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HEGEL

FILOSOFIA POST KANTIANA


o idealismo tedesco

I filosofi che vennero dopo Kant (detti filosofi post kantiani o dell’idealismo tedesco) e si dedicarono allo studio
delle teorie accolsero la maggior parte delle sue idee, in particolare quella della critica alla metafisica e quella
dell’esistenza di una scienza capace di cogliere l’idea dei concetti delle forme a priori, ma ne rifiutarono due:
- il dualismo delle opposizioni, in particolare l’opposizione tra critica della ragion pura e pratica (l’una
afferma che tutta la dimensione metafisica sia preclusa all’uomo sul piano conoscitivo, mentre nell’altra
argomenti prima esclusi vengono reintrodotti sul piano morale e questa scissione umana in piano
conoscitivo e morale non convince i filosofi post kantiani). I filosofi post kantini auspicano una
risoluzione di questa scissione che possa portare ad una visione unificata dell’uomo e della realtà;
- il dualismo di fenomeno e cosa in sè. Il concetto di cosa in sè pare a questi filosofi incompatibile con altri
risultati ottenuti sempre all'interno della critica alla ragion pura, ciò è spiegato in 3 critiche principali:
1. in riferimento alla relazione di causa effetto: la relazione di causa efetto, ammette Kant, è una
categoria, uno dei concetti puri dell’intelletto, il cui significato, validità, è relativa unicamente
all’esperienza e qualsiasi suo uso iperfisico ne risulta illegittimo. Introducendo il concetto di
causa in sè, secondo i filosofi post kantiani, Kant sta facendo uso illegittimo della categoria,
perché afferma che le cose in sé siano causa dei fenomeni. Egli dice che la realtà in quanto
tale di cui non ho informazioni agisce sulle mie facoltà conoscitive e produce in me una
rappresentazione, che è il fenomeno, una realtà adeguata al mio modo di conoscere, ma
facendo questa operazione si sta affermando in sostanza che il fenomeno sia effetto della cosa
in sé, la quale a sua volta ne risulta causa, quindi sto usando la relazione di causa effetto
partendo dai fenomeni, ma poi uscendone. Le soluzioni possibili a questo dilemma sono così
due, o le categorie risultano valide anche al di fuori dell’esperienza o il concetto stesso di cosa
in sè è inadeguato. I filosofi opteranno per la seconda, rifiutando quindi l’esistenza di un
qualcosa che sia causa dei fenomeni al di fuori della nostra esperienza;
2. in riferimento al concetto di esistenza. Kant afferma che l’esistenza non sia una perfezione, ma
“esistere” non ha altro significato se non quello di essere presente nella mia esperienza, ma
affermare che le cose in sé esistono risulta incompatibile col concetto di esistenza appena
esposto, perché esse sono al di fuori della mia esperienza. I filosofi dell’idelismo tedesco
resteranno fedeli alla critica della metafiisca avanzata da Kant e rifiuteranno nuovamente
l’esistenza delle cose in sé.
3. questa critica prescinde dalle considerazioni e dai risultati ottenuti da Kant nella critica alla
ragion pura, ma è piuttosto una critica a livello concettuale: il concetto di cosa in sè risulta
intrinsecamente contradditorio, perché mi fa pensare a una realtà di cui dico che non posso
avere conoscenza, ma di questa realtà sembra invece che io ne abbia notizia, perché altrimenti
non sarei in grado nemmeno di formulare il concetto di cosa in sé.
I filosofi dopo Kant escluderanno così l’ipotesi di poter parlare delle cose in sè, affermando che tutta la realtà
comprenda solo tutto ciò che si manifesta nell’esperienza e al di fuori di essa non vi sia nulla.

La critica al concetto di cosa in sé costringe i pensatori a ragionare sulle definizioni di essere ed esperienza: se
seguiamo gli idealisti tedeschi dicendo che le cose in sè non esistono si deve affermare che vi è un’unica
dimensione della realtà, che è quella dei fenomeni, della natura, una dimensione dell’esperiena dell’essere in cui
l’essere è manifesto (ovvero in cui esso si manifesti nell’esperienza). I filosofi dell’idealismo tedesco cercheranno
di pensare in modo unitario questa dimensione e utilizzano così il termine ”assoluto”, esprimendo con esso
l’unità dell’essere e del pensiero (inteso come esperienza, conoscenza, pensiero razionale e conoscenza del
mondo). Caratteristica dell’idealismo tedesco è quindi quella di pensare in modo coerente al concetto di assoluto,
come unità di essere e pensiero, unica dimensione in cui esso si possa manifestare. Nell’assoluto dovrebbero
trovare spiegazione sia il fenomeno dell'agire umano che quello del conoscere, ma non come due dimensioni
separate, bensì unite, perché l’assoluto è un'unica dimensione. Questa soluzione si sposa quindi perfettamenrte
con le critiche fatte al dualismo della filosofia kantiana, perché si cerca una soluzione unitaria.

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I principali filosofi dell’idealismo tedesco sono: Fichte, Schelling ed Hegel.

FICHTE:
L’esperienza nasce, secondo Kant, dall’incontro fra le nostre facoltà conoscitive e le cose in sé, ma Fichte,
partendo dal presupposto che le cose in sè non esistano, voleva dimostrare che “le condizioni di possibilità della
coscienza (dell’io) sono le condizioni di posibilità dell’esperienza”. Se riusciamo a cogliere le forme a priori che
rendono possibile la coscienza riusciamo a rendere possibile anche l’esperienza, perché essa è interna alla
coscienza stessa. Questa è una deduzione soggettiva dell’esperienza, ma questo approccio fu criticamo come
unilaterale perché l'oggetto studiato, la natura, dipende esclusivamente dal soggetto, infatti qui ci si ricollega alla
proposta di Shelling con la sua definizione di assoluto;

SCHELLING:
L’assoluto è unità indifferenziata di spirito (soggetto, pensiero) e natura (oggetto, essere). Se esiste questo
assoluto allora essa deve essere una dimensione unitaria, ma deve avere in sé sia ciò che caratterizza l’essere
che la coscienza, quindi si può dire che “l’assoluto è radice comune di ciò che diventa natura e ciò che diventa
spirito” (adattandolo a Cartesio si potrebbe dire che res extensa e res cogitans sono la stessa realtà, il tutto
riunito nell’assoluto, perché la medesima realtà si esprime sia come natura che come spirito cosciente). Questo
vuol dire che l’assoluto dentro di sé deve avere sia ciò che permette di sviluppare ciò che appartiene alla natura
che quello che appartiene allo spirito, senza essere esclusivamente uno dei due. L'assoluto è una capacità, una
forza capace, un’energia, da cui possono fuoriuscire realtà tra loro tutte diverse, ma dentro all’assoluto risultano
come mescolate (puoi ricollegarlo all’apeiron di anassimandro: l’assoluto nella sua natura propria è come un
“pongo” da cui emergono realtà fra loro molto differenti e ne è radice comune). Le affermazioni di Schelling non si
fermano ovviamente qui, ma egli cercherà di far vedere come dalla natura viene fuori lo spirito e come dallo
spirito viene fuori la natura.
Nel piano logico, concettuale, questo ragionamento è valido, ma nel piano concreto come possiamo accettare
l’unità di essere e pensiero? Se natura e spirito sono accomunati dall’assoluto dobbiamo essere in grado di
passare dall’uno all’altro. Dallo spirito alla natura si segue una soluzione kantiana, tramite le forme a priori del
soggetto (per kant le categorie) ho un procedimento che mi fa capire in che modo l’attività cosciente dell’io è in
grado di produrre un insieme di fenomeni, dalla natura allo spirito si segue il “percorso naturale”, l’uomo nasce
all’interno della natura e sviluppa le sue abilità superiori, ma viene dalla terra e non da altri pianeti o dimensioni,
nasce dalla natura, quindi si può affermare che la natura dentro di sè abbia le caratteristiche necessarie a far
nascere il pensiero, la mente cosciente, perché l’uomo è collocato dentro alla natura e non ne è esterno. Poiché
dalla natura nasce lo spirito cosciente e in qualche modo lo esso ci fa capire come costruire una natura, si
presenta unità fra i due elementi, dunque entrambi nascono dalla stessa radice, che deve essere in grado di
dimostrare entrambe le cose. L’assoluto risulta quindi la dimensione che comprende ogni cosa, dal quale
vengono poi fuori i due ambiti. Questa soluzione sarà però ampiamente ciritcata da Hegel.

HEGEL

NATURA E SPIRITO
Hegel sostiene che la dimostrazione di Schelling non
faccia altro che riproporre le antinomie kantiane.
Prendendo lo shcema generale del ragionamento di
Schelling abbiamo sopra l’assoluto e sotto la natura e
lo spirito, ma se tirassimo una riga fra le due ciò che
sta sopra corrisponde all’essenza dell’assoluto, l’unità
indifferenziata, la natura propria dell’assoluto. Il piano
sotto è quello dell’esistenza o dell’esperienza, ovvero,
quando facciamo esperienza dell’assoluto non
vediamo l’unità indifferenziata, ma facciamo solo
esperienza di enti naturali, quindi della natura, oppure

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degli uomini come soggetti coscienti o individui che pensano, quindi lo spirito, quindi si ripropone lo stesso
problema delle cose in sé affrontato già con le antinomie kantiane. Il problema si presenta anche andando verso
l’alto, Hegel presenta il problema con la frase ”l’assoluto di Schelling come la notte in cui tutte le vacche sono
nere”, che è una metafora per intendere il fatto che nel buio le vacche non si vedono, esattamente come non si
vedono i contenuti dell’esperienza dentro all’assoluto come essenza.
Inoltre Hegel afferma che l’idea è la struttura razionale che sta a fondamento della realtà, facendo riferimento a
Platone. Essa è un sistema delle categorie e questo
sistema al suo interno ha dentro di sè lo schema, la
ragione, dello sviluppo, è come se fosse l’algoritmo
che spiega in forma puramente razionale l’intero
ciclo. Non vi è solo quel ciclo, ma ci sono tutte le
categorie che stanno a fondamento della realtà
(concetto di forza, relazione di causa effetto ecc),
sono tutti nell’idea e formano un’unità sistematica, la
realtà è considerata quindi una rete di connessioni.
Le categorie di Hegel non vogliono essere solo il
cemento che tiene insieme la realtà, ma vogliono
essere le forme di autocoscienza che in modo
diverso siano spettro della realtà. Nell’ottica di Hegel
questo è un superamento del problema di Schelling,
perché quella struttura razionale delle categorie
esiste indifferentemente, sia nella forma della natura
che nella forma dello spirito cosciente. Come diceva quindi Platone le idee non sono solo causa dell’essere, ma
sono anche causa del conoscere, sono i principi che guidano la coscienza, ma stanno anche alla base dello
sviluppo e della realtà, quindi esistono indifferentemente nella forma del puro pensiero, all’interno della natura
(quindi nella dimensione spazio-tempo) e nella dimensione dello spirito cosciente. In tutte e tre queste dimensioni
ci sono sempre le categorie che esistono indipendentemente in queste tre forme. L’identità, quindi la
realizzazione di un medesimo contenuto, prende corpo in forme diverse, però queste forme non restano separate
una dall’altra e ciò grazie ai passaggi del ciclo (l’idea si traduce in natura, dalla natura emerge lo spirito, l’uomo
comprende la realtà e con essa l’idea realizza il ciclo. Il medesimo contenuto che è l’idea assume le altre forme e
quando c’è il passaggio si supera la differenza, ponendo l’unità, che però non toglie la differenza, che stabilisce
semplicemente la connessione. Ogni passaggio ci permette quindi di stabilire l’identità e la differenza delle varie
componenti).
Quello di Hegel è probabilmente il tentativo più radicale di pretendere che la mente umana possa elevarsi alla
mente di dio, che abbia la capacità di comprendere insieme ciò che è diverso, contradditorio (perché identità e
differenza, unità e molteplicità, sono concetti fra loro contradditori). Il pensiero umano riesce, secondo Hegel, a
elevarsi dalla propria singolarità, di superare le differenze e cogliere l’unità del tutto, ma è necesasario formulare
un pensiero che non si irrigidisca, ma che riesca a cogliere l’unità dei diversi. Il pensiero che ci fa elevare è
secondo Hegel la dialettica.

ASSOLUTO
Il concetto di assoluto è definito da tre aspetti fondamentali:
1. L’unità di essere e pensiero, o di natura e spirito cosciente (spiegato sopra);
2. L’Unità di infinito (o perfezione) e finito;
3. L’organicismo, la realtà risulta come un organismo.

2. L’unità di infinito e assoluto


L’assoluto corrisponde al tutto, la totalità di ciò che è, è la dimensione all’interno di cui troviamo qualsiasi cosa,
ma ciò significa che al di fuori di esso non vi sia niente, quindi deve essere infinito perché non può essere limitato
da alcun altro tipo di realtà.

Analogia con Spinoza e Cartesio


Qui converge la visione di Spinoza, nella cui opera principale (l'etica dimostrata secondo il metodo geometrico) vi
è una delle dimostrazioni volta allo spiegare come non possono esistere due sostanze, ma ne può esistere una
sola. In parole povere si afferma che la sostanza sia infinita, dunque non può esistere un secondo tipo di
sostanza perché sarebbe limitazione della sostanza precedente che quindi non risulterebbe infinita. Nel concetto

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di assoluto entra questa concezione: dato che l'assoluto corrisponde al tutto, alla realtà, esso deve essere infinito
e al di fuori di esso non vi è niente.
Qui si vede anche l'influenza di Cartesio, perché quando egli parlava di infinito parlava di un infinito perfetto,
intendeva una realtà non mancante di nulla.

Breve storia dell’infinito


Ripercorrendo in generale il concetto di infinito in filosofia potremmo partire dai greci con un infinito potenziale,
andiamo poi nella filosofia cristiana medievale in cui esiste un infinito attuale, ma sta fuori dal mondo perché
dentro il mondo è l'unico modo in cui esiste l'infinito e quello potenziale infine arriviamo nell'età moderna, già con
giordano Bruno ma poi anche con gli idealisti in cui si afferma l'idea dell'infinito attuale, secondo il quale l'infinito
corrisponde alla totalità di ciò che è.

La figura di Dio
Se dovessimo mettere in relazione Dio al concetto di assoluto dovremmo quindi dire che Dio sia compreso
all'interno di esso, perché gli idealisti rifiutano un'idea di un Dio separato dal mondo perché altrimenti sarebbe un
Dio limitato da quest'ultimo dato che al di fuori di se stesso potrebbe trovare qualcos'altro venendone così
limitato. Tentativo degli idealisti sarà quello di affermare l’unità di finito e infinito, ciò tramite il pensare in maniera
coerente all’assoluto, ovvero nell’ontologia cristiana l’infinito doveva per forza essere separato dagli finito, perché
Dio risultava trascendente, aldilà, del mondo e quindi la concezione ontologica di quell’epoca sarebbe stata
incompatibile con quella idealista, proprio perché questi due concetti sono separati e non vi è unione cosa che
secondo gli idealisti invece doveva esserci. L’infinito deve quindi essere pensato unitariamente al finito, ciò
significa che il finito si trova dentro all’infinito, dato che non può essere esterno adesso perché altrimenti lo
limiterebbe, come già sottolineato prima. Secondo gli idealisti quando penso all’infinito devo riuscire a pensare un
significato che includa in sé il finito e la sua relazione con l’infinito, perché se il finito fosse altro rispetto all’infinito
l’infinito risulterebbe limitato e diventerebbe così finito, risultando dunque contraddittorio.

3. L’organicismo
Qui è fondamentale sottolineare la differenza tra organismo e aggregato: per esempio se da un mucchio di sassi
tolgono pietra il mucchio di sassi rimane tale e il rapporto tra tutto e parte e organizzato quindi in modo da farsi
che la parte non faccia dipendere il tutto, questo è un aggregato. Un secondo esempio è invece il corpo umano,
in cui se viene tolta anche solo una singola parte il funzionamento nel complesso non è più garantito, dunque
ogni parte dipende dalle altre rendendo così il tutto la parte dipendenti, questo è l’organismo.

Vado a quest’ultima affermazione si può fare un ragionamento sulla logica degli assiomi dell’intuizione: è
possibile arrivare all’assoluto da una sintesi successiva da parte a parte? In altre parole, è possibile costruire il
tutto partendo dalle singole parti? La risposta è no, per arrivare all’assoluto mettere insieme un pezzo dopo l’altro
non è sufficiente, ma intraprendendo questa strada mi sfuggirebbe qualcosa, innanzitutto perché la sintesi non
arriva mai a una conclusione, dato che stiamo parlando dell’infinito, ma in più anche perché il tutto risulta
maggiore della singola somma delle parti.
La soluzione di Hegel sarà quella di partire dall’assoluto, da un punto di vista generale e universale che però
vuoto. Esso è un punto di vista che va aldilà della singola finitezza, e da un punto di vista universale lo devo poi
riempire, il come lo si spiegherà poi. Questa idea costringe quindi il pensiero umano ad accettare l’idea secondo
cui non è ciò che è finito a venire prima dell’infinito, ma è il contrario. Ad esempio non è l’universo che esiste
perché esiste l’albero, ma è l’albero che esiste perché esiste l’universo e per capire veramente la vita dell’albero
io devo prima collocarla all’interno di qualcosa di più ampio, che è l’universo. Noi siamo soliti pensare a noi stessi
come individui, come persone che hanno un loro punto di vista sul mondo, e risulta quasi impossibile uscire dalla
propria prospettiva, ma non siamo noi a venire prima del mondo, perché quello che noi pensiamo presuppone un
ambiente circostante, che è la cultura in cui viviamo, secondo Hegel esito di uno sviluppo storico.

Logica, pensiero dialettico e Contraddizone


Per arrivare al punto di vista dell’assoluto è necessario usare il pensiero dialettico. Hegel dice che dobbiamo
cambiare la nostra logica: se vogliamo pensare in modo adeguato la realtà dobbiamo superare quello che la
tradizione occidentale filosofica fa pensare in termini di logica, non che essa sia sbagliata, ma è solo parte del
ragionamento complessivo. Intanto ciò che Hegel non condivide della logica classica è l’interpretazione della
contraddizione: la logica ci ha portato sempre a pensare che una teoria che si contraddice sia falsa, che questi
due termini siano fra loro sinonimi. Nel pensiero di Hegel non ci si deve allontanare dalla contraddizione, ma
piuttosto ci si deve sprofondare, perché quest’ultima costringe a mettere in relazione due elementi fra loro

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opposti ed è solo un pensiero che è in grado di tenere insieme elementi opposti che può elevarsi fino al punto di
vista dell’assoluto. In altre parole se tengo lontano da me ciò che è contrario a me io non posso elevarmi dal
punto di vista dell’esperienza. Hegel dirà quindi che la contraddizione è il motore del progresso dello
sviluppo storico scientifico, ogni qualvolta che riusciamo ad avere un progresso di qualche tipo lo abbiamo
perché siamo riusciti a pensare la contraddizione in modo coerente. Con ciò egli non sta ovviamente affermando
una teoria contraddittoria, ma afferma che il pensare la contraddizione è un’esigenza e di trovare un punto di
vista che sia in grado di mediare risolvere punti di vista contrapposti, ma siamo in grado di trovarla non evitando il
conflitto, piuttosto avvicinandoci.
Non esiste un metodo per il pensiero dialettico come c’è un metodo Galileiano, perché secondo Hegel la realtà
stessa è dialettica. Nella realtà ci sono elementi in contrasto e in opposizione fra loro ed è la realtà stessa che
produce la sintesi, questo perché la legge che governa il pensiero e la legge che governa nella realtà sono
entrambe dialettiche, e dunque la stessa cosa. Non vi è quindi una procedura da seguire, perché ciò che ci
impegniamo a conoscere, ciò che studiamo, è intrinsecamente dialettico. In sostanza si può affermare che per
Hegel la dialettica è il rifiuto di considerare un qualsiasi contenuto, esperienza, significato, concetto, come dato,
non esistono i dati, ma i cosiddetti dati sono un qualcosa che deve essere dedotto, dove dedurre vuol dire
riconoscerlo come un risultato di un processo, processo che rivela i legami che il contenuto ha con tutto il resto di
ciò che è. La contraddizione emerge, secondo Hegel, a causa dell’approccio dell’intelletto: l’intelletto tende a
definire le cose e a distinguerle (il ruscello non è il lago, la salita non è la discesa eccetera), che è un’operazione
secondo Hegel fondamentale, perché ci consente di riconoscere le differenze all’interno del mondo della realtà,
ma se ci fermassimo qui allora cadremmo nelle contraddizioni e non le sapremmo risolverle. E’ quindi necessario
fare un passo in più ovvero quello di dedurre la differenza, trovare come questa differenza si traduce e così
facendo siamo in grado di ricostruire la trama di relazioni che lega questo contenuto a tutti gli altri, facendo
emergere il vero significato della parte, perché la parte senza il tutto non è se stessa. La contraddizione emerge
quindi perché il pensiero muove dalla differenza e nel momento in cui cerchiamo di capire cosa è un dato oggetto
piuttosto che un altro siamo costretti a mettere quella tua già di relazione ad altri elementi, che però il nostro
pensiero ha presupposto essere diversi.

Verità e falsità, parte e tutto


Il tema della contraddizione in Hegel è particolarmente ampio e complesso: nella logica tradizionale la
contraddizione è subito associata alla falsità, quindi prima di parlare della contraddizione si parla di verità e del
rapporto che ha quest’ultima con la falsità. In Hegel il rapporto che vi è tra verità e falsità è analogo a quello che
vi è fra la parte e il tutto, qui si vede in particolare l’aspetto organicistica del discorso: l’errore è una
rappresentazione parziale (quindi si ricollega a una parte) della realtà. Questo vuol dire che la falsità presenta un
contenuto di verità, esattamente come ogni epoca storica, infatti i romantici e gli idealisti tenderanno a riprendere
in considerazione il medioevo come periodo storico, dopo che era invece stato considerato dagli illuministi come
epoca buia (ha anche senso questo discorso perché secondo il concetto dell’organicismo il tutto non può esistere
senza la parte e la parte non può esistere senza il tutto, quindi per avere la storia umana nel suo complesso è
necessario prendere tutti i periodi storici, medioevo compreso).
La falsità risulta dunque soltanto una data prospettiva, ma come può risultare falsa? Ciò accade quando questa
prospettiva vorrebbe valere come tutto: nel momento in cui una singola prospettiva vuole riuscire a diventare un
punto di vista che esclude tutti gli altri, diventando quindi anche l’unica opzione corretta l’esigenza di proporre
una visione globale o complessiva. L’errore risulta quindi tale in quanto separato dalla totalità, quindi ci stiamo
ricollegando all'unità di parte e tutto. Se il punto di vista parziale viene invece collegato alla verità esso non risulta
più errore, ma è piuttosto parte della verità. Per ottenere la verità quindi non è sufficiente mettere un elemento
falso di fianco a un altro, ma è necessario individuare l’unità che vi è fra diversi punti di vista in modo che
riescano a formare un quadro globale. Questa è in realtà la caratteristica che era prima mancante quando si
cercava di passare dalla parte al tutto semplicemente per somma di parti. Nel momento in cui la prospettiva
limitata intende valere sulle altre nasce la contraddizione, la contraddizione esiste però nella realtà, perché è un
qualsiasi e indefinito è destinato a contraddirsi da solo, cioè a morire dice Hegel. La teoria che vede, spiega,
conosce questa dinamica non risulta però contraddittoria (Hegel ha infatti la pretesa di essere in grado di
elaborare la teoria non contraddittoria sulla contraddizione). Secondo Hegel il percorso che ci porta alla verità è
quello di errare, è il percorso che l’umanità compie nel corso della storia degli eventi, produce delle conoscenze
errate, quindi che presentano un contenuto di verità, ma solo parziale e la coscienza umana deve quindi passare
attraverso delusioni, illudendosi di essere riuscito a raggiungere la verità ma riconoscendo poiché la verità che ha
raggiunto è in realtà solo parziale e quindi non completamente affidabile (un po’ come Platone diceva che la
conoscenza umana deve passare attraverso tutte le confutazioni, dobbiamo con la nostra coscienza passare
attraverso tutte le confutazioni elevando poi il nostro punto di vista sull’universale tramite la negazione). Questo è
un processo chiaramente dialettico, che procede attraverso la contraddizione, perché ogni conoscenza che noi

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poniamo in forza del suo contenuto positivo sembra persuaderci della sua bontà che però si auto confuta. In
questo processo dialettico dobbiamo tener presenti due meccanismi:
1. Il concetto di negazione determinata
2. Il concetto di auto negazione

La negazione determinata
“ciò che si contraddice non si annulla” il risultato della contraddizione non è zero. Ad esempio se faccio 10 passi
verso il muro e altri 10 verso la posizione di partenza sono tornato dove prima ma ho fatto qualcosa, non ho fatto
il nulla, c’è stato il movimento, un processo. In più 2 forze uguali e contrarie non si annullano, ma creano un
equilibrio. Perché i movimenti che si oppongono non si risolvono nel nulla? Come si spiega questa cosa da un
punto di vista logico concettuale? Ogni contraddizione è negazione di un contenuto determinato, particolare, e in
quanto negazione di un contenuto particolare è determinata, dunque risulta esso stesso un contenuto particolare.
Il concetto di negazione determinata si lega a due formule:
1. Spinoza diceva: omnis determinatio est negatio, ogni determinazione (quindi ogni contenuto particolare
dell’esperienza o della realtà) è negazione. La domanda sorge spontanea, negazione di che cosa?
Risulta negazione della sostanza assoluta, infinita. L’albero per esempio è un’esistenza particolare,
determinata ma risulta una negazione perché è negazione di tutto ciò che esso non è, dunque è
l’imitazione dell’essere per tutto quello che sta fuori di esso che troviamo nel mondo. Ogni cosa finita
risulta quindi negazione dell’essere in senso pieno, della natura, della vita assoluta, ma essendo una
negazione quest’ultima va in contrasto con se stessa, perché ogni elemento finito trae vita da una
sostanza, che è però infinita, l’assoluto, ed entrando in negazione con quest’ultimo entra in
contraddizione con se stesso, perché è proprio quest’ultimo ciò che gli dà la vita.
2. Hegel unisce però questa formula alla sua inversa: Omnis negatio est determinatio, ogni negazione è
una determinazione, un contenuto positivo, infatti come prima detto, l’errore è in realtà solo una
prospettiva parziale della verità, dunque la negazione risulta comunque positiva, perché in questo caso
è appunto negazione di qualcosa di particolare risultando quindi negazione di una negazione e, in
conclusione, affermazione. In sostanza Hegel ci suggerisce di ripercorrere queste negazioni di
negazioni: un contenuto determinato è un contenuto negativo, viene negato, risulta quindi un contenuto
positivo finito, quindi contraddittorio, dunque devo negarlo per ottenere un successivo contenuto
affermativo e così via finché non arrivo a negare la dimensione della finitezza e ad assumere la veste
dell’universale, dell’infinito. Il processo non è quindi una semplice somma di positivi, ma è una
negazione. Hegel però sottolinea che la dimensione stessa dell’infinità non sta la fine del processo, ma
è proprio nel pensare l’affermazione come negazione di negazione, questo formalmente è già l’infinito, il
porre, esplicitare un qualcosa che non possiamo ancora sapere perché per capire un pezzo di Hegel
devi prima fare tutto il resto e alla fine dovrebbe tornare quasi tutto. :,D.

bL’autonegazione
Se il concetto di negazione determinata rispecchia il lato positivo della negazione, l’auto negazione è invece
quello negativo: in Hegel ogni negazione svolge anche il ruolo di negazione di se stessa (è il discorso che
abbiamo fatto anche prima) l’albero risulta negazione di tutto ciò che non è albero, dunque tutto il resto della
natura, ma poiché nega la natura è negazione di sé stesso perché la natura e ciò che gli ha dato la vita.
Prima c'è la natura poi c'è l'albero, poi l'albero viene tolto e in questo modo si riafferma la natura. Cosa significa?
Questo discorso in Hegel deve essere associato all'idea che l'assoluto non è solo positività.

Questo discorso rientra nella concezione dell’assoluto perché Spinoza, e in parte Schelling, diceva che dio è
l’assoluto positivo, la positività assoluta, somma di tutte le perfezioni, ma Hegel non condivide questo pensiero,
perché afferma che in Dio non vi sia solo la positività, ma anche la negatività, che sta in questo processo per cui
la natura nega la sua infinitezza, prende una forma finita e poi però nega la forma finita stessa in cui si manifesta
e questo processo di togliere e negare la forma finita afferma la sua positività. La teologia cristiana parla di Dio
come puro essere (vedi Parmenide, ontologia, "il tutto è essere"), quindi è positività, somma di tutte le perfezioni.
Secondo Hegel invece se vogliamo comprendere la realtà in quanto tale è cruciale capire la funzione del
negativo, della negatività: l'assoluto non è solo positività, è negatività, cioè negazione, e nega innanzitutto se
stesso. Es. Ma se Dio è assoluta positività come fa a creare il mondo? Come fa ad esserci spazio per
qualcos'altro che non sia Dio? (perché Dio è appunto la totalità, occupa ogni spazio). All'origine della creazione
c'è un atto di autonegazione di Dio, ovvero Dio nega il suo essere per fare spazio al mondo. Lo stesso
meccanismo è presente in Hegel: Dio non può essere pensato come qualcosa di interamente dato, qualcosa che
semplicemente è li davanti noi, una pura presenza, quindi non è semplicemente sostanza (questo termine lo
associa a Spinoza "Dio è la totalità del positivo") ma è anche soggetto, ed il soggetto è negatività.

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Perché il soggetto è negatività?
Il soggetto è attività che nega l'oggetto come tale e lo trasfigura, lo modifica, se ne appropria. La coscienza è
un'attività che interiorizza le cose che sono al di fuori di essa, quindi nega il loro essere, non è solo una
speculazione dell'oggetto, ma è appropriazione dell'oggetto - come un appetito, un desiderio - che nega l'oggetto
nella sua sussistenza indipendente. (es. Cosa siamo noi innanzitutto in quanto coscienze? Siamo appetito, non
contempliamo soltanto l'oggetto ma lo vogliamo interiorizzare) La coscienza lo fa proprio: nega la sua realtà e lo
interiorizza. Il soggetto è dunque un movimento negativo che distrugge l'oggetto negandolo.

Esistenza in Hegel è sinonimo di "qualcosa", ovvero tutto ciò che può essere indicato con un qualcosa che ha
una sua identità, delle caratteristiche che lo definiscono, ed è all'interno della nostra esperienza. (Es. Il bambino
è un'esistenza, perchè esiste nella mia exp e ha delle caratteristiche sue)
Perché anche l'esistenza è un movimento negativo?
Perché il bambino non rimane sempre se stesso ma cambia/cresce, quindi dentro al bambino come "qualcosa" ci
deve essere un movimento negativo che distrugge e nega la forma che quel tipo di essere ha assunto.
Questo movimento è interno all'ente: dentro a quella forma di essere/ esistenza c'è un principio che la nega,
quindi il bambino può cambiare e divenire adolescente e poi adulto.

Se vogliamo capire questo divenire delle cose, la vita che sta dietro allo sviluppo di ogni cosa, dobbiamo
ragionare sia in termini di positività sia di negatività, perché quest'ultima è il motore che permette di superare la
fissità di un ente che ha una sua natura definita (essere). Come è possibile che qualcosa di positivo avente una
sua identità possa mutare e diventare qualcosa di altro? Ci deve essere un movimento che nega la sua natura, lo
nega in quanto "qualcosa", e questo movimento è interno ad ogni cosa: tutto ciò che è vivo muta ed è attivo.
Da questo vediamo come l'assoluto non sia qualcosa di statico come fosse solo una sostanza o una presenza,
ma deve essere pensato come soggettività, come attività e processo, e se lo pensiamo in questo modo è
presente la negatività.

Questa idea la troviamo anche nella concezione della storia: la storia dell'uomo è questo processo che procede
per contraddizione, e la contraddizione nella storia opera l'assoluto, la storia è un ambito della realtà e la realtà è
il frutto di questa attività dell'assoluto. Nelle epoche storiche si producono istituzioni, regole, leggi ecc, perché in
queste i diversi popoli riconoscono se stessi e la loro propria identità, e sono indice di uno sviluppo storico. Ma
queste istituzioni hanno la caratteristica della rigidità, e nel corso storico esse rappresentano un rallentamento o
un blocco dello stesso sviluppo della società (Es. La struttura feudale limita il libero mercato e la proprietà
privata). Queste istituzioni consentono l'evoluzione della società, ma poi questa si ritrova ad aver sviluppato delle
usanze e delle abitudini che sono in contrasto con le leggi/istituzioni ideate, quindi queste ultime vengono abolite.
Le leggi e le istituzioni sono la configurazione che l'individuo assume in un certo periodo che è funzionale al suo
sviluppo, però proprio la stessa configurazione che gli permette di agire in quel momento, porta poi ad uno stato
dell'individuo in cui egli si sente ingabbiato dentro quella struttura assunta, quindi è portato a negare se stesso
per distruggere la "vecchia" configurazione per entrare in una nuova. Lo schema iniziale è quindi il ciclo di vita
dell'assoluto: negazione di sé, cioè produzione dentro se stesso di una limitazione di sé dando vita all'albero,
però poi nega l'albero stesso e in questa negazione afferma se stesso. (Come il dio Saturno che vive per
divorare i suoi stessi figli: in greco è Cronos, il tempo, che vive divorando gli istanti) (Qui si è fatto l'esempio di
Edipo per capire l'immutabilità del destino di fronte ai tentativi di cambiarlo: all'apparenza sembrano albori di
cambiamento ma poi si rivelano andare a seguire/favorire il destiro oramai già scritto) Qualunque cosa l'individuo
faccia per preservare se stesso contro l'assoluto/natura in realtà non fa altro che realizzare la logica dell'infinito.
Hegel vuole costruire un sistema di pensiero che permetta di capire dio come insieme di positivo e negativo,
sostanza e soggetto, come attività e come vita, e non come qualcosa di statico o un dato.

Tutto ciò corrisponde all'idea secondo cui il vero è l'intero, e solo alla fine, al termine del suo processo, esso è ciò
che è in verità: (es. cosa è l'uomo? Nè il bambino nè l'adulto o l'adolescente, ma la loro unione, quindi l'intero
cosro della vita dell'individuo colto nel suo sviluppo, e solo alla fine di esso il posso capire che cosa sia l'uomo) la
dialettica è ciò che consente di comprendere l'unità di tutti i passaggi che l'ente compie, e la loro differenza, e il
ruolo che ogni passaggio svolge per lo sviluppo dell'ente (collega organicismo: ciascuna tappa è fondamentale al
tutto). Quando sono arrivato alla fine dello sviluppo riesco poi a comprendere l'intero percorso una volta giunto
alla tappa finale: dentro la comprensione che l'assoluto ha di se stesso, dentro la conoscenza assoluta, vi è
anche il percorso che l'umanità compie per arrivare alla verità: il percorso che si fa per arrivare alla verità è parte
della verità stessa.

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L'assoluto è sia oggetto sia soggetto del sapere: sapere assoluto è conoscenza dell'assoluto (ogg), e
conoscenza che possiede l'assoluto (sogg). E un'autocoscienza, Dio che giunge a conoscenza di sé. Chi è Dio?
Secondo H. è l'umanità, cioè è la natura stessa che arriva però a produrre l'umanità, dall'universo si arriva
all'uomo che è in grado di conoscere l'universo e quindi riesce a capire tutto questo sviluppo l'umanità è l'ultima
tappa di uno sviluppo che culmina nella consapevolezza dell'universo/evoluzione e della costruzione attraverso
la storia di un mondo razionale. Giunge a compimento lo sviluppo dell'intera realtà. (Quando un uomo
comprende le leggi dell'universo sta partecipando ad un'intelligenza collettiva che è Dio in quel momento
incarnato in quell'uomo). Il sapere assoluto è il punto di vista di Dio sul mondo ma comprende anche il processo
con cui si è arrivati a capire questo punto di vista, e H. lo spiega nella "Fenomenologia dello spirito". (Si va dalla
forma più semplice di sapere fino al sapere assoluto)

Due interpretazioni di questo percorso:


1. quello più metafisico che fa riferimento al sapere assoluto come punto di vista di Dio sul mondo,
elevazione della mente umana a quella di Dio;
2. interpretazione dello sviluppo storico dell'umanità, sarebbe come un corso intensivo di tutti i progressi
dell'uomo nella storia, cioê la costruzione della civiltà intesa come civilizzazione+cultura/valori
(Civilizzazione = ammaestramento dell'individuo che gli permette di stare in mezzo agli altri).
Logia = discorso, Fenomeno = ciò che si manifesta, duindi è un discorso sull’apparire dello spirito: lo spirito è
l'assoluto come si realizza nella storia, che ha una cosa in più rispetto a come si realizza nella natura perché la
natura è sempre uguale a se stessa, mentre la storia è caratterizzata dall'evoluzione, dal mutamento
(dimensione storico-temporale).
L'assoluto che si realizza nella storia è visto da due punti di vista: nella prima parte dell'opera lo spirito è
considerato come soggettivo, ovvero l'assoluto come si manifesta nel singolo individuo e che lo rende dotato di
coscienza, autocoscienza e ragione; nella seconda parte si considera lo spirito dal punto di vista della storia
dell'uomo, quindi è spirito oggettivo, prospettiva collettiva, che si suddivide in spirito, religione, e sapere assoluto.
Nella prima parte ci si riferisce all'exp del singolo individuo, nella seconda all'exp di tutta l'umanità, di quella
coscienza che va al di là del singolo (che è Dio).

Nella fenomenologia dello spirito H. ci spiega il percorso che la conoscenza compie dalla forma più elementare di sapere
fino al sapere assoluto. lo spirito, ovvero l’assoluto che si realizza nella storia, si presenta innanzitutto come spirito
soggettivo (la razionalità si incarna nel ragionamento individuale), ma si parla anche della storia, della civiltà: di ciò che
vivono e pensano e credono i popoli nell'evoluzione della storia. Questo converge sul concetto di spirito oggettivo: è una
attività razionale cosciente che esiste nella forma dell’oggettività (non nella forma di un individuo) attraverso le leggi, i
libri, i centri di ricerca, le istituzioni, e sono tutte produzioni dello spirito tramite le menti degli uomini, ma queste
produzioni poi si rivelano autonome rispetto alla mente degli uomini perché il singolo individuo muore ma esse
continuano ad esistere. È in questa forma che l’attività razionale diviene spirito oggettivo, e lo spirito oggettivo condiziona
le vite dei singoli perché noi viviamo all’interno di una comunità che tramanda cultura istituzioni ecc. e noi interagiamo
con queste come fossero il nostro ambiente che ci costituisce in qualche modo, e dall’interazione con lo spirito oggettivo
noi traiamo beneficio. L’attività cosciente razionale esiste sotto forma di oggettività, non solo nella forma di singolo
individuo, cioè si esteriorizza in istituzioni delle quali poi è possibile tratteggiare una storia perchè hanno un’indipendenza
rispetto alla vita dei singoli soggetti: di fatto quando noi facciamo storia trattiamo la storia delle istituzioni e il loro
mutamento indipendentemente dagli uomini.

Nella fenomenologia è importante sottolineare che questo percorso della conoscenza è parallelo ai rapporti umani, si
riflette nei rapporti umani: per una singola coscienza finita superare i propri limiti legati a sua prospettiva limitata e
particolare sul mondo non è un processo distinto dall'intersoggettività (il rapporto con gli altri). Il processo con cui una
coscienza raggiunge un punto di vista universale sulla realtà è intrinsecamente connesso al processo con il quale una
singola coscienza entra a far parte di una comunità, perché solo così facendo per la coscienza diventa possibile
ampliare la propria prospettiva e arricchirla con il punto di vita degli altri per poi riconoscere l’elemento comune
dell’universale. Kant diceva nella prima formulazione dell’imp categorico "agisci in modo tale da considerare la massima
della tua azione come legge universale”, quindi in sostanza tenere presente il punto di vista di tutti quando agiamo, e
possiamo fare ciò nel momento in cui noi entriamo in una comunità secondo Hegel, perché facciamo exp degli altri e
siamo in grado attraverso essa di superare la nostra prospettiva limitata e trovare un punto di vista comune. La
riflessione che fa Hegel non è esclusivamente confinata alle riflessioni di Cartesio o Kant,
cioè centrate sul problema della verità e della conoscenza, ma mette in gioco proprio le relazioni fra gli uomini, tant’è che
secondo lui il rapporto con gli altri è la nascita dell’autocoscienza.

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Realtà e razionalità
Aforisma di H.: “Ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale” in questo aforisma prende corpo la grande
pretesa di fornire una spiegazione razionale ed esaustiva di tutta la realtà, ma traspare anche la profonda convinzione di
H. che la realtà sia intrinsecamente razionale. La realtà non è come la cosa in sé che va al di là delle nostra facoltà e
quindi della razionalità, che è una facoltà del singolo soggetto, secondo Kant; secondo H. invece la realtà è
intrinsecamente razionale, cioè la razionalità non è qualcosa che riguarda solo la mente di un soggetto, non è una
semplice facoltà ma la profonda essenza della realtà che le consente di avere un’esistenza (ciò che non è razionale
quindi ha vita breve, è evanescente all’interno della realtà, e viceversa ciò che non muore è pienamente razionale).
Questo si riflette nel concetto di spirito oggettivo, cioè ciò che è razionale è reale, la razionalità ha un’esistenza
oggettiva.
Ciò che è reale è razionale vuol dire che la natura ha una sua struttura, e la scienza ci mostra qual è questa razionalità
intrinseca alla natura, ma anche la storia ha una sua razionalità intrinseca, nel senso che i fatti storici non sono degli
eventi casuali che si succedono senza un criterio, la storia prevede un piano di sviluppo come una provvidenza.
Viceversa, dire che ciò che è razionale è reale vuol dire che la razionalità non è qualcosa che esiste solo all’interno di un
soggetto nella sua mente ma esiste oggettivamente (è un altro modo per vedere l’identità di essere e pensiero). Qui
quando H. parla di realtà non è che intende semplicemente un qualcosa che esiste, ma fa riferimento alla nozione che
egli elabora di realtà come categoria, e allora la realtà dice H. è l’unità di essenza (è il movimento negatore che dissolve
le forme) ed esistenza (si applica a tutto ciò che abbia una sua natura). Da ciò diciamo che la realtà non è
semplicemente ciò che esiste ma è ciò che esiste pensato insieme a quel movimento negatore (es. reale non è il
bambino, che è solo una manifestazione finita della realtà, reale veramente è l’individuo nel suo completo sviluppo, e
potremmo dire che ciò che esiste come bambino non è pienamente razionale o non pienamente conforme al suo
concetto, quindi proprio per questo è destinato a perire e passare all’adulto).

La certezza sensibile
La prima figura che incontriamo in questo percorso è la certezza sensibile “cs” (la forma più elementare di sapere). La cs
fa parte della coscienza, la coscienza è la consapevolezza di un oggetto esterno a noi (io percepisco l’albero ma allo
stesso tempo percepisco anche di percepire, ma non è ancora autoconsapevolezza perché l’ogg che conosco è esterno,
tuttavia si manifesta all’interno della mia exp quindi la coscienza sta avvertendo anche se stessa) In un primo momento
la coscienza comprende la cs, poi la percezione, e infine l’intelletto (che è come l’intelletto di kant, ovvero un’attività che
organizza i dati però è sempre coscienza di un contenuto esterno che manipola e gestisce).
La certezza sensibile corrisponde dal punto di vista storico-filosofico corrisponde all’empirismo inglese ma anche alla
sensibilità di Kant. In filosofia non è possibile elaborare un metodo prima di conoscere perché “voler teorizzare un
metodo del conoscere prima del conoscere è come voler imparare a nuotare senza buttarsi in acqua”, la teorizzazione
del metodo è qualcosa di astratto a cui poi io dovrei piegare il mio conoscere, e così facendo altero/prefiguro la realtà
affinchè sia conforme al mio metodo (come accade con le forme a priori): il metodo diventa un filtro quindi la mia
conoscenza sarà parziale o predeterminata. Inoltre chi mi garantisce che il metodo sia corretto? Lo si può sapere solo
conoscendo. Quindi il metodo della fenomenologia è il lasciar manifestare la coscienza e la sua exp: io mi metto dal
punto di vista della cs e ritengo vero ciò che lei ritiene essere vero, e mi renderò conto che la cs farà un’exp, cioè
cambierà il suo contenuto di verità, sarà costretta a riconoscere che il suo contenuto di verità è altro rispetto ciò che essa
credeva. (La cs è destinata a ricredersi)

La cs è descritta da H. come la descriverebbero gli inglesi ma anche Kant, nella cs ciò che è essenziale è un oggetto
conosciuto non la coscienza che conosce, dato che i contenuti al nostro sapere li fornisce l’exp stessa, l’oggetto.
(L’albero esiste anche senza il mio sapere di esso, quindi risulta più importante del mio sapere che dipende da esso:
l’oggetto è dunque essenziale per questa conoscenza).
La cs considera se stessa come una conoscenza feconda perché dalla cs io ricevo tutta la molteplicità di dati su cui poi
si costruisce la conoscenza, inoltre pensa di essere una conoscenza particolare cioè è conoscenza di “questo preciso
albero” non dell’albero in generale; diciamo che la cs mi mette sempre di fronte a qualcosa di concreto e determinato.
Vedremo che questi contenuti dialettici seguiranno un processo che li porterà direttamente nei loro opposti: ogni
contenuto in quanto non è compreso nella sua verità o della sua connessione con il tutto è irrazionale e passa nel suo
altro.
Per la cs la verità è “questo, qui, ora è un albero”, ma se in un secondo momento interpelliamo nuovamente la cs questa
dirà “questo, qui, ora è una casa”: questa dovrebbe essere la ricchezza della certezza sensibile, però H. si chiede di
che cosa la cs sia davvero certa di conoscere - quale sia il contenuto stabile e permanente - e non sono l’albero o la
casa che sono effimere perché la cs non ha memoria, in quanto trae la sua ricchezza dall’attimo presente. Non avendo
memoria non tiene traccia degli oggetti ma è focalizzata sull’adesso, dunque ciò che la cs sa con verità e il “questo, qui,
ora è”, che viene conservato in ogni esperienza che facciamo ed è una generica informazione sul fatto che ci sia

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qualcosa davanti a noi. Se questo è vero allora quello della cs non è proprio un sapere concreto, particolare e ricco in cui
è fondamentale l’oggetto, perchè in realtà il vero ente fondamentale è il soggetto (qui è dove mi trovo io, questo è ciò che
è di fronte a me, ora è ciò che adesso è presente a me, mentre l’è è l’unico elemento oggettivo di questa conoscenza,
ma di questo è non possiamo tuttavia dire nulla se non forse la tesi di Parmenide). Non è un sapere concreto perché
questo, qui, ora è è una formula astratta e universale, e non è nemmeno immediata (la cs pensava di essere una
conoscenza immediata dell’ogg) perchè quando io dico “questo”, esso è in realtà mediato (se io dico rosso è immediato,
ma se dico questo rosso è mediato). Infine è una conoscenza poverissima perché non mi sa dire nulla al di fuori di quelle
quattro cose, non possedendo con certezza nessun altro contenuto essendo fugace. Per poter avere una conoscenza
strutturata è necessario l’intelletto che tenga insieme le informazioni.

La coscienza come movimento negatore


(Nella percezione c’è il problema della cosa che è una ma con molteplici proprietà, come fanno a stare insieme
quell’unità con quella molteplicità?)
Quello che però emerge in tutta la coscienza è la sua esperienza di questo ribaltamento di cose che riteneva essere
vere: cambia il suo oggetto, ma se esso cambia cambia anche lei come forma di sapere, infatti la coscienza non si ferma
alla forma di cs proprio per il cambio di oggetto che la fa diventare percezione.
In questa exp della coscienza succede che la coscienza si rivela essere un movimento che nega l’indipendenza
dell’oggetto: spostando l’elemento fondamentale dell’esperienza da l’albero a questo, qui, ora è, l’albero ha perso la sua
indipendenza essendo stato ridotto a delle coordinate che dipendono dal soggetto. Questo processo avrà ancora più
impatto quando parleremo della percezione e intelletto, perché è proprio l’intelletto che tiene unita la cosa unica a tutte le
sue molteplici proprietà, quindi l’oggetto non è per niente indipendente in quanto la cosa unita con le sue proprietà è
frutto dell’azione dell’intelletto.

Tuttavia la coscienza non è solo un’attività unificatrice, se la coscienza è ciò che tiene unite cosa e proprietà, se la
coscienza è ciò che trasforma l’oggetto dall’albero al questo qui ora è, la coscienza è un movimento che nega
l'indipendenza dell’oggetto.
Non possiamo fare affermazioni che siano al di fuori della nostra esperienza (qui si vede l’unità di essere e pensiero, il
fatto che non esistano cose in sé che stiano al di fuori dell’exp, ciò che qualifica e caratterizza la realtà è ciò che
possiamo ricavare dall’exp).

L’exp concreta della coscienza in cui essa mette in atto questa sua natura di attività negatrice esiste ed è l’appetito: la
coscienza è desiderio degli ogg del mondo. L’appetito consuma gli oggetti e li fa propri: io affermo il mio essere negando
l’indipendenza dell’ogg e appropriandomene: questa è la coscienza.
(Negazione dell’indipendenza dell’oggetto → Affermazione della coscienza)

Nell’analisi che fa Hegel della certezza sensibile otteniamo che la coscienza si rivela essere il movimento che nega
l’indipendenza dell’oggetto.
Questa attività della coscienza prende corpo dall’appetito che è il fenomeno grazie al quale la coscienza può
configurarsi come movimento che nega l’indipendenza dell’oggetto.
La coscienza è dunque affermazione di sé mediante la negazione degli enti del mondo, e questa negazione in realtà è
una appropriazione.
L’atteggiamento dell’appetito è tale per cui il mondo non è un insieme di oggetti indipendenti ma di oggetti che sono lì per
la coscienza, lì predisposti per essere consumati: il mondo visto con gli occhi dell’appetito è un essere per la coscienza,
quindi non autonomo.
Tuttavia il problema dell’appetito e che la negazione o appropriazione dell’oggetto, con cui la coscienza afferma il suo
essere e la sua indipendenza rispetto agli altri enti, porta poi alla sua nullificazione una volta consumato: quindi l’appetito
deve rivolgersi - sempre per affermare il proprio essere - ad un altro oggetto.
L’appetito è dunque esposto ad un ciclo infinito di appropriazione e consumo.
L’esistere della coscienza come soggetto indipendente dipende da questo processo (possiamo dire che la coscienza sia
dinamica perché il suo essere non è dato una volta per tutte ma deve essere mantenuto). Dal momento che il ciclo
appropriazione-consumo finisce per consumare l’ogg, la coscienza non risulta mai appagata da questo processo poiché
è sempre destinato ad una fine: la coscienza è dunque spinta a cercare un ogg più adeguato verso cui relazionarsi, e
questo oggetto per essere “più adeguato” deve avere la caratteristica della permanenza.
Questo ente secondo Hegel è proprio un’altra coscienza [Riferimento ad Hobbes: la coscienza come appetito è ciò a cui
Hobbes faceva riferimento parlando del fatto che l’uomo tenda ad affermare il proprio diritto su ogni cosa (“homo homini
lupus”), e ciò lo porta ad una relazione con le altre coscienze che inizialmente è conflittuale, perché si tratta di far si che
l’altra coscienza riconosca la propria signoria (signoria della coscienza che vuole dominare) sul mondo e su se stessa
che viene subordinata.] (Lotta per il riconoscimento)

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Questo discorso rientra nel percorso verso la verità: il problema della verità non può essere considerato esclusivamente
in termini di rapporto soggetto-mondo, poiché sono coinvolti anche i rapporti interpersonali. (Inizialmente questi rapporti
sono conflittuali perché la coscienza come appetito è negazione di ciò che è altro da sé, e questa logica viene messa in
atto anche nell’interazione fra le altre coscienze che cercano di negarsi reciprocamente). Dicendo questo siamo entrati
nell’autocoscienza, perché cominciamo a tematizzare il rapporto fra due coscienze. Cosa è l’autocoscienza? Diciamo
coscienza di sé, ma questo sé è la coscienza, quindi è relazione a se stessa, e questa consapevolezza di sé nasce
secondo Hegel come relazione con una coscienza diversa. (In altre parole, io posso entrare in relazione con me stesso
ed essere consapevole di me solo se sono in relazione con altre coscienze, perché se così non fosse non riuscirei ad
essere consapevole).

Relazione servo-padrone
Abbiamo detto che l’autocoscienza nasce come rapporto conflittuale, e l'esito di questo scontro è una
sottomissione di una delle due coscienze: si instaura dunque una relazione asimmetrica che Hegel indica come
un rapporto tra servitù e signoria. La coscienza che in questo scontro teme la morte diventa servo, mentre la
coscienza che è disposta persino a morire pur di vedere riconosciuta la propria indipendenza diventa signore: la
paura della morte è il criterio che discrimina la coscienza servile e quella signorile.

La coscienza servile, avendo paura della morte, rivela il proprio attaccamento con il legame biologico della vita e
quindi non è un’autocoscienza veramente libera; il signore invece è colui che non teme la morte perché teme più
di ogni altra cosa, e più della morte, di perdere la propria libertà.

Il ribaltamento dialettico
Tuttavia assisteremo ad un ribaltamento dialettico, ovvero che in realtà il signore è servo del servo...Ma perchè
c’è questo ribaltamento?
Quando il servo si relaziona con il signore vede un modello di coscienza da imitare, che consiste in una
coscienza pienamente realizzata, quindi possiamo dire che veda nel signore una vera autocoscienza, vede ciò
che lui deve diventare e che ancora non è. Il servo imitando il signore trova solo del guadagno, mentre per il
signore la relazione è degradante perché vede un’entità che non è alla sua altezza: la relazione con il servo per il
signore non è una vera relazione perché il servo ha lo stesso livello di esistenza di un oggetto qualunque di cui ci
si può appropriare.
La relazione con il servo per il signore non è una vera consapevolezza di sé perché il signore non si rispecchia
nel servo, mentre per il servo lo è perché riconosce nel signore una coscienza vera e quindi quella che dovrebbe
essere la sua natura.

Il servo non può consumare gli ogg del mondo perché il mondo sottostà alla signoria del signore, quindi il servo
deve limitare il proprio appetito (proprio per questo aspetto il servo non è una vera coscienza), il signore
invece consuma gli ogg del mondo senza limitazioni.
Il servo è costretto a lavorare per il signore (rimando al rapporto medievale tra nobiltà e servitù): lavora il mondo
trasformandolo (lavorare = trasformare il mondo) per produrre beni che saranno consumati dal signore.
Qui si può notare una valorizzazione del lavoro, perché il servo lavorando riconosce se stesso nei prodotti del
proprio lavoro. Così facendo il servo acquisisce comunque consapevolezza di sé.
Il servo ha adesso superato la logica dell’appetito, perché limitandolo ha sviluppato autocontrollo, diventando in
un certo senso signore di se stesso.
Il servo ha l’obiettivo di dover progredire e ne è consapevole, invece il signore è statico perché si sente all’apice
e non risente di influenze esterne maggiori, quindi non elabora meccanismi che gli consentano di migliorarsi.
Il servo ha immaginato, nella paura della morte, che il mondo continuasse ad esistere senza di lui, e questo
continuare ad esistere del mondo, questa sussistenza del mondo rispetto a cui il servo lavorando trova un
oggetto stabile: il mondo ha la sua indipendenza, e proprio per questo io riesco a rispecchiarmi nel mondo,
perché non scompare come l’ogg dell’appetito non venendo consumato. Questo porta il servo a diventare
signore e viceversa (l’essere schiavo dell’appetito ha fatto declassare il signore (visione platonica), perché non
ha nulla che lo spinge a migliorarsi e si limita ad avere con il mondo un rapporto di mero consumo senza
trasformarlo per piegarlo ai propri scopi).
In sostanza dunque la vera indipendenza la ha il servo, però la sua è una libertà solo interiore perché
esteriormente è subordinato al signore, e questa libertà interiore è solamente il concetto della libertà, ovvero
la libertà così come è stata pensata dallo stoicismo.

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Le filosofie ellenistiche
Le filosofie ellenistiche sono quelle che in Grecia prendono corpo dopo la crisi della polis che viene sostituita
dall’impero di Alessandro Magno, portando ad un cambiamento nella concezione dell’uomo che passa dal
vedersi come essere politico e quindi a potersi realizzare pienamente tramite la politica e la vita associata (si
collega con il modello organicistico), a cercare la salvezza individualmente. (Salvezza perché è in relazione al
cristianesimo)
La scuola ellenistica è caratterizzata da un maggiore individualismo, e ciò è il riflesso di una perdita di libertà
politica del cittadino che diviene suddito.
In questo scenario A. Magno simboleggia il signore mentre le altre persone sono servi di lui: i sudditi quindi
pensano a loro stessi elaborando le filosofie ellenistiche (stoicismo, epicureismo, scetticismo).
Stoicismo: c’è una ragione (logos) universale che governa ogni cosa e il compito dell’uomo è riconoscerla
dentro di sé e realizzarla nella sua vita. L’atteggiamento dello stoico è quindi una vita secondo ragione, che
significa indipendenza dagli appetiti e dominio di sé. “Essere schiavo o essere imperatore a Roma è la stessa
cosa” perché ciò che conta non sono le condizioni esteriori del proprio esistere ma il fatto di stare conducendo
una vita secondo ragione. Questa è la realtà del servo.
Hegel mette in collegamento questo suo pensiero con un’epoca storica ben precisa. Secondo Hegel la storia
dell’umanità si sviluppa secondo una logica concettuale che è quella poi delle categorie: quella che poi Hegel
chiamerà deduzione delle categorie in sostanza riflette il percorso storico dell’umanità e viceversa. L’ordine logico
si riflette nell’ordine storico.
Questa idea dello stoicismo secondo Hegel sfocia nello scetticismo perché la tendenza dell’uomo stoico - quindi
del servo - è quella di svalutare i contenuti della nostra esperienza, valorizzando invece l’interiorità. Questo
atteggiamento prende corpo perfettamente nello scetticismo, perché esso nega la verità di ogni contenuto di
coscienza (il dubitare di tutto), ma l’unica cosa in cui non ripone dubbi è il suo stesso dubitare. È come se lo
scetticismo rivelasse quella che è la verità dello stoico, ovvero che tutto ciò che è esteriore alla coscienza, che
però ne è un contenuto, sia falso o inconsistente, invece la coscienza intesa come attività negatrice (dubbio) sia
la verità (l’autenticità, il vero essere).
Il servo stoico non si cura di quali siano le condizioni esteriori del suo esistere in quanto la verità risiede nella
realizzazione di una vita secondo ragione, ciò riflette l’atteggiamento dello scettico che dubita e nega tutto ciò
che può essere contenuto della coscienza e diverso dalla coscienza stessa, ritenendo autentica l’attività del
dubitare stesso.
Stoicismo e scetticismo dunque producono una contrapposizione interna alla coscienza stessa di una coscienza
intrasmutabile, vera, permanente, infinita come la sua attività del dubitare, ad una coscienza finita, mutevole,
fatta di contenuti inconsistenti.
Questa è la contrapposizione tra la coscienza dell’uomo e la coscienza di Dio.
Secondo Hegel lo stoicismo e lo scetticismo gettarono le basi per il fondamento della spiritualità medievale,
caratterizzata dalla contrapposizione tra una falsa e limitata coscienza dell’uomo e la coscienza vera ed infinita
che è quella di Dio. Questa terza fase è chiamata da Hegel “Coscienza intelligente”, e l’infelicità dell’uomo sta
nella lontananza dalla coscienza di Dio.

Il piano storico e quello concettuale


La coscienza riusulta quindi scissa in interiore (e certa di se stessa perché ha realizzato la propria esistenza) ed
esterna (instabile, precaria, evanescente, priva di contenuti consistenti, incerta per lo scettico, perché si basa su
oggetti a noi esterni). Questa dicotomia viene quindi a concretizzarsi nella spiritualità medievale in due
conoscenze opposte, una infinita, intrasmutabile, e una finita (mutevole e destinata alla morte, propria dell’uomo).
Ancora una volta c’è un parallelismo fra il piano concettuale, speculativo, e quello storico: il piano concettuale
della scissione e della sofferenza della coscienza che lamenta la distanza da dio riflette il piano storico della
mentalità medievale. Questo è solo uno dei tanti casi in cui Hegel paragona il piano concettuale e quello storico,
un altro esempio potrebbe essere nella coscienza dello spirito, dove Hegel si occupa del rapporto fra coscienza
individuale e società, mettendo a tema il problema del rapporto fra famiglia e stato, l’una legata maggiormente ai
sentimenti e alla naturalità, l’altra caratterizzata da elementi più culturali, artificiali.

L’idea emergente di fondo è che la verità assoluta della cosicenza corrisponda in sostanza al percorso della
storia dell’umanità. Nel 1800 e in parte del 900 vi è una grande valorizzazione della storia, si pensa di poter
capire e seguire il percorso storico degli eventi, non che prima questi argomenti non fossero mai stati discussi,
(basti pensare al tema dell’escatologia, le cose future all’interno della filosofia cristiano medievale, che è
presente, dunque vi era già una lettura della storia dell’uomo in chiave escatologica) ma cambia la chiave di
lettura che da metafisica diventa ambito di realizzazione dell’umanità, con se ciò porta ovviamente delle

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degenerazioni, come marxismo, nazismo, fascismo ecc. in questa visione del mondo si ipotizza uno stadio finale
dell’umanità in cui termina però la storia, uno stadio finale in cui tutti i problemi fondamentali sono risolti, risolti
grazie ai vari movimenti politici. Come la natura ha le sue leggi anche la storia le ha, ha un senso, un percorso
che conduce l’umanità verso un obbiettivo, che in Hegel è il sapere assoluto, la comprensione che l’assoluto
arriva ad avere di se stesso.

Ritornando allo schema iniziale tra natura, spirito e idea, possiamo affermare che la fenomenologia dello spirito
sia un frammento dello spirito e, nelle intenzioni di Hegel, questa dovrebbe portarci all’inizio del sistema, ovvero
all’idea, che è il sistema delle categorie, cioè la struttura razionale che sta a fondamento della realtà. Questa
struttura razionale non è un qualcosa di statico, ma è attività, è cosciente, è la vita interpretata dal punto di vista
della coscienza. L’io come attività pensante e consapevole di sé, l’io come relazione a un contenuto, come
rapporto a qualcosa che in questo rapporto è con qualcos’altro in relazione con se stessa, coscienza di un
contenuto che è anche coscienza di sè, risulta il modello perfetto di ciò che è vivo. La vita è mezzo e fine di sè
stessa, noi siamo mezzo, ma anche scopo di noi stessi, ogni essere vivente usa se stesso come strumento della
propria vita, quindi vi è una coincidenza tra mezzo e fine, che si ricollega all’autocoscienza come coscienza che è
mezzo di se stessa. In conclusione si può dedurre che per Hegel al fondamento della realtà non vi sia qualcosa
di statico, inerte, perché tutto ciò che è fermo è morto, ma la realtà è vita, dinamismo, quel processo che pone un
aspetto stabile, un’identità stabile, e che poi però è superamento di questa identità stabile nel passaggio ad
un’altra forma. Anche qui ci si può ricollegare alla storia, perché anche le leggi che la caratterizzano sono
dinamiche e si cerca costantemente di adeguarle alla realtà.

LA LOGICA
L’idea è il contenuto della scienza della logica, probabilmente l’opera più difficile di Hegel, in cui egli ha la pretesa
di poter esporre in un ordine dialettico, deduttivo, sistematico (da una categoria si è in grado di ricavare tutte le
altre), tutte le categorie della razionalità occidentale (essere, causa effetto, forza, divenire, ecc. tutti quei concetti
fondamentali che usiamo per comprendere la realtà, anche se sarebbe più corretto definirli al contrario come
tutte quelle strutture razionali che usano la nostra mente per realizzarsi nel mondo). La logica di Hegel non
corrisponde alla logica formale perché in quest’ultima non si ha un contenuto e non si parla di qualcosa di
concreto, mentre nella logica di Hegel, come in quella di Kant, si ha un contenuto: in Kant erano le forme a priori,
in Hegel sono quelle strutture a priori della realtà stessa, tutti i vari modi in cui la razionalità prende forma (la
razionalità è la vita, la pianta, la storia, mentre le singole categorie sono il fiore, il frutto, una determinata
istituzione o forma di stato). Hegel valorizza quindi di Kant l’idea della trascendentalità e il principio
dell’unificazione ricollegato alla sintesi degli opposti, ma lamenta come egli abbia individuato le categorie (non le
ha esposte in maniera sistematica, non c’è garanzia che siano tutte e non sono tutte collegate fra loro) ed Hegel
ha la pretesa di esporre in questo sistema la loro completezza tramite un sistema grazie al quale l’ultima
categoria ritorna nella prima.

Le categorie

L’essere
Nelle prime pagine della scienza della logica ci si chiede: con cosa deve iniziare la scienza (intesa come sapere
assoluto)? In termini teologici cristiani questo sarebbe stato il progetto di dio sul mondo, l’idea che egli ha della
realtà. L’inizio deve avere 2 caratteristiche: immediatezza e indeterminatezza. Non può che essere immediato e
cio è tautologico, se non fosse immediato, ovvero se fosse mediato, allora sarebbe risultato di un processo,
quindi di una mediazione. È indeterminato perché ogni determinazione è negazione di qualche cos’altro,
qualcosa è determinato se ha qualcosa al di fuori di sé che lo determina, essendo l’inizio non può essere
indeterminato, perché dovrebbe esistere qualche cos’altro che determina l’inizio, da cui l’inizio si distingue,
facendo risultare l’inizio come un non inizio, perché dovrebbe dstinguersi da quel qualcosa che lo determina e ciò
non è posibile. La categoria che presenta queste due caratteritiche è l’essere:
- l’essere è indeterminato, perché quando parliamo di essere non è un essere particolare, ma è quello
fissato nella sua purezza, di lui si può dire solo che è, è privo di determinazione;
- l’essere è immediato perché se fosse mediato da qualche cosa il processo mediatore dovrebbe a sua
volta essere perché non potrebbe non essere.
Dunque si può affermare che l’inizio della scienza corrisponda all’essere, che è infatti definito da Hegel come
l’immediato indeterminato.

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Il nulla
Ma qual è il conenuto dell’essere? A cosa mi fa pensare? Hegel afferma che pensare l’essere corrisponde a
pensare al nulla, è un vuoto pensato, è nè piu ne meno che pensare il nulla, che è la seconda categoria. Il nulla è
cio che resta dal negare ogni cosa, dal momento in cui pensiamo il nulla siamo in qualche modo costretti a
pensare l’essere, perché nel momento in cui il nulla è pensato allora sarebbe, ma arriviamo così a una
contraddizione? Il nulla mi porta a pensare all’essere e l’essere mi porta a pensare al nulla, cotinuo all’infinito?
Ovviamnete no, se osserviamo i nostri ragionamenti stiamo in realtà eseguendo un passaggio irrequieto tra
essere e nulla, ma questo passaggio non può essere razionalizzato, qui si scopre il divenire, unità irrequieta di
essere e nulla, la terza categoria. Il contenuto del divenire non è preso dall’esterno, ma si produce sotto ai miei
occhi, di fronte alla contraddizione il pensiero non deve fuggire, ma deve insistere e cercare di comprenderla. Ma
quindi il passaggio di essere e nulla può avere unità, perché il passare da uno all’altro nega la differenza fra i
due, quindi il divenire diviene.

Osservazioni
Proprio perché abbiamo ideato il modello geocentrico siamo riusciti a superarlo elaborando l’eliocentrico e altre
tesi scientifiche. Parallelismo: affinchè ci sia l’adulto (modello eliocentrico) è indispensabile il bambino (modello
geocentrico), ogni configurazione finita è essenziale per lo sviluppo/progresso, e ciò deve essere tenuto presente
quando si parla delle categorie. Ciascuna categoria è una configurazione finita dell’assoluto, l’assoluto è
pensiero di pensiero, e l’attività infinita del pensare assume configurazioni finite che sono le categorie,
indispensabili per lo sviluppo dell’attività infinita che ne sta alla base. In questo modo il Pensiero produce dentro
di sé il suo contenuto
Rete di configurazioni finite che vengono integrate l’una rispetto all’altra in un quadro sistemico.
In ogni categoria oltre alla dialettica fra tutto e parte (contenuto), insieme vi è anche il cogito (possiamo dire
scoperto da Cartesio), cioè la dialettica fra il contenuto del pensiero e l’atto del pensare (processo). Nelle
categorie possiamo riscontrare una contraddizione tra il contenuto della categoria e l’attività del pensare
associata a quella categoria (che cosa penso quando penso l’essere? Questa domanda secondo H. fa emergere
la contraddizione che è insita dentro all’essere inteso come contenuto a cui però è associata un’attività del
pensare. Questo da un altro punto di vista può essere esteso ad ogni posizione di pensiero filosofica: (es, fra
illuminismo e controriforma) sembrano proporre principi ed idee diverse ma sono caratterizzate da un’analoga
attività, ovvero quella di negare o demonizzare la posizione opposta: l'illuminismo finisce per essere una politica
di scristianizzazione, lotta all’oscurantismo del cristianesimo, ma alla fine la stessa cosa ha fatto la chiesa con la
controriforma.
La pretesa di universalità di ogni categoria logica è ciò che alla fine porta al loro superamento, infatti quando
abbiamo introdotto il divenire abbiamo visto che secondo H. è il passaggio dell’essere nel nulla e viceversa, cioè
è l’unità dinamica di essere e nulla. Unità dinamica di essere e nulla vuol dire che nella realtà non esiste nulla
che sia puro essere o puro non essere, e ciò smonta la pretesa universalistica di queste due categorie, dato che
la realtà è un misto di essere e nulla.
(Non esiste il puro essere ma esiste il divenire)
(Il positivo ha dentro di sé il negativo, non sono enti distinti, e la contraddizione è proprio ciò che ci fa cogliere
questa unità degli opposti).
Secondo Marx e anche secondo Hegel le contraddizioni sono reali per risolverle bisogna trasformare la realtà
con l’agire (Marx), secondo H. invece una prassi umana che voglia trasformare la realtà è un’illusione la realtà
intesa come assoluto è già prima di ogni azione umana.
Le contraddizioni dunque si risolvono nel pensiero e non nella realtà tramite le azioni, poiché la realtà si aggiusta
da sola e il compito del filosofo è comprendere questo processo, questa razionalità intrinseca alla realtà.

Il divenire
È impossibile pensare il nulla in quanto tale, quindi in sostanza sotto ai nostri occhi succede che sta prendendo
forma il concetto del divenire, che mi fa pensare quello che sta

accadendo all’attività del pensare nel momento in cui io cerco di pensare l’essere e il nulla. Nel momento in cui
io cerco di pensare l’essere in realtà sto pensando il divenire perché il pensiero passa dall’essere al nulla e dal
nulla all’essere.
Provo a pensare l’essere ma non riesco quindi passo continuamente da essere a nulla: il divenire è dunque il
contenuto di verità dell’atto di pensiero dell’essere e del nulla, come loro unità dinamica.
Il divenire diviene perché sussiste come pensiero fino a quando essere e nulla sono distinti, nel momento in cui
attraverso il divenire viene posta la loro unità viene superata la loro differenza, ma se io elimino la differenza non

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c'è più divenire. (Se da A giungo a B, in seguito A non c’è più quindi non c’è più il passaggio perchè è rimasto
solo B, ma se c’è solo B il divenire non c’è più)
Il divenire è quel movimento che supera le differenze tra A e B, possiamo dire che sia quel processo in cui A
diventa B.

L’essere determinato
Superando la differenza fra essere e nulla si produce un’unità quieta di essere e nulla, questo significa che la
categoria del divenire è autonegazione (ogni categoria nega se stessa) e quindi si passa all’essere determinato,
che possiamo definire ciò che categorizza la nozione di qualcosa, cioè una configurazione finita.
L'essere determinato ci fa pensare l’unità quieta (una unità che non si realizza tramite un passaggio) di essere e
nulla, in particolare, in quanto unità quieta, l’essere sta per affermazione o realtà positiva (lato positivo dell’essere
di qualcosa, vedi il concetto di perfezione della filosofia medievale) e l’altra è la negazione (tutto ciò che ha una
configurazione finita è negazione di un’altra forma di essere, es. l’uomo non è la pianta). Tutto ciò che è è come
se reclamasse un diritto alla propria esistenza negando altre forme di essere (siccome io esisto qualche cos’altro
deve perire per me, questa concezione l’abbiamo già incontrata nello scenario del servo-signore).
In questa categoria la negazione è verso altro e quello che succede è che l’essere determinato è caratterizzato
da questa lacerazione interna per cui ha un lato di realtà positiva - che H. chiama l’essere in sé - cioè tutto ciò
che è ha una positività d’essere che gli conferisce autonomia d’esistenza (conferisce una sorta di identità
peculiare e diversa da quella degli altri enti); mentre il lato della negazione è l’attività negativa verso l’altro e H. la
chiama l’essere per altro (è il lato della relazione: tutto ciò che è è relazione ad altro da sé). La relazionalità
implica l’alterità, quando io sono in relazione a me stesso mi relaziono in base a ciò che è altro da me, ovvero io
esco dalla mia realtà positiva e questa uscita significa alterità (pensare all’autocoscienza, nella quale la
coscienza esce per tornare). Nella relazione vi è un soggetto e un oggetto, la coscienza in quanto oggetto è altro
rispetto alla coscienza in quanto soggetto. Negazione significa relatività rispetto ad altro ed è il momento del
negativo.
(Es. noi siamo italiani, abbiamo i nostri usi e costumi, dunque non siamo marocchini: il problema secondo H. è
che questa contrapposizione fra lato positivo dell’identità di tutto ciò che ha essere determinato e lato negativo si
ripercuote all'interno dell’essere determinato, perché quest’alterità è già dentro al “qualcosa”. Il qualcosa ha la
differenza in se stesso, e questa differenza è sia quella tra essere e nulla - affermazione e negazione - sia quella
tra essere in sé e essere per altro (la differenza non è esterna al qualcosa ma già intrinseca, in quanto l’essere
determinato è negazione dell’altro, è scisso in se stesso nel lato positivo e quello negativo, quindi l’essere in sé
che dovrebbe essere quel lato di pura positività in realtà e negazione dell’essere per altro, perciò vediamo che
mette in atto anche lui una relazione).

Limite e finitezza
​L’essere in sé ha un momento negativo dell’essere per altro, contiene l’essere per altro dentro di sé, questa
breccia sarebbe la mia positività contro la positività di un altro: si deduce che l’altro non sia esterno a me, ma
interno a me come negato, cioè la mia identità si costruisce attraverso ciò che io non sono. Dunque il cuore
positivo del mio essere non è così positivo perchè si costituisce attraverso la negazione.
Questo H. lo chiama categoria del limite (scoperta dell’identità tramite la negazione), e secondo lui non è
qualcosa di esterno come fosse un confine, ma qualcosa di interno all'essere in sé dell'essere determinato (ciò
che costituisce l’identità positiva dell’essere determinato). “Il qualcosa pensato con il limite immanente dentro di
lui verso cui ha un rapporto negativo è la categoria della finitezza”, perché tutto ciò che è finito è contraddizione
di sé con sé ed è destinato a perire. Limite è l’iniziale dell’altro nel qualcosa ma è anche ciò in cui il qualcosa
trova la sua identità quindi se il qualcosa nega il limite è vero che nega l’alterità rispetto a sé, ma nega anche se
stesso perché il limite è anche il finire dell'altro in lui.
Questa è una cosa inevitabile, che tutto ciò che è finito in quanto affermazione del proprio essere tramite
negazione del riferimento all’altro sia negazione anche di sé (nel limite qualcosa è e non è) (pensarlo proprio in
termini spaziali). Riferendosi negativamente all’altro si riferisce negativamente anche al proprio limite: negando il
limite nega anche se stesso e questo è il destino che fanno tutte le cose finite.

L’infinito
La forza che fa esistere una cosa finita e la mantiene nell'essere le porta poi alla loro morte. Il finito che nega se
stesso è affermazione dell’infinito (Il finito è lo sviluppo in se stesso dell’essere determinato, e il finito passa poi
alla categoria dell’infinito), ma l’infinito pensato come semplice negazione del finito è inconsistente: l’infinito come
negaz. semplice del finito è un infinito reso finito, perché fuori di lui ha la finitezza che lo limita, quindi questo è un
“cattivo infinito”, e il pensare l’infinito come altro dal finito ricade nella categoria della finitezza (pensare dio

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separato dal mondo vuol dire pensare dio come umano, cioè togliergli la sua dignità. Proprio questo esempio ci
dà la soluzione, perché il problema non è la differenza fra dio e mondo ma il pensare dio e il mondo separati). Il
problema non sta nel pensare finito e infinito insieme, ma nel pensarli separati. La vera infinità è un processo
della reciproca determinazione di finito e infinito (simile al passaggio fra essere e nulla): la vera infinità è il
determinarsi reciproco di finito e infinito perché il finito è destinato a negare se stesso, e quindi ad essere
affermazione dell’infinito, ma l’infinito in quanto contrapposto al finito di nuovo cade nella categoria del finito,
quindi si ha un infinito che risulta finito e un finito che afferma l’infinito, e ciò ci fa pensare l’unità di finito e infinito.
L’infinito è il processo per cui io passo da finito che si nega e un inf che risulta finito, il vero infinito è il processo
stesso, mentre il finito sta nell’inf solo come momento.

Siamo arrivati al rapporto tra finito e infinito che è l'esito della dialettica dell'essere determinato, risultato dell'unità
di essere e nulla, l'essere determinato è un essere con all'interno una differenza, la differenza tra la realtà
positiva del tuo essere e la negatività che lo caratterizza come negazione dell'altro, negazione che non è
estrinseca, non riguarda solo un'altrettanta esterna all'essere determinato, ma vi è intrinseca. Proprio perché c'è
questa differenza all'interno dell'essere determinato il lato positivo del suo essere, chiamato essere in sé, è il
riferimento negativo al lato negativo del suo essere chiamato essere per altro. Quindi l'essere in se in quando è
affermazione positiva dell'identità dell' sere determinato è negazione dell'essere per altro. Ciò vuol dire che
l'affermazione dell'identità positiva passa attraverso la negazione dell'altro, quindi il cuore positivo di tutto ciò che
è identificabile come qualcosa contiene una negatività. Per esempio ciascuno di noi ha il proprio carattere che
deve essere identico a se stesso in ogni relazione con altre persone (lato positivo), la negatività sta nel fatto che
il carattere positivo prende posizione rispetto all'esperienza che faccio nelle relazioni con gli altri, ovvero nega ciò
che gli è altro, quindi la ciò che definisce il mio carattere non è esente dalla negazione, non è pura positività. Il
discorso della negazione all'interno dell'essere determinato, quindi di tutto ciò identificabile con qualcosa, ne
rappresenta il limite. Il limite è secondo hegel la dimensione dell'essere per altro all'interno della positività del
qualcosa. Nei confronti di questo essere per altro, che è il limite, l'essere in se del qualcosa ha un rapporto
negativo, il qualcosa nega il limite che gli è intrinseco. Il qualcosa però ha il suo esserci solo nel limite,
concezione greca,tutto ciò che è è limitato, il limite conferisce completezza, il limite è l'iniziare dell'altro nel
qualcosa e il limite è l'escludere l'altro. In quanto è riferimento negativo al limite è vero che nega l'alterità, ma
nega il suo stesso essere perché nel limite il qualcosa ha la garanzia della sussistenza, quindi negando il limite
nega se stesso. Pensando in questo modo tutto ciò che è pensabile come qualcosa deve essere pensato come
finito, la categoria di finito aggiunge qualcosa ovvero l'intrinseca contraddittorietà che contraddistingue tutte le
cose finite, che infatti sono tutte contraddittorie, è una negazione del porprio essere che risulta allo stesso tempo
affermazione del proprio essere. Il finito è l'esplicitazone di ciò che è finito nell'essere determinato. L'essere
determinato è unita di essere e nulla quindi la sua natura è costituita dal non essere e non solo dall'essere
tuttavia nella categoria di finita il rapporto tra essere e non essere è posto come contraddizione, che consiste nel
finito stesso che nega il suo essere negando i limiti. Essere e non essere non stanno semplicemente accanto,
quando pensiamo all'unione non dobbiamo pensare il non essere sul modello dell'essere, ma deve essere
pensata come negazione. La negatività è ciò che il finito ha nei propri confronti non verso qualcosa di esterno. Le
cose finite sono, ma la loro relazione a se stessé consiste nel fatto che si riferisca i a se stesse coi è negative
nefando il loro essere e il loro limite ed è in questa negazione che si mandano al di là di sé aldilà del loro essere.
Tutto ciò che è finito accenna a ciò che è fuori di lui come al suo vero essere, paragonabile alla creatura e dio, la
cretura si sente non autosufficiente e cerca in dio il senso della propria esistenza. Tutto ciò che è finito si
sopprime, nega se stesso e afferma il proprio altro come il suo vero essere (l'infinito). Tutto ciò che è finito non è
vero essere, è solo un momento, un fase di una totalità che lo comprende, qui entra in gioco anche il discorso di
parte e tutto, il finito non è una parte del tutto ma ne è proprio una fase, noi pensiamo a noi stessi come centro
del mondo in ogni momento della nostra vita, ma in realtà tutto ciò che facciamo porta al superamento di noi
stessi, perché cerchiamo la conferma di noi al di fuori di noi. Gli individui ( finito ) non sono altro che un momento
della vita della generazione umana (infinito) e durante la loro vita non fanno altro che progredire la specie
umana. Essi sono l'infinito vero, perchè sono finiti ma cercando l'infinito non fanno altro che ricercare l'infinito
vero e proprio. Il rapporto tra finito e infinito non deve essere pensato in un ottica trascendente, deve superare il
concetto dell'alterità, ovvero finché finito e infinito vengono pensati come l'uno l'altro dell'altro, vengono pensati
sotto la categoria della finitezza perché l'infinito come contrapposto al finito è un infinito limitato dal finito. D'altra
parte però separando l'infinito e il finito non è sostanza perché il finito passa per sua natura nell'infinito, perché
nega se stesso e arriva ad affermare l'esistenza dell'infinito. Questo ragionameno ci fa capire che non è possibile
tenerli separati, perché si torna ad affermare il finito nell'infinito, quindi dice hegel, in realtà nel pensiero come
accadeva col divenire in cui c'era un costante passaggio dall'essere al nulla, qui si ha un continuo passaggio dal
finito all'infinito, ma non si sta contraddicendo la mente a dire ciò, il continuo passaggio ci fornisce il vero

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concetto dell'infinito che è la reciproca determinazione e l'unità di finito e infinito, queste due realtà devono
essere pensate insieme, quindi il vero concetto di finito e di infinito è l'unità fra i due.
Il modo in cui l'infinito è di fatto è un processo in cui l'infinito stesso nega la sua finitezza e la rende infinita, il
finito viene negato ed è affermazione dell'infinito perché negazione di negazione e affermazione della positività
dell'infinito. Ciò si traduce nel succedersi delle generazioni della specie umana, l'individuo muore ma la specie
continua ad esistere. l'Infinito è la specie che esiste attraverso gli individui. Questo è un tentativo di pensare
l'unità del reale.

Unità e molteplicità
Le categorie di uno e molti devono anch'esse essere pensate come unità e non come separate, unita è unita di
molteplicità e molteplicità è molteplicità dell'unità, non sono due categorie opposte ma si implicano a vicenda.
Hegel dice che l'infinito è il superamento della dimensione dell'essere per altro, è quindi una totalità perché non
c'è un altro per l'infinito, la dimensione dell'alterità non è presnete nell'infinito, in relazione all'infinito esso è
relazione a se stesso, perché si relaziona col suo altro, e questo è espresso dalla categoria dell'essere per se.
L'infinito nega l'esistenza di un quache cos'altro, è l'unità, è la totalità, ma che vi è intrinseca. Non c'è un altro
oltre all'infinito c'è solo l'uno. Ma dentro alla totalità c'è un riferimento negativo, la relazione che esclude l'alterità,
ma se non c'è un altro da negare questa relazione esclusiva verso chi è diretta?
Per Hegel verso l'uno stesso, l'uno, cioè l'infinito, l'essere per se, è relazione negativa a se stesso, è esclusione
di sè da sè. L'infinito è quindi in realtà il diventare molti uno, l'uno che si separa da se stesso, in questa relazione
troviamo la esplicitazione dell'infinità, ovvero la produzione di una quantità infinita di uno da parte dell'uno stesso,
l'uno è un'attività negativa che si rivolge a se stesso. Ciascuno degli uno respinge gli altri uno, ma così facendo
non fa altro che confermarsi negli altri, qui troviamo l'infinità perché ciascuno di questi uno è quindi in relazione
con l'altro perché è continuazione degli altri uno, in quanto stessa attività. Ciascuno di questi uno nella relazione
con l'altro non è differente dall'altro, ma si continua l'uno con l'altro. Vi è un'unico uno dell'attrazione ed è questo il
vero concetto dell'unità, un'attività che si continua in questi diversi momenti individuali. Vi è la stessa natura, la
stessa attività in ciascuno di questi e si viene a creare un grande campo unitario che è unità della molteplicità.
Questo è secondo Hegel la vera categoria di unità e molteplicità, accanto a questi concetti rende sostanziali
concetti che stimolano l'attività, il passare del divenire, il negare dell'essere determinato e qui abbiamo attrazione
e repulsione. Unita e molteplicità sono la dimensione stato a di qualcosa che è dinamico, ovvero attrarre e
respingere, e sono attività essenziali senza di loro non c'è unita e molteplicità. La categoria in cui si risolve unità
di uno e molti è la quantità, sono le due categorie che concludono il quantitativo e introducono il quantitativo. La
logica dell'essere prevede infatti come macro categorie quantità, qualità e misura. C'è un tentativo di dedurre le
categorie dalle altre e creare un sistema di categorie dove ognuna viene ad essere collegata con tutte le altre,
questa logica dialettica è l'infrastruttura razionale della realtà, ciò vuol dire che le categorie che incontriamo
servono per comprendere la realtà di cui facciamo esperienza, ma sono le tappe di un processo, ognuna e solo
un punto di vista parziale. Questo secondo Hegel dovrebbe essere il pensiero di Dio sul mondo. Dio ha preso
tutti i pensieri e il sistema delle categorie corrisponde secondo Hegel a dio stesso. La realtà di cui facciamo
esperienza secondo Hegel e gli idealisti, riassumibile in natura e storia, è l'estrinsecazione, il venire ad esistere al
di fuori della dimensione intellettuale, che si esteriorizza a se stesso in una dimensione spazio tempo ulteriore. Vi
sono poi natura e spirito, la prima corrisponde alla dimensione spaziale, la seconda vive nella dimensione dello
sviluppo e corrisponde quindi al tempo. Nella natura emerge l'aspetto statico categoriale, nella storia emerge il
passaggio che porta da una categoria all altra.semplificando la natura è l'aspetto positivo la storia quello
negativo. Abbiamo parlato di ciò, oltre che per conoscere il pensiero di Hegel, perché le categorie della logica
sono a fondamento delle altre parti del sistema e ci aiutano a comprendere lo spirito oggettivo. Inoltre anche
perché ci da l'idea del pensiero speculativo, Hegel pensa che il vertice del pensiero sia la speculazione, ovvero la
contemplazione della verità, è un pensiero non strumentale, non siamo in grado di usare i nostri pensieri a nostro
vantaggio perché siamo dominati da essi, possiamo solo contemplarli, non possiamo sfruttare la conoscenza di
Dio, possiamo solo contemplarlo. Aristotelicamente è la contemplazione della verità grazie alla quale si realizza
pienamente il nostro essere, il nostro essere come pensiero, come conoscenza, quindi è appunto
contemplazione e cioè l'esercizio della propria natura, la razionalità esercitata in vista di se stessa e contempla il
puro pensiero. Questo aspetto filosofico è oggi considerato un ritorno del passato, perché oggi siamo interesati
alla scienza per potrela sfruttare e non solo contemplare.

LO SPIRITO OGGETTIVO
La razionalità esiste come oggetto esteriore alla mente, per esempio il codice stradale o le religioni, sono tutte
produzioni dello spirito. Non esiste quindi solo nella forma individuale, ma anche nella forma ogettiva in quanto

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prodotta nel corso della storia. In hegel dobbiamo tenere presenti 2 diramazioni, che servono a spiegare come si
concretizza lo spirito oggettivo, ovvero come dev'essere analizzato e le sue dimensioni.
- dimensione storica dove c'è un progresso verso forme più concrete ed efficaci di razionalità. Da
questo punto di vista si vede il suo sviluppo lungo la storia siccome gli uomini preistorici avevano una
certa forma di religiosità, producevano cultura, esprimevano la loro razionalita.
- dimensione statica Nella dimensione statica dello spirito per Hegel ci sono diritto, moralità ed eticità.
Una è lo sviluppo nel corso del tempo e della storia, la dimensione storica, dove si ha un progresso, mentre l'altra
dimensione, quella statica, rappresenta come è organizzata una società.

L’eticità
L'etimologia della parola moralità è mos, moris siccome è latino e sono gli usi e i costumi dei popoli, questo
significato in Hegel si associa al concetto di eticità. Il concetto di moralità invece risente molto dell'approccio
kantiano, la morale è concepita come la dimensione soggettiva dell'etica, è la dimensione della volontà e
dell'interioirtà di ciascun individuo, il momento della moralità è quello della dimensione del volere. II termine
libertà è qui sinonimo di razionalità, la libertà è la volontà razionale che si autodetermina (kant), questa
razionalità libera si realizza innanzitutto nel diritto. Il diritto ha la forma di una legge e le leggi esprimono una
forma di libertà, sono il modo in cui la libertà vive nel mondo, libertà che non è solo il libero arbitrio, ma la libertà
razionale esteriore ovvero nella dimensione esteriore alla mente. Per esistere quindi al di fuori della mente, fuori
da un soggetto, esiste nella forma della legge, del diritto, delle norme fondamentali che stanno alla base delle
società. Quando si parla di diritto si parla quindi anche di proprietà. L'espressione reale della persona, intesa
come persona giuridica, nella nostra società anche un'azienda è una persona giuridica, è secondo Hegel la
proprietà che è la concretizzazione, la proiezione, della persona fisica nel mondo, infatti una violazione di
proprietà potrebbe corrispondere a una violazione dell'essere stesso, perché la proprietà è il luogo o oggetto in
cui si sviluppa la persona stessa. È la proiezione esteriore della persona nel mondo. Qui ci si ricollega anche al
discorso della dialettica di servo signore, dove il diritto non è presente e se non c'è si arriva allo scontro per il
riconoscimento della signoria sul mondo, delle coscienze. Quel diritto, il rapporto fra le persone non è più un
rapporto di scontro, ma viene limitata la proiezione della persona sul mondo nella dialettica del servo signore le
due coscienze si scontrano fra di loro affinché venga riconosciuto il loro diritto su ogni cosa. Invece nella
dimensione del diritto la legge esteriore, dice Hegel, regola l'agire delle persone limitando la loro proiezione nel
mondo alla loro proprietà. La persona non ha diritto su ogni cosa, ma su quella parte di mondo che dagli altri è
riconosciuta come loro proprietà ed è in quella dimensione che si concretizza l'agire di una persona. Il problema
che si pone nella logica del diritto è il conflitto tra l'interesse/intenzione interiore delle persone e la legge
esteriore. ( esempio: giudice che afferma il torto di una persona convinta di vedere ragione che quindi entra in
conflitto ) La presenza di una legge esteriore al soggetto agente pone quindi un problema che può portare al
conflitto che potrebbe condizionare gli obbiettivi che mi sono posto. Secondo hegel questo scontro, questa
dimensione del conflitto, apre la dimensione della moralità. Nel momento in cui l'individuo vive il contrasto fra le
sue porposte e la legge è come se si richiudesse in se stesso, cerca i principi del bene, le basi della moralità, non
più nella legge, ma in se stesso.

Questa è la dimensione della moralità, e qui Hegel sta mirando proprio alla morale kantiana, i momenti sono tre
perché sono tesi, antitesi e sintesi e la soluzione è la sintesi, l'eticità, i primi due sono parziali sono unilaterali.
Unilaterali perché la legge esteriore se non viene riconosciuta dai soggetti è vana, viceversa il problema del lato
interiore è la critica che fa a Kant. La morale dell'interiorità pretende di ricavare dall'individuo delle leggi
universali, ma questa è proprio una contraddizione in termini, non posso rendere un principio singolo come un
universale e questo principio si riflette nell'astrattezza dell'etica kantiana, secondo la quale il soggetto si isola dal
mondo e perde ogni contatto con la realtà. Per questo hegel dice che la moralità kantiana è completamente
sconnessa dal mondo e vuota ed è per questo che non riesce a fornirci dei doveri determinati un orientamento
concreto che sia guida per l'agire, ( cosa significa agisci in modo tale da considerare la massima delle tue azioni
come legge universale, ok la mia azione deve valere come legge universale ma cosa dovrei fare? Come devo
agire? Questo la morale kantiana non lo dice, non mi da un'indicazione o un dovere da seguire) questa è
secondo Hegel pura superbia dell'individuo che vuole ricavare da se stesso le regole con cui governare il
comportamento degli uomini. Questo errore è necessario perché la realizzazione della volontà libera e razionale
ha bisogno del riconoscimento interiore, della norma, della legge, che non può essere separata dagli stessi
individui che agiscono, quindi anche il diritto considerata come legge esteriore può risultate vuoto se non è
radicato nella vita delle persone. Per superare il problema è secondo hegel necessaria una conciliazione tra
legge esteriore, dello stato, e intenzione interiore e ciò è realizzabile solo quando l'idividuo si sente partecipe o
compreso nelle leggi che lo rappresentano, ma ciò avviene solo nello stato, Hegel ritiene che tutte le persone che
sono comprese in uno stato si riconoscano nelle leggi di fondo della comunità, ma forse più che stato sarebbe

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correto dire comunità, perché Hegel parla di stato, ma qui si sta parlando prima di tutto di appartenenza a una
comunità. Per Hegel questa è l'eticità questo momento in cui c'è conciliazione e riconoscimento tra esteriorità e
interiorità, ma si può realizzare pienamente solo all'interno di uno stato che è espressione del popolo, della
comunità e di ciò che vuole. Per arrivare a questo punto, che è il culmine dell' eticità, è secondo hegel necessario
passare per altre due tappe. L'eticità comprende tre figure che sono: famiglia, società civile e stato, il discorso
appena visto preannunciava la soluzione dello stato, nell'idea che il singolo individuo sia integrato nella società
dove trova espressione e organizzazione all'interno dello stato. Come fa però un individuo integrarsi pienamente
nello stato di cui è parte? Secondo Hegel questo è il compito della famiglia, che ha il compito di inserire i propri
figli nella comunità ed è la prima forma di connessione tra legge interiore ed esteriore, è la prima dimensione in
cui prende corpo lo spirito come soggetto universale (ovvero secondo hegel il cristianesimo è il culmine della
religione, è la massima espressione della religione per la cultura umana, in particolare Hegel pone molta
attenzione alla santa trinità: padre è il dio creatore separato dal mondo, il figlio è la conciliazione tra dio e il
mondo, il figlio dovrebbe corrispondere a dio, ma nella filosofia di hegel solo un'entità è dio, quindi si pone di
nuovo il problema di tutto e parte, perché solo dio è divino, e ciò si supera dicendo che la morte di cristo è la vita
della chiesa, e lo spirito santo, che è la comunità ecclesiastica in cui lo spirito si è incarnato, la comunità è unità
di una molteplicità, ma non è una molteplicità sparsa, caotica, ma è una molteplicità che vive come un'unità.
L'idea dello spirito santo è quindi l'idea del soggetto che sta alla base della comunità della chiesa, allo stesso
modo è pensata l'idea dello stato nazionale, un'unità che si unisce in un gruppo ed è unità di un molteplice, un
gruppo di persone che ritengono che la verità sia la stessa per tutti. Qui si pone un problema nello stato nazione:
Come possiamo sapere che tutti i membri dello stato sono inseriti in quest'ultimo?

Lo spirito santo che sta quindi alla base della società è un soggetto universale e la sua prima forma è la famiglia,
che non è un semplice contratto, o aggregato di individui, ma diventa un soggetto universale. La famiglia nasce
in 3 momenti: matrimonio, patrimonio ed educazione dei figli, il matrimonio è una scelta libera che si basa su un
sentimento naturale e su un rapporto naturale (l'amore e l'accoppiamento). La famiglia ne risulta la promessa,
l'impegno, all'interno della società, è un progetto di vita in cui il soggetto si assume dei doveri e si impegna a
rispettarli. Da un certo punto di vista questo risolve già il problema dell'etica kantiana, perché la massima delle
proprie azioni è il tentare di mantenere in vita la famiglia, dunque nel momento in cui il coniuge è fedele si sta
seguendo un principio di agire universale. Quando una persona non si adegua ali principi che stanno alla base di
ciò che ha deciso di essere è etichettata da Hegel come reale irrazionale. (esempio genitori che non fanno il
bene della famiglia per esempio spendendo soldi in cose effimere non utili alla famiglia )
( il permanere di leggi che sono un retaggio del passato, per esempio il fatto che fino agli anni 70 lo stupro di uno
donna era reato non contro la persona, ma contro la moralità pubblica, queste leggi anacronistiche sono per
Hegel un reale irrazionale, ovvero un qualcosa anche ha realtà, ma che ormai è svincolata dal suo fondamento di
essere, dal suo principio, e che quindi è destinata a scomparire.)

Il senso dell' eticità, ovvero la conciliazione tra volontà individuale e volontà universale, generale, la famiglia
impolitica dei doveri legati al matrimonio, la cura del patrimonio e l'educazione dei figli. Riguardo i doveri abbiamo
sottolineato come secondo Hegel le istituzioni,nei corpi che costituiscono la società si realizza un superamento
dell' astrattezza del formalismo dell'imperativo categorico kantiano perché questi doveri sono concreti, ma al
tempo stesso universali perché mirano al bene della famiglia e non del singolo. Dal punto di vista del dovere i
doveri rappresentano un universale concreto, informano il soggetto su cosa fare concretamente a differenza
dell'imperativo categorico. La domanda che ci possiamo porre ora è: ma qual è l'interesse dell'individuo
nell'adempimento di questi doveri, siccome questo non elimina il conflitto tra l'interesse individuale e il bene della
famiglia? Hegel dice che nel momento in cui l'individuo assorbe i doveri legati alla vita della famiglia realizza se
stesso andando oltre se stesso ( esempio Agostino gerarchia dei beni, se un padre sceglie un bene minore a uno
maggiore, una macchia due posti anziché una familiare, non fa il bene della famiglia. La risposta di Hegel è che
nel momento in cui compra un'automobile familiare realizza il suo essere, non c'è quindi un contrasto tra
l'interesse personale e quello della famiglia).

Eticità: famiglia, società civile e stato. Per Hegel il movimento logico che porta dalla famiglia alla società civile è
l'educazione dei figli essendo loro lo scopo, il fine, della famiglia rendendoli autonomi e indipendenti e quando voi
accade la famiglia si dissolve per andare a creare nuove famiglie. L'Unità della famiglia quindi si rompe quando i
figli diventano indipendenti e creeranno nuove famiglie dando poi vita allo stato civile. Nel discorso di Hegel la
società civile non è composta da famiglie, ma da individui. La società civile è quindi un sistema di individui,
appartenenti alla comunità, considerati come portatori di interessi individuali, cioè la dimensione prettamente
economica, ognuno persegue il propio interesse,è la formula dei borghesi, la società civile corrisponde al
concetto di borghese. Se la famiglia era il momento dell'unità basata su rapporti di sangue la società civile è il

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momento della molteplicità, molteplicità di interessi, che spesso sono in contrasto fra di loro. Nonostante la
molteplicità di interessi Hegel individua una trama di relazioni che lega l'interesse di ciascuno agli interessi degli
altri e produce progressivamente un'unità concreata all'interno della comunità di individui, c'è quindi un'unità
mediata e non più immediata come quella famiglia, ma dove l'interesse del singolo è connesso e integrato
nell'interesse degli altri e del tutto. Cerchiamo di capire il percorso di Hegel: per prima coda individuiamo
l'interdipendenza economica, Hegel dice che è vero che l'interesse dell'agricoltore è diverso da quello del
commerciante, perché il commerciante vuole comprare a un prezzo basso e l'agricoltura vuole vendere ad un
prezzo maggiore.

L'interdipendenza economica risiede nel fatto che ciascun soggetto quanto il proprio benessere dipende
dall'altro, se gli agricoltori falliscono i commercianti fanno lo stesso non avendo più nulla da vendere. Perciò si c'è
un conflitto d'interessi, ma ha dei limiti oltre i quali ridurre gli interessi altrui comporta una riduzione dei propri. Gli
individui vicino l'interesse generale come vincolo, come limite al proprio interesse e non vi riconoscono
l'integrazione del proprio interesse in uno più grande. Come si produce questa consapevolezza? Ci sono diverse
tappe tra cui quella della cultura, che fa si che l'individuo sia collocato all'interno di flussi di comunicazione vitali
per la propria esistenza, ci sono poi le associazioni di mestiere, ovvero le corporazioni, in cui sono riunite, su
base volontaria, tutte le persone che appartengono allo stesso settore lavorativo, esse favoriscono l'integrazione
perché l'interesse di ciascun membro è lo stesso degli altri membri di conseguenza c'è quindi un riconoscimento
di ciascun individuo nell'altro e di ciascuno nell'associazione. Ci sono altre figure che tiene in considerazione,
quando parla del problema della società civile parla anche dell'amministrazione della giustizia che possiamo
ricollegare al diritto astratto, ovvero un'indimenticabile di regole e leggi, il problema che vi si pone però è: come
faccio ad avere la garanzia che le persone si ricondiscano in queste regole? E la risposta di Hegel è: affinché
quel diritto non sia più astratto è necessario un corpo di funzionari che amministri la giustizia e faccia rispettare
quelle regole, Hegel ah sempre la necessita di dare concretezza ai principi, alle idee, o comunque di trovare la
concretezza della vita spirituale e culturale dell'umanità. Questa concretezza passa attraverso l'associazione di
mestieri, i rapporti familiari, dove si sperimenta un universale che è completo e non separato dalla realtà, ( un
riferimento può essere anche la fenomenologia dello spirito, dove la concretezza si vede nello sviluppo di
coscienza e autocoscienza non è qualcosa di contemplativo e spirituale, ma ha a che fare con la produzione di
beni e la trasformazione del mondo. Lo spirito avanza con una posizione di un'oggetivita, interazione con esso e
progresso. Quindi è come dire la mente umana senza il linguaggio, che organizza la mente umana, attraverso il
linguaggio ragioniamo. )

Il passaggio allo stato avviene con un'operazione degna di riflessione, Hegel osserva come tra le associazioni si
mestiere ve ne è una particolare, c'è una classe sociale il cui fine coincide con l'interesse generale, questo è ciò
che Hegel identifica come funzionari pubblici, che secondo Hegel sono la mediazione tra la società e lo stato e
devono rappresentare il culmine, l'élite della società. Hegel ha una concezione dello stato organistica che però
presuppone il rifiuto del modello liberale, contrattualistico e democratico, ciò non vuol dire che disconosce la
centralità del concetto di popolo, ansi lo stato è per Hegel l'espressione più profonda del popolo, però il suo
fondamento non è il popolo, stesso discorso per il modello liberale dove non nega i diritti, ma nega che l'unico
compito dello stato è la tutela di essi, per il contrattualismo

ARTE RELIGIONE E FILOSOFIA con LO STATO E LA STORIA


In Hegel lo spirito si definisce come la realizzazione dell’assoluto nella storia, esso si divide in spirito soggettivo
(la mente, come la razionalità si realizza nel suo agire individuale) e lo spirito oggettivo (la razionalità che si
incarna e realizza nelle istituzionini, nella cultura) [tema che sarà ripreso anche nel 1900 da Popper con
l’epistemologia di un soggetto conoscente, ovvero una riflessione della scienza che prescinde dai soggetti che
fanno scienza, la scienza come mondo di contenuti oggettivi del pensiero, una conoscenza oggettivata che è
conoscenza intersoggettiva], ma che culminano nello spirito assoluto, in cui Hegel fa rientrare arte, religione e
filosofia, le tre discipline in cui l’uomo pensa la realtà in quanto tale. Ciò è esposto da hegel nell’enciclopedia
delle scienze filosofiche in compendio, la sua opera più sistematica e sintetica in cui egli ricostruisce l’intera
visione sistematica del suo pensiero, ma accanto a questi 3 temi troviamo citato anche lo stato come momento
della realizzazione dell’assoluto. Formalmente il culmine della filosofia hegeliana si raggiunge con arte, religione
e filosofia, essendo arrivati alla consapevolezza di Dio, ma anche lo stato può essere visto come uno di questi
momenti, anche perché in altri suoi passi Hegel definisce lo stato come la realizzazione di Dio nel mondo.
Secondo Hegel è nello stato il momento in cui si realizza pienamente l’eticità, ovvero la conciliazione tra
dimensione esteriore e interiore, perché anche lo stato può essere associato allo spirito assoluto e al
compimento della storia.

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2 osservazioni:
- nel corso della storia dell’umanità stato e comunità politica non sempre sono stati coincidenti, anzi lo
stato è una concezione alquanto moderna nata indicativamente nel 1500 con Locke, Hobbes eccetera;
- quando si parla di Hegel è più indicato utilizzare il termine ceto o stato sociale, piuttosto che classe,
poiché la classe è un concetto marxista ed esse hanno un rapporto conflittuale fra di loro, ma secondo
Hegel i ceti hanno fra loro un rapporto di collaborazione

Nello sfondo secondo cui vi è una concezione organicistica dello stato cerchiamo di spiegare le critiche dette in
precedenza:
- perché Hegel non ha una concezione liberale dello stato? Perché egli sostiene che il compito dello stato
non si limiti a garantire i diritti individuali, lo stato non è nato solo come garanzia della prospettiva
dell’individuo, ma è un bene comune, universale, ed è la costruzione di un mondo libero e razionale. La
concezione liberale dello stato risulta quindi parziale secondo Hegel, è una concezione dello stato che si
colloca all’interno della società civile e non capisce lo scarto che c’è tra gli interessi individuali e
generali;
- Perché Hegel critica la concezione contrattualistica? inanzitutto perché essa è artificiale, non trova
riscontro nella storia, poiché nel corso di quest’ultima possiamo trovare gli stati, ma mai un contratto, lo
stato esiste già da prima di ogni contratto e le comunità politiche lo stesso, sopratutto non sono prodotti
di un accordo della volontà dei singoli individui (è riconducibile al tentativo di ottenere l’infinito da una
semplice somma di componenti finite e individuali, un contratto è un convergere di prospetive e interessi
particolari, dunque non può generare qualcosa di infinito);
- peché Hegel critica la concezione democratica? Democrazia vuol dire che la sovranità appartiene al
popolo, non che Hegel sia contrario a questa proposta, ma egli sostiene che lo stato non si possa
originare dal popolo, perché è il popolo stesso a non poter esistere al di fuori dello stato, ma sarebbe
anarchia, caos. Solo all’interno di uno stato vi può essere una comunità che condivida leggi, istituzioni,
valori, principi, uno stile di vita, una visione del mondo. Al di fuori dello stato si presenta solo una
moltitudine di interessi, che spesso potrebbero essere in disaccordo fra loro. Questo non significa
comunque che Hegel pensi a stato e popolo come a due entità separate, piuttosto lo stato è
espressione politica di un popolo, è solo che questo non può essere fondamento dello stato, quello è il
conceto di stato stesso, la costituzione, in cui trova vita il pensiero di un popolo. Ogni popolo è secondo
Hegel realizzazione dell’assoluto: vi è uno spirito universale nel mondo che sostiene che guida il
processo storico, una sorta di provvidenza, e si realizza nello spirito dei popoli. Lo spirito del popolo è
come il frutto per la pianta, ne esistono tanti diversi, ma ciascuno di essi è una tappa dello sviluppo
storico dell’umanità, così come l’albero è parte dell’ecosistema in cui vive. Siccome la stroia è un
percorso, in ogni fase dello sviluppo umano c’è un popolo che Hegel chiama lo spirito del tempo, ovvero
che rappresenta la massima espressione della specie umana in quel dato periodo. Tenendo presente
ciò, unito al concetto secondo cui il progresso dell’umanità arriva poi a compimento, lo stato può essere
interpretato come espressione dell’assoluto, ricordando che la costituzione equivale al concetto di stato,
ed esistono varie costituzioni pari al numero dei vari stati esistenti nei diversi periodi storici. Ogni
costituzione si ricollega all’arte, alla religione e alla filosofia di quel popolo, che sono le massime
espresisoni della loro verità, perché è in base alle convinzioni e alle credenze del popolo che la
costituzione prende forma. La concezione di Hegel è in realtà molto ottimistica, egli definisce lo stato
come sostanza etica e consapevole di sè, con consapevole di sè esprime il fatto che la costituzione si
basi sulla verità del popolo, mentre sostnza etica si basa sull’idea secondo cui lo stato sia compimento
dell’eticità, è un nuovo soggetto. “In quanto lo stato può essere definito come autocosicenza e volontà di
un popolo, lo stato è vero soggetto del bene e del male e sostiene le scelte del singolo condizionandole
e orientandole” con ciò si esprime il rapporto che vi è tra individuo e stato: il singolo dipende nelle
proprie scelte dal popolo in cui vive e orienta le sue azioni in base ai valori della comunità in cui vive.
Hegel ritiene inoltre che lo stato debba operare solo attraverso le leggi, quindi nello stato si attualizza il
governo della legge, che è espressione delle convinzioni del popolo, e non il governo del singolo
individuo. Il tutto può risultare oggi alquanto ottimistico perché si parte dal presupposto secondo cui ci
sia una piena corrispondenza tra le leggi di un paese e chi lo abita e che in conseguenza di ciò tutti le
rispettino, ma spesso non è così.

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