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Kant

Kant è nato nel 1724 a Konigsberg, che faceva parte della Prussia
orientale, oggi conosciuta con il nome di Kaliningrad, che fa parte
attualmente della Russia. A differenza degli altri filosofi che viaggiarono
molto lui non uscì mai dalla sua città e non si fece coinvolgere in attività
politiche o diplomatiche. Il filosofo ricevette un’educazione religiosa
pietista, molto rigida. Il pietismo era una corrente radicale del
protestantesimo, di cui era seguace la madre di Kant, che invitava i suoi
seguaci ad avere una vita pia, intransigente e rigorosa dal punto di vista
morale. I suoi scritti sono:
 Pre-critici: fino alla Dissertazione del 1770
 Tre grandi Critiche:
1. Critica della ragion pura (1781)
2. Critica della ragion pratica (1788)
3. Critica del giudizio (1790)
Il pensiero di Kant è definito kantismo, oltre ché criticismo, da critica,
legata anche alla parola giudizio, perché fa della critica lo strumento
principale della filosofia. Significa anche filosofia del limite, dare valore a
ciò che sta nei limiti, e questo cosa vuol dire?
Secondo Kant non si può conoscere tutto, anche il più sapiente degli
uomini non può saperlo, è umanamente impossibile. L’espressione io so
tutto è falsa, quindi priva di valore. Invece porre dei limiti e dire l’uomo
può conoscere questo dà a quei limiti un valore perché significa che si ha
qualcosa di concreto. Riprende questa concezione dagli empiristi inglesi,
dall’empirismo, che sostiene la conoscenza dall’esperienza. Quindi si
contrappone al dogmatismo, il quale consiste nell’accettare opinioni o
dottrine senza interrogarsi sulla loro validità. Kant si ritiene debitore di
Hume per averlo svegliato dal sonno dogmatico, per avergli insegnato a
non accettare i dogmi senza usare la ragione, quindi senza capire. Allo
stesso tempo però non vuole neanche cadere nell’altro estremo, cioè lo
Scetticismo come Hume, secondo cui non esiste una realtà certa per
l’uomo, non esistono verità assolute, oggettive, valide per tutti, tutte le
cose in cui crediamo non hanno validità scientifica, ma sono per esempio
credenze che ci vengono dall’abitudine di vedere le cose ripetersi sempre
in una certa maniera, come il sole che sorge: lo vediamo sorgere ogni
giorno e da qui ci creiamo una credenza secondo cui il sole deve sorgere
ogni giorno, ma in realtà non è così perché un giorno potrebbe anche
smettere di sorgere. Kant aveva anche ispirato gli illuministi, con quella
sua frase “Abbiate il coraggio di servirvi della ragione”, nessuno deve
accettare le cose senza capire, e non si riferisce soltanto ai dogmi religiosi,
ma anche per esempio all’assolutismo in cui le cose venivano imposte.
Tra scetticismo e dogmatismo però, posizioni estreme, Kant ne trova
un’altra:
Dice è vero che non possiamo conoscere tutto ma non è neanche vero
che non ci sia nulla di certo per l’uomo. Nella sua prima grande opera
“Critica della ragion pura” si pone una domanda “Cosa posso conoscere,
sapere? Quali sono i limiti della conoscenza umana?” e questo è la
ragione che lo stabilisce, mette dei limiti, si autogiudica dicendo “io posso
conoscere solo questo”, giudica sé stessa di fronte ad un tribunale
immaginario, parliamo quindi di metodo della ragion fondante, ripreso
dagli empiristi.
Io posso conoscere tutto ciò che sta nell’ambito dell’esperienza, che lui
chiama FENOMENO, dal verbo greco manifestarsi, ciò che mi appare, che
si manifesta. È quello che costituisce la materia della conoscenza, il
materiale, che io incontro nel mondo, di cui faccio esperienza ogni giorno.
Quindi io cosa posso conoscere? Solo il fenomeno.
Oltre il fenomeno c’è il NOUMENO, ovvero come sono le cose in sé, ciò
che va oltre la conoscenza che io non posso conoscere. Per esempio,
conosco qualcuno come mi appare, per come mi si presenta, come
fenomeno, ma non so com’è realmente, questo è il noumeno. Noi non
possiamo conoscere tutto ciò che sta nell’ambito della metafisica, ciò che
va oltre la fisica, l’esperienza, per esempio:
 L’idea di Dio, non in senso religioso ma di qualcuno che ha creato il
mondo e oltre ciò lo guida;
 L’idea di anima, anima intesa come ego, come io psicologico,
l’immagine che ho di me stesso;
 L’idea di Mondo, mondo inteso come totalità, globalità, posso
vederlo in parte ma non potrò mai farne un’idea totale, pur
viaggiando molto non lo conoscerò mai tutto, quindi non posso
farne esperienza totale, nella sua totalità.
Queste sono tutte idee nell’ambito della metafisica, non
dell’esperienza, perché? Non le posso conoscere come fenomeni
perché non ne posso fare esperienza. Non posso fare esperienza di Dio,
dell’anima intesa come io psicologico, o del mondo come totalità ne
potrò conoscere soltanto una parte. Tutte queste lui le chiama idee
della ragione e rientrano nella metafisica. In questa prima critica le
elimina perché non le posso conoscere in senso scientifico e vanno
oltre l’esperienza. Poi le riprenderà.
Lui vuole mettere in evidenza la differenza tra scienza e metafisica. La
scienza deve sganciarsi dalla metafisica e raggiungere rigore e certezza,
i suoi valori devono essere talmente certi che devono avere valore per
tutti, e arrivare a una conoscenza oggettiva valida per ogni uomo,
universale. La mia conoscenza di Dio o quello che io posso provare per
lui non può essere universale, anche perché non è qualcosa che posso
comunicare agli altri, è soggettivo.
Kant non nega la Metafisica come aveva fatto Hume che era sfociato
nello Scetticismo, ma ritiene che essa non debba essere considerata
una scienza, non rientra nelle conoscenze certe o meglio può esistere
solo come critica dei limiti della ragione. Non può essere negata perché
risponde a un bisogno interiore dell’uomo. Quindi essa assume il
significato di disposizione naturale, inalienabile tendenza della ragione
a tentare la risposta a problemi fondamentali quali l’esistenza di Dio, la
libertà, l’immortalità dell’anima. Pur non rientrando nell’ambito
dell’esperienza, non vuol dire che l’uomo non abbia bisogno di risposte
anche in questi campi. Non è scienza, che è quella certa oggettiva e
valida per tutti, ma risponde ad un bisogno dell’uomo che si pone degli
interrogativi.
Per conoscere ogni uomo (non si deve adattare al mondo, sennò
avremmo una conoscenza soggettiva,) c’è bisogno di strumenti uguali
in tutti gli uomini che permettono di avere una conoscenza uguale per
tutti, ovvero universale e oggettiva. Io non adatto il mio intelletto a
determinate cose per conoscerle, altrimenti avrei un tipo di
conoscenza soggettiva, invece abbiamo bisogno di un modo di
conoscere oggettivamente, che permette di avere a tutti la stessa
conoscenza. È come se affrontasse il mondo come un idraulico che ha
bisogno dei suoi strumenti, e questi sono chiamati forme a priori.
La conoscenza sensibile è intuizione perché è conoscenza immediata e
ogni conoscenza sensibile avviene nello spazio e nel tempo. Esse non
sono proprietà e caratteristiche delle cose, ma sono modi con cui il
soggetto coglie le cose sensibili; è il mio modo di conoscere le cose qui
e ora, quindi, sono forme a priori della sensibilità. Questo vuol dire che
tutto quello che io conosco lo conosco nello spazio e nel tempo, qui
ora. Senza di essi non potrei conoscere questo qui e ora, oppure solo in
maniera soggettiva. Spazio e tempo sono intuizioni pure, vengono
prima dell’esperienza e la rendono possibile.
Lo Spazio è la forma del senso esterno, cioè rappresentazione a priori
necessaria, fondamento di tutte le intuizioni esterne e del disporsi
delle cose una accanto all’altra.
Il Tempo è la forma del senso interno, cioè rappresentazione a priori,
fondamento dei nostri stati interni e del loro disporsi uno dopo l’altro
secondo un ordine di successione.
Ci sono anche altri strumenti per fare conoscenza, detti categorie, che
invece sono le forme a priori dell’intelletto. Parliamo di forme perché
sono strumenti conoscitivi e a priori perché ce li ho prima della
conoscenza e la rendono possibile e sono contrari a quelli a posteriori.
Per esempio, posso assaggiare qualcosa e formulare un giudizio, ma
questo sarà a posteriori e non può essere presa come conoscenza che
vale per tutti, di valore scientifico perché è soggettiva, sono io che
dopo che ho fatto esperienza ho formulato un giudizio. Invece la
conoscenza oggettiva valida per tutti deve funzionare al contrario, deve
basarsi su un giudizio oggettivo.
Quindi la conoscenza vera è quella scientifica, è una sintesi a priori,
cioè si basa su proposizioni o giudizi universali e necessari che
incrementa in continuazione il sapere. Il giudizio è unione di un
soggetto e di un predicato. L’uomo quando conosce giudica, formula
dei giudizi. Kant individua tre tipi di giudizi:
 Giudizi analitici a priori
 Giudizi sintetici a posteriori
 Giudizi sintetici a priori
1) Giudizi analitici a priori: per esempio “tutti i corpi sono estesi” nella
parola corpo è già inteso che deve avere un’estensione, anche
essendo piccolissimo deve avere un minimo di estensione.
L’estensione è già compresa nella mia idea di corpo; quindi, non si
basa sull’esperienza (è a priori), perciò è universale.
È valido per tutti, oggettivo, ed è necessario, non può essere diverso da
com’è. Potrebbe essere utile alla scienza per chiarire, per spiegare ma in
realtà ha un difetto, ovvero che non sta aggiungendo nulla di nuovo a ciò
che io già so sul soggetto, in questo caso sulla parola corpo, non aumenta
la conoscenza (PER QUESTO ANALITICI). Quindi non può essere utilizzato
dalla scienza perché essa deve sempre andare avanti in continuazione e
ampliare la conoscenza. Quindi Kant rifiuta questo tipo di giudizio.
2) Giudizi sintetici a posteriori: per esempio “la casa è bianca”.
Sintetici perché ampliano la conoscenza e aggiungono qualcosa di nuovo
rispetto al soggetto (per esempio quando dico la casa è bianca, bianca
non è già compresa nell’idea di casa, sto aggiungendo qualcosa di nuovo),
a posteriori perché avvengono dopo l’esperienza, si basano su di essa.
Proprio per questo non possono essere utilizzati dalla scienza che non si
può basare su giudizi che si hanno dopo l’esperienza, perché ognuno di
noi fa esperienze di tipo soggettivo. La scienza ha bisogno di un sapere
oggettivo, universale, che sia valido per tutti.
3) Giudizi sintetici a priori: per esempio le proporzioni scientifiche,
della matematica e della fisica, come 2 + 2 = 4.
Non si basano sull’esperienza perché sono a priori e permettono di
ampliare la conoscenza (sintetici), in questo modo la scienza può andare
avanti e progredire. Essendo a priori sono principi assoluti, verità
universali e necessarie che valgono ovunque e sempre allo stesso modo,
non è quindi un sapere soggettivo, ma oggettivo e universalmente
conosciuto. Infatti, io posso stabilire che 2 + 2 fa 4 non è un mio sapere
soggettivo ma è universalmente conosciuto. Geometria e aritmetica sono
scienze sintetiche a priori e i teoremi geometrici e aritmetici non sono
soggettivi, valgono indipendentemente dall’esperienza.
Geometria: è la scienza che dimostra sinteticamente a priori le proprietà
delle figure mediante l’intuizione pura dello spazio, senza ricorrere
all’esperienza del mondo esterno.
Aritmetica: è la scienza che determina sinteticamente a priori le proprietà
delle serie numeriche, basandosi sull’intuizione pura di tempo e di
successione.
La scienza si basa su questo tipo di giudizi.
Questo tipo di indagine critica portata avanti da Kant è trascendentale,
cioè non si occupa della conoscenza degli oggetti, ma delle modalità che il
soggetto cosciente impiega per conoscere il mondo.
La rivoluzione copernicana
Le teorie sulla conoscenza e sul modo in cui l’uomo conosce sono state
definite da lui stesso Rivoluzione Copernicana, si tratta di un paragone:
così come Copernico aveva attuato una vera e propria rivoluzione
introducendo l’eliocentrismo, allo stesso modo Kant vuole operare una
rivoluzione però in capo conoscitivo. Secondo Copernico: “Noi non siamo
spettatori che osservano il Sole (quindi non abbiamo un ruolo passivo)
che ruota attorno alla Terra, ma è la Terra che ruota intorno al Sole”,
questa affermazione portò a una vera e propria rivoluzione. Anche Kant
vuole dare al soggetto che conosce un ruolo attivo: non è la mente umana
che si adegua al mondo, ma è il mondo si presenta a noi e si adatta alle
forme a priori con cui lo percepiamo, noi lo conosciamo tutti nello stesso
modo perché abbiamo tutti gli stessi strumenti.
Quindi io soggetto conoscente con i miei strumenti vado a conoscere il
mondo, non mi adeguo al mondo, ma lui si presenta a me. Kant la
definisce rivoluzione copernicana, perché c’è un capovolgimento del
punto di vista.
Quindi possiamo conoscere le cose del mondo nello spazio e nel tempo.
La conoscenza è sintesi di materia e forma. La materia sono tutte le
impressioni sensibili che ci vengono dall’esperienza, la forma l’insieme
delle modalità fisse attraverso cui la mente umana ordina queste
impressioni. Attraverso spazio, tempo e categorie filtriamo la realtà, la
percepiamo e diamo un ordine a tutto il materiale che ci viene dal
sensibile.
Le Categorie sono forme a priori dell’intelletto, concetti per mettere
ordine su tutto il materiale conosciuto dall’esperienza nello spazio e nel
tempo, che non avrebbero senso senza dare una forma, un ordine, così
do un senso applicando le categorie. Per esempio, io sono il soggetto che
conosce, dal mondo mi arrivano una marea di informazioni che conosco
nello spazio e nel tempo perché ho questi strumenti qui ora. Però
rimarrebbero tutte disordinate e snodate tra loro, non avrebbero
nemmeno un senso se non le collegassimo tra loro. Kant fa l’esempio del
bibliotecario, al quale arrivano tanti libri, e questa è la materia della
conoscenza, ma poi è necessario dargli una forma e il bibliotecario gli
ordina per categorie, dando un ordine e un senso anche, applicando a
tutto questo materiale che ci viene dal sensibile le categorie.
Le categorie sono 12 divise in 4 gruppi:
 Quantità
 Qualità
 Relazione
 Modalità
Se noi non applicassimo le categorie tutto questo materiale
resterebbe disordinato e non avrebbe un senso.
Le categorie sono forme a priori dell’intelletto, quindi è l’intelletto che
dà un senso e mette ordine a tutto il materiale che viene dal sensibile.
La ragione invece tende ad applicare le categorie anche a ciò che va
oltre l’esperienza, il sensibile, secondo Kant questo è un errore, così
nascono le idee della ragione: Dio, il mondo e l’anima. Perché è un
errore? Perché non è ammissibile una conoscenza scientifica e
dimostrata, però questa tendenza nell’uomo c’è, non la possiamo
cancellare o negare, anche se non rientra nel mondo perfetto che
organizza Kant. Così nella seconda opera dovrà fronteggiarsi con
questo problema, che invece nella prima opera ha messo da parte. Per
esempio, le emozioni non è vero che non le posso dimostrare o negare
la loro forza anche se non le possiamo vedere. Oppure il sentimento
che l’uomo ha sempre provato dalla notte dei tempi, che ha sempre
cercato Dio, la divinità.
L’intelletto applica le categorie al sensibile, però questa è
un’operazione difficile perché le categorie sono qualcosa di astratto,
sono concetti puri, mentre il sensibile è concreto. Come possono
essere applicate a oggetti non creati dall’intelletto e completamente
diversi da esso? Qui parliamo di deduzione trascendentale, cioè il
tentativo di giustificare l’applicazione delle categorie al sensibile.
Questo è possibile grazie all’immaginazione produttiva, l’elemento
intermedio tra intelletto e sensibilità. Cosa fa?
Produce delle immagini dette schemi trascendentali per creare un
legame tra cose astratte e concrete. Per esempio, io nel mondo
incontro tantissime cose di forma triangolare, ma non incontro mai un
triangolo puro, quello l’ha realizzato per me l’immaginazione
produttiva, quindi sono in grado vedendo tante forme triangolari di
dire sono tutte triangolari, quindi nella mia mente c’è il concetto di
triangolo anche se questo concetto non è né la categoria astratta né le
cose sensibili che hanno forma triangolare. Tra queste due cose Kant
inserisce questo schema che è una via di mezzo, il mio concetto
trascendentale di triangolo che mi permette di dire tutte queste cose
hanno in comune di essere triangolari. Il concetto di triangolo lo
produce la mia mente, l’immaginazione collettiva, così si forma un
legame tra le categorie che sono astratte e le cose sensibili con forma
triangolare. Oppure vedo cani di diversa razza, ma li accomuno
comunque come cani, questo perché la mia immaginazione produttiva
produce uno schema che unisce l’astratto con il concreto e gli
permette di avere quella idea astratta di cane che può essere applicata
ai cani.
Io penso – cosa si intende?
L’Io penso è diverso dal mio singolo io, non è inteso nel senso di
coscienza individuale e particolare, ma come struttura mentale
universale, la conoscenza non è soggettiva, è qualcosa come un io
collettivo. Tutti i momenti della conoscenza sono ricondotti ad
un'unità, non frammentati, grazie a questa facoltà che unifica le
rappresentazioni. Senza l’io penso tutte le nostre esperienze
sarebbero singole, confuse e disperse, slegate tra loro, grazie a esso
possiamo ricondurre a un soggetto l'intero processo conoscitivo.
Quindi è una facoltà unificatrice che ci garantisce una conoscenza
oggettiva per tutti. Quindi può essere anche definito autocoscienza in
quanto implica la consapevolezza di un io a cui le rappresentazioni
vengono riferite e appercezione trascendentale in quanto è l’originaria
percezione di sé che precede ogni atto conoscitivo. La differenza tra
percezione e appercezione. Percezione: io incontro le cose del mondo,
una conoscenza di tipo immediato, in seguito l’intelletto da un senso
applicando le categorie. L’appercezione invece è la mia modalità di
conoscere, si è consapevoli della presenza di questa attività
unificatrice senza la quale le cose resterebbero scollegate. Quindi io
mi rendo conto di essere un soggetto cosciente, se non avessi invece
questa consapevolezza la conoscenza avverrebbe ma in maniera
inconsapevole.
Critica della ragion pratica
La Critica della ragion pratica è la seconda grande opera di Kant, e mentre
nella prima intendeva rispondere alla domanda: “Cosa posso
conoscere?”, qui vuole rispondere alla domanda: “Cosa posso, devo
fare?”. Ma allo stesso tempo potremmo dire esiste una legge morale che
regola il comportamento dell’uomo? La risposta di Kant è sì, alla base
della Critica della ragion pratica sta l’idea dell’esistenza di una legge
morale, e questa com’è?
È assoluta, sciolta da qualsiasi condizionamento istintuale.
Incondizionata, deve esserci una ragion pratica pura in grado di dettarla,
senza essere condizionata da inclinazioni sensibili.
A priori, valida per tutti e per sempre, per questo secondo Kant è da
constatare non da inventare o dedurre.
Perché ha bisogno di una legge morale? E perché è della ragione e non
dell’intelletto? L’intelletto sta nell’ambito di quella conoscenza di cui
siamo certi, mentre ad applicare le categorie a ciò che va oltre è la
ragione. Questo di cui stiamo parlando ora non è l’ambito dell’esperienza,
ma di qualcosa che va oltre, la legge morale non la posso né vedere, né
toccare e perciò siamo nell’ambito della ragione. Quindi la legge morale è
una legge della ragione, non riguarda l’intelletto. Inoltre, possiamo dire
che gioca all’interno di una insopprimibile tensione bipolare, questo
perché l’uomo tende tra sensibilità o istinto e ragione.
Se l’uomo fosse soltanto sensibilità, quindi animalità e impulso, avrebbe
bisogno della legge morale? La risposta è no, perché l’individuo agirebbe
esclusivamente per istinto, sarebbe sottoposto solo alle leggi della natura
e sarebbe inserito solo nel determinismo, abbiamo un corpo che ci
obbliga a sottostare alle leggi della natura. Non avrebbe bisogno di una
legge morale perché obbedirebbe esclusivamente all’istinto come fanno
gli animali.
Se l’uomo fosse soltanto ragione? Anche in questo caso la legge morale
non ci sarebbe, non servirebbe perché l’uomo obbedirebbe sempre alla
santità, si troverebbe sempre in una situazione di santità etica. Quello che
ci induce a sbagliare è il corpo. Ma non è così, Kant ribadisce più volte che
l’uomo è imperfetto e limitato. Perciò è chiaro che ha bisogno di una
legge morale perché tende tra queste due, né obbedisce solo all’istinto
come un animale né è un santo ed essa fa parte della ragione come se
fosse già scritta in noi.
Nell’ambito dell’etica Kant parla di ragione distinguendone l’uso pratico,
quando ci aiuta a trovare dei principi che guidino il nostro
comportamento, da quello teoretico, quando ha la tendenza ad applicare
le categorie anche a ciò che andava oltre il sensibile. In entrambi i casi il
termine ragione indica la facoltà di superare, trascendere l’ambito dei
sensi. Mentre la ragione è condannata dal filosofo quando nell’uso
teoretico si distacca dall’esperienza per inseguire le illusioni metafisiche,
nell’uso pratico invece viene esaltata perché indipendente rispetto
all’esperienza. *
La ragion pratica coincide con la volontà intesa come facoltà che consente
di agire sulla base di principi normativi, cioè regole razionali che ne
disciplinano e orientano le scelte. Quindi esalta l’uso pratico della ragione
che ci invita a creare dei principi. Io cerco dei principi di comportamento
perché ho la volontà. In particolare, distingue due tipi di principi della
ragion pratica che regolano il comportamento e disciplinano la volontà:
 Le massime;
 Gli imperativi, che possono essere ipotetici o categorico.
Le massime sono principi, norme di comportamento, di tipo soggettivo.
Per esempio, “Inseguire il successo nella vita”, non posso imporlo agli
altri di seguire il successo nella vita. Per esempio, chi vive come
eremita su una montagna, vale solo per chi lo sceglie, per chi lo fa
proprio.
Gli imperativi invece sono principi di valore oggettivo, e possono essere
ipotetici o categorici.
Quelli ipotetici prescrivono i mezzi in vista di determinati fini, hanno
uno scopo, un obbiettivo. Quindi “Se vuoi x devi y”, per esempio se
vuoi vincere la partita devi allenarti”. Sono oggettivi perché si può
applicare a tutti, chiunque voglia vincere la partita deve allenarsi però
non sono universali, non posso infatti imporre a tutti di allenarsi, non
valgono come legge per tutti, vale per tutti quelli che hanno deciso di
fare sport.
Quello categorico a differenza di quelli ipotetici non ha uno scopo ben
preciso esterno a me, quindi è incondizionato, ordina il dovere in modo
incondizionato, formale perché non ci comanda qualcosa di preciso.
Dipende dalla situazione in cui ci troviamo in quel momento della
nostra vita. La sua formula è “Tu devi…”, per esempio “Non devi
uccidere”. Ed è quello che ci dà la legge morale, non potendo
dipendere da impulsi sensibili o da circostanze mutevoli può solo avere
questa forma.
Ma quando l’azione è morale? Quando è compiuta solo in vista e per
rispetto del dovere, quando per esempio non uccido perché so che è
sbagliato, obbedisco quindi a una convinzione interiore, a una legge
dentro di me, una legge che si dice autonoma, autos in greco significa
sé stesso. Invece se non uccido perché ho paura della punizione, per
esempio ho paura di essere arrestato, non si potrà più parlare di
moralità e legge morale, ma legalità, legge legale, non obbedisce
all’imperativo categorico perché lo sto facendo per un fine esterno,
una legge che è stata stabilita da qualcun altro che quindi chiamerò
eteronoma, una legge fuori di noi. Possiamo dire che in entrambi i casi
è un’azione giusta, ma non morale. L’azione è morale quando soddisfa
il principio di universalizzazione di cui la formula definitiva è “Agisci
sempre come se il tuo comportamento dovesse valere come legge per
gli altri”. Non uccidere è un comportamento che posso presentare agli
altri, come legge per tutti, non è lo stesso per Inseguire il successo.
Virtù, sommo bene e santità
è vero che l’uomo in parte è un ente come gli altri della natura, in
parte inserito nel determinismo che quindi ha determinati bisogni ed
esigenze, ma esso non può vivere come gli animali, siamo ben altro,
abbiamo la ragione. Quindi Virtù è questo, è definita come lo sforzo
continuo di conformare la legge morale con il tenere a freno i propri
impulsi, quindi soddisfare alcuni bisogni ma seguire la ragione, non
essere schiavo dei miei bisogni, e questo posso farlo perché abbiamo
bisogno di una legge morale. Non lasciare che le necessità del corpo
prevalgano su di noi. La virtù però, pur essendo il bene supremo, non è
ancora il SOMMO BENE che consiste invece nell’unione tra virtù e
felicità. Ogni volta che obbedisco dovrei essere felice, ma questo non è
possibile, non tutto quello che facciamo lo facciamo felicemente. Le
due rappresentano l’antinomia per eccellenza, infatti se ci si sforza di
essere virtuosi spesso non si è felici, spesso invece se si ricerca la
felicità si deve rinunciare alla virtù. Questa combinazione non è
perfetta nella nostra vita, ci si potrebbe avvicinare, ma mai del tutto
perché noi uomini siamo imperfetti. Ci sarebbe bisogno della santità, la
perfetta coincidenza tra le mie azioni e la legge morale. Per lui però è
irrealizzabile o almeno in questa vita, è possibile ipotizzando una vita
ultraterrena. Se non lo faccio in questa vita deve essercene un’altra
dove posso immaginare di avvicinarmi ogni giorno alla santità. L’unico
modo per risolvere questa antinomia realizzando il sommo bene è
postulare un mondo nell’aldilà dove virtù e felicità possano coincidere,
anche se non lo posso dimostrare è così, questa è un’esigenza
dell’uomo.
Qui nascono i postulati della ragion pratica che sono qualcosa che non
posso dimostrare ma neanche negare, postula per rendere possibile la
realtà della morale stessa o un suo compimento. Questi sono:
 La Libertà, che è la condizione stessa della legge morale la quale
nel momento in cui prescrive il dovere presuppone anche che si
possa agire o meno in conformità ad esso. Per poter parlare di
morale devo per forza postulare la libertà, l’uomo deve poter
scegliere tra bene e male, cosa vuole essere, come vuole agire,
quali principi vuole seguire, libero di cercare la legge morale che
lo guidi nella vita. Se non si potesse scegliere non si potrebbe
parlare di morale, c’è solo nel momento in cui esso è libero. La
libertà non cade nel fenomeno, questo ambito può riguardare
solo la conoscenza, noi ora possiamo solo ipotizzare la libertà che
cade nell’ambito della ragione, della metafisica.
 L’immortalità dell’anima, solo una condizione di santità rende
degni del sommo bene, ma non essendo realizzabile nel nostro
mondo perché siamo imperfetti e finiti è necessario oltre al
tempo finito dell’esistenza un tempo infinito per progredire
all’infinito verso la santità. Quindi postula che l’anima sia
immortale. Se non posso migliorare in questa vita ci sarà un
tempo infinito in cui io posso continuamente migliorare, e
l’esistenza di un’anima immortale mi porta a ipotizzare l’esistenza
di Dio.
 Dio, esistenza di una volontà santa e onnipotente che garantisca
una felicità proporzionata alla virtù, una felicità corrispondente al
merito.
Nella Critica della ragion pratica ritroviamo le basi della religione:
Dio e l’anima. L’esistenza di Dio garantisce la possibilità del sommo
bene e l’immortalità dell’anima garantisce la realizzabilità del
sommo bene.
CRITICA DEL GIUDIZIO
La Critica del giudizio nasce da una sorta di dualismo lasciato aperto
dalle due precedenti critiche:
La Critica della ragion pura presentava una visione della realtà in
termini meccanisti e deterministici, la natura è una struttura causale
e necessaria in cui la libertà umana non trova spazio. Nella Critica
della ragion pratica si presenta una visione della realtà in termini
finalistici e indeterministici, la libertà dell’uomo e l’esistenza di dio si
postulano come condizioni della morale. Alle due facoltà analizzate
nelle prime due critiche, dualismo fra conoscenza e morale, Kant ne
aggiunge e analizza nella sua terza grande opera una terza, che è il
sentimento. Kant intende il sentimento come la peculiare forma
mediante cui l’uomo fa esperienza di quelle finalità del reale che la
prima critica escludeva sul piano fenomenico e la seconda postulava
su quello noumenico. Quindi permette l’incontro, ma non la
conciliazione, tra i due mondi analizzati nelle due critiche
precedenti. Di fronte ad un’opera d’arte posso avere due tipi di
atteggiamenti:
- Com’è fatto, di che materiale è fatto? In questo caso lo sto
analizzando, sto formulando un giudizio e parliamo di giudizio
determinante, perché sto usando l’intelletto e sto operando
nell’ambito della conoscenza. Sono giudizi conoscitivi e scientifici
che determinano gli oggetti fenomenici mediante forme a priori,
quali spazio, tempo e le 12 categorie. In essi l’universale è già
dato dalle forme a priori e sono giudizi oggettivi scientificamente
validi per quanto concerne il fenomeno.
- L’altro atteggiamento è quello che porta a un giudizio riflettente,
in cui non utilizzo l’intelletto, ma il sentimento, mi limito a usare
questa facoltà. Lo scopo qui non è la conoscenza, ma mi limito al
fluire della bellezza delle opere. Non mi interesso di com’è fatto,
che tecnica è stata utilizzata, ma semplicemente se mi piace o
meno. Sono quindi giudizi che si limitano a riflettere su una
natura già costituita mediante i giudizi determinanti e
apprenderla secondo le nostre esigenze universali di finalità e
armonia. In essi l’universale va cercato partendo dal particolare e
sono giudizi che esprimono un bisogno dell’uomo.
Ci sono due tipi di giudizi riflettenti, entrambi giudizi sentimentali
puri, cioè derivanti dalla nostra mente a priori, si distinguono tra
loro per il diverso rimando al finalismo.
 Giudizio estetico vero e proprio, del gusto, verte sulla
bellezza, se una cosa mi piace o non mi piace
semplicemente con la facoltà del sentimento. Non c’è uno
scopo da raggiungere ma semplicemente mi limito ad avere
piacere. Viviamo intuitivamente la finalità della natura, che
esprime un venir incontro dell’oggetto alle aspettative
estetiche del soggetto. Per esempio, di fronte a un bel
paesaggio lo avvertiamo in armonia con le nostre esigenze
spirituali.
 Giudizio teleologico, da telos cioè fine.
Cosa varia tra i due? Sono entrambi riflettenti, cioè non c’è
lavoro da parte dell’intelletto e non c’è scopo conoscitivo.
Però in quello estetico io davanti all’opera d’arte provo un
sentimento di piacere dato dall’armonia degli elementi che
compongono l’opera, che corrispondono alla mia idea di
bellezza. Invece in quello teleologico, guardando l’opera
d’arte, ugualmente non sono alla ricerca della conoscenza, ma
ho attraverso il sentimento l’impressione che le cose siano
messe nel giusto modo per raggiungere un fine, per creare un
fine che sia armonico.
Come quando guardo il cielo stellato: un astronomo avrà un
giudizio determinante. Invece io guardando rimango
meravigliata dalla sua bellezza e posso formulare i due tipi di
giudizi riflettenti:
estetico se mi piace e mi limito ad osservare e avere piacere e
dire rispetta il concetto di bellezza che ho, oppure teleologico
se colgo il fatto che sia stato creato in quel modo per un fine e
siccome l’uomo pensa sempre che ci sia qualcuno che ha
creato le cose per lui, questo fine ci conferisce una sensazione
di piacere perché vedo che tutte le cose concorrono a creare
un finale armonico, l’uomo cerca la finalità nelle cose, le cose
sono messe nel modo giusto perché il finale sia qualcosa di
bello.
Inoltre, il giudizio estetico può essere diviso in:
 Bello, è il giudizio di gusto, ciò che corrisponde alla nostra idea
di bellezza, per esempio trovo piacere guardando un’opera
perché coincide con la mia idea di bello.
 Sublime, per esempio io davanti a delle cascate proverei un
doppio sentimento: affascinato dalla bellezza e dalla forza della
natura ma allo stesso tempo intimorito perché mi sentirei
molto piccola e fragile rispetto ad essa. Quindi provo piacere,
ma anche timore. Però pur sentendomi piccola rispetto al suo
impeto, mi renderei anche conto che la natura segue sempre
quel corso in quella maniera automatica e invece noi uomini
pur così piccoli siamo elevati dalla ragione, la legge morale.
Quindi c’è il nostro essere enormemente grandi rispetto alla
natura grazie alla ragione, ma anche tanto piccoli rispetto
all’impeto della sua forza. Piacere e timore. La natura morale
dell’uomo è la cosa più grande che c’è sulla Terra. Quindi il
sublime è il sentimento dell’illimitato e distingue:
sublime matematico, che ha per oggetto la grandezza della
natura, e il sublime dinamico, che ha per oggetto la potenza
della natura.
Esiste anche un concetto di bello comune. Mentre di solito viene
sempre detto che il concetto di bello è soggettivo Kant dichiara
che ci sono alcune cose che sono riconosciute belle
universalmente da tutti. Quindi distingue il bello soggettivo
definendolo piacevole, ciò che piace a me singolarmente, (io
posso dire che qualcosa mi piace e a qualcun altro no) e al di là
del piacevole c’è un sentimento del bello comune che è un
aderire delle cose belle a dei canoni di bellezza, a quello che lui
chiama senso comune del bello che si trova in tutti. Ciò che piace
a tutti. Certe bellezze le sappiamo riconoscere tutti, per esempio
tendiamo a non apprezzare particolarmente ciò che è
sproporzionato e apprezzare invece ciò che è proporzionato.

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