Sei sulla pagina 1di 5

CRITICA DEL GIUDIZIO

Kant aveva edificato due grandi costruzioni teoriche, l’una riguardante la conoscenza,
l’altra riguardante l’attività pratica e la morale, in contrasto tra di loro. Alla fine
della Critica della ragion pratica emerge con chiarezza una forte opposizione con le
conclusioni della Critica della ragion pura.  Il tentativo di Kant nella Critica del giudizio è
proprio quello di sanare queste contraddizioni. Tale  tentativo comporta lo sforzo di
creare una nuova terminologia, il che fa della Critica del giudizio un’opera per certi versi
oscura, che si presta a varie interpretazioni, un’opera ancora aperta. Lukács, un
importante pensatore del Novecento, ha affermato che tutta l’estetica possibile per
l’umanità è contenuta nella Critica del giudizio, ma si tratterà di dipanarla nei tempi
venturi: si dovrà sempre attingere a quest’opera se si vorrà considerare i problemi della
bellezza e del finalismo della natura.
Nella Critica della ragion pura si presenta un mondo chiuso a ogni spazio di libertà: la
visione del mondo della Critica della ragion pura è meccanicistica. Il meccanicismo, già
sostenuto per esempio da Democrito e da Hobbes, è una visione del mondo secondo la
quale la natura procede per una concatenazione di cause ed effetti che non è indirizzata
a nessuno scopo. Di solito il sostantivo ‘meccanicismo’ si accoppia con l’aggettivo
‘cieco’. Il meccanicismo è cieco: la natura non ha un fine, non ha alcuno scopo, essa è
solo un gioco di cause ed effetti senza finalità. Nella Critica della ragion pura la natura
era vista in questa chiave; delle dodici categorie kantiane quella decisiva per
l’interpretazione fisica della natura è la causalità. I fenomeni sono tutti concatenati da
relazioni causali che non hanno alcuno scopo. Nella Critica della ragion pura si ritrovano
dunque il dominio della causalità, il meccanicismo, il determinismo: il cieco gioco di
cause ed effetti è necessario, non lascia nessuno spazio alla libertà. La visione kantiana
della prima Critica è deterministica: non c’è nessuna libertà. Nella prima Critica, inoltre,
Kant sosteneva che l’uomo ha un forte limite: può conoscere soltanto il fenomeno, può
conoscere solo il mondo come gli appare in quanto filtrato dalle sue stesse strutture
conoscitive: spazio, tempo, categorie e idee, ma non può assolutamente raggiungere la
realtà quale è in se stessa. La cosa in sé è inconoscibile. Il noumeno è assolutamente al
di là delle nostre possibilità di conoscenza. Il mondo è spaccato a metà: il fenomeno,
soggetto alla necessità e al determinismo, e il noumeno, che è un continente oscuro e
inattingibile. L’uomo è prigioniero della conoscenza fenomenica.
Nella Critica della ragion pratica, invece, si approda a una visione opposta rispetto a
questa, in quanto al meccanicismo della Critica della ragion pura si contrappone
il finalismo della ragion pratica (in tutta la storia della filosofia il contrario di
“meccanicismo” è “finalismo”). La Critica della ragion pratica presenta uno spiccato
finalismo: tutta la vita morale è tesa alla realizzazione del fine del bene. Nella vita
morale l’uomo si pone un fine: la virtù, il bene. Anzi, Kant aveva anche parlato di un
“regno dei fini”, cioè un regno ideale di tutti gli uomini che si rispettano
vicendevolmente, e, seguendo la seconda formula dell’imperativo, si trattano sempre
come fini e mai come mezzi. Il regno dei fini è il regno della morale: se la morale si
realizzasse pienamente sarebbe il regno della finalità: ognuno sarebbe considerato
dagli altri come un fine in sé. Il finalismo della Critica della ragion pratica è opposto al
meccanicismo della Critica della ragion pura. Soprattutto, nella Critica della ragion
pratica si presenta la libertà come uno dei tre postulati, cioè uno dei tre requisiti
fondamentali senza i quali la vita morale non può aver luogo. Siamo dunque di fronte a
questa contraddizione: da una parte Kant concepisce la natura come priva di ogni
finalità e come priva di libertà; dall’altra considera l’uomo come capace di porsi fini, e
come operante in una dimensione di libertà. Dalla Critica della ragion pratica emerge la
visione di un’umanità che vive in una dimensione che non ha niente a che vedere con
quella naturale: sembrerebbe che ci sia un’estraneità tra la natura e l’uomo, la natura
meccanicista e l’uomo dotato di finalismo. Kant si rende perfettamente conto di questa
contraddizione e cerca di sanarla nella Critica del giudizio.
La Critica del giudizio è un tentativo di rintracciare la finalità nella natura. Se si
rintraccia tale finalità l’opposizione si supera: la natura è cieca, l’uomo si dà finalità,
sono opposti, ma se ritroviamo la finalità anche nella natura la conciliazione sarà
avvenuta. Questo è appunto il tentativo che Kant compie nella Critica del giudizio. Un
altro elemento per capire dove si colloca la Critica del giudizio è questo: abbiamo detto
nella Critica della ragion pura si conosce solo il fenomeno, il noumeno è inconoscibile di
per sé, quindi l’assoluto, l’infinito, Dio, la cosa in sé, sono inconoscibili. Nella Critica
della ragion pratica Dio e l’immortalità dell’anima non vengono dimostrati, in quanto
non sono oggetto di un discorso conoscitivo, ma sono postulati attraverso i quali l’uomo
entra in contatto con il noumeno. Si palesa quindi un altro antago- nismo: nella sfera
conoscitiva l’uomo è confinato al fenomeno, nella sfera morale, invece, l’uomo attinge
il noumeno. Come si può conciliare tutto questo? È possibile una considerazione della
natura che ci faccia andare oltre la conoscenza fenomenica? Kant affronta qui un
problema enorme della storia della filosofia: esiste un’unica realtà di cui l’uomo è parte,
allo stesso titolo di tutti gli altri enti, oppure l’uomo è qualche cosa di qualitativamente
diverso dal resto della realtà? Su questo la filosofia, le religioni, sono state in continua
polemica, perché, per esempio, la religione cristiana implica che oltre al mondo
materiale c’è un mondo spirituale, che ha altre leggi, ha un’altra qualità; il platonismo
implica il mondo sensibile e il mondo delle idee; Cartesio divide la realtà tra la res
extensa, il mondo materiale, e la res cogitans, con tutti i problemi che derivano poi dal
rapporto tra questi due mondi, ecc. Kant quindi, con un linguaggio nuovo, esprime un
problema molto antico. Per risolvere questo problema egli compie un grande sforzo
teorico che comporta anche un’innovazione linguistica, che è una delle difficoltà di
questo testo. La prima innovazione è proprio nel titolo: Critica del giudizio. Bisogna
tenere presente che in tedesco il termine tradotto in italiano come “giudizio”
è Urteilskraft, una parola composta da Kraft = forza, facoltà, capacità, e Urteil =
giudizio. Il titolo andrebbe quindi più esattamente tradotto come Critica della capacità
di giudicare. Evidentemente Kant si riferisce a un’altra capacità, a un’altra facoltà
dell’uomo, oltre la ragione e la volontà. Infatti sostiene proprio questo: l’uomo non è
solo diviso tra teoria e pratica, tra conoscenza e agire morale: nell’uomo c’è anche
un’altra sfera che deve essere identificata, regolata, criticata, cioè capita nei suoi limiti,
questa sfera, grosso modo, è la sfera del sentimento, del gusto. Tale sfera egli la vede
come una facoltà da definire con un termine nuovo: la facoltà di giudicare. La facoltà di
giudicare, una facoltà intermedia che comprende il sentimento e il gusto, emette tipi di
giudizi che si chiamano giudizi riflettenti e sono tutta un’altra cosa rispetto ai giudizi
conoscitivi trattati nella prima Critica.
È opportuno riepilogare i problemi terminologici: Critica del giudizio significa
valutazione della facoltà di giudicare; i giudizi sono di due tipi: da una parte c’è il
giudizio della Critica della ragion pura, vale a dire il giudizio conoscitivo, il giudizio
sintetico a priori, che ora Kant chiama, con un nuovo termine, giudizio determinante;
poi ci sono i giudizi emessi dalla sfera del sentimento, del gusto, dalla facoltà di
giudicare, che chiama giudizi riflettenti. Kant denomina ora “giudizio determinante” il
giudizio sintetico a priori, cioè il giudizio conoscitivo emesso dall’intelletto, di cui ha
detto tutto quello che c’era da dire nella Critica della ragion pura. Perché questa
innovazione terminologica? Perché Kant sostiene che, per distinguerlo da quello
riflettente, il giudizio sintetico a priori si può chiamare “determinante” in quanto
consiste in una reciproca determinazione, delimitazione, della categoria e della cosa.
‘Determinare’ viene dal latino terminus, che significa confine, pietra di confine tra i vari
poderi, tra i vari appezzamenti di terreno. Determinare significa confinare, delimitare;
un giudizio determinante è un giudizio che restringe, cha dà limiti a qualche cosa. Che
cosa viene limitato? Prima di tutto le categorie. Se consideriamo per esempio la
categoria di causalità, essa si può applicare a infiniti fenomeni causali; nel momento in
cui dico: “A è causa di B”, sto determinando la categoria di causalità, la sto cioè
confinando, le sto ponendo limiti, applicandola a un caso specifico, particolare. Così
pure, a loro volta, gli oggetti vengono delimitati, si dà loro una caratterizzazione
specifica collegandoli attraverso la categoria di causalità. Il giudizio sintetico a priori,
illustrato nella Critica della ragion pura, è dunque determinante in quanto delimita,
determina: determina la categoria e insieme i fenomeni cui essa si applica. Il giudizio
determinante è un giudizio conoscitivo. Il giudizio riflettente, proprio della Urteilskraft,
cioè della facoltà di giudicare, invece non è un giudizio conoscitivo. La conoscenza è
stata già analizzata in maniera esaustiva nella prima Critica; bisogna tenere presente
che col giudizio riflettente ci muoviamo in un’altra sfera. Il giudizio riflettente è un
giudizio di tipo particolare e si chiama “riflettente” perché, mentre nel giudizio
determinante la categoria da applicare è già nota, nel giudizio riflettente bisogna
riflettere sull’oggetto per trovare la categoria, quindi la categoria non è già data, ma
deve essere rintracciata attraverso una riflessione. La categoria, che consiste qui in una
specifica finalità dell’oggetto, deve essere rintracciata attraverso la riflessione. Ma c’è
anche un altro motivo, per cui il giudizio è detto riflettente: in un oggetto della natura, o
in un’opera creata dall’uomo, esso ci permette di cogliere riflessa la finalità che ci
portiamo dentro di noi. Abbiamo scoperto nella Critica della ragion pratica che siamo
esseri che si danno fini, si danno il fine morale del bene; ora, nel giudizio riflettente
vediamo riflesso questo nostro finalismo all’interno di certi tipi di oggetti della realtà.
Questi tipi di oggetti sono gli oggetti belli da una parte, e gli organismi viventi dall’altra.
Il giudizio riflettente mi porterà a vedere riflessa la mia esigenza di finalismo negli
oggetti belli e negli organismi viventi, esso si dividerà in due sottotipi: il
giudizio estetico e il giudizio teleologico.
Il giudizio estetico permette di ritrovare una finalità negli oggetti belli, fa ritrovare al
soggetto riflessa negli oggetti belli l’esigenza di finalismo, nel senso che gli oggetti belli
sembrano essere fatti al fine di suscitare emozioni estetiche, di suscitare un senso di
armonia in chi li contempla, quindi danno l’impressione di avere una finalità rivolta
verso chi fruisce dell’opera d’arte, chi fruisce della bellezza, cioé verso l’osservatore, il
soggetto. Per questo Kant dice che i giudizi estetici sono giudizi riflettenti di finalità
soggettiva, in cui cioè la finalità sembra essere rivolta al soggetto; i giudizi teleologici,
invece, sono giudizi che si riferiscono alla considerazione degli organismi viventi. Questi
ultimi sembrano essere fatti in modo che le parti siano finalizzate al tutto: un organo di
un organismo vivente, sia esso una pianta, un animale o un essere umano, non ha
senso se non in vista del fine della vita dell’organismo nella sua interezza: il braccio, la
mano, il fegato, le radici, le foglie, non hanno senso di per se stessi, ma solo in quanto
servono al fine di mantenere in vita un determinato organismo vivente. In questo caso
il finalismo è rivolto all’oggetto, all’organismo, per cui Kant dice che i giudizi teleologici,
cioè i giudizi finalistici, sono giudizi riflettenti di finalità oggettiva, cioè interna
all’oggetto stesso.

A questo punto va sottolineata l’attenzione che Kant rivolge al mondo biologico. La


filosofia del Seicento e del Settecento è stata dominata dalla fisica galileiana e
newtoniana; i problemi di metodo che si sono posti i filosofi del Seicento e del
Settecento erano stati suscitati prevalentemente dalla fisica. Il fiorire della biologia a
fine Settecento e poi il suo sviluppo nell’Ottocento mostrano alla riflessione filosofica
che c’è un mondo molto più complesso di quello fisico, il mondo del vivente, in cui il
meccanicismo non spiega tutto. Nel corso dell’Ottocento si arriverà all’evoluzionismo di
Darwin, a una filosofia che coincide con una biologia, ma Kant è il primo a porsi con
chiarezza il problema del vivente: l’organismo vivente scompagina la visione
meccanicistica che ci è venuta dal Seicento, dal Settecento, da Galileo e da Newton, in
quanto nell’organismo vivente non funzionano solo le leggi fisiche implicanti un
rapporto di esteriorità fra le parti. Le leggi della fisica considerano parti di materia,
corpi che agiscono su altri corpi dall’esterno, dando luogo a tantissimi fenomeni:
gravità, accelerazione, attrito, dinamica dei fluidi, incidenza dei raggi luminosi, ecc., ma
sono tutti eventi che riguardano esteriorità che si pongono in relazione con altre
esteriorità, oggetti che sono reciprocamente esterni, le cui dinamiche sono
interpretabili in base al meccanicismo. Nella sfera biologica invece il meccanicismo  non
spiega i fenomeni in maniera adeguata, perché in un organismo il rapporto delle parti
col tutto non è un rapporto di esteriorità, bensí di implicazione reciproca e di relazione
col tutto. Per fare un esempio molto banale, un organo divelto da un organismo vivente
(un ramo staccato da un albero, un petalo staccato da un fiore) non ha una sua
consistenza autonoma: esso ha vero significato solo all’interno del tutto. Nella biologia
il concetto di totalità organica, di cui la parte è semplicemente parte, è decisivo; in
biologia il tutto precede le parti, nella fisica invece le parti possono essere autonome.
Negli altri campi delle scienze le parti non sono “parti”, sono elementi, stanno per
conto loro, e quindi si potranno sommare tra di loro e sommandosi daranno luogo al
tutto, invece in biologia il tutto precede le parti, in quanto logicamente la parte è
subordinata al tutto e non si può svellere dal tutto mantenendo ugualmente la sua
funzione. Pertanto in questa sfera il meccanicismo, la reciproca esteriorità, la
prevalenza della parte sul tutto non spiegano i fenomeni, e soprattutto – fatto che ci
interessa per lo sviluppo della filosofia romantica – si rivela inadeguata la mentalità
propria della fisica (dominante anche nella Critica della ragion pura) per cui c’è causa
ed effetto, una esterna all’altro, e il mondo è fatto di tante cause e tanti effetti, cioè  di
tanti frammenti, che poi possono essere ravvicinati tra di loro fino a formare somme e
totalità, ma in effetti hanno dimensione autonoma; nella biologia, invece, le parti non
possono essere viste come indipendenti: il tutto predomina sulle parti, e questa sarà
una prospettiva decisiva per l’idealismo.

Potrebbero piacerti anche