebensform è possibile apprendere una nuova regola che
governa un peculiare gioco linguistico. Questa viene compresa, ovvero messa in pratica, mediante
la traducibilità che è resa possibile dalla presenza di un terreno comune dell’agire, o per dirla in
termini wittgesteiniani di «un comportarsi comune»16 degli uomini, il quale raggruppa, sussume,
sistematicamente ogni uomo appartenente a qualsiasi forma di vita:

Seguire una regola è analogo a obbedire a un comando. Si viene addestrati a obbedire al comando e
si reagisce ad esso in una maniera determinata. Ma che dire se uno reagisce al comando e
all’addestramento in un modo, e un altro in un altro modo? Chi ha ragione? Immagina di arrivare,
come esploratore, in una regione sconosciuta dove si parla una lingua che ti è del tutto ignota. In
quali circostanze diresti che la gente di quel paese dà ordini, comprende gli ordini, obbedisce ad essi,
si rifiuta di obbedire, e così via? Il modo di comportarsi comune agli uomini è il sistema di
riferimento mediante il quale interpretiamo una lingua che ci è sconosciuta (Ivi, § 206).

È proprio questo rimando ad un comune modo di comportarsi degli uomini che è, dunque,
condizione di possibilità di una reciproca comprensione. Suddetto terreno comune è il luogo dei
giochi linguistici che corrispondono, che appartengono, alla storia naturale dell’uomo: «il
comandare, l’interrogare, il raccontare, il chiacchierare fanno parte della nostra storia naturale come
il camminare, il mangiare, il bere, il giocare» 17 afferma Wittgenstein. Una dimensione di invarianza
tra le varie forme di vita umana che deve pur esserci affinché ci si possa comprendere. La

16
Ivi, § 206.
17
Ivi, § 25.
possibilità di giocare più forme di vita, e quindi più giochi linguistici, ha origine da questo
comportarsi storico comune degli uomini, da questo insieme di pratiche sociali e storiche adempiute
in modo universale, indipendentemente dalla cultura, o lebensform, a cui si prende parte,
costituendo una comunanza storico-fattuale. Ecco che ancora alla base di questa teoria è
intravedibile la metodologia morfologica wittgesteiniana attraverso la quale, indagando, osservando
e ipotizzando, casi di stati di cose realmente sussistenti, si possano trovare similitudini e analogie
anche davanti a fatti molto differenti tra loro.

4. Conclusione

È interessante osservare a questo punto che Wittgenstein abbia ripreso fedelmente l’eredità
goethiana della morfologia, ponendo la filosofia non più al di sopra dei fenomeni ma accanto ad
essi. Non c’è alcun bisogno di speculazioni che provengono dall’alto e che si dirigono all’interno
del mondo dei fatti ordinando questi e impartendogli un principio che permetta la loro sussistenza.
Tutto ciò che è osservabile è dicibile, pensabile e dunque eseguibile. Il gioco linguistico
sembrerebbe essere, di fatto, una monade, un Uno parmenideo, all’interno della quale si assiste alla
concordanza reciproca, alla sovrapposizione, di essere e pensiero: tutto ciò che è pensabile è, ha da
essere, d’inverso, tutto ciò che è, è assolutamente pensabile. Il pensare alla sussistenza e alla non
sussistenza di uno stato di cose all’interno di un gioco linguistico implica necessariamente che quel
nesso di oggetti debba avere la possibilità di darsi. Ipotizziamo come gioco linguistico il gioco degli
scacchi: si devono muovere i pezzi in determinate modalità regolate da principi ben definiti e ben
delineati. E affinché ci si possa mantenere nel suddetto gioco si è costretti ad adempiere a quelle
summenzionate rigide regole che lo governano, praticando mosse adeguate e soprattutto pensando
in modo da poter, quanto più possibile, anticipare il proprio avversario al fine di vincere. Pensare i
movimenti plausibili per anticipare l’avversario significa poter comprendere se una determinata
mossa è più corretta rispetto ad altre; il pensare è una prassi, è un vedere con l’occhio della mente le
infinite possibilità che ci stanno innanzi. La contemplazione teorica degli spostamenti dei pezzi
corrisponde esattamente, quindi, alle loro effettive variazioni fisiche. Il pensare uno stato di cose
comporta la possibilità che esso possa venire ad esistere. Si potrebbe obiettare dicendo: “ebbene, io
però pur giocando agli scacchi posso benissimo immaginare e rappresentarmi nel mentre alcune
mosse della dama”, certamente, ci si potrebbe immaginare anche la lista della spesa. Tuttavia,
contemporaneamente alla formulazione di siffatti pensieri si cambia inesorabilmente punto
prospettico, si gioca un altro gioco linguistico. Se si dovesse pensare, mentre si gioca a scacchi, ad
alcune ipotetiche mosse realizzabili nel gioco della dama, non ci si sta più muovendo nel gioco
linguistico di una partita di scacchi bensì si sta giocando al gioco della dama, pensando, e dunque
mettendo in pratica, le sue regole. Così facendo Wittgenstein si avvicina al celebre frammento
parmenideo secondo cui «è la stessa cosa pensare ed essere»18.

Anche Goethe da parte sua pone un modello fisico che accomuna ogni forma di ente botanico e che
all’infuori di esso nulla che appartenga a all’insieme dei vegetali possa sussistere. Questo modello
viene ipotizzato dal poeta tedesco durante una visita al giardino botanico di Padova il 27 settembre
1786. In questo luogo formula un pensiero: la necessità di porre una somiglianza tra i diversi.
Suddetta riflessione lo porterà il 17 aprile 1787 a Palermo, a seguito di una folgorazione, a
progettare l’idea di una pianta originaria: l’Urpflanze, ossia l'idea di una riconducibilità dell’infinità
di individui di piante ad un modello comune, a un piano della natura in base al quale la molteplicità
sia spiegabile. Idea è qui da intendersi molto verosimilmente non in termini platonici, piuttosto è da
porsi con la sua significanza originaria e primordiale: ἰδέα o ἰδεῖν significa infatti «aspetto, forma,
apparenza»19 o addirittura «vedere»20, visione. Nella filosofia di Democrito, infatti, l’idea non era
considerata come un principio intellegibile sovrasensibile bensì veniva utilizzata per descrivere e
intendere l’atomo in quanto «forma o schema visibile» 21. Per Goethe, ripercorrendo quest’ultimo
senso, idea vuole sottendere, pertanto, una struttura osservabile che sancisce una comunanza,
un’uguaglianza tra i vari tipi di piante. Alla pari dell’atomismo democriteo, secondo cui un
indivisibile, un infinitesimale, deve pur esserci, a Palermo, egli afferma che «una Urpflanze deve
esistere»22, altrimenti non sarebbe possibile codificare una particolare forma di vita riconoscendola
come pianta. Quella di Goethe è, per dirla in altri termini, la ricerca di un fenomeno originario
(Urphänomen) che accomuni, mediante l’investigazione delle somiglianze, gli infiniti tipi diversi di
piante tra loro irriducibilmente diversificate. A tal proposito Giacomoni nel suo saggio Le forme del
vivente sostiene che «il tema della ricerca della parentela» 23, o della somiglianza, «tra le forme è
centrale in Goethe»24, così, come si è visto nel § 3, è stata centrale nella filosofia morfologica di
Wittgenstein. La pianta originaria goethiana, ovvero uno schema osservativo che collega la
molteplicità mediante somiglianze di famiglia ad un’unica struttura, sembra avere la stessa

18
Cicero, V. (2006). I presocratici: prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei
frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, DK 28 B3.
19
https://www.treccani.it/vocabolario/idea/.
20
Ibidem.
21
Ibidem.
22
P. Giacomoni, Le forme del vivente, p. 71.
23
Ivi, p. 73.
24
Ibidem.
composizione di ciò che in Wittgenstein è desumibile con la forma di natura. Infatti, quest’ultima
proprio come l’Urpflanze è stata postulata grazie alle forme universali che sono osservabili e che
dunque compaiono e si manifestano in ogni lebensform. Il concetto di forma di natura è ciò che
rappresenta la sussunzione sotto un unicum delle uguaglianze condivise universalmente da tutti gli
individui appartenenti ad una certa specie e, nel caso di Goethe, ad un particolare genere, in termini
biologici moderni, ad un preciso regno vivente: le piante.
Come si può facilmente evincere da queste ultime righe, dietro le più importanti conclusioni
raggiunte sia da Goethe ne La metamorfosi delle piante che da Wittgenstein nelle Ricerche
filosofiche si cela il metodo morfologico tanto analizzato ed esaminato in questo breve scritto.

BIBLIOGRAFIA
 Andronico, M. (1998). Antropologia e metodo morfologico: studio su Wittgenstein. La Città
del Sole.
 Cicero, V. (2006). I presocratici: prima traduzione integrale con testi originali a fronte
delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz.
 Giacomoni, P. (1993). Le forme e il vivente: morfologia e filosofia della natura in J.W.
Goethe. Guida Editori.
 Goethe, J. W. (1952). Goethes Werke. (Hamburger Ausgabe), vol. 13, tr. it. 1983.
 Goethe, J. W. (2017). La metamorfosi delle piante. Guanda.
 Marconi, D., & Andronico, M. (1997). Guida a Wittgenstein: il Tractatus, dal Tractatus alle
Ricerche, matematica, regole e linguaggio privato, psicologia, certezza, forme di vita.
 Platone. (2019). Teeteto. Gius. Laterza & Figli Spa.
 Wittgenstein, L. (2017). Ricerche filosofiche. Giulio Einaudi Editore.
 Wittgenstein, L. (2022). Libro blu. Mimesis.

SITOGRAFIA

 https://www.treccani.it/vocabolario/idea/

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