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Esistenza E Persona,Pareyson

Filosofia Della Persona (Università degli Studi di Trieste)

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ESISTENZA E PERSONA,

LUIGI PAREYSON

CAPITOLO 1: DUE POSSIBILITÀ  KIERKEGAARD E FEUERBACH.


L’ASSIMILAZIONE PRATICA DELLA FILOSOFIA HEGELIANA E LA POLEMICA CONTRO
IL POTERE.

Quando ancora sono hegeliani Kierkegaard e Feruerbach cercano il modo di assimilare praticamente il
pensiero hegeliano: cercano dunque di applicare la filosofia hegeliana alla vita vissuta, senza limitarsi a
una professione astratta, ma facendo proprio una questione personale. Secondo loro l’unica realizzazione
possibile della filosofia hegeliana è il professore. Infatti la filosofia hegeliana si presenta come
autocoscienza della realtà e della storia, della realtà nella totalità compiuta delle sue parti e della storia
nella conclusione del suo sviluppo. Al filosofo non resta altro compito che quello di pensare la realtà e la
storia. Il filosofo non vive tutto ciò, ma soltanto lo contempla, perché non è filosofia che deve degradarsi a
vita, ma la vita che dev’essere contemplata a filosofia. Il filosofo è pura contemplazione  quindi
qual è l’unica possibilità che gli rimane nella vita pratica?  fare il professore, spiegare ciò che
sa.

IL PROFESSORE COME PENSATORE ASTRATTO

Secondo Kierkegaard il pensatore astratto è quello che vuole essere puro pensiero dimenticandosi di
esistere, il che è una contraddizione comica. Egli ha una doppia natura: da un lato è un essere fantastico
che vive nell’essere puro dell’astrazione, dall’altro è una miseranda figura di professore, che è messa da
parte da quell’essere astratto, come si getta via un bastone qualunque.  vuol essere un esistente, ma
non un esistente che esista soggettivamente.

Secondo Feuerbach il pensatore astratto è quello che isola il puro pensiero dalle altre facoltà e spiega
la realtà attribuendole i caratteri del puro pensiero, di modo che in lui si produce una contraddizione tra
una facoltà isolata e astratta e l’insieme delle facoltà in cui consiste la concretezza dell’uomo. La filosofia
resta chiusa nell’astrattezza.
 La filosofia e la professione di filosofia sono in assoluto contrasto: è segno caratteristico
del filosofo quello di non essere professore di filosofia, e viceversa.

IL PROFESSORE COME PENSATORE CONCILIANTE


Secondo K il pensatore conciliante è il professore ufficiale che aggiusta tutto secondo l’opinione
pubblica e governativa, e rende tutto facile e accomodante nel modo più conveniente. È il teologo che
preferisce le sottili discussioni speculative sull’esistenza della religione, all’opera apostolica del pastore,
come se fosse più importante discutere di teologia che vivere la religione. Il professore è disposto a
cambiare per adattarsi meglio a “questo mondo senza carattere”. Ha saputo rendere conciliante per fino il
cristianesimo. Il filosofo conciliante non si impegna in ciò che dice, perché fa consistere il proprio compito
nel facilitare il difficile, nel rendere accettabile ciò che non è pienamente accessibile all’intelletto o alla
volontà.

Secondo F il pensatore conciliante è quello che ha spirito di scuola e di casta, che aggiusta tutto nel
modo più comodo, che concilia tutte le opposizioni perché è indifferente alla vita nella realtà delle sue
lotte e dei suoi impegni.

HEGEL COME PROFESSORE


I caratteri del filosofo come professore, cioè pensatore astratto e conciliante, si trovano tutti, secondo
K e F, in Hegel, che è il professore per eccellenza. Professore assoluto  filosofia assoluta. Da un
punto di vista hegeliano la filosofia assoluta come sapere assoluto, cioè come autocoscienza assoluta della
realtà assoluta (Dio), non è altro che il professore assoluto.
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LA RIBELLIONE DEL PENSATORE CONCRETO E NON UFFICIALE


 Al pensatore astratto è necessario contrapporre il pensatore concreto.

Secondo K il pensatore concreto è il pesatore esistente e soggettivo. Mentre quello astratto ha il


compito di intendere astrattamente il concreto, il pensatore soggettivo ha il compito di intendere
concretamente l’astratto. Il pensatore astratto si pone in contraddizione con sé stesso quando vuole
esistere come pensiero puro, dimenticando la propria esistenza. Invece il pensatore soggettivo non si
pone in contraddizione perché affronta decisamente la contraddizione fra pensiero ed esistenza. Il
pensatore soggettivo è un esistenza, ma insieme un pensatore.

Secondo F il pensatore concreto è l’uomo integrale. La filosofia deve essere umanizzata e incarnata. La
filosofia astratta si pone in contraddizione con la realtà quando pretende di filosofare con al ragione pura e
isolata. La vera filosofia consiste nel fare uomini, non libri.

 Alla maniera di vivere di Hegel, che giustifica il presente e vivere nel mondo ufficiale,
nell’ambiguità caratteristica del mondo convenzionale in cui è necessario conciliare tutto secondo le
convenienze per non compromettersi, è necessario contrapporre un modo di vivere più
autentico e sincero: al pensatore conciliante è necessario contrapporre il pensatore non
ufficiale.

Secondo K il pensatore non ufficiale è il pensatore privato. K ha preferito la non realizzazione nel
generale.

Secondo F il pensatore non ufficiale è quello che vive in solitudine. Ideale: lo scrittore che non
appartiene a nessuna scuola o tendenza in particolare, che rimane ignorato. “Io sono qualcosa fin tanto
che non sono niente”.

CRITICA DELLA MANCANZA DI PRESUPPOSTI DELLA FILOSOFIA HEGELIANA.


K e F criticano quindi la filosofia assoluta di Hegel.

Per H la filosofia è assoluta perché, essendo l’autocoscienza della realtà, non ha presupposti e perché,
essendo l’autocoscienza della storia, si presenta come definitiva.

K e F intendono mostrare che la filosofia assoluta non può essere assoluta, perché ha presupposti e
non è definitiva.

Secondo K la filosofia hegeliana ha un presupposto, perché il sistema comincia con la riflessione. La


riflessione, di per sé infinita, per poter cominciare deve fermarsi, e per fermarsi ha bisogno di una
decisione: il presupposto del sistema è la decisione di spiegare la realtà col puro pensiero.

Secondo F la filosofia hegeliana ha presupposti in vari sensi:

1. Ogni filosofia, pur presentandosi come priva di presupposti, comincia con un presupposto, in
quanto è una manifestazione determinata nel tempo; il tempo successivo mette in chiaro ch’essa
aveva un presupposto particolare e accidentale: anche la filosofia h è sorta in un determinato
tempo, in cui c’era una determinata filosofia (quella postkantiana) con la quale essa si mette in
rapporto.
2. Ha il presupposto di riconoscere che la filosofia deve avere un cominciamento.
3. Bisogna distinguere tra il pensiero in sé e l’esposizione del pensiero, cioè fra il pensiero essenziale
e il pensiero sistematico.

 La filosofia H ha dunque come presupposto la pretesa di poter partire dell’essere astratto.

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CRITICA DEL CARATTERE DEFINITIVO DELLA FILOSOFIA HEGELIANA


Secondo K la filosofia hegeliana non può essere definitiva. Verrà il giorno in cui anche questa
apparterrà al passato. Essa pretende di contenere il tempo, ma non contiene il futuro: si propone di
contenere tutta la storia e lascia fuori la realtà dell’avvenire. Ma in fondo finisce per lasciare fuori di sé
anche il passato.

Secondo F la filo hegeliana è una filo del passato, e destinata ad essere confinata nel passato.

IL PROBELMA DELLA VERA REALTÀ E DEL NUOVO TEMPO.


Quindi  la filo H non è assoluta, perché lascia fuori di sé la realtà e il tempo. (presupposto di conciliare
realtà con pensiero nel puro pensiero; lasciando fuori di sé la vera realtà non è definitiva e conclusiva).

ROTTURA E CAPOVOLGIMENTO DEL SISTEMA.


Per raggiungere la realtà …
… K spezza il sistema  combatte la totalità in cui si perde il senso della singolarità e
dell’irreperibilità.
… F lo capovolge  combatte l’astrattezza del sistema in cui si perde la natura sensibile.

ROTTURA E CAPOVOLGIMENTO DELLA CONCILIAZIONE HEGELIANA DI ESSERE E


PENSIERO
Secondo K indagare astrattamente la realtà significa considerarla come possibilità, cioè prescindere dal
singolo e dall’accidentale che appartengono alla realtà. La realtà non svuotata e non ridotta a possibilità,
la realtà piena e integrale, è l’esistenza, che non si può ridurre a possibilità né a necessità. Delle
categorie della modalità K sottolinea quella della realtà: invano per lui il sistema riduce la realtà a
possibilità logica o a necessità logica. La realtà non si può ridurre né a necessità né a possibilità, ma la si
coglie soltanto attraverso la contingenza.

Secondo F il pensiero offre l’unità mediata di essere e pensiero. Il pensiero è soggetto e l’essere è
predicato.  in realtà si concilia essere e pensiero dal punto di vista del pensiero, conservando così
l’essere fuori dal pensiero. Per trovare la realtà è necessario dissociare la mediazione hegeliana perché
proprio questa mediazione presuppone una dissociazione arbitraria.  bisogna rovesciare l’affermazione
hegeliana che il pensiero è soggetto e l’essere predicato e affermare quindi che: l’essere è soggetto e il
pensiero è predicato.  si supera quindi il contrasto dal punto di vista dell’essere.

ROTTURA E CAPOVOLGIMENTO DELLA CONCILIAZIONE HEGELIANA DI FINITO E


INFINITO
Secondo K la filosofia di H è teocentrica (Dio = principio di realtà e punto di riferimento per ogni
manifestazione umana), nel senso che considera la realtà del finito solo nella sua negazione dell’infinito, si
che l’individuo trova la sua immortalità solo quando sia soppresso come individuo, e considera l’esistenza
priva del movimento della sua temporalità. Bisogna separare dunque e contrapporre finito e infinito,
tempo ed eternità e interporre la infinita distanza qualitativa fra uomo e dio. Negatività del finito  Di
fronte a dio l’uomo non può che esser peccatore, finito, miserabile: di fronte all’infinito il finito sta nella
sua solitudine e nel suo peccato.

Anche secondo F la filo di H è teocentrica. Dal’altra parte, dichiarando che l’infinito è reale solo nel finito,
essa ammette che il finito è l’attestazione e la realizzazione dell’infinito. Nasce una contraddizione: il finito
come realizzazione dell’infinito insorge contro l’infinito che nega in sé il finito. Per annullare il contrasto e
trovare l’unità bisogna conciliare finito e infinito dal punto di vista del finito. Il finito è la vera realtà
dell’infinito, nel senso che lo stesso finito è l’infinito: come soggetto non è il pensiero, ma l’essere, e
predicato è non l’essere, ma il pensiero, così la vera sostanza non è più l’infinito, ma il finito stesso, che
pur mantenendo i suoi caratteri di finitezza, ha anche le qualità dell’infinito.

 K pone il finito davanti all’infinito.


 F pone il finito come infinito.

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ROTTURA E CAPOVOLGIMENTO DELLA CONCILIAZIONE HEGELIANA DI UOMO E DIO


 H afferma che la coscienza umana di Dio è la stessa autocoscienza di Dio, ammettendo che
l’autocoscienza divina include un’alienazione interna, mediata in modo che la relazione di Dio con
sé risolve in sé la relazione dell’uomo con Dio.

Secondo K questo è un punto di vista teocentrico, che non interessa l’esistente, il quale deve
accontentarsi di esistere nella sua soggettività. In H vi sono due relazioni: quella di Dio con sé e quella
dell’uomo con Dio; non c’è la relazione dell’uomo con sé in quanto tale. È solo dio che si mette in rapporto
con sé, attraverso l’uomo  l’autocoscienza non è dell’uomo ma solo di dio.
K sostituisce al punto di vista di dio quello dell’uomo. L’autocoscienza è umana e non divina, ma sussiste
la relazione con Dio, che rende possibile la relazione dell’uomo con sé. Vi sono sempre due relazioni, ma
senza mediazione.

Anche secondo F il punto di vista di H è teocentrico. Dio è il soggetto e l’uomo è il predicato. Hegel ha
ridotto la relazione dell’uomo con dio alla relazione di dio con sé: bisogna capovolgere questa mediazione,
negando l’autocoscienza di dio e sostituendole l’autocoscienza dell’uomo, e riducendo la relazione
dell’uomo con dio all’autocoscienza dell’uomo. Hegel ha umanizzato dio, ma non ha osato affermare
l’uomo come dio. Bisogna ridurre la teologia ad antropologia, il panteismo ad ateismo, mutare il sogg in
predicato e il predicato in sogg. Dio non è altro che l’uomo alienato, che si pone fuori di sé: bisogna
sopprimere l’alienazione dell’uomo, cioè eliminare il carattere indiretto della relazione dell’uomo con dio.

DUE POSSIBILITà TIPICHE: AFFERMAZIONE O NEGAZIONE DI DIO. IL PENSIERO


SOGGETTIVO E LA NUOVA FILOSOFIA.

Pensatore soggettivo  K  è quello che pensa, ma al tempo stesso esiste, e non si dimentica di
esistere. L’essenziale, per lui, è pensare esistendo e esistere pensando. Non pone mano a sistemi, ma alla
speculazione contrappone la sua psicologia sperimentale (nei suoi scritti non procede deducendo teoremi,
ma divaga).

Filosofia dell’avvenire  F è la filosofia dell’uomo che pensa, ed è la negazione della filosofia


scolastica. Il filosofo vero non pone mano a sistemi, ma si conduce in maniera esplicativa, e alla
costruzione sistematica preferisce una collezione di aforismi. La nuova filosofia deve muovere dall’uomo
completo, cioè dalla testa e dal cuore: dalla testa, che è la fonte dell’idealismo, del pensiero, della verità,
della filosofia e dal cuore, che è fonte dell’intuizione, della vita, dell’esistenza.

LA CRISI COME DISSOLUZIONE DELLA CONCLUSIONE E PROBLEMA DEL NUOVO


PRINCIPIO.
La filosofia hegeliana come autocoscienza della storia lascia fuori di sé il tempo, perché conclude la storia.

K e F accolgono il tempo come istanza reale contro la conclusione della storia. Si pongono nella crisi come
dissoluzione della conclusione e problema d’un nuovo principio.

DISSOCIAZIONE DELLA CONCILIAZIONE HEGELIANA DI FILOSOFIA E RELIGIONE.


 K e F dimostrano che la filo hegeliana è inconciliabile con la vera essenza della religione.

Per K la filosofia è sapere, il cristianesimo è fede. Oggetto del sapere è l’oggettività; ma il cristo è oggetto
di fede, e tale può essere solo a patto che non sia oggetto di sapere. Il sapere è oggettività e il
cristianesimo è soggettività.
Il cristianesimo quindi è oggetto di decisione soggettiva: il problema della verità del cristianesimo non
risiede nella sua dimostrabilità o nella dimostrazione della sua mediabilità nella religione, ma nella sua
ricezione da parate del soggetto. La dimostrazione non serve a nulla per la fede: tutt’al più serve ad
attirare l’attenzione sì che si possa giungere al punto in cui si deve scegliere se credere o no. La
dimostrazione della verità di fede annulla la fede. La fede è tale perché non ha niente a che fare con la
ragione.

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Eppure la speculazione ha voluto conciliare il sapere con la fede, e l’ha fatto integrando la fede nel
sapere, risolvendo il cristianesimo in filosofia. “La speculazione non dice che il cristianesimo sia una
non verità: al contrario, dice che è in grado di cogliere la verità del cristianesimo”. Per la speculazione si
tratta di dimostrare la verità del cristianesimo. Ma comprendere il cristianesimo e dimostrare la verità
significa integrare il cristianesimo nella filosofia e quindi, ridurre la verità del cristianesimo alla verità della
filosofia, la verità della fede alla verità oggettiva. Così la speculazione riduce la fede a oggettività.
Il cristianesimo riguarda l’esistenza, ma l’esistenza è l’opposto della speculazione. Proprio perché il
cristianesimo non è una dottrina, vi è una differenza infinita tra sapere cos’è il cristianesimo ed essere
cristiano. Perciò cultura e sapere non sono un avvicinamento al cristianesimo, anzi! Cristianesimo e
filosofia quindi sono inconciliabili e ogni tentativo di conciliarli fallisce, perché nega la fede nel sapere e il
cristianesimo nella filosofia.

Anche F critica la pretesa conciliazione hegeliana di filosofia e religione. Religione e filosofia poggiano su
attività spirituali opposte: la base della filosofia è il pensiero, la base dalla religione è il sentimento e la
fantasia. Ogni speculazione religiosa è menzogna: ogni mediazione di dogmatica e filosofica è
un’unificazione forzata. Bisogna mettere al posto della religione la filosofia, ma come religione stessa:
l’uomo al posto del cristiano, ma come uomo completo e religioso e non più astratto pensante.

SUPERAMENTO DELL’INDIFFERENZA HEGELIANA VERSO IL CRISTIANESIMO


Per H la religione cristiana è la religione assoluta, in quanto è un fatto storico. H concepisce
l’assolutezza del cristianesimo come conclusione di storia  ferma il cristianesimo al presente.

Secondo K il cristianesimo come religione assoluta è espressione non del cristianesimo come fatto eterno,
ma dello stato presente della cristianità. Il cristianesimo oggi è morto.

Secondo F H presenta come cristianesimo la negazione stessa del cristianesimo, perché l’ha risolto nella
filosofia, e quindi l’ha superato e negato. Bisogna riconoscere la fine del cristianesimo.

DECISIONE DEL FUTURO DOPO LA CONCILIAZIONE.


Problema: Hegel ha voluto assolutizzare il presente, ma ora cosa succede?

Secondo K la filosofia è finita: non solo il tempo dei pensatori, ma anche il tempo del pensiero è passato.
La crisi presente è annunciata dall’avvento dei pensatori speculanti, poiché la crisi si presenta come
crisi del loro pensiero. Si è perso il concetto di soggettività: il singolo si perde nella massa, il
socialismo e il negativo principio di associazione sopprimono l’individuo. Oggi è il tempo della massa, e la
massa non è una categoria religiosa, perché la causa del cristianesimo vince o perde a seconda che si
mantenga o meno il singolo. Il politico troverà la religione troppo ideale e non pratica. Eppure solo dalla
religione il tempo può sperare salvezza. Il tempo presente ha bisogno di passione e anche d’eternità.
Bisogna sperare in una rivoluzione religiosa, che rinnovi il cristianesimo e risolva la crisi. Solo
con la potente interiorità del credente si vince la prepotente volontà dello stato.

Anche per F la filosofia è morta perché si è conclusa in H. Il presente è la conclusione di un grande


periodo storico dell’umanità e proprio perciò è il punto di partenza di una nuova era. Ma bisogna avere il
coraggio di negare il passato, per credere in qualcosa di nuovo. Bisogna avere il coraggio di negare la
filosofia, cioè di passare alla non filosofia. consiste nella filosofia che riassume in sé l’essenza della
religione dopo che l’ha negata: ora il filosofo nella non filosofia è la politica, la quale è vera filosofia e la
vera religione. Questa nuova filosofia è la consapevolezza teorica dell’ateismo pratico, dato che lo stato e
l’organizzazione politica sono la negazione pratica della religione: lo stato è essenzialmente ateo, perché
presuppone una negazione pratica di Dio. La vera rivoluzione religiosa che scandisce la crisi come
passaggio al nuovo è la rivoluzione politica. Bisogna rendersi conto che il presente non è eterno.

IL FILOSOFO PROFETA
Con la riconquista del tempo mediante l’apertura del sistema, K e F si presentano come profeti. Non si
tratta più di interiorizzare, ma di agire. Il pensatore deve essere oggi predicatore e profeta.

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EQUIDISTANZA MA NON EQUIVALENZA DELLE DUE ISTANZE


L’alternativa posta dal dissolvimento della filosofia hegeliana è dunque: fine o ritrovamento del
cristianesimo. K e F coincidono nella comune constatazione della fine del cristianesimo, implicita
nell’attuale pratica di indifferenza e nel cristianesimo secolarizzato, e questa comune constatazione è il
presupposto necessario tanto dl riconoscimento feuerbachiano della necessità della fine del
cristianesimo quanto del riconoscimento kierkegaardiano dell’esigenza di un rinnovamento di
esso. K non osa chiamarsi cristiano e F si dichiara non cristiano. K può servirsi di F ma F non può servirsi
di K.

L’alternativa di K è: essere cristiani schietti, cioè credenti per fede contro la speculazione, o pagani
schietti, cioè speculanti che risolvono il cristianesimo in filosofia, cristiani laici.

L’alternativa di F: essere cristiani ipocriti, cioè cristiani laici, o sinceri non cristiani. Per F l’unica
possibilità di negare l’ateismo, cioè di opporsi alla fine del cristianesimo, sarebbe restare nell’hegelismo.

CAPITOLO 2: ATTUALITA DELL’ESISTENZIALISMO

FILOSOFIA DELLA CRISI?


Quando si afferma che l’esistenzialismo è la filosofia della crisi si vuol dire che esso esprime quel
senso di depressione, di disorientamento che sembra caratterizzare la coscienze contemporanea. Segna la
conclusione, cioè la crisi della filosofia hegeliana.

L’ESISTENZIALISMO COME FILOSOFIA DELLA CRISI


Dire che l’esistenzialismo è filosofia della crisi è servirsi d’un’espressione equivoca e ambigua. Può
significare:

- attestazione della crisi  l’esistenzialismo è inglobato a sua volta nella crisi.


- coscienza critica della crisi  l’esistenzialismo è il punto di partenza per un nuovo principio, come
istanza ad uscire dalla crisi e a prendere una decisione.
- soluzione e superamento della crisi  l’esistenzialismo è lo stesso superamento della crisi e
l’inizio di una nuova epoca nel mondo della cultura. Quindi è la soluzione della crisi.  questo è il
giudizio degli stessi esistenzialisti.

 Tuttavia questi giudizi non raggiungono l’essenza dell’esistenzialismo. L’esistenzialismo è


qualcosa di più della mera espressione della crisi e qualcosa di meno della soluzione della
crisi. È consapevole del fatto che la filosofia hegeliana è una conclusione, e quindi c’è bisogno di un
nuovo principio. D’altra parte non è ancora una soluzione della crisi, perché mantiene un legame con
la filosofia hegeliana. L’esistenzialismo però è l’unica filosofia contemporanea che rappresenta i
problemi più urgenti del giorno d’oggi.

DISSIPAZIONE DELL’AMBIGUITA HEGELIANA


Il marxismo nasce da Hegel sempre considerando Hegel nella sua ambiguità: secondo il marxismo H per
un verso afferma la perenne mobilità della storia (= l’essenza intimamente rivoluzionaria del tempo nel
mondo umano), e per l’altro tenta di chiudere in un sistema conservatore la totalità della storia,
procurando in tal modo di concludere il tempo. Su questo punto marxismo ed esistenzialismo coincidono.

DISSIPAZIONE DELL’AMBIGUITA DELLA CONCEZIONE HEGELIANA DEL FINITO


Ambiguità di H nei confronti del finito: per un verso sembra non essere altro che l’esaltazione del
finito. L’infinito secondo H non si può manifestare che nel finito, si che il finito diventa nella sua stessa
finitezza portatore dell’infinito. Si che l’individuo singolo diventa portatore dell’assoluto nella storia. 
forte senso dell’individualità. Per l’altro verso nega il finito: il particolare e l’individuale non sono che un
modo della storia, un momento del divenire dello spirito, un mezzo di cui si serve lo spirito per i suoi fini.

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Come risolve questa ambiguità l’esistenzialismo? Evitando l’assorbimento dialettico del finito
nell’infinito. Due possibilità:

1. Il finito di fronte all’infinito.


2. Il finito con la soppressione dell’infinito.

 Ciò nonostante il finito dell’esistenzialismo continua ad essere il finito di Hegel:


1. Il finito di fronte all’infinito, cioè l’uomo di fronte a Dio, è considerato negativo e peccatore.
2. Il finito sufficiente in sé stesso, cioè l’uomo senza Dio, è considerato negativo e bisognoso.
 Il carattere negativo continua a ripetersi come nel caso di Hegel ch’era rappresentato
dall’assorbimento.

DISSIPAZIONE DELL’AMBIGUITÀ DELLA CONCEZIONE HEGELIANA DELLA RELIGIONE


Ambiguità di H nei confronti della religione:
- per un verso la esalta: la stessa filosofia è la religione giunta alla completa autocoscienza. La filosofia
è un servizio divino.
- Per l’altro verso la nega: ha una tendenza razionalistica e perciò antireligiosa. La religione non è che
una forma inferiore, la quale, una volta che l’assoluto è attinto dalla filosofia, non ha più ragion
d’essere. È anche un passato rispetto all’età moderna, ch’è l’età della filosofia moderna, e ci che
rimane della religione come religione, non assorbita in filosofia, non è che sopravvivenza residuale
senza valore. La filosofia quindi è l’affermazione della mortalità della religione.

Come risolve questo problema l’esistenzialismo? Due possibilità:


1. Dissociando il cristianesimo dalla filosofia, proclamando il valore eterno del cristianesimo come
fede puramente religiosa, ritrovando così un cristianesimo non più secolarizzato, ma veramente
religioso.
2. Portando alle estreme conseguenze il superamento del cristianesimo nella filosofia, proclamando la
fine del cristianesimo, facendo così una filosofia non cristiana, anzi anticristiana.
 Tuttavia il cristianesimo ritrovato e l’anticristianesimo portano ancora con sé elementi
hegeliani.
1. Il cristianesimo ritrovato è concepito in antitesi con la filosofia, ma solo se per filosofia si intende
quella hegeliana.  il cristianesimo non viene realmente ritrovato.
2. La proclamazione della fine del cristianesimo presuppone che effettivamente la filosofia hegeliana
abbia superato e assorbito il cristianesimo.  il cristianesimo non viene realmente eliminato.

DISSIPAZIONE DELL’AMBIGUITA DELLA CONCEZIONE HEGELIANA DELLA FILOSOFIA


Ambiguità di H verso la filosofia:

- Da un lato sembra essere l’affermazione della storicità della filosofia.  nessuna delle filosofie che
esprimono un periodo di storia ha il diritto di presentarsi come assoluta e definitiva  la sua validità
deve essere relativata al periodo storico in cui è sorta.
- Dall’altro lato, la filo H si presenta sé stessa come filosofia assoluta. Solo la sua filo è in grado di
porsi nel punto di vista della totalità compiuta.

L’esistenzialismo? Due possibilità:

1. Filosofia come eccezione: come prospettiva singola, assoluta, nel senso ch’è valida per me solo,
incomunicabile agli altri  ognuno filosofa per conto suo.
2. Impossibilità della filosofia: non essendovi altra filosofia che quella assoluta, ed essendo questa
inaccessibile all’uomo, questi non può sperare di giungere alla verità filosofando e quindi non gli
resta altro che la non filosofia, cioè l’azione, il sentimento, la fede, la vita.

Tuttavia si trovano ancora concetti hegeliani:


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1. Conserva i concetti di storicità e di particolarità.


2. Presuppone ancora che l’unica vera filo sia quella assoluta.

FORZA DELL’ESISTENZIALISMO
L’esistenzialismo è l’unico interprete autorizzato della crisi odierna, in quanto dimostra il fallimento del
razionalismo metafisico ch’è l’essenza di gran parte della filosofia moderna da Cartesio a Hegel.
Dimostra l’inutilità della superbia della ragione. Ci sono esistenzialisti che hanno due opposte
tendenze: quella atea e quella cristiana.

Problemi attuali: la persona, la realtà storica e religiosa del cristianesimo, il riconoscimento della
storicità e personalità della filosofia.

L’esistenzialismo ha elaborato il concetto di singolarità: mostra il singolo nella sua individualizzazione


puntuale, e dimostra ch’esso non è individuale, ma unico, né particolare, ma intero, e che l’io è invece
singolare  unico e intero, e perciò irripetibile nella sua definita inconfondibilità.

Dimostra che oggi non è possibile filosofare se prima non si risponde a questo problema: fine o
ritrovamento del cristianesimo? Solo dopo aver risposto sarà possibile costruire qualcosa di nuovo.

Dimostra che non si può filosofare senza affrontare il problema della possibilità della filosofia, e senza
riconoscere il carattere storico e personale della filosofia. L’esistenzialismo ha eliminato
definitivamente la filosofia oggettiva.

Dimostra che il filosofo è incluso nello stesso oggetto della sua indagine: se l’oggetto della
filosofia è l’essere, il filosofo non deve dimenticare ch’egli stesso è, e che lo stesso pensiero con cui egli
pensa è, e che perciò il soggetto personale e l’atto del filosofare sono inclusi nello stesso oggetto del
filosofare.

DEBOLEZZA DELL’ESISTENZIALISMO
L’ambiguità della sua posizione di fronte all’hegelismo, che rende impossibile risolvere la crisi.

Due tendenze dell’esistenzialismo:

- Cristiana  tende a risolversi in spiritualismo


- Atea  tende a risolversi in umanismo. #marx

L’esistenzialismo che resta aperto e problematico è vivo, mentre caduco è quello che pretende di
concludersi in sé stesso, o ricalcando l’hegeliano spirito di conciliazione o presentando come soluzione la
sua stessa problematicità.

CAPITOLO 3: IL PROBELAMA FILOSOFICO DEL MARXISMO

LA CRISI DELL’IDEALISMO
Le due correnti filo che sembrano oggi detenere il monopolio dell’attualità sono l’esistenzialismo e il
marxismo, le quali avanzano la pretesa di aver definitivamente distrutto l’idealismo.  secondo l’autore
non sono realmente riuscite ad eliminare l’idealismo. Esistenzialismo e marxismo sono così legati
all’idealismo, che la vera condizione della loro validità è che l’idealismo ancora conserva la sua attualità
per mancanza di una critica adeguata.

L’IDEALISMO COME RAZIONALISMO METAFISICO


L’idealismo moderno ha conseguito la sua forma più coerente e perfetta nella filosofia hegeliana. È
nell’hegelismo che si trova l’epilogo della progressiva trasformazione alla quale l’oggettivismo è stato
sottoposto dalla filosofia moderna. L’oggettivismo presuppone che la ragione raggiunga l’essenza della
realtà da un punto di vista esterno alla realtà stessa. La concezione secondo la quale il pensiero è esterno
al suo oggetto, e quindi la ragione è finita e limitata, fu sostituita dalla concezione secondo la quale il
pensiero è assoluto e infinito, e quindi la ragione non può avere altro oggetto che sé stessa, né può

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conoscere una realtà fuori di sé. Il soggettivismo presuppone la distinzione tra sogg e ogg e all’interno
di questa distinzione accentua il soggetto. Il sapere assoluto, invece è la ragione che contempla sé stessa
 primo carattere della filo hegeliana.

Inoltre, solo l’infinito ha carattere di positività. Se l’infinito (Dio) esiste, esso è tutto, e quindi l’uomo
(finito) è nulla.

Condizionalità storica della filo: la preoccupazione di H è quella di evitare l’assolutizzazione delle filo
storiche considerate dal tempo in cui sono sorte. Tuttavia solo dal punto di vista della ragione assoluta il
filosofo può farsi consapevole della storicità delle filo, si che la ragione assoluta si presenta anche come la
tot della storia della filosofia.

DISSOLUZIONE ESISTENZIALISTICA DEL RAZIONALISMO METAFISICO


Le filo che si sono susseguite nella storia costituiscono punti di vista finiti, legati al tempo in cui si svolsero
e quindi non possono essere assolutizzate. Solo una filo assoluta può constatare la condizionalità storica di
ogni filo particolare.  questa contraddizione è stata svelata dagli esistenzialisti cent’anni fa. Due
soluzioni:

1. O si dice che la vera filo è quella assoluta, ma essendo questa inaccessibile all’uomo non resta che
proclamare l’impossibilità della filo e affermare che l’uomo non può raggiungere la verità se non
attraverso la non filo, cioè la vita e l’azione.
2. O si dice che all’uomo non restano che le prospettive storiche e particolari, che sono concrete e
inserite nella temporalità vissuta, e sole meritano il nome di filo, perché ogni prospettiva, non più
integrata nella tot della filo assoluta, è chiusa in sé stessa, singola e irripetibile, nella sua finitezza.

DALL’ESISTENZIALISMO AL MARXISMO
È da questa problematica che nasce il pensiero di Marx. Secondo Engels, dal punto di vista di Marx, vi
sono in H due atteggiamenti opposti:

1. Un atteggiamento rivoluzionario: affermazione del carattere storico della filo.


2. Atteggiamento reazionario: affermazione del carattere assoluto della filo.

Contraddizione: solo chi ignora che ogni filo è espressione del suo tempo può in buona fede considerare la
propria filo come assoluta e definitiva.

Marx non rimane soddisfatto della soluzione esistenzialistica, e intende riprendere il tentativo hegeliano di
trovare la filo che spieghi il divenire storico e la successione dialettica delle filo, senza tuttavia integrarle
hegelianamente nella filo assoluta. Il marxismo è la forma che l’hegelismo deve assumere per porsi in
grado di risp alle critiche esistenzialistiche.

L’APERTURA MARXISTICA DEL SISTEMA HEGELIANO


La dialettica hegeliana traccia l’ascesa dialettica dello spirito assoluto attraverso tre gradi: l’arte, la
religione e la filosofia. Il passaggio dall’uno all’altro è determinato dal superamento che fa sì che il grado
inferiore sia negato ma al tempo stesso conservato nel superiore, e la necessità del passaggio al grado
superiore è motivata dall’insufficienza e dalla parzialità dell’inferiore. Il fondamento del passaggio alla
religione è che l’arte supera il finito, ma ancora nella forma del finito; la causa del passaggio alla
filosofia è che la religione supera l’arte, ma ancora nella forma dell’arte. Per H questa ascesa dialettica
termina con la filo che le conferisce una carattere di tot completa e definitiva.

La critica esistenzialistica di F mostra l’arbitrarietà di questa conclusione nella filosofia. La filo di H è in


realtà una teologia. È necessario dunque un nuovo passaggio, il passaggio a un nuovo termine che realizzi
veramente la filo, senza presentarla più nella forma della religione.  la non filosofia = la negazione
della filo, ovvero la filo pratica = la politica.  soluzione esistenzialistica.

Secondo Marx però la non filosofia esistenzialistica resta comunque una dottrina, non è una vera
negazione della filosofia. La vera non filo non è la filo dell’azione, ma la stessa azione come filo, e unica

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filo possibile: non filo dell’azione, ma filo come azione, e azione come filo. Secondo Marx quindi la filo è la
filosofia realizzata.

IL PROBELMA DELLA REVIVISCENZA DI ESISTENZIALISMO E MARXSISMO


Il marxismo intende essere il superamento dell’esistenzialismo. Tuttavia, a distanza di cent’anni,
l’esistenzialismo si affaccia nuovamente alla scena filo odierna.  l’idealismo non è stato superato.

Rispetto al vecchio esistenzialismo, quello nuovo sostituisce alla filosofia assoluta di Hegel
l’assolutizzazione di ogni filo. Il suo problema è: com’è possibile filosofare dopo che il principio della
eccezionalità della filo ha soppresso ogni possibilità di una filo comunicativa e universale? Ne segue un
inevitabile ritorno a H e il tentativo di riconferire un senso alla filo intesa come contemplazione e
comprensione.

Il marxismo ha preparato il risorgere dell’esistenzialismo. Dall’altra parte l’esistenzialismo si presenta


come un invito a ritrovare l’attualità di Marx.

IL PRINCIPIO DELLA CONDIZIONALITÀ STORICA DELLA FILOSOFIA


Esistenzialismo e marxismo hanno dimostrato l’impossibilità di un punto di vista assoluto e tentato di
conservare il principio della condizionalità storica della filo, ma non hanno dissociato quest’ultimo principio
da quello della complementarietà di finito e infinito. Fin tanto che non si fa questa dissociazione,
l’affermazione della condizionalità storica della filo continuerà a involversi nelle difficoltà in cui è venuto a
urtare il pensiero contemporaneo.

L’IMPORTANZA SPECULATIVA DEL PROBLEMA IMPOSTATO DALLA REALTÀ DEL


MARXISMO E DELL’ESISTENZIALISMO
Solo una nuova definizione metafisica dei rapporti tra finito e infinito, non più concepiti come
complementari, ma considerati nella loro mutua incommensurabilità, permetterà di uscire
dall’idealismo inteso come razionalismo metafisico, e quindi non solo di oltrepassare esistenzialismo e
marxismo, ma anche di dare una soluzione alla crisi in cui si trova la cultura oggi.

CAPITOLO 4: LA SITUAZIONE RELIGIOSA ATTUALE.

LA CRISI DELLA CULTURA MODERNA


Il problema è dunque il cristianesimo oggi.  questo problema ne coinvolge un altro: quello
dell’oggi. Il momento in cui viviamo è un momento di crisi. La crisi odierna è la crisi di una cultura.

Crisi = dissoluzione di una conclusione e problema d’un nuovo principio.

Il problema quindi è: qual è la cultura la cui dissoluzione costituisce la crisi odierna?

La cultura in crisi è la cultura moderna, che culmina appunto nell’idealismo storicistico, e l’idealismo
storicistico, in quanto conclusione della cultura moderna, ne segna inevitabilmente la crisi.

CRISTIANESIMO E CULTURA MODERNA


Due questioni:
1. Il cristianesimo è anch’esso ricompreso nel mondo della crisi? (Sì)
Per rispondere a questa domanda è necessario definire i rapporti tra cristianesimo e cultura moderna
culminante nell’idealismo storicistico.  rapporti pessimi (conflitto), in quanto la cultura moderna si
poneva, essa stessa, come cristiana, di contro al cosiddetto cristianesimo formale, di fronte al
cristianesimo del dogma e del rito. La cultura moderna afferma di avere un carattere cristiano  il
cristianesimo consono alle esigenze dell’uomo moderno, di fronte a quello medioevale e dogmatico, che
ha voluto fermare la storia e chiudersi ai nuovi bisogni dell’uomo oggi. Sulle basi di questa dissociazione si
è stabilita una strana complicità fra il cristianesimo dogmatico e quello laico  lo sterile conformismo del
cristiano che scambia il possesso della verità con l’inutilità della ricerca è stato non poco incrementato

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dall’atteggiamento del cristiano laico contrario all’autorità  tipo di conformismo che si è radicato sempre
di più, diventando bersaglio dello stesso laico che l’hai incrementato e favorito. Tale complicità è
strettamente legata alla cultura moderna, in quanto questa ha voluto laicizzare e secolarizzare il
cristianesimo, e quindi ne segue le sorti.
Il momento storico in cui viviamo è la fine della civiltà cristiana.

2. Il cristianesimo ha qualche istanza da far valere per il rinnovamento successivo alla


dissoluzione? (NO)
Finita la cultura cristiana, non c’è posto che per una cultura non cristiana. Il principio che deve stare alla
base della nuova cultura presuppone la negazione radicale del cristianesimo. È necessario distruggere
tutti i residui di quello che è stato l’ispiratore della vecchia cultura  solo così si può sperare di costruire
un edificio solido sin dalla base. È così che il crollo e il fallimento del cristianesimo laico porta
necessariamente all’anticristianesimo. Il cristianesimo è impotente nel rispondere ai nuovi bisogni e alle
nuove esigenze che la storia porta oggi alla ribalta col suo movimento.

DISSOCIAZIONE DEL CRISTIANESIMO DALLA CULTURA MODERNA COME


CONDIZIONE DELLA SUA ATTUALITÀ
Eppure il cristiano non rinuncerà a dire la sua parola nell’opera del rinnovamento. A un patto solo la sua
parola avrà una validità efficace nel momento presente: che egli non si limiti a tentar di negare con la
semplice polemica l’anticristianesimo trionfante, confermando così l’impotenza dei mezzi di cui dispone.
Perché il cristianesimo abbia qualcosa da dire nel momento presente, bisogna che riconosca la realtà della
crisi, e si ponga non prima, ma dopo la crisi.
Il paradigma anticristiano della rinnovamento presuppone l’identificazione del cristianesimo col
cristianesimo laico  che l’unica moderna e valida forma di cristianesimo sia la secolarizzazione di esso. Il
cristiano dunque, se vuole salvare la validità del cristianesimo, deve dissociarlo dalla cultura moderna in
dissoluzione. Il cristiano che riconosce la realtà della crisi deve necessariamente dissociare il cristianesimo
dalle forme storiche di cultura in cui esso si è realizzato, sino alla forma culminante della cultura moderna.

ETERNITà DEL CRISTIANESIMO COME CONDIZIONE DELLA SUA DISSOCIABILITà


DALLA CULTURA MODERNA
Il cristianesimo è veramente dissociabile dalle sue forme storiche soltanto se viene considerato
come fatto eterno. La storia del mondo cristiano non coincide con la storia del cristianesimo. L’atto con
cui si considera il cristianesimo come un fatto eterno ha solo un nome: fede. Il cristianesimo in tal modo
ritrovato è il cristianesimo religioso, che non si lascia risolvere e tanto meno esaurire nella filo, perché è
oggetto di un’adesione che muove dalla fede. Il cristianesimo è eterno in quanto è la parola di dio.
Garantita con l’eternità del cristianesimo la sua dissociabilità dalle forme storiche di cultura in cui esso
s’incarna, il cristiano potrà vedere nella realtà trascendente del cristianesimo il principio della
riedificazione. Solo in quanto fatto eterno, il cristianesimo sarà pronto a dar vita a un’altra forma aderente
ai nuovi bisogni e alle nuove esigenze.

IL DILEMMA ODIERNO: PER O CONTRO IL CRISTIANESIMO


Uno dei problemi della situazione culturale d’oggi è che l’uomo di cultura possa anche disinteressarsi di
questo problema, volgendo lo sguardo ad altri problemi che gli sembrano essere più pressanti.
Per poter risolvere in modo stabile i problemi contingenti che la vita di oggi presenta, bisogna prima aver
risolto quello filo e reli, dalla soluzione del quale dipende la costruzione di quella nuova cultura in cui solo
l’uomo d’oggi potrà trovare la sicurezza delle proprie norme, certezze dei valori a cui credere.
Emergono solo due possibilità dalla dissoluzione della cultura in crisi: la negazione del cristianesimo o il
cristianesimo ritrovato.  l’uomo non può rimanere indifferente.

ORIGINE E PERENTORIETÀ DELL’ALTERNATIVA

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Il razionalismo ha identificato il punto di vista dell’uomo con quello di dio.


Nella dissoluzione del razionalismo si è posto in luce che l’uomo non è dio.  da qui la duplice possibilità
dell’uomo con o senza dio. Da un lato l’umanismo ateo e dall’altro il teismo umanistico.
Il razionalismo ha voluto assorbire il cristianesimo in un orizzonte puramente filo, secolarizzando la
rivelazione; nella dissoluzione del razionalismo si è posto in luce l’equivoco della filo cristiana. Da un lato
la negazione del cristianesimo e dall’altro il suo ritrovamento.
Il cristianesimo laico è la conservazione del cristianesimo sotto la forma della sua stessa negazione. Ne
risulta una duplice possibilità: o si conduce fino in fondo questa negazione o si svincola il cristianesimo da
quella filo che l’incapsula e in fondo lo nega, e se ne riafferma l’eternità come eguale presenza in ogni
attimo di tempo a segnare la crisi di ogni tentativo di negarlo o dissolverlo.

INSOSTENIBILITÀ DEL CRISTIANESIMO LAICO


Il cristianesimo laico è la forma filo dell’indifferenza verso il cristianesimo religioso. Il cristiano laico se
non vuole essere immorsato nella crisi che intacca la sua filo, deve modificare il suo atteggiamento
riguardo al cristianesimo o mutare la sua indifferenza in avversione programmatica e dichiarata o
cambiare la sua simpatia in apologia decisa e aperta. Deve scegliere tra umanismo e teismo.

L’ANTICRISTIANESIMO COME CRISI E ANTITESI DEL CRISTIANESIMO LAICO


L’anticristianesimo da un lato continua l’opera del cristianesimo laico e dall’altro vi si oppone. Le si
oppone perché muove dal presupposto della crisi interpretata come crisi della cultura del cristianesimo
laico. La continua in quanto accetta l’identificazione del cristianesimo col cristianesimo secolarizzato, cioè
il presupposto dello stesso cristianesimo laico. L’anticristianesimo continua quindi lo stesso equivoco nel
quale il cristianesimo laico era incorso, perché anche per esso non c’è cristianesimo se non nella forma filo
che ad esso ha dato la sua secolarizzazione. Ma l’anticristianesimo deve dimostrare filosoficamente
l’impossibilità che il cristianesimo riemerga dopo la crisi. Non deve limitarsi ad assumere senza critica il
presupposto che il cristianesimo si risolva nella sua secolarizzazione, altrimenti l’anticristianesimo si pone
solo come antitesi del cristianesimo secolarizzato.

IL CRISTIANESIMO COME CRISI E OLTREPASSAMENTO DEL CRISTIANESIMO LAICO


Esiste una forma di cristianesimo che resiste vittoriosamente agli attacchi dell’anticristianesimo dalla crisi,
ed è il cristianesimo ritrovato dopo la crisi  è quello che riconosce la realtà della crisi, quello che non
teme la fine di una civiltà, perché non solo conosce il principio d’ogni crisi, ma anche conosce il principio
d’ogni rinnovamento. Accoglie ogni istanza dell’anticristianesimo e ne ratifica la polemica, in quanto è
diretta contro quella forma storica di cultura cristiana. Non solo accetta, ma ribadisce l’alternativa “fine o
rinnovamento del cristianesimo” e contempla la possibilità della fine del cristianesimo, anzi sancisce la fine
di una della sue forme di cultura. Il cristiano oggi ha il compito di fondare una nuova cultura cristiana e di
dar vita a un nuovo modo di ritrovare il cristianesimo.

NECESSITÀ DI DECIDERE L’ALTERNATIVA


Oggi non si può filosofare, né tentare di fondare la nuova cultura, se prima non si è risposto alla domanda
“fine o ritrovamento del cristianesimo?”. Se si sottrae all’opzione si perde ogni diritto a collaborare alla
fondazione della nuova cultura. Decisa l’alternativa, l’uomo di cultura si rimetterà a filosofare, e ne
nascerà la nuova cultura. Quale e come questa abbia da essere è impossibile prevedere da un punto di
vista filo.

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CAPITOLO 5: POSSIBILITÀ D’UN ESISTENZIALISMO CRISTIANO

ESISTENZIALISMO INCONSAPEVOLE DELLA PROPRIA STORICITÀ


L’esistenzialismo scambia l’uomo con l’uomo eterno, assolutizzando così l’uomo odierno, trasponendo su
un piano metafisico l’attuale situazione storica. Questa osservazione muove da due presupposti:

1. Che l’esistenzialismo è talmente consapevole della crisi attuale, ch’esso ha saputo farne una
filosofia: la filo che si pone come presa di coscienza della crisi.
2. Che l’esistenzialismo è poco consapevole del carattere storico (e della crisi), da presentare la
situazione odierna come l’eterna situazione dell’uomo: la filo che chiude la crisi in sé e la estende
alla natura stessa dell’uomo.
 Sembrano in contraddizione: in realtà è evidente la denuncia aperta della crisi da parte
dell’esistenzialismo e l’inconsapevole testimonianza dell’origine storica di essa  la crisi e
l’esistenzialismo hanno un’identica origine.

NECESSARIA RISOLUZIONE MATERIALISTICA DI QUESTO ESISTENZIALISMO


Altri termini della dissoluzione dell’hegelismo come umanesimo e materialismo storico si pongono
rispettivamente come la vera essenza e il definitivo superamento dell’esistenzialismo. Se l’esistenzialismo,
pretendendo di fare dell’uomo di d’oggi l’uomo eterno, si rivela incapace di definire storicamente la crisi,
esso non vale a tener testa alle ragioni che intono ad esso e contro di esso possono far valere
l’umanesimo e il materialismo, il primo richiamandolo a una maggiore coerenza nel dedurre le sue
conseguenze, e il secondo invitandolo a risolvere la sua problematicità in una presa di posizione che
l’oltrepassi.
L’incapacità di definire storicamente la crisi fa dell’esistenzialismo una filosofia che necessariamente si
risolve in umanismo e materialismo, le quali rinnovano la loro aderenza storica solo attraverso la
problematica messa a fuoco dell’esistenzialismo.

ESISTENZIALISMO INTERPRETE DELLA PROPRIA STORICITÀ


Il concetto della situazione attuale intesa come situazione eterna dell’uomo può essere interpretata anche
in altro modo. Si può pensare che a determinarla non sia l’incapacità di definire storicamente la crisi.
Questa nuova prospettiva vale per quelle forme di esistenzialismo che sono poco consapevoli del
carattere storico della crisi e che proprio per questo le prospettano su un piano eterno.  nell’uomo di
oggi si vede l’uomo in sé, ma non nel senso che l’uomo di oggi sia assolutizzato e la sua crisi sia
generalizzata a natura dell’uomo, ma nel senso che nell’uomo in sé si cerca il criterio per valutare l’uomo
di oggi e per giudicarne la crisi.
All’esistenzialismo che non è se non l’assolutizzazione dell’uomo d’oggi nella sua crisi si
contrappone in tal modo all’esistenzialismo che riconduce la crisi dell’uomo d’oggi alla natura
dell’uomo in sé.

DUE ESISTENZIALISMO: ESPRESSIONE DELLA CRISI ODIERNA E COSCIENZA DELLA


CRISI PERMANENTE
Vi sono dunque due forme di esistenzialismo:
- Quello che assolutizza l’uomo d’oggi facendone - Quello che interpreta l’uomo d’oggi in base alla
la filosofia; situazione stessa dell’uomo in sé;
- Quella che eternizza l’uomo di oggi; - Quello che storicizza in termini attuali l’uomo in
- Quello che concluderà un’età segnandone la sé;
crisi; - Quello che teorizza il motivo eterno d’ogni crisi;
- Quello nella cui epigonicità vive oscura e - Quello che indica la ragione eterna d’ogni
inconsapevole l’esigenza d’un rinnovamento; movimento.
- L’esistenzialismo che fa della problematicità - L’esistenzialismo che nella problematicità
dell’uomo d’oggi la premessa critica d’un dell’uomo d’oggi vede consapevolmente il segno
ritrovato umanesimo e materialismo in cui si d’un eterna problematicità, e quindi, riportando
dissolve e si nega. la crisi dell’uomo d’oggi ai suoi eterni motivi,
evita la necessità di una risoluzione
materialistica e allude un’altra soluzione di cui
esso rinnova l’attualità.

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Origine storica dell’esistenzialismo:


- Il razionalismo ( =idealismo storico) identificava il punto di vista dell’uomo con quello di dio.
- L’esistenzialismo ha posto in luce che l’uomo non è dio.
- Da qui: l’esistenzialismo di tendenza umanistica e quello di tendenza teistica.

Il razionalismo ha voluto secolarizzare il cristianesimo. L’esistenzialismo si è posto il problema: fine


del cristianesimo (esistenzialismo anticristiano) o ritrovamento dello stesso (esistenzialismo cristiano).

L’esistenzialismo che assolutizza l’uomo di oggi è l’esistenzialismo umanistico e anticristiano che non
si risolve se non nel materialismo, il quale supera il mondo concluso di cui l’esistenzialismo segna
inconsapevolmente la crisi.

L’esistenzialismo che sa valutare la crisi, perché conoscendo le possibilità umane la riposta alla situazione
originaria dell’uomo senza aver bisogno di assolutizzare la crisi presente, è l’esistenzialismo teistico-
cristiano.  conclude il mondo nel senso che ne è il giudizio critico di base a un criterio che, di volta in
volta, storicizzandosi, è in grado di spiegare ogni crisi.

CARATTERI DELL’ESISTENZIALISMO CRISTIANO


Esso deve avere questi due criteri:

1. Pur ponendosi dopo la conclusione del mondo in crisi, deve evitare la necessaria conseguenza
d’una risoluzione materialistica dell’esistenzialismo;
2. E proprio nell’atto di negarsi come esistenzialismo, costituire la premessa critica d’uno spiritualismo
che si pone al di à del materialismo e ne contempli le istanze.

L’esistenzialismo cristiano è il riconoscimento del fatto che oggi una filosofia non si può costruire se prima
non si è risposto alla domanda: fino o ritrovamento del cristianesimo?

L’esistenzialismo dimostra come il cristianesimo secolarizzato è la conservazione del cristianesimo sotto la


forma della negazione di esso. Quindi o si conduce fino in fondo la sua negazione o si svincola il
cristianesimo dalla filo che lo nega.

Per esistenzialismo anticristiano l’alternativa è fine o conservazione del cristianesimo secolarizzato.

 L’essenzialismo anticristiano è l’antitesi del cristianesimo secolarizzato, mentre quello


cristiano si pone al di à dell’uno e dell’altro.

DUE ESISTENZIALISMI: DISSOLUZIONE E GIUDIZIO DEL RAZIONALISMO


Il materialismo storico è la composizione della dissociazione fra ragione e antiragione, che conserva in
un certo senso la validità della ragione identificandola col tentativo del razionalismo.

L’esistenzialismo ha voluto dissipare l’equivocità del razionalismo con un nuovo equivoco: il


materialismo si pone come dissipazione di questo nuovo equivoco. L’esistenzialismo che evita una sua
necessaria risoluzione materialistica non si pone come pura e semplice antitesi del razionalismo: esso non
identifica la ragione con l’assolutizzazione di essa. Al contrario, mette in luce il carattere irrazionalistico
dell’assolutizzazione della ragione, si che l’equivocità del razionalismo è dissipata originariamente, senza
ricorrere all’assunzione di un nuovo equivoco e quindi senza porre la necessità di una nuova risoluzione.
La risoluzione materialistica presuppone che l’esistenzialismo ch’è l’antitesi del razionalismo, tende a porsi
al di là dell’antitesi tra razionalismo e antirazionalismo.
L’esistenzialismo che svela all’origine l’equivoco del razionalismo invece, si pone con questo già di là
dell’antitesi di razio e antirazio e indica la via per una sua risoluzione che contempli la possibilità di quella.

La soluzione materialistica dell’esistenzialismo si rende necessaria come dissipazione


dell’equivoco d’una posizione che scambia l’uomo d’oggi con l’uomo di sé.

 Da un lato la storia è vista nella sua sufficienza e quindi ogni sua tappa si presta ad essere
assolutizzata, col che si cade nella necessità di una successiva relativazione; dall’altra la storia è

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vista col giudizio che ne valuta ogni istante, il quale, di per sé, in quanto giudicato, è relativato alla
situazione originaria dell’uomo.

NECESSARIA RISOLUZIONE MATERIALISTICA O SPIRITUALISTICA


DELL’ESISTENZIALISMO E PREPONDERANZA DELLA RISOLUZIONE SPIRITUALISTICA
Se l’esistenzialismo ch’è crisi del razionalismo:

- In quanto dissoluzione del razionalismo, si risolve necessariamente nel materialismo;  fine del
cristianesimo.
- In quanto giudizio critico del razionalismo, si risolve nello spiritualismo.  ritrovamento del
cristianesimo. Possibilità di ritrovare il cristianesimo solo dopo la sua fine. Cristianesimo come fatto
eterno.

SECONDA PARTE

CAPITOLO 1: IL COMPITO DELLA FILOSOFIA OGGI

L’INTERESSE ATTUALE PER LA FILOSOFIA COME ESIGENZA DI VERITÀ ASSOLUTA.


Dopoguerra  crollo dei valori tradizionali, delle norme etiche (filo e reli), ma ci si continua a rivolgere
alla filosofia per l’edificazione del mondo futuro, al fine di trarre ispirazione per un atteggiamento da
assumere di fronte ai problemi spirituali. Questo interesse nei confronti della filo è segno di un bisogno
profondo della coscienza contemporanea, un bisogno intrinseco dell’animo umano, quello della verità.
L’esigenza della verità assoluta, immutabile che sia un saldo sostegno della mente e una guida sicura
all’azione.

LA CONCRETEZZA DELLA FILOSOFIA ATTUALE COME NEGAZIONE DELLA VERITÀ


ASSOLUTA
La filosofia d’oggi è assetata di concretezza, a costo di sacrificare il concetto di verità. Il valore
puramente speculativo del pensiero viene subordinato a esigenze di carattere pratico. Alla filosofia si
chiede che abbia efficacia sul mondo. La filo come pura speculazione è considerata un’astrazione inutile e
priva di senso. Per soddisfare al contemporaneo bisogno di concretezza la filo odierna rinuncia alla verità:
non esiste verità immutabile, definita assoluta, poiché la verità è sempre storica. La filo veramente
critica è quella che è conscia della propria storicità e che quindi evita con cura la mistificazione (ovvero
l’assolutizzazione di una particolare prospettiva storica).

LA FILOSOFIA DELLA CRISI COME CRISI DELLA FILOSOFIA


La filosofia d’oggi delude le aspettative del mondo odierno: la vita chiede alla filo verità assoluta,
immutabile e definita, e la filo le dà una verità relativa, mutevole. La vita ha bisogno di eternità e la filo
non le dà che la temporalità della storia. La vita vuole la sicurezza che poggia su un valore saldo e
immutevole, e la filo non le dà che l’incerta vicenda della storia guidata da criteri mutevoli e finiti.

IL COMPITO DELLA FILO OGGI: RESTITUIRE IL SUO VALORE SPECULATIVO.


La filosofia di oggi preferisce mantenere la soluzione come criterio immanente all’azione, senza teorizzarla
e assolutizzarla. Ma così facendo la filo non risolve la crisi, mentre la vita chiede proprio questo. Il compito
della filo, oggi, è quello di trovare la soluzione della crisi  significa che oggi è necessario ridare alla
filo il suo valore speculativo, restituire alla filo il compito di raggiungere la verità assoluta.
Contraddizione: mentre dico “il compito della filo oggi consiste nel risolvere la crisi e quindi nel ridare un
valore di verità assoluta al risultato della ricerca filo” non parlo del compito della filo in generale, ma del
compito che ha oggi, nell’attuale situazione storica.  si afferma allo stesso tempo l’assolutezza della
verità e la condizionalità storica della verità.  problema! Compito della filo d’oggi consiste proprio
nel conciliare questi due principi: solo così potrà ritrovare la validità speculativa della filo tenendo
conto delle istanze critiche del pensiero contemporaneo, e venire in contro al bisogno di verità della
coscienza contemporanea, risolvendo la crisi attuale.

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ASSOLUTEZZA E CONDIZIONALITÀ STORICA DELLA VERITÀ


Come conciliare termini così antitetici (in apparenza)? Da un lato la ricerca filo non avrebbe senso se non
fosse esigenza della verità. D’altra parte la soluzione che il filosofo trova è sempre soluzione d’un
problema storico. Pensarsi fuori dal tempo in cui si vive è un’ipotesi assurda, perché significherebbe
rarefarsi talmente da perdere la propria identità.
La situazione dell’uomo consiste nel fatto che non si può tendere alla verità senza rispondere a problemi
storici, né si può rispondere a problemi storici senza con ciò tendere alla verità  le due cose non sono
affatto incompatibili, ma anzi, l’una è condizione dell’altra.

LA VERITÀ COME VALORE DI VERITÀ


La soluzione vera di un determinato problema storico è unica: si tratta di trovare quella, la quale, una
volta trovata, non potrà non avere una validità universale! L’assolutezza della verità non viene
pregiudicata dalla sua storicità e relatività al determinato problema storico. Non è conoscibile da mente
umana una verità tot e il filo che pretende di conoscerla farebbe una mistificazione, pretendendo di porsi
nel punto di vista di Dio. Alla verità-oggetto è sostituita la verità-validità. Ciò che esiste sono i
molteplici veri, ciascuno dei quali è insignito di validità assoluta benché irripetibile, definita benché
singola, immutabile benché limitata. Né d’altra parte si dovrà dire che la validità di una situazione è
circoscritta al problema storico ch’essa risolve, perché proprio in quanto risolve il problema, lo oltrepassa
e vale per sempre: affermare ciò sarebbe contravvenire al principio dell’assolutezza della verità.

IL PORBLEMA DELL’ATTUALITÀ DELLE SOLUZIONI E DEL PROCEDERE DELLA RICERCA


È necessario trovare la garanzia che al di sotto delle prospettive singole v’è un problema unico e
comune. Risolvendo i singoli problemi storici si risolve in fondo, da diversi punti di vista, un problema
unico ed eterno. Tutti i filo che si accingono, immersi nella loro situazione storica, a risolvere i problemi
del loro tempo, collaborano a un assunto comune, a un fine comune, cui tutti egualmente tendono e
aspirano.

DUE SOLUZIONI DA EVITARE: STRUMENTALISMO E RAZIONALISMO


Bisogna aver cura di evitare due modi di interpretare il finito.
La determinatezza storica perde il carattere di via d’accesso alla verità e la positività del finito assume il
carattere di sufficienza esclusiva. La storicità diventa tecnica e la ragione strumento.  lo
strumentalismo elimina la verità negandola nella storia. La validità di una filo è definitivamente chiusa
nel passato dal quale non si può rievocare con valore speculativo attuale.
La determinatezza storica conseguita come determinazione limitativa, relativa e unilaterale perde il
carattere di via d’accesso alla verità e l’insufficienza del finito assume il carattere di negatività. L’unità
della verità viene affermata a pregiudizio dalla sua storicità. La verità diventa conclusione della storia e la
ragione causa.  il razionalismo elimina la libertà (storia) assorbendola nella verità.

PERSONALITÀ DELLA VERITÀ E DELLA FILOSOFIA


Perché il finito, come esigenza di verità e invalicabile situazione storica, sia via d’accesso alla verità,
bisogna che il finito sia interpretato nella sua realtà, non assolutizzato, ma considerato come insufficiente
ma non negativo, positivo ma non sufficiente, cioè come persona. Il problema della verità è metafisico,
nel senso che l’affermazione dell’essere si pone come storica via d’accesso alla verità.
La garanzia che ogni ricerca sia ricerca d’un fine comune, è data proprio dal fatto che la filosofia è lavoro
personale del filo. L’esigenza della verità non è solo un postulato, ma un affermazione dell’essere.
L’affermazione dell’essere non può che essere personale, e in questo senso storico, perché io stesso sono
affermazione dell’essere in quanto sono esistente prospettiva sull’essere.
Ogni persona è una singolarissima prospettiva sulla realtà: porta con sé una chiave per interpretare il
mondo, propria a lei sola, diversa da tutte le altre. In tal modo ciascuno è portatore dell’unico problema
dell’uomo  il problema dell’uomo non si può porre se non come problema di ciascun a sé stesso.
Ciascuno, filosofando dal suo punto di vista, immerso nella sua situazione storica, alle prese con i
problemi storici che vive, collabora a un assunto comune, in cui tutte le persone egualmente si
riconoscono.

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Il nuovo carattere della filo è quindi la sua personalità. La filo è veramente speculativa e scopre un
valore assoluto di verità attraverso l’interpretazione personale che il filosofo dà di sé e insieme della
realtà.

IL PROBLEMA DELLA POSSIBILITÀ DELLA FILO E LA TRASCENDENZA DELL’INFINITO


La filo non si pone dal punto di vista di Dio. Questa affermazione non può ridursi alla soppressione
dell’infinito come fondamento della positività e sufficienza del finito. Tutta la filo contemporanea afferma
che la filo è un lavoro umano e solamente umano. Si pone quindi dal punto di vista dell’uomo, cioè del
finito, il quale è conscio di non essere Dio e di avere in Dio il proprio fondamento. Il finito non è tale se
non presuppone un rinvio metafisico al suo fondamentale infinito.
La trascendenza di Dio diventa in tal modo l’unico vero fondamento della possibilità della filo come filo,
cioè come opera umana, e l’unica garanzia che la filo non trascenda la sua condizione, cioè non diventi
mistificazione.

LA FILO COME INTERPRETAZIONE PERSONALE, ESPRESSIONE DI UN TEMPO E PURA


SPECULAZIONE
I caratteri della filo sono tre:assolutezza, storicità e personalità.  caratteri inscindibili.  la filo è
sempre al tempo stesso speculazione, espressione di un tempo e interpretazione personale.

- La filo non è solo interpretazione personale. Se così fosse sarebbe non filo assolutamente valida,
ma Weltanschauung, visione individuale del mondo valida per me solo senza comunicazione con altre.
Si cadrebbe così in una forma di estetismo.
Eppure la filo è anche interpretazione personale.  la persona stessa del filosofo è impegnata nella
sua ricerca  il filo non può indagare l’essere senza indagare sé stesso perché egli stesso è.

- La filo non è solo espressione di un tempo. Se così fosse il pensiero filo non avrebbe alcun valore
speculativo, ma sarebbe solo la trasposizione in termini concettuali di determinate condizioni storiche
d’esistenza. Si cadrebbe in una forma di pragmatismo e strumentalismo tecnico, per cui l’assolutezza
della verità è tot eliminata e distrutta.
Eppure la filo è anche espressione del tempo, non certo nel senso che la sua validità è circoscritta al
periodo in cui sorge, ma nel senso che ogni filo è sempre risposta a problemi storici, che lo stesso filo
definisce e pone, isolandoli all’interno della sua esperienza.

- La filo non è solo pura speculazione. Se così fosse la filo avrebbe la pretesa di porsi nel punto di
vista di Dio (mistificazione).
Eppure la filo è anche pura speculazione: è il compito specifico della filo raggiungere speculativamente
la verità.

Filosofando il filosofo decide di sé stesso, del proprio vivere. Per il non filosofo, la filo può servire a dare
una valutazione dei problemi del tempo in cui vive, una visione delle soluzioni dei problemi dell’ora, un
orientamento.

CAPITOLO 2: TEMPO ED ETERMINTÀ


L’essere nel tempo è la storia, l’essere oltre il tempo è l’eternità.

LA STORIA E L’INIZIATIVA
La storia è inesauribile innovazione e radicale imprevedibilità. È risparmio e conservazione. La
coincidenza di innovazione e conservazione è la nascita dell’opera e della persona. La storia dunque,
come nascita dell’opera e della persona, è iniziativa.

ETERNITÀ E DIO
L’eternità è l’essere oltre il tempo. Il suo carattere è la trascendenza radicale e l’assoluta
incommensurabilità. L’eternità è di là non solo da ogni tempo, ma da ogni opposizione di temporalità e in

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temporalità. Si raggiunge attraverso una contrapposizione, non attraverso un potenziamento: l’eternità


trascende infinitamente il tempo, non è il culmine o la suprema possibilità. Ma l’eternità non è il temine di
una contrapposizione, ma ciò ch’è di à da ogni contrapposizione. Dunque non può stare in nessun
rapporto. Perciò attraverso un rapporto si raggiunge ciò che non può mai essere termine di rapporto.
Nell’eternità ha la coincidenza di relatività e incommensurabilità.
Ma un rapporto fra i due termini è un rapporto impossibile che diventa possibile, solo se il termine
incommensurabile è la condizione dell’altro termine e del rapporto che ha con lui. Un tal termine nel quale
risiede il centro del rapporto è Dio. L’eternità dunque, come fondazione d’un rapporto impossibile è
dio. L’eternità ch’è l’essere oltre il tempo è Dio.

ESPERIENZA MORALE ED ESPERIENZA RELIGIOSA


La storia è iniziativa e l’eternità è Dio, e poiché l’iniziativa è il centro del’esperienza morale e Dio è il
centro dell’esperienza religiosa, bisogna assegnare la storia e l’eternità rispettivamente all’uno e
all’altra di quelle due esperienze. Perciò il rapporto che si stabilisce fra storia ed eternità dev’essere
veduto alla luce del rapporto che collega l’esperienza religiosa con l’esperienza morale. Dunque:
esperienza morale come costituzione della storia ed esperienza religiosa come senso dell’eternità.

L’INIZIATIVA COME OPZIONE: COINCIDENZA DI ESIGENZA, DECISIONE E


VALUTAZIONE
Esigenza e valutazione convergono sino a coincidere. L’esigenza pone l’alternativa, la valutazione la
discrimina. L’esigenza richiede il valore escludendone la negazione, la valutazione nega il disvalore
giudicato affermando l’opposta validità. Ma questa coincidenza di valutazione ed esigenza si concreta nella
decisione. Esigenza, valutazione e decisione si identificano. L’esigenza è decisione. Ma la decisione
è scelta, cioè risoluzione d’un’alternativa posta dall’esigenza: è quindi anche valutazione. Così ciò che la
decisione realizza nasce giudicato per sempre, perché se decidere significa risolvere un’alternativa,
significa anche riconoscere una discriminazione.

I TRE ASPETTI DELL’INIZIATIVA COME FONDAMENTO DEI TRE MOMENTI DEL TEMPO
L’idealismo spiritualistico ha ribadito che non la storia è fondata dal tempo, ma il tempo è fondato dalla
storia. Dunque c’è passato e futuro perché c’è memoria e attesa. Ma perché c’è memoria e attesa?
C’è il tempo perché c’è la storia. Ma cos’è la storia? Ecco le domande che trovano risposta solo nella
concezione dell’uomo come opzionalità, cioè complesso di esigenza, decisione e valutazione.

In una decisione attuale l’esigenza propone un’obbligazione e la valutazione fissa una validità.
L’esigenza profila il mio dovere, che si fa futuro rispetto a me.
La valutazione fissa il valore della mia opera, che si fa passato rispetto a me.
Ma l’esigenza e la valutazione sono presenti nella decisione. Questa presenza costituisce la decisione
come presente.
E come la decisione contiene in sé esigenza e valutazione, così il presente è intersezione di
futuro e passato.

L’OBBLIGAZIONE E LA VALIDITÀ COME FONDAMENTO DELLA POSSIBILITÀ E DEL


FATTO
Se l’essenza del futuro è l’obbligazione e l’essenza del passato è la validità, si rischia di identificare da un
lato obbligazione e possibilità, e dall’altro validità e fatto. Gli inconvenienti di questa identificazione sono
evidenti:

Se si riduce la possibilità a obbligazione e il fatto a validità, la conseguenza è che lo spirito è sempre


obbligazione e validità, esclusiva tendenza univoca, e il dovere è ridotto a non poter non e il valore è
ridotto a natura, che è proprio l’opposto di ciò che si volva affermare proclamando il carattere opzionale
dell’iniziativa.
La ragione per la quale deve essere ammessa la distinzione fra obbligazione e possibilità e fra validità e
fatto è il fatto che ove quella distinzione non sia fata, si perde la necessaria opzionalità dell’iniziativa.
Perché l’iniziativa sia opzione, bisogna che non ogni possibilità sia obbligazione e non ogni

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fatto sia validità, pur dovendosi ammettere che l’obbligazione sia sempre possibilità e la
validità sia sempre un fatto. Perciò quella distinzione è resa possibile nel modo seguente:

L’esigenza propone l’obbligazione escludendo da essa il suo contrario, come atto di giudizio è distinzione:
posizione dell’alternativa. La valutazione fissa la validità escludendo da essa il suo contrario e come atto di
giudizio è distinzione: discriminazione dell’alternativa.
L’obbligazione fonda la possibilità e la validità fonda il fatto, in quando l’atto di giudizio distingue il valore
dal disvalore. L’obbligazione costituisce la possibilità, entro cui si distingue dal disvalore possibile; la
validità costituisce il fatto, entro cui si distingue dal disvalore compiuto.

INTERPRETAZIONE DEL TEMPO DAL FUTURO E DAL PASSATO: INNOVAZIONE


CONSERVAZIONE
Si può concepire il tempo partendo dal futuro e così fanno le teorie che nel tempo vogliono mettere in
luce le novità. Queste teorie partono dal futuro che non sia contenuto già nel presente. Ma un tal futuro
che sia radicalmente nuovo rispetto al presente è l’obbligazione, che non è mai solo ciò che sta per
essere, ma ciò che deve essere.

Si può concepire il tempo partendo dal passato e così fanno le teorie che vogliono mettere in luce la
conservazione. Partono da un passato del quale non si può dire “non è più”, ma “è stato sì, ma è ancora”:
un passato non radicalmente scomparso. Ma un tal passato che si conservi nel presente è la validità, che
è un tal essere stato che merita d’essere ancora.

Ma i due aspetti sono complementari: se l’iniziativa è tal decisione che sia esigenza e valutazione,
proposta di obbligazione e fissazione di validità, la storia è al tempo stesso innovazione e
conservazione.

PROBLEMATICITÀ DEL PASSAGGIO DALL’ESPERIENZA MORALE ALL’ESPERIENZA


RELIGIOSA
Difficoltà sull’interpretazione dell’iniziativa stessa, cioè sulla decisione come intersezione di futuro e
passato, obbligazione e validità, esigenza e valutazione. Qui l’esperienza morale entra in crisi. L’iniziativa
si svela come intimamente contraddittoria.  se è esigenza, è insufficienza. Tende alla realizzazione
perché manca della realtà. È ricerca perché manchevolezza. Ma se è insufficienza, come può essere
decisione, cioè costituzione di validità? L’iniziativa è dover far valere. L’iniziativa sessa si disgrega nei suoi
termini: l’esigenza caratterizzata dall’insufficienza, si separa dalla decisione diventata enigmatica, e la
valutazione diviene l’espressione d’un’antinomia e l’esasperazione della contraddittorietà dell’esperienza
morale. Questa crisi richiede la soluzione in un’esperienza più comprensiva, che raccolga in sé
l’antinomicità. Questa nuova esperienza non può che non essere l’esperienza religiosa. Il passaggio
dall’esperienza morale a quella religiosa è dunque problematico: l’esperienza morale si fa problema a
sé stessa e si risolve solo in quella religiosa.

DIO COME POSSIBILITÀ E IMPOSSIBILITÀ DEL RAPPORTO TEANDICO (divino-


umano)
L’esperienza religiosa come esperienza dell’eternità è incentrata su Dio. Dio è a condizione del rapporto
teandrico. Nell’esperienza religiosa Dio è tutto, e pure, l’uomo è qualcosa, perché costituito da quel tutto
che è Dio. Dio è irrelatività assoluta eppure è posizione d’una relazione. Dio è in sé e per sé,
autosufficiente e totale eppure costituisce un essere col quale entra in rapporto, e rispetto al quale è
termine di relazione. Dio è fuori d’ogni rapporto possibile, ma è termine di rapporto: irrelatività e
relatività. Non si può dire che la relazione includa dio, ma che dio include la relazione. Dio è
l’impossibilità e la possibilità del rapporto teandrico: ne è l’impossibilità perché è irrelatività assoluta
(fuori da ogni rapporto) e ne è possibilità, perché è ancora irrelatività assoluta (centro e fondamento di
ogni rapporto).

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LA RELATIVITÀ DI DIO COME TRASCENDENZA: CORONAMENTO DELLA STORIA


La relatività di Dio è la sua trascendenza. Nel suo rapporto con l’uomo, dio è il contrappeso
dell’insufficienza dell’iniziativa umana. L’iniziativa ha come suoi momenti l’esigenza e la valutazione. Ma al
culmine delle possibilità dell’esperienza morale, l’esigenza diventa il segno d’una insufficienza e la
valutazione il riconoscimento di una contraddittorietà. Nell’esperienza religiosa la trascendenza di dio
completa l’insufficienza e sana la contraddizione.
Infatti nell’esperienza religiosa l’esigenza morale si fa bisogno di Dio e la valutazione morale
giudizio di Dio. Dio è l’oggetto del bisogno umano. Soddisfazione d’ogni ansia, compimento d’ogni
attesa, fine d’ogni aspirazione. Coronamento e completamento della nostra insufficienza: fine
dell’iniziativa. Soluzione di tutte le antinomie.

L’IRRELATIVITÀ DI DIO COME INCOMMENSURABILITÀ: SOSPENSIONE DELLA


STORIA.
Fra il mondo storico umano e Dio non è possibile alcun paragone. Si tratta non solo di piani diversi, ma di
spazi diversi, senza contatto possibile. Concepire Dio solo come completamento dell’insufficienza, significa
ridurlo a grandezza umana. Dio è tutt’altro: non accanto o di fronte o di sopra al mondo storico umano,
ma al di là di esso e ad esso imparagonabile e irrapportabile. Tutto di fronte a dio scompare,
dominato e vinto da lui. Non sussiste iniziativa che non sia divina. Le possibilità umane si sviliscono e si
annullano, schiacciate dall’invadenza divina.

L’IRRELATIVITÀ COME FONDAMENTO DELLA RELATIVITÀ: IL DONO


- La relatività di dio porta un dualismo: dio e l’iniziativa umana.  divino coronamento della storia:
rapporto teandrico: dualità e relazione.
- L’irrelatività di dio porta con sé invece un monismo: Dio solo, signore assoluto del campo.  divina
signoria: unicità di dio: unità e assolutezza.
Ma l’irrelatività di dio è il fondamento della sua relatività. Nello stesso modo il dualismo si fonda
sul monismo. L’uno si fa due:l ‘assolutezza si fa relazione, la totalità straripa a costruire il rapporto.  è
un’abbondanza pienamente gratuita che si dà e dandosi costituisce l’altro termine ponendosi nel
rapporto. Il dono è la costituzione della relazione e della dualità. È la pienezza dell’essere. L’essenza del
rapporto è dunque il dono. Dio, dandosi, costituisce colui a cui dà, e il rapporto che lo lega a sé, e sé
come interiore al rapporto. Gli aspetti dell’iniziativa si assorbono nel presente ch’è presenza di dio e da
questa presenza di dio assumono valore e significato. Proprio perché dio è principio della decisione, è
fine dell’iniziativa, proprio perché è dono dell’iniziativa, è significato del mondo storico. Attraverso il
rapporto si ristabilisce la tot che ne è il principio.

LA STORIA POSTA E TOLA NELL’ETERNITÀ


Esperienza morale = costituzione della storia: iniziativa.
esperienza religiosa = senso dell’eternità: Dio.
Dio = eternità che fonda la storia, poiché dio dona l’iniziativa.

La storia, prima liberata in sé tra passato conservato e futuro innovatore, ora è liberata in senso
all’eternità: fra un passato pretemporale e un futuro postemporale, due tempi che non son un tempo, ma
principio e fine, dono e coronamento, pura meta storicità. Eternità positiva, perché pone la storia e la fa
essere con sé al tempo stesso che la nega e la sospende in sé.
Come nel presente della decisione si raccolgono l’esigenza e la valutazione che fondano il tempo, così nel
presente dell’iniziativa vive la presenza di quell’eternità che la costituisce. Dall’intuizione di questo punto
partono quelle teorie che interpretano il tempo partendo dal presente. Così fanno quelle teorie che
nel tempo vogliono mettere in luce soprattutto l’attualità. Ma un tal presente non è più solo presente: è
presenza di quella eternità che fondando e insieme sospendendo la storia, è accessibile solo all’esperienza
religiosa.

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CAPITOLO 3: PERSONA E SOCIETÀ

LA CRISI ODIERNA COME POSSIBILE CONFERMA DELLA VERITÀ DELLA TRADIZIONE


CRISTIANA
Il problema della persona è centrale nella filo contemporanea. Crisi filosofica: diverse concezioni
dell’uomo sono in lotta. La crisi odierna è la pietra di saggio della validità della tradizione cristiana. La
verità della tradizione cristiana può essere oggi verificata non solo dal valore pratico della soluzione
ch’essa propone della crisi, ma anche dalla sua adeguazione alle più ingenue esigenze del pensiero
contemporaneo. Si tratta di impostare su un piano teorico i termini della crisi e di risolvere teoricamente i
problemi che scaturiscono da tale impostazione. La verificazione storica della formula proposta non può
essere che la conferma della validità teorica di essa: l’utilità è il segno della verità. La soluzione
proposta, non è formula astratta, ma investe il campo dell’azione: la verità è norma d’azione.
Altrimenti ogni formula diventa mito o convenzione.

IL RISPETTO DELLA PEROSNA COME CRITERIO FONDAMENTALE DEL CARATTERE


CRISTIANO D’UNA FILOSOFIA DELL’UOMO
Una delle esigenze più sentite dal pensiero contemporaneo è quella di una società basata sul rispetto
della persona. Il questo punto la tradizione cristiana si incontra col pensiero moderno  solo una filo
cristiana può giustificarlo e fondarlo teoricamente.  e solo una filo che ne dà una giustificazione teorica
può essere cristiana.

IMPOSSIBILITÀ DI DEFINIRE LA PERSONA CON I CONCETTI DI INDIVIDUALITÀ E


PARTICOLARITÀ: INDIVIDUO SOPRA LA SPECIE E LA PARTE MAGGIORE DEL TUTTO
Non possono fondare la necessità del rispetto per la persona le concezioni che pongono fuori della persona
l’universalità e la totalità.
Se la persona è solo individuo (uno di molti), non è ancora insignita di quella dignità che merita ed esige
rispetto. Se la persona è solo frammento (parte di un tutto), è determinata e quindi determinabile dal
tutto che è più perfetto di lei e che quindi, solo merita rispetto.
Invece, per fondare la necessità del rispetto della persona, bisogna ammettere che nell’uomo
l’individuo sovrasta la specie e la parte è maggiore del tutto. Il concetto di umanità è normativo:
nell’essere dell’uomo è implicito l’impegno dell’individuo a realizzare tale assenza. L’essere dell’uomo è un
dover essere, e dipende dall’individuo l’affermazione della propria umanità. La persona è essa stessa una
totalità. La tot della persona è il fondamento della sua indipendenza: la persona, per insufficiente che sia,
non richiede il complemento di nessun’altra tot da cui essa derivi valore e significato.
Solo se l’individuo si fa persona affermando in sé l’essenza normativa dell’umanità, la persona
nasce come valore, e quindi degna di rispetto.
La singolarità della persona non può essere definita né secondo il concetto di individuale (lascia
fuori di sé l’universalità) né sec quello di particolare (lascia fuori di sé la totalità).
Nella singolarità invece è presente sia l’universalità che la tot. La persona non ha fuori di sé ma in sé uni e
tot.

INDIVIDUALITÀ, PARTICOLARITÀ, SINGOLARITÀ


La filo dell’esistenza ha rivendicato l’assolutezza del singolo. Ogni individuo è unico nella sua
specie. È nato il concetto di singolo come unico e irripetibile. Questa istanza esistenzialistica coglie nel
segno quando, polemizzando contro l’individualità e la particolarità, raggiunge il concetto di singolarità,
ma rimane al di sotto dell’esigenza da cui muove quando, polemizzando contro la generalità e la tot, non
riesce a raggiungere un miglior concetto di universalità.

GENERALITÀ, TOTALITÀ, UNIVERSALITÀ


La filo dello spirito ha rivendicato, contro ogni individualismo naturalistico, l’universalità dell’opera.
Ogni opera è sempre particolare, perché è sempre un momento della vita dello spirito, ma al tempo
stesso è universale, perché è realizzazione di un valore storico. È nato il concetto dell’universalità come
validità. L’universale non è il generale, ma una validità onniriconoscibile, che merita ed esige
d’essere riconosciuta. Questa istanza idealistica coglie nel segno quando raggiunge il concetto di

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universalità, ma rimane al di sotto delle esigenze da cui muove quando, polemizzando contro
l’individualità, non giunge ad eliminare il concetto di particolarità.

IRRIPETIBILITÀ SINGOLARE E VALIDITÀ UNIVERSALE DELLA PERSONA


La filo dell’esistenza rivendica dunque la singolarità presentandola come irripetibilità, ma non raggiunge
l’universalità.
La filo dello spirito rivendica l’universalità presentandola come validità, ma non raggiunge la singolarità.
MA  Nella persona, singolarità e universalità non solo si completano a vicenda, ma si implicano
essenzialmente. È nella convergenza di irripetibilità e validità che bisogna cercare l’unità essenziale di
singolarità e universalità nella persona.

L’INIZIATIVA COME UNICO FONDAMENTO DEL CONCRETARSI E DELL’INVALORARSI


DELLA PERSONA
Il fondamento unico della singolarità e dell’universalità della persona è l’iniziativa. Questa per un verso
concreta e quindi singolarizza la persona, per l’altro la invalora e la universalizza. L’iniziativa è al tempo
stesso esigenza, decisione e valutazione: la decisione offre una determinazione all’esigenza, e quindi la
concreta e la singolarizza; la valutazione pone tale determinazione su un piano di valore e quindi la
invalora e la universalizza.
I contenuti di coscienza sono oggi dell’io. Ma in quanto contenuto di coscienza, sono già qualificati dell’io.
Essi dunque sono possessivamente determinati dall’io:è l’esistenza storica dell’io.
L’umanità si determina nel singolo uomo, in quanto il singolo uomo la realizza in sé stesso. L’iniziativa
pone quella definitezza, nella quale si è incontrata su un piano di valore, in quanto ne fa un veicolo per
realizzare in forma determinata l’umanità. Di elementi individuali e particolari essa fa una singolarità
irripetibile.
A mano a mano che la persona sbozza e definisce liberamente il proprio profilo, le sue decisioni sono
sempre più circoscritte, quantunque mai costrette, dalla concretezza stoica in cui la persona prende
consistenza. Il processo di singolarizzazione è processo di elezione e selezione, cioè di originaria e
progressiva qualificazione, in cui si afferma l’irripetibilità della persona la quale, in quanto determinazione
dell’iniziativa, non è mai qualità pura, appunto perché determinazione assiologia. L’inconfondibilità non
discende dalla mera qualità, perché non si tratta di spontaneità naturale, ma di esigenza spirituale.
L’irripetibilità non si definisce come semplice definitezza, ma come definitezza valida.
D’altra parte, l’iniziativa è anche il fondamento dell’universalità della persona, in quanto l’invalora.
L’iniziativa è esigenza, cioè richiesta di valore; decisione, cioè posizione di valore; valutazione, cioè
giudizio di valore.
È questo processo con cui la persona si universalizza , poiché ogni suo atto contiene una valutazione che
ne riconosce la validità e la fa riconoscere come tale.
Questa valutazione complessiva mette in mostra la validità della persona. La validità si definisce come
valore concreto, storico e determinato.

UNITÀ DI SINGOLARITÀ E UNIVERSALITÀ NELLA PERSONA


L’iniziativa, come motore della storia della persona, fa sì che nella persona singolarità e universalità non
solo non si escludano, ma si implichino essenzialmente, poiché irripetibilità e validità non sono se non le
facce della stessa medaglia. Irripetibilità e validità sono sintesi di singolarità e universalità. 
l’irripetibilità è definitezza valida (singolarità universalizzata), e la validità è valore concreto (universalità
singolarizzata).
Un valore storico è sempre singolare in quanto è inconfondibile nella sua precisa determinatezza, e la vera
irripetibilità è quella che contiene in sé una validità come qualificazione di valore di una determinazione
concreta. La persona, invalorandosi e valendo, si storicizza e quindi si singolarizza, e non può
singolarizzarsi senza assumere una validità.

ESIGENZA, INSUFFICIENZA, INDIGENZA; VALUTAZIONE, TOTALITÀ, INDIPENDENZA


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Altre determinazioni della persona:

L’iniziativa, in quanto esigenza e valutazione, stabilisce nella vita della persona il ritmo di una pulsazione.
La persona per un verso è quel che è già, e per l’altro quello che deve essere ancora. È conclusa
dall’immanenza del suo passato e nel suo presente, da una valutazione complessiva che fissa la validità di
quel che la persona è riuscita a fare di sé stessa. È aperta in quanto il suo presente si schiude al suo
futuro, in quanto l’esigenza che la muove richiede decisioni ulteriori.
Ciò significa che nella persona si incontrano e si uniscono tot e insufficienza. Nell’istante attuale è una
totalità, in quanto nessuno dei suoi istanti è il definito (insufficiente e incompleta). La persona è tot in
quanto è l’unità dei suoi atti, ed è insufficienza in quanto è la possibilità dei atti sempre nuovi.
La persona è sempre sé stessa, eppure deve essere ancora altro, e questo altro che è per essere sarà
ancora lei stessa  questa è la pulsazione e il ritmo della sua storia.
Tale ritmo viene scandito dall’iniziativa come esigenza e valutazione: per un verso, richiesta di valore, cioè
richiesta d’altro: insufficienza; per l’altro verso, giudizio di valore, cioè valutazione complessiva:
totalità.
Questi due momenti estremi (insufficienza e totalità) sono coessenziali.

CONTRADDITORIETÀ DELL’INIZIATIVA
Riconoscere alla persona la sola insufficienza, senza attribuirle la totalità, significa postulare la totalità
fuori di essa, nella quale essa andrebbe sommersa come la parte del tutto. In questa forma di panteismo
la singolarità irripetibile della persona scadrebbe a mera particolarità. Riconoscere alla persona la sola
totalità, significa disconoscere la storicità nella quale la persona afferma la propria validità. In questa
forma di individualismo viene impedita la costruzione di una validità universale. Si tornerebbe a definire la
persona in base alla particolarità e all’individualità: concezioni che non giustificano il rispetto alla persona.
Bisogna dunque mantenere nella persona l’implicazione di insufficienza e tot, anche se questo importa
l’apparentemente contraddittoria compresenza di indigenza e indipendenza. Questa contraddizione
sembra aggravarsi quando si pone mente alla stessa natura dell’iniziativa, e più precisamente alla
decisione, che media esigenza e valutazione. Infatti, l’iniziativa, in quanto esigenza, è insufficienza (la
ricerca è alla radice manchevolezza e negatività). D’altra parte l’iniziativa in quanto decide e decidendo
valuta, è costituzione di validità, di quella validità che è totalità, sufficienza e positività.
La contraddizione consiste in questo: come può l’iniziativa, ch’è mancanza originaria, costituire
una validità?

LA TRASCENDENZA COME FONDAMENTO DELL’INIZIATIVA


In una forma di storicismo assoluto questo problema non si presenterebbe. Se non che in esso non
s’intende come, data la coincidenza di essere e dover essere in un divenire dialettico.
La soluzione razionale del problema a cui dà luogo la contraddizione su esposta non può dunque essere
che una sola: la trascendenza. L’insufficienza, in quanto indigenza, è limite, e il limite è rinvio ad altro,
ma un tal altro che limita il mio essere solo in quanto lo compie, cioè al principio che fonda il mio essere.
Io devo, sì decidere, ma anche non posso non decidere.  v’è una necessità iniziale, che è il segno del
mio esser principato.

DIO COME VALORE-PERSONAE, FONDAMENTO DELLA CONTINGUENZA E DELLA


RICONOSCIBILITà DELLA PERSONA
Si tratta della trascendenza di un Dio che è insieme Valore-Persona. Dio è valore, perché altrimenti
non sarebbe fondatore di una iniziativa. Senza un Dio Valore-Persona l’iniziativa non si spiegherebbe.
Valore = criterio supremo, fonte d’ogni validità. Solo se fondata da un Dio-Valore l’iniziativa può dar luogo
a valori storici di cui sia garantita la validità.
Persona = garantisce la totalità e l’indipendenza della persona umana. Perché la persona possa essere
riconosciuta come tale, bisogna che non sia inserita in un tutto maggiore di lei a trarne valore e
significato, ma è necessario che ciò che è maggiore di lei la riconosca come persona. Non solo Dio non
può essere concepito come il tutto (di cui la persona è una parte o un frammento), ma deve essere tale
da rendere la persona oggetto del suo assoluto riconoscimento.

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UNITÀ DI INSUFFICIENZA E TOTALITÀ NELLA PERSONA


Dio fonda l’iniziativa e la persona: come Valore, colma l’insufficienza della persona in quanto la
costituisce nella contingenza; come Persona, garantisce la tot e l’indipendenza della persona umana in
quanto le conferisce il suo riconoscimento. Certo, Dio resta Valore assoluto e Persona assoluta.

CARATTERE ASSIOLOGICO E TEOCENTRICO DELLA PERSONA


Quelle concezioni che non riescono a fondare il rispetto per la persona, situano fuori di essa l’universalità
e la totalità, riducendo in tal modo la persona a mero individuo o a semplice parte. La validità della
persona è garantita dal fatto che e essa è iniziativa; l’indipendenza della persona è garantita dal fatto che
essa è in rapporto con Dio. Conferire alla persona l’universalità come validità significa porla su un piano
assiologico, e conferire alla persona la tot come indipendenza di sé responsabile significa concepirla
come ordinata a nient’altro che Dio. Il carattere assiologico e quello teocentrico della persona sono le
due condizioni ineliminabili per una sufficiente garanzia del rispetto della persona.

SOCIALITÀ E SOCIABILITÀ DELLA PERSONA


La società non può sorgere che come rispetto della persona, perché la società nasce con la persona. Il
rispetto della persona è il limite della società in quanto ne è la norma. Persona e società nascono insieme
perché caratteri essenziali della persona sono la sociabilità e la socialità.

Sociabilità  discende dal nesso di singolarità e universalità della persona. Da una parte la sua validità è
esposta al giudizio altrui e quindi meritevole del riconoscimento altrui. Essendo personale la sua validità,
sono personali i giudizi che sulla sua validità vengono formulati, i quali, sono effettivamente di altre
persone. La persona, perciò merita il riconoscimento delle altre persone. D’altra parte, la persona si pone
a giudicare ed è tenuta a riconoscere la validità altrui. La responsabilità che si assume si realizzare in sé
quell’umanità che è insieme la sua essenza e la sua norma, le permette di giudicare e le impone di
riconoscere lo stesso sforzo negli altri. Si raggiunge così la reciprocazione del giudizio e del
riconoscimento delle persone. Tutti meritano la reciprocità del riconoscimento e nessuno può sottrarsi
alla reciprocità del giudizio.  la persona è aperta all’alterità = è sociabile: l’alterità si pone come
reciprocità normativa del riconoscimento delle persone.

Socialità  discende dal nesso di insufficienza e totalità della persona. L’insufficienza della persona viene
colmata da Dio come Persona. Questa relazione dimostra come nella sua stessa costituzione la persona
è essenzialmente aperta ai rapporti interpersonali.

POSSIBILITÀ E REALTÀ DEL RAPPORTO DI ALTERITÀ


Ciò che è essenziale alla persona è la sociabilità e non la socialità. Il che significa che è essenziale la
possibilità del rapporto con gli altri, non la realtà di tale rapporto. Se per la persona il rapporto di
alterità fosse essenziale nella sua realtà, ne seguirebbe che la persona sarebbe sopraffatta dalla società;
che la società sarebbe superiore e anteriore, non contemporanea alla persona, la quale perderebbe così la
sua indipendenza. C’è solo un caso di rapporto di alterità che alla persona sia essenziale nella sua realtà e
non nella sua sola possibilità, ed è il rapporto con Dio. Per la persona il rapporto con Dio non è una mera
possibilità, ma è costitutivo nella sua realtà.  ricordiamo sempre però che Dio riconosce all’uomo la sua
autonomia e ne rispetta la libertà (è esclusa la sopraffazione).

IL CARATTERE ASSIOLOGICO DELLA SOCIETÀ


Poiché alla persona ineriscono essenzialmente un carattere assiologico e uno teocentrico, tali caratteri
saranno da rinvenirsi anche nella società. La società, in quanto nasce con la persona, è una
determinazione assiologia. La pluralità delle persona è tanto lontana dalla molteplicità degli individui,
quanto la singolarità della persona è lontana dall’unicità. La società data la coincidenza nella persona di
singolarità e pluralità, si pone come comunità. L’alterità implica sì un’associazione di persone con la
specificazione dei rispettivi compiti, ma non mai un organismo che articoli le proprie parti in base a una
funzionalità qualitativa e a una strumentalità organica: la specialità dei compiti personali è assiologia, cioè
frutto d’iniziativa, che articola i vari compiti in virtù di una normatività contenuta nello stesso costituirsi
della singola persona. La specialità è tanto lontana dalla particolarità, quanto la totalità è lontana

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dall’assolutezza. La società data la coincidenza nella persona di totalità e specialità, si pone come
associazione; sì che la persona per la sua tot si sottrae alla particolarità e per la sua specialità si sottrae
all’assolutezza. In tal modo si concepisce la società come determinazione assiologia. La persona singola e
tot non è mai unica e assoluta; ma proprio in quanto tot esprime in sé una società a cui si iscrive con uno
specifico compito, e proprio in quanto universale esprime da sé una comunità diventando uno dei soci.
Non è la società che contiene le persone, ma è la persona che contiene la società. In quanto la
persona si apre all’alterità, la società si pone come coesistenza di persone, vale a dire coesistenza
normativa. La persona non è mai nella società, ma sempre in con altre persone, appunto perché la
coesistenza come norma è nella persona.

LA PORTATA POLITICA DELLA TRASCENDENZA DI DIO


La trascendenza di Dio ha una portata politica perché è l’unica garanzia di una conciliazione fra
l’insufficienza e la tot della persona. La compresenza di insufficienza e tot nella persona, resa
possibile dalla trascendenza di Dio è l’unica garanzia del rispetto della persona, e quindi di
conciliazione fondamentale della possibilità della società. Dio è l’unico principio che possa garantire
l’indipendenza della persona riconoscendone la totalità. L’uomo è da Dio, ma con ciò non cessa d’esser per
sé, perché è con Dio. La persona, in quanto insufficiente e indigente, ha bisogno di altro e, in quanto tot e
indipendente, non può essere in altro. Dio è l’unico altro che colma l’insufficienza senza sopprimere la tot
della persona, anzi garantendola. L’uomo, più che essere in rapporto con Dio, o avere un rapporto con Lui,
è rapporto con Dio. Ogni concezione politica che si basi sull’indipendenza della persona e fondi la
società sulla necessità del rispetto della persona presuppone dunque, implicitamente o
esplicitamente, la trascendenza di Dio.

IL VOLERE ASSOLUTO DELLA LIBERTÀ


Il bene maggiore della persona è dunque pur sempre la libertà. Se il rispetto della persona è essenza e
legge della società, essenza e legge della società è la libertà. La quale, in quanto struttura normativa della
persona e della società, ha in sé il criterio in base al quale non solo la validità e l’indipendenza della
singola persona esigono d’essere riconosciute, ma anche gli atti d’ogni persona son tenuti ad avere un
carattere sociale e ad affermare la coesistenza in società. La libertà si afferma nella propria socialità non
solo in quanto garantita ma anche in quanto esercitata. La libertà ha un valore assoluto ed è quindi degno
di rispetto. Dato il suo valore assoluto, si rivelano fallaci quelle dottrine che attribuiscono un semplice
valore formale alla libertà.

CAPITOLO 4: I CARATTERI DELLA PERSONA


La persona può essere definita come esistenza, compito, opera e io.

LA PERSONA COME ESISTENZA.


Come esistenza la persona è considerata in una dialettica concreta di unità e dualità, passività e attività,
definitezza e infinità.

 Unità e dualità  fra l’iniziativa che io sono e la situazione in cui mi trovo c’è un rapporto di dualità e
di unità. Di dualità perché sono indeducibili l’una dall’altra, e l’iniziativa sempre giudica la situazione
trascendendola nello stesso lavoro che imprende intorno ad essa. V’è anche un rapporto di unità perché
situazione e iniziativa sono inscindibili.
 Passività e attività  la situazione è passiva: non dipendono da me la datità della mia situazione,
l’irrevocabilità del mio passato, la spontaneità delle mie doti. Ma anche l’iniziativa è necessità nella sua
struttura, come esigenza e valutazione: come esigenza è dovere e norma, necessità di agire e legge
dell’agire, ed io non posso non agire. Come ho una situazione, uno stato, una dote, così ho il potere
della libertà e la facoltà di giudicare. Ma nell’uomo non c’è passività che non si risolva in attività. I dati
situativi non sono ostacoli e impedimenti di per sé, ma possono diventarlo in quella stessa mia
personale reazione di fronte ad essi, la quale può anche risolversi in un’occasione e in uno spunto.
Inoltre, la libertà e il giudizio sono dati, anzi imposti all’uomo, ma nel loro uso ed esercizio dipendono
interamente dall’uomo.

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 Definitezza e infinità  finita è la persona in quanto l’iniziativa è principata; perché il poter non
decidere è il segno del mio essere principato, e cioè non Dio, ma uomo. Dunque: infinità di sviluppo e
di limitatezza situativa.

LA PERSONNA COME COMPITO


Come compito, la persona deve essere considerata in una dialettica concreta di:

 Plasticità e programmazione  per il suo indefinito sviluppo l’uomo diviene, ma non si riduce alla
sua storia, perché l’uomo ha storia, non è storia. Plastico è l’uomo in quanto può fare di sé qual che
vuole nella sua concreta situazione, ma sempre in base a una programmazione che si svolge nel senso
d’una materializzazione del dovere morale (plasticità programmata  la ragione non è strumento ma
norma).
 Dedizione e obbligazione  la materializzazione del dovere implica la figurazione di compiti e ideali
che non sempre coincidono col dovere, perché il dovere è oggetto di obbligazione, il compito di
dedizione e l’ideale di aspirazione. La materializzazione del dovere è una tecnica morale, il cui fine è la
ricerca della coincidenza di dovere, compito e ideale, in modo che il dovere diventi compito cui
dedicarsi costantemente e ideale cui aspirare, e l’ideale, facendosi compito d’una vita intera, diventi
norma morale e legge, in una reciproca integrazione che tempera la severità della legge con
l’aspirazione e rassoda l’amorosa dedizione con la necessità morale.
 Libertà e necessità  in questo processo di materiazione del dovere si istituisce una differenza tra la
persona che si è e la persona che si dovrebbe o vorrebbe essere.  anzi, si vorrebbe essere più
persone (maschera). Ciascuna di queste maschere ha una sua interna logicità, la quale si cambia in
necessità fisica e persino in necessità morale dopo il libero atto con cui la si assume a compito. La
plasticità programmata e la materi azione del dovere diventano così, nel loro sforzo verso la finale
coerenza della persona, invenzione di possibilità molteplici, lotta di maschere o persone entro la vita
stessa della singola persona entro la vita stessa della singola persona, libera assunzione di una
necessità che diventa compito e programma, fondazione di un necessità condizionata che è la stessa
legge di struttura.

LA PERSONA COME OPERA


Deve essere considerata in una dialettica concreta di:

 Universalità e singolarità  la persona come opera è un valore storico e come tale è irripetibile, cioè
non tanto individuale o particolare quanto singolare, e al tempo stesso onnirconoscibile, cioè non tanto
generale o totale quanto universalmente valido, sì che singolarità e universalità non solo non si
escludono, ma l’una non può essere senza l’altra.
 Totalità e insufficienza  in ciascuno dei suoi istanti la persona come opera è una totalità conclusa,
definitivamente chiusa con una validità precisa, eppure è insieme aperta alla possibilità di essere
rielaborata, compromessa o arricchita, e quindi sempre in attesa di una conclusione e quindi precaria e
insufficiente.
 Novità ed esemplarità  appunto perché originale e nuova assume un carattere paradigmatico ed
esemplare, tanto da porsi come modello, ideale e compito per nuove produzioni e sfrozi.

LA PERSONA COME IO
Deve essere considerata in una dialettica concreta di:

 Persona e opera  vi è una trascendenza della persona rispetto alle sue opere che come valori
storici, vivono di per sé, singole e qualificate. Ma ciascuna di queste trae la propria indipendenza dal
suo carattere di personalità e inoltre la persona è a sua volta opera, è più precisamente auto-opera,
che si fa da sé e si costruisce attraverso le sue opere. L’io è il possesso della propria vita, la presenza
di me agente nelle mie opere incorporate a me stesso, la consapevolezza che ciò che faccio anche
sono, e ciò che sono lo sono in virtù di me stesso.
 Sostanza e responsabilità  il nesso tra la persona e le sue opere è la sostanza storica della
persona, la quale tuttavia è fondata su una essenza di metastorica che è il vero e proprio io, ciò per cui

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di me dico io. questa essenza è la responsabilità, cioè l’accettazione di rispondere di tutto ciò che si fa e
si è.
 Universalità e personalità  la vita della persona è l’uso e l’esercizio personale del pensiero che è di
per sé universale. Tra le persona ci è comprensione sulla base comune dell’universalità della ragione,
ma tale comprensione è sempre interpretazione personale, perché per l’uomo non vi è ragione se non
esercitata personalmente.

CONCLUSIONE
La persona è al tempo stesso:

 Esistenza = storia concreta del corporificarsi dell’iniziativa;


 Compito = coincidenza di ideale e dovere in una vocazione che è la coerenza cercata nella vita intera;
 Opera = forma vivente e irripetibile dotata di validità assoluta e originalità esemplare;
 Io = sostanza storica qualificata da una responsabilità essenziale, ed esercizio personale della ragione
universale.

LA CONOSCENZA DEGLI ALTRI

DIFFERENZA TRA LA CONOSCENZA DEGLI ALTRI E LA CONOSCENZA DI SÉ


Per teorizzare la conoscenza degli altri la miglior via è connetterla con la conoscenza di sé. La loro
differenza fa sì che ciascuna rechi all’altra il contributo del proprio punto di vista e la loro affinità fa sì che
ciascuna possa utilizzare l’altra per raggiungere il proprio scopo.
La conoscenza di sé è interna al proprio oggetto. La conoscenza che ho di me è per un verso
condizionata dal mio modo d’essere, vivere e pensare, e per l’altro condiziona a sua volta le operazioni
con cui mi modifico e mi trasformo: da una lato esprime l’idea che ho di me e l’ideale che mi propongo, e
dall’altro contiene schemi d’azione prima che schemi di interpretazione. Manca di un punto di vista sul
proprio oggetto. La conoscenza di sé è una conoscenza volta all’atto più che al carattere, all’azione più che
alla realtà, al futuro più che al passato, alla libertà più cha all’inconscio; evita di rinchiudere il suo oggetto
in una tot definita e conclusa e preferisce la continua e inconclusa apertura.
Nella conoscenza degli altri invece il soggetto è spettatore. Il suo punto di vista gli permette di
guardare l’oggetto nel sul insieme; anzi, può variare i punti di vista. La stessa esteriorità dell’oggetto fa
parte della struttura di questa forma di conoscenza. In quanto spettatrice, la conoscenza degli altri mira al
carattere più che all’atto, al passato più che al futuro, alla realtà già fatta che ai progetti di libertà:
accentua la definitezza e tot conclusa delle persona che vuoi conoscere e pur non perdendo il senso
dell’originalità e diversità, è tentata di veder gli altri come prodotti storici, spiegando l’individua natura di
base a determinazioni ambientali e per l’altro, è portata ad attendersi nel futuro quasi lo svolgimento di
un carattere già individuato e formato.

RECPIPROCA INTEGRAZIONE FRA CONOSCENZA DEGLI ALTRI E CONOSCENZA DI SÉ


Queste due forme di conoscenza possono e devono integrarsi a vicenda: la conoscenza di sé si
approfondisce con la considerazione del carattere e dell’inconscio e la conoscenza degli altri con il senso
della libertà innovatrice. Non possiamo giungere a conoscere gli altri se non muovendo dalla conoscenza
che abbiamo di noi, e il modo più sicura per correggere la conoscenza che abbiamo di noi è ricorrere
all’idea che gli altri hanno di noi. Non è difficile constatare che la conoscenza degli altri presuppone un
esercizio di alterità, ma questa operazione la compio anzitutto su me stesso.

Non sempre l’introspezione basta: esprime non tanto la mia realtà, quando l’idea che mi faccio di me. Gli
altri, non essendo impegnati nelle mie azioni, giungono a conoscere più chiaramente il carattere, le mie
abitudini e i movimenti inconsci delle mie azioni.

La conoscenza di sé e la conoscenza degli altri, prolungandosi l’una nell’altra, si raggiungono nel punto in
cui il senso della libertà e la sostanza storica della persona si uniscono  è il punto in cui
l’apertura agli altri impedisce che la mia introspezione diventi una specie di egolatria e la mia esperienza
interiore impedisce che la mia conoscenza delle persona le consideri solo come forme in movimento.
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IL CONCETTO DI SOMIGLIANZA E L’INSEPARABILITÀ DELL’UNIVERSALE E DEL


PERSONALE
Gli uomini fra loro sono uniti dal rapporto di similarità. La persona non è l’individuo di una specie o la
parte di un tutto, anzi, la singolarità che le è essenziale esige che la si consideri come unica nel suo
genere e intera nella sua tot. Ciascuno di noi è un esecuzione personale dell’umanità comune a tutti gli
uomini, ed è questa la ragione per cui le differenza individuali che ci dividono sono attraversate da
una somiglianza fondamentale  si tratta dell’unità di un compito che non può realizzarsi se non nella
diversità delle esecuzioni. Ciascuno di noi è un essere umano in quanto si assume la gestione
dell’universale e cerca di interpretarlo e di esercitarlo sotto la propria responsabilità.

LA CONOSCENZA DEGLI ALTRI COME INTERPRETAZIONE


Solo ricorrendo a questa inseparabilità dell’universale e del personale si possono individuare i principali
caratteri della conoscenza degli altri. Non si deve credere che per conoscere gli altri sia necessario
ricorrere a generalizzazioni che trascendano la singolarità delle persone come le convenzioni e i tipi. È
necessario un difficile esercizio di interpretazione per giungere a una conoscenza profonda. Entrare con la
persona in una vera e propria conversazione, senza limitarsi a parlare o ad ascoltarla, ma a cercare di
farla parlare nel modo in cui la si può meglio ascoltare. La difficoltà è aumentata dal fatto che le persone
sono sempre aperte e incompiute: non si lasciano ridurre a tot concluse. Si tratta di cogliere il punto di
equilibrio tra la penetrazione della sostanza storica della persona e la considerazione della sua
libera iniziativa  equilibrio che va continuamente riveduto e verificato.

SOLIDARIETÀ E COLLABORAZIONE A UN COMPITO COMUNE


Se per me gli altri sono persone che come me si sforzano di realizzare personalmente l’idea che esse si
sono fatte della nostra comune umanità, ne deriva che non le posso considerare senza un sentimento di
solidarietà  io stesso mi trovo impegnato nella realizzazione dello stesso compito. La conoscenza degli
altri acquista il significato di una collaborazione in cui la realtà degli altri mi riguarda da vicino. Questa
solidarietà contiene insieme il dovere di giudicare e di essere giudicato in nome dell’universale, il bisogno
e il diritto di essere compreso dagli altri, e una sollecitazione a modificarsi in base a un mutuo appello alla
legge della ragione universale. Come approvo le buone realizzazioni altrui, così ne biasimo le cattive e
tento di correggerle (anche in me stesso). Certo, la conoscenza degli altri deve proporsi di comprendere
gli altri, ma l’atteggiamento richiesto alla comprensione contiene anche una sollecitazione al giudizio.

La conoscenza degli altri implica un esercizio di libertà e culmina in un appello alla libertà.

CAPITOLO 2: FILOSOFIA DELA PERSONA

LA FILOSOOFIA COME TEORIA DELLA PERSONA


Nel concetto di persona:

a) L’affermazione dell’io cessa di avere un carattere soggettivistico o intimistico, come se tutto ciò con
cui l’uomo entra in rapporto si risolvesse nella sua interiorità, perché invece la persona è al
tempo stesso relazione con sé ed apertura ad altro;
b) L’affermazione del finito cessa di essere disgiunta da quella del valore, perché il regno
della persona è quello dei valori i quali, lo sollecitano e ne risultano al tempo stesso;
c) L’affermazione della singolarità cessa di rischiar di ridursi a un riconoscimento dell’eccezione e a
una ratifica dell’incomunicabilità, perché invece al persona si afferma nell’eseguire in modo nuovo
e irripetibile un compito comune, si che il regno delle persone è posto sotto la categoria della
similarità;
d) L’affermazione della società evita le posizioni dell’individualismo e del collettivismo,
perché la persona non è né uno fra tanti né parte di un tutto, ma persona con persone, lungi dal
sovrapporsi alla società o dal negarvisi, entra in società avendo la società in sé.
e) L’affermazione delle varie attività dell’uomo cessa di avere un carattere di astratta
distinzione.

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Caratteri fondamentali della persona:

1. Positività e insufficienza  la finitezza della persona è caratterizzata dall’essere insieme


insufficienza e positività. Ciò accade perché al principio razionalistico della complementarità di
finito e infinito è sostituito il principio personalistico della loro incommensurabilità.
2. Recettività e attività  l’attività umana è sintesi di attività e recettività: l’una è la forma
dell’altra: non è pensabile un’attività che non sia recettiva, né una recettività che non sia attiva. La
libertà umana mostra che l’uomo è sì libertà, ma che alla base della sua libertà c’è una necessità
iniziale, per cui egli agisce e decide non potendo non agire e decidere  è il segno del suo essere
principato: l’uomo è iniziativa, ma iniziativa che è a sua volta iniziata.  se non fosse insieme
attiva e recettiva, la libertà stessa sarebbe compromessa. Io sono dato a me stesso, ma io sono
dato a me stesso come libertà. All’origine del mio essere vi sono dunque recettività e attività.
3. Problematicità e partecipazione  in antitesi all’attività umana si accentua la precarietà
dell’’uomo e il carattere tentativo del suo operare. Non opera se non procedendo a tentativi:
l’uomo non trova senza cercare, e non cerca senza tentare, ma nel tentare figura e inventa (ciò
che trova lo ha propriamente inventato) . Non c’è mai pura mancanza né puro possesso (Eros =
Penia + Poros), perché per un verso l’uomo non possiede nulla se non nella forma di doverlo
cercare ancora, e per l’altro non esiste sempre una tal corrispondenza tra attesa e scoperta, per
cui la stessa attesa attrae la scoperta e ne diventa il criterio. In ogni atto umano c’è sempre
insieme tentare e partecipare, mancare e avere, cercare e scoprire, inventare e trovare.

Al concetto di persona si riducono tre indagini:

1. STORIA E PERSONALITÀ DELLA FILOSOFIA


Quando la filosofia giunse alla critica, si diede a prender coscienza delle proprie condizioni, fra le quali la
propria condizionalità storica.  problema dello smascheramento e della demistificazione. Poiché dire
storicità della filosofia significa dire molteplicità delle filo, accade che alla concezione della filo unica vera,
si sostituisce la concezione delle filo molteplici, tutte egualmente legittime e giustificabili: dal dogmatismo
al relativismo.
Gli inconvenienti cui vanno incontro queste due posizioni derivano dal confondere la filo con la verità
stessa, e dal non sottrarsi alla sterile antitesi di unicità e molteplicità della filo.
La coessenzialità di unità e singolarità è fondata sul concetto di persona = personalità della filo. Solo
interpretando la storicità o condizionalità storica della filo come sua personalità posso mantenere insieme
l’unicità della verità, l’unità della filo e la molteplicità delle filo. La vera filosofia critica è dunque quella
che assume come garanzia della propria possibilità la consapevolezza della propria personalità;
e la storia della filo è non dialettica di filo parziali, ma dialogo di voci irriducibili l’una all’altra e tutte
interessate alla stessa verità e ai diversi modi di accedervi.

2. GNOSEOLOGIA DELL’INTERPRETAZIONE
La definizione più pregnante dell’interpretazione consiste nel dire che essa è conoscenza di forme da
parte di persone. Solo la forma può essere interpretata e solo la persona può interpretare. La sua capacità
di esigere interpretazione consiste nel suo essere conclusione di un processo formativo. Ciò che è stato
formato è accessibile solo a chi ne coglie il disegno creativo. L’accesso alla forma deve essere personale,
perché personale ne sarà sempre l’iniziativa, il modo, il termine: la forma non si offre se non a uno sforzo
personale di penetrarla e rivelarla. Di qui varie conseguenze:

a) Sintonizzazione e congenialità  la definitezza della forma include un infinito e la persona è un


infinito. La comprensione avviene solo quando si instaura una corrispondenza tra un aspetto della
forma e un punti di vista della persona, per cui la forma si rivela intera in uno dei suoi aspetti e la
persona la penetra da quel suo punto di vista. L’interpretazione è una conoscenza che riesce solo
come sintonizzazione: il che spiega come la comprensione possa essere a volte istantanea e a volte
tardiva.
b) Espressione e rivelazione  l’interpretazione è un tipo di conoscenza nel quale il soggetto non
ha altro organo di penetrazione che la propria personalità. La personalità non è un ostacolo da
sopprimere, perché l’interpretazione non aggiunge all’oggetto nulla che in esso non si trovi.
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L’interpretazione è insieme rivelativa ed espressiva: essa è una conoscenza in cui l’oggetto si rivela
nella misura in cui il soggetto si esprime. È un tipo di conoscenza che va a tentativi, in cui la
comprensione è conseguita solo come attivo superamento della minaccia attuale
dell’incomprensione.
c) Dualità di spunto e schema  la ricerca della corrispondenza fra un aspetto della forma e un
punto di vista della persona implica un movimento in cui la persona proporne via via figure
destinate a rivelare la forma, cioè schemi di interpretazione da abbandonare, sostituire,
correggere, integrare, migliorare, accettare nel corso di un processo di verifica. Ciò che
caratterizza questo movimento è che finché esso dura la forma non appare ancora come forma né
la figura che se ne proporne è immagine, ma sussiste una tensione e una dualità fra lo stimolo e
l’attenzione, fra lo spunto e lo schema. Si che l’interpretazione è per questo un vero e proprio
processo di formazione.
d) Unità di forma e immagine  la riuscita dell’interpretazione placa il movimento in una quiete in
cui la dualità fra spunto e schema cede il posto a un’identità di forma e immagine l’oggetto si
rivela, cioè appare come forma, quando l’interpretazione ha trovato l’immagine che lo capta e lo
rende. L’interprete non può confrontare la sua interpretazione con la cosa stessa come se questa
gli si offrisse fuori di quella. Il che, tuttavia, non vuol dire che l’oggetto si riduce all’immagine che
se ne produce o vi si risolve.
e) Possesso e ulteriorità  poiché ogni aspetto della forma è rivelativo, attraverso uno solo di essi
l’interpretazione può cogliere la tot della forma, ma poiché nessun aspetto è esauriente, la forma
può esigere ulteriori sforzi di penetrazione.  donde all’interprete la duplice consapevolezza di un
possesso completo e della necessità di ulteriore ricerca. Non c’è interpretazione definitiva, perché
la scoperta è anche stimolo di ricerca. Nell’interpretazione si coglie l’oggetto, ma sapendo di
doverlo approfondire; si sa di dover approfondire, ma qualcosa che si possiede interamente.
f) Né unicità né arbitrarietà, ma infinità dell’interpretazione  l’interpretazione è una forma di
conoscenza non unica, ma molteplice e infinita, senza perciò essere arbitraria, perché l’ogg non
cambia se cambia l’aspetto in cui è visto o la prospettiva da cui è guardato. Infinite interpretazioni
non compromettono l’identità della forma, piuttosto ne svolgono l’infinità e denunciano
l’arbitrarietà di deformazioni personali, mostrano quale inesauribile ricchezza di rivelazioni possa
promettere l’uso della personalità come organo di penetrazione.
g) L’interpretazione nello studio della natura, della storia, della società  vedi libro

3. TEORIA DELLA FORMATIVITÀ


Il concetto di forma è centrale anche per l’estetica: la bellezza consiste appunto nell’esser forma. Forma
= irripetibile nella sua singolarità, esemplare nel suo valore, concluso e aperto insieme nella sua
definitezza che racchiude un infinito. Alla forma è essenziale l’essere un risultato, cioè la riuscita di un
processo. Vedere la forma come forma significa completarne la bellezza, e la contemplazione si risolve
nell’esser la conclusione dell’interpreazione, cioè il culmine di un processo formativo. La formatività è
nesso inseparabile di invenzione e produzione: formare significa fare, ma un tal fare che, mentre fa,
inventa il modo di fare  realizzare non qualcosa di predeterminato, ma qualcosa che si inventa facendo.
La formatività inerisce a tutta l’attività umana, ma si trova propriamente solo nell’arte. Persino
nel fare che si limita a eseguire idee già delineate v’è un margine di inventività. Non c’è opera che non sia
forma, né attività di cui non sia possibile un’arte, come l’arte di persuadere, di filo, di pensare, vivere, ecc.
Solo nell’arte propriamente detta però vi è puro esercizio di formatività  la formatività diventa
essa stessa attività preponderante, fine a sé stessa, concentrando ogni altra attività a proprio sostegno.
L’arte consiste nel formare per formare. L’estetica dunque, ha due aspetti: è teoria generale dell’attività
umana, e teoria specifica dell’arte. Primo e principale compito dell’arte è definire la specificazione della
formativià. Tale specificazione imprima tre aspetti:

1. Il contenuto dell’arte  la formatività diventa arte quando l’intera personalità dell’artista si fa non
tanto materia da formare, ma modo di formare = stile. Questo è l’unico modo in cui si può pensare che
la concreta umanità dell’artista, e con essa l’intera civiltà e spiritualità del suo tempo, sia presenta
nell’opera d’arte. Per l’artista, non c’è altro modo di esprimere che il fare e lo stesso fare è esprimere.

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Lo stile è l’intero mondo spirituale dell’artista fattosi del fare. Fra spirito e stile c’è corrispondenza, vera
identità, nel senso che lo stile è una spiritualità che, postasi sotto il segno della formatività, diventa,
essa stessa, il suo modo di formare.
2. La materia dell’arte  la formatività diventa arte quando, non avendo nulla di specifico da formare,
adotta una materia, perché questa, una volta formata, sia forma e nient’altro che forma, il che può
accadere solo con l’adozione di una materia fisica (#parola  non è senso senza essere insieme
suono). L’opera è materia formata. Nel concetto di materia rientra tutto ciò che si intende con tecnica o
di linguaggio o di mezzi di espressione. L’artista che adotta la materia, non può più farci ciò che
vuole, ma deve entrare in dialogo con essa, per riuscire a fare la volontà dell’opera precisamente
attraverso la volontà della materia. L’artista, egualmente lontano dal violare e dal subire, domina la
materia secondandola, cioè trae occasione e suggerimento da ciò che potrebbe essere impedimento
e ostacolo.
3. La legge dell’arte  la formatività diventa arte quando, non avendo nessuna legge generale a cui
attendersi, adotta come solo criterio la stessa riuscita e come sola legge la stessa regola individuale
dell’opera. L’operazione artistica è un puro tentare. La condizione del tentativo è quella di non aver
altra guida che l’attesa della scoperta. La riuscita è divinata in una specie di presagio, che non è una
conoscenza, ma un comportamento, e si manifesta solo nella consapevolezza dell’artista che se la
ricerca è compensata dalla scoperta egli sa immediatamente riconoscerla. L’opera pur cominciando ad
esistere solo quand’è compiuta, quindi comincia ad agire come formante ancora prima di esistere come
formata. Mai l’artista è così attivo come quando obbedisce alla stessa opera ch’egli va facendo. L’opera
è allora per un verso la persona stessa dell’artista fattasi oggetto fisico e la riuscita di un processo di
formazione, tentativo e organismo insieme.

CAPITOLO 3: SITUAIZONE E LIBERTÀ

LA FILO COME TEORIA DELL’UOMO


La filo è teoria dell’uomo fatta dall’uomo per l’uomo.
Due punti essenziali:

1. Come opera umana (e solo umana) la filo deve rinunciare a porsi in un punto di vista che non sia
quello dell’uomo (punto di vista del finito)  l’uomo non può uscire da se stesso e dalla sua
condizione finita, nemmeno nella filo, la quale sarà sempre fatta dall’uomo per l’uomo, cioè dal
finito per il finito. È essenziale la finitezza alla filo che tratta dell’uomo, perché altrimenti ci si
potrebbe domandare come possa l’uomo uscire da sé per conseguire un punto di vista così esterno
(cosa impossibile). Si tratta piuttosto dell’uomo stesso che, col proprio pensiero riflesso, prende
consapevolezza insieme del proprio punto di vista e della propria natura, del proprio pensiero de
della propria condizione, della propria finezza e del propri rapporti.
2. Finita è anche la portata del suo sguardo. Non può vertere sull’assoluto o sull’essere o su una
qualsiasi trascendenza. Il pensiero filo non serve per conoscere niente di nuovo; esso è
speculazione = riflesso sull’uomo, sulla sua esperienza, sulla sua natura, per fondarla e spiegarla e
giustificarla.

 In questo senso solo l’uomo può essere oggetto del pensiero filo, perché solo lui può essere
oggetto a sé stesso, cioè oggettivato a sé stesso. Tutto il resto è in oggettivabile.

LA TEOIRA DELL’UOMO COME TEORIA DELLA PERSONA: RELAZIONE CON SÉ E


RELAZIONE CON ALTRO
Teoria dell’uomo significa dunque teoria della persona  il punto di vista dell’indagine qualifica l’ogg
dell’indagine. L’uomo = sogg e ogg dell’indagine al tempo stesso.
Filo dell’esistenza = la caratteristica della definizione esistenziale dell’uomo consiste nel concepire
l’esistenza umana come coincidenza di relazione con sè e relazione con altro.
Ogni disconoscimento di questa coincidenza e ogni rottura di questo equilibrio porta a concezioni
unilaterali che rendono incomprensibile l’uomo nella sua condizione reale. Sostenere che l’uomo prende
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coscienza di sé solo in una realtà sovraindividuale, significa negare la personalità dell’uomo o cadere nel
soggettivismo.
La persona è invece mantenuta nella sua natura e solo nella misura in cui si affermi che in essa la
relazione con sé è così forte da non lasciarsi sopraffare o mediare dalla relazione con altro, e la relazione
con altro è così perentoria da non potersi risolvere o dissolvere nella relazione con sé.
Cessa di essere persona quella che si personalizza sia rinunciando ad avere rapporti con sé che non siano
mediati da rapporti con altri, sia perdendo, in favore di una comprensività universale, la puntuale identità
che la fa centro a sé stessa.

DIALETTICA DI PASSIVITÀ E ATTIVITÀ NEI RAPPORTI FRA LIBERTÀ E SITUAZIONE


La libertà umana è limitatissima e condizionata, ma nonostante questo non subisce questi limiti, mai al
punto di essere annullata o determinata. Anzi, finisce per trionfarne, perché è sempre essa che accetta di
farsi limitare e che si determina a lasciarsi determinare, al punto che l’uomo si caratterizza appunto per la
sua costante volontà di rispondere di sé stesso, di tutto ciò che egli è. I limiti della libertà sono di vario
genere:

- Interni (la natura stessa della libertà)


- Originari (libertà nel suo stesso principato e nei suoi inizi).
- Esterni (la situazione)  sembra che fra libertà e situazione ci sia una vera contrapposizione: da un
lato la nostra attività che dipende da noi e dall’altro la situazione spazio-temporale che non dipende da
noi. Ma è un principio generale dell’esistenza che nell’uomo non c’è passività che non si risolva in
attività!  situazione e libertà appaiono come termini impegnati in una dialettica di passività e attività
facilmente riconducibile all’autorelazione della persona.  la situazione è pur sempre situazione
umana, inseparabile dalla reazione personale della libertà.  e la libertà è pur sempre libertà concreta
dell’uomo, che prende corpo nella situazione facendone l’esistenza storica della persona e in essa
operando in vista di fini e secondo leggi. In questo loro indissolubile rapporto situazione e libertà
trovano la loro mutua qualificazione.

DIALETTICA DI PASSIVITÀ E ATTIVITÀ TANTO NELLA LIBERTÀ QUANTO NELLA


SITUAZIONE
Questa dialettica non si limita a chiarire il rapporto tra situazione e libertà, ma si annida all’interno di
ciascuno dei due termini.
- La situazione è senza dubbio passiva, perché non dipende dall’uomo. L’evento stesso della propria
nascita non è il risultato di un liberto atto di scelta. Lo stesso vale per il futuro: tutto sembra essere pura
indeterminazione, salvo l’unica limitazione imposta dalle ripercussioni del nostro passato. La situazione
dunque è passività perché è necessità cui l’uomo sottostà: è un dato imposto, insostituibile anche se
modificabile. MA all’interno dell’atto con cui la libertà reagisce (ribellandosi o adottanda), acquista
un carattere attivo o in senso negativo (impedimento e inciampo) o in senso positivo (occasione e
spunto).
- La libertà merita il nome di attività: con essa l’uomo fa di sé quel che vuole nella concreta situazione.
MA la stessa libertà ha un aspetto ineliminabile di passività, perché non dipendono dall’uomo
né la sua struttura né il possesso che egli ne ha. Lo statuto della libertà implica che essa sia al
tempo stesso posizione e discriminazione di un’alternativa. L’uomo può scegliere liberamente il valore o il
disvalore, ma non può impedire che il suo atto nasca già segnato da una valutazione che egli stesso e
chiunque altro devono riconoscere. Inoltre, l’esercizio della libertà dipende interamente dall’uomo, ma non
così il suo possesso, che gli è imposto  l’uomo non può non essere libero: ogni tentativo di sottrarsi alla
libertà è già un esercizio di essa.

DALLA DIALETTICA DI PASSIVITÀ E ATTIVITÀ ALLA COINCIDENZA DI


ATURELAZIONE ED ETERORELAZIONE

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La dialettica di passività e attività serve anche per chiarire come ala situazione umana sia caratterizzata
da una compresenza di necessità e libertà. All’autorelazione della persona si può ridurre la dialettica dei
passività e attività. Solo così possiamo capire perché quella pass si converte a limitazione o necessità.

LA SITUAZIONE COME RELAZIONE CON ALTRO: APPELLO ALLA LIBERTÀ E


PROSPETTIVA SULLA VERITÀ
Se si cerca di approfondire la passività della situazione, essa può risolversi in attività solo perché è in sé
stessa un’apertura su un orizzonte più vasto dell’intimità della persona,  permette alla situazione di
essere, nell’atto di libertà che l’adotta e vi si incarna, una presenza stimolante e suscitatrice. Certo,
dipende dall’uomo sapere accogliere la situazione in modo attivo e suggestivo, perché altrimenti essa si
irrigidisce in un limite, ma l’uomo riesce a convertire la limitazione in possibilità solo perché la situazione è
realmente in sé stessa (in ciò che non dipende da lui) una riserva inesauribile di stimoli e sollecitazioni.

La situazione non è solo collocazione storica. Ed è proprio da questo fatto che deriva alla situazione la sua
efficacia stimolante sull’attività dell’uomo.  si verifica un incontro per cui l’attività dell’uomo contiene
l’esercizio della sua libertà e insieme la presenza operosa di un’attività ulteriore. Se fosse solo collocazione
storica, la situazione si ridurrebbe a limitazione mortificante per la libertà umana: l’attività umana è
limitata e diminuita dalla situazione sentita come semplice confine dell’esistenza, ma esaltata e rafforzata
dalla situazione sentita come apertura e relazione con altro. Come collocazione metafisica, e solo come
tale, la situazione è appello alla libertà e prospettiva sulla verità.
Certo, l’uomo può fermarsi alla passività della situazione, e allora la sua esistenza non è che prodotto
storico.
La conoscenza della verità non è un problema gnoseologico, ma un problema metafisico e formulabile solo
attraverso la personale via d’accesso ad essa, sì che la conoscenza umana della verità è sempre
molteplice pur essendo unica la verità. La situazione, così intesa, è l’origine da cui trae i contenuti delle
proprie affermazioni di verità, sia che rimangano inconsce, sia che si rendano consapevoli.
Se la persona si ferma alla passività della sua situazione, non solo la sua esistenza non è che prodotto
storico, ma anche la sua “verità” non è che confessione personale o espressione dell’epoca: non si esce
dalla persona, prigioniera di sé stessa e della propria determinatezza, né dalla sua attività, ridotta a
semplice espressione della situazione storica (storicismo assoluto). Ma se la persona vede nella passività
della situazione un rapporto con l’essere e l’apertura di un’eterorelazione, allora la sua situazione diventa
una fonte inesauribile di contenuti di verità e la sua verità acquista il carattere di una rivelazione della
verità stessa.

LA LIBERTÀ COME RELAZIONE CON ALTRO: INIZIATIVA INIZIATA E CONSENSO A UN


DONO
La passività nella libertà = necessità iniziale per cui l’uomo agisce e decide non solo in quanto deve
agire e decidere, ma anche e prima di tutto in quanto non può non agire e non decidere.  l’uomo è
principato: è iniziativa, ma iniziativa ch’è a sua volta iniziata. Ma che tale necessità non né comprometta
la libertà è cosa che dipende dal modo del principiare cioè da quella relazione con altro che sorregge
l’autorelazione della persona.
La libertà non può esser ricevuta se non con un atto di libertà, sì che la stessa iniziale ricezione è già
l’esercizio di ciò che si riceve. Vi è una coincidenza non solo fra l’atto con cui la libertà comincia ad essere
e l’atto con cui la libertà è ricevuta, ma anche tra l’atto con cui la libertà è data e l’atto con cui la libertà
comincia da sé. Non la si può ricevere se non esercitandola. L’atto dell’esercitarla non è posteriore a
quello di riceverla, bensì identico con esso. L’atto con cui la libertà è data (comincia ad essere) non può
configurarsi se non come atto con cui la libertà comincia da sé, cioè è iniziativa. L’iniziativa non cessa di
essere tale, anche se è principata, perché l’essere principata non si realizza se non nella forma
dell’iniziarsi. La liberà è per l’uomo non tanto un possesso quanto il suo stesso essere. Nell’uomo inizio e
iniziativa, esser principato e cominciare coincidono.
Dare senza il ricevere è il dare proprio del dono. È un ricevere che si realizza solo come azione e iniziativa.
Un agire che non cessa di esser agire se si presenta come ricevere è ciò che si chiama consenso:
accoglimento attivo, accettazione positiva, adesione. La coincidenza di inizio e iniziativa è chiarita dalla
corrispondenza di dono e consenso: il mio inizio, il mio esse principato è un dono di me a me; la mia

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iniziativa, il mio cominciare è un mio consenso ad essere. Io sono principato nel senso che il primo atto
della libertà che io sono consiste nel riceverla, e io comincio ad essere con un atto di consenso nel quale
consiste il mio essere. Esistere significa allora aver consentito a quel dono.
La passività e la necessità che stanno alla base dell’iniziativa umana possono convertirsi in
attività e in libertà: esse sono l’attestazione di un dono gratuito che si tratta di accogliere con
un libero e autonomo consenso. Dipende dall’uomo saper considerare la necessità iniziale della libertà
come una limitazione mortificante o come una sollecitazione di attività.

COINCIDENZA DI AUTORELAZIONE ED ETERORELAZIONE E SINTESI DI ATTIVITÀ E


RECETTIVITÀ
Situazione e libertà sono suscitatrici di attività solo se la loro passività iniziale è considerata come
rapporto con l’essere, nel senso che la situazione è appello alla libertà e prospettiva sulla verità, e la
libertà è iniziativa iniziata e consenso a un dono. Il problema allora, non è tanto quello di trovare
come la passività si risolva in attività, piuttosto come quello di concepire come recettività e
attività possano coincidere nell’atto umano. Nelle operazione dell’uomo è impensabile un’attività che
non sia, recettiva né una recettività che non sia attiva. Un atto è tanto più attivo quanto più recettivo.
Tanto più intensa è l’attività della persona quanto è sostenuta da un’attività ulteriore, e quando
l’autorelazione dell’esistenza è sorretta da un’eterorelazione.

POSITIVITÀ E INSUFFICIENZA; INESAURIBILITÀ DELL’APERTURA ONTOLOGICA


Relazione con sé e relazione con l’altro, attività e recettività, interiorità e indipendenza, problematicità e
normatività, sono termini che costituiscono la dialettica dell’esistenza.  rappresentano il risultato teorico
della critica mossa dalla filo dell’esistenza al razionalismo metafisico e riassumono i principi fondamentali
del personalismo ontologico.
Il razionalismo metafisico (che percorre gran parte della filo moderna) concepisce il finito mediante la
categoria della tot, sì che la realtà che si attribuisce a Dio viene tolta all’uomo e viceversa.
La filo dell’esistenza ha invece validamente dimostrato l’impossibilità di interpretare il finito in base alla
categoria della tot, portando al risultato che il finito non si spiega se non con una dialettica di positività e
insufficienza, in cui la finitezza dell’uomo si manifesta nel fatto che egli è positivo, ma non al punto di
essere sufficiente, e insufficiente, ma non al punto di essere negativo.
Conclusione: la relazione tra finito e infinito deve essere concepita in modo compatibile col fatto che
l’infinito è ciò con cui non è possibile alcun rapporto. Uno dei due termini è nel rapporto solo in quanto è
lui stesso che fonda il rapporto, mentre l’altro è nel rapporto solo in quanto esso è lo stesso rapporto.

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