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Ne consegue che lo dobbiamo considerare un fatto “interno” alla
ragione. Il che ci porta vicino alla considerazione della
intelligibilità del mondo noumenico, opposto al sensibile e aperto
alla nostra considerazione dall’uso pratico della ragione.
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c) Ragion pratica e intenzione morale
La ragione pratica guida l’agire, pr{attein, contrapposto al
Jewre^in. Aristotelicamente sarebbe la fr{onhsij. Qui si misura la
differenza. La saggezza pratica è pratica appunto perché si rivolge
a quella dimensione sensibile, che senza guida della razionalità
andrebbe alla deriva, da cui il giusto mezzo. Quindi è una ragione
appunto prudenziale, direbbe Kant. L’altra virtù, la sof{ia, non ha
bisogno di guidare niente, perché non si rivolge alla sensibilità,
che è già determinata dalla saggezza. Il punto è che nessuna virtù
propriamente costituisce un movente alla volontà, la quale è in
realtà mossa dal desiderio, che deve semmai essere educato.
Per Kant il discorso si struttura in modo diverso. Contano le
intenzioni, dunque ancora l’interiorità dell’uomo, la sua
dimensione noumenica. Proprio per questo, rispetto Aristotele, il
calcolo razionale e con esso il successo dell’azione che riesce a
porsi nel giusto mezzo non ha valore morale, ovvero non interessa
la libertà della volontà e la determinazione dell’uomo noumenico.
quando si entra nell’azione concreta siamo in territorio
fenomenico. Quindi l’intenzione riguarda la ragion pura pratica,
vale a dire l’origine da cui si impone il fatto della legge morale.
L’azione concreta è interessata dalla prudenza, e qui si pone il
calcolo razionale, che procede a valutare inclinazioni e sacrificarle
in relazione agli interessi che si vogliono soddisfare. Qui cade il
discorso aristotelico in merito alla felicità, per cui l’ordine degli
interessi è definito dal loro riferirsi più o meno direttamente alla
felicità come scopo empirico “di tutti”, ma non universale, perché
ognuno ha la sua. Ecco perché Aristotele poneva il giusto mezzo,
non potendo determinare a priori le situazioni, bisogna calcolare
volta per volta. Anche qui Kant si differenzia. Ciò che va messo in
rilievo è il valore della ragione, la capacità della ragione di essere
in senso forte facoltà di principi. Questo significa ancora il
riferimento alla dimensione noumenica, per cui la situazione
empirica in cui si trova l’agente non conta rispetto all’efficacia del
calcolo, ovvero alla valorizzazione della natura razionale
dell’agire, sebbene subordinata agli interessi specifici che ognuno
vuole conseguire, compendiati nelle massime. Sono questi interessi
specifici che costituiscono il movente sensibile della nostra
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volontà, laddove intendiamo movente nel senso più ampio del
termine, come motivo fondamentale determinante,
Grundbestimmung, del soggetto. Non è cioè più importante il
contesto dell’azione, ma nemmeno il carattere intelligibile del
soggetto puramente intenzionale, quanto piuttosto la possibilità
che una determinata inclinazione possa determinare la volontà a tal
punto da farle seguire una ragione attivata solo alla luce di un
movente che non potrà mai, per se stesso, diventare universale.
Nella dimensione intelligibile la ragione è incondizionata ma
efficace solo in chiave pratica, e lo è a tal punto da risolvere tutte
le idee della ragione speculativa, ma senza ampliare quest’ultima.