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I.

LA FILOSOFIA PRATICA E IL PROBLEMA DELLA LIBERTÀ

§ 1. Genesi del problema morale

Questione del Canone della ragion pura. Impossibilità, in quel


testo, di pensare una morale autonoma, e quindi sua
subordinazione alla speranza nella vita ultraterrena. Nel 1785
fondazione metafisica dei costumi, e prima parte del problema
morale, che è costituito appunto dalla scoperta della dimensione
dell’autonomia della volontà, che equivale all’autonomia
dell’etica. Il problema, che sarà chiamata a risolvere la seconda
critica, sta nello spiegare come sia possibile che la sensibilità si
sottometta al motivo determinante dell’azione costituito dalla
ragione.

Quindi ci sono due distinte questioni. Da una parte, trovare il


fondamento dell’autonomia etica, che è la libertà. Il che significa
anche determinare se l’agire dell’uomo si ponga su di un piano
distinto da quello della natura. Dall’altra parte, spiegare proprio
come avvenga il rapporto tra queste due dimensioni, ovvero
sensibilità e intelletto, libertà e necessità.

a) Il problema della formulazione della legge morale


Tra i due testi differenza nella formulazione legge morale.
fondazione = tre forme, ma le ultime due difficili da coordinare
con l’autonomia della volontà, cioè con la sua non dipendenza
dalla dimensione empirica.
In questo senso, nella II critica, la legge morale diventa un fatto
della ragione, quindi senza bisogno di una deduzione.

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Ne consegue che lo dobbiamo considerare un fatto “interno” alla
ragione. Il che ci porta vicino alla considerazione della
intelligibilità del mondo noumenico, opposto al sensibile e aperto
alla nostra considerazione dall’uso pratico della ragione.

In effetti, la nuova dimensione della ragion pratica apre lo spazio


del recupero della dimensione metafisico-religiosa che la dialettica
aveva precluso. Le prove di Dio e anima sono prove
eminentemente morali, esigenziali. Quindi appare lo scopo
ulteriore della fondatività pratica della ragione, ovvero
l’istituzione di una “fede razionale”, che salvi l’esigenza
dell’uomo verso un’apertura oltresensibile con il rigore della
ragione, cioè una religione entro il limite della ragione.
Dobbiamo dunque dire che la religione è bene fondata sulla
ragione, quindi sulla soggettività? Ma allora cosa posso sperare, se
non in ultimo su me stesso, vale a dire sulla chiarezza e
trasparenza autoreferenziale della ragione in sé.

b) La questione della libertà


Altro aspetto è quello della libertà, toccato nella terza antinomia
ragion pura. Non posso conoscere cos’è la libertà, ma posso
pensarla, quindi rientra nella possibilità del mio intelletto. In
effetti Kant attribuisce la libertà alla dimensione intelligibile
dell’uomo, facendo così dell’uomo una duplicità, in cui alla
dimensione fenomenica si sovrappone quella noumenica. Le
critiche mosse dicono che così si attribuisce la categoria di
sostanza e di causalità alla cosa in sé. Il che è vero. Kant oppone
che altro è sapere cosa sia la libertà, altro è decidere se spetti
all’uomo. All’uomo spetta in quanto dedotta dalla legge morale,
che è appunto un factum della ragione.

Il che presuppone la distinzione tra legge morale e libertà.


ripropone il perché la libertà dovrebbe volgersi alla legge. La
libertà non so cos’è, quindi non potrei nemmeno dire se il movente
ha efficacia su di essa, se non dopo che ho agito, ma a quel punto
siamo passati dal noumeno al fenomeno, e della libertà non più
traccia.

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c) Ragion pratica e intenzione morale
La ragione pratica guida l’agire, pr{attein, contrapposto al
Jewre^in. Aristotelicamente sarebbe la fr{onhsij. Qui si misura la
differenza. La saggezza pratica è pratica appunto perché si rivolge
a quella dimensione sensibile, che senza guida della razionalità
andrebbe alla deriva, da cui il giusto mezzo. Quindi è una ragione
appunto prudenziale, direbbe Kant. L’altra virtù, la sof{ia, non ha
bisogno di guidare niente, perché non si rivolge alla sensibilità,
che è già determinata dalla saggezza. Il punto è che nessuna virtù
propriamente costituisce un movente alla volontà, la quale è in
realtà mossa dal desiderio, che deve semmai essere educato.
Per Kant il discorso si struttura in modo diverso. Contano le
intenzioni, dunque ancora l’interiorità dell’uomo, la sua
dimensione noumenica. Proprio per questo, rispetto Aristotele, il
calcolo razionale e con esso il successo dell’azione che riesce a
porsi nel giusto mezzo non ha valore morale, ovvero non interessa
la libertà della volontà e la determinazione dell’uomo noumenico.
quando si entra nell’azione concreta siamo in territorio
fenomenico. Quindi l’intenzione riguarda la ragion pura pratica,
vale a dire l’origine da cui si impone il fatto della legge morale.
L’azione concreta è interessata dalla prudenza, e qui si pone il
calcolo razionale, che procede a valutare inclinazioni e sacrificarle
in relazione agli interessi che si vogliono soddisfare. Qui cade il
discorso aristotelico in merito alla felicità, per cui l’ordine degli
interessi è definito dal loro riferirsi più o meno direttamente alla
felicità come scopo empirico “di tutti”, ma non universale, perché
ognuno ha la sua. Ecco perché Aristotele poneva il giusto mezzo,
non potendo determinare a priori le situazioni, bisogna calcolare
volta per volta. Anche qui Kant si differenzia. Ciò che va messo in
rilievo è il valore della ragione, la capacità della ragione di essere
in senso forte facoltà di principi. Questo significa ancora il
riferimento alla dimensione noumenica, per cui la situazione
empirica in cui si trova l’agente non conta rispetto all’efficacia del
calcolo, ovvero alla valorizzazione della natura razionale
dell’agire, sebbene subordinata agli interessi specifici che ognuno
vuole conseguire, compendiati nelle massime. Sono questi interessi
specifici che costituiscono il movente sensibile della nostra

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volontà, laddove intendiamo movente nel senso più ampio del
termine, come motivo fondamentale determinante,
Grundbestimmung, del soggetto. Non è cioè più importante il
contesto dell’azione, ma nemmeno il carattere intelligibile del
soggetto puramente intenzionale, quanto piuttosto la possibilità
che una determinata inclinazione possa determinare la volontà a tal
punto da farle seguire una ragione attivata solo alla luce di un
movente che non potrà mai, per se stesso, diventare universale.
Nella dimensione intelligibile la ragione è incondizionata ma
efficace solo in chiave pratica, e lo è a tal punto da risolvere tutte
le idee della ragione speculativa, ma senza ampliare quest’ultima.

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