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FILOSOFIA CONTEMPORANEA

10/10/2011
Kant si poneva quattro domande, di cui la quarta riassumeva le precedenti, ovvero cosa è
l’uomo. Con le tre precedenti domande si chiedeva:
1) Cosa posso sapere ovvero conoscere
2) Cosa debbo fare
3) Cosa posso sperare.
Kant fa la critica della ragion pura, della ragion pratica e del giudizio. Si interroga in modo
critico su cosa posso realmente conoscere, sapere. Kant pone dei limiti alla conoscenza nel
senso di definire i confini dell’isola che è in mezzo al mare, cioè contornata da un’altra realtà.
Kant definiva i limiti dell’isola per dire che l’uomo può conoscere solo quello che c’è dentro
all’isola: i limiti della conoscenza, il trascendentale, le categorie, la conoscenza del fenomeno.
Kant rispecchia il bisogno di ordine, coerenza, definisce il fenomeno dentro categorie che gli
danno ordine e consentono la comunicabilità universale, attraverso, appunto, le categorie
universali.
Fuori da questi limiti non si può conoscere altro perché non ci sono strumenti adeguati.
Distingueva fra fenomeno e noumeno. Il noumeno nel linguaggio lessicale è il pensabile.
Distingueva, quindi, fra conoscere, ovvero tutto ciò che è dentro l’isola, e la conoscenza
sperimentale, cioè la conoscenza scientifica. Kant dava la giustificazione della conoscenza
fattuale dicendo che la cosa è così non perché la conosciamo veramente in sé ma perché c’è
una struttura della mente unica per tutti. La conoscenza ha bisogno di due cose: il fenomeno e
strutture mentali uguali per tutti che mi danno la possibilità di avere una conoscenza oggettiva,
necessaria e universale.
Questa è la conoscenza scientifica, al di fuori di questo campo noi non possiamo conoscere
altro ma possiamo pensare ad altro. La conoscenza è limitata dai fatti, se non ci sono i fatti, i
dati, ovvero il fenomeno, non posso fare affermazioni di tipo presenzialista. Dio non è un fatto
empirico, per cui non posso parlarne, cioè conoscerlo.
Tuttavia c’è un’altra via umana, cioè che appartiene all’uomo: l’uomo porta dentro di sé una
legge morale, della libertà, che gli apre orizzonti illimitati. L’uomo ha una struttura di fondo, al
sua libertà, che crea il fatto morale, è l’agire morale. Dunque per via etica Kant recupera il
mondo dell’inconoscibile. Fonda l’io, il mondo come insieme di aspirazioni e soprattutto l’attesa
di Dio. Dio diventa un’esigenza etica fondamentale. Per via della libertà Kant fonda
l’inconoscibile, il noumeno.
L’uomo è colui che è capace di creare se stesso a partire da se stesso, partendo dalla sua
libertà e si trova nella condizione di proiettarsi nell’ulteriore, nella trascendenza in Dio.
L’uomo attraverso l’agire morale fonda la metafisica e non viceversa, così come era nella
tradizione classica. Si verifica un capovolgimento.
Partendo dalla struttura della ragione umana, Kant fonda la trascendenza che non è
conosciuta ma desiderata, amata e dunque ricercata ma per via etica e dunque è sperata.
Infatti la terza domanda che Kant si pone è cosa posso sperare.
L’uomo conosce solo quello che è legato al dato empirico, nega la metafisica come
conoscenza in sé e per sé. L’infinito è desiderato ma non si arriva a catturarlo. L’unico modo di
catturare l’infinito è la via etica.
Fichte supera Kant assumendone la forza della libertà. Per Fichte l’uomo è essenzialmente
libertà (l’io che pone il non io ecc.), l’uomo è l’essere che non è determinato dalle cose ma è
l’essere che dà senso e significato alle cose attraverso la sua volontà e libertà che lo
proiettano verso l’infinito. L’uomo è l’essere che riesce ad avere contatto con l’infinito con uno
sforzo e tensione continua all’infinito.
Shelling, successivamente, dice che l’infinito è comprensibile dall’uomo perché è la sua natura
più profonda. Per Shelling l’infinito abbraccia tutto, anche la natura e non solo l’io così come
riteneva Fichte secondo cui il sapere viene dall’io. Per Shelling invece la natura è essa stessa
infinito. Dice Shelling che non esiste l’io e il non io ma esiste un unico io, tutto è soggettività
anche la natura che non è una massa inerte. Per Shelling l’unità non è colta né dall’intelletto
umano, come intelletto kantiano, né dalla volontà umana, ovvero la soggettività libera di
Fichte, ma è colta attraverso l’intuizione estetica, l’arte, come il luogo della conoscenza per
eccellenza dell’uomo.; coglie l’essere nella sua radice che è l’unità e totalità al tempo stesso.
Non è più il mondo del fenomeno e del noumeno, dell’io e del non io, ma è il mondo di un
unico essere vivente. C’è una natura unica in sé che si può cogliere attraverso l’intuizione
estetica.
Hegel si colloca alla confluenza di due grandi fiumi:illuminismo e romanticismo. L’illuminismo è
portatore dell’acqua della scienza, la scienza dei fatti, mentre il romanticismo porta l’acqua
dell’infinito, della trascendenza, della totalità. Hegel ne fa una sintesi originale.
Le tre posizioni del pensiero rispetto alla realtà: 1) intellettuale; 2) dialettica; 3) speculativa.
Kant aveva distinto intelletto (critica della ragion pura) e ragione. L’intelletto è la vera
conoscenza, la ragione è portatrice solo della dialettica che in Kant ha una connotazione
negativa perché porta all’illusione trascendentale. Per Kant l’unica conoscenza è la scienza
mentre la filosofia non è conoscenza. Rimane solo la via etica che dà una proiezione ulteriore.

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Hegel riprende questo modello, parla di una facoltà intellettiva, di una facoltà dialettica in
senso oppositivo e di una speculativa, come capacità di fare sintesi. Per Hegel la vera
conoscenza è quella che è sintesi delle due facoltà dell’uomo.
La ragione in senso specifico mette insieme due elementi:dialettico e speculativo; è facoltà
dialettico-speculativa.
Kant diceva:chi conosce è soltanto l’intelletto mentre la ragione che si proietta oltre è solo
dialettica illusoria. Hegel invece dice che quello dell’intelletto è un primo passo ma un passo
limitato, perché è una conoscenza astratta. La prima è la modalità astratta o intellettuale. La
modalità dialettica, invece, è anche detta negativo-razionale; la terza modalità è quella
speculativa o positiva-razionale.
Per hegel l’intelletto produce solo astrazione. Eppure si potrebbe obiettare che l’intelletto è
facoltà propria della scienza che è supportata dai fatti.. Dunque la scienza è astrazione nel
senso di modalità di pensiero che separa, coglie solo le determinazioni, divide e non allarga
all’orizzonte. Astrazione è cogliere un un soggetto, un oggetto, dal contesto generale; la
scienza dunque separa gli oggetti dall’insieme dell’essere. Allora è importante che le nostre
conoscenze che ci dà la scienza, vengano messe a confronto fra di loro e nel loro insieme,
negate nella loro particolarità e inserite in un contesto più ampio. Va negata la determinazione
particolare per cogliere nella dialettica, il primo ad aver usato la dialettica in senso hegeliano è
Platone: da idea ad idea si risale al sommo bene. Le idee vengono messe in relazione fra di
loro. Per Hegel quando si legano le idee l’una all’altra c’è un’opposizione dell’una all’altra e in
questo Hegel è più vicino ad Eraclito che parla del panta rei (tutto scorre) come logica degli
opposti: caldo-freddo ecc. in Platone, invece, non c’è opposizione perché le idee si
compenetrano l’una nell’altra, perché poi discendono tutte dalla stessa idea del bene.
Per Hegel la dialettica è negativa perché sono termini l’uno diverso dall’altro, sono elementi
opposti. Il pensiero dialettico è quello che toglie dall’astrazione l’oggetto che viene messo a
confronto con altri in un orizzonte più ampio, il terzo aspetto è la sintesi, è il pensiero
speculativo che rimette insieme le tante determinazioni individuate dal pensiero dialettico,
devono essere messe insieme, colte nella loro completezza.
La conoscenza per Hegel non è mai completa, è un processo in divenire. Ci sono due
categorie. Prima categoria: concetto concreto. Seconda categoria: lo sforzo del concetto.
Stiamo trattando il tema: che cosa è la verità per Hegel. È il concetto concreto. La verità si
raggiunge attraverso lo sforzo del concetto.
Il concetto concreto è la sintesi dei diversi momenti del processo conoscitivo, è il momento
speculativo. La verità è l’intiero, la totalità, l’insieme. Il concetto concreto è cumcrescere, è

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cogliere le cose nell’insieme delle relazioni. Per hegel astratto è qualcosa di separato
dall’insieme e concreto qualcosa da vedere nella totalità delle relazioni.
Per sforzo del concetto si intende il superamento di un pensiero analitico, cioè quello
scientifico. Il superamento non è ll’esclusione. C’è bisogno di analisi per conoscere diversi
elementi e non possiamo accontentarci di semplici intuizioni (estetica-Shelling). Non basta la
tensione interiore verso l’infinito ma ci vuole uno sforzo necessario, del concetto, per entrare
nelle varie determinazioni dell’essere e metterle insieme. Nell’introduzione di una delle prime
opere, “La fenomenologia dello spirito”, Hegel considera la filosofia illuministica, ritenuta arida
perché astratta, e poi quella del romanticismo, in cui ci si accontenta dell’intuizione che può
essere mistica, estetica o etica.
Invece c’è bisogno dell’analisi ma poi è necessario fare sintesi, mettere in relazione.
Nell’”Enciclopedia delle scienze filosofiche”, Hegel dice che aufben da una parte significa
togliere, negare e in questo senso dice che una legge è soppressa, superata; dall’altra parte il
termine significa anche conservare, nel senso che qualcosa è ben conservato.
Questa ambivalenza linguistica, per cui il termine ha sia un senso positivo che negativo, non è
casuale, vi si deve riconoscere lo spirito speculativo (la sintesi) della lingua tedesca.
L’aufben come superamento è la capacità di mettere in tensione e in comunicazione queste
due cose molto diverse far di loro.
11/10/2011
Concetto concreto viene da cumcrescere. Genericamente si intende verità, idea o categoria.
Nel pensiero di Hegel è la sintesi, il risultato di un processo, di un movimento che mette
insieme realtà diverse, opposte, che entrano in una sintesi che è raccolta nel concetto
concreto.
Gli elementi di questo processo che porta al concetto concreto sono lo sviluppo stesso del
concetto che passa attraverso il momento intellettuale o analitico o astratto. Poi passa
attraverso il momento dialettico in cui si mette in relazione (dialogo) con un concetto diverso
con cui entra in conflitto, nel senso che l’uno richiama l’altro e non lo esclude, et/et e non
aut/aut. Il momento dialettico mette a confronto i vari elementi fra di loro e li tiene uniti in un
legale che fa si che pervengano ad una sintesi, una composizione che è il concetto concreto.
I momento del processo sono anche detti tesi - antitesi – sintesi.
Il momento intellettuale è l’analisi. L’intelletto è distinto dalla ragione perché corre il rischio di
irrigidire nella separatezza l’oggetto della sua analisi; questo è il limite della scienza che per
Hegel è astratta perché separa, isola. Momento è da movere, quindi è movimento, fa parte di
un movimento.

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Allora la tesi è un momento che trova la sua verità nel mettersi in relazione con altri momenti
che sono diversi da sé ma entra in tensione dialettica.
Questa tensione fa si che i due momenti che si sono incontrati non si elidono a vicenda ma si
compongono. È una sintesi che non è una sommatoria, è l’entrare l’uno nell’altro in modo tale
che ognuno scompare ma rimane come elemento che ha costituito il nuovo elemento, cioè la
sintesi.
È il concetto di Aufbung, è togliere, superare ma anche includere perché i precedenti momenti
si sono fusi gli uni con gli altri costituendo una nuova realtà.
Ho insistito sulla parola momento e movimento per una ragione. La verità è la sintesi ma è
anche nei singoli momenti perché ogni momento è il risultato di un precedente cammino ma è
anche momento di un cammino che doveva venire, ogni momento è verità a condizione che
sia un momento di un processo. Se viene isolato, se si astrae da questi processi, se esce da
questi movimenti perde la sua verità. Ma in realtà non si può uscire da questi movimenti.
I momenti sono sempre inseriti nel processo. Il sistema hegeliano è il sistema della libertà o
della necessità. Non dimentichiamo che dietro il pensiero hegeliano c’è la sostanza unica di
Spinoza, cioè un meccanismo la cui legge è la matematica, c’è un movimento necessario.
Se raggiungi la logica del movimento raggiungi la tua massima libertà. Spinoza parla dell’amor
dei intellectualis che vuol dire che io entro in una realtà, mi ci identifico talmente come
nell’amore, c’è una fusione. Io gioisco o piango con la natura perché ne seguo i ritmi.
In Hegel abbiamo questo stesso sistema in cui la massima necessità diventa massima libertà.
Se sei espulso dal sistema perdi al tua libertà. La verità è nella sintensi, cioè nel concetto
concreto ma la sintesi è il risultato di un movimento. La verità è movimento, non è un punto
fisso. Non esistono verità assolute, immutabili, eterne, in questa ottica. La verità è nella storia,
dentro il movimento della storia.
C’è chi dice che la filosofia di Hegel è una teologia cristiana razionalizzata, addirittura sarebbe
la più alta apologia del cristianesimo. C’è un concetto illuminista, la religione nei limiti della
ragione (Kant, Locke,Hume).
Nelle “Lezioni sulla filosofia della religione” (appunti degli studenti), parla del cristianesimo
come la religione per eccellenza, in quanto compiuta.
Ma Hegel è l’apologeta del cristianesimo o il suo affossatore?
Nel post-hegelismo, dal suo pensiero nascono due scuole: la sinistra e la destra hegeliana. La
destra hegeliana diceva che Hegel è l’apologeta del cristianesimo dimostrando che tale
religione è perfettamente coerente con l’umano, con la ragione.

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La sua filosofia è una traduzione razionale del cristianesimo, di dogmi cristiani, ma in questo
modo diventa una religione senza mistero. Quindi la filosofia di Hegel non è una protezione ma
uno svuotamento razionalistico del cristianesimo.
Invece la sinistra hegeliana dice che la filosofia di Hegel è una liquidazione della religione
sostituita dalla filosofia. Nella prospettiva hegeliana non è altro che un inveramento, perché è
la sintesi che ingloba ma liquida.
Dice Bonheffer, pastore luterano, che ”l’idealisno è il massimo tentativo operato dalla ragione
umana di mettersi al posto di Dio”. Dio si è incarnato nella ragione di Hegel.
Il concetto è che nella storia (dell’uomo, della natura ecc.) in realtà è Dio che è in movimento.
Hegel lo chiama lo Spirito che appunto è Dio, che è immanente al tutto. Allora ha ragione la
sinistra hegeliana secondo cui Hegel in realtà liquida il cristianesimo, perché il cristianesimo
non è immanentismo.
Ogni singolo momento è al tempo stesso vero e falso. È vero se rimane interno al movimento
e si compone poi nella sintesi. È falso se si dissocia dal movimento, se si astrae.
In Hegel non esiste, in realtà, né vero né falso, questi concetti fondamentali scompaiono.
Facendo un esempio storico potremmo dire che il potere assoluto è la tesi, poi è venuta la
rivelazione liberale come antitesi, al sintesi è il nazismo. Il nazismo all’interno del movimento è
né vero né falso, 2èsemplicemente”. Dire che è semplicemente vuol dire che c’è perfetta
coincidenza fra realtà e razionalità. È razionale l’assolutismo, è razionale il liberalismo, è
razionale il nazismo.
Quindi ogni momento, dal momento che è reale è anche razionale. Le categorie vero e falso in
Hegel saltano, c’è soltanto la realtà. Allora da qui lo storicismo assoluto: la storia è puramente
autoreferenziale. È il movimento di Dio incarnato. Quindi il nazismo è solo la sintesi di
precedenti movimenti.
Siamo arrivati al terzo punto, al senso della storia. Nelle “Lezioni di filosofia della storia” Hegel
usa due categorie: il Folkgeist (lo spirito di un popolo) e il Weltgeist (lo spirito del mondo).
Il Folkgeist è l’identità nazionale di un popolo, la sintesi di tutti gli elementi che costituiscono la
società. Questi elementi sono gli individui che entrano in relazione nella famiglia da cui poi
viene la società civile che a sua volta è l’insieme delle articolazioni delle professioni e delle
famiglie. La società civile a sua volta trova la sua sintesi nell’organizzazione politica, lo stato.
FAMIGLIA SOCIETA’ CIVILE STATO
tesi antitesi sintesi
Lo stato è l’autorità politica che si esprime nella sua costituzione. È Folkgeist. Lo stato è la
sintesi omnicomprensiva di tutte le relazioni degli uomini.

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12/10/2011

Ripartiamo dall’immagine del cavallo bianco di Napoleone. Hegel aveva la capacità di evocare
immagini dense di significato.
Nella Fenomenologia dello spirito abbiamo una storia romanzata dello spirito, della razionalità
in se stessa, di Dio inteso come realtà nel suo insieme, totalità omnicomprensiva.
Allora la Fenomenologia dello spirito è la storia di come viene a consapevolezza, lungo il
tempo, la realtà dello spirito. Venire a consapevolezza è assumere coscienza.
Per Hegel lo spirito è l’umanità perché Dio diventa se stesso nell’umanità: l’umanità è la quinta
essenza dello spirito e quindi di Dio. In Napoleone l’umanità ha raggiunto il suo vertice, ha
preso piena consapevolezza di sé, secondo Hegel. Storia romanzata dello spirito è come
l’umanità ha preso coscienza di sé, di essere l’espressione alta dello spirito, cioè di Dio. In
quest’opera ci sono delle figura che non sono fredde categorie.
Le figure sono modalità proprie della coscienza umana nelle quali Hegel indica il suo modo di
prendere consapevolezza di sé.
Nella storia del pensiero filosofico ci sono due figure principali di come lo spirito prende
consapevolezza di sé: quella del servo-padrone e quella della coscienza infelice.
La prima è una delle categorie su cui ha molto lavorato Marx; la seconda verrà enfatizzata da
una linea di pensiero, l’esistenzialismo, che non ha nulla a che fare con Hegel, in cui la
coscienza infelice diventa paradigma dell’uomo alienato, diviso, frantumato in sè.
Prima figura del servo-padrone: sono due figure che si scambiano. Dice Hegel che ogni uomo
ha bisogno di essere riconosciuto, lo spirito vuole essere riconosciuto. Essere riconosciuto
significa che qualcun altro ti dà credito. È il servo che accredita il padrone e quindi, in realtà, è
il servo che è vero padrone consentendo al padrone di essere tale. Dice Marx:”proletari nel
mondo unitevi e ribellatevi perché sappiate che in realtà i padroni dell’economia siete voi che
producete. Dunque prendete coscienza che siete padroni”.
Ogni uomo ha bisogno di essere riconosciuto come tale e chi riconosce l’uomo è un altro
uomo. Noi diventiamo e siamo nella misura in cui siamo accolti e riconosciuti dagli altri. Noi
tutti abbiamo bisogno dell’alterità. Ma dice Hegel che in questa dinamica del riconoscimento
c’è chi ha più tensione interiore. Ci sono uomini che riescono a manifestare il proprio essere
con maggiore forza. Accade che chi ha più tensione interiore è dominante mentre chi ne ha
meno si mette al servizio di un padrone perché gli dà un’opportunità di essere. La modalità
attraverso cui il servo riceve il riconoscimento di se stesso è il lavoro. Con Hegel si dice che

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nasce la prima filosofia del lavoro. Il lavoro è non solo un’opportunità ma è anche al natura,
l’essenza che fa dell’uomo un uomo.
Anche il servo ha una dignità perché è un uomo e la modalità per essere riconosciuto è il
lavoro.
Questo pensiero viene condiviso e utilizzato da Marx. Il lavoro è ciò che costituisce la dignità
dell’uomo. Attraverso il lavoro si esprime il desiderio di affermazione che ogni uomo ha.
La figura del servo-padrone è una modalità con cui lo spirito cerca di affermare se stesso,
come padrone o attraverso al sua servitù, ma in realtà la servitù rende il servo padrone del suo
padrone.
La coscienza infelice è una categoria religiosa per Hegel, tipica della religione ebraica, che
mantiene la separazione fra l’uomo e Dio; l’uomo desidera Dio ma se lo rappresenta coma
altro da sé, lo vive come una realtà che rimane irraggiungibile; in questo senso è coscienza
infelice perché pur desiderando Dio resta però al di fuori di Dio. Per Hegel invece la vera
coscienza è quella in cui tu prendi coscienza che sei Dio, perché l’umanità è Dio. La
coscienza infelice, invece, è una coscienza separata, alienata, sempre fuori di sé e non rimane
in se stessa, su questa categoria ci lavorerà Feuerbach e sarà ripresa dall’esistenzialismo per
sottolineare la condizione di infelicità dell’uomo che è un essere alienato dalle cose, nei
sistemi.
L’uomo è lo spirito che prende coscienza di sé attraverso diverse tappe (e questa è la
Fenomenologia dello spirito) ma la coscienza piena che l’uomo deve avere di se stesso è
quella di sentirsi identificato con lo spirito in quanto tale. Lungo la storia passa attraverso
momenti diversi ma il suo compito è prendere coscienza di sé come lo spirito, come Dio.
L’uomo inteso come assoluto non è il singolo uomo. L’uomo si riconosce nell’unità collettiva di
cui lo stato è l’incarnazione. La figura di Napoleone rappresenta l’unità dello stato, ma nella
misura in cui questo stato (lo stato francese) assoggetta tutti gli altri (imperialismo
napoleonico) il Folkgeist dello stato francese diventa Weltgeist, lo spirito del mondo. Lo spirito
di un popolo, che poi diventa lo spirito del mondo, era rappresentato da Napoleone.
Napoleone diventa la figura in cui l’umanità trova la sua espressione più alta e consapevole.
Nella filosofia della storia si parla della figura degli individui-eroi o cosmico-storici. Sono
individui come Napoleone.
Eroi vuol dire che sono la rappresentanza di in popolo ma nella misura in cui questo popolo
diventa dominatore degli altri popoli, l’individuo-eroe diventa cosmico-storico perché
rappresenta il Weltgeist.

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In realtà, l’individuo cosmico-storico è un burattino nelle mani della ragione. La ragione è furba,
perché ti fa credere che sei tu il grande eroe invece sei uno strumento nelle mani della
ragione.
Dice Hegel che non si fanno grandi cose senza grandi passioni che possono essere anche
l’orgoglio e la vanità. L’astuzia della ragione si avvale delle grandi passioni come strumenti.
L’individuo-eroe o cosmico-storico, al tempo di Hegel è incarnato da Napoleone, della cui
passione si avvale la ragione astuta.
Ci sono tre termini legati alla visione della storia che ha Hegel: storicismo, provvidenzialismo e
pantragicismo.
Storicismo .vuol dire che la vita è movimento, storia, manifestazione dello spirito, è tutto in
divenire, come dice Eraclito. Significa che ogni situazione storica in quanto tale è bene, perché
doveva avvenire, è manifestazione dello spirito, quindi storicismo è giustificazionismo.
La seconda parola è provvidenzialismo, categoria estratta dal linguaggio religioso che
immanentizzata ne perde il significato religioso. Analogamente a giustificazionismo è “ciò che
è, in quanto è doveva essere”.
Il terzo termine è più un’osservazione che una categoria assunta da Hegel. Pantragicismo
vuol dire che la storia è fatta di conflitti. Polemos (la guerra) è la madre dei viventi (dice
Eraclito), il conflitto è ciò che genera vita. Il movimento è fatto per conflitti e per contrasti.
Alla domanda che cosa è la ragione per Hegel, Sciurpa risponde così.
Per noi ragione ha un senso tecnico, cioè la capacità di ragionare, di calcolare. Anche per
Hegel ha questo senso ma ce ne è uno più generale. È l’insieme di tutte le articolazioni della
realtà che sono connesse fra di loro. C’è una struttura logica della realtà in sé. Razionalità e
realtà coincidono. Nell’ottica della ragione promettente, per Hegel la realtà è logica. Un terzo
significato metafisico di ragione vuole che essa coincida con Dio. Per Hegel Dio e ragione
sono la stessa cosa. Dire ragione vuol dire spirito e lo spirito è la piena consapevolezza di sé.
Per Hegel il mondo, la realtà, ha una struttura razionale.
Le opere di Hegel:
- Scritti giovanili, come “vita di Gesù”;
- Fenomenologia dello spirito (la prima opera significativa);
- Enciclopedia delle scienze filosofiche.
Quest’ultima è un’opera tripartita in:
- Filosofia della logica (dell’idea in sé) – tesi
- Filosofia della natura (dell’idea per sé)- antitesi
- Filosofia dello spirito (dell’idea in sé e per sé) – sintesi

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La logica in Hegel è l’equivalente della metafisica perché la logica è la ragione in sé e la
ragione è la realtà. In Hegel la logica è ontologia.
C’è perfetta coincidenza tra essere e pensiero (Parmenide) nella filosofia della natura c’è l’idea
che esce fuori di sé, nella natura l’idea si esteriorizza, non è più l’idea in sé (logica) ma per sé.
Nello spirito l’idea rientra in se stessa, in sé e per sé, questa è la terza parte dell’opera.
Lo spirito è l’uomo. La Filosofia dello spirito che parla dell’uomo, in cui lo spirito raggiunge la
consapevolezza di sé, è tripartita:
- spirito soggettivo
- spirito oggettivo
- spirito assoluto.
Lo spirito oggettivo è l’uomo preso in sé, l’uomo in astratto, che diventa vero quando entra in
relazione con le cose (diventa diritto), con se stesso (da qui la morale) e con gli altri (vero e
proprio spirito oggettivo o spirito etico, eticità).
La Filosofia dello spirito, la parte centrale della riflessione di Hegel, trova il suo apice nell’eticità
che ha nello stato la sua rappresentazione più completa.
Lo spirito assoluto non è Dio, è la modalità con cui lo spirito oggettivo,, che ha il suo apice
nello stato, rappresenta se stesso.
Ogni popolo rappresenta se stesso mediante la cultura. Lo spirito assoluto in realtà è la
modalità con cui un popolo rappresenta, simboleggia se stesso e questa modalità è la cultura
che si esprime in tre modalità fondamentali:
- arte – tesi
- religione – antitesi
- filosofia – sintesi
un popolo rappresenta se stesso in modo sistematico, organico, consapevole con queste tre
modalità. Tra queste non c’è la scienza che invece troviamo nella Filosofia della natura,
perché per Hegel è astrazione, separazione. Il vero sapere è la filosofia in cui lo spirito
manifesta la più alta consapevolezza di sé.
L’arte muore nella religione, nel senso che diventa lo strumento attraverso cui la religione
manifesta se stessa, esprime il contenuto religioso, quindi è al servizio del divino. La religione,
a sua volta, muore nella filosofia.
Lo spirito assoluto è la cultura di un popolo le cui manifestazioni costitutive sono l’arte, la
religione e la filosofia.
La coscienza più piena di ciò che un popolo è veramente è nella cultura filosofica.

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Per Hegel la morte è un vivere in modo diverso; così l’arte vive nella religione e la religione
vive nella filosofia.
Ecco allora l’aufbung, un sapere che è un togliere e un conservare.
La filosofia di Hegel fondamentalmente è una forma di gnosi: ha trasformato la rivelazione in
scienza della ragione.
Feuerbach dice che la filosofia di Hegel è una teologia che ha una struttura razionalista.

17/10/2010
Il dibattito post-hegeliano si incentra su due temi fondamentali, uno di carattere teorico, un
altro di carattere politico.
1) Ci si interrogava se l’hegelismo era un superamento del cristianesimo o addirittura la
sua apologia, nel senso della sua giustificazione fatta in termini di razionalità.
2) Con riguardo al problema politico ci si chiedeva se la filosofia hegeliana potesse o
dovesse essere considerata una filosofia reazionaria, conservatrice o addirittura
rivoluzionaria.
Si distingueva tra sinistra e destra hegeliana. Gli hegelinchi (la destra) sostenevano che
l’hegelismo fosse una filosofia a supporto, come giustificazione razionale del cristianesimo.
Mentre dal punto di vista politico vedevano nel sistema hegeliano un sistema di
conservazione, di stabilità.
La sinistra hegeliana, invece, era di tutt’altro parere. Sul piano teorico filosofico riteneva che la
filosofia di Hegel è il superamento del cristianesimo, ne è l’affossamento. In relatà l’hegelismo
è una liquidazione delle chiese, delle teologie fondate sulla rivelazione. Sul piano politico
dicevano che l’hegelismo può essere utilizzato in chiave destabilizzante, rivoluzionaria,
assumendo il secondo momento del processo dialettico, il momento negativo.
Se Hegel aveva posto lì equazione tra realtà e razionalità, gli hegeliani di sinistra ritengono
invece che questa equazione non sussiste. Anzi c’è opposizione tra realtà e razionalità.
C’è una tensione dialettica che si scioglie con la rivoluzione, un rinnovamento per far diventare
razionale il reale. Per cui negano l’assunto fondamentale dell’hegelismo, ovvero la coincidenza
tra razionale e reale, ma ne assumono comunque la componente dialettica, cioè il momento
negativo; negare la realtà in nome di un obiettivo di piena consumazione razionale.
Tra gli anni ‘60-’80 del secolo scorso si afferma una corrente della scuola di Francoforte di cui
sono esponenti Herbert Marcuse che scrive “L’uomo ad una dimensione”; Adorno insieme ad
Horkaimer scrivono il testo “Dialettica negativa” che vuol dire che dal metodo hegeliano non va
presa la coincidenza tra reale e razionalità, la quale porta al conservatorismo. Allora la

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corrente di Francoforte assume il momento dialettico come dialettica negativa, che nega la
realtà, vi si oppone. La realtà è disumane e va sciolta attraverso la rivoluzione.
La sinistra hegeliana ha assunto la dialettica hegeliana come il momento più importante del
pensiero di Hegel perché è il momento della negazione. Prende il secondo momento, quello
della negazione e ne fa una cifra politica come opposizione alla realtà, ovvero opposizione alla
conservazione dal punto di vista politico; consideriamo che sono gli anni della conservazione,
della restaurazione dopo la sconfitta di Napoleone.
Feuerbach si pone nell’ambito della sinistra hegeliana, in cui si pone come figura di spicco,
considerato il padre dell’ateismo contemporaneo. L’ateismo è sempre esistito anche nel
pensiero filosofico del ‘700, come ateismo materialistico e meccanicistico dei filosofi illuminati
radicali del ‘700.
Con Feurbach nasce l’ateismo antropologico, in nome dell’uomo, che parte dall’uomo per la
rivalorizzazione dell’umano. La cifra fondamentale del pensiero di Feuerbach è appunto quella
che lui ha indicato nell’opera più importante, “L’essenza del cristianesimo” del 1841. La cifra
fondamentale di quest’opera è la riduzione della teologia e della religione ad antropologia.
Egli sintetizza il suo iter culturale dicendo : “il mio primo pensiero fu Dio, il mio secondo la
ragione, il mio terzo e ultimo l’uomo”.
In un primo tempo fu legato al pensiero di Hegel ma poi lo ricuserà nei suoi fondamenti.
Nella frase sopra citata si condensano tutta una serie di processi culturali ed esistenziali.
Anche in Comte c’è un processo analogo: dalla religione alla filosofia, dalla filosofia alla
scienza.
Dice Pascal:”il più alto atto della ragione è rendersi conto che essa è limitata.”, è il supremo
atto della ragione. Dio ha dato all’uomo la ragione e quindi è con la ragione che deve arrivare
a Dio. Se è vero che non posso dimostrare scientificamente l’esistenza di Dio, nondimeno la
potrò mai negare; anzi, alla luce della nature posso avere molti elementi per dire che questa
realtà c’è. La ragione mi permette di credere in maniera umana, cioè da uomo che porta tutta
la sua umanità che è fatta di ragione, sentimento, volontà, sensibilità ecc.
Feuerbach nell’”Essenza del cristianesimo” dice:”io voglio trasformare uomini che credono in
uomini che pensano” come se chi crede non pensa; questo è l’errore di Feuerbach, ritenere
che il credere escluda la ragione. Questo è stato il suo processo, da uomini che credono, il mio
primo pensiero è su Dio, egli dice, quindi credere; il secondo pensiero sulla ragione, quindi
pensare che deve cancellare il credere;il terzo pensiero è l’uomo. È una forma di sensissmo.

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Evidentemente c’è un presupposto di carattere gnoseologico: la verità si raggiunge solo
tramite i sensi. La ragione è quella che si radica sulla sensibilità e la verità è quella che resta
legata al mondo dei sensi.
Quindi c’è un concetto limitato di ragione, limitato ad un campo. Il termine ragione rimanda ad
una forma polisemantica. Ragione è quella dialettica, riflessiva, dialettica è anche la
metafisica.
Per Feuerbach l’uomo è ciò che mangia, nel senso che è soprattutto sensibilità, corporeità che
lo lega con il mondo, una corporeità che trova poi la sua alta espressione nella capacità di
autocomprendersi, nella ragione, non è una corporeità materialistica.
Però l’uomo è questa concretezza fisica. Non è la concretezza del cumcrescere di Hegel ma è
fisica. qui Feuerbach si pone in antitesi radicale con Hegel, perché vuole ricondurre l’uomo alla
sua concretezza.
Dire che l’uomo è ciò che mangia suona come un crasso materialismo ma in Feuerbach vuol
dire che dobbiamo cogliere l’uomo e non disperderlo nella generalità dello spirito.
Feuerbach dà concretezza all’essere umano, lo riconduce alla sua esistenzialità, individualità
che è fatta anche di apporti. Per lui la concretezza dell’uomo è fatta anche di relazionalità,
anche nella dinamica sociale e di coppia.
Ma come mai l’uomo ha inventato Dio? Per Feuerbach la religione e la teologia vanno ridotte
ad antropologia. C’è stato un processo per cui l’uomo si è fatto sostituire da Dio o comunque si
è rappresentato in Dio.
La tesi di fondo di Feuerbach, la più decantata è che la religione è l’alienazione dell’uomo, o
meglio è la proiezione che l’uomo fa di se stesso in un essere che colloca al di fuori di sé e che
chiama Dio, a cui attribuisce tutte le più alte qualità: onnipotente, onnisciente, amorevole, cioè
la perfezione.
L’uomo investe, trasferisce l’immagine di s stesso in un altro essere al di fuori di sé; vi proietta
le sue aspettative, i suoi desideri, cioè il suo mondo.
Alienazione è un termine hegeliano ma assume un altro significato. Per Hegel è l’idea che
diventa altro da sé, dalla natura, si aliena nella natura, è un uscire fuori di sé. Qui invece
assume il significato di una proiezione di sé al di fuori.
Alienazione per Feuerbach è la proiezione in un soggetto che non esiste, creato con la
fantasia. Qui c’è un certo punto di vista gnoseologico, la verità passa attraverso l’esperienza
sensibile. Tutto ciò che non passa attraverso i sensi non esiste, ecco allora che può dire che la
proiezione dell’uomo è avvenuta in un Dio che non esiste.

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Come mai l’uomo ha alienato se stesso in un essere fantastico? Perché si scontra con i propri
limiti, con la miseria, le fatiche, con tutto ciò che è essere uomo. Ma avendo nello stesso
tempo in sé un sogno di infinito, un desiderio di infinito che si scontra con il finito, invece di
lottare per diventare questo infinito, l’uomo sposta il contenuto dell’infinito ad un essere al di
fuori di sé.
Dio non è altro che la proiezione di ciò che l’uomo vuole essere. Allora dice Feurebach :”uomo
diventa ciò che tu sei”; in questo modo vuole ricondurre l’uomo dalla fede alla ragione.
Riprende il concetto hegeliano di coscienza infelice. Homo homini deus est, l’uomo è dio di se
stesso; ecco l’antropocentrismo, l’ateismo umanistico: ricondurre l’uomo alla sua verità.
“dio è una lacrima dell’amore versata nel più profondo segreto della miseria umana”, cioè
l’uomo avverte la sua miseria e invece di lottare contro essa si auto consola proiettando fuori
di sé in attesa dell’aldilà.
Etimologicamente Feuerbach significa “torrente di fuoco”: fue (torrente) + bach (fuoco). Il fuoco
distrugge ma purifica anche. Feuerbach è il padre dell’ateismo umanistico: in nome dell’uomo
si nega Dio.
Ma non è che in nome di Dio qualche volta abbiamo negato l’uomo? Il discorso di Feuerbach
diventa una provocazione, un torrente di fuoco purificatore, laddove si dimentica questa unità
fra discorso su Dio e discorso sull’uomo. Non può esserci un discorso su Dio senza un
discorso sull’uomo. Paolo VI dice: “la via del Vangelo è l’uomo”. Fare rifiorire l’uomo alla sua
verità, alla sua dignità.
Il desiderio di Dio crea la ricerca di Dio, non Dio stesso; questo è l’argomento obiettabile al
discorso di Feurebach. Tuttavia non si può ridurre Dio al nostro desiderio, va anche
oggettivizzato, è il Dio che si manifesta in Cristo.
Per esporre il pensiero di Karl Marx partiamo da un piccolo scritto del 1845che è una sintesi in
realtà di un’opera più ampia dell’ideologia tedesca. Si intitola “Tesi su Feuerbach”: sono 11 tesi
nelle quali è contenuto gran parte del pensiero di Marx. In quest’opera Marx prende le
distanze da Feuerbach ed enuncia principi poi diventati celeberrimi e successivamente
sviluppati nelle opere maggiori. Dice Sergio Moravia nell’introduzione agli scritti giovanili di
Marx” A Feuerbach il giovane Marx deve molto; gli deve la lucida analisi critica dell’impianto
strutturativo del sistema di Hegel (quindi la critica all’hegelismo), dell’indebito privilegiamento
sia logico che temporale dell’idea (questo è Hegel) che appiattisce e svaluta tutti i fenomeni
reali degradandoli a meri predicati dell’idea medesima (Feuerbach); gli deve poi la
demistificazione della religione e in genere la riconduzione di tutti i principi, valori ed essenze
metafisiche alla loro sorgente umana reale; nonché l’uso critico della categoria dell’alienazione

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(con un uso diverso da quello di Hegel). Gli deve, infine, la generosa rivendicazione del
primato della realtà sensibile, della irriducibilità ad altro di soggetti determinati appartenenti a
questa realtà, della natura materiale e corporea dell’uomo. Ma nella fase di maturazione del
suo pensiero il distacco dal maestro è netto come dimostrano queste 11 densissime tesi.”
Feuerbach ha concepito l’uomo nella sua mera naturalità, sensibilità materiale. Non c’è l’uomo
in sé della metafisica classica me nel materialismo di Feuerbach c’è l’uomo naturale come
essenza immutabile.
Per Marx, invece, l’uomo non è una specie naturale (cioè immutabile), non è una essenza
naturale ma l’essenza dell’uomo è storico-sociale, cioè in continuo divenire, movimento (In
questo c’è Hegel). L’uomo diventa ciò che costruisce nelle sue relazioni sociali, è l’insieme dei
suoi rapporti sociali.
Marx ha scritto un’opera che sarà pubblicata solo dopo la sua morte, intitolata “Ideologia
tedesca”. L’ideologia è un insieme di idee.
Il termine ideologia gli veniva da un gruppo di filosofi francesi della fine del ‘700, gli “ideolog”, i
quali volevano ricostruire il modo con cui nascono e si sviluppano le idee dell’uomo.
In Marx il termine assume un valore negativo. Il termine ideolog, filosofo ideologo, aveva già
assunto un valore negativo a motivo del fatto che gli ideolog erano oppositori di Napoleone il
quale li criticava dicendo: ”ma chi sono questi ideolog? Cosa pensano, di cambiare il mondo
con le loro idee?”.
Marx riprende questo significato degli ideolog, come tutti quegli intellettuali che credevano di
cambiare il mondo con le idee. L’Ideologia tedesca è la critica fatta agli esponenti della sinistra
hegeliana, tra cui anche Feuerbach, i quali ritenevano di cambiare il mondo cambiando le idee.
Invece per Marx bisogna cambiare il mondo perché nascano idee vere, buone, libere. Bisogna
cambiare il mondo per cambiare le coscienze e non viceversa.

18/10/2011
Gli studiosi distinguono fra il primo Marx, più filosofico, e il secondo Marx più studioso
dell’economia politica, di matrice liberale, che affrontò negli anni di esilio a Londra.
Il Capitale è l’opera fondamentale e centrale del suo pensiero filosofico-economico-politico. È
soprattutto un’analisi economico-sociale più che politca.
Del Marx giovanile si dice che è più strettamente filosofico. È il Marx delle opere come
Ideologia tedesca, dell’opera Sacra famiglia (titolo ironico con cui faceva riferimento alla
sinistra hegeliana), una serie di piccoli saggi che toccano anche tematiche di carattere
religioso. È un Marx che si muove nell’orizzonte della sisnistra hegeliana, con la quale ha un

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confronto dialettico, di derivazione ma anche di opposizione. Con Feuerbach, Marx si
confronta anche in maniera oppositiva.
In questo Marx giovanile prevale l’impianto filosofico nel senso che si pongono le basi di quella
che poi sarà l’analisi economica. Gli studiosi si dividono quando si chiedono se il secondo
Marx supera il primo. I marxisti strutturalisti ritengono che il secondo Marx è una smentita, un
superamento del primo Marx. Ce ne sono altri, invece, che ritengono che c’è una profonda
interdipendenza fra il primo e il secondo Marx. Sciurpa si colloca in questo secondo
schieramento.
Da che nasce questa discussione fra gli studiosi? Nasce da quello che è uno dei temi di fondo
della filosofia di Marx, il rapporto fra teoria e prassi, tra pensiero e azione. Per Marx il rapporto
teoria/prassi, teoria/azione, teoria/contesto economico-sociale, è un rapporto profondo ma va
capovolto, nel senso che viene prima la prassi e poi la teoria. Qui c’è il capovolgimento
radicale di Hegel. Ma lo stesso Feuerbach ha ricondotto lo spirito, l’idea, con i piedi per terra;
non è più lo spirito ma l’uomo è ciò che mangia, è la sua concretezza. Questo capovolgimento
già operato da Feuerbach lo fa suo anche Mrax ma con una differenza: l’uomo non solo viene
riportato con i piedi per terra ma è prodotto della terra, cioè è l’agire, la prassi.
In Marx la prassi è l’agire dell’uomo. È l’azione che produce il pensiero. L’azione è il lavoro,
cioè l’azione trasformatrice dell’uomo sulla natura. Quindi Marx riprende un tema già affrontato
da Hegel nella figura del servo-padrone. Il servo attraverso il lavoro realizza se stesso e
diventa padrone del suo datore di lavoro.
Il lavoro è l’azione, è la prassi, ed è un’azione dell’uomo, non è qualcosa di meccanico che
viene dall’esterno. Quello di Marx è un materialismo antropologico più ancora di quello di
Feuerbach, che fa riferimento all’agire dell’uomo. Significa inserire un elemento soggettivo. È
vetro che è una soggettività determinata dalle condizioni oggettive di vita.
Pensiamo al neolitico in cui l’uomo scopre che può interagire con al natura, intervenire sulla
natura (agricoltura, allevamento ecc.).
Le condizioni esterne condizionano l’agire umano: un conto sono le condizioni del neolitico e
un conto quelle della rivoluzione industriale. Però Marx pone questo tipo di interagenza tra la
soggettività e l’oggettività, dove le due dimensioni, cioè l’uomo interviene sulla natura essendo
condizionato dalle condizioni storiche di quella determinata natura e ambiente sociale. Da
questo tipo di azione sinergetica tra uomo e natura nasce la prassi, l’azione. Dal modo in cui
viene organizzata l’azione nasce la teoria.

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C’è un’interdipendenza causale tra il tipo di azione economico-sociale e il tipo di cultura. Non è
lo spirito, la coscienza che produce la cultura ma l’azione economico-sociale che l’uomo mette
in atto, da cui discende la teoria.
La verità è il prodotto delle condizioni economico-sociali; c’è uno storicismo, lo storicismo
hegeliano con un soggetto diverso, non più lo spirito dell’uomo. Tale sarà la verità quale è la
struttura economico-sociale. Non esiste la verità, esistono le verità legate ai momento storici.
Quindi è una forma di storicismo.
Abbiamo già citato il termine ideologia. Per Marx la teoria diventa un’ideologia; ogni teoria è
ideologia nel senso negativo del termine.
Dice Marx che ogni teoria si trasforma in ideologia, che Marx intende come un tipo di pensiero
funzionale a degli interessi. Dalla prassi nasce un’ideologia, cioè una teoria asservita agli
interessi di qualcuno, cioè di coloro che detengono il potere economico. Ma questi non sono
coloro che lavorano perché c’è nella storia un peccato originale, ovvero l’’appropriazione
privata della proprietà, cioè la proprietà privata.
Nel Capitale c’è una ricostruzione ideologica di come nasce la proprietà privata, riprendendo
dei concetti dal contratto sociale di Russeo. La proprietà privata è dei mezzi di produzione
materiali (buoi, campi ecc.) da cui si arriva alla proprietà private dei mezzi di produzione umani,
soggettivi. La proprietà privata si appropria non solo dei mezzi di produzione materiali ma
anche di quelli umani, soggettivi. Coloro che sono buttati fuori dalla proprietà privata ci
rientrano come salariati, cioè vendono il proprio lavoro. Il lavoro, da forza di trasformazione
della terra, diventa merce di scambio. Non è più una forza di produzione ma una merce di
scambio in cui chi non ha più proprietà del proprio lavoro, perché sono stati buttati fuori, non è
più proprietario del proprio lavoro, è costretto a metterlo in mano di chi ha assunto la proprietà,
deve vendere il proprio lavoro. Ma se l’uomo si realizza nel proprio lavoro, questo è
l’espressione più alta e significativa dell’identità dell’uomo. Sicché, vendendo il proprio lavoro
si vende la propria identità, si aliena la propria identità.
L’ideologia è un pensiero al servizio di qualcuno, ovvero colui che detiene i mezzi di
produzione.
L’ideologia, cioè la teoria che nasce dalla prassi, in realtà è asservita agli interessi del
padrone.
Vedremo alcune categorie che definiscono la dottrina di Marx e spiegano perché la teoria si
trasforma in ideologia.

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Il punto di partenza è la proprietà privata che divide gli uomini in classi sociali, la classe dei
proprietari, i padroni, e la classe dei proletari, ossia gli operai che sono proprietari solo della
prole. I padroni sono i capitalisti, cioè i padron del capitale.
L’essenza dell’uomo è la sua attività, il suo agire, il lavoro. L’uomo si definisce per il suo
lavoro.
Dice Marx nella prima tesi su Feuerbach: “il difetto di ogni materialismo sino ad oggi, compreso
quello di Feuerbach, è che l’oggetto, la realtà, vengono concepite solo come obiecto, qualcosa
che mi sta di fronte, ma non come attività sensibile, umana, prassi”. Marx vuole dire che non
esiste una realtà in sè e per sé ma una realtà che viene trasformata dalla prassi dell’uomo.
Nella tesi sesta dice:”Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana ma l’essenza
umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo, nella sua realtà
essa è l’insieme dei rapporti sociali (definizione di uomo)”.
È il lavoro che definisce la persona, al sua condizione sociale. Il lavoro è “il fatto
antropologico”, quindi Marx nobilita il significato del lavoro al punto che questo definisce
l’uomo.
Sicchè l’uomo che è costretto a vendere il proprio lavoro perché c’è chi detiene i mezzi di
produzione, non vende solo il proprio lavoro ma la propria identità umana, aliena. Per Marx
l’alienazione è la proprietà privata mentre per Feuerbach, da cui riprende il concetto, è Dio.
La verità, la teoria, per Marx è il risultato dell’alienazione economico sociale di trasformazione
del mondo; dato che questa trasformazione varia nel tempo, diventa ideologia nella misura in
cui diventa funzionale a chi detiene la proprietà privata.
Chi è l’uomo? È il suo lavoro e le relazioni che con il suo lavoro si vengono a determinare;
quindi non è un’essenza astratta.
Alcuni termini del lessico marxista.
Il materialismo di Marx non è meccanicistico, così come era nella tradizione antica da
Democrito in poi, bensì è un materialismo prassistico, legato all’azione di trasformazione
dell’uomo sulla natura, è il materialismo legato al lavoro.
Secondo termine: materialismo dialettico che si può abbinare con lo storicismo. Il termine
dialettico è ripreso da Hegel, come movimento di lotta, di scontro, che per Hegel portava
all’assorbimento, per Marx invece è eliminazione degli elementi di conflitto e non solo
superamento-incorporazione. Il materialismo dialettico fa riferimento alla lotta di classe che è il
motore della storia, la quale fa si che il processo sia sempre in movimento.
Come avviene il movimento, come si innesca?

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Con il termine materialismo dialettico si intende il rapporto che si è venuto a determinare fra le
classi sociali che partecipano alla costruzione e trasformazione della natura, processo
economico-sociale. Non è solo un processo di produzione di beni ma il lavoro produce anche
rapporti sociali e i rapporti sociali, nel regime di proprietà privata, sono rapporti conflittuali. C’è
chi sfrutta e chi è sfruttato.
Chi sfrutta elabora una serie di teorie per giustificare il diritto che ha di sfruttare. Ad es. che è
volontà di Dio. Da qui l’immobilità dei rapporti sociali. Ecco l’ideologia al servizio degli interessi
di chi al momento è classe dominante, per giustificare il sistema.
Quindi si creano teorie politiche, sistemi giuridici, funzionali a chi ha il potere. Si crea una
religione funzionale a quel sistema.
Abbiamo una realtà conflittuale al servizio della quale, però, abbiamo una teoria che cerca di
giustificarla come una necessità della natura e quindi un’essenza.
Marx, invece, vuole mettere in evidenza che anche la teoria è un prodotto stotrico perché è
legata ad un certo meccanismo economico-sociale. Dunque bisogna far capire a protagonisti
di quel processo sociale che quel tipo di rapporto non è iscritto nella natura, non è immutabile,
ma solo il prodotto di determinate congiunture storiche che vanno analizzate. Infatti secondo
Marx il suo è un socialismo scientifico perché basato sull’analisi delle strutture economiche-
sociali. Mentre al suo tempo c’erano i socialisti utopisti che volevano migliorare la situazione
del proletariato come un moto della volontà. Dice Marx. Invece, che la rivoluzione non è un pio
desiderio ma è iscritta nelle leggi della storia, nel meccanismo storico che va assecondato.
Esiste una struttura economico-sociale data dall’insieme dei mezzi di produzione, in cui ci sono
rapporti sociali basati su sovrastrutture ideologiche funzionali a quei rapporti. È una
sovrastruttura perché nasce dalla struttura economico-sociale. Dice Marx: analizziamo la
struttura economico-sociale e smontiamola. Si scopre che i beni sono prodotti unicamente dal
lavoro, dunque chi possiede il lavoro è anche possessore dei beni. Tuttavia, nella realtà della
sovrastruttura non è così. Il valore della merce è data unicamente dal lavoro, dunque ne
dovrebbe essere proprietario il lavoratore ma di fatto non è così, all’80% ne è proprietario il
capitalista. “proletari di tutto il mondo unitevi!” diceva il manifesto del partito comunista del
1848, ovvero prendete coscienza che siete i veri padroni. Dovete abbattere coloro che vi
alienano. Ecco la dialettica, il materialismo dialettico, la lotta di classe. La lotta di calsse è
dentro al storia, non può essere solo un proposito. Dovete prendere coscienza che nel
meccanismo economico-sociale siete i veri padroni, riappropriatevi del vostro lavoro. Per Marx
significa riappropriarsi della propria umanità.

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Socialismo scientifico significa che il risultato finale, il comunismo, la proprietà comune di tutti,
in cui c’è solo la classe di chi lavora, è il il prodotto non di un desiderio ma di un meccanismo
storico da assecondare.
Lo scontro di classe quando avviene? Dice Marx che lo sviluppo dei mezzi di produzione
economica della società industriale è più veloce delle trasformazioni sociali, cioè dei rapporti di
classe. Ma gli stessi mezzi di produzione ad un certo momento creano delle tensioni tali,
perché non ci sono dei miglioramenti nei rapporti sociali, tanto che arriva un momento che le
tensioni sociali arrivano ad un livello alto. Le tensioni sociali arrivano inesorabilmente perché è
un processo.

19/10/2010
Concludendo su Marx esaminiamo le ultime quattro tesi su Fueuerbach. La settima tesi è
dedicata al sentimento religioso in cui Marx dice :”Feuerbach non vede dunque che il
sentimento religioso è esso stesso un prodotto sociale e che l’individuo astratto che egli
analizza appartiene a una forma sociale determinata”.
Marx non ha mai trattato esplicitamente e ampiamente il problema religioso se non in alcuni
articoli, tra cui uno dedicato alla questione ebraica; ne tratta, dunque, indirettamente.
Cosa significa che esso stesso è un prodotto sociale? Vuol dire che il problema non è
l’alienazione religiosa, questa è una conseguenza. Feuerbach si appuntava sull’analisi
dell’alienazione religiosa, dicendo che in quell’alienazione c’è la morte dell’uomo, per cui se
vuole risorgere deve riprendersi ciò che fantasticamente ha attribuito a Dio.
Diversamente per Marx l’alienazione religiosa è conseguenza dell’alienazione sociale. Feue,
espressione del dominio sociale.
rbach non si sarebbe reso conto di questo. L’alienazione sociale è quella dell’uomo che deve
vendere la propria persona come una merce, aliena se stesso nel lavoro di cui altri si
appropriano. Poi il padrone ci costruisce sopra una religione per legittimare il suo dominio; cioè
una sovrastruttura asservita agli interessi di parte, espressione del dominio sociale.
Ma non basta eliminare la religione. Masrx guarda agli altri borghesi che hanno fatto una lotta
contro Dio, ma questa è espressione di una società borghese che sentendosi autosufficiente
elimina Dio.
Il problema di Marx non è combattere contro Dio ma è combattere sulle cause sociali che
generano l’idea di Dio. Per Marx resta vero che la religione è una alienazione ma lo è come
effetto dell’alienazione sociale.

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Tesi n. 8:”Tutta la vita sociale è essenzialmente pratica. (è la prassi, cioè l’azione di
trasformazione della natura, l’azione economico sociale); tutti i misteri che trascinano la teoria
verso il misticismo (hegel) trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella
comprensione di questa prassi”.
Non si tratta di criticare le idee, cioè quello che fanno i filosofi della sinistra hegeliana. La loro
critica delle idee Marx la definisce “belati”, come i belati contro il lupo che azzanna. Il lupo per
Marx è la struttura economico-sociale irrigidita in classi sociali, dove ce n’è una che domina e
un’altra che è asservita.
Tesi n. 11:”I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo (cioè hanno prodotto
carta, cioè idee; si tratta di trasformarlo il mondo”. La tesi n.8 abbiamo visto che dice che tutta
la vita sociale è essenzialmente pratica.
Il materialismo di Marx è prassi stico, dove l’azione è l’opera dell’uomo, perché le cose non
vanno avanti da sole, è necessario l’intervento dell’uomo.
In Marx c’è una contraddizione di fondo: dice che le idee sono il prodotto dell’azione, ma dice
anche che bisogna dare una sovrastruttura mentale che motivi, dia la spinta per peter dare
l’azione; senza le idee le azioni non prendono l’avvio.
L’idea di fondo che anima l’azione di Marx è la convinzione, che lui ritiene basata
scientificamente sulle analisi fatte nel capitale, che alla fine si instaurerà una società di tutti
uguali. Nel manifesto del partito comunista c’è questa espressione:”dove il libero sviluppo di
ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti”. C’è l’idea di voler recuperare l’uomo alla
sua libertà, alla sua autenticità.
Dice il Papa nella Centesimus Annus che il limite del marxismo è nella sua antropologia errata,
che gli fa perdere la sua identità come soggetto. La sua identità non è nello stato (Hegel) ma è
nella classe, nella società.
Per Marx non esiste il soggetto nella sua individualità irripetibile ma esiste il soggetto collettivo,
come condizione di sviluppo di ciascuno, che non è più lo stato ma la società che lavora, è la
classe, un’unica classe.
Nell’idea di Marx si deve arrivare all’eliminazione della divisione in classi. Un conto è il
marxismo e un conto sono le sue applicazioni. Non si parla mai nella storia di marxismo da
solo, ma di marxismo-leninismo. Lenin ha scritto un’opera sullo stato mentre Marx ha scritto al
riguardo solo pochi articoli. Il marxismo è un’utopia (il luogo che non c’è) anche se lui riteneva
che fosse un socialismo scientifico. Riteneva, infatti, che lo sviluppo dei mezzi di produzione,
dei rapporti economico-sociali, sarà tale da condurre sicuramente al comunismo. Per lui era
una legge necessaria, scientifica. Invece il comunismo non è stato applicato, secondo le sue

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previsioni, in Inghilterra, come sede della rivoluzione industriale, ma in Russia, nel paese meno
strutturalmente organizzato per arrivare alla rivoluzione comunista perché non c’era un vero
movimento operaio, solo avanguardie operaie.
Lenin elabora la teoria del partito e dello stato che non c’è in Marx, il quale ritiene che lo stato
è una sovrastruttura ideologica.
Lenin fa la teoria dello stato come “espressione della dittature del proletariato”. Lenin si rifà al
pensiero di Marx che dice che ogni stato è espressione di una dittatura di classe.
Per Lenin lo stato, così inteso, ha la funzione di eliminare i residui della vecchia società, come
fosse transitoria per la realizzazione dell’unica classe.
Per paradosso, dunque, lo stato nasce in funzione dell’eliminazione di se stesso, perché
eliminato il vecchio modello sociale anche lo stato deve scomparire.
All’interno del movimento marxista, un’altra esponente che partecipa ai movimenti operai degli
inizi del ‘900 è rosa Luxemburg, l’anima del movimento marxista tedesco, la quale obiettava a
Lenin che il rischi della dittatura del proletariato era quello di trasformarsi in una dittatura sul
proletariato, come si avverò.
In Marx non c’è una teoria dello stato, la sviluppò Lenin nella direzione della dittatura del
proletariato.
Marx non parla di partito ma di classe operaia. Lenin fa una teoria del partito, sviluppata in
Italia da Gramsci. È il partito della classe operaia. Il partito non è la classe operaia ma le
avanguardie operaie, più coscientizzate, da cui muove la rivoluzione. Quete avanguardie si
organizzano come partito e guidano la rivoluzione.
Gli studiosi dicono che più che di marxismo bisognerebbe parlare di marxismi, che sono le
letture che si fanno del pensiero di Marx. Più propriamente il pensiero di Marx viene detto
marxiano.
Dice Marx nella tesi su Feuerbach n. 9:”Il punto più alto cui giunge il materialismo intuitivo
(cioè il materialismo che non intende la sensibilità come attività pratica, quello meccanicistico
del ‘700) è l’intuizione degli individui singoli e della società borghese”.
Per Marx il materialismo meccanicistico del ‘700, di cui anche lui si è alimentato, è
l’espressione della società borghese, perché è l’intuizione degli individui singoli. C’è ancora la
critica a Feuerbach per il quale l’uomo è materia, sentimento ma è l’uomo singolo, per Marx,
invece, sono i rapporti sociali, cioè la classe.
Tesi n. 10 (puntualizzazione della tesi n. 9):”Il punto di vista del vecchio materialismo è la
società borghese. Il punto di vista del materialismo nuovo è la società umana o l’umanità
sociale. ”

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Forse la cosa più nobile del marxismo è ciò che Marx rifiutava, cioè la sua carica utopica.
La scuola di Francoforte coniuga hegelismo, freudismo e marxismo. Esponente ne è Erich
Fromm, lo psicologo. C’è un’opera, “Dialettica dell’illuminismo” in cui la dialettica diventa
capovolgimento, negazione, dunque non nella prospettiva hegeliana di superamento,
incorporazione.
Questa scuola mette l’accento sui mali apportati da una concezione utopica che si arma.
Pensiamo a Robespierre, icona dell’illuminismo, che tagliava le teste senza aver pazienza di
cambiare le idee. Diversamente la rivoluzione cristiana è paziente perché vuole cambiare i
cuori.
La tesi n. 10 su Feuerbach che il nuovo materialismo vuole liberare l’uomo ma c’è il limite della
concezione antropologica di Marx, infatti non parla di uomo ma di “società umana”, non dice al
persona umana ma “l’umanità sociale”, scompare l’identità. Identità vuol dire che ognuno è un
bene in sé.
Marx parla di società umana e di umanità sociale. La sua utopia è un’umanità nuova ma con il
limite che è concepita come collettività dove scompare l’identità.
L’uguaglianza fra gli uomini è un sogno da perseguire ma è importante che questa
uguaglianza non venga sciolta nella genericità della classe sociale, del collettivo.
Qual è il senso della storia secondo Marx? Dice Marx:”Il comunismo per noi non è uno stato di
cose che deve essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi (questa è la
tesi dei filosofi utopisti). Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di
cose presente”.
È la storia dello sviluppo dei mezzi di produzione, della trasformazione dei rapporti sociali che
secondo Marx porterà il movimento reale. Aggiunge, ancora, “La centralizzazione dei mezzi di
produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili
con il loro involucro capitalistico (c’è la classe dei capitalisti e c’è il proletariato) ed esso viene
spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata. Gli espropriatori vengono espropriati”.
Ecco il senso della storia.
La storia va verso il comunismo che è la realtà in cui il libero sviluppo di ciascuno è la
condizione del libero sviluppo di tutti, dove tutti possono realizzare se stessi. “Ognuno secondo
la sua capacità, ad ognuno secondo i propri bisogni”.
Marx si inserisce nel solco della filosofia razionale promettente. Secondo Marx se ci lasciamo
guidare dalla, storia, nella storia c’è una ragione che ci guiderà ad un mondo nuovo.

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Il terzo modello di ragione promettente (il primo è quello di Hegel) è il positivismo, movimento
di idee che si sviluppa nell’800 e che proietta le sue luci ed ombre nel ‘900 con delle categorie
mutate.
Il termine positivismo è da positivo, da ciò che è posto, cioè i fatti, la realtà, ciò che è
sperimentale, che è riconducibile nella sfera della scienza.
La verità è ciò che posso documentare attraverso l’analisi scientifica che consiste nella
coniugazione di osservazione e di argomentazione o deduzione matematica.
È il metodo scientifico che viene ad affermarsi nella rivoluzione scientifica dell’età moderna che
ha in Galilei e Newton le sue espressioni.
La conoscenza è analisi dei fatti, di ciò che è posto, analisi fatta di osservazione e di
argomentazione. Ma si tratta di un’argomentazione che nasce dall’osservazione della realtà,
della sua quantificazione. La quantificazione si esprime in numeri, quindi la matematica è lo
strumento che consente di elaborare leggi scientifiche. la verità è la rappresentazione della
realtà con modelli matematici che ci offrono le leggi della realtà, non le forme, non le essenza.
A Galilei non interessa altro. Il positivismo riduce la realà a numeri e forme geometriche e
negano che ci possano essere altre forme.
Il positivismo vede nella scienza l’unica forma di conoscenza e quindi verità, e vede nella
scienza l’unica forma di rigenerazione dell’uomo.
Hegel riteneva che la rigenerazione dell’uomo passa attraverso la politica, lo stato. Marx,
invece, che passa attraverso la rivoluzione che deve portare allo scioglimento della divisione in
classi.
Per Comte, padre delle tesi di fondo del positivismo, la rigenerazione dell’uomo passa
attraverso la scienza e la tecnica. Torna il vecchio ideale baconiano: sapere per potere. È un
sapere che non è l’ideale contemplativo, è il sapere per fare, l’ideale operativo. La conoscenza
delle strutture di fondo della realtà serviva per intervenire ed elaborare nuove forme.
Il positivismo vede nella scienza e nell’applicazione tecnica della scienza lo strumento per la
palingenesi della società, una società pienamente liberate, realizzata.
La scienza, dunque, è il senso della storia.
Anche oggi c’è l’idea della scienza come unica salvezza dell’uomo, c.d. scientismo.
Si distingue fra un primo positivismo e un secondo. Il primo è quello che parte da Galilei,
Newton, Kant e poi i filosofi positivisti dell’800 e anche il primo Comte per certi aspetti. È quel
positivismo che si preoccupa di offrire un modello scientifico corretto e si chiede cosa è la
scienza, perché possiamo conoscere.

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C’è un secondo positivismo che diventa nuova metafisica che noi chiamiamo scientismo: quel
positivismo che ritiene che la scienza sia e l’unica forma di conoscenza e la forma di
conoscenza assoluta e lo strumento assoluto per rigenerare l’uomo. Nell’ultimo Comte
troviamo questa elaborazione.
Il positivismo si pone nell’orizzonte della ragione promettente che in questo caso non è più la
ragione dialettica in senso hegeliano, né la ragione in senso marxiano, ma la ragione analitica,
al scienza. La concezione che si ha della scienza è quella della scienza raffigurativa della
realtà, è lo specchio della realtà. La raffigurazione della realtà non è più in forme ed essenze
ma in legge.
La scienza come conoscenza descrittiva della realtà.

24/10/2011
Le certezze fondamentali del positivismo sono tre. Il positivismo si colloca nell’orizzonte della
ragione promettente, una ragione che promette progresso, sviluppo e promette il
conseguimento di una nuova umanità. Potremmo dire che nel positivismo, così come nel
marxismo, c’è una spinta quasi messianica e non è un caso, forse, che dietro al messianismo
marxista c’è l’ebraismo, l’attesa del mondo ebraico di un liberatore che restaurerà un
liberatore, e dietro al positivismo c’è un messianismo cristiano. Auguste Comte, l’ispiratore
principale di questa linea di tendenza, proviene da una famiglia cattolica tradizionalista,
ambedue, Marx e Comte abbandonano le loro radici ma a monte vanno richiamate queste
radici.
Questo progresso è verso una nuova umanità, è il sogno di una nuova umanità, anche nel
linguaggio di Comte spesso vi è una risonanza di lessico paolino. Questa nuova umanità dovrà
essere totalmente illuminata. Come per Marx c’è il sole dell’avvenire, per Comte c’è il sole del
rischiaramento, la luce nuova che dovrà liberare l’uomo da ogni superstizione e dipendenza.
Quel sogno kantiano dell’uomo maturo, che deve raggiungere la sua maturità, in Comte
diventa il progetto e la fiducia, la certezza anzi che questa maturità sarà raggiunta attraverso
un processo lungo e inarrestabile
Lo strumento principe per raggiungere questa nuova umanità è la scienza, come orizzonte
epistemologico e le scienze come applicazioni nei diversi settori. La scienza è lo strumento
che dovrà sciogliere l’uomo dalle sue fantasie religiose e metafisiche, quindi filosofiche. Dovrà
essere un sapere basato sui fatti, espresso attraverso leggi e non più essenze, forme o
comunque entità mitologiche che presiedono gli eventi. Sono semplicemente meccanismi
interni alla natura che l’uomo può conoscere se si attiene scrupolosamente alla metodologia

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scientifica, che si avvale di fatti che vanno verificati, controllati e portati alla luce e si avvale di
leggi che vengono elaborate tramite un codice specialistico, quello della matematica. La
matematica è la lingua della scienza, è la traduzione di eventi fisici, misurabili e controllabili e
che vengono codificati tramite parametri quantitativi e non più qualitativi. Il metodo scientifico
quale si è venuto ad affermare con la rivoluzione scientifica di cui galilei è uno degli artefici
principali e che nello sviluppo del ‘700 e ‘800 è stato fonte dello sviluppo delle scienze.
E , dunque, il, metodo scientifico diventa l’unico strumento della conoscenza. Che cos’è la
verità? La verità è la descrizione, rappresentazione della verità secondo modelli matematici ed
espresso nel linguaggio delle leggi scientifiche. La sola scienza dà la conoscenza.
È un passo drastico, decisivo, anche rispetto a Kant che poneva nella scienza l’unica forma di
conoscenza ma lasciava aperto l’orizzonte al mondo noumenico. Diceva: ho dovuto abbattere
il sapere per affermare il credere. Kant diceva che il sapere è quello metafisico. Il credere, però
è questa apertura al mondo noumenico, all’ulteriore. Kant distingueva fra conoscere e pensare
e il pensare era questa apertura a un mondo ulteriore che poi Kant recuperava attraverso
l’intuizione etica. Mentre nel romanticismo altri lo recuperavano attraverso l’intuizione estetica,
Hegel attraverso il processo dialettico. In Comte, rappresentante principale di questo
movimento, non c’è invece apertura a mondi altri e quindi non c’è apertura ad altro tipo di
conoscenza che non sia quella scientifica.
La scienza diventa lo strumento per raggiungere l’obiettivo della nuova umanità e il metodo
scientifico è lo strumento di una conoscenza veritativa della realtà.
Il concetto che ha di scienza il positivismo viene elaborato da Comte nel “Corso di filosofia
positiva” che è un po’ la bibbia del positivismo.
Anche Marx punta alla liberazione radicale dell’umanità. Non è un caso che quella forma
successiva di interpretazione riformistica del marxismo, quella che passa attraverso Bernstain,
passa attraverso una sorta di sposalizio tra marxismo e positivismo. Perché ambedue puntano
allo sviluppo di una nuova umanità e ambedue hanno la certezza che questo avvenga
necessariamente attraverso un processo che ha nel saper scientifico la sua anima; per Marx è
il socialismo scientifico, per Comte è il positivismo della scienza ma poi alla fine dell’800, inizi
del ‘900, si incrociano positivismo e marxismo e c’è una corrente di marxisti-posititvisti che
coniugano scienza con interpretazione della storia intesa da Marx.
Queste sono le tre certezze del positivismo . 1) il progresso, cioè lo sviluppo avanzamento e
qui in qualche modo riprende il romanticismo hegeliano, cioè la storia che è anima interna di
un cammino, di uno sviluppo; non esistono verità assolute che vengono dall’alto, tutto si
realizza attraverso un processo storico e questo per Comte diventa il progresso; 2) l’esito di

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questa certezza è la nuova umanità; 3) la scienza, come strumento per realizzare questa
nuova umanità. Comte ha un modello di scienza raffigurativa della realtà. È quella scienza
che conosce la realtà così come essa è e in questo Comte è debitore di tutta la tradizione
classica, da quella greca, scolastica, anche quella moderna, di una scienza, usando un
termine popperiano, essenzialistica, cioè una scienza che rappresenta il mondo così come è.
È quella che viene anche detta visione speculare, cioè della scienza che specchia il mondo
così come è. Anticipando quello che si verificherà nel neo-positivismo contemporaneo, va
detto che cadrà questo presupposto del positivismo ottocentesco. Nel positivismo c’è la
convinzione che la conoscenza viene dalla scienza ma nel neo-positivismo il nuovo è che la
realtà è convenzionale, non è una scienza essenzialistica. Scienza convenzionale significa che
usiamo dei modelli convenzionali e li utilizziamo finché ci servono ma non è detto che questi
rappresentano la realtà così come è. Invece per il positivismo la scienza è essenzialistica, ci fa
conoscere la realtà così come essa è. Chiaramente c’è uno sviluppo interno, che va avanti
anche con degli errori, ma il trend di sviluppo è di farmi conoscere la realtà così come è.
Due sono le teorie fondamentali che vanno evidenziate nel pensieri di Comte, una è quella
della legge dei tre stadi e l’altra è quella della classificazione delle scienze.
Nella prima dottrina della legge dei tre stadi, Comte ci offre il concetto di cosa è la verità e di
come gli uomini hanno tentato di raggiungerla, fallendo almeno negli stadi iniziali e finalmente
pervenendo a quello che è lo stadio positivo, adulto, maturo che è quello della scienza.
Il cammino che l’uomo ha dovuto fare e che continuamente rinnova perché fa parte del suo
DNA, rispecchia la legge dello sviluppo attraverso il quale passa. L’intera umanità è passata
attraverso questi tre stadi ed è giunta allo stadio esclusivo, all’interno di questa umanità i
singoli individui attraversano nel loro sviluppo i tre stadi.
I tre stadi sono: teologico o anche fantastico - mitologico, quello filosofico o anche astratto e
quello positivo, concreto nel senso di legato ai fatti, basato sulle leggi. Il terzo stadio cancella i
precedenti, nel senso che li cancella; non c’è sintesi, non c’è l’hegeliano processo dialettico in
cui ciò che è tolto è comunque contenuto nel passaggio successivo. Gli stadi precedenti sono
quelli attraverso cui l’umanità è dovuta passare necessariamente e sono stadi attraverso i
quali anche i singoli individui devono passare, anche quando si trovano dentro un’umanità che
ha già raggiunto la sua umanità; ma una volta attraversati questi precedenti stadi sono
cancellati.
Lo stadio teologico per Comte è un primo tentativo dell’uomo di dare risposta ai problemi ma è
una risposta fantastica, mitica, è una favola, è una rappresentazione infantile. È uno stadio
tipico di un’età immatura, è lo stadio della primitiva umanità, a ridosso del pensiero filosofico,

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perché prima del logos c’è stato il mitos. In fondo filosofia greca è un processo di
secolarizzazione perché al posto delle divinità pone i concetti, le idee ma la fase precedente è
fase mitologica. A questo stadio di spiegazione fantastica è legata la nascita delle classi
sacerdotali, delle religioni, di poteri sacrali, viene fuori un mondo organico a questo modello.
Ma questo stadio l’uomo lo supera pervenendo a quello razionale ma ancora è una razionalità
non concreta che utilizza idee, concetti, astrazioni, essenze, forme, tutta la metafisica
platonico-aristotelica e quella successiva. Questo stadio è un processo di avanzamento
perché non si fa riferimento a entità fantastiche ma a concetti, al logos razionale ma ancora è
un logos astratto, incapace di mordere sulla realtà. Questo stadio, dal punto di vista
filogenetico, cioè di sviluppo dell’umanità, è uno stadio di un’umanità giovane, dall’infanzia alla
gioventù, pieno di ideali che corrisponde sul piano psico-evolutivo allo stadio giovanile in cui ci
si forma degli ideali che ancora rimangono astrazione, universalizzazioni che non trovano
riscontro nella realtà. Quindi non la filosofia che non può dare la vera spiegazione del mondo e
neppure gli strumenti adeguati per affrontare il mondo, la crescita in umanità.
Sia la religione, che fa parte dello stadio teologico, sia la filosofia, che fa parte dello stadio
metafisico-filosofico, sono un tentativo di spiegazione inadeguata dal punto di vista
epistemologico e strumento inadeguato nella crescita in umanità. Solo la scienza che è
conoscenza della realtà, capacità di intervenire sulla realtà, dà la vera conoscenza positiva,
concreta basata sui fatti e sulle leggi, ti dà anche gli strumenti per intervenire su stessi, sulla
realtà e sul mondo e quindi diventa funzionale alla realizzazione della propria umanità.
Anche la nostra cultura è fondamentalmente positivista per questa fiducia illimitata e esclusiva
nel potere della scienza di poter offrire gli strumenti adeguati per la realizzazione dell’umanità.
Vi sono due forme di positivismo, il primo che valorizza la scienza e il secondo che diventa
“scientismo”, che è criticabile perché è una vera metafisica che trasforma la scienza nella
forma esclusiva di liberazione dell’uomo. Non fa più scienza ma metafisica; è anche in
contraddizione con se stessa perché la scienza in quanto tale si basa sui esclusivamente sui
fatti mentre la scienza che pretende di dire l’ultima parola sulla realtà è una scienza che va
oltre i fatti, si avventura in una dimensione che non ha una prospettiva fattuale. In questo
senso è una scienza che metafisicizza. La scienza, in realtà, è un segmento del sapere, non è
tutto il sapere. Gli altri segmenti sono anche l’arte, la teologia e la filosofia.
Il limite della filosofia del positivismo è l’aver considerato la scienza l’unico sapere, la verità è
quella che è elaborata unicamente dalla scienza e la scienza è quella che si consegue
nell’ultimo stadio che l’umanità sta consolidando nei tempi moderni.

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Questo cammino, dal sapere mitologico a quello filosofico al saper positivo, è il cammino che
ha fatto l’intera umanità passando attraverso questi stadi, rimanendoci più o meno a lungo in
quelli teologico e filosofico, avanzando inesorabilmente al suo ultimo stadio che dovrà essere
completato e trasfuso in tutta la realtà.
Se la realtà nel suo insieme passa attraverso questi stadi, i singoli individui ripetono
ontogeneticamente quello che è stato lo sviluppo filogenetico di tutta la specie. Quando siamo
stati bambini abbiamo pensato ad mondo fantastico, poi siamo cresciuti e abbiamo appreso la
filosofia che ha cancellato la fantasia, dando mondi ideali. Nell’età adulta, entrando nel mondo
del lavoro, è necessario applicare leggi.
La seconda dottrina di Comte è la classificazione delle scienze ma prima leggiamo un brano
del Corso di filosofia positiva relativa alla dottrina dei tre stadi :”questa legge consiste in ciò
che ciascuna delle nostre concezioni principali, ciascun ramo delle nostre conoscenze, passa
necessariamente per tre stadi teorici differenti”
Si dice che anche le singole conoscenze scientifiche passano attraverso i tre stadi. ad
esempio l’astronomia prima di diventare astronomia è stata astrologia, poi cosmologia, poi
astrofisica. Quindi anche le singole scienze nel loro cammino passano attraverso questi tre
stadi, lo stato teologico, filosofico-astratto e positivo-scientifico. Di qui tre tipi di filosofia,
religiosa, metafisica e scientifica. “di qui tre tipi di filosofia di sistemi concettuali generali
sull’insieme dei sistemi che si escludono reciprocamente. Il primo è un punto di partenza
necessario dell’intelligenza umana, il terzo è il suo stato fisso e definitivo, il secondo (cioè la
filosofia) è unicamente destinato a servire come tappa di transizione”. Il logos cancella il mitos
e il logos muore nell’episteme:
Passando alla classificazione delle scienza, per Comte non è un semplice lavoro di
classificazione ma è cogliere il valore delle singole scienze per il progresso dell’umanità Comte
classifica le scienza in base a due criteri fondamentali: uno riguarda il contenuto, l’oggetto, ciò
di cui si interessano e l’altro il metodo. Si va dalle scienze semplici a quelle complesse. Le
scienze semplici sono quelle che hanno un oggetto unico, che si interessano di un solo fattore.
Anche da un punto di vista metodologico sono scienze più deduttive (dedurre da principi
generali applicazioni particolari. Quanto più l’oggetto è semplice, tanto più il metodo è
deduttivo. Tanto più l’oggetto è complesso, tanto più il metodo è induttivo. Le scienze sono
collocate in una linea verticale per cui si va dalla più semplice alla più complessa, cioè dalle
scienze che analizzano un solo fattore a quelle che analizzano più fattori.
In questa classificazione andiamo dalla astronomia, alla fisica, alla chimica, alla biologia e alla
sociologia. L’astronomia è una scienza semplice perché studia il movimento come meccanica

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celeste. La fisica, oltre al movimento studia anche la natura delle cose, quindi la quantità delle
cose e la loro natura. Quindi ci sono due oggetti di studio. La chimica studia non solo la
struttura delle cose ma anche la loro composizione, gli elementi costitutivi. La biologia studia
non solo la composizione di una cellula ma anche come queste cellule si articolano con altre e
formano un organismo, un corpo vivente. Questo corpo vivente trova la sua piena
realizzazione nell’uomo. L’uomo è questo essere biologico che è un po’ la sintesi di tutto
l’universo. Quest’uomo vive con altri uomini, vive in un organismo che è la società. Così
arriviamo a quella per Comte è la scienza principe, la sociologia. Allo sviluppo di ogni singola
scienza c’è anche lo sviluppo dell’intera umanità. Ad esempio lo sviluppo dell’astronomia è
legata allo sviluppo degli ambienti religiosi oltre che politici. Ad ogni singola scienza è abbinato
anche un modello di società e di vita, di organizzazione degli uomini. Ispirandosi ad ogni
singola scienza gli uomini hanno dato corpo poi alle loro istituzioni.
Per Comte ogni singola scienza passa attraverso i tre stadi, quello fittizio, quello filosofico e
quello scientifico. L’attraversamenti dei tre stadi è tanto più veloce quanto più semplice è
l’oggetto. L’astrologia è arrivata per prima allo stadio positivo trasformandosi con Newton in
meccanica celeste, ma anche con Galilei, perché era la scienza più semplice, aveva ad
oggetto solo il movimento. Quindi il tempo necessario per passare dallo stadio fittizio a quello
positivo è tanto più rapido quanto più semplice è la singola scienza. La sociologia, per Comte,
è arrivata per ultimo allo stadio positivo perché ha come oggetto di studio un essere
complesso come è l’uomo.
Guardando bene, in Comte il passaggio è dalla biologia alla sociologia, manca un passaggio
intermedio che è la psicologia perché l’uomo per Comte è solo biologico. Una volta che la
sociologia raggiunge lo stadio positivo essa diventa lo strumento per la piena realizzazione
dell’umanità perché la sociologia è costruita da Comte sul modello delle scienze naturali (la
fisica e la biologia). In particolare, c’è una fisica statica e una fisica dinamica. La fisica statica ti
dà le leggi della conservazione e della stabilità, la fisica dinamica ti dà le leggi del movimento.
Allora esiste una parte statice e dinamica della sociologia. La parte statica ti dà le leggi
dell’ordine, cioè le leggi che permettono una società di vivere in maniera stabile e ordinata. La
sociologia dinamica ti dà le leggi del movimento e quindi di come avvengono le trasformazioni
nella società. Se noi conosciamo correttamente entrambi i tipi di leggi possiamo intervenire
sulla società per far si che il suo sviluppo sia coerente e costante e possa pervenire alla
realizzazione di quella umanità piena, felice, che è lo scopo della scienza, la realizzazione di
una nuova umanità. E la sociologia è lo strumento per eccellenza per raggiungere questo
obiettivo.

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25/10/2011
Nella classificazione delle scienze, in realtà, la prima scienza che viene indicata anche in molti
manuali di filosofia, è la matematica che è una scienza semplice che ha ad oggetto di
pertinenza la quantità. Tuttavia, dal momento che la matematica è una scienza trasversale dal
punto di vista del metodo scientifico, poiché è il linguaggio di tutte le scienze, può anche non
essere inserita nella classificazione.
Una ulteriore esplicitazione con riguardo alla sociologia che Comte considera la scienza
regina. Nell’organizzazione del sapere filosofico-teologico del medioevo c’era una gerarchia
delle scienze con al vertice delle scienze liberali la filosofia (la metafisica) e poi la teologia.
Comte riprende questo modello ma al vertice ci pone la sociologia che non è una semplice
scienza funzionale alla conoscenza della realtà sociale ma un vero strumento di salvezza per
garantire l’ordine sociale funzionale al benessere di tutti gli uomini.
Per Comte il senso della storia è questo progresso che deve condurre l’uomo all’età adulta che
è l’età della scienza come conoscenza ed è l’età della tecnica come capacità di intervento
sulla natura al fine di renderla funzionale al benessere dell’uomo stesso. Quindi il sapere
scientifico come fonte di conoscenza e di verità.
Già facendo la classificazione delle scienze viene fuori una definizione di uomo che è
riconducibile alle sue componenti bio-fisiche. Il fatto che Comte non inserisce fra le scienze la
psicologia che in quel tempo cominciava a mettere le sue radici, la dice lunga su quale sia la
sua idea dell’uomo, che è riconducibile ai suoi elementi naturalistici.
Ma c’è un altro aspetto importante, la concezione organicistica della società che ha Comte,
secondo cui l’uomo si muove all’interno di una società organica ma è funzionale alla stessa
società. Dal punto di vista etico, Comte e altri esponenti del positivismo, ha un’etica della
solidarietà nell’ottica dell’io collettivo. Un’etica che tiene presente i valori della comunità, della
società. Questa è una delle differenze tra il positivismo continentale, francese e quello inglese.
Nel pensiero di Comte è la società che costituisce questo io collettivo dentro al quale si muove
ogni individuo. Nell’ultima fase della sua vita c’è una forma di accentuazione di certi aspetti
della sua filosofia in senso mistico, ne fa una vera e propria religione. Viene poi assunta da
alcuni discepoli che ne dà una riproposizione in termini secolaristici delle strutture concettuali e
organizzative della chiesa cattolica. Si parla del grande essere che è l’umanità, si crea
sostanzialmente una forma di trinità, una forma di culto, un nuovo calendario in cui al posto dei
santi ci sono i benefattori della società che sono gli scienziati e i tecnici.
Così come per Platone il potere va dato ai filosofi, a chi detiene il sapere, così per Comte al
governo ci devono stare i scienziati. Popper critica tutti i filosofi, da Platone a Marx, che hanno

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il mito della soluzione magica dei problemi alla luce di una formula che poi comunque
attribuisce il potere a una oligarchia, anche dei migliori. La critica di Popper è all’aristocrazia
del potere quale essa sia, del pensiero, della fede o della scienza.
Per Comte l’umanità che viene divinizzata “è il grande essere, l’insieme degli essere passati,
futuri e presenti che concorrono liberamente a perfezionare l’ordine universale”. Da qui parte a
costruire una sua religiosità.
Passando all’area inglese, dove c’è una tradizione più empirista del pensiero, troviamo due
autori positivisti, Stuart Mill e Spencer.
L’opera più importante di Stuart Mill è “Sistema di logica raziocinativa e induttiva”. Partendo
dalla tradizione empirista, Mill risolve la conoscenza all’interno di un radicale empirismo. La
fonte della conoscenza è unicamente nell’esperienza che poi permette di arrivare a definizioni
universali ma che hanno valore esclusivo perché nascono dall’esperienza e ad essa sono
riconducibili. A fondamento del conoscere e della scienza c’è il principio di induzione che parte
dal dato particolare, dall’esperienza e poi allarga e traduce in principi anche universali.
Secondo Mill si parte dai dati elementari che si legano secondo generi fondamentali di
relazioni che sono la somiglianza o la dissomiglianza, la simultaneità o la successione.
Parto da questi dati che vengono mesi in relazione e questi permettono di elaborare una
chimica psicologica che se vogliamo è la logica stessa. Da queste convergenze e rapporti che
partono dall’induzione, dal particolare, si possono trarre delle generalizzazioni dell’esperienza.
Dice Stuart Mill nel Sistema di Logica: “nell’inferire da alcuni singoli casi in cui si osserva che
un fenomeno si verifica in tutti i casi di una certa classe che rassomigliano ai precedenti in
quelle che si considerano le circostanze essenziali (induzione). L’induzione è
quell’operazione della mente con cui inferiamo che ciò che sappiamo vero in uno o più casi
singoli sarà vero per tutti i casi rassomiglianti ai primi per determinati aspetti ”. Qui si
può richiamare il principio di induzione di Francesco Bacone. Il principio di generalizzazione è
che quello che vale per alcuni casi possiamo generalizzarlo per tutti i casi simili. Questo
principio è quello che critica radicalmente Popper per il quale vengono prima le teorie e poi i
fatti che devono smentire o confermare le teorie, ma è sempre una conferma provvisoria,
perché le teorie sono smentibili anche da un singolo fatto.
L’importanza di Mill è anche nel fatto che estende il principio di induzione, il principio
fondamentale del sapere scientifico,anche alle scienze morali che oggi chiamiamo scienze
umane. Siamo alla metà dell’800 in cui comincia a svilupparsi la scienza morale. Mill estende il
metodo scientifico alle scienze morali. Pur salvaguardando il principio di libertà che
caratterizza l’agire dell’uomo, che dunque potrebbe rendere imprevedibile il collegamento fra

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un fatto e un altro fatto, Mill nondimeno ritiene che esista la possibilità di estendere alle
scienze morali il principio di induzione e di generalizzazione, quindi di estendere alle scienze
morali il metodo scientifico.
Quindi un altro aspetto del positivismo è l’unificazione metodologica dei saperi, o riduttivismo
metodologico, perché lo stesso metodo che vale per le scienze naturali deve valere anche per
le scienze umane. Mill, per salvaguardare la libertà dell’uomo, pur ritenendo che si possono
porre correlazioni causali che permettono poi la definizione di leggi e la previsione degli eventi,
afferma anche che c’è la variabilità dal punto di vista dei moventi e dei fattori che possono
incidere sull’azione umana, ma anche questa variabilità rientra in un range di prevedibilità.
Cioè per quanto variabili siano è una variabilità riconducibile entro determinati limiti che
comunque anche statisticamente si possono definire. Non era nata ancora la statistica ma il
calcolo delle probabilità era già in uso. Quindi è pur vero che c’è uno spazio di imprevedibilità
legato alla libertà umana ma questo spazio rientra all’interno di determinati limiti.
La prima affermazione è l’estensione del metodo scientifico dalle scienze naturali a quelle
umane, nondimeno nelle scienze umane si può prevedere una variabilità che rientra entro
determinati limiti calcolabili. Mille è anche un antesignano del movimento femminista con
l’opuscoletto del 1869 sulla servitù delle donne, in cui prende partito per l’emancipazione
femminile. Sono interessanti anche le analisi sugli sviluppi della società industriale del suo
tempo dove fa anche previsioni su quello che oggi è chiamato il dissesto ecologico.
L’altro pensatore del positivismo è Albert Spencer, un filosofo importante perché dà una
interpretazione della realtà applicando principi scientifici, che va ad incrociarsi con le nuove
teorie evoluzionistiche che andava elaborando in quel tempo Darwin sul piano della ricerca
biologica. In realtà il termine evoluzione non nasce con Darwin ma per certi aspetti nasce con
Spencer che era un ingegnere ferroviario convertito alla filosofia grazie soprattutto alla lettura
del pensiero di Kant. Nel suo sistema questa ascendenza kantiana emerge.
L’obiettivo filosofico di Spencer era quello di creare un’enciclopedia delle scienze biologiche e
sociali, tutte lette nell’ottica della legge universale dell’evoluzione. Creare una sorta di bibbia
della scienza letta in chiave evoluzionistica. Si dedica a questo lavoro ma non riesce a portarlo
a termine e il progetto è annunciato e progettato nei suoi principi nel “Sistema di filosofia
sintetica”.
Spencer Immette nella scienza un principio storicistico, principio del movimento, del divenire,
del progresso. Nel messaggio “Il progresso sua legge e sua causa” così dice:”sia che si tratti
dello sviluppo della terra, della vita alla sua superficie, dello sviluppo della società, del
governo, dell’industria, del commercio, del linguaggio, della letteratura, della scienza, dell’arte,

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sempre il fondo di ogni progresso è la stessa evoluzione che va dal semplice al complesso
attraverso differenziazioni successive” In che cosa consiste l’evoluzione? “Dai più antichi
mutamenti cosmici fino agli ultimi risultati della civiltà noi vedremo che la trasformazione
dell’omogeneo in eterogeneo (da un vivente monocellulare si sviluppano viventi pluricellulari) è
l’esistenza del progresso.
Secondo questa visione di Spencer l’originario che è il semplice, in realtà è il primitivo, ciò che
non è sviluppato, mentre ciò che vale è la complessità che è l’elemento progressivo, evolutivo;
la trasformazione dell’omogeneo in eterogeneo è l’esistenza del progresso.
Il pensiero di Kant costituisce l’ossatura di fondo del sistema di Spencer. In particolare la
distinzione fra fenomeno e noumeno serve a Spencer per aderire alla tesi fondamentale del
positivismo secondo cui la conoscenza , e quindi la verità, si raggiunge soltanto attraverso la
scienza come vero strumento conoscitivo della realtà. Inoltre, muovendosi nell’orizzonte
kantiano, Spencer prende in considerazione il noumeno, cioè il pensabile che non è
conoscibile. Partendo da questo concetto kantiano recupera e valorizza la religione, come
struttura di pensiero tramite cui l’uomo addita un universo da scoprire, da ricercare; la religione
addita l’inconoscibile che non significa che non è assolutamente alla portata della conoscenza.
Qui si ripropone la dialettica kantiana tra il limite e l’ulteriore. Il limite è dato da gli strumenti
conoscitivi che ci permettono di perimetrale il contorno dell’isola, l’ulteriore è il vasto oceano
che può contenere anche altre isole, per cui è uno stimolo alla ricerca.
Per Spencer la religione è questa riserva della conoscenza che tiene aperta la mente
sull’inconosciuto più che sull’inconoscibile; nella prospettiva della religione è l’inconoscibile
perché è il mistero, nella prospettiva scientifica è l’inconosciuto che diventa stimolo ad aprirsi
ulteriormente alla ricerca. Un tempo si diceva philosofia ancilla teologiae, adesso potremmo
dire theologia ancilla scientiae, la religione è utile per la scienza perché offre orizzonti in cui
deve innestarsi la ricerca scientifica.
In questo senso Spencer va al di là di Comte per il quale la religione era la fase infantile
dell’umanità. Per Spencer, invece, la religione resta presente nell’umanità come stimolo di
ricerca. A Spencer non interessa sapere se esiste una vera religione ma stabilire la funzione
della religione rispetto alla scienza. Ne consegue che per lui le religioni sono tutte uguali, tutte
vere se ti proiettano all’ulteriore, tutte false se pretendono di essere coloro che catturano la
verità. Nella sociologia positivista più evoluta si riconosce alla religione la funzione
epistemologica (per Spencer) in quella attuale si riconosce una funzione sociale, nell’ambito
della società.

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Le tre dimensioni che aveva individuato Comte (religione, filosofia, scienza) vengono trattate
da Spencer così. Abbiamo visto come tratta la religione, la considera fondamentale per la
ricerca. Per quanto riguarda la scienza, Spencer ritiene che la vera conoscenza è quella della
scienza che fa la ricerca di quel’universo additato anche dalla religione. Ritiene che vi sia
corrispondenza fra il dato e la legge con cui viene poi elaborato il dato, per cui è una
conoscenza di tipo essenziali stico che ti fa conoscere il fenomeno come esso è. La verità è
quella della scienza.
La filosofia è vista nella concezione classica di sapere principe, come Comte riteneva essere
la sociologia. La filosofia deve dare la sintesi di tutte le conoscenze, cioè è quel sapere che
deve saper cogliere i primi principi ( è la prima parte dell’opera “Sistema di filosofia sintetica”).
Fa re sintesi è il compito della filosofia. Fare sintesi significa anzitutto cogliere i primi principi
che costituiscono ogni sapere scientifico (chimica, fisica, sociologia ecc.), cioè i principi logici.
In questo è ancora kantiano, critica della ragion pura, le categorie a priori che costituiscono la
struttura logica (logica trascendentale) a fondamento della conoscenza scientifica.
Quindi il primo compito della filosofia è epistemologico-trascendentale: cercare i primi
principi che stanno a fondamento delle singole scienza, le categorie a priori kantiane.
Il secondo compito della filosofia è ancora kantiano in una modalità sua. Kant oltre
all’estetica e all’analitica trascendentale poneva anche la dialettica trascendentale nella quale
cercava di cogliere l’unità del modo, dell’io e dell’unità fondante che è Dio. Lo poneva conme
un’esigenza della ragione che si trasformava in dialettica in senso negativo, quindi una
dialettica negativa che si trasformava in illusione trascendentale nel momento in cui si volesse
dare a quelle tre idee un contenuto conoscitivo empirico. Però quelle tre idee per Kant
costituisco questa esigenza della ragione di trovare dei principi incondizionati, è un’esigenza
ma non può essere una conoscenza. Spencer traduce questo pensiero kantiano dicendo che
la filosofia, oltre a dare i principi delle singole scienze, poi riflettendo su questi singoli principi,
deve dare il principio unificatore di tutte. Questo principio unificatore viene individuato nel
principio dell’evoluzione, formulato ulteriormente nella “Scienza dei primi principi” dove si
dice:”la legge universale dell’evoluzione deriva dalle leggi dell’indistruttibilità della materia e
della conservazione dell’energia. Il reale è conservazione di materia e di energia nel
movimento e ridistribuzione continua di materia e del movimento. Il riposo e la permanenza
assoluta non esistono ed ogni oggetto subisce ad ogni istante quel mutamento di stato”. uindi
evoluzione è un processo di continuo movimento. Continua :“Sicché l’evoluzione è
integrazione di materia accompagnata da dispersione di moto in cui la materia passa da
un’omogeneità indefinita, incoerente, ad una eterogeneità definita, coerente, mentre il moto

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trattenuto subisce un trasformazione parallela.” (in natura nulla si distrugge e nulla si cera). Si
va verso una complessificazione del reale che è un bene perché la realtà diventa sempre più
ricca. La terza legge della termodinamica di Kelvin, l’entropia mise in crisi il pensiero di
Spencer nell’ultimo periodo. L’entropia parla di una graduale perdita di energia, un
depotenziamento, invece per Spencer c’è una redistribuzione e reintegrazione.
La prima guerra mondiale fu l’affossamento dei sogni della concezione positivista di un
progresso illimitato.
Spencer diceva nella a”Scienza dei primi principi”:“l’evoluzione potrà finire soltanto con
l’instaurazione della massima perfezione e della più completa felicità”. Questo è l’ottimismo
progressista.
Un altro concetto importante che si avvale sempre di categorie kantiane utilizzate in modo
diverso, è il riduzionismo biologico, cioè il paradigma biologico applicato ai valori etici, alla
morale per Spencer la morale è “una forma di adattamento dell’uomo all’ambiente”; così come
nell’evoluzione dell’uomo c’è un’ascensione progressiva, così anche nella morale c’è un
progressivo adattamento. Quindi non esiste una morale assoluta, immutabile, ma un processo
di graduale adattamento all’ambiente di vita.
Noi riteniamo che nella coscienza siano iscritti i principi immutabili, per Spencer invece non
sono principi immutabili bensì l’eredità, depositata nel DNA umano, acquisita da questo
processo evolutivo. Quindi quelli che Kant chiamava i principi a priori, lo possono esser per il
singolo individuo ma sono principi a posteriori per l’intera umanità, sono il risultato di una
evoluzione storica e pertanto soggetti ad ulteriore evoluzione.
Un altro punto legato al pensiero di Spencer è quello che poi è stato definito il social
darwinismo, per cui “la varietà degli uomini più adatti alla vita sociale soppiantano la varietà
degli uomini meno adatti”. Nel liberalismo sfrenato il più forte sopprime il più debole, è una
forma di social darwinismo. Nell’ottica di Spencer, dall’omogeneo all’eterogeneo c’è la
soppressione di ciò che non era funzionale al progresso. Il debole non è funzionale ad una
società sviluppata, quindi va eliminato.
Gli studiosi tendono a distinguere fra teoria dell’evoluzione ed evoluzionismo, dove per
evoluzione si intende tutte quelle ipotesi fondate su dati scientifici. L’evoluzione non si può
negare come dottrina scientifica, il problema è quando dalla teoria scientifica si trasforma in
teoria filosofica, come interpretazione globale dell’esistenza. Vanno distinti questi due aspetti.

26/10/2011

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Il percorso che abbiamo fatto fino ad ora è quello della ragione promettente, una ragione che è
l spiegazione di tutto, anzi il tutto si risolve nella ragione e questo era Hegel, oppure la ragione
che spiega tutto sul senso e esito della storia e cammina verso il pieno affrancamento
dell’umano, e questo è Marx. Oppure la ragione che essendo capace di penetrare le viscere
della natura, della realtà, del mondo, attraverso la conoscenza scientifica, può poi offrire gli
strumenti per costruire un’umanità pienamente progredita, evoluta. Questo sogno della ragione
che per certi aspetti si è armato con gli strumenti della forza; nel caso del modello hegeliano è
la forza degli stati che riescono ad imporre la loro egemonia, con Marx è la forza del
movimento operaio che guida la rivoluzione, non necessariamente violenta ma nei fatti sempre
violenta. Quindi è una ragione che si arma, diventa violenta. È una ragione che nel cammino
tecnico-scientifico diventa onnipotente e cancella altre dimensioni che sono dell’umano.
Questa ragione diventa un’anima della cultura dell’800 e pervade molti ambienti, pensiamo ai
moti rivoluzionari dell’800 che sono segnati dal questa fiducia nell’affermazione dei diritti della
ragione e della libertà che ad essa si riconnette. Pensiamo anche dal punto di vista
economico-sociale agli sviluppi che si hanno attraverso la rivoluzione industriale, dapprima nel
‘700 in Inghilterra e poi nell’’800 in Europa continentale. Il positivismo è l’espressione filosofica
di questa fiducia nel progresso.
Se si va poi a guardare questo progresso si vede che è accompagnato da molte sofferenze,
da tanti costi in termini di dispiegamento di energie. Ci sono anche capovolgimenti in senso
negativo:ai moti liberali del ’20-21 ma anche del ’48, seguono governi di tipo conservatore,
repressivo che assunono caratteristiche imperialistiche. Ma poi anche le magnifiche sorti
progressive dello sviluppo industriale presenta dei conti estremamente elevati in termini di
un’umanità assoggetta a ritmi di lavoro infernali (pensiamo al lavoro minorile e delle donne).
Stuart Mill già aveva fatto delle analisi circa gli effetti dell’industrializzazione rispetto all’eco-
sistema, che ancora non era definito così. Gli ambienti urbani erano malsani.
Dentro a un processo evolutivo ricco di possibilità c’è tuttavia una realtà umana e sociale
estremamente difficile e spesso drammatica.
I tre filosofi che pongono dei punti interrogativi rispetto a questa ragione promettente ed anzi
capovolgono questo modello sono Kierkegaard, Nietzsche e Schopenhauer.
Nietzsche vedrà nell’affermazione della ragione l’elemento della decadenza dell’occidente che
ha preso come immagine di se stesso un uomo morente, cioè Socrate che ha bevuto la cicuta
della ragione. Cioè la ragione come veleno che ha depotenziato l’umanità.

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In Schopenhauer ci sono delle pagine estremamente vive e drammatiche per descrivere la
condizione di sofferenza dell’uomo. Vede come energia dominante la realtà l’irrazionalità; è il
capovolgimento di Hegel, perché a fondamento del mondo non c’è la ragione ma il non senso.
Kierkegaard fa un discorso più interiore che parte dall’uomo in se stesso, che è frantumato, è
un essere che sperimenta radicalmente in se stesso il senso dell’impotenza tanto che la sua
esistenza è caratterizzata da disperazione ed angoscia. Dunque una condizione esistenziale
dalla quale non si può sfuggire con la ragione, sia la ragione politica che scientifica, sia la
ragione teologica nella misura in cui pretenda di dare un spiegazione. Si esce da questa
situazione di insopportabilità unicamente con il salto della fede come abbandono toltale di sé
in Dio. La risposta che è in Kierkegaard è una risposta di fede.
Quindi il quadro è questo, da una ragione promettente ad una ragione che è messa in
discussione, anzi è negata, vista come fonte di dannazione dell’uomo, e comunque colta nella
sua radicale impotenza.
Questo schema della ragione e dell’anti-ragione trova delle analogie anche con il nostro tempo
contemporaneo, nella dialettica che pone di fronte modernità e post-modernità. È la modernità
non solo in senso storiografico (dal ‘400 all’800) in senso teoretico che risale già ai sofisti,
intesa come valore e centralità della ragione, vista come strumento di dominio del reale. Le
categorie delle grandi narrazioni elaborate da Liotarr sono i sistemi filosofici che possono
andare dal razionalismo cartesiano all’idealismo hegeliano ecc., cioè sistemi che ritengono di
aver individuato l’anima, lo schema a tutti i problemi. Il post-moderno è il rifiuto delle grandi
narrazioni, delle certezze della modernità ,si alimenta anche delle figure dei filosofi che
abbiamo citato.
Kierkegaard è un filosofo suggestivo anche per chi si muove in un ambito di fede. Rifiutava
per sé la categoria di filosofo che al tempo era quella di Hegel che invece Kierkegaard vedeva
come il gran buffone di corte, come colui che crede di aver capito tutto ma in realtà non ha
compreso nulla. Non ha compreso che di fronte all’essere, alla realtà, l’uomo si ritrova di fronte
alla sua singolarità irriducibile ad alcun sistema, nel senso che le sue domande sul senso della
vita, della morte, sul senso dell’esistenza nella sua radicalità, non vengono soddisfatte da un
teorema logico., razionale, l’uomo rimarrà sempre di fronte alla realtà domandandosi: ma io?
(dove sono, cosa faccio, perché mi trovo in questa situazione). E qualsiasi risposta razionale
venga data, che scioglie l’io nell’omogeneità dell’io collettivo, sociale, politico, non risolve il
problema, ma perché a me, perché sto nel mondo, il perché dell’esistenza. L’uomo è un
singolo che nessuno potrà mai sciogliere nella gelatinosa realtà. Kierkegaard lasciò scritto che
nella sua tomba fosse scritto semplicemente “quel singolo”. L’uomo è quel singolo che non

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significa l’individuo, bensì è quel soggetto che si rapporta con se stesso e in quanto tale è
spirito; rapportandosi con se stesso si scopre posto nell’essere quindi si scopre come un
soggetto che non scopre in se stesso la ragione di sé, perché si trova già posto, in relazione
con gli altri, con la vita, in relazione poi con chi lo ha posto, questa è la relazione fondante,
cioè con Dio. Quindi quel singolo è colui che prende coscienza di sé come spirito. Qui
Kierkegaard utilizza una categoria hegeliana ma in senso anti-hegeliano, perché questo spirito
non è riducibile a spirito assoluto, resta nella sua finitezza, è un io finito che rientra in se
stesso (c’è dietro S. Agostino) prendendo coscienza di sé. Quel singolo non è l’affermazione di
un’individualità narcisistica e pretesa onnipotente, ma è consapevolezza di sé, della propria
finitudine, si scopre cioè essere posto e in questo essere posto si scopre anche abitato da una
passione originaria. La passione originaria è la domanda, l’inquietudine radicale che l’uomo
porta in sé ed è la spia che l’uomo non è fatto solo per sé ma che è chiamato ad entrare in
relazione con un altro da sé. La passione originaria è la passione dell’infinito ma questa
passione originaria scopre in sé una differenza ontologica radicale, è la differenza fra finito ed
infinito. Consapevolezza di sé come spirito che entra in relazione con sé e si scopre posto da
altro da sé, in questa scoperta avverte questa chiamata, la vocazione, questa passione,
questo desiderio infinito, ma anche sperimenta l’impossibilità di varcare la soglia dell’infinito.
Qui c’è tutta la critica radicale ad Hegel, il gran buffone dello spirito.
E l’uomo che sperimenta questa radicale impotenza a superare il varco tra il finito e l’infinito
vive in una condizione di disperazione, che non è una categoria psicologica ma ontologica.
L’io è il soggetto che sperimenta in sé una chiamata, passione originaria, che sperimenta in sé
anche una situazione di indecidibilità fra l’essere e il non essere. Cioè l’uomo si trova di fronte
ad una situazione in cui l’uomo potrebbe guadagnare tutto ma potrebbe anche perdere tutto.
È la coscienza della libertà, cioè questo io è una possibilità che è aperta verso l’abisso in
basso ma può esser aperto anche verso l’infinito in alto, passione originaria. Chi mi scioglierà
da questa condizione? L’angoscia è il trovarsi sul limitare di un confine dove potresti tender
verso il basso ma anche verso l’alto. L’angoscia è l’apertura alla possibilità , è una condizione
ontologica. Qui si vede l’anti-hegelismo di Kierkegaard. Per Hegel invece non c’è questa
indeterminazione perché l’infinito è in ogni cosa e ogni cosa è già infinito.
L’angoscia si coniuga poi con la disperazione perché l’uomo non sa come sfuggire all’abisso e
conquistare l’infinito.
L’io rientrando in se stesso ha la consapevolezza che è posto in una condizione di
indeterminatezza, di possibilità. Il soggetto è possibilità. Questa è una categoria che avrà
ampio sviluppo nell’esistenzialismo del ‘900 e troverà posto nel pensiero di Hidegger. Questa

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indeterminatezza crea una situazione di angoscia. L’angoscia non è una condizione
psicologica ma ontologica. È l’angoscia della possibilità che è libertà, è l’angoscia dell’ever
dell’aver consapevolezza di essere sul limitare di un abisso nel quale si può cadere ma dal
quale si può anche sfuggire, ma rendendosi conto che non si hanno gli strumenti. E quindi è
anche questo senso di “Timore o tremore” che è il titolo di una operetta di Kierkegaard. Timore
di fronte ad una possibilità che è infinita sia nel versante negativo sia in quello positivo. E
tremore che nasce dalla coscienza di non essere attrezzati a superare questa situazione di
indeterminatezza. È il termine che viene indicato come coscienza tragica, cioè ciò che
caratterizza il soggetto umano.
Per l’uomo contemporaneo la coscienza tragica è una condizione strutturale dell’essere
umano, dentro la quale l’uomo deve saper vivere sereno e tranquillo. Il post moderno per
coscienza tragica intende il fatto che si ha perfetta consapevolezza che l’uomo è
esclusivamente, nel senso che ha esclusivamente un dimensione finita. Per cui di cosa vuoi
aver paura, della morte, dell’al di là? No, perché non c,è, vivi il tuo tempo, un po’ come nella
concezione epicurea. La coscienza tragica oggi coincide con mordi l’attimo fuggente, perché
non c’è altra prospettiva. E dunque la coscienza tragica del post moderno si può trasformare
anche in una coscienza gaia, cioè nel godere di tutti i frammenti dell’esistenza.
Invece in Kierkegaard la coscienza tragica è anzitutto consapevolezza che sei un essere finito;
inoltre che questo finito è abitato dalla passione originaria per l’infinito. Quest’ultimo è l’aspetto
di maggiore differenza con il post moderno.
La passione originaria anche qui è una componente strutturale dell’essere umano. L’essere
umano è questa sintesi, non compiuta, di finito ed infinito. Mentre per Hegel è una sintesi
compiuta, per Kierkegaard la sintesi rimane incompiuta ma è sintesi perché è vissuta proprio
nella profondità dell’io.
La coscienza tragica è, come terzo aspetto, che l’uomo non ha la certezza di poter accedere
all’infinito, anzi ha in sé la consapevole di non avere mezzi per accedere all’infinito, e prende
coscienza che può rimanere schiacciato sul finito e dunque è senso di tragicità, di una
condizione a cui non puoi sfuggire ma che non puoi neanche risolvere.
L’uomo è questo essere che vive in questa contraddizione radicale tra finito ed infinito. Lo vive
come angoscia perché prende consapevolezza che potrebbe rimanere schiacciato dal finito e
non poter realizzare quella tensione verso l’infinito, o comunque di prender consapevolezza
che non riesce ad elevarsi verso l’infinito. Questo secondo aspetto coincide piuttosto con la
disperazione. L’angoscia è la coscienza di questa duplicità e di essere aperti alla possibilità
che è si ma anche alla possibilità che no. La possibilità che si è quella dell’uomo che viene a

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coscienza di sé ed esce dalla condizione originaria, di innocenza, di inconsapevolezza in cui
non c’è peccato. È Adamo prima del peccato.
Dal momento che l’uomo esce da questa condizione in consapevole e prende coscienza di sé,
entra nella condizione di peccato, non come peccato attuale, fatto ma come possibilità del
peccato. Dietro c’è una tradizione luterana secondo cui già il desiderio di peccato è peccato.
Dunque per Kierkegaard la consapevolezza del peccato è già essere usciti dalla condizione di
innocenza. Quindi prima ancora di cadere nel peccato attuale, l’uomo, nel momento in cui
esce dalla propria condizione di inconsapevolezza innocente è già possibilità di peccato, in
qualche modo è già peccato. Il peccato è angoscia prima e dopo. Prima perché è la
consapevolezza che si e che no, dopo perché essa è diventata la possibilità che no. In realtà
la possibilità che si non è alla portata dell’uomo e in questo senso l’uomo vive anche una
condizione di disperazione.
Le due opere fondamentali nelle quali vengono tratta ti questi temi sono “il concetto di
angoscia” e “la malattia mortale”. Questa malattia non è per la morte ma per la gloria di Dio
(c’è il riferimento biblico al vangelo di Giovanni). La malattia mortale è la disperazione ma non
porta necessariamente alla morte.
La disperazione ha due volti: quello più positivo, più ontologico, è disperazione perchè
l’uomo, che è finito ma ha in sé la passione originaria, scopre di non poter essere ciò che è.
Cosa si è? Si è un finito animato dalla passione originaria. Ma l’uomo scopre anche che il
passaggio fra il finito e l’infinito è un passaggio che al finito è precluso perché c’è una
differenza ontologica radicale, da un genere ad un altro che non è possibile. Allora la
disperazione è il non poter esser ciò che si è e che si vorrebbe essere. Questa è la
disperazione radicale.
Poi c’è la disperazione indotta, qui si va sul versante soggettivo. Può essere anche una
risposta a questa condizione in cui l’uomo non può essere ciò che è anche se lo vuole. Questo
porta alla disperazione soggettiva, cioè il non volere essere ciò che si è. Cosa si è? Si è finito
con una passione infinita. Ma dal momento che mi rendo conto di non avere strumenti per
raggiungere l’infinito, preferisco gozzovigliare nel finito, è un arrendersi al finito.
Queste due condizioni ontologiche, cioè l’angoscia e la disperazione, se l’uomo non le
possedesse sarebbe l’uomo più disgraziato. Ecco la malattia mortale, questa malattia non è
per la morte ma per la gloria di Dio. L’uomo deve prender coscienza di questa condizione
perché cosi facendo si apre alla medicina che è la fede, cioè l’aprirsi all’incondizionato, a Dio
nella modalità cristica, dove si risolve il paradosso del finito e dell’infinito. Il finito che è
impossibilitato ontologicamente a raggiungere l’infinito è risolto dall’infinito, cioè da Dio che

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raggiunge l’uomo (l’incarnazione). In Cristo l’uomo ha la sintesi compiuta di finito ed infinito ma
nell’uomo Cristo è indicata anche la modalità di raggiungere questa sintesi. Non è l’uomo che
cattura l’infinito ma parte da Dio che si offre all’uomo e in Cristo realizza l’incontro tra finito ed
infinito. Sicché ogni uomo se vuole uscire dalle condizioni di angoscie e disperazione non
possono che aprirsi a Cristo dove finito ed infinito si sono dati appuntamento, dov el’uomo
trova la risposta a se stesso. È il paradosso della fede. È un paradosso perché è incontro di
finito ed infinito, due realtà irraggiungibili, incomunicabili. Ma dal momento che l’infinito è
andato incontro al finito, anche per l’uomo c’è la possibilità di incontrare l’infinito, convergendo
in Cristo che è la risposta dell’uomo.
Nella malattia mortale c’è la definizione di quel singolo. Il rapportarsi a se stesso è l’interiorità.
L’uomo diventa se stesso quando si rapporta con se stesso, quando ritrova la sua interiorità.
Per cui chi rimane nella condizione originaria è un non uomo, è un perenne bambino che non
ha ancora scoperto se stesso. Molto famosi di Kierkegaard sono i diari, una sorta di cammino
interiore, l’equivalente delle Confessioni di S. Agostino.
Dice Kierkegaard nella malattia mortale che “L’io è la sintesi consapevole dell’infinito e del
finito che si mette in rapporto con se stesso e il cui compito è diventare se stessa (cioè sintesi
effettiva), compito che non si può risolvere (né con la propria ragione né con la propria volontà)
se non mediante un rapporto con Dio (che è la fede). Diventare se stesso significa farsi
concreto (è il cumcrescere in senso hegeliano). Ma per farsi concreto lo sviluppo dell’io deve
consistere nello staccarsi infinitamente da se stessi (cioè perdere se stessi) rendendo infinito
l’io e nel ritornare infinitamente a se stessi (cioè ritornare carichi di Dio che si è donato
all’uomo) rendendolo finito (consapevole che hai ricevuto un dono e non un conquista). ”
Farsi concreto significa entrare nella relazione, realizzare effettivamente in rapporto. L’io che
entra in rapporto profondo con Dio è un io che si fa concreto. Ma per farsi concreto l’io deve
perdere che significa due cose: una che il me stesso più radicale non è dato dalla mia finitezza
e quindi devo avere la capacità di volare alto; la seconda è che l’io deve staccarsi dalla
presunzione di poter diventare concreto solo da se stesso
L’io si rende infinito nel rapporto con Dio, unicamente attraverso la fede che è l’incontrare Dio
in Cristo; ma è anche la fede di Abramo che ha anche accettato di sacrificare il figlio per Dio,
cioè ha sacrificato la sua realtà finita per abbandonarsi all’infinito e ciò gli fu computato a
giustizia. Ecco la fede che salva.
“Diventare se stesso è un movimento sul posto”, significa che tu rimani radicato alla tua
finitezza come luogo che ti consente di elevarti all’infinito senza muoverti dal finito, perché in

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realtà è l’infinito che viene in te. È essere consapevoli della propria radicale finitezza che però
è abitata dall’infinito. Quindi si compone la sintesi di finito ed infinito.
L’angoscia e la disperazione sono le condizioni che ti permettono di metterti in attesa, in
atteggiamento di disponibilità. Solo chi si mette in questo atteggiamento consegue la salvezza,
cioè il dono di Dio che passa attraverso l’incarnazione.
La legge dei tre stati dell’ esistenza: stato estetico, etico, religioso. La troviamo in un operetta
intitolata “aut aut”, nel senso o ti lasci investire dall’infinito o non hai via di scampo. È un
aut/aut in contrapposizione all’et/et di Hegel, secondo cui nella sintesi c’è e la tesi e la antitesi.
Dove il finito si infinitezza e l’infinito si finitezza.
Per Kierkegaard c’è differenza ontologica tra finito ed infinito, un aut/aut da cui si esce
scegliendo, attraverso la decisione, come atto della volontà e non della ragione (in Hegel si
arriva alla sintesi con lo sforzo del concetto). La decisione può esser quella di appiattirsi sul
finito, stadio estetico. La decisione etica è l’impegno politico (Hegel). La decisione religiosa è
Abramo che sceglie fra Dio e il Figlio, fra la fede e la morale.

07/11/2011
Rispetto al pensiero di Kierkegaard non è facile rispondere alle tre domande (la conoscenza,
chi è l’uomo e il senso della storia) perché è un pensiero in libertà, non si considerava un
filosofo ma un pensatore cristiano.
L’uomo è spirito che vuol dire porsi in rapporto. Per quanto riguarda il concetto di verità, e
quindi correlativamente la conoscenza e il modo di conoscere, in Kierkegaard c’è una modalità
esistenziale nel senso che per Kierkegaard la verità è la persona stessa che riflette su se
stessa.
Cartesio, come Pascal ma prima ancora S. Agostino, diceva ho cercato, ho indagato, ho
attraversato infiniti mondi e poi ho scoperto che la verità è soltanto in me, questo è il cogito
cartesiano del Discorso sul metodo, è l’io che è il centro della verità. Pensiamo alla redictio in
se ipsum di S. Agostino.
Questa è la verità, la vera conoscenza, non ci sono altre conoscenze che contano, non c’è la
conoscenza scientifica, non c’è la conoscenza filosofica né quella teologica. La verità è l’uomo
e la conoscenza della verità è la redictio, cioè il ritorno dell’uomo in se stesso, è la
comprensione della vita interiore. Questa è la verità che scaturisce dalla meraviglia. Per
Aristotele è l’inizio del sapere, il sorprendersi, il trovarsi improvvisamente di fronte a quello che
ci era apparso come ovvio e ovvio non era; sei sorpreso, ti meravigli, e da lì parte la
riflessione. C’è anche chi dice, come Emanuele Severino, che la meraviglia nasce

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dall’esperienza del dolore. Hidegger in “Introduzione alla metafisica” dice che la domanda
fondamentale è cosa è l’essere, qual è il senso dell’essere. Questa domanda nasce non
quando hai lo stomaco pieno e tutto ti sorride, ma quando avevi delle aspettative e ti scontri
con il naufragio, il dramma. La meraviglia non è solo ciò che ti sorprende e ti riempe il cuore di
felicità ma è anche il drammatico interrogativo di fronte a cose che non si comprendono.
La vera meraviglia è quella che nasce dalla contraddizione e nel Diario dice Kierkegaard
“l’esistenza comincia con la contraddizione. La contraddizione radicale è quella fra finitezza e
tensione infinita. Che il principio di identità (logica aristotelica) domini in un certo senso il
principio di contraddizione e gli serva di base tutti lo comprendono, ma esso non è che il limite
del pensiero umano come le montagne azzurre all’orizzonte (che è Dio). Finché io vivo nel
tempo il principio di identità non è che una astrazione (non c’è coincidenza fra realtà e
razionalità). Niente è più facile quindi che lusingarsi e far credere agli altri di pensare l’identità
del tutto lasciando cadere le differenze.”
C’è un una profonda critica ad Hegel che poneva il principio di contraddizione al centro della
realtà ma poi alla fine la realtà tornava secondo una logica, il reale è razionale secondo Hegel.
Invece per Kierkegaard il reale non poi così razionale, è contraddizione reale e non mentale,
concettuale ma è una contraddizione effettiva. Dunque il principio di identità che fa coincidere
realtà e razionalità, è un’astrazione, cioè non c’è coincidenza tra realtà e razionalità.
Uno degli aspetti della modernità è l’identità tra realtà e razionalità, cioè la soggettività
hegeliana, la quale ha prodotto i sistemi della totalità, cioè il totalitarismo che cancella le
differenze (dice Kierkegaard “pensare l’identità del tutto lasciando cadere le differenze”),
cancella quel singolo, l’uomo, lo spirito. Per Kierkegaard lo spirito è quel singolo uomo che si
rapporta con se stesso, rapportandosi con se stesso si rapporta con gli altri e rapportandosi
con gli altri si rapporta con l’altro da sé. Il totalitarismo invece assorbe tutto in una identità
indifferenziata.
Nella posto-modernità, il tempo che viviamo oggi, alla luce dei disastri provocati dalla
modernità totalitaria, si assolutizzano le differenza che sono le singole storie, individualità,
esperienze. Tutte le differenze sono parimenti uguali. La traduzione sul piano etico culturale è
il relativismo, secondo cui le differenze diventano un assoluto in se stesse.
Ma c’è differenza nel pensiero di Kierkegaard. Per Kierkegaard le differenze sono quel singolo,
il soggetto umano, lo spirito che si rapporta con l’assoluto, cioè con Dio. Lo spirito che rientra
in se stesso e si scopre relazione, in relazione con Dio.
Nel post-moderno, invece, quel singolo diventa il singolo che viene assolutizzato e il singolo
che si assolutizza è demoniaco, è il Faust di Goethe e il Don Giovanni.

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“da una parte ho la verità eterna, dall’altra la molteplicità
Per Kierkegaard c’è un’originarietà logica del principio di identità, unità appellante, che è
fondamentalmente Dio, che è al di fuori dell’esistenza concreta e un’originarietà esistenziale
del principio di contraddizione e del dubbio, cioè la ttensione fra il finito e l’infinito che non si
risolve con il tempo. Qui inseriamo il tema della storia. Per Kierkegaard la storia non ha un
senso, non è il grembo generatore di una nuova umanità.
Mentre per Marx la storia conduce all’umanità liberta e per Hegel è la manifestazione del
divino, quindi ha un senso, diversamente per Kierkegaard il senso non sta nella storia.
Lo stadio estetico è quello che assolutizza se stesso.
Il borgo mastro Guglielmo è la figura che fa riferimento al secondo stadio etico, rappresenta
l’uomo che ha fatto una scelta. Mentre il Don Giovanni è la figura del farfallone che non si
assume responsabilità, non sceglie ma si lascia scegliere, il borgomastro sceglie di sposarsi, di
avere figli, sceglie la famiglia, è fedele anche s e ha delle tentazioni, quindi ha assunto un
impegno etico. Ma vi è di più, ha anche assunto un impegno politico perché è il sindaco della
sua città, ha deciso di mettersi al servizio della sua comunità.
È la figura di colui che ritiene che la salvezza si può raggiungere nella storia, è il paradigma
della filosofia hegeliana, che si impegna nella comunità e per la comunità, che pensa di aver
raggiunto in questo modo la sua realizzazione.
Kierkegaard nega che nella storia vi sia alcuna salvezza, tanto che per lui chi consegue la
salvezza è Abramo, che la consegue nella fede. Il momento in cui si vede questo
raggiungimento della salvezza è quello del sacrificio Isacco.
C’è la radicalizzazione del principio luterano sola fides. Non è un caso che Abramo venga
preso a paradigma del vero credente. Kierkegaard ha passato un’esistenza breve in una
forsennata lotta polemica con la Chiesa luterana danese perché secondo lui questa
confessione, con la sua organizzazione ecclesiale, aveva ridotto il cristianesimo ad una
pratica, ad un sistema, quindi aveva tradito l’ispirazione originaria di Lutero (sola fides). Chi è
che riesce ad elevare l’uomo all’infinito a cui è chiamato? È unicamente l’infinito che si è dato
all’uomo.
Che cos’è le fede per Kierkegaard: “la fede è il rapportarsi (dell’uomo, dello spirito) nel tempo
all’eterno nel tempo”. Ricordiamo che per Kierkegaard l’uomo è un movimento sul posto. Il
tempo è il posto, è quello che si abita in questo momento, e secondo Kierkegaard il tempo non
ci salva.
Allora la traduzione della postilla filosofica è: la fede è un rapportarsi nel tempo (in questo
momento che siete qui) all’eterno che è Dio, che è entrato nel tempo perché

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L’eterno nel tempo significa Dio che si è fatto uomo in Gesù Cristo. Quindi io mi rapporto
all’eterno, con il Dio che è entrato nel tempo. Non ci entro io da solo, lo sforzo di Hegel, che si
rapporta con l’eterno ma attraverso la sua ragione. È la pretesa del finito di impossessarsi
dell’infinito.
La fede, invece, è la consapevolezza del finito che può entrare in comunicazione con l’infinito
perché è l’infinito che ha deciso di entrare in comunicazione con te. Ecco la sola fides. Non
attraverso la chiesa, non attraverso i sacramenti, non attraverso le opere etiche si può
raggiungere l’infinito.
In Abramo c’è la sospensione dell’etica attraverso la teologia. Cioè l’etica è sospesa dalla
teologia. Per Kierkegaard c’è un abbandono totale di sé in Dio, l’uomo si arrende a Dio. C’è la
negazione di qualsiasi elemento umano, mondano, ragione, storia , etica come via di accesso
a Dio.
Fra le interpretazioni che vengono date di Kierkegard si sottolineano due aspetti antitetici.
Remo Cantoni sottolinea l’aspetto reazionario del pensiero di Kierkegaard, nel testo
“Coscienza inquieta”, secondo cui in Kierkegaard “le passioni sociali e politiche, la ricomparsa
delle masse sulla scena della storia, la richiesta di nuove costituzioni, le agitazioni per la
libertà e giustizie più vaste, non trovano adeguata comprensione in spiriti torturati dal
problema religioso in uomini che guardano con sospetto tutto ciò che può allontanare l’uomo
dal verbo di Cristo”
In Kierkegaard c’è una profonda fede ma tormentata. Il limite è proprio la sospensione
dell’etica in nome della teologia, l’aver saltato la mediazione umana. La teologia deve essere
l’anima dell’etica, non l’eliminazione dell’etica.
Secondo Sciurpa la salvezza è comunque un dono della misericordia di Dio che non ci
dispensa dal mettere in atto tutto ciò che la parola di Dio ci chiede. Non è una misericordia,
quella di Dio, che ci deresponsabilizza dalle responsabilità etiche, sociali, umane, politiche,
religiose. La fede non cancella la ragione. Va ricostituita l’unità di fondo dell’uomo integrale,
senza sospender un aspetto. L’incarnazione non è l’eliminazione dell’umano ma l’assunzione
dell’umano dentro la dinamica della fede, di cui porto tutta la piena responsabilità. Dio non mi
sospende dalla responsabilità etica.
Il limite di Kierkegaard è di aver baipassato ogni mediazione umana. Ciò che fa il borgomastro
Guglielmo, padre di famiglia integerrimo, ottimo sindaco della sua città, alla salvezza non
serve. Anche perché seppure il borgomastro rimane fedele alla moglie tuttavia è tentato e
nell’ottica luterana la concupiscenza è già peccato, il desiderio è già peccato. Per Kierkegaard
l’impegno sociale e politico del borgo mastro non dà la salvezza. La prosppettiva cattolica della

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salvezza invece è più umanistica, nel senso che se è vero che la salvezza è un dono di Dio,
tuttavia va considerato che anche la dimensione umanistica fa partecipare alla salvezza. Tutto
ciò che è umano non va disprezzato, ha il suo valore.
Le Vinasse, filosofo francese ebreo, pone come principio fondamentale del rapporto tra l’uomo
e Dio e tra gli uomini l’etica, come capacità di accogliere l’altro, il volto dell’altro e quindi anche
il volto di Dio. Dice di “Kierkegaard che è un filosofo che fa filosofia con il martello”, nel senso
che distrugge. Mette a confronto Kierkegaard con Nietzsche, che elabora la categoria del
super-uomo, per concludere paradossalmente che vanno messi sullo stesso piano perché
entrambi fanno filosofia a colpi di martello. Come Nietzsche ha martellato la ragione, in
Kierkegaard c’è il disprezzo per il fondamento etico dell’essere
Il disprezzo per il fondamento etico dell’essere, passando attraverso Nietzsche giunge
all’amoralismo delle filosofie più recenti. La sospensione dell’etica in Kierkegaard è in nome
della teologia, in Nietzsche è in nome della irrazionalità più radicale.
Riassumendo: la conoscenza è un ritorno in se stesso, ricercare la verità in se stessi, ma è
anche una reduplicazione, cioè ripetere la vita dell’altro che è Dio il quale si manifesta in Gesù
Cristo. Quindi univa vera verità dell’uomo è Gesù Cristo, non solo vissuto con formule
teologiche ma vissuto, reduplicato. Vivere come Gesù Cristo, questa è la verità. Tutto il resto
non è verità, sono verità all’impronta. L’uomo è lo spirito.
Il senso della storia non passa nella la storia, è uscire dalla storia, movimento sul posto, è il
rapporto con Dio con il rifiuto di qualsiasi mediazione, etica, politica ecc.
Kierkegaard è un pensatore cristiano anche se con questo radicalismo, con questo retroterra
luterano.
Invece Schopenhauer e Nietzsche si collocano in un orizzonte impegnato di cristianesimo ma
ne offrono una traduzione che se ne allontana.
Per molti aspetti si richiamano e compenetrano ma per altri si distanziano l’uno dall’altro. Sono
entrambi alle sorgenti del pensiero del ‘900. Il loro impianto di fondo è la negazione di ogni
fondamento razionale della realtà, la radicale messa in discussione della identità hegeliana fra
realtà e razionalità, anzi ne è il capovolgimento, cioè il reale è irrazionale. Che il reale è
irrazionale significa che è mosso da una forza vitale, una forza naturale, è un naturalismo.
Tutto avviene a caso senza un progetto alla fonte e senza uno scopo alla foce. Non c’è una
sorgente e non c’è una foce che regolino questo flusso della realtà.
Di fronte a questa realtà irrazionale come ci si comporta? Qui avviene la separazione fra i due
pensatori. Nietzsche viene dopo Schopenhauer, se ne riconosce figlio ma anche come
patricida perché dà una risposta diversa da quella di Schopenhauer.

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Schopenhauer si muove in un clima post hegeliano, quindi si pone anch’esso nell’ottica della
critica alla ragione onnipotente, ma dal punto di vista delle sue radici filosofiche è più kantiano
che hegeliano.
L’opera fondamentale di Schopenhauer, “Il mondo come volontà e come rappresentazione”, è
la cifra del suo pensiero. Il mondo è l’insieme dei fenomeni dentro i quali ci muoviamo. La
volontà è la sua essenza, è il noumeno che per Schopenhauer è anche conoscibile. La
rappresentazione sono i fenomeni. Quindi riprende i concetto kantiani di fenomeno e
noumeno.
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La metafisica di Schopenhauer è riconducibile all’opera principale “Il mondo come volontà e
come rappresentazione” che fu scritta nel 1819, dunque pensata prima che Hegel scrivesse
nel 1917 l’Enciclopedia delle scienze filosofiche. Quindi precede l’oggetto stesso della sua
critica, cioè la razionalità del mondo e fa comprendere che nello stesso tempo in cui c’era chi
affermava la coincidenza fra realtà e razionalità, vi era chi la pensava in maniera opposta.
La fortuna di Kierkegaard si pone all’inizio del ‘900, quella di Schopenhauer un po’ prima ma
sempre ritardata. L’opera citata non ebbe fortuna, mentre la notorietà arrivò con la
pubblicazione nel 1851 di un ‘opera secondaria, costituita da una serie di aforismi, “Parerga e
paralikomena” che parla di battaglie tra rane, sotto forma favolistica, che suscitò grande
curiosità fra il pubblico. Quindi solo a distanza di quaranta anni dalla sua pubblicazione, “Il
mondo come volontà e come rappresentazione” venne riscoperta e trovò successo. Siamo
dopo il ‘48, un anno di grandi sogni di libertà, a cui successe un periodo di restaurazione e forti
repressioni.
Dell’opera principale, “Il mondo come volontà e come rappresentazione”, dice il critico Papi:
”l’opera esercitò una funzione critica nei confronti della mentalità ottimistica, scientifica,
attivistica del tempo (è anche il periodo dell’affermazione del positivismo). All’immagine di una
società in continuo progresso, all’idea della morale come utilità sociale (tesi di Spencer),
all’idea di vita come lavoro e successo (la rivoluzione industriale), la sensibilità
Schopenhaueriana assegnava un ruolo spirituale deprimente (coglie l’elemento problematico
dell’esistenza)”.
L’obiettivo della sua filosofia è il nirvana, cioè la dissoluzione di sé nell’uno tutto, quindi il
nichilismo dell’individuo. È uno dei maestri del nostro tempo.
L’esito di questa filosofia è il nichilismo più radicale o, se volte, il misticismo più paradossale.
Per il mistico il nulla è lo scomparire di sé nel tutto che è Dio o anche il nulla che è Dio stesso.
Il nulla non come assenza ma come mancanza di determinazioni che io posso categorizzare.

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Dio è nulla e tutto al tempo stesso e l’esperienza del mistico è quella di chi non si ferma a
determinazioni. Dire che Dio è onnipotente, eterno, è un dire che non dice l’essenza di Dio.
L’unico modo di parlare di Dio è parlare di Dio come nulla. L’esperienza dell’uomo è entrare in
questo nulla. Questo per il mistico credente.
Per Schopenhauer l’individuo, che è il male radicale, per risolvere questo male radicale, deve
sciogliersi nell’uno tutto.
L’uno tutto non è Dio, non è la sostanza hegeliana, è la volontà irrazionale e onnivora nella
quale scompaiono tutte le differenze e le individualità e nella quale bisogna essere riassorbiti.
Il nirvana è ripreso dalla tradizione orientale.
Schopenhauer ha tre fonti di ispirazione, una è Kant, l’altra è Platone (che guarda la realtà
come fenomeno sfuggente, la realtà è nulla, l’essere è il mondo delle idee), poi c’è la cultura
orientale. Questo terzo elemento Schopenhauer lo apprende da uno dei massimi esponenti di
questa cultura in occidente, l’orientalista Prof. Meyer da cui apprende la filosofia indiana e
buddista.
In Schopenhauer si intreccia la tradizione occidentale (Kant e Platone e la tradizione mistica) e
quella orientale. Questa radice orientale del suo pensiero spiega perché il termine nirvana .
Quello di Schopenhauer è un misticismo ateo, è la dissoluzione dell’io nell’uno tutto che a sua
volta è assoluta irrazionalità, è volontà onnivora.
Per Schopenhauer la verità è menzogna che è come una specie di velo pietoso che stendiamo
su una realtà che è in sé dolore e irrazionalità. Il velo di maglia è una metafora che usa
Schopenhauer, come il drappo che si stende sopra un corpo morto. Il velo può essere anche
splendido, ha una sua utilità e bellezza ma sotto c’è un cadavere, c’è putredine, orrore, quindi
il velo è menzognero, perche ci dà l’apparenza di bellezza ma sotto c’è orrore, dissoluzione.
Noi chiamiamo verità la rappresentazione del fenomeno, ecco Kant che ha usato categorie
della mente da applicare al dato fenomenico. Quindi Schopenhauer riprende il concetto
kantiano di verità come rappresentazione sulla base di categorie logiche che per Kant però
sono oggettive. Per Kant la rappresentazione significava la verità, per Schopenhauer
semplicemente uno strumento utile per vivere. La sua tesi di dottorato del 1813 si intitola:”Sulla
quadruplice radice del principio della ragion sufficiente”. Parla di una ragione sufficiente che
cerca di dare una spiegazione alla realtà. Di questo principio di ragion sufficiente ne indica una
quadruplice applicazione che è una specie di riproposizione delle categorie della ragion pura di
Kant, con le quali cerchiamo di dare ordine alla realtà, perché ne abbiamo bisogno.
Quindi abbiamo la funzione pragmatica della verità, queste categorie non mi danno una
rappresentazione veritiera della realtà ma mi servono. Una delle radici, ad esempio, è il

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principio di causalità. Direbbe, invece, Schopenhauer che la realtà non è fenomeno
rappresentato secondo categorie logiche, queste sono le nostre rappresentazioni (il mondo
come volontà e rappresentazione). In Kant la rappresentazione è oggettiva, in Schopenhauer
è soggettiva, quindi è una finzione, un pietoso velo di maglia steso su una realtà in sé
irrazionale.
Il noumeno, ciò che per Kant è inconoscibile, per Schopenhauer è conoscibile ma non
attraverso la ragione che è solo uno strumento di calcolo per le nostre necessità, ma noi
conosciamo la realtà attraverso la nostra sensibilità, il nostro corpo che è quello che esprime le
forze originarie di cui siamo intessuti. Il nostro corpo ha fame, ha sete, soffre, è la nostra
sensibilità che percepisce la realtà nel suo fondamento.
Ecco il presupposto metafisico, che il mondo è materia, corporeità, vitalità, energia che
percepiamo attraverso i sensi. Quello che è il noumeno kantiano in Schopenhauer è questa
potenza a cui dà il nome di volontà, non nel senso tomistico di appetitus rationalis, ma nel
senso di energia irrazionale, è materia abitata da potenza. In fondo anticipa un principio della
fisica contemporanea, materia=energia. È energia che si espande che noi cerchiamo di
contenere dentro le nostre rappresentazioni, perché abbiamo bisogno di ordinare, dare una
logica, tramite le nostre categorie. È lo sforzo di Kant dare una spiegazione al mondo
Schopenhauer pone degli interrogativi centrali per l’esistenza di ogni uomo circa il senso del
dolore della vita; la realtà stessa ha un senso? Dà delle risposte folli, impraticabili che egli
steso non ha praticato.
Quella di Schopenhauer è una critica radicale al mondo delle sicurezze, capitalistiche,
scientifiche, ecc; riporta l’uomo alle sue domande radicali. In questo senso è un profeta del
nostro tempo perché ti pone di fronte alla drammaticità dell’esistenza. Oggi si parla di
coscienza tragica come presa di consapevolezza che il mondo è senza senso, è irrazionale.
Per Schopenhauer non è la razionalità che risolve i problemi dell’uomo, anzi ne aumenta la
sofferenza. Quindi la verità è menzogna nella misura in cui l’uomo ritiene di incapsulare il
mondo dentro categorie logiche nelle quali investe la sua attesa di verità. Il mondo non è
razionalità, non è logica, non è amministrazione, ma è dolore, sofferenza.
Che cos’è l’uomo, chi è l’uomo?. È come tutti gli altri esseri viventi che catturano o esprimono,
sono espressione della forza unica che abbraccia tutto e tutti, cioè la volontà, questa energia
che nell’opera “Il mondo secondo volontà e rappresentazione dice” viene definita da
Schopenhauer come la forza che fa crescere e vegetare la pianta e fa cristallizzare il minerale,
che dirige l’ago della bussola verso il nord ed è la forza di gravitazione che agisce con tanta
potenza in ogni realtà materiale e che attira la pietra verso la terra e attira la terra verso il sole,

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è il principio metafisico irrazionale, è impulso vitale insaziabile e incondizionato, è forza
cieca e irrazionale, senza ragione e finalità, l’unico scopo che ha questa forza è conservare
se stessa (il permanere nell’essere, l’istinto di conservazione), è libera (non deve rispondere a
nessun principio e a nessun ordine) e arbitraria, è intera e indivisibile (in ogni individuo c’è
l’intera volontà che è questa energia inconscia ed onnivora).
Ogni individuo è questo principio di ragion sufficiente nella quale è contenuta l’intera realtà che
è la volontà, la quale all’interno di questo contenitore spinge, preme, soffre, geme. La
sofferenza e il dolore nascono dal principium individuationis, ovvero dal principio di
individualità. L’uomo è questo singolo, questo individuo ma in ognuno di noi è presente l’intera
ed indivisibile volontà che preme per esprimersi. Ci si muove ancora nell’ottica romantica del
rapporto fra il finito e l’infinito, dove però il finito non è semplice tensione verso l’infinito (da
Fichte a Kierkegaard) ma è la gabbia dell’infinito, ne è la prigione. In questo torna Platone che
parla di anima prigioniera del corpo.
La condizione dell’uomo è quella di un essere che vive perennemente nel dolore che è
segnato dal desiderio e dalla noia. Il desiderio è dolore perché è aspirazione a qualcosa che
non ho e verso cui tendo; una volta che ho catturato l’oggetto del desiderio in me si presenta
la noia della mancanza di un altro desiderio. La noia è segno che la realtà non ha soddisfatto il
mio desiderio perché è un desiderio di totalità.
La noia è quello spazio limitato tra un desiderio soddisfatto e quello che ancora incomberà.
Questa è l’oscillazione dell’uomo tra un desiderio ancora non soddisfatto e un altro che
attende di essere soddisfatto e in mezzo permane la noia, come simbolo del male di esistere.
L’uomo è questa oscillazione fra desiderio e noia.
In ogni uomo c’è la totalità della volontà. Gli uomini si fanno la guerra, homo homini lupus.
perché ognuno è l’assoluto e tende ad affermare se stesso. Ognuno portando in sé la totalità
di questa volontà, la quale è senza ragione e vuole solo affermare se stessa, diventa guerra di
tutti contro tutti. La storia quindi è un non senso. Chi mi libererà da questo corpo di morte, da
questa condizione drammatica. Se ne può uscire gradualmente e definitivamente attraverso il
passaggio dell’arte, il passaggio verso la moralità e infine il passaggio verso l’ascesi radicale
che libera l’uomo. Kierkegaard parlava di stadio religioso, Schopenhauer parla di stadio
ascetico che ti porta alla liberazione totale dall’individualità che ti costringe, perché il male
radicale dell’uomo è il principium individuationis, è l’individualità che tiene compressa in sé la
volontà. Non ci si libera da questo principio togliendosi la vita perché così facendo si afferma,
paradossalmente, il diritto ad essere se stessi mentre è proprio il prinpium individuationis il
male di cui liberarsi rientrando nell’uno tutto attraverso un principio di purificazione che va dalla

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liberazione dalla volontà di possedere, dalla volontà di affermare se stessi, dalla volontà di
perpetuare se stessi che tradotti sono i tre voti di povertà, obbedienza e castità.
Anzitutto liberarsi dal desiderio del possesso perché le cose non sono che il prolungamento
del proprio io, del principio di individuazione. Se vogliamo trovare la libertà più profonda
bisogna distaccarsi dalle cose che sono il prolungamento del proprio io e il proprio io è la
radice del male. In secondo luogo distaccarsi da se stessi, dalla propria volontà di
affermazione quindi l’obbedienza come negazione di se stesso, rifiuto della propria
autoaffermazione; terzo la castità come il rifiuto della perpetuazione della specie, quindi rifiuto
del matrimonio e della generazione che nel voto dei frati è la castità ma non con questa finalità
bensì per aprire ad un orizzonte più alto. Rinuncia alla generatività, al dono.
In Schopenhauer c’è questa fuga che spesso si trova in certe forme attuali di misticismo, il
rinunciare all’impegno. Il senso della storia è abbandonare la storia a se stessa, non
contribuire ad aumentare la sofferenza che si aumenta aumentando il desiderio della vita. È
una visione molto drammatica. L’esito finale di tutte queste rinunce è che resta l’abbandono
nell’uno tutto della realtà, una forma immedesimazione panica con la natura, dove scompare
l’individualità.
L’esito finale dunque è il nirvana che ha un duplice volto, negativo come negazione dell’io ma
anche positivo come immedesimazione con il tutto di questa natura, che è energia, che è
volontà nella quale io scompaio.
Il misticismo cristiano non porta alla scomparsa dell’io ma all’incontro amoroso dell’io con Dio,
nela quale l’io trova la sua pienezza.
Ma tornando a Schopenhauer, i passaggi precedenti all’ascesi sono la dimensione estetica e
la dimensione etica.
C’è la via estetica per cui la funzione dell’arte è una specie di lanterna che rischiara l’orizzonte
dell’uomo, un piccolo sole che porta solo un momentaneo rischiaramento. L’arte ha una
funzione catartica, liberatoria, ti libera dalle problematiche della tua condizione esistenziale.
L’arte ha la funzione di un momentaneo allentamento dell’io perché ti inserisce in una
dimensione altra, ma poi resta la realtà del dolore che si può lenire con la compassione nel
senso di “con dolore” che è la consapevolezza che tutti siamo accomunati nel medesimo
dolore, quindi dobbiamo avere compassione, una pietas degli uni verso gli altri.
Si dice sempre nel “mondo come volontà e rappresentazione”:“Se ogni malvagità è un
disconoscimento dell’unità primordiale degli esseri (quando faccio del male ad una altro
dimentico che quello è parte di me stesso) ogni atto di pietà è un riconoscimento vissuto di
essa che va oltre il velo di maglia del fenomeno e del princpuim individuationis, dello spazio e

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del tempo attraverso i quali gli esseri appaiono moltiplicati. Dalla compassione derivano due
virtù capitali:la giustizia e la carità.”
La giustizia è una virtù negativa, è il neminem laede (non fare del male a nessuno), la carità è
“per quanto ti è possibile cerca di aiutare gli altri”. Insieme le due virtù costituiscono la regola
aurea del “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te e fai agli altri quello che
vorresti facessero a te”. Dunque c’è vicinanza all’etica cristiana e anche buddista ma manca la
spinta del dare se stessi agli altri. È una forma di auto sollevamento dalla sofferenza della vita.
Schopenhauer indica una scala delle arti che riprende da autori del ‘700, le mette in scala
secondo la struttura fisica (la materialità): si va dall’architettura alla pittura alla scultura, alla
poesia con la capacità di muovere i sentimenti, fino alla musica che è l’arte più
disindividualizzata perché è prodotta con strumenti ma la puoi ascoltare anche solo con
l’orecchio ed esprime maggiormente il linguaggio della volontà, ha capacità di assorbirti.

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Abbiamo visto come in Schopenhauer il concetto di verità si identifica con la menzogna o nel
migliore dei casi con l’illusione, il velo di maglia che copre una realtà incomprensibile come
struttura logica. L’uomo a sua volta è il soggetto che è schiacciato dentro la dimensione del
dolore e della sofferenza ma non per un fatto contingente, perché è proprio l’essenza umana
che è caratterizzata dal dolore che nasce dalla tensione tra il principio di individuazione, cioè il
principio del limite, e la onnipotenza della volontà irrazionale e assoluta. Infine il senso della
storia è un non senso, è un girar su se stessa, è un rigirarsi dell’uomo su se stesso senza
alcun esito.
Se questa è la condizione dell’uomo, da essa può risollevarsi momentaneamente attraverso
l’arte, in modo più consistente attraverso la solidarietà, cioè la compassione, infine in modo più
radicale attraverso la rinuncia a se stessi che passa attraverso un processo di ascesi che ci
libera dal desiderio di possedere, di auto affermarci e di perpetuare la specie, per giungere a
quella voluta o anche nirvana che è la conclusione che compendia l’opera principale di
Schopenhauer, “il mondo come volontà e rappresentazione”. “Non più volontà (si intende la
volontà individuale), non più rappresentazione (si intende quello sforzo di dare una struttura
logica, il mondo come rappresentazione caratterizzato dal principio di ragion sufficiente), non
più mondo (questo esodo dal mondo fenomenico che è un mondo di sofferenza perché è il
risultato della presunzione dell’uomo di poterlo catturare dentro se stesso ma in realtà è
soltanto sofferenza), davanti a noi non resta invero che il nulla (il nichilismo, il pessimismo
Schopenhaueriano non è semplicemente un pessimismo esistenziale ma è questa radicale

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nullificazione dell’essere nella sua individualità; ma il nulla è anche l’uno tutto della volontà). Si
comprende perché Schopenhauer è collocabile nella cultura contemporanea del nichilismo
anche se il nichilismo contemporaneo non così metafisico come quello di Schopenhauer.
L’altro grande critico della ragione promettente, dello spirito ottimistico e progressista,
storicistico dell’800 che è Nietzsche. Il Nietzsche più canonico è quello che viene letto in
chiave di destra come ispiratore della logica nazista ma nella seconda metà del ‘900 c’è chi lo
legge anche in chiave di sinistra. È il Nietzsche che mette in discussione tutti i sistemi e le
costruzioni politiche, sociali, economiche he rendono l’uomo alienato. Quindi un Nietzsche
libertario, al di là del bene e del male, che diventa una cifra di lettura del suo pensiero.
Nietzsche è figlio di una cultura teologica. Perché viene da una famiglia il cui padre è un
pastore luterano, viene inviato a studiare in un collegio nazionale di Postdam e poi si iscrive
alla facoltà teologica di Bonn. Quindi ricevette una formazione teologico-religiosa che ci fa
comprendere il capovolgimento antitetico di questa prospettiva. Più precisamente si deve
parlare di capovolgimento ed inveramento del cristianesimo.
Lo si vede nella celebre opera che è “L’anti Cristo”. In questo termine appare l’aspetto
antitetico, il capovolgimento. Altra scaturigine del pensiero di Lo spirito ellenico pre-socratico,
della Grecia attica più che della Grecia classica.
(Aprendo una parentesi c’è da dire che le opprimenti figure femminili della sua famiglia, la
madre, la zia e la sorella, lo portarono a sviluppare un radicale anti-femminismo. “La volontà di
potenza” è un’altra opera importante come cifra del pensiero di Nietzsche, considerata una
delle basi ideologiche del nazismo. Una recente rilettura l’ha un po’ affrancata da questa
diabolica interpretazione.)
A dimostrazione della radice teologica c’è un’altra operetta, “Ecce homo” che è una chiara
citazione evangelica. Ad un’analisi profonda del titolo “Anti Cristo” c’è da dire che più che anti
Cristo è anti cristianesimo. Nietzsche è quello che ha avvalorato la tesi di un cristianesimo
manipolato soprattutto da San Paolo. C’è questa valenza di rifiuto di Cristo e del Cristianesimo
ma c’è anche qui una citazione biblica (nel linguaggio biblico c’è tipo e anti-tipo, il tipo è
Adamo, Abramo, Mosè e l’anti-tipo è Cristo).
Nietzsche dice che il Cristo storico della Palestina, viziato dal Cristo della fede di San Paolo,
cioè il Cristo storico depurato dal Cristo fella fede, è il tipo, il modello di cui il vero realizzatore è
Nietzsche stesso. Come Cristo era il realizzatore di Adamo come prototipo dell’umanità, di
Abramo come prototipo del credente, di Mosè come guida del popolo, così Nietzsche si sente
il realizzatore del Cristo. Quindi nel termine anti-Cristo c’è una duplice valenza, da una parte
c’è l’opposizione al cristianesimo nella sua versione paolina ma al tempo stesso Nietzsche si

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sente il realizzatore del Cristo. Per Nietzsche Cristo è il super uomo, è l’uomo che non si
lascia condizionare dalle leggi, che rifiuta l’istituzione che ingabbia e toglie la creatività
dell’uomo; è il Cristo dunque eroico che si pone oltre la legge.
È meglio parlare di oltre uomo anziché di super uomo, perché è colui che è sempre oltre se
stesso, che non è mai completamente realizzato o meglio è un essere indeterminato e
incompiuto e in ogni realizzazione di sé non investe la totalità della potenza di sé, volontà di
potenza, ma in ogni realizzazione è semplicemente un dato, un momento. È “una maschera”
che non è un occultamento del volto, perché la maschera è il volto. Ma come le maschere
sono cangianti, le posso cambiare continuamente, così il volto dell’uomo (cioè la sua identità)
muta continuamente. Non esiste l’essenza uomo, non esiste un modello predeterminato o
finalizzato, esiste solo un uomo che dice “si” alla vita, volontà di potenza, il dire il si alla vita. La
volontà di potenza non è la volontà di dominio, di sopraffazione (secondo l’uso ideologico che
se ne è fatto anche in funzione nazista) ma un voler dire permanentemente il si alla vita.
Allora chi è l’uomo? È colui che si pone sempre oltre se stesso, oltre le proprie momentanee
identità, oltre le sue maschere, cioè le configurazioni che di volta in volta assume senza
definirlo ultimativamente. L’oltre uomo si pone “Al di là del bene e del male”, è il titolo di
un’altra opera che dice anche che da punto di vista etico non esiste una legge, non esiste il
bene e il male ma solo il dire si alla vita o il dire no. Nietzsche vuole essere il profeta di
un’umanità che dice sempre si alla vita. Questo essere sempre l’oltre uomo trova una
traduzione in un altro termine, la tra svalutazione dei valori.
La transvalutazione dei valori significa che non esistono valori permanenti, in sé e per sé,
immutabili, eterni, esiste solo una volontà di potenza, un dire di si alla vita ed è ciò che genera,
produce valori ma guai ad identificarsi nei valori perché significherebbe irrigidire la volontà di
vivere, invece è necessario che tu che hai consumato un valore, ora ne produci un altro.
L’uomo è un essere in cammino ma verso nessuna parte perché è un girare su se stesso, o
meglio un girare all’interno della ruota della vita che è un eterno ritorno. Un eterno ritorno
della stessa potenza di vita che prende diverse configurazioni ma in realtà mantiene e
contiene costantemente la stessa energia, la stessa potenza. In questo si vede la radice
Schopenhaueriana, perché alla radice dell’essere c’è una volontà che chiama volontà di
potenza, cioè volontà di vivere, di esprimersi e prodursi continuamente questa volontà torna
sempre ed è presente in tutte le manifestazioni, quindi non c’è uno sviluppo della volontà, ma
un ritornare sempre di essa in qualsiasi manifestazione dell’uomo.
Che cos’è la verità? La verità è soltanto maschera, interpretazione, dice Nietzsche che “non
esistono fatti ma esistono interpretazioni”. vuol dire che il fatto è sempre il frutto della

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mediazione di chi lo legge. C’è una radice kantiana, ma in Kant ci sono categorie a priori
universali, oggettive e assolute, tali perché sono delle strutture della mente immutabili e
necessarie (l’accusa mossa a Kant dal neo-positivismo è di aver costruito una metafisica della
mente), mentre in Nietzsche il soggetto non ha queste strutture, è un soggetto libero che crea
continuamente strutture, ma anche le discrea in un movimento continuo, non esiste nulla di
permanente, tanto è vero che c’è la tra svalutazione dei valori.
L’unico obiettivo dell’uomo è l’eterno ritorno, cioè il dare possibilità alla volontà di potenza di
manifestarsi.
“Attenzione a mettervi in adorazione delle statue perché potrebbero crollarvi addosso”, è
metafora di Nietzsche dove le statue sono l’assolutizzazione dei valori che di volta in volta
identifichiamo. Qui si sovrappongono delle figure che sembrano antitetiche.
Per Nietzsche l’uomo è l’oltre uomo, questa categoria si identifica con la figura del fanciullo, o
potremmo anche dire il divin fanciullino di memoria eraclitea che danza sull’orlo dell’abisso.
Quella che è considerata l’opera centrale di Nietzsche è “Così parlò Zarathustra” del 1883, in
cui c’è il riferimento alla figura profetica e allo stesso tempo divina che appartiene alla
tradizione orientale, pre-ellenica, che indica l’oltrepassamento della cultura occidentale la
quale è decadente perché ha bevuto la cicuta della ragione ed ha preso a modello un uomo
morente, cioè Socrate. La ragione ha ingabbiato la natura umana autentica , ha evirato la
volontà di potenza. C’è il richiamo a ciò che viene prima della cultura ellenica, si fa un salto
indietro, in un mondo che non è contaminato dalla ragione.
Nel primo libro si parla delle tre metamorfosi dell’uomo: l’uomo cammello, l’uomo leone e
l’uomo-uomo, ossia l’uomo fanciullo.
L’uomo cammello è l’uomo che porta il peso di tutta la cultura che lo ha appesantito ed
ingabbiato, vive secondo modelli imposti, ideali, congetture, secondo sistemi. Ma è l’uomo che
è anche capace di assumere la libertà come peso e compito. L’uomo cammello è quello che è
chiamato ad attraversare il deserto dell’esistenza più velocemente possibile perché possa
prima possibile di liberarsi di quel peso. È condizionato dalle legge del “tu devi” che in realtà
poi viene rappresentato nel drago con cui l’uomo deve confrontarsi. Il drago è quello che in
realtà incontra l’uomo leone. La figura dell’uomo cammello è ambigua perché per certi aspetti
poi è anche l’uomo drago perché porta il peso del “tu devi” e il drago è il simbolo del “tu devi”,
cioè delle leggi, dei comandamenti, degli obblighi. L’uomo cammello è quello che porta questo
peso che gli è imposto da un drago. In termini Freudiani il “tu devi” è il super io che coincide
con l’io ma il super io gli viene dal di fuori ma comunque è introiettato e l’io deve liberarsi dal
super io. Allora l’uomo cammello è l’io che ha introiettato il super io e il super io è questo io che

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gli è imposto dall’esterno e che sdoppia nelle due figure del cammello, che porta il peso, e del
drago che incontra l’uomo leone. Combattendo contro il drago del tu devi, in realtà l’uomo
leone combatte anche contro l’uomo cammello. Quindi l’uomo leone non incontra il drago di
per sé, incontra l’uomo cammello, e l’uomo leone deve divorare l’uomo cammello.
L’uomo leone che divora l’uomo cammello a sua volta subisce una metamorfosi e si trasforma
nell’uomo fanciullo che non è condizionato da alcunché e gioca continuamente creando i suoi
giochi. L’uomo fanciullo è l’uomo che crea continuamente che non è condizionato dal tu devi e
neanche è condizionato dal tu che deve distruggere il tu devi.
Ci sono tre figure: quella del tu devi in cui si sovrappongono il cammello e il drago. Nel
cammello c’è l’io e il super io al tempo stesso, l’io che deve portare il drago e il drago che è il
super io, le leggi ecc. questo cammello deve attraversare il deserto più velocemente possibile,
cioè deve ricercare la sua libertà che ritrova nel momento in cui è distrutto, ovvero quando ha
scaricato il tu devi. Questo avviene quando il cammello incontra il leone che è “l’io voglio”, al
posto del tu devi deve subentrare l’io voglio. Dal tuo interno devi affermare la tua volontà e per
questo devi lottare contro il tu devi che ti viene dall’esterno. L’uomo leone deve affrontare una
lotta è l’uomo nichilista che distrugge l’uomo nichilistico. In termini più teoretici in c’è un duplice
nichilismo, uno quello passivo, il nichilismo di chi è condizionato da valori esterni e che
annichilisce la vera umanità dell’uomo.
Come ci si libera dal nichilismo passivo? In questo si vede il distacco con Schopenhauer, il
quale predicava la rinuncia a se stesso, la cancellazione del principio di individuazione per
ritornare all’uno tutto. Per Nietzsche, invece, il nichilismo passivo, cioè quello subito, va
superato non attraverso la rinuncia di sé ma attraverso la distruzione di quei valori che
annichiliscono l’uomo, cioè deve diventare un nichilismo attivo. Ecco l’uomo leone, l’uomo
cammello deve scomparire nell’uomo leone.
Ma anche l’uomo leone. dice Nietzsche, vive in un tu devi, tu devi distruggere, quindi anche lui
vive in una condizione che non è perfettamente umana. Perché possa giungervi è necessario
che l’uomo leone, finalmente liberato dall’uomo cammello, trapassi nell’uomo bambino che non
ha valori ma li crea, è l’oltre uomo, è il creatore dei valori. “L’uomo cammello accetta la libertà
come peso e compito, l’uomo leone come lotta per negare e distruggere tutti i valori. Diventare
libero, opporre una divina negazione anche al dovere. Infine l’uomo fanciullo come creatività
sempre rinnovantesi. Innocenza è il fanciullo e oblio. Un nuovo inizio, una ruota rotante da
sola (torna sempre su stesso, sulla voglia di essere, di dire sempre si, volontà di potenza), un
primo moto, un sacro dire si”. Ecco l’uomo fanciullo che è passato dall’uomo schiacciato dal tu

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devi, all’uomo che è arrabbiato nell’io voglio e diventa distruttore, all’uomo che pacificato e non
più condizionato da alcunché si abbandona completamente alla vita.
L’opera originaria che ha lanciato Nietzsche nel dibattito pubblico è “La nascita della tragedia.,
dallo spirito della musica, ovvero grecità e pessimismo” del 1872 che doveva essere la sua tesi
di dottorato di filologia classica. In essa parla di come è morta la tragedia greca.
Secondo Nietzsche la nascita della tragedia è dentro quella cultura dell’uomo che ha una
sensazione della realtà come tormento, dolore, sforzo. È lo spirito di Dioniso, divinità il cui culto
si celebra di notte nei boschi, che compare ai suoi fedeli sempre con nuove maschere. In
Dioniso si esprime quella forza della natura che è canto, libertà, orgia, potenza della vita che
vuole sciogliersi nell’abbandono alla natura stessa, sciogliersi cioè nel canto di Apollo. Dice
Nietzsche che la tragedia nasce dall’incontro dello spirito dionisiaco e dello spirito apollineo. Lo
spirito dionisiaco è turbolento, è quella forza tellurica che accompagna la volontà di potenza,
del dire di si alla vita, mentre lo spirito apollineo è l’abbandono sereno al movimento della
natura.
La ricchezza della tragedia greca nasce dalla fusione del dionisiaco e dell’apollineo, mentre la
tragedia greca muore quando lo spirito apollineo prevale sullo spirito dionisiaco fino a
cancellarlo. Questo avviene quando i greci cominciano a pensare il mondo come sereno e
realizzato, è il mondo della ragione, è la scoperta del concetto con Socrate, con Platone si
arriva al mondo delle idee, con Aristotele alle essenze. Nel momento in cui si arriva al mondo
delle idee che offre un panorama ordinato, sistemato, l’uomo perde il senso più profondo della
sua esistenza. Questo si verifica, appunto, quando lo spirito apollineo fagocita il dionisiaco.
Invece per Nietzsche i due elementi devono rimanere in piedi.
La figura del divin fanciullo trova la sua base di fondazione in quest’opera sulla tragedia greca,
in questa dialettica tra spirito dionisiaco e apollineo.
Non esiste la verità ma solo le nostre interpretazioni, cioè le maschere. L’uomo è questa
tensione animata da questa volontà di potenza ma l’uomo è anche schiacciato dai
condizionamenti da cui deve liberarsi con le metamorfosi.
Non c’è un senso della storia perché la storia è un eterno ritorno nell’unica volontà di potenza
a cui bisogna sapersi abbandonare, senza identificarsi in nessun modello storico realizzato.
In altra operetta che porta il titolo di “Considerazioni inattuali”, Nietzsche parla dello storicismo
e in particolare della “saturazione da storia” come un abbandonarsi a modelli storici che
vengono eternizzati.
Nietzsche parla di una storia monumentaria, archeologica, da cui possiamo essere saturati
come il contemplare modelli e volerli ripetere; che vuole ripetere esperienze di soggetti storici,

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ma c’è anche una storia pedagogica in cui si vuole ripetere solo lo spirito del personaggio
storico ma non le forme. La storia dunque per Nietzsche non è la ripetizione di un modello ma
dello spirito che è la forza creatrice .
Una delle categorie di fondo di Nietzsche è la categoria della morte di Dio, ripresa anche da
Heidegger e dai teologi della morte di Dio. C’è un dialogo nell’opera “La gaia scienza” del 1882
in cui si tratteggia una scienza irridente, dunque diversa da quella cupa degli illuministi e
positivisti,che mette in discussione tutto e tutti, una scienza ipercritica. C’è questa figura del
profeta che va nella piazza di giorno con una lanterna a dire che Dio è morto e per questo
viene irriso (figura che c’è anche in “Così parlò Zarathustra”). Ad un certo punto il profeta
scaglia la lanterna contro gli irrisori dicendogli che questa lanterna sono loro che ancora non si
sono accorti che un sole nuovo è nato. È il sole dell’uomo che vuole se stesso, è la volontà di
potenza, è l’oltre uomo. Nietzsche vuole dire: voi andate ancora in giro con le lanterne che
metaforicamente rappresentano gli ideali, anche storicistici, gli ideali di chi ritiene che la
scienza sia la soluzione di tutti i problemi, gli ideali metafisici, quelli che Liotarr nei tempi nostri
chiamerà le grandi narrazioni, le ideologie. Non vi siete accorti, invece, che Dio è morto, non
solo il Dio delle religioni ma anche il dio che vi siete creato, sia esso il dio politica il dio scienza,
il dio ideologia ecc.

14/11/2011
La questione del nichilismo in Nietzsche è diventata questione centrale nella cultura del nostro
tempo e la sua radice è riconducibile proprio al nichilismo di Nietzsche. Nel nostro tempo ha
assunto poi il volto del nichilismo come lo propone Heidegger ma le radici sono tutte
riconducibili a Nietzsche. C’è un elemento che li accomuna e cioè il nichilismo è la morte, il
rifiuto di qualsiasi metafisica. Morte affermata anche da latri filosofi, in particolare illuministi,
tutta la filosofia empirista sostanzialmente nega la metafisica. Ma accanto alla metafisica
queste filosofie tenevano in piedi la religione, la fede o le sostituivano con latri modelli, ad
esempio con la scienza, la politica o lo stato. Dunque non una negazione totale della
metafisica in questa prospettiva ma una sostituzione metafisica alla vecchia metafisica
classica, sia greca sia della tradizione cristiana. Invece la posizione di Nietzsche è radicale, si
dichiara il primo vero, autentico nichilista d’Europa, perché nella sua prospettiva non solo cade
la vecchia metafisica con i suoi contorni teologici ma anche la metafisica dei tempi moderni.
Nietzsche fa il cosiddetto “salto indietro” tra quello che è la atticità pre-socratica e quello che è
la ellenicità post-socratica. La linea di demarcazione è il passaggio tra la filosofia dei fisici, i

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pre-socratici, la scuola ionica e il pensiero che si sviluppa da Socrate in poi e innerva la
tradizione occidentale. C’è una specie di salto indietro dall’occidente all’oriente.
La figura del profeta Zarathustra è un’immagine in cui si identifica Nietzsche stesso e che
rimanda a mondi orientali che Nietzsche vuole recuperare per ritornare alla radice vitale, alla
originarietà vitale terrestre dell’uomo che trova la sua traduzione nella categoria della volontà
di potenza come un dire si alla vita. Questo dire si alla vita, pieno e totale, è il salto indietro
nelle viscere dell’umanità, è una forma di archeologia dell’essere umano. Allora il nichilismo
segna la fine di ogni metafisica, condensata nella celebre espressione della morte di Dio, il
predicatore visionario annuncia che Dio è morto. In realtà per Nietzsche Dio non è morto
perché non può morire ciò che non esiste. Questo è il rimprovero che fa questo predicatore
visionario agli uomini del proprio tempo ai quali annuncia che Dio non c’è e che dunque la
morte di Dio deve avvenire nei lori cuori e nella loro mente, non nella realtà. Gli rimprovera che
continuano a tenere in piedi i templi del Dio religioso, definite le tombe di Dio di cui si sente
l’olezzo. Una delle critiche più radicali che Nietzsche fa al cristianesimo è che esso sarebbe un
platonismo per le masse, cioè una religione a forte impatto popolare con uno spiritualismo
disincarnato, dove il richiamo al platonismo viene fatto perché in esso c’è il disprezzo per la
terra, il corpo è un cadavere che ingabbia l’anima mentre ciò che conto è il mondo ideale.
Mentre Nietzsche vuole dire, a modo suo, che il Cristo è reale, non si lascia ingabbiare nelle
strutture del proprio tempo, scaccia i mercanti dal tempio, è critico nei confronti della classe dei
sacerdoti. Queste di Nietzsche sono senz’altro delle provocazioni su cui riflettere.
L’Amor fati è un’altra categoria di Nietzsche, del pensiero arcaico come l’eterno ritorno, è
l’accogliere l’esistenza così come è, senza protezioni, vie di uscita, ma accolta con la fortezza
dell’uomo che in fondo è il Prometeo che viene inchiodato alla roccia e divorato dall’aquila che
gli squassa continuamente il petto ma continua a rimanere se stesso e non si piega alla
divinità, a Giove; assume se stesso in tutta la sua drammaticità. È l’accoglienza della realtà
così come essa è, quella che viene indicata anche come coscienza tragica che qui diventa la
categoria del super uomo, dell’oltre uomo che conta solo su se stesso, che è Dio a se stesso.
È lo stesso Fueierbach depurato di quell’immagine idilliaca dell’uomo che con le sue forze può
realizzare se stesso, perché per Nietzsche è si l’oltre uomo ma senza farsi illusioni. Nietzsche
non crede neppure nel progresso, per lui va vissuto l’ora, il momento in tutta la sua intensità e
drammaticità.
Un altro filosofo, Emanuel Munier, definisce la fede un ottimismo tragico, un ossimoro di
grande pregnanza in cui il tragico fa riferimento alla nostra fatica del vivere perché la realtà è
perlomeno problematica, mentre l’ottimismo fa riferimento al fatto che da quella situazione di

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sofferenza il credente può trarre salvezza e bene. Quindi l’ottimismo è per la trasfigurazione di
una realtà che non si accetta. Qui non si accetta la realtà con fatalismo, ma anzi devo
combattere contro questa sofferenza.
Nietzsche è stato assunto come uno dei portatori d’acqua del nazismo, lo stesso concetto di
super uomo, la volontà di potenza, sono stati letti in un’ottica politica come fonte di
affermazione della razza pura. Tuttavia, nei tempi più vicini a noi, nella seconda metà degli
anni ’50, Nietzsche è stato assunto anche come portatore d’acqua all’ideologia di sinistra, cioè
il Nietzsche contro tutti i sistemi. La categoria dell’amor fati come accettazione della realtà così
come essa si presenta, senza illusioni, rischia di diventare una filosofi funzionale ad una
ideologia di tipo conservatore. Il cristiano guarda in faccia la realtà, cerca di trasformarla nello
spirito del vangelo, ma non si fa illusioni, sa anche assumere il peso della croce come fonte di
redenzione e di salvezza perché è assunta con amore (questa è la prima resurrezione), in
vista della grande resurrezione che riconcilia l’universo.
Blondel, filosofo di area credente della fine dell’800 inizi del ‘900 (l’Action), usa l’espressione
“realismo trasfigurato” che fa la pari con l’ottimismo tragico: significa che io ho piena
consapevolezza della realtà ma dentro vi immetto un principio nuovo che me la fa accogliere e
vivere in un'altra dimensione. È tutt’altro dall’amor fati di Nietzsche dal quale prende solo il
termine realismo, perché dalla fede prende il termine trasfigurato.
La categoria “Dio è morto” definisce il nichilismo che per Nietzsche vuol dire che non ci sono
né fondamenti da cui veniamo né fini verso cui andiamo; facciamo parte di questa eterna ruota
della vita, che gira. Il simbolo della ruota, del cerchio, è simbolo di una realtà che gira sempre
su se stessa, non c’è una genesi e non c’è un’apocalisse. Nietzsche riprende la visione
circolare della storia (pensiamo allo stoicismo in cui tutto inizia con una esplosione iniziale e
termina con una implosione finale), simboleggiata dal serpente che si morde la coda in “Così
parlò Zarathustra”. Nichilismo per Nietzsche significa che non c’è un origine né un fine, ma
solo un presente.
Con la morte di Dio Nietzsche vuole offrire questa immagine della realtà senza fondamenti e
senza fini che non può essere sostituita da alcunché. Questa è la condizione tragica dell’uomo
moderno che si è emancipato da Dio ma in realtà ha creato altre divinità e quindi non ha capito
il grande evento. Per questo si definisce il primo e unico nichilista d’Europa, perché ritiene di
aver portato in luce che non c’è né dio trascendente né dio immanente. Ecco allora la figura
del predicatore folle che va in giro di giorno con la lanterna a dire che non si sono accorti che è
sorto il grande sole della vita

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La morte di Dio è annunciata da Nietzsche nella “Gaia scienza” e ripreso poi in “Così parlò
Zarathustra”. Nella modernità è avvenuto un processo di secolarizzazione, cioè avvenuto un
capovolgimento, si è negato il trascendente ma le caratteristiche del trascendente sono state
applicate all’immanente, per cui si è negato l’esistenza di un dio trascendente ma si è
divinizzato il mondo, ad es. si è negato Dio ma si è divinizzato lo stato (Hegel), la classe, il
partito (Marx), la scienza (positivismo).
Gianni Vattimo, esponente del pensiero debole, ha coniato la categoria “secolarizzazione della
secolarizzazione”, per dire che se è vero che non esiste più il trascendente, nondimeno non
esiste neppure l’immanente assolutizzato, non esiste neppure una divinità terrestre. Dice il
sociologo Max Weber che la secolarizzazione aveva creato delle immagini spettrali, cioè le
ideologie che hanno divinizzato se stesse. Con la categoria della secolarizzazione della
secolarizzazione, Vattimo vuol dire che anche queste immagini spettrali devono essere
eliminate.
Ecco Nietzsche: dice il predicatore che gira con la lanterna che pur essendo stato negato dio
(secolarizzazione, ateismo) in realtà sono state accese altre divinità, altri piccoli soli, è rimasta
l’illusione trascendente mediante la creazione di altre divinità che vanno abbattute. Ecco
perché Nietzsche è così presente nel pensiero post-moderno che è la deassolutizzazione di
tutti gli assoluti, non solo trascendenti ma anche immanenti. Dice Nietzsche nella Gaia
scienza:“non è arrivata la notizia della morte di Dio perché voi avete creato altre divinità“. La
sua posizione è radicale: bisogna demolire tutte le divinità, tutte le ideologie.
Nietzsche è consapevole che la dichiarazione della morte di Dio porterà tanto disorientamento
e destabilizzazione, lo dice in “Cosi parlò Zarathustra”:”la morte di Dio lascia senza alcun
dubbio un vuoto che spaventa e disorienta. L’orizzonte torna ad apparirci libero anche
ammettendo che non è sereno (Amor fati). Solo gli spiriti forti, coloro che alla notizia che il
vecchio dio è morto si sentono come illuminati dai raggi di una nuova aurora, possono
compiutamente sopportare quel sacrificio … ”. Di questi spiriti forti Nietzsche si sente il
prototipo, ha accolto in sé la morte di Dio, ha sperimentato su di sé il nichilismo passivo, cioè
la fede, la teologia, la morale, lo ha oltrepassato arrivando al divin fanciullino che crea sempre
nuovi valori e li distrugge. Per Nietzsche quel vuoto lasciato dalla morte di Dio va riempito con
quella volontà di vita che però porta alla distruzione.
Nietzsche con riguardo alla morale dice che tutti gli uomini hanno una volontà di potenza, cioè
vogliono vivere in pienezza la loro vita, ma c’è di quelli che affronta la vita a volto scoperto, con
tutte le lotte e le sofferenze, vivono attivamente la loro vita, ma ci ne sono anche di quelli che
non hanno la capacità di affrontare a viso aperto la vita e allora si piegano ad una forma di

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risentimento. Un risentimento anzitutto verso i forti ma diventa anche la fonte di limitare i forti
per poter garantire s e stessi e affermare in qualche modo la propria forza. Ma mentre i forti
affermano la propria volontà di potenza unicamente a partire da se stessi, gli uomini deboli
affrontano la volontà di potenza attraverso l’affermazione di una morale a cui loro stessi si
sottopongono ma che impongono anche agli altri che diventa una forma di dominio, di
affermazione di sé. È come il servo nella dialettica hegeliana che dimostra al padrone che
senza di lui non può essere padrone, allora i deboli, attraverso l’affermazione di una morale
vogliono realizzare se stessi ma attraverso il dominio sugli altri, imponendo agli altri la loro
morale. Tutte le morali costruite nella storia sono per Nietzsche l’espressione del risentimento
dei deboli e in particolare la morale cristiana che mette insieme il platonismo e il cristianesimo
idealizzato, è una morale da schiavi, è la morale del risentimento. Questa concezione è
evidentemente da contestare perché la morale, al contrario, è ricerca di vita e non di morte, è
la ricerca del vero, del buono e del bello che porta a pienezza una vita.
Nietzsche parla della “Genealogia della morale”, un’altra opera di Nietzsche, da cui si
comprende che la morale nasce in chi ha gli ormoni deboli.
La verità è menzogna, apparenza perché cambia continuamente, è interpretazione. L’uomo è
un essere incompiuto, è l’oltre uomo. Non c’è un senso della storia, né fondamento né fine, è
un eterno ritorno. Quindi si vive solo il presente, il qui e l’ora.
Iniziamo la filosofia del ‘900 in cui abbiamo filosofie che riflettono sulla ragione che conosce,
cioè sulla scienza, cioè filosofie che pongono al centro il problema della conoscenza
scientifica. Continua anche quella ragione dialettica promettente che trova una parziale
applicazione nella scuola di Francoforte, la quale però mette insieme Hegel, Marx , Freud e
anche Nietzsche. La filosofia di carattere più eminentemente razionalista verte, invece, sulla
scienza.
Accanto a questo sviluppo della razionalità, che nel ‘900 assume la consapevolezza del limite
della ragione scientifica, c’è un pensiero problematico che non si accontenta della “norma del
giorno”, espressione di Karl Jaspers con cui intendeva la scienza, cioè tutte quelle strutture
logico-razionali che credono di rischiarare il mondo. Questo secondo filone si rende conto che
la realtà è più complessa, è una realtà che non si accontenta di rassicurazioni ma sa cogliere
all’interno dell’esistenza quello che Jaspers chiamava la passione per la notte. La notte intesa
come realtà in cui le cose non appaiono poi così chiare e nette, che ti fa prender coscienza
che la realtà è anche groviglio, tenebra, non solo successo ma anche naufragio. Passione per
la notte è il sapere se nelle tenebre possa brillare una luce che rischiara, che dà speranza.
Questo è il secondo movimento di un pensiero che troverà posto nell’esistenzialismo, in quelle

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forme aperte alla speranza, e troverà espressione soprattutto nella post-modernità che è la
caduta di tutti i miti, le certezze, anche quelle scientifiche, con apertura al nichilismo forte
(Nietzsche e Heidegger) o debole (Gianni Vattimo).

15/11/2011
Una delle correnti filosofiche più importanti e influenti del ventesimo secolo è la filosofia del
linguaggio che ha assunto diversi volti e configurazioni fino alla filosofia ermeneutica, che pur
essendo diversa dalla filosofia del linguaggio nondimeno è riconducibile a questa per alcuni
aspetti. Con il termine filosofia del linguaggio si intende un filone filosofico che ha un antenato
illustre, addirittura si può risalire al tempo dei sofisti, di Socrate, in cui l’uso del linguaggio
rappresentava lo strumento principe nel confronto dialogico con altri . Ma l’antenato più
prossimo è la filosofia empirista del seicento e settecento, da Locke a Hume in avanti fino a
tutte le varie forme di empirismo anche quella di Stuart Mill. Tanto è vero che la filosofia del
linguaggio viene anche chiamata neo-empirismo. Già In questo accostamento troviamo una
caratteristica di questo filone filosofico e cioè un netto rifiuto della metafisica come era
nell’empirismo che partiva dalle sensazioni, seppure elaborate e trasformate, come punto di
riferimento di ogni discorso.
Il neo-empirismo assume la forma di filosofia del linguaggio perché il linguaggio è la modalità
con cui noi diciamo la realtà, quella realtà che è costituita da esperienze, da forme, da fatti,
oggetti che hanno appunto una consistenza e un riferimento assolutamente empirico. Dunque
fatti ed espressione dei fatti, proposizioni che dicono i fatti. Al di fuori dei fatti e delle
proposizioni che dicono i fatti non c’è altro o comunque non è accessibile altro perché l’uomo
non ha gli strumenti per accedere alla realtà che si trova oltre l’empirico, oltre il fattuale.
Allora è da chiedersi dov’è la novità di questa filosofia del linguaggio, sia rispetto agli empiristi
sia rispetto a Kant. Kant poneva dei fatti, è il fenomeno, e delle forme linguistiche poiché le
categorie non sono altro che forme linguistiche. Aveva posto delle forme linguistiche con cui
vengono posti questi fatti. Ebbene, c’è una differenza radicale perché per Kant le categorie
sono degli a-priori assoluti, quindi sono connaturati con la mente umana. Esponenti della
filosofia del linguaggio dicono che quella di Kant è una metafisica non dell’esser ma della
mente, perché affermava che quelle categorie erano degli assoluti, innati, costitutivi, strutturali
della mente umana. Kant non faceva altro che tradurre in categorie a-priori quelle che erano le
categorie fondamentali elaborate dalla logica e dalla ontologia di Aristotele con il presupposto
che la logica aristotelica fosse l’unica logica possibile o comunque l’unica logica che dava
strutture assolute, potremmo dire ontologiche, era una logica ontologica. C’era una specie di

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corrispondenza fra logos e ontos, tra pensiero e realtà. Ecco perché i filosofi del linguaggio
parlano di metafisica della mente.
Avviene una specie di rivoluzione, anzi due, nell’ambito della ricerca. Una nell’ambito della
stessa logica, delle scienze formali ossia la scienza logica e l’altra nell’ambito delle scienze
matematiche e fisiche, le quali costringono i filosofi della scienza a riformulare la dottrina della
scienza. Per due mila anni ci si era convinti che la codificazione aristotelica delle forme di
deduzione, cioè la logica, fosse completa e non suscettibile di miglioramento. Lo stesso Kant
sosteneva che la logica di Aristotele è un corpo dottrinario chiuso e completo. Chiuso vuol dire
che si autogiustifica e cioè che è un sistema coerente. Completo vuol dire che non ha bisogno
di riferirsi ad altro da sé, di uscire al di fuori di sè. In realtà la logica aristotelica risultava
incompleta e incapace di giustificare molti principi di inferenza usciti nei ragionamenti
matematici più elementari. La rivoluzione delle scienze formali avviene in corrispondenza della
rivoluzione dei fondamenti matematici, perché va ricordato che la matematica è
essenzialmente logica.
Come si scatena la rivoluzione che porterà a comprendere che non esiste un solo sistema
logico ma esistono diversi sistemi? Il processo di formalizzazione prende avvio dal quinto
postulato della geometria euclidea che non trovava spiegazione negli altri quattro postulati. Il
postulato è qualcosa che si regge da solo o comunque si regge all’interno di un sistema
coerente, deve essere autoevidente, mentre questo quinto postulato non lo era del tutto
nemmeno alla luce degli altri quattro postulati, perché comunque doveva essere un sistema
coerente. Anche la tempo di Euclide ci si cimentò con questo problema e si concluse che
questo quinto postulato è perfettamente logico ma non può essere spiegato con il sistema
degli altri quattro postulati, bisognava inserirlo in un nuovo sistema logico.
Nascono le geometrie non euclidee, quindi posso avere dei sistemi logici diversi da quelli di cui
si era avvalso Euclide e aveva costituito la base della logica di Aristotele, cioè osso avere un
altro sistema logico per descrivere lo spazio. Prende avvia una ricerca in cui si distinsero i
logici di scuola polacca, la cui conclusione è la nascita di nuovi sistemi logici, coerenti in se
stessi, cioè chiusi, ma nessuno di questi si poteva dire completo perché non poteva
giustificarsi da solo ma con riferimento ad altro sistema logico. Di sistema in sistema ci si
rendeva conto che nessun sistema in sé è completo. Nascono diversi sistemi logici, con
postulati, forme di inferenza ecc. Nascono tutte una serie di logiche formali, simboliche,
matematiche, costruttivistiche ecc.
Uno dei più grandi logico-matematici del ‘900, Gedel (coinquilino di Einstein), che riteneva di
poter dare la dimostrazione matematica dell’esistenza di Dio, dimostrò con 12 teoremi che

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nessun sistema logico può dirsi completo, perché ognuno ha bisogno di riferirsi ad un altro
sistema. Se vogliamo qui sta in nuce il concetto dell’esistenza di Dio. Come dire: il sistema
mondo trova in sé il principio di giustificazione? Gedel pone la questione in termini matematici
e dimostrando l’incompletezza dei sistemi logici riteneva che poteva dimostrare
l’incompletezza di una dottrina metafisica che negasse l’esistenza di Dio perché il mondo da
solo non può giustificarsi. In questa scoperta di diversi sistemi logici vediamo la crisi dei
fondamenti della matematica, perché ci si è accorti che i sistemi logici su cui si basa la
matematica sono incompleti.
C’è poi una seconda rivoluzione nell’ambito della fisica che riguarda le nuove frontiere della
fisica che scende sempre più nella struttura interna della materia e viene a scontrarsi sempre
più con delle evidenze, con delle risultanze che non collimano perfettamente con le
conoscenze della filosofia classica, quella che fa riferimento a Newton e prima ancora a
Galilei. Nella ricerca della struttura della materia ci si rende conto che ci sono delle risultanze
che non permettono di utilizzare le categorie che valgono per il macro-sistema, ovvero per la
macro-fisica e in particolare per la meccanica celeste, per la microfisica, cioè per la realtà
dell’atomo che è costituito di diversi elementi protoni, neutroni, fino ad arrivare alla scoperta
dei quark e poi i neutrini ecc. Cioè si scopre che la struttura della materia è più complessa di
quanto non si immaginasse e quindi più indeterminabile. L’osservazione stessa della struttura
profonda della materia poteva incidere nella stessa descrizione di essa e anche perché era
così sfuggente da mutare da un punto o momento di osservazione all’altro.
Si arriva al principio di indeterminazione di Heisenberg nell’ambito della micro-fisica, cioè la
consapevolezza che gli stessi fatti che sono oggetto dell’analisi scientifica non sono così
facilmente determinabili. A questo principio si aggiunge il principio di relatività di Einstein, per
cui la determinazione dello spazio non può più prescindere da un’ulteriore variabile che è il
tempo. Per cui ciò che conosciamo dello spazio immenso non è un’evidenza immediata,
perché dobbiamo tener conto anche della dimensione temporale per la determinazione di un
oggetto. Anche la diversità della posizione dell’osservatore influisce sulla rilevanza del
fenomeno.
Abbiamo detto della scoperta che esistono diversi sistemi logici con cui possiamo parlare della
realtà, cioè organizzare la realtà. In secondo luogo la stessa realtà fattuale non è così assoluta
come pensavamo, sia per il principio di indeterminazione di Heisenberg, sia per il principio di
relatività di Einstein che ci costringono a rivedere la definizione stessa dei fatti.
Nell’ambito della fisica le nuove scoperte riguardano la teoria dei quanti, Mark Plank ecc. e poi
il principio di indeterminazione di Heisenberg.

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Dal punto di vista strettamente filosofico la conclusione è che la crisi dei fondamenti a condotto
a due conclusioni: il matematico poteva in materia analitica (analisi del concetto da cui poi si
deduce delle conseguenze) e non sintetica (senza collegare all’esperienza, cioè al dato)
provare solo il sistema delle implicazioni matematiche, che conducono dagli assiomi della
geometria ai suoi teoremi senza possibilità di stabilire se gli assiomi sono veri.
Il matematico costruisce un sistema di inferenze logiche a partire da assiomi di cui non può
dire se siano veri. L’onere della prova andava al fisico. I matematici costruiscono dei sistemi
logici, dei sistemi di senso nel senso che sono coerenti in se stessi, poi sono i fisici che
devono dimostrare che hanno una rispondenza con la realtà, che costituiscono un sistema
significativo. La matematica è un sistema logico estremamente elaborato ma non si sa è vero.
I fisici, a loro volta, scoprono che la descrizione del mondo fisico non è riconducibile ad un
unico modello matematico. Quello che vale per il macro-sistema (la meccanica celeste) non
vale per la micro-fisica.
La crisi dei fondamenti poneva un problema di identità alla scienza. Quella scienza che Comte
aveva ritenuto una perfetta descrizione della realtà, si scopriva che non aveva questa assoluta
capacità. Questa crisi di identità della scienza si sommava con un processo di svalutazione
della scienza che si ritiene non possa dare risposte, non possa dare conoscenza, la quale
porta allo sviluppo di correnti in Francia e in Italia (ad esempio il neo-idealismo in opposizione
al positivismo
Allora da una parte la scienza entra in crisi in se stessa perché comprende che i suoi
fondamenti non sono così saldi e dall’altra si sviluppa una cultura a forte spinta volontaristica e
irrazionalistica che negava alla scienza una posizione di rilevanza.
Di fronte a questa duplice crisi di identità e rilevanza, diversi studiosi cominciano una serie di
riflessioni e dibattiti, soprattutto un gruppo che si riuniva nei caffè della vecchia Vienna che
prese il nome di Circolo di Vienna, in cui convergono diverse competenze scientifiche,
matematici, fisici, economisti, letterati, filosofi, politici ecc.. questa ricerca porterà a definire il
nuovo orientamento della filosofia della scienza che va sotto il nome di neopositivismo (di cui
alcuni esponenti sono Neurath, Schlik). Contemporaneamente nasce il Circolo di Berlino (il
fisico Reschenbach) che porta avanti questa discussione.
Accanto a questi filosofi e ricercatori dell’Europa continentale, in Inghilterra
contemporaneamente o poco dopo si sviluppa la scuola di Oxford e di Cambridge, presso le
Università dove erano in corso ricerche di logica, si sviluppa un dibattito che allarga l’orizzonte
dei linguaggi, non più semplicemente quelli della scienza ma anche quelli ordinari, non solo
quello della scienza ma anche quello etico, religioso, politico, economico, della vita ordinaria.

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Questi due centri universitari danno corpo anch’essi ad un movimento filosofico legato alal
filosofia del linguaggio che prende il nome di filosofia analitica.

WITTGESTEIN
(filosofo che non appartiene ai due filoni ma li ha ispirati)
FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO
(O NEOEMPIRISMO 1)
NEO POSITIVISMO [logico 2] FILOSOFIA ANALITICA
(Circolo di Vienna Circolo di Berlino) (Oxford e Cambridge)

Convenzionalismo scientifico
Si riferisce al linguaggio scientifico si riferisce a tutti i
linguaggi
(linguaggio per eccellenza) SISTEMA APERTO (linguaggi ordinari)

La filosofia del linguaggio si divide in due grandi filoni: neopositivismo e filosofia analitica.
Con riguardo alla filosofia del linguaggio possiamo parlare di neo-empirismo perché c’è il
riferimento ai fatti che è problematico in quanto non sappiamo a quale sistema logico ci
possiamo riferire e non sappiamo se realmente i fatti sono fatti in se stessi, se sono reali o del
tutto controllabili. Il neo positivismo si riferisce al linguaggio scientifico come linguaggio
ritenuto per eccellenza degno di essere preso in esame mentre la filosofia analitica si riferisce
a tutti i linguaggi che utilizza l’uomo per vivere ovvero ai linguaggi ordinari sopra enunciati.
Il neopositivismo è detto logico perché parte dal presupposto che non esiste una scienza
descrittiva che rispecchia la realtà esattamente com’è, ma esiste una scienza che avvolge i
fatti con un sistema logico. Da questo punto di vista è vicino a Kant. La novità sta nel fatto che
mentre Kant aveva a disposizione solo un sistema logico che credeva unico e quindi in grado
di offrire una visione oggettiva della realtà, nel neopositivismo invece abbiamo più sistemi
logici. Così lo scienziato utilizza un sistema logico che ha ritenuto utile, pratico da usare ma di
fatto ne poteva utilizzare anche un altro.
Ci sono delle conseguenze, si può cadere nel soggettivismo, come anche delle ricadute
pratiche, si possono costruire più sistemi.

1
Perché ci si riferisce a dei fatti anche se non sappiamo se realmente corrispondono a qualcosa.

2
Perché il neopositivismo parte dal presupposto che non esiste che pura e semplice scienza descrittiva, ma esiste
una scienza che avvolge i fatti con un sistema logico.

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Tutta la comunità scientifica sceglie un sistema logico. Ma allora la scienza non è più un
sistema di descrizione oggettiva ma diventa un sistema convenzionale.
Finché è utile perché mi permette di interagire con la realtà, utilizzo quel sistema ma è una
convenzione della comunità scientifica, non conoscenze di cui siamo sicuri che corrispondano
alla realtà. Certamente c’è una forma di soggettività ma non c’è arbitrarietà perché si
raggiunge un accordo nell’ambito della comunità scientifica. Quindi il sistema convenzionale è
un sistema aperto.
Popper non appartiene al neopositivismo ma ne è comunque affine, parla di una ricerca
sempre aperta alla scoperta di nuovi sistemi logici che danno un ordine più coerente e più
pratico.
La scelta di un sistema logico è basata su quattro principi:
1) principio di coerenza interna della teoria;
2) l’ampiezza come capacità di poter spiegare con quel sistema logico più fenomeni
possibili;
3) semplicità o principio di economia che vale anche nella psicologia, il quale applicato
alla logica significa che quanto più un sistema formale si basa su pochi principi tanto
più è valido, è quella in grado di elaborare una teoria unificata (spiegare un’ampiezza di
fenomeni con pochi principi);
4) la fecondità di una teoria logica, che ti permette di allargare la ricerca il più possibile, di
elaborare nuove teorie.
Wittgenstein ha dato ispirazione ad entrambe le correnti filosofiche pur non appartenendovi.

16/11/2010
Abbiamo visto l’evoluzione del sapere scientifico tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 che
rimette in discussione le sue basi, la sua struttura e quindi anche i suoi risultati, questo per
quanto riguarda i filoni legati alla filosofia del linguaggio. C’è anche un filone più strettamente
filosofico che mette in discussione anche la rilevanza, lo stesso significato del linguaggio
scientifico. Per quanto riguarda, invece, il dibattito interno al linguaggio scientifico, almeno
nella componente neopositivista c’è la stessa convinzione del positivismo, cioè che l’unico
linguaggio significativo, che mi accosta alla conoscenza è quello scientifico. Questa è
comunque la convinzione che accomuna sia il positivismo di marca ottocentesca, sia il
positivismo di marca novecentesca. Nel positivismo di marca ottocentesca c’è la convinzione
che la conoscenza mi dà la verità, mi dice come le cose stanno in loro stesse e quindi le leggi
sono come la rappresentazione diretta delle cose, è quindi una visione essenzialistica della

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scienza, direbbe Popper. Le essenze non sono quelle metafisiche ma quelle riconducibili a
leggi scientifiche. Invece il neopositivismo ha una concezione convenzionalista della scienza e
anche, funzionalista e pragmatica. La scienza è un modo convenzionale di dare ordine alle
cose senza pretendere una definitività, Popper non appartiene al neo-positivismo, dice che la
scienza è si convenzionalista, non è essenziali sta, ma comunque può accostarci alla realtà,
ha una visione di realismo moderato.
Il neopositivismo in se stesso nega che la scienza mi dà la verità delle cose, me ne da un
ordinamento che è dato convenzionalmente dalla scelta di un modello logico che gli scienziati
assumono ma che nel tempo potrebbe essere modificato, sostituito con uno più funzionale.
Rimane il fatto che la scienza è l’unica forma di conoscenza e nel neopositivismo c’’è un
radicale anti-metafisicismo; al più alla metafisica si può riconoscere una funzione estetico-
emotiva, cioè esprime i nostri sentimenti, le nostre emozioni di fronte alla realtà, ma non si
tratta di conoscenza. Popper dirà invece che la metafisica non è solo un’emozione ma
un’ipotesi, una teoria che può essere feconda di ipotesi scientifiche.
Il neopositivismo in sé rifiuta ogni valore conoscitivo alla dottrine metafisiche. Carnap, uno dei
maggiori esponenti di questo movimento ha scritto l’opera “La costruzione del mondo”. Già il
titolo esprime il modello neopositivista: attraverso un sistema logico scelto costruisco l’ordine
del mondo. Il mondo già c’è ma lo scienziato lo riconduce ad un modello. Dice karnak che i
metafisici sono come dei cattivi musicisti.
Per i neopositivisti il criterio che rende valida una teoria scientifica è il criterio di verificazione,
cioè il modello classico della scienza: ipotesi, ricerca e sperimentazione che deve dare
conferma o smentita ad una costruzione teorica. La verificazione, cioè la sperimentazione,
come criterio di validità di una teoria scientifica. Invece per Popper è il criterio di validità di una
teoria scientifica non è il criterio di verificazione ma il criterio di falsificazione, di falsificabilità.
Alla fonte della filosofia del linguaggio presa nel suo insieme, sia come filosofia del linguaggio
scientifico sia come filosofia del linguaggio ordinario, è Wittgenstein che non apparteneva a
nessuna delle due correnti ma ne è l’ispiratore. I suoi testi costituirono la base dei dibattiti sia
all’interno del Circolo di Vienna sia nella Scuola di Oxford e Cambridge.
È uno dei filosofi più influenti del ‘900 proprio perché ha ispirato le due correnti del
neopositivismo e della filosofia analitica. Ha un’anima mistica ma è un razionalista rigoroso, è
un filosofo empirista, tanto da essere definito da qualcuno lo Hume dell’epoca contemporanea.
Era un personaggio tormentato, con una spiccata sensibilità religiosa, figlio del maggiore
industriale dell’Austria, proprietario di acciaierie e fonderie. La madre era donna di grande
sensibilità culturale e di grande mecenatismo che aprì la sua casa ai più grandi intellettuali del

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tempo (Freud e grandi musicisti come Brahms). In questo ambiente ricco di stimoli culturali si
formano Ludwig e i suoi fratelli. Fa un percorso di studi ingegneristico. Aveva come punto di
riferimento la spiritualità del grande romanziere russo Tolstoj dal quale assume i valori di un
certo socialismo popolare fondato evangelicamente, sulla base di questi valori rinuncia a tutti i
suoi beni in favore della sorella con la condizione che ella dovesse sostenere studenti di
condizioni non floride. C’è un periodo della sua vita in cui si ritira in un convento benedettino
volendo distaccarsi dal mondo. A Oxford, in precedenza, aveva iniziato un percorso di studi
logici e matematici ed è questo il campo di specializzazione della sua indagine filosofica. Nel
periodo di detenzione nel campo di prigionia a Cassino, elabora l’opera fondamentale del suo
pensiero, il “Tractatus logicus filosoficus”, costituita da una sequela di tesi, quasi aforismi in
sequenza. L’opera esce nel 1921 in versione tedesca, nel 1922 in versione inglese.
Un’altra opera fondamentale di Wittgeinstein, pubblicata postuma nel 1953 (muore nel 1951),
è “Ricerche filosofiche”, considerata l’opera che costituisce il superamento delle tesi del
Tractatus logicus filosoficus. Tra il Tractatus del 1922 e quest’opera sviluppata negli anni
quaranta c’è quella fase di entrata nel silenzio durante il ritiro nel monastero benedettino e nel
periodo che insegna alla scuole elementari in uno sperduto paesino di montagna.
Precisamente si ritira nel monastero dopo il Tractatus. Questo periodo di silenzio termina
quando decide di tornare all’insegnamento all’Università di Oxford. Il Tractatus era un trattato
di logica, definito da Antiseri come un trattato di ontologia e da altri come un trattato di
cosmologia, comunque principalmente un trattato di logica per certi aspetti è analogo alla
critica della ragion pura di Kant, perché Wittgenstein fa una criteriologia per indicare la natura
e la struttura della scienza alla luce di quella crisi interna alla scienza che era alla ricerca del
suo nuovo statuto. Era considerata la bibbia del Circolo di Vienna, dei neopositivisti, quindi ha
ispirato il filone del neopositivismo perché l’oggetto di ricerca logica era legato al linguaggio
scientifico. Quando torna alla docenza universitaria avviene un cambiamento, Wittgenstein
non si interessa solo del linguaggio scientifico ma al linguaggio in quanto tale. Gli uomini nella
loro relazionalità utilizzano diverse forme di linguaggio che sono legate a vari contesti di vita.
C’è un gioco linguistico funzionale a un contesto di vita.
Il secondo Wittgenstein è quello che prende in esame i diversi giochi linguistici ed è questo
che influenza il secondo filone della filosofia del linguaggio cioè la filosofia analitica che si
sviluppa ad Oxford (dove non a caso Wittgenstein insegna) e Cambridge, la quale analizza
uso e regole dei diversi linguaggi.
Tra il primo e il secondo Wittgenstein non c’è rottura dal punto di vista dell’evoluzione
intellettuale bensì una continuità data dalla coerenza, perché l’unico scopo della filosofia è fare

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una terapia del linguaggio nel suo ampio spettro, cioè sapere indicare le regole e gli usi
appropriati del linguaggio per evitare crampi mentali. La metafisica è un crampo mentale
perché non ha un oggetto empiricamente presente, quindi non ha una base reale da cui
muoversi. Mentre il linguaggio scientifico parte dai fatti, il linguaggio ordinario parte dagli usi
(contesti) di vita parte. Al contrario il linguaggio metafisico può avere un senso ma non ha un
significato. Se ci si affida soltanto al linguaggio metafisico si rischia il crampo mentale.
L’elemento mistico dell’atteggiamento di pensiero di Wittgenstein emerge nell’affermazione
che troviamo nel Tractatus :”Quanto può dirsi si può dire chiaramente; e su ciò di cui non si
può parlare si deve tacere”. Non si può parlare di Dio, cioè delle realtà metafisiche, si può
parlare solo delle cose con cui abbiamo a che fare e di queste ne dobbiamo parlare in maniera
chiara. Questo è il senso del Tractatus, voler offrire i criteri per permettere di dire in maniera
più chiara possibile. Ma il dire che non si può dire vuol dire che non c’è? Vuol dire solamente
che non si può dire. In realtà molti esponenti del neopositivismo non hanno taciuto perché se
affermi che Dio non esiste non dici che di Dio non si può parlare, questa è cosa diversa. Non si
può dire esprime il senso del limite, ecco allora che nell’introduzione al Tractatus Wittgeistein
dice:”il testo vuol tracciare al pensiero un limite piuttosto non al pensiero ma alle espressioni
dei pensieri (è da ricordare la distinzione kantiana tra conoscere e pensare; la scienza dice
che c’è un limite al conoscere ma non al pensare, tuttavia non c’è la possibilità di trasformare
un pensare in un conoscere; l’illusione trascendentale) che per tracciare al pensiero un limite
dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite, dovremmo dunque poter pensare quello
che pensare non si può (dovresti conoscere il limite ma se non lo conosci non puoi mettere un
limite al pensiero) Il limite dunque potrà essere tracciato solo nel linguaggio e ciò che è oltre il
limite (del linguaggio) non sarà che non senso“.
L’espressione “non senso” viene presa dai filosofi neopositivisti per indicare il principio di
demarcazione secondo cui bisogna porre una linea di demarcazione fra le proposizioni
sensate (che hanno un significato) e quelle insensate (che non hanno un significato). Le
proposizioni sensate sono quelle di cui puoi presentare un protocollo sperimentale, quelle
insensate quelle di cui non puoi presentare dei protocolli empirici.
Per Wittegenstein è vero che non si possono fare proposizioni che cozzano contro il limite del
linguaggio. In questo senso la logica di Wittegenstein è una cosmologia perché traccia il limite
del mondo. È come per kant che bisognava tracciare i limiti dell’isola. Ciò che è nel mondo può
dirsi, ciò che non è nel mondo non può dirsi e cioè non può dirsi il senso del mondo, il valore
del mondo. Il valore del mondo non è nel mondo perché il mondo è tutto ciò che è costituito da
fatti che è pura materia. Il senso del mondo è fuori del mondo, è Dio (qui c’è l’anima mistica di

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Wittegenstein). Dice Wittgenstein che pregare significa pensare al senso della vita. Il valore
della preghiera è entrare in comunicazione con Dio (dice Sciurpa). In Wittegenstein avviene la
distinzione fondamentale tra fatto e valore. Il fatto è conoscibile, il valore è testimoniabile.
Anche Hume dice che dai fatti non possono dedursi delle regole, delle leggi e dei
comportamenti. In Kierkegaard c’è la reduplicazione che è il vivere il valore e non il dirlo,
annunciarlo, perché il valore non è un fatto dice Wittegenstein. Di fronte al valore rimane il
silenzio, dice Wittegenstein
Al riguardo c’è la sesta delle sette tesi del Tractatus:”Di una risposta che non si può formulare
(perché non c’è un riferimento fattuale) non può formularsi neanche la domanda. L’enigma
non v’è. Se una domanda può porsi, può avere anche una risposta. Lo scetticismo è non
inconfutabile ma apertamente insensato (se non c’è un riferimento fattuale non si può
affermare nulla e dunque non ha senso mettere il dubbio su ciò che non si può affermare; ciò
che non può essere affermato non può nemmeno essere negato) se vuol mettere il dubbio
ove non si può domandare, (ovvero su Dio) perché dubbio può sussistere solo ove sussiste
una domanda; domanda solo ove sussiste una risposta; risposta solo ove qualcosa può
essere detto. Eppure vi è l’ineffabile (ciò che non si può dire), esso si mostra, è il mistico. Noi
sentiamo che anche una volta che tutte le risposte scientifiche hanno avuto una risposta, i
nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati (il senso della vita). Certo allora non
resta più domanda alcuna (si può porre una domanda solo su ciò di cui si può avere una
risposta in termini fattuali) e appunto questa è la risposta (la risposta è il silenzio) ”
Ne viene fuori la filosofia e la teologia apofatica, che non può dire, che non può parlare.
Le risposte scientifiche non toccano i problemi della vita, cioè quelli del senso dell’esistenza.

21/11/2011
La verità secondo Wittegenstein, intesa come ciò che può essere conosciuto dall’uomo, è
soltanto quella che è contenuta nei fatti, semplicemente i fatti e non più dei fatti, se non la loro
rappresentazione che viene elaborata anche in teorie scientifiche che hanno l’unico criterio e
fondamento di verità la possibilità di essere ricondotte ai fatti. La posizione di Wittegenstein è
un di radicale empirismo. La conoscenza è conoscenza soltanto dei fatti e i fatti sono stati di
cose, e gli stati di cose sono gli elementi atomici di una realtà molecolare. I fatti sono le
molecole, gli stati di cose sono gli elementi che costituiscono le molecole, cioè gli atomi.
Il termine fatto indica anche un movimento. Quando diciamo cosa fatta, un fatto, lo pensiamo
anche in una dinamicità che può anche variare nel un tempo e nello spazio. Quindi gli stati
delle cose che si coagulano e si concentrano in un fatto non sono qualcosa di immutabile e

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definitivo, non esiste nulla che non possa modificarsi nella sua configurazione. Gli stati di cose
possono concorrere alla formulazione di fatti diversi. Stati di cose, come elementi atomici in
senso figurato, che si coagulano in fatti che costituiscono l’elemento molecolare.
L’insieme dei fatti è il mondo, è l’oggetto della ricerca scientifica che è limitata alla percezione
dei fatti. Il mondo è l’insieme dei fatti, i fatti è l’insieme degli stati di cose.
Tutta questa realtà è raffigurata da un altro insieme, cioè dall’insieme delle proposizioni. Le
proposizioni sono l’insieme logico linguistico con cui raffiguriamo i fatti. Le proposizioni a loro
volta sono atomiche, cioè semplici così come esistono gli stati di cose, o complesse, cioè
molecolari. Se dico Socrate è un filosofo ho fatto una proposizione semplice, atomica. Se
invece dico Socrate è un filosofo che è vissuto ad Atene ho già fatto una proposizione
molecolare.
Ognuna delle proposizioni molecolari è riconducibile ad una proposizione atomica. La verità di
una proposizione è certificata dalla verità della proposizione precedente e la verità della
proposizione atomica è fondata su un fatto. La verità di una proposizione non sta nella
proposizione ma nel fatto a cui essa si riferisce. Quello che i neopositivisti chiamano i
protocolli. Il protocollo è il rimandare un’enunciazione ad una determinata esperienza, quindi
ad un determinato fatto.
L’insieme delle proposizioni è la raffigurazione dell’insieme dei fatti. È quella che viene
chiamata la teoria pittografica del linguaggio, o teoria della corrispondenza tra gli enunciati
e i fatti.
Non c’è nessun concetto o essenza che mi imponga come devono essere ordinato i fatti. La
proposizione n. 5 di Wittegenstein: “La fede nel nesso causale è superstizione”. Allora cos’è la
verità? Non è l’affermazione di qualcosa di assoluto ma semplicemente certificare in un fatto
come mi si manifesta, nelle condizioni in cui si manifesta. Non potrò mai affermare che quelle
sono condizioni necessarie e che quelle sono le conseguenze necessarie. Perché se cambio
la logica di quei fatti ci possono essere altre conclusioni e nessuno mi può obbligare ad
affermare che il nesso che esiste tra un fatto e l’altro sia un nesso necessario. Io posso solo
constatare che c’è un nesso tra un fatto e l’altro ma non posso dire che è necessario.
Secondo la teoria pittografica del linguaggio, o teoria raffigurativa del linguaggio, Il linguaggio
non è altro che la rappresentazione di come sono andate le cose senza poter dire che c’è una
necessarietà secondo cui le cose sono andate in quel modo.
Da qui viene fuori la seconda teoria dell’infallibilità del linguaggio, secondo cui non
possiamo dire ciò di cui non possiamo avere esperienza, detta anche intrascendentabilità
del linguaggio nel senso che al di fuori del linguaggio non si può andare, perché il linguaggio

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deve essere esclusivamente descrizione dei fatti e quindi non posso proiettarlo fuori oltre. In
questo senso viene anche detta teoria del limite del linguaggio, come impossibilità di andare
al di fuori del linguaggio e dei fatti che esso descrive. Questa teoria ha un altro risvolto in
Wittegenstein, cioè il silenzio su ciò di cui non si può avere una risposta; e su ciò di cui non si
può avere una risposta non si può formulare nemmeno al domanda. Diceva Wittegenstein:
questa è la risposta, cioè il silenzio.
Ma il silenzio non significa l’esclusione di ciò che si pone oltre. Quando Wittegenstein dice che
il senso non è nel mondo e che questo non può essere detto dal linguaggio perché il
linguaggio può dire solo il mondo, cioè i fatti, non dice che non esiste il senso ma che non si
può dire, rappresentare, perché non c’è il fatto. Il senso è irrappresentabile. Come dire che Dio
non è rappresentabile. Noi parliamo di Dio padre e Dio figlio facendo delle analogie che
prendiamo dal nostro mondo ma di per sé Dio è irrappresentabile. Si muove nell’orizzonte
della teologia apofatica.
Wittegenstein diceva con un linguaggio kantiano:”pregare è pensare (e non conoscer) il senso
del mondo”. Se la teoria dell’ineffabilità significa che non si può uscire dal limite del linguaggio,
significa anche che si deve tacere su ciò di cui non si può dire, che significa affermare il
mistico.
Per certi aspetti Wittegenstein si manifesta quasi come un agnostico. Nel testo “Conversazioni
di estetica di etica e di religione”, in cui dice che sono tre realtà di cui non si può parlare, sono
irrapresentabili, nondimeno Wittegenstein dice che non sono realtà che non vanno negate e
guardate con rispetto.
Questo spiega il passaggio al secondo Wittegenstein. Il primo è quello del linguaggio
scientifico ritenuto l’unico capace di rappresentare il mondo, mentre il secondo Wittegenstein è
quello che considera anche tutti gli altri linguaggi, non solo quelli rappresentativi ma anche
comunicativi di stati di vita (non è espressione di Wittegenstein). Noi usiamo diversi linguaggi
con cui esprimiamo anche qualcosa che è oltre il linguaggio, cioè desideri, aspettative, modi di
rapportarci con gli altri e con il mondo.
Secondo una delle teoria dell’etica analitica, possiamo descrivere dei comportamenti e su
questi esprimere il nostro sentimento di simpatia ed antipatia. Dice Wittegenstein che non
possiamo dire cosa è il bene, possiamo solo rappresentare dei comportamenti.
Mentre il primo Wittegenstein si ferma al linguaggio scientifico, quello descrittivo dei fatti,
l’unico conoscitivo (la conoscenza è conoscenza di fatti), il secondo si ferma sempre ai
linguaggi ma quelli che descrivono il vivere dell’uomo, quello che fa, le articolazioni del vivere.
Quindi, considerando che ci sono ad esempio persone che pregano, nel descrivere queste

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condotte non mi chiedo se esiste Dio perché Dio è una realtà ma non è un fatto nel senso
empirico del termine.
Torniamo al primo Wittegenstein, quindi al Tractatus logicus filoso ficus: insieme di fatti
rappresentati da un’insieme di proposizioni che raffigurano questi fatti. Ma come si
costruiscono le proposizioni? Si usa un linguaggio logico per costruire un linguaggio che mi
rappresenta fatti, quindi c’è un terzo insieme oltre l’insieme di fatti e l’insieme di proposizioni
per descrivere il mondo. Il terzo insieme è la logica: l’insieme di proposizioni logiche che
servono per costruire proposizioni protocollari, cioè quelle che si riferiscono ai fatti. Le
proposizioni logiche sono definite da Wittegenstein come un meta-linguaggio perché serve a
costruire altri linguaggi, è una costruzione e dunque è convenzionale. Dice Wittegenstein,
usando una metafora, che è come una scala che una volta usata può essere buttata via, cioè
è uno strumento. La logica dunque non né vera né falsa, e possono essere costruiti più sistemi
logici.
Le proposizioni logiche hanno una loro validità se hanno una coerenza in se stesse ma non ci
dicono nulla sulla realtà, non fanno riferimento a dei contenuti reali, per questo Wittegenstein
le chiama anche proposizioni tautologiche, cioè di proposizioni che parlano solo di se stesse e
non fanno riferimento ad altro fuori da sé. Dal momento che non fanno riferimento alla realtà
non sono né vere né false, in questo senso, sono semplicemente condizioni logiche che
servono. Dice Wittegenstein:”Le mie proposizioni illustrano così. Colui che mi comprende
infine le riconosce insensate se è salito per esse, su esse, oltre esse (oltre perché mi consente
di costruire proposizioni protocollari). Egli dovrebbe gettar via la scala dopo che vi è salito. Egli
deve superare queste proposizioni, allora vede nettamente il mondo“.
La proposizione insensata significa la proposizione che non ha un contenuto empirico, è solo
una forma che serve per, appunto come una scala. Il termine non senso è poi allargato per
suggerire l’inconsistenza di tutte quelle proposizioni che pur non avendo un contenuto
empirico pretendono di offrire conoscenze; che sono in particolare la filosofia e la metafisica.
Le proposizioni logiche sono non sensi perché non fanno riferimento a contenuti empirici,
nondimeno sono utili, ma una volta utilizzate esauriscono la loro funzione. Tutte le
proposizioni, come quelle logiche, che non fanno riferimento a contenuti empirici, se
pretendono di essere proposizioni conoscitive in realtà sono non sensi assoluti.
Qual è il compito della filosofia per Wittegenstein? Sciogliere i crampi mentali di coloro che
danno un valore conoscitivo ai non sensi assoluti, l’altro compito è quello di chiarificare i
linguaggi. La filosofia ha unicamente un compito terapeutico, chiarimento dei linguaggi, per
vedere quelli che sono sensati e quelli che non sono sensati. I linguaggi sensati offrono un

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contenuto conoscitivo empirico, controllabile, (qui Wittegenstein afferma la validità assoluta del
principio di verificazione, cioè la verificazione sperimentale) quindi sono linguaggi verificabili,
sperimentabili; i linguaggi non sensati sono quelli che non hanno un contenuto empirico.
Il neopositivismo si ispira al primo Wittegenstein ma dallo stesso prende solo una parte del
discorso, quella in cui c’è la distinzione fra linguaggi sensati e non sensati che il
neopositivismo traduce con il principio di demarcazione fra linguaggi sensati e non sensati
(quelli metafisici). Quello che non prendono da Wittegenstein è l’aver sottolineato che i
linguaggi non sensati per essendo tali non vuol dire che non hanno alcun valore. Per
Wittegenstein i linguaggi metafisici parlano alla vita. Nella proposizione sesta (nella settima
conclude che “quello di cui non si può parlare si deve tacere”) del Tractatus dice:”Noi sentiamo
che anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto una risposta (cosa
impossibile), i nostri problemi vitali non sono neppure toccati. Certo allora non rimane più
domanda alcuna e questa è la risposta.“.
Anche il linguaggio metafisico-religioso, pur essendo insensato perché non mi può dare un
contenuto empirico di riferimento, tuttavia ha una funzione importante per Wittegenstein.
Qual è il senso del Tractatus? Nelle lettere al suo editore del Tractatus diceva:”…il senso del
libro è un senso etico. …il mio lavoro consiste in due parti, di quello che ho scritto e inoltre di
tutto quello che non ho scritto e proprio questa seconda parte è quella importante. Ad opera
del mio libro l’etico viene per così dire delimitato dall’interno.sono convinto che l’etico è da
delimitare rigorosamente solo in questo modo.”, dove l’etico è il senso della vita (pregare è
pensare al senso della vita). Ma il senso della vita non è nel mondo. La logica non è interna al
mondo, siamo noi che gli diamo una logica, un ordine. Nel mondo le cose stanno come
stanno, le constato semplicemente e poi gli do un ordine logico. Dire che il senso della vita non
è nel mondo non significa che non serve al mondo. Il senso del mondo è fuori del mondo ma
nondimeno è quello che in realtà dà la consistenza maggiore. Dice Wittegenstein che
quandanche avessi dato risposta a tutti i problemi scientifici, i miei problemi vitali non
sarebbero toccati. Il senso del mondo è quello che dovrebbe dare risposta ai miei problemi
vitali. Quando dice che la parte più importante è quella che non ha scritto è perché ha voluto
delimitare l’etico dall’interno che significa che non lo posso verificare dentro le cose, perché le
cose sono anche contraddittorie, il mondo in fondo è casualità.
Aggiunge Wittegenstein :“In breve credo che tutto ciò su cui molti parlano a vanvera io nel mio
libro l’ho messo saldamente al suo posto semplicemente con il tacerne”. Un carissimo amico di
Wittegenstein, Poul Engelmann, descrivendo quello che è il senso recondito del Tractatus,
utilizzando un’immagine Kantiana dice: “Quando con immensi sforzi delimita ciò che non è

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importante e cioè gli scopi e i limiti del linguaggio ordinario, non sta misurando le coste di
quell’isola che esplora con tanta accuratezza ma i confini dell’oceano.”. Il linguaggio non può
andare al di là delle coste, ma oltre le coste c’è l’oceano. È un po’ la dialettica kantiana tra il
limite e l’ulteriore.
In alcuni appunti, gli Scripten, Wittegenstein dice:” Più che parlare di Dio si parla a Dio e il
parlare a Dio non è una teoria ma un’agire, un vivere il senso della vita. È essenziale per la
religione il parlare? Io posso immaginare una religione in cui non ci sono prese di posizione
dottrinale, in cui dunque non si parla. L’essenza della religione può come sembra non
dipendere dal fatto che se ne parli o piuttosto, quando se ne parla, allora questo parlarne fa
parte dell’agire religioso stesso e non è affatto una teoria. Non si tratta di sapere se queste
parole sono vere o sono false o sono prive di senso“.
C’è un po’ la posizione di Spencer al quale non interessava se una religione è vera o falsa, la
religione è quella che addita il mistero. Wittegenstein si colloca in questo orizzonte, non gli
interessa se una religione è vera o falsa, gli interessa l’agire religioso e questo è anche il limite
del suo discorso. Se è vero che di fronte al mistero dobbiamo inginocchiarci, è l’agire, cioè il
pregare, è anche vero che l’uomo ha anche bisogno di dare giustificazioni e motivazioni, deve
usare la ragioen per dire qualcosa su Dio..
Wittegenstein critica chi vuole dare formule su ciò che è metafisico e quindi i linguaggi che
sono non senso ma dall’altra critica .
Wittegenstein pubblica l’opera “ricerche filosofiche” dedicata ai giochi linguistici, cioè ai
linguaggi non scientifici. Già nel termine gioco si coglie la gratuità e convenzionalità. Il gioco
non è necessario, .lo inventi, lo crei; ogni gioco ha bisogno di regole e vuole dare risposte ad
un bisogno di vita, quindi nasce da forme di vita.
Per Wittegenstein, ad esempio, la preghiera è un gioco linguistico. Non c’è un linguaggio più
importante di un altro, l’importante è non confondere i linguaggi. L’analista del linguaggio è
come un notaio che registra, non è un giudice. La funzione del filosofo è stabilire qual è la
forma di vita a cui vuole rispondere quel gioco linguistico, a quale bisogno esistenziale
corrisponde quel gioco linguistico. In secondo individuare le regole che permettono a quel
gioco linguistico di poter operare efficacemente, onde evitare crampi, confusioni,
sovrapposizioni.
Se nel Tractatus il principio di fondo di validità del linguaggio era la possibilità della sua
verificazione, cioè dei protocolli in riferimento agli stati di fatto, nel secondo Wittegenstein delle
ricerche filosofiche che parla della molteplicità dei linguaggi, il principio di fondo è non più il
riferimento empirico in quanto tale ma il principio d’uso secondo cui ci si chiede a che serve

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quel linguaggio, a quale forma di vita vuole corrispondere. Non mi interessa sapere se quella
forma di vita è vera o falsa ma per quale forma di vita serve quel linguaggio. Il valore di un
linguaggio è il suo principio d’uso. È un principio di ordine pragmatico e non più veritativo.
Serve di stabilire a che serve quel linguaggio.

22/11/2011
Il nuovo principio di significanza significa dire qual è il criterio che rende valido un discorso, un
linguaggio. Se per quello scientifico il criterio è il protocollo empirico, cioè la verifica di un fatto,
per i c.d. linguaggi ordinari, i giochi linguistici, il criterio che li rende significativi, utili, è il suo
uso. A che serve? A quale forma di vita dà risposta? Quale risultato riesce ad ottenere? Se
voglio capire il senso di un linguaggio ne devo verificare la sua finalità, a che serve. È un
criterio pragmatico, non semantico né sintattico.
L’aspetto semantico riguarda il contenuto, il ciò di cui si parla, l’oggetto che viene significato
dal linguaggio. Tornando al primo Wittegenstein, l’aspetto semantico è il fatto, l’insieme dei
fatti che è il mondo. L’aspetto sintattico sono le regole formali che permettono di costruire un
linguaggio.
Il secondo Wittegenstein si rivolge invece all’aspetto pragmatico del linguaggio per vederela
funzione che esso esercita, a che serve. C’è una metafora che utilizza Wittegenstein della
cassetta degli strumenti dell’artigiano, nella quale ci sono strumenti diversi che rappresentano
giochi linguistici diversi. Se voglio esprimere il senso cosmico dell’universo, dalla cassetta dei
linguaggi non prendo un linguaggio matematico ma un linguaggio religioso, cioè adotto un
linguaggio adatto a quella forma di vita. Quindi il significato, il valore di un linguaggio è il suo
uso. Il valore del linguaggio dipende dal risultato, cioè se serve, se è utile.
L’uso diventa il criterio che rende linguaggio significativo. Dice Wittegenstein:”Il significato di
una parola è il suo uso nella lingua.”,cioè a che serve, a quale forma di vita corrisponde.
Il principio d’uso di un linguaggio deve ance corrispondere a delle regole precise. Oltre a
stabilire l’uso ci sono anche le regole d’uso.
Il primo Wittegenstein è quello del Tractatus, quello che prende in esame il linguaggio
scientifico, quello che pone il principio di significanza nel principio di verificazione, quindi il
protocollo scientifico che è ciò che rende valido un linguaggio che diventa ostensivo, cioè ti
mostra una cosa. Il linguaggio scientifico è ostensivo perché descrive la cosa.
Il secondo Wittegenstein non annulla il primo, c’è una continuità nella diversità nel senso che
Wittegenstein comprende che l’uomo vive di una molteplicità di linguaggi, non solo di
linguaggio scientifico. Dal primo Wittegenstein prende ispirazione il neopositivismo logico, di

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cui il Tractatus logicus filoso ficus è la bibbia. Ma di quest’opera i neopositivisti prendono in
considerazione solo il libro scritto ma non considerano la seconda parte non scritta che
Wittegenstein considera la più importante, la parte etica. Mentre il filone della filosofia analitica
che si richiama alla scuola di Oxford e Cambridge, prende le mosse dal secondo Wittegenstein
delle Ricerche filosofiche che analizza i giochi linguistici.
Il neopositivismo esprime fondamentalmente quattro tesi centrali.
1) Principio di verificazione e/o di significanza.
Una proposizione ha significato, quindi è vera, se può esibire i criteri della sua verificazione.
Per cui in base a questo si distingue fra proposizioni sensate e non sensate. Le proposizioni
non sensate sono quelle che non hanno criteri di verificazione.
Uno degli esponenti del neopositivismo, lo Schlic, ucciso sulle scale dell’università di Vienna
da studenti fanatici del nazismo, così esprime il principio di significanza: “Il senso di ogni
proposizione si fonda senza residui nella sua verificazione in base ai dati di fatto. Il significato
di una proposizione è il metodo della sua verifica. Una questione è in principio risolvibile se
possiamo immaginare le esperienze che dovremo avere per darle una risposta. Il criterio di
solvibilità di un problema è la sua riducibilità all’esperienza possibile (la verificazione).” Non
necessariamente la verifica deve essere immediata ma la questione è in principio risolvibile se
possiamo immaginare le esperienze che dovremmo avere per darle una risposta.
Karl Popper si assume la responsabilità di aver ucciso il neopositivismo perché poneva il
criterio non nella verificazione ma nella falsificabilità, per cui basta anche una sola esperienza
ostativa per annullare una teoria scientifica.
Il Carnap, uno dei massimo esponenti del neopositivismo, diceva:”una proposizione dice
soltanto ciò che è verificabile, cioè una proposizione se in generale dice qualcosa può
significare un dato empirico”. Sono verificabili le proposizioni della fede? Secondo il
neopositivismo no perché una proposizione dice soltanto ciò che è verificabile e la verifica è
solo sulla base del dato empirico. Allora il contenuto delle proposizioni di fede non è
verificabile di per sé perché non è un dato empirico immediato. Il mistero non lo puoi toccare.
Se il verificabile è in base al dato empirico ovviamente ogni proposizione di natura
trascendente è insensata. Per i neopositivisti conta solo il dato empirico. Una proposizione è
significativa se può esibire le prove empiriche di se stesa, esibisce i metodi della propria
verifica.
2) Principio di tolleranza (detto anche della convenzionalità delle forme linguistiche)
e di complementerarietà.

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Nella “Sintassi logica del linguaggio” del Carnap (l’opera principale di Carnap è “La costruzione
del mondo” attraverso la scelta di una forma di linguaggio): “Non è nostro compito stabilire
proibizioni ma soltanto giungere a convenzioni. In logica non c’è morale. Ognuno può costruire
come meglio vuole la sua propria forma di linguaggio. … Se è vero che per costruire una
teoria scientifica si parte dalla scelta di una forma di logica e se è altrettanto vero che sul
mercato logico esistono diverse e più forme logiche ne consegue che nessuno può
avere la pretesa che la sua forma logica sia l’assoluta ”.
Ci sono più forme di sintassi logica, quindi l’uso di una forma logica è il risultato di una
convenzione nella comunità scientifica, in base all’efficacia, perché non c’è un buono o un
cattivo.
Se è vero che per costruire una teoria scientifica si parte dalla scelta di un sistema logico, ne
consegue che nessuno può avere la pretesa di ritenere che il suo sistema logico sia il migliore.
Ne consegue che tra le varie forme logiche ci deve essere un rispetto reciproco, una tolleranza
reciproca. Il principio di tolleranza è il principio della democrazia all’interno della ricerca
scientifica e più in generale della ricerca culturale, di qualsiasi confronto culturale.
Il principio di tolleranza si abbina a quello di complementarietà. Con il principio di tolleranza si
dice che devo accettare che venga adottato un modello teorico diverso dal mio ma con la sua
utilità. C’è la contemporanea presenza di modelli logici che non si incontrano di per sé tra di
loro ma nemmeno si scontrano, questo è il principio di tolleranza. Invece il principio di
complementarietà sta a significare che per uno stesso problema si possono utilizzare diverse
teorie che insieme possono rischiarare meglio il problema.
3) L’antimetafisicismo.
Più che un principio è un atteggiamento di fondo della filosofia neopositivista che nasce da
quello che lo stesso Kant aveva già evidenziato, cioè che le metafisiche producono teorie fra
di loro contrastanti e quindi portano all’impossibilità di comprensione reciproca, dice Carnap,
“perché non vi era neppure un criterio comune per decidere la disputa. La maggior parte delle
controversie della metafisica tradizionale mi appariva sterile ed inutile.” Osserva Carnap che
invece le scienze danno delle risposte comuni, accettabili e verificabili da tutti.
Le metafisiche a cui si rifà il neopositivismo sono quelle di tipo volontaristico ed irrazionalistico
(pensiamo alle ideologie della purezza della razza) che al tempo erano molto diffuse, ma
anche la metafisica aristotelico-tomista. L’antimetafisicismo dei neopositivisti ha in un certo
senso un’anima democratica perché vuole togliere la base giustificativa dei movimenti totalitari
che si andavano affermando.
4) Significato e compito della filosofia.

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Per i neopositivisti la filosofia ha semplicemente un compito logico Diceva Carnap in un testo
che porta il significativo titolo:“Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del
linguaggio”. In realtà il metodo dell’analisi linguistica affonda le sue radici ai sofisti, il cui
metodo è stato assunto da Socrate. In quest’opera del 1931 Carnap dice: “Al posto di
quell’inestricabile groviglio che si chiama filosofia compare la logica”. Significa dire: al posto dei
grandi temi della metafisica dimmi qual è la forma logica che stati utilizzando.
Quindi la filosofia non più come conoscenza ma come attività che assume una valenza
terapeutica perché ci immunizza dai linguaggi in libertà.
Questo è un principio che traevano da Wittegenstein sulla base di una tesi del Tractatus che
dice: “Con la filosofia le proposizioni vengono rese perspicue (perché vengono chiarificate) ,
con le scienze esse vengono verificate. Le scienze trattano della verità degli enunciati, la
filosofia di ciò che gli enunciati significano (gli fa l’analisi logica)”.

Il secondo filone della filosofia analitica prende le mosse dal secondo Wittegenstein. Viene
chiamata anche analisi filosofica, filosofia del linguaggio, perché prende in analisi tutte le
forme linguistiche, tutti i giochi linguistici. Dice Antiseri che la filosofia analitica si è sviluppata
nei due centri universitari di Oxford e Cambridge, ed è più un movimento che una scuola,
perché tra gli analisti non c’è un corpus unitario di dottrine e spesso non c’è accordo sui
risultati ottenuti, invece è comune una specie di mestiere, una mentalità, un tipo di lavoro che
si esercita sulla lingua per vedere come funziona il linguaggio, in modo che il mondo ci appaia
maggiormente chiaro e sempre più in profondità. Antiseri sta dicendo che hanno un mestiere
comune anche se hanno dottrine diverse.
I filosofi di questa corrente sono incapaci di offrire prospettive sul mondo, questa è la critica
che gli viene mossa (pensiamo all’uomo senza qualità di Musil). In questa corrente c’è un
comune sentire ma i vari esponenti prendono strade diverse, si specializzano in diversi ambiti
di ricerca, chi sul linguaggio etico, chi su quello religioso, politico, estetico ecc.
Sentono l’esigenza di fare una mappature del linguaggio per mostrare quante zone sono
coperte dal linguaggio (i diversi giochi linguistici) e poi stabilire la natura di questi diversi
linguaggi. Uno dei filosofi di questo movimento è Austin che scrive il testo “Come fare cose con
le parole”, dal quale un altro filosofo americano, il Searle, ha elaborato la c.d teoria degli atti
linguistici. Il testo di Austin si rifà al principio d’uso di Wittegenstein, le parole sono come
strumenti che tiro fuori dalla cassetta degli attrezzi e utilizzo nelle diverse forme di vita.
Gli atti linguistici del Sirl sono tre: 1) l’atto locutorio; 2) l’atto illocutorio; 3) l’atto
perlocutorio.

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Con l’atto locutorio si intende l’atto del dire, dico una cosa, dico un oggetto. Con l’atto
illocutorio invece metto in moto delle energie, delle reazioni, anche delle emozioni se
vogliamo; cioè nel dire si provocano anche delle reazioni, delle emozioni. Il dire ha anche una
forza perlocutoria che fa si che noi provochiamo delle azioni, non solo delle reazioni di tipo
emotivo, facciamo fare.
Nello stesso atto linguistico, in altre parole, si veicolano diversi messaggi con diverso valore.
Un linguaggio non ha soltanto una funzione semantica, ma anche emotiva e pragmatica.
Questi sono gli atti linguistici L’atto locutorio mi dice cosa sto comunicando, l’atto illocutorio
come lo sto comunicando, l’atto perlocutorio perché lo sto comunicando, l’obiettivo da
raggiungere.
Dopo aver fatto la fenomenologia dei vari linguaggi c’è anche l’attenzione da parte dei filosofi
analisti alla struttura dei linguaggi. Al riguardo c’è un ‘interessante analisi del Perelman nel
testo del 1966 intitolato il “Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica”.
Il Perelman mette in rilievo l’esistenza di diverse forme di linguaggio che portano al
superamento del punto nodale della filosofia neopositivista che in nome della verifica eliminava
tutti gli altri linguaggi .Per Perelman la contrapposizione tra credere e verificare è inadeguata e
fuorviante, perché dice che oltre ai linguaggi scientifici, quelli locutori che documentano i fatti,
esistono anche i linguaggi significativi, come i linguaggi della fiducia e della testimonianza,
perché posso dare credito sulla parola e non semplicemente sul dato empirico. La fiducia data
sulla parola e che va verso la persona che merita fiducia perché ha già sperimentato
quell’esperienza La fede parte sulla base di una testimonianza a cui do fiducia. Oltre al
linguaggio che offre il dato c’è un linguaggio che è comunque sensato perché parte da una
base di fiducia che a sua volta è legata alla testimonianza che è sempre un’esperienza. Nella
prefazione a questo testo, Norberto Bobbio commentava che “La teoria dell’argomentazione si
presenta come tentativo di recuperare l’etica al dominio della ragione seppure di una ragione
pratica distinta dalla ragione pura. O se si vuole come la riscoperta di una terra rimasta per
troppo tempo inesplorata dopo il trionfo del razionalismo matematizzante (si rifà anche al
neopositivismo)”. La filosofia analitica è capace di darti strumenti utili e anche efficaci per un
uso fecondo e produttivo del linguaggio ma non ti dà il contenuto del linguaggio; questo è il
problema di fondo della filosofia analitica.

23/11/2011
La filosofia analitica non si pone di per sé il problema di cos’è verità, se esiste la verità, di cosa
è l’uomo e se c’è un senso della storia, perché sono problemi generali di carattere metafisico.

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Quello che interessa ala filosofia analitica è comprendere qual è la funzione e l’uso di un
linguaggio per coglierne appunto il suo funzionamento e le regole del funzionamento. È una
filosofia della non filosofia o meglio, non è una filosofia. La filosofia del linguaggio rimprovera
la filosofia analitica perché lascia scoperto l’uomo, nel senso che studia qual è il ruolo che ha
un certo linguaggio, come funziona, ma non dice nulla riguardo al perché scegliere un
linguaggio invece che un altro. Ad es. puoi dire come funzione un linguaggio religioso ma
quando fai la scelta religiosa su che base la poni? È una filosofia che lascia scoperto il campo
della motivazione della decisione. Sceglie un linguaggio invece che un altro ma in base a che
cosa? Unicamente in base ad una decisione volontaristica. Il volontarismo accomuna sia la
filosofia analitica che nepositivismo logico perché anche in quest’ultimo si poneva lo stesso
problema. Dopo aver compreso che il linguaggio scientifico è l’unico che ti da fondamenti di
conoscenze, l’uomo deve comunque fare scelte che non si basano su un criterio, ma sono
scelte volontaristiche.
Queste filosofie scontano un paradosso: da una parte sono filosofie iper-logicistiche, quindi
altamente razionali, dall’altra si coniugano con opzioni del tutto irrazionali, o meglio
volontaristiche e quindi non fondate razionalmente, ad esempio emotivistiche, senza
un’adeguata motivazione fondante.
Ci sono tre ambiti in cui i filosofi analisti fanno una pratica di analisi del linguaggio: metafisico,
etico e religioso.
Per quanto riguarda il linguaggio metafisico la filosofia analitica non dice se è giusto o no,
perché l’analista non è un giudice, è un notaio che registra e cerca di vedere come l’atto che si
sta facendo è un atto che funziona correttamente. la metafisica può essere scelta senza una
motivazione di carattere razionale. Nella filosofia analitica, come dice Antiseri, viene superata
l’angoscia nevrotica contro la metafisica che era una caratteristica dei neopositivisti (tra le
parole proibite c’è anche la metafisica). Per gli analisti la metafisica ha un suo linguaggio e una
sua funzione, la metafisica è un “blik”, è una visione, uno sguardo che ti permette di vedere le
cose.
Antiseri in “filosofia analitica e linguaggio religioso, riassume la posizione degli analisti nei
confronti della metafisica in otto punti:
1) “È un non senso che la metafisica sia un non senso”; cioè si riconosce un valore alla
metafisica; con questa posizione la filosofia analitica entra in contrasto con il
neopositivismo che distingueva fra proposizioni sensate e proposizioni insensate e
quindi dava un giudizio in base ad un criterio che a sua volta doveva essere giustificato
in termini metafisici.

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2) “La metafisica è un blik, un atteggiamento che consente di guardare l’intero universo in
modo nuovo”.
3) “La metafisica non ha la funzione di informare”, cioè non ha una funzione locutoria, non
dice cose, non fa affermazioni di verità.
4) “Sulla strada dell’analisi noi incontriamo dei cadaveri, questi non sono tanto le
metafisiche quanto le interpretazioni informativistiche delle metafisiche”.
5) “se dunque la metafisica non ha una funzione di informare, la metafisica svolge delle
funzioni che sono di carattere morale, politico, di rassicurazione psicologia e anche di
appoggio e di surrogazione dei fini della religione (di appoggio alla fede stessa).” La
metafisica comunque serve. Da un punto di vista etico, ad es., serve stabilire dei criteri
in base ai quali dire ciò che è giusto e ciò che non è giusto. Ma non esiste una verità in
sé che la metafisica ti possa dare, la metafisica ti offre degli strumenti per un’esistenza
condivisa e non conflittuale, questo in fondo è l’etica. Poi non si può stabilire se le
affermazioni dell’etica sono vere o false.
6) “Le metafisiche possono inoltre svolgere l’importante funzione di generare ipotesi
scientifiche”. Questa era una tesi cara a Popper ripresa da Antiseri. Un classico
esempio di metafisica è il materialismo atomistico di Democrito che has generato la
scienza fisica dell’atomismo.
Chi è il filosofo antico che ha più influenzato la scienza moderna? Palatone è il filosofo
idealista, del mondo delle idee, Aristotele è il filosofo del realismo, il questo qui, il sinolo
di materia e forma.
La scienza moderna è sperimentale, parte dal questo qui e tuttavia, nonostante
Aristotele avesse un metodo sperimentale, si ritiene che abbia più influito sullo sviluppo
della scienza la metafisica di Platone (la teoria dell’idea del sole, l’eliocentrismo trova
più le sue basi sull’idea platonica del sommo bene di cui il sole rappresenta la metafora
che sta al centro di tutto e verso cui tutto converge) che la fisica di Aristotele (la
cosmologia di Aristotele di tipo sperimentale ha avuto meno influenza). La metafisica di
Platone ha influito di più sulla rivoluzione scientifica (che è partita con l’eliocentrismo)
del naturalismo scientifico di Aristotele.
C’è anche un altro motivo per cui Platone è considerato più influente sulla rivoluzione
scientifica, e cioè l’aver dato una grande importanza alla matematica che è diventato il
linguaggio della scienza. Nonostante la svalutazione della materia che caratterizza il
pensiero di Platone, i filosofi della scienza e in particolare Reschenbach, uno dei

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fondatori del Circolo di Berlino, ritengono che abbia più influenza sulla rivoluzione
scientifica il suo pensiero rispetto a quello di Aristotele.
7) La rivoluzione scientifica (Galilei ecc.) modifica il modo di guardare il mondo. Ad
esempio, la filosofia di Cartesio, eminentemente metafisica, nasce sul piano della
rivoluzione scientifica perché parte da un modello matematico, vuole costruire un
modello razionale metafisico che ha la rigorosità metodica della matematica. Le teorie
metafisiche non solo elaborano teorie scientifiche ma sono necessarie per rielaborare
l’aspetto delle teorie scientifiche, per dargli unità d’insieme. Un po’ quello che diceva
Spencer: la religione addita il mistero, la scienza esplora il mistero, la funzione della
filosofia è quella di unificare tutte le scoperte scientifiche. è un aiuto che viene adtto
alla scienza a far cogliere l’unità dell’insieme. Quindi la metafisica deve dare unità al
sapere.
8) “Le asserzioni metafisiche sono in sostanza inviti a guardare il mondo in modo nuovo e
per queste esse sono o ermetiche (cioè complesse) o ingenuamente infantili”.
Il metafisico, per dirla alla Wittegenstein, scopre come un nuovo modo di dipingere oltre
questo non si deve né può andare. Alla metafisica non si possono chiedere affermazioni
definitive, vere, ultime sul mondo, sulla storia, sul destino ultimo dell’uomo, si Dio. Chi fa
questo incorre nei crampi mentali. Quindi dal punto di vista della filosofia analitica, la
metafisica ha alcuni ruoli e funzioni ma non possiamo attribuirgli una funzione conoscitiva.
Il linguaggio morale: da questo punto di vista la filosofia analitica rappresenta una linea molto
influente anche nel pensiero di oggi. Esiste una morale di tipo analitico, molto frequentata dalla
cultura laica in contrasto con la cultura che si ispira a valori religiosi.
Il principio fondamentale da cui si muove l’analisi del discorso morale è che l’affermazione
morale non dice nulla sul mondo, su ciò che è il bene. Chi pretende di definire il bene in sé e
per sé, cade nella fallacia naturalistica, ovvero pensare che il bene sia una proprietà delle
cose, cioè pensare che il bene sia una proprietà in sé, come esiste una cosa esiste il bene in
sé . Questo rimanda al principio di Hume secondo il quale da una descrizione dell’essere non
si può trarre una prescrizione dell’essere, cioè non si può trarre un dover essere. È il principio
empirista di fondo ripreso da Wittegenstein che parlava della superstizione del principio di
causalità. Applicato all’etica significa dire che non c’è un essere, cioè un concetto di bene dal
quale si debba tirare la conclusione che bisogna, si deve, cioè la prescrizione, un dover
essere.
Allora su quale base si fanno delle scelte? La base di fondo è l’intuizione (a me pare che
questa sia la cosa migliore da fare) che è legata alla soggettività e al momento (intuizionismo).

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L’altro criterio sulla base del quale definisco ciò che è bene, e quindi scelgo, è l’emozione (mi
pace o non mi piace?) che porta all’emotivismo. Riguardo alla tesi dell’intuizionismo l’autore
principe è il Moore, nato a Londra nel 1873 e morto a Cambridge nel 1958, che nel testo
“Principia ethica” solleva il problema se si può definire il concetto di bene. Per Moore il bene è
indefinibile perché è una nozione semplice che non può essere definita con categorie e che si
coglie attraverso la via dell’intuizione. Moore riprende il concetto di fallacia naturalistica.
Un altro filosofo analista è Ayer che ha una posizione più di carattere emotivistico, il quale
distingue fra accordo o disaccordo di credenza e accordo o disaccordo di atteggiamento. In
altre parole distingue in ogni giudizio morale quello che può essere l’accordo o meno su una
determinata azione. Accordo di credenza è stabilire, ad esempio, se questa bottiglia contiene
acqua o grappa, consiste nel dire cosa è o non è una certa cosa.
Stabilito prima l’accordo di credenza poi viene l’accordo o disaccordo di atteggiamento (ad es.
va stabilito prima se l’embrione è un esser umano oppure no per stabilire poi cosa ne
consegue. Peraltro non è detto che ne consegua lo stesso accordo di atteggiamento). Con
l’accordo di credenza non si risolve il problema morale che dipende dall’accordo di
atteggiamento.
Su quale base avviene l’accordo di atteggiamento? Ayer sostiene che avviene solo sulla base
delle emozioni (mi piace o non mi piace).
Un terzo autore è Hare, un filosofo analista secondo il quale l’etica non ha solo una funzione
descrittiva, di stabilire cioè ciò che può essere utile o meno, ma anche prescrittiva. Ogni
enunciato di carattere etico ha una duplice valenza, una di tipo descrittivo e un’altra di
carattere prescrittivo. Precisamente sostiene che ogni giudizio etico è composto di un
elemento frastico e di un elemento neustico. Frastico dal greco “frazo” che vuol dire indicare;
neustico dal verbo greco “neuo” che vuol dire annuire, promettere.
Ogni enunciato etico quindi ha un contenuto oggettuale, indica qualcosa, ma dà anche una
prescrizione. Nella concezione di Ayer la scelta di seguire la prescrizione veniva in base
all’accordo di atteggiamento che a sua volta avveniva sulla base della propria emotività.
Invece nella prospettiva di Hare il fondamento della prescrittività è la società; in altre parole
Hare pone un principio di prescrittività che prescinde dal soggetto individuale ma inserisce un
elemento di universalizzazione, cioè la società in cui si vive. È la società che diventa il criterio
dell’agire morale (ad es. la società impone all’alcolizzato di non bere alcool).
Il linguaggio religioso: viene preso in considerazione da molti filosofi analisti per cogliere il
proprio della religione e per vedere se può avere un fondamento scientifico, cioè di carattere
conoscitivo.

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Hare dichiarava una forma di ateismo semantico che viene a coincidere con una forma di
agnosticismo, che vuol dire che la parola Dio non ha un contenuto oggettuale, empirico; quindi
non si può verificare. Questo non significa negare Dio, ma è una realtà che non può essere
provata, documentata e verificata; quindi se ne può sospendere il giudizio come fa l’agnostico
(non posso affermare che Dio esiste ma nemmeno negarlo).
Si è sviluppata una letteratura suggestiva che si traduce nelle parabole della filosofia analitica
intorno al tema della religione, in cui si mettono in rilievo due cose. Una è che Dio non può
essere empiristicamente dimostrato. Quindi si nega qualsiasi valore conoscitivo alle
affermazioni intorno alla religione. Una famosa parabola è quella del giardiniere invisibile,
indicata come la sfida di Flew che ne è l’autore. Antiseri distingue nella filosofia analitica fra
sinistra e destra analitica. La sinistra analitica è più radicale perché rifiuta non solo la non
conoscibilità di Dio ma anche la stessa praticabilità; invece la destra analitica afferma che è
vero che il linguaggio religioso in sé e per sé non è verificabile, però possono esserci verifiche
indirette. Il linguaggio religioso rientra fra i linguaggi che danno senso, cioè i linguaggi della
fiducia, che danno testimonianza, quindi hanno un valore pragmatico anche se non cognitivo.
Flew è un’esponente della sinistra analitica che nella parabola del giardiniere invisibile
racconta di una spedizione che si addentra in una foresta vergine dell’Amazzonia e
all’improvviso si imbatte in una radura perfettamente ordinata con aiole, vialetti e alberi potati.
La spedizione rimane sorpresa e si mette alla ricerca del giardiniere che immagina si occupi di
tenere in ordine questa radura. Nonostante i vari tentativi non viene trovato nessun giardiniere,
neanche invisibile. Il senso del racconto è che tutte le prove sono fallite e quindi deve
presumersi che il giardiniere non esiste. Si applica un po’ il principio popperiano di
falsificazione: se una realtà non falsificabile vuol dire che non è esistente o comunque non è
alla portata delle nostre conoscenze. Il giardiniere invisibile è la metafora di Dio che non potrà
mai esser provato. Da questo la sinistra analitica traeva la conclusione che è illegittimo ogni
atto di fede. Diversamente per la destra analitica ne traeva altra conclusione: non è provabile
ma non è detto che non esista.
Questa parabola del giardiniere invisibile ha l’equivalente, per contrasto, in quella di coloro che
non si accontentano di nessuna prova. Si tratta della parabola dello psicopatico che crede che
tutti ce l’abbiano con lui, quindi dubita sempre di tutti, pensa che agiscano nei suoi confronti
sempre con un doppio fine. È come sottoporre a mille prove Dio. La parabola di Flew vuole
giungere alla conclusione che non ci sono prove che permettono di verificare l’esistenza di
Dio, con quest’altra parabola emerge, invece, la posizione di chi ritiene che non ci sono prove
sufficienti per dire che esista Dio.

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Il linguaggio religioso è fondato sulla fiducia e non sulla verifica puntuale delle cose. Pensiamo
alla parabola del partigiano misterioso che chiede ai suoi compagni di fidarsi di lui nonostante
le apparenze facciano pensare che si tratti di un collaborazionista nazista, perché lo vedono
parlare con un ufficiale tedesco. Allora ci si può fidare di Dio?

28/11/2011
Sul piano della tematica religiosa la filosofia analitica si divide in due filoni: destra e sinistra
analitica, dove destra e sinistra non hanno nessuna connotazione politica ma se vogliamo
evangelica. La sinistra i reprobi e a destra coloro che accedono alla salvezza. Allora la sinistra
coloro che ritengono che il linguaggio religioso è un linguaggio inverificabile. È la metafora del
giardiniere invisibile elaborata da Flew che ha lo scopo di sottolineare come il linguaggio
religioso risulta sempre inverificabile.
Mentre la destra analitica ritiene che questo linguaggio non è immediatamente verificabile ma
può essere verificato a post, perché c’è sempre la possibilità di verificare dopo la morte se
quello che è creduto è reale. Ha una sua verificabilità che trova nella testimonianza del
credente l’immediata verifica o comunque il senso che quel linguaggio può produrre nella vita
di quella persona e poi nell’ultimo giro di boa dell’esistenza ci può essere la verificazione
finale. Quindi è un linguaggio basato sulla fiducia e sulla testimonianza che possono avere dei
riscontri nella concreta esistenza del credente.
C’è una metafora del cerino e del sole elaborata da Antiseri. È la parabola del bambino nato e
cresciuto in una stanza buia che viene cresciuto dalla madre che ad un certo punti gli dice che
di là fuori c’è un sole. Il bambino non sa cosa sia il sole ma ha fiducia in sua madre e non
pensa che lo stia tormentando con sciocchezze linguistiche. Un giorno la madre accende nella
stanza un cerino e dice al bambino che il sole è come il cerino ma immensamente più grande.
Il bambino comprende che il sole è analogo al cerino. La parabola ci dice del linguaggio della
testimonianza e della fiducia:il bambino ha fiducia nella madre anche quando dice cose
incomprensibili e tuttavia le dà credito. C’è la verifica: l’amore è la verifica della credibilità di
un’azione. La testimonianza dell’amore crea fiducia nella persona che ti dice delle cose. Poi
c’è il fiammifero che rimanda alla categoria dell’analogia. Il fiammifero non è il sole ma dà
un’immagine del sole. Il bambino non potrà conoscere direttamente il sole ma ne ha
un’immagine, una percezione. Questo è nel linguaggio religioso che non è un linguaggio
descrittivo ma allusivo, ma non di un’allusività senza consistenza reale ma con un’allusività
che offre un’immagine nella quale possiamo cogliere un aspetto della realtà di ciò che non
posso apprendere in pieno ma di cui posso capire il senso; quindi è un linguaggio sensato.

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Questo nella prospettiva della filosofia analitica di destra che dà un senso al linguaggio
religioso.
Dilthey è un filosofo molto importante perché considerato il padre fondatore della filosofia
ermeneutica contemporanea, un filone significativo ‘900 ancora presente nel panorama
filosofico. La filosofia ermeneutica, come filosofia dell’interpretazione, ha molti padri.
Nell’800abbiamo Nietzsche secondo cui non esistono fatti ma interpretazioni, che è un po’ la
cifra della filosofia ermeneutica, cioè la filosofia secondo cui non esistono descrizioni obbiettive
che dicano la realtà così come è, ma esiste il nostro modo di dire la realtà. Quindi la filosofia
ermeneutica rientra anch’essa nel filone linguistico della filosofia del linguaggio.
Insieme a Dilthey anche Shairmacher, un filosofo romantico della religione, è considerato
anch’esso un padre fondatore della filosofia ermeneutica.
Nella seconda metà dell’800 si sviluppano le c.d. scienze umane, anche dette scienze dello
spirito o culturali. Scienze umane perché hanno come oggetto di analisi l’uomo che al tempo
stesso è soggetto che analizza e oggetto analizzato, cioè l’uomo che parla di se stesso.
Mentre con le scienze naturali (fisiche, chimiche ecc.) si parla della natura, delle cose, del
mondo, nelle scienze umane l’uomo parla di se stesso. Sono scienze umane la psicologia, la
sociologia, la politica, l’antropologia culturale, la geografia antropologica, la paleontologia ecc..
Sul piano delle scienze naturali c’era stato uno sviluppo notevole che aveva portato alla
necessità di definire il loro statuto epistemologico, per la necessità di dire perché possono
essere accreditate come sapere vero e proprio, nel senso di scienza come conoscenza. Con
Kant le scienze naturali avevano raggiunto la loro maturazione epistemologica. Se Kant si
chiedeva perché la fisica e la chimica si possono chiamare scienza, altri si interrogano se le
scienze umane possono esser considerate, al pari delle scienze naturali, scienze oggettive e
universali, cioè scienze che danno un sapere indiscutibile.
Già Stuart Mill si era posto il problema chiedendosi se l’antropologia e l’etica potessero esser
considerate vere scienze. Mill aveva tratto la conclusione che pur trattando dell’uomo, il cui
comportamento è imprevedibile perché c’è un dimensione di libertà, tuttavia si può parlare di
scienze umane perché anche nel comportamento dell’uomo ci sono delle costanti che ti
permettono di fare delle previsioni probalili.
Le scienze umane possono esser considerate scienze oggettive ed universali? Questo era il
problema. Nascono delle scuole, c’è il filone del neo-kantismo, c’è il filone della filosofia dei
valori che anno tentato delle proposte. In quest’ambito si pone la riflessione di Dilthey.
Dilthey è un po’ il Kant delle scienze umane. Come Kant si era posto l’interrogativo se e
perché le scioenze naturali possono esser considerate scienza vera e propria, così Dilthey lo

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fa per le scienze umane che chiama scienze dello spirito nel senso hegeliano del termine
(spirito come cultura).Pone delle categorie in base alle quali anche le scienze dello spirito
possono esser accreditate come vere e proprie scienze. Dà una risposta alla problematica
delle scienze umane che lo farà considerare il padre della filosofia ermeneutica. Dilthey è
anche considerato il padre dello storicismo contemporaneo tedesco, un filone che si collega
con la filosofia ermeneutica ma sono due percorsi distinti.
Dal punto di vista accademico Dilthey è uno storico della cultura, delle immagini culturali che
nel tempol’uomo si è venuto a configurare che chiamava le c.d. weltashaungen (visioni del
mondo). Quindi è lo storico della cultura che si inserisce nel momento di sviluppo degli studi
storici concentrati nella c.d. scuola storica tedesca (Momsen, Burchardt, Zeller).
Dilthey si muove in quest’orizzonte di ripresa della ricerca storica, non semplicemente della
storia politica ma della storia della cultura; scrive la vita di Shairmacher e aveva un progetto di
dare una visione complessiva della storia dell’umanità ma in realtà si è fermato agli studi sul
romanticismo.
Come filosofo è da ricordare per due temi di fondo: uno è il problema epistemologico, se le
scienze dello spirito possono essere considerate scienze umane. Alla domanda risponde con
la prospettiva ermeneutica. La seconda domanda è se possiamo cogliere un senso della
storia. Il senso della storia è quello che viene elaborato con lo storicismo contemporaneo
tedesco che va distinto da quello hegeliano.
Il pensiero di Dilthey si caratterizza come nel neopositivismo per il suo anti-metafisicismo, nega
la metafisica dell’immutabilità, oggettivistica, essenzialistica, della tradizione greco-cristiana da
Aristotele a San Tommaso. Dilthey è contro il metafisicismo dell’immutabilità perché sostiene
che la realtà è storia, è movimento e in particolare il divenire è ciò che caratterizza la vita e
l’essere umano, sicché non ci si può barricare dietro a verità immutabili perché la verità è in
divenire, muta di realtà in realtà, di stagione in stagione. Quindi potremmo dire che Dilthey è
uno dei padri del relativismo contemporaneo.
La fondazione delle scienze umane. Dilthey fa una distinzione, anche se messa in discussione
da molti altri, tra scienze ideografiche e scienze nomotetiche. Quest’ultime sono le scienze del
nomos, della legge, che hanno a riferimento delle leggi universali e oggettive. Sono la fisica,
la matematica, la chimica, la biologia ecc. queste scienze le chiama le scienze della
spiegazione, cioè spiega un contenuto alla luce di un altro contenuto, quindi esplicita il suo
referente. Mentre le scienze ideografiche descrivono i comportamenti singolari e individuali,
che Dilthey chiama scienze della comprensione.

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ERLEBENIS =
Intuizione = esperienza vissuta

ERLEBEN= vita MILIER =


Concetto------rappresentazione contesto storico
Scopo---------volontà
Valore---------sentimento ERLEBENISSE = i vissuti

Le scienze dello spirito vengono indicate come scienze della comprensione (cum-prendere),
sono scienze ideografiche. Comprendere significa avere la capacità di ricondurre le cose in
esame al loro centro di produzione, cioè capire da dove derivano, comprendere la fonte
originaria da cui derivano i prodotti presi esame dalle scienze dello spirito (cioè le scienze
umane). Il prodotto dello spirito sono i nostri comportamenti, le nostre realizzazioni, dietro c’è
un uomo che ha prodotto. Se mi guardo attorno vedo che tutto è costituito da prodotti
dell’uomo, dalla distribuzione delle coltivazioni alle costruzioni degli abitati urbani.
Dilthey si chiede perché posso dare delle coordinate valide universalmente anche se
cambiano le modalità. Pur nella diversità ci sono elementi in comune che nascono dal fatto
che dietro c’è lo steso uomo che agisce. Cioè c’è l’Erleben che vuol dire vita, è la vita
dell’uomo. La comprensione vuole arrivare al centro della vita. Per vita o Erleben Dilthey
intende l’insieme che è ciò che caratterizza l’uomo. L’uomo è l’insieme di tre facoltà:
l’intelletto o facoltà della rappresentazione il cui prodotto è il concetto; poi l’uomo è fatto di
volontà perché l’uomo vuole, decide e la volontà è orientata a degli scopi, un fine da
raggiungere; l’uomo è anche sentimento non nel senso puramente emozionale del termine
ma nel senso della creatività, della immaginazione inventiva che produce valori. In Kant il
sentimento è considerato dalla Critica del giudizio (rappresentazione o concetto-critica della
ragion pura; volontà o scopi, fini-critica della ragion pratica). In più rispetto a Kant c’è che
mentre Kant anatomizzava e divideva e poi dava giudizi, per cui la vera conoscenza è quella
del concetto dell’intelletto, per Dilthey questi tre elementi (rappresentazione, volontà e
sentimento) costituiscono un unum che interagiscono fra di loro. L’uomo non è mai puro
concetto, non è mai pura volontà, l’uomo non è mai puro sentimento, questo tre sentimenti
coesistono e insieme interagisco, sono sinergetici, per cui tutti i prodotti dell’uomo sono
espressione di questa sinergia. Non c’è un concetto che non possa richiamare un valore, non
c’è un valore che non possa richiamre uno scopo. L’uomo non è diviso a schemi, è un’unità.

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Allora il comprendere è la capacità di cogliere, di intuire questa sorgente da cui poi nascono i
prodotti dell’uomo. Erlebnis vuol dire esperienza vissuta che in realtà è l’intuizione. L’intuizione
e da vedere in senso produttivo, nel senso che quando agiamo mettiamo in movimento
un’intuizione che è la sintesi di ragione, volontà e sentimento. Non si può distinguere
nettamente ciò che c’è dell’uno e ciò che c’è dell’altro, è un fatto unitario, è un percepire
immediato e non calcolato. Questo avviene attraverso un’intuizione immediata, cioè attraverso
un movimento dello spirito che fa muovere tutti gli elementi costitutivi dell’essere umano. L’
Erlebnis dà concretezza a un progetto.
L’erlebnisse sono i prodotti, cioè il vissuto di un’intuizione che parte dal centro. Il milier è
l’ambiente, il contesto storico, cioè il momento, l’ambiente, la situazione storica concreta in cui
viene definita l’intuizione. Dall’insieme dei tre elementi (vita, intuizione e contesto storico)
nasce l’erlebnisse, cioè i prodotti, le realizzazioni. Se vediamo le frecce ci accorgiamo che c’è
un movimento circolare, si tratta del circolo ermeneutico che vuol dire che ognuno dei quattro
elementi del diagramma influisce sull’altro e al tempo stesso è influenzato dall’altro.
L’erleben influisce sull’erlebnis, l’erlebnis influisce sul contesto storico, quest’ultimo influisce sul
prodotto. Ma a sua volta il prodotto viene ad influire sull’erleben (ad esempio un contesto
abitativo influisce molto sulla spiritualità di una persona). Gli erlebnisse condizionano ed
arricchiscono l’erleben. Quindi l’ erleben porta già in sé i prodotti realizzati e arricchisce a sua
volta l’ambiente.
Questi elementi interagiscono in un circolo ermeneutico, come un gomitolo che si arricchisce
continuamente con l’arrotolare il filo, cresce con le nuove acquisizioni che si innestano sulle
vecchie. È un circolo che non nega il passato ma si accresce con il presente, il quale presente
arricchisce l’erleben che sua volta arricchisce di nuovo l’erlebnisse il quale andrà a costituire il
nuovo ambiente storico.
Dilthey dice che le scienze umane possono diventare scienze vere e proprie perché:
Permettono di conoscere la fonte da cui nasce il prodotto umano e la fonte è l’erleben, la vita.
L’erleben dell’uomo del 2000 è lo stesso dell’uomo primitivo. Io posso comprendere l’uomo
primitivo perché entrambi abbiamo lo stesso erleben, quindi Io attraverso l’intuizione posso
rientrare nel cuore dell’uomo primitivo. Ambedue abbiamo rappresentazione, volontà e
sentimento, abbiamo la stessa connessione dinamica che è data dall’insieme di queste tre
facoltà; per cui io posso comprendere l’altro.
Ma l’erlebnisse, il prodotto storico, è anche il prodotto del contesto storico Il contesto storico è
quello che Dilthey chiama connessione strutturale. Per cui non basta comprendere l’erleben
da cui tutto si muove, Non basta comprender l’erleben dal quale tutto si muove, non basta

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comprendere che abbiamo la stessa connessione vitale, ma dobbiamo anche interpretare
come quegli elementi che costituiscono la connessione dinamica interagiscono fra di loro, o
meglio come sono posizionati in questa interazione che avviene fra di loro. La connessione
strutturale (che fa riferimento al contesto storico in cui opera l’erleben e l’erlebnis) significa che
non tutti i momenti non sono uguali. Ad esempio l’uomo del medioevo non è uguale a quello
del rinascimento, hanno la stessa connessione dinamica ma diversa connessione strutturale
perché nell’uomo medioevale in cima alla gerarchia c’è il fine, prevale lo scopo che è
raggiungere Dio e alla luce di questo organizza la vita e tutti gli altri elementi. La connessione
strutturale è l’interpretare qual è l’elemento dell’erleben che prevale
Quindi una scienza dell’uomo è possibile, si può costruire se ci mettiamo nell’atteggiamento
della comprensione e cioè di cogliere qual è l’intuizione profonda da cui si è mosso e la
possiamo cogliere perché vi è una comunanza tra tutti gli uomini, tutti hanno l’erleben, ma non
basta la comprensione, ci vuole anche l’interpretazione per vedere qual è l’elemento
prevalente in un determinato contesto storico. Abbinando comprensione e interpretazione
possiamo ricostruire in maniera corretta, scientifica, un epoca e un comportamento dell’uomo.
La vita = principio produttivo
Contesto storico = ambiente di produzione
29/11/2011
A partire dall’erleben, cioè dalla vita. In quella circolarità che vediamo nello schema, con quella
dinamica produttiva, nascono gli erlebnisse, cioè i prodotti che sono il risultato di questa fonte
originaria che è l’erleben. La vita è l’insieme di quegli elementi intellettuali, volitivi e
sentimentali. Per Dilthey la vita è “la totalità delle forze umane, esperienza piena, totale e
intatta.”, che sono quelle tre dimensioni che vengono indicate. Dire totalità vuol dire che esse
agiscono insieme, c’è una sinergia. Non c’è un prodotto mentale che non sia al tempo stesso
un prodotto volitivo e anche sentimentale. Le nostre idee sono cariche della nostra volontà e
del nostro sentimento e viceversa, il nostro sentimento è carico delle nostre idee e volizioni, e
via di seguito..
In Dilthey la vita, il concetto di erleben, è un concetto complesso e ambiguo. Non a caso
Dilthey è catalogato fra i filosofi c.d. irrazionalisti. La vita, questa totalità delle forze umane, è
anche un’energia produttiva che agisce inconsapevolmente. Cioè noi siamo abitati dalla vita e
non tanto noi abitiamo la vita. La vita diventa la forza preponderante. Questa realtà che
possiamo definire uno sfondo metafisico non è categorizzabile in modo definito. Non c’è
scienza che possa darci le coordinate esatte, la vita è forza e dinamismo.

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Altre forme di vitalismo e di irrazionalismo Lo stesso Nietzsche è uno dei capostipiti di questo
filone, la vita che pulsa dentro l’uomo. Dilthey è dentro questo tipo di filone anche se con
modalità diverse.
Alla fine dell’800, inizi del ‘900, si sviluppa una filosofia che capovolge il principio cartesiano
cogito ergo sum (pensiamo a Freud in cui l’io è schiacciato fra due forze irrazionali:il mondo
pulsionale e il super io), potremmo dire sum ergo cogito,. prevale il sum, la consistenza di una
realtà che è fatta di diverse componenti ma di cui noi non siamo i padroni ma solo il risultato.
Questo è l’orizzonte in cui si muove la filosofia di Dilthey.
Per Dilthey, se la vita riesce a produrre i suoi prodotti questo avviene attraverso l’intuizione e
se noi vogliamo cogliere dietro gli effetti dell’azione della vita, cioè gli erlebnisse, lo possiamo
fare attraverso un’intuizione simpatetica e non attraverso categorie. Una delle critiche che
viene fatta a Dilthey è che mette a fondamento delle scienze umane l’intuizione che ha una
componente più di carattere psicologico che gnoseologico.
Il concetto di vita è lo sfondo metafisico. Per Dilthey la metafisica è da gettare, almeno la
metafisica intesa secondo i paradigmi della classicità e della modernità, nondimeno anche in
Dilthey esiste una metafisica della vitalità, la vita è lo sfondo metafisico. Dalla nascono tutti i
prodotti che vengono chiamati lo spirito oggettivo assumendo una terminologia hegeliana, che
sono tutti i risultati di questa vitalità.
Per spirito Hegel intendeva i prodotti dell’agire del soggetto e Dilthey utilizza il termine
esattamente in questo senso, quindi per Dilthey l’attività spirituale è tutto ciò che l’uomo fa.
Lo spirito è movimento, la vita è dinamismo e quindi è produttività continua anche se la
sorgente è la stessa. Ecco perché pur vivendo nell’era tecnologica posso comprendere l’uomo
delle caverne. I prodotti sono diversi ma la forza che li anima è sempre la stessa. Ciò che lo
spirito immette della sua manifestazione di vita diventa storia. Ciò che si sedimenta di questa
forza vitale diventa prodotto storico, si accresce come un gomitolo.
Dice Dilthey: “Noi non cerchiamo nella vita nessun senso del mondo. Noi siamo aperti alla
possibilità che il senso e il significato sorgano soltanto nell’uomo e nella sua storia“.
Wittegenstein diceva che se c’è un senso non è nel mondo, nella storia. Dilthey dice
esattamente il contrario, se c’è un senso questo è unicamente dentro la storia. È un senso che
in continuo movimento.
Per lo storicismo hegeliano la storia è Dio (spirito assoluto) che agisce nel mondo, è la storia
come manifestazione del divino, è un divino immanente ma comunque è un assoluto che non
legato all’uomo in quanto tale. Per Hegel il protagonista della storia è lo spirito, l’uomo crede di
essere protagonista ma non lo è. Per Dilthey non c’è un senso della storia che venga dal di

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fuori, il senso della storia è l’umano e l’umano è temporale, cioè finito. Ma non c’è nulla di
tragico nell’afferamzione di questa finitezza. L’uomo prende atto che tutto ciò che è, è finito,
limitato, ed è tutto ciò che l’uomo può avere e di cui l’uomo si rende pienamente
soddisfatto.non c’è da cercare altro. Questo è il senso della finitudine, di una temporalità finita.
Per Hegel, invece, il finito è già infinito, perché c’è coincidenza tra reale e razionale. Per Fichte
il finito è tensione verso l’infinito, per tutta la tradizione romantica è questa ricerca
dell’assoluto. Per Dilthey invece la vita è finitudine, temporalità finita. Non c’è la ricerca di un
senso che è al di fuori di essa. “Noi non cerchiamo nella vita nessun senso del mondo”.
Questa categoria della finitudine è centrale in tutta la cultura del ‘900 che alcuni hanno definito
come coscienza tragica che significa che l’esistenza è questa e nient’altro, va accolta così
com’è, non va giudicata. È un po’ l’equivalente dell’amor fati di Nietzsche, cioè l’accettazione
della realtà così come è. Avrà diverse declinazioni, una di queste è l’esistenzialismo che si
sviluppa fra le due guerre mondiali e dura fino agli anni ‘60. È quel fenomeno culturale che
guarda all’esistenza con una visione tragica (Sartre, Jaspers e in parte Heidegger) perché
l’esistenza è vista come tragedia, non senso. Per Schopenhauer, uno dei padri del filone
dell’esistenzialismo, la vie della liberazione sono l’estetica, l’etica e l’ascesi. L’etica è la
compassione, il cum-patire che diventa capacità di non fare del male e per quanto ti è
possibile aiutare il tuo simile..
L’altro filone in cui la finitudine ha un posto centrale è il pensiero post-moderno che ha due
declinazioni a sua volta, una quella che diventa nichilismo, per la quale non ci sono fini ultimi,
la nostra vita è finita, è s-terminata (in Heidegger diventa l’essere per la morte). Nell’altro
versante abbiamo il pensiero debole che da noi ha come esponente Gianni Vattimo. Rifiuta il
nichilismo e afferma che l’uomo non può che accontentarsi di ciò che ha ma questo non si
esclude che non ci sia altro, una possibile ulteriorità, ma dal punto di vista storico l’uomo non
può contare su nessun assoluto, anzi non ci devono essere assoluti. Anche questo è un
prodotto del concetto della temporalità come finitudine che in Dilthey ha il padre per
eccellenza.
Per Dilthey la verità è questo processo costante di sviluppo che nasce dalla dialettica di
comprensione e interpretazione, quindi una verità che non ha mai una definitività ed è legata
alla temporalità in cui essa nasce, quindi ogni verità è contestaualizzata ed assume il volto del
momento e successivamente può assumere altri volti. Si comprende dunque che la sua
filosofia è ispiratrice del relativismo contemporaneo perché è relativista in se stessa, rifiuta tutti
gli assoluti. L’uomo è questa vitalità in cui interagiscono quelle tre forze. Il senso della storia
è nella storia stessa e non al di fuori. Anche questo è un senso che cambia di stagione in

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stagione e quindi ha una sua finitudine, limitatezza, ossia temporalità che rimane chiusa in se
stessa.
Le tre forze che costituiscono la vita (idea, fine e valore) agiscono sempre in maniera
sinergetica, però alla luce del milier , cioè del contesto storico, si compongono fra di loro in una
combinazione gerarchica, nel senso che può prevalere l’una o l’altra e quella che prevale dà la
tonalità del momento. Dilthey indica questa tonalità come tipicità, possiamo anche chiamarla
totalità tipica. Questa tonalità prevalente dà il tono, il colore anche alle altre dimensioni. Ogni
epoca storica è una totalità tipica dove prevale uno degli elementi del triplice volto dell’uomo
che dà il colore a tutto il resto.
“La totalità tipica costituisce l’orizzonte entro il quale gli uomini e ogni altra entità si muove
senza tuttavia esserne totalmente assorbiti.” Ad es. oggi viviamo in una totalità tipica tecno-
scientifica che condiziona tutte le nostre scelte.
“Il presente mantiene sempre un legame con il passato ed aperture verso il futuro. Come essa
sia originata dall’insufficienza dell’epoca precedente così porta in sé i limiti, i disaccordi, i dolori
che preparano quella futura.” Quindi è sempre in movimento, è una gestazione continua.
“L’autocentralità (vuol dire la sua totalità tipica) di un’epoca fa si che questa possa essere
giudicata soltanto in base ai valori, ai fini e ai modi di pensare che le sono proprie e che ne
costituiscono il significato e la specificità escludendo che possa essere valutata alla luce di
un’altra epoca o di un qualche assoluto. Ogni forma della vita storica è finita (cioè è chiusa in
se stessa)”.
Da questa posizione nasce la relatività. Secondo Dilthey ogni epoca è autocentrata, ha la
propria tipicità che non può essere giudicata secondo un’altra totalità tipica. Non si può dare
un giudizio sulla base del bene giustizia perché per Dilthey non esiste. Esistono solo le totalità
tipiche chiuse in se stesse, sono autoreferenziali. Quindi non si potrebbe giudicare, ad
esempio, il nazismo, il socialismo reale che sono delle totalità tipiche di cui si può solo
prendere atto.
“La coscienza storica della finitudine di ogni fenomeno storico, di ogni situazione umana e
sociale, la coscienza della relatività di ogni forma di fede è l’ultimo passo verso la
liberazione dell’uomo. Con esso l’uomo perviene alla sovranità di attribuire ad ogni erleben
(della società medievale, capitalista ecc.) il suo contenuto”. È un prendere atto, un avere
consapevolezza che ogni erleben è finito, avrà un’escursione storica limitata. Significa che
non possiamo assolutizzare alcunché. Tutto ciò che è storico è limitato.
Per il credente esiste un solo assoluto che è Dio, tutto il resto è relativo. Dilthey rifiuta anche
l’idea di un Dio che possa essere utilizzato in chiave storica, e quindi eterizzare in nome di Dio

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una qualche concrezione storica, come se quella concrezione storica fosse espressione
dell’assoluto che è Dio.
È necessario distinguere fra principio del relativismo e principio di relatività. Nel concetto di
relativismo di Dilthey c’è l’affermazione che tutte le totalità tipiche hanno un valore in sé e
quindi non vanno giudicate alla luce di alcun principio. Quindi tutte le forme storiche in cui
l’uomo si organizza hanno un valore in sé, si autogiustificano, questo è il relativismo.
Diversamente, il principio di relatività vuol dire che alcuna forma storica in sé e per sé è
capace di rappresentare la totalità dell’esser umano. Esiste un principio che è un valore
assoluto verso il quale stiamo camminando ma nessuna realtà storica può avere la pretesa di
esserne la rappresentazione totale.
In questo senso il pensiero di Dilthey ha avuto un suo peso nello sviluppo del pensiero
successivo, in particolare quello dell’ermeneutica e dello storicismo relativistico.
Edmond Husserl è uno dei più straordinari e influenti filosofi del ‘900, il cui metodo è quello
della fenomenologia trascendentale. La sua riflessione ha ispirato diverse linee di tendenza
del pensiero contemporaneo. Le sue opere per la maggior parte sono postume, o comunque
conosciute in una cerchia ristretta di cultori, e c’è ancora del materiale non pubblicato
(quaderni, manoscritti) conservato da un benedettino Von Breda.
Nato nel 1859 e morto nel 1938, è un ebreo nato in Moravia e vissuto in Germania. Il nazismo
lo destituisce dalla sua cattedra di Friburgo dove aveva come assistenti Hiedegger e Edith
Stein. Viene da studi scientifici, logico-matematici, svolti proprio nel momento in cui si
mettevano in discussione i fondamenti della matematica. Scopre la sua vocazione alla filosofia
seguendo le lezioni di France Brentano, un filosofo che si richiama alla filosofia scolastica.
La prima opera è sul concetto di numero, poi ha scritto anche una filosofia dell’aritmetica e nel
‘900 delle ricerche logiche ma l’opera fondamentale è del 1913, “Le idee per una
fenomenologia pura”. Un’altra opera molto importante è “Meditazioni cartesiane”. “La crisi delle
scienze europee e la fenomenologia trascendentale” è postuma perché raccoglie tre
conferenze che Husserl aveva tenuto in diverse università europee, un condensato del suo
pensiero.
Alla sua morte lascia 40.000 pagine di manoscritti che per sottrarli ai nazisti vengono raccolti
nell’università di Lovanio per merito del padre benedettino Von Breda, dove si costituisce
l’archivio Husserl che provvede a selezionare e pubblicare le opere più importanti.
La verità non è il risultato della corrispondenza tra realtà e concetto. L’uomo è un progetto
sempre aperto, tensione fra un io originario e un io proiettato verso uno sviluppo illimitato. La
storia è di per sé temporalità che è interna alla stessa razionalità costitutiva, per cui il senso

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della storia è un cammino verso la piena realizzazione dell’umanità che è piena realizzazione
della razionalità e i filosofi sono profeti della nuova umanità.
30/11/2011

(Ur-Ich) -------------------------- Io trascendentale = mondo della vita (pre-categoriale)


Io originario coscienza = io puro

Epochè = analisi noetica -------------------------------- analisi noematica = riduzione


Trascendentale eidetica

Dialettica archeologica - teleologica


(temporalità)

Per Husserl la verità è manifestazione, è epifania (cioè manifestarsi) o in altre parole la verità
è fenomeno. Questa parola centrale in Husserl. In Kant il fenomeno è manifestazione di
qualcosa che è, il mondo, la realtà. Noi non conosciamo il mondo , noi conosciamo soltanto il
fenomeno, mentre la cosa in sé resta noumeno, pensabile ma non conoscibile. In Husserl il
termine fenomeno indica proprio il senso della verità, il manifestarsi puro e semplice che si
manifesta nell’io e attraverso l’io; cioè l’io è la manifestazione che illumina la realtà; è l’io che è
luce, è l’’io che manifesta. Questo io è l’io trascendentale e non il semplice io empirico, l’io
psicologico, il mio io. È l’io originario, l’ur-ich, qui è se vogliamo il cogito cartesiano, l’io
trascendentale kantiano che travalica ogni singolo io.
Da questo io originario nasce la manifestazione, il fenomeno, nasce la luce che illumina che è
la verità fondamentale, fondante. Questa verità è un pre-categoriale, non è la verità che noi
elaboriamo nelle singole scienze. Le singole scienze utilizzano delle categorie, ad esempio
quella della termodinamica ecc.
Husserl vuole andare alla radice, ai principi fondanti. Per Husserl la filosofia è arcontica perché
vuole andare all’archè, alle essenze originarie.
Quindi, prima ancora di affrontare le categorie di ogni singolo sapere (ricordiamo che Husserl
si muove nel contesto delle filosofie del linguaggio che portano alla ridefinizione del sistema
epistemologico delle scienze, nell’ottica di ritrovare i criteri e le ragioni), prima di ricercare i
principi delle singole scienze (questo è il problema epistemologico della filosofia della scienze
e della filosofia del linguaggio), Husserl sostiene che bisogna riandare ai fondamenti che
nascono dall’io stesso e che sono precedenti a tutti gli altri fondamenti delle singole scienze,

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sono i principi arcontici, gli archè originari, quello che viene indicato come il pre-categoriale
(rispetto alle singole scienze).
C’è anche un altro termine che non è del primo Husserl, mondo della vita, da non prendere in
senso psicologico (così come succederà nell’esistenzialismo) perché è il mondo dell’io
trascendentale, dell’ur-ich (io originario), è il mondo prima del mondo dei fatti. Il mondo della
vita è il pre-categoriale, sono quelle che poi Husserl chiamerà essenze. Le essenze non
hanno una realtà ontologica, il termine ha più un significato platonico che aristotelico, le
essenze sono le idee. Tuttavia per Platone le idee sono un mondo oggettivo, un secondo
mondo rispetto al mondo dei fenomeni, quindi anche in Platone il termine idea aveva una
connotazione di carattere ontologico. In Husserl, invece, il termine idea ha un carattere
trascendentale, nel senso kantiano del termine, perché è qualcosa che appartiene alla mente
e non all’essere. Quindi le essenze, o idee, sono il mondo della vita e il mondo della vita è il
contenuto dell’io trascendentale.
Le parole della tradizione classica in Husserl sono correlate alla soggettività trascendentale;
al centro per Husserl va posto il soggetto, la coscienza trascendentale. Si muove sullo
stesso orizzonte della filosofia del linguaggio al centro del quale c’è il soggetto che con le sue
costruzioni mentali dà ordine al mondo, ma vuole cogliere la natura profonda di questa
soggettività. È una filosofia dei principi primi, come la filosofia aristotelica, solo che questi
principi primi vanno colti all’interno dell’io trascendentale. Nell’ultima opera uscita postuma, “La
crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”, Husserl parla della crisi delle
scienze europee in un momento in cui le scienze erano tenute in grande considerazione.
Afferma che la crisi nasce dal fatto che la scienza ha perso di vista il soggetto che ne sta a
monte, quindi è una crisi della soggettività (dell’uomo, dell’umanità da un punto di vista
pastorale).
Husserl fa questa analisi: la scienza nasce per dare risposte concrete all’uomo, c’è un bisogno
vitale dell’uomo da soddisfare, quindi dietro la scienza c’è l’uomo. Ebbene la scienza moderna
si è talmente raffinata e ha raggiunto livelli di alta specializzazione che ha dimenticato il
soggetto che l’ha prodotta e ha dimenticato il mondo della vita, cioè il mondo della soggettività.
Quindi la crisi delle scienze europee è una crisi di umanità. La filosofia ha il compito di
riscoprire qual è l’intenzione per cui è nata quella singola scienza, cioè qual è il valore, il
significato, l’essenza. L’analisi fenomenologica per Husserl è la ricerca di questa intenzione
ultima che dà il significato, il senso alle singole scienze, ai singoli comportamenti, alle singole
espressioni dell’uomo.

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Da dove nasce questo significato ultimo? Nasce dalla coscienza trascendentale. È un tornare
ai fondamenti perché il mondo della vita reale, cioè il mondo dei fatti con cui abbiamo a che
fare, viene illuminato, significato, intenzionato (andare verso) dalla coscienza. La coscienza
trascendentale dà significato, dà rilevanza e valore alle cose. La filosofia di Husserl non è una
filosofia ontologica, metafisica nel senso tradizionale del termine perché per lui la metafisica è
una scienza come le altre scienze. Per cui prima di entrare nel merito delle scienze dobbiamo
entrare in quella coscienza che dà il nome alle scienze. Dunque la fenomenologia
trascendentale è un’analisi coscienziale che ha due poli di riferimento: 1) analisi noetica; 2)
analisi noematica. L’analisi noetica è l’analisi degli atti, dell’attività del soggetto. La coscienza
trascendentale ha come atto il conoscere, il volere. Gli atti sono le attività proprie dell’io.
Bisogna vedere quali sono le attività di fondo con cui l’io si rapporta ai fatti, queste attività sono
di diverso tipo. C’è l’atteggiamento di chi vuole descrivere i fatti e questa è la conoscenza.
Quindi l’analisi noetica vuole prendere consapevolezza di quali sono le strutture di fondo dell’io
che si rapporta con il mondo dei fatti: C’è la conoscenza, il volere, il sentire (un po’ intuire), le
tre grandi modalità con cui l’uomo si rapporta al mondo che già abbiamo visto in Dilthey.
Questa è l’analisi del come, delle forme con cui il soggetto si relaziona con il reale.
L’atto o attività a sua volta ha un contenuto, ha delle idee, e allora diventa analisi noematica.
Prima si guarda l’attività, qual è la sua struttura di fondo, poi si analizza il noema, cioè il
concetto, le idee, il contenuto.
Partendo dalla coscienza trascendentale di questa colgo le sue modalità di fondo, le attività e
di queste cerco di individuare i contenuti specifici interni alla coscienza. All’interno della
coscienza esistono dei modi propri attraverso cui la coscienza si rapporta con i fatti, le cose
reali, sono le essenze, le idee, i significati. Sono quei nomi che noi diamo alle cose che hanno
un valore costitutivo perché nascono dall’io trascendentale che può essere indicato anche
come io puro. Io puro significa che le essenze, i significati, non vengono dall’esperienza ma
sono interni alla coscienza. Come faccio a stabilire qual è la configurazione profonda sia delle
attività e sia per individuare le essenze? Per Husserl va fatta un’operazione di messa fra
parentesi di tutto mondo reale con il quale siamo a contatto e di tutti quegli strumenti con cui
abbiamo descritto il mondo, cioè le scienze, i nostri saperi. Significa mettere da parte, epochè
che è mettere in dubbio (il dubbio cartesiano: metto in dubbio tutto e poi mi accorgo che non
posso dubitare che sto dubitando, che sto pensando).
Husserl riprende l’indicazione cartesiana del mettere in dubbio ma il suo è un mettere indubbio
tutto il mondo categoriale per recuperare l’io che c’è dietro. L’epochè trascendentale è il
metodo del mettere tra parentesi per concentrarsi sull’io. L’analisi noetica ha un momento

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negativo (l’epochè trascendentale) e poi uno positivo che all’interno dell’io e delle sue attività
deve ricostruire il mondo delle idee, l’analisi noematica. Come si arriva ad individuare le idee o
essenze? Attraverso la riduzione eidetica, un termine (riduzione) che Husserl riprende dalla
matematica. È il procedimento attraverso il quale dopo aver fatto tutte le riduzioni, arrivo
all’elemento ultimo che è l’essenza, e lo individuo perché se tolgo anche questo non rimane
altro.
Se facciamo riferimento alle diverse religioni vediamo che l’essenza della religiosità è il
riferimento alla divinità, il richiamo alla trascendenza e non un abito, un particolare rito, delle
dottrine teologiche ecc. queste particolarità vanno messe tra parentesi per arrivare al fondo
delle esperienze religiose ed individuare l’elemento essenziale in mancanza del quale
verrebbe meno la stessa esperienza religiosa. Norberto Bobbio, filosofo del diritto, ha dato una
definizione di religiosità intesa come avere il senso del mistero. Dice Gabriel Marcel che il
mistero ti avvolge, non lo domini, la soluzione di una cosa ti rimanda sempre ad altro, non è
come un problema che per quanto complicato lo puoi risolvere. Dio è l’onniabbracciante e la
religiosità è vivere dentro questo mistero, è il sentirsi accolti.
L’epochè trascendentale, cioè il mettere da parte, non cancella ma tiene sullo sfondo. C’è una
dialettica tra ciò che è patente e ciò che è latente. Ciò che è patente è ciò che noi vediamo. Ad
esempio, nelle diverse religioni vedo organizzazioni e culti diversi e questo è l’elemento
patente. L’elemento latente è quello che rimane sullo sfondo. L’analisi fenomenologica è
quella che vuole riportare alla luce ciò che sta sullo sfondo; cioè l’elemento latente,
perché è ciò che dà senso alle cose. In questo senso l’analisi fenomenologica è un pensiero
radicale, vuole andare alla radice perché si possa cogliere l’elemento di verità di fondo che si
manifesta e è presente in tutti i comportamenti, anche quelli più distorti. Dice Husserl:”Andare
(ritornare) alle cose stesse”. Per cose stesse Husserl intende non i fatti ma le essenze che
sono l’equivalente delle cose in sé di Kant. È un ritornare all’essenza che nasce dall’interno
dell’io trascendentale. C’è una forma e un rischio di soggettivismo. La filosofia di Husserl non
si ferma agli oggetti ma vuole riandare a quel mondo che nasce dalla coscienza attraverso il
quale poi noi ci rapportiamo ai fatti. I fatti vengono dopo, prima vengono le cose in sé.
Adesso vediamo la dialettica archeologica e teleologica
La verità è la ricerca delle essenze che sono interne all’uomo, alla coscienza trascendentale,
all’ur-ich. L’uomo è questo soggetto costituito da questa intenzionalità di fondo che è la sua
coscienza, potremmo dire che è anzitutto la sua coscienza. Qui Husserl mette tra parentesi la
corporeità, il mondo dei fatti, ma non perché non siano importanti bensì perché devo andare

102
all’essenza di fondo dell’uomo che è questa capacità di dare significati, di avvolgere i fatti con
delle idee. È questa sua capacità di portare la portare la razionalità dentro al mondo dei fatti.
L’uomo è una tensione continua perché questo processo di portare significati, di dare
razionalità e senso al mondo dei fatti, non è un lavoro che si esaurisce in tempi brevi, è
continuamente in espansione. L’uomo è una tensione fra il fondamento da cui si muove, la sua
coscienza, l’ur-ich, l’io originario e questa intenzionalità, cioè l’uscire fuori di sé, il porsi in
rapporto verso altro da sé. L’intenzionalità è la caratteristica di fondo della coscienza. La
coscienza è qualcosa che si apre verso, va verso le essenze.
Da una parte l’uomo è un ritornare sempre a se stesso (archeologia), all’io originario, all’ur-
ich, per proiettarsi verso l’altro da sé, il mondo nella sua dimensione fattuale, per portare
quella luce che è la razionalità di cui è costituita la coscienza. Questo proiettarsi verso, questa
intenzionalità, è l’elemento teleologico. È un proiettarsi dinamico. L’uomo è questo continuo
processo di offrire significati, di dare razionalità, è dialettica archeologico-teleologico, dove con
il termine archeologico in Husserl è questo rientrare in se stesso, nell’io originario, mentre il
termine teleologico è questo proiettarsi verso.
Sicché la dimensione di fondo, la caratteristica di fondo dell’ur-ich, cioè dell’io originario, è la
temporalità non in senso cronologico ma per sottolineare che la dialettica archeologico-
teleologica, questo rientrare nell’io originario e questo proiettarsi fuori, è un movimento dove
c’è un prima e un poi, è una dinamica, quindi è temporalità. Non esiste un’essenza già
preconfezionata da cogliere immediatamente ma viene alla luce gradualmente e
costantemente. Quindi non si tratta di una temporalità storica ma interiore, è questo scoprire
continuamente in se stessi, nuove possibilità. Quindi l’uomo è un dinamicità costante. Allora la
crisi delle scienze europee è la crisi di un uomo che si è chiuso in se stesso, che ha esperito
una sola possibilità, quella del conoscere scientifico mentre l’uomo è ricchezza di possibilità, è
apertura, è appunto temporalità.
Compito della filosofia è di tenere sveglia la coscienza. Husserl si ritiene un profeta
dell’umanità, al centro di tutto c’è l’uomo. Husserl parla di crisi delle coscienze in un momento
in cui l’Europa si avvia in un tunnel di tenebre aperto dal fascismo e dal nazismo.
Il senso della storia è vivere alla ricerca del rischiaramento più radicale per dare luce al mondo
dei fatti.
Husserl ha posto al centro dell’attenzione il ritorno alla coscienza come soggettività radicale e
pensante. Proprio a partire da questa centralità prendono le mosse Hiedegger e Edith Stein.
Perché la filosofia di Husserl prima di essere un sistema è un metodo. Hiedegger arriva ad una
conclusione nichilista che esclude la metafisica, la Stein arriva ad una conclusione di carattere

103
ontologico-metafisico che concilia Husserl con San Tommaso. Dunque Husserl offriva un
metodo di analisi che permettesse di cogliere i criteri con cui l’uomo si rapporta con il mondo
della realt. Lo fa attraverso una coscienza che è caratterizzata dalla temporalità. È proprio
sulla temporalità che va in crisi l’orizzonte del pensiero fondamentale di Husserl .Alla fine della
sua vita Husserl conclude amaramente che il sogno è finito. Il sogno era quello di arrivare ala
definizione dell’io puro, di trovare le radici comuni che stanno alla base di tutte le diverse
esperienze. Il sogno era di stabilire gli elementi fondamentali comuni a tutti, in cui tutti si
devono riconoscere. Questi elementi non sono segnati dalla storicità effettuale, fanno parte
dell’ur-ich. Il sogno fondamentalmente è finito perché anche quelli che sono passati dalla sua
scuola caricano la temporalità originaria degli effetti della temporalità effettuale. Cioè quella
coscienza che per Husserl doveva essere pura veniva configurata dalle modalità storiche con
cui essa si è incarnata. Secondo un processo retroattivo la coscienza storica effettuale veniva
a condizionare la coscienza che per Husserl doveva essere pura sicché molte delle .analisi
contemporanee o successive partono non dalla coscienza pura ma dalla coscienza come si
trova storicamente condizionata.
La prima opera fondamentale di Heidegger, “essere e tempo”, è dedicata a Husserl. In
quest’opera vediamo che la temporalità diventa elemento costitutivo dell’essere stesso.
Dice Heideggere di essere partito da Husserl, da quell’Husserl che pone all’interno della
coscienza la temporalità ma la temporalità in Hiedegger diventa già temporalità dell’effettualità
e non più temporalità interiore della coscienza.
Dalla filosofia di Husserl prende le mosse la filosofia ermeneutica, quella filosofia che parte si
dal soggetto ma storicamente contestualizzato. Mentre Husserl parte dal soggetto mettendo
tra parentesi il contesto storico per riandare alla coscienza pura.
Anche tutto l’esistenzialismo si muove da Husserl perché è il ritorno all’io, alla soggettività, ma
la soggettività esistenzialista è una soggettività contestualizzata. Da Husserl partono queste
correnti filosofiche ma sono eresie rispetto al pensiero originario.
05/12/2011
Martin Heidegger, nato nel 1889 e morto nel 1976, è stato al centro del palcoscenico del
dibattito filosofico ed ancora oggi è uno dei filosofi più influenti del panorama filosofico
contemporaneo. Tutta la scuola analitica è radicalmente anti-Heideggeriana, mentre il
pensiero post-moderno, sia nella versione del pensiero debole come nella versione più
radicale del nichilismo, hanno in Heidegger un punto di riferimento, uno dei padri fondatori.
Così come il pensiero ermeneutico ha in Heidegger un altro dei punti di riferimento come lo è
stato Dilthey. È stato anche uno degli ispiratori della corrente della filosofia esistenzialista

104
anche se lui la ricusa questa etichetta. Nondimeno è uno dei padri ispiratori di questa filosofia.
Ha molto influenzato anche il pensiero teologico, pensiamo a Ranher. Si rifà alle sue categorie
anche Bruno Forte.
È un gesuita mancato, nasce da una famiglia cattolica e riceve una formazione religiosa
cattolica,. Fa studi classici poi studia filosofia e la sua tesi di dottorato del 1915 è dedicata al
pensiero di Duns Scoto con il titolo “La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto”.
Per Duns Scoto l’essere non può essere ricondotto ad una categoria ben definita e questo è
uno dei concetti di fondo del pensiero di Heidegger.
Parte da una formazione religiosa ed approda ad un radicale nichilismo, ad una forma di
ateismo radicale. Una sorta di testamento è contenuto in un’intervista pubblicata postuma nel
Der Spiegel, intitolata “Solo un dio ci può salvare”. Il titolo è teologico ma il dio a cui ci si
riferisce non è quello cristiano, dice che il dio che ci può salvare non è trascendente e
tantomeno quello cristiano. Approda a una sorta di panteismo naturalistico. In Heidegger
possiamo vedere come un cammino che passa attraverso un’ossatura teologica che poi viene
tradotta in una filosofia immanentistica e razionalistica.
Bisogna distinguere due momenti del pensiero di Heidegger che non sono in opposizione, c’è
un legame. Heidegger ne parla in un articolo, “La svolta”, con cui dice che non c’è un
capovolgimento ma una rivisitazione. Nel primo Heidegger si intravede una struttura
profondamente teologica, la radice biblica è nella Genesi quando Adamo dà il nome alle cose
e agli animali, Adamo rende riconoscibile la realtà. Le cose prendono vita nel momento in cui
l’uomo le riconosce. Dare il nome significa far venire alla luce alle cose, dargli significato. È la
logica di Husserl. La fenomenologia di Husserl è lo sguardo con cui l’uomo guarda le cose e le
fa diventare fenomeno, cioè manifestazione. Ma è lo sguardo del soggetto. Qui è la centralità
della soggettività, siamo ancora nell’ambito del pensiero moderno che è caratterizzato da
rilievo che si dà alla soggettività. La soggettività non è arbitrarietà, è il cogito cartesiano che ha
una struttura oggettiva, non è il singolo cogito personale empirico. Anche in Husserl l’io è
trascendentale e non empirico.
Il primo Heidegger si muove in quest’orizzonte ancora trascendentale, in cui sta al centro la
soggettività che porta alla luce le cose.
Heidegger è stato discepolo di Husserl a cui dedica la sua prima opera, “Essere e tempo”,
dicendo di aver potuto accedere ai suoi appunti. Tuttavia si pone oltre il maestro, lo supera e
poi lo capovolge dal punto di vista teoretico. Per Husserl il problema era andare alla radice nel
senso di andare nell’interno del soggetto, all’io trascendentale che con la riduzione eidetica
doveva cogliere le essenze come modi con cui il soggetto guarda la realtà, quindi la sua era

105
una filosofia arcontica (espressione che utilizza Heidegger). Per Husserl andare all’archè era
andare alla soggettività, per Heidegger l’atteggiamento radicale non va solo all’essere ma la
domanda radicale è: qual è il senso dell’essere. Qui si vede la sua formazione scolastica
(Scoto). La domanda sul senso dell’essere è una domanda metafisica.
In epigrafe ad “Essere e tempo” dice con parole di Platone (dal Sofista) che ci sono momenti
particolari dell’esistenza in cui quello che ci pareva scontato, evidente, ci fa essere perplessi,
nascono gli interrogativi: perché la vita, perché l’esistenza?
Riguardo a queste parole di Platone, Heidegger commenta: “abbiamo noi oggi una risposta
alla domanda intorno a ciò che intendiamo propriamente per la parola essente? Heidegger
dice che non sappiamo cos’è l’essere e cos’è l’essente.
Si chiede cos’è l’essere e dice che l’essere non è, l’essere non è l’ente . Vuol dire che non
posso categorizzare l’essere (qui si vede la radice nel pensiero di Scoto). Non posso definire
Dio (teologia apofatica).
L’essere non è l’ente, è una definizione in negativo, è una prima forma di nichilismo. E che
cos’è l’ente? In greco gli enti sono gli “onta”. Dice Heidegger che l’ente non è l’essere , è
sempre una definizione in negativo. L’espressione intera è: l’essere non è l’ente, l’ente non è
l’essere. L’essere definito come differenza ontologica, espressione questa usata da
Kierkegaard per indicare la differenza ontologica tra il finito e l’infinito, tra i due non c’è
passaggio perché sono due generi diversi.
Heidegger riprende questa categoria ma non è più questa differenza tra finito ed infinito ma è
indicata come la differenza tra l’essere e l’ente. Inoltre per Kierkegaard l’infinito è Dio mentre
per Heidegger l’essere non ha un significato preciso, è un termine generico.
Per Heidegger l’essere non è l’ente appunto perché non può essere definito da alcunché,
anche se l’essere appare e dispare nell’ente, sicché l’ente in realtà è manifestazione
dell’essere ma è una manifestazione disparente. Ogni manifestazione è un evento che una
volta avvenuto non c’è più, appare e dispare. L’essere non è l’ente anche se nell’ente si
manifesta. Ma nel momento che si manifesta dispare anche.
Cosa è la verità? In greco è “a-lezeia”, la verità è uno svelare che si vela. In italiano è ri-velare
in cui c’è un doppio significato di togliere il velo e nel contempo rimettere il velo. Una verità
manifesta e nasconde al tempo stesso. Vuol dire che l’ente svela ma manifesta soltanto un
momento dell’essere ma ne nasconde tutti gli altri momenti, cioè lo rivela, gli rimette il velo.
Nessun ente può avere la pretesa di essere manifestazione dell’essere in quanto tale.
L’essere non è l’ente ma nell’ente si manifesta e l’ente non è l’essere. Traduzione: nessun
ente può avere la pretesa di catturare completamente l’essere.

106
Da questo punto di vista la filosofia di Heidegger è una filosofia deassolutizzante, nega tutti gli
assoluti storici. Pensiamo ad Hegel che diceva l’essere è lo spirito che si manifesta nello stato.
La differenza ontologica: l’essere non è l’ente e l’ente non è l’essere. Tanto l’essere quanto
l’ente vengono definiti in maniera negativa. Dire che l’essere non è l’ente vuol dire che l’essere
non è definibile da alcunché, non è categorizzabile. Qui c’è la tradizione della teologia
apofatica.
Facendo riferimento al pensiero di S. Tommaso, Heidegger dice che S.Tommaso c’è arrivato
vicino all’essere come non definibile ma nel momento in cui lo ha chiamato essere subsistens,
essere sussistente, in qualche modi gli ha dato un definizione come qualche cosa che è per
se stesso tanto è vero che esso si concretizza nel momento in cui diventa ente ma nel
momento in cui l’essere diventa ente, l’ente a sua volta è destinato a scomparire e quindi l’ente
non è più se stesso.
L’essere è indefinibile, nondimeno si manifesta nell’ente ma mentre si rivela nell’ente torna ad
essere velato perché l’ente dispare. L’ente si “s-terimna”. Noi siamo destinati allo s-terminio,
ogni ente è terminato e dal momento che l’essere si manifesta nell’ente, l’essere non si rivela
mai per quello che è, perché noi non sappiamo che cos’è, l’essere non è l’ente. Indefinibilità
dell’essere.
L’ente non è l’essere. Questa seconda parte della differenza ontologica è la più presente nel
pensiero post-moderno. Dire che l’ente non è l’essere vuol dire che l’ente è caratterizzato dal
punto di vista costitutivo dalla finitudine. Finitudine significa che sei destinato a finire, allo s-
terminio. C’è la deassolutizzazione degli assoluti storici (stato, classe, scienza ecc.). È la
radicale finitudine degli enti. Gli enti sono nulla, sono finiti. L’essere non è l’ente. Liotharr,
filosofo canadese, parla della fine delle grandi narrazioni, cioè delle ideologie e il post moderno
è il rifiuto di tutte le ideologie e quindi di una trascendenza che va verso l’infinito; tutto è finito.
L’ente non è l’essre, perché non può avere la pretesa di assorbire l’essere.
Il primo Heidegger è da ricondurre alla figura biblica di Adamo che dà il nome alle cose perché
in realtà è attraverso il da.sein che noi ci accostiamo alla domanda radicale del sein (l’essere).
La domanda radicale è sul senso dell’essere. Dice Heidegger, partendo da una posizione
fenomenologica: come faremo a dare risposta alla domanda sul senso dell’essere?
Prima affermazione: la domanda radicale che l’uomo si deve porre non è sui principi primi che
partono dal soggetto ma è la domanda sul senso dell’essere.
Seconda affermazione: come potremo dare risposta a questa domanda? Qual è il metodo per
dare risposta a questa domanda? Si rifà ad Husserl, quindi è fenomenologo. Il metodo è
fenomenologico, si deve partire dall’analisi di chi pone la domanda sul senso dell’essere che è

107
il soggetto umano. Quindi devo ripartire dall’analisi del soggetto. La domanda radicale è sul
senso del sein e non è più una domanda puramente fenomenologica ma è ontologica, ma il
metodo per dare la risposta alla domanda è di tipo fenomenologico, cioè devo partire
dall’analisi di chi pone la domanda, cioè il da-sein. Il da-sein è l’essereci, cioè colui che già sta
nell’essere, l’uomo che pone la domanda. Ecco allora Adamo che dà significato alle cose, è
l’esserci che dà senso all’essere. Dall’analisi dell’esserci si arriva alla risposta che neanche
l’esserci può dare la risposta alla domanda sul senso dell’essere, cioè si arriva alla
conclusione della differenza ontologica: l’essere non è l’ente e l’ente non è l’essere.
“Essere e tempo” per Heidegger doveva avere due parti, in realtà la prima parte era l’analisi
dell’esserci che doveva diventare la pre-condizione per costruire una vera e propria ontologia,
invece l’opera finisce con un fallimento annunciato, cioè finisce con la consapevolezza che
neanche a partire dall’esserci, o per dirla alla Husserl, neanche a partire dal soggetto
trascendentale, noi possiamo dare una risposta alla domanda sul senso dell’essere, perché il
da-sein, l’esserci, è costituzionalmente caratterizzato dall’essere per la morte (zain-fur-tude),
dall’essere s-terminato.
L’analisi dell’esserci porta alla conclusione che a partire dall’esserci è impossibile dare la
risposta sul senso dell’essere, perché l’esserci è costituzionalmente caratterizzato dal nulla
(parte da Husserl per arrivare alla negazione di Husserl) .
Ecco perché nasce la c.d. svolta. Heidegger dice basta con l’umanismo, con la soggettività
che in realtà è la fonte del nichilismo, perché il soggetto è non essere, è fatto per la morte, è
fatto per essere sterminato. Quindi il da-sein, la soggettività non è la via per raggiungere
l’essere, anzi ne è lo strumento per la cancellazione dell’essere. Da che nasce la pretesa di
dare risposta al senso dell’essere a partire dal da-sein? Nasce dalla pretesa di dominare
l’essere. Il da-sein ha la pretesa di definire, di dire l’essere per meglio dominarlo.
Con quale strumento teoretico l’esserci cerca di dire l’essere? Con la metafisica che offre
categorie ben chiare e nette attraverso le quali si pretende di dire l’essere. In realtà la
metafisica non è definizione dell’essere ma è l’oblio dell’essere. La pretesa di definirlo è
semplicemente volontà di dominio. Questo concetto Heidegger lo riprende da Nietzsche sul
pensiero del quale ha impiegato un intero semestre. Per Nietzsche non esistono fatti ma le
nostre interpretazioni, maschere che mutano continuamente. Ecco Heidegger che dice che
l’essere nell’ente si disvela ma poi dispare per rivelarsi diversamente in un altro ente.
L’esserci che pretende di dare il senso dell’essere è colui che ha costruito delle metafisiche.
Per Heidegger, quindi, la metafisica serve per dominare l’essere. È critico verso qualsiasi
concezione metafisica della verità intesa come verità di dominio. Sostiene che le metafisiche

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sono state costruite per volontà di dominio. Il secondo Heidegger dice che la risposta non è
più quella che il soggetto definisce l’essere ma il soggetto deve mettersi in ascolto dell’essere
Il primo Heidegger parte da Adamo che dà il nome alle cose, quindi il da-sein che dovrebbe
dare il senso dell’essere, l’ultimo Heidegger dopo la svolta parla dell’uomo che si mette in
ascolto dell’essere (Ranher parla del cristiano come uditore della parola). Quindi c’è una
parabola teologica, dall’antico testamento di Adamo che dà il significato, al nuovo testamento
di uditore della parola.

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06/12/2011

I HIDEGGER II HIDEGGER

domanda
Rivolto al sogg ontological

DA-SEIN SENSO DELL’ESSERE3 (sein) PASTORE DELL’ESSERE

Esserci ESISTENZIALI Temporalità costitutiva LINGUAGGIO POETICO

COM-PRENSIONE  PRECOMPRENSIONE2
METAFISICA: Storia dell’essere
In-der-welt1proiettarsi
possibilità
Progettare

Mitt-sein1 effettualità

Sain-fur-tode1essere per la morte

Si coniuga

Cura 1
Vive una costante dialettica
(possibilità/effettualità)
METAFISICA: dottrina dell’essere

Nichilismo

Oblio Domina
(gestell)

tecnica

Esistenziali in Hidegger
2
chiave dell’ermeneutica
3
che diviene ONTO-TEOLOGIA

110
La domanda arcontica (per dirla alla Husserl) è la domanda sul senso dell’essere. Se pongo la
domanda sull’essere pongo una domanda ontologica che può essere posta in doppia maniera.
Una è quella tradizionale che in realtà si trasforma in domanda metafisica e la domanda
metafisica è quella che offre le categorie dell’essere: esistenza, forma, causa, fine, tutto ciò
che ha caratterizzato la metafisica classica.
La metafisica classica è stata dottrina dell’essere, cioè ha categorizzato l’essere per meglio
dominarlo, per cui la metafisica classica è una metafisica nichilista, cioè per il dominio
dell’essere. È un metafisica nichilista anche per un altro motivo, perché oblia l’essere, anzi lo
nasconde, non lo rivela ma in realtà lo incarta dentro delle categorie che invece di rivelarlo lo
occultano. È nichilista perché diventa il gestell, domina l’essere mettendolo dentro categorie e
il gestell approda alla tecnica .
L’essere appare attraverso l’ente e l’ente si stermina perché gli enti sono delle apparenze,
delle tracce che tendono a scomparire. Gianni Vatimo, esponente del c.d. pensiero debole
(pensiero che indebolisce la metafisica e qualsiasi concetto di verità che voglia avere la
pretesa di una qualche definitività), si muove sull’orizzonte di Heidegger ma ha un’attenzione
diversa nei confronti della tecnica. Riprende il concetto di Heidegger ma dice che la tecnica in
definitiva è l’espressione più significativa di quella natura propria dell’ente che è destinata a
scomparire. Heidegger fa un cammino che va dall’essere alla tecnica per dire che la metafisica
dell’essere categorizzando l’ente serve all’uomo per dominare gli enti e questo dominio si
manifesta attraverso la tecnica; dunque in Heidegger c’è una valutazione negativa della
tecnica e di tutta la modernità, in una somiglianza profonda con Nietzsche. Heidegger riprende
l’espressione tramonto dell’occidente (occaso) per dire che la crisi dell’occidente deriva dal
fatto che si è affidato al gestell, cioè alla tecnica che è dominio e la tecnica è oblio
dell’essere. Vattimo, invece, sostiene che la tecnica è l’immagine più appropriata dell’essere
perché è proprio quella concezione e situazione in cui gli enti sono continuamente fagocitati,
sterminati e poi ne vengono dietro altri. Quindi pur partendo dalle stesse posizioni giungono a
conclusioni diverse. Per Heidegger la tecnica è il segno dell’occidente come tramonto perché
fa dimenticare l’essere, mentre Vattimo ha una visione più positiva della tecnica.
Cos’è il senso dell’essere? La domanda sul senso dell’essere non è la domanda sul che cosa
è l’essere, che è una domanda metafisica che vuole le categorie, bensì pormi questa
domanda è un dirmi verso quale direzione posso guardare e andare, come mi devo
rapportare; per cui la domanda sul senso dell’essere coinvolge anzitutto il soggetto che è
chiamato a riorientare il suo sguardo; verso dove devi guardare, qual direzione devi prendere.

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Questa domanda è ontologica ed è fatta a partire dall’uomo, dal da-sein, cioè l’esserci che è
colui che è già nell’essere, lui stesso è già un evento dell’essere, è l’evento che per eccellenza
si trova nell’essere con la dimensione della comprensione. L’uomo è l’essere della domanda, è
colui che si pone la domanda sul senso dell’essere, l’uomo è anzitutto definito dal suo
domandare.
Ecco il modo della comprensione. Esserci significa stare dentro all’essere nell’atteggiamento
del domandante, di colui che domanda. L’uomo è colui che è nell’essere come il pensante
(Adam significa terra che pensa). L’uomo è colui che si pone la domanda, è l’essere della
comprensione. Non è però un essere avulso, a-priori come lo pensava Husserl, perché questo
essere della comprensione già si trova già dentro, immerso nell’essere, proiettato in. Allora la
comprensione trova Inder-Welt (essere-nel-mondo), l’essere della comprensione è un essere
già proiettato, collocato, dove l’essere nel mondo non significa semplicemente l’essere in un
ambiente ma soprattutto l’essere che si rapporta con il mondo nell’atteggiamento della
progettualità. Non si trova con le cose già definite, precostituite ma le inventa, le crea, dà lui
dei nomi potremmo dire, dà lui dei significati.
Inder-Welt significa proiettarsi, progettare. Significa che l’uomo si pone come possibilità e
ponendosi come possibilità diventa anche effettualità, perché ogni proiezione, ogni uscire da
sé fa si che si incontri con altri progetti. Difatti la seconda categoria è il Mit-sein (essere con),
che vuol dire che ci sono altri che si proiettano, sono dei progetti che si realizzano. È un’altra
delle c.d. categorie esistenziali.
Si verifica che il da sein si incontra con gli altri che sono dei fatti, cioè mi incontro con altri con i
quali devo interagire e devo anche armonizzare il mio progetto per cui avviene una fusione di
progetti che da una parte mi apre, mi arricchisce ma dall’altra mi limita. Cioè ogni progetto si
incontra/scontra con altri progetti
Il da-sein è chiamato a vivere una costante dialettica tra possibilità ed effettualità, tra libertà e
necessità, ossia tra possibilità di esprimersi e necessità di confrontarsi con altre espressioni.
Esistenziali, l’esistenziale, è una categoria ontologica e non metafisica perché indica quelle
che sono le categorie fondamentali dell’uomo. Viene dal termine ex-sistens, esistenza.
Esistenza significa un proiettarsi fuori, un mettersi continuamente in discussione.
L’esistenza non è preceduta dall’essere come categoria. Qui non si parla di categoria
dell’essere ma del senso dell’essere. L’esistenza non è preceduta dall’essenza ma è
l’esistenza che crea in qualche modo la sua essenza ma la cera e la discrea perché è in
questa continua dialettica che va sempre oltre. L’ex-sistens è già il primo esistenziale
fondamentale., poi c’è quello della comprensione che è questo impormi nel confronto con la

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realtà nell’atteggiamento della possibilità che individua le sue realizzazioni e che dà il senso
delle cose.
Ecco l’esistenzialismo, per il quale non c’è essenza ma solo esistenza e l’esistenza crea se
stessa, crea e discrea perché è libera. L’esistenza che precede l’essenza, o meglio l’esistenza
che è l’essenza di se stesso e quindi è una creazione sempre nuova.
Seconda caratteristica che fa di Heidegger uno dei padri dell’esistenzialismo è un incontro,
una dialettica, un confronto tra autenticità e inautenticità, tra un modo corretto di vivere l’ inder-
welt e il mit-sein o un modo scorretto, cioè la modalità del proiettarsi e dell’essere nel mondo e
dell’essere con gli altri. Significa che posso vivere il mio rapportarmi al di fuori di me, con gli
altri, in modo autentico o in autentico.
Anche qui c’è una categoria evangelica. Ricordiamo l’espressione di Gesù secondo cui il sale
che ha perso sapore va gettato via. La deiezione. L’essere gettato progettante come
proiettarsi e progettare è la caratteristica tipica dell’esserci che si pone nel mondo
nell’atteggiamento del progetto e della possibilità ed entra in contatto con gli altri che sono
altrettanti progetti e possibilità. Poi c’è la dialettica tra possibilità ed effettualità. L’effettualità è
l’incontrasi con gli altri, la possibilità è la posibilità di viverlo in modo creativo. Ma se noi ci
lasciamo schiacciare dall’effettualità allora non siamo gettati progettanti ma gettati deietti.
Allora il modo autentico di porsi nel mondo e con gli altri è quello di porsi in maniera creativa,
com epossibilità; il modo inautentico è il vivere come vivono tutti, il così si fa, il così si dice, che
è l’espressione della perdita della propria originalità, creatività, possibilità, si diventa massa, si
diventa anonimi, in termini marxiani alienati, oggi potremmo dire il conformismo. Ecco il modo
inautentico di porsi nel mondo e di porsi in rapporto con glim altri. Si è deietti, non più gettati
progettanti. In tedesco gettato è “existens”, l’esporsi, il proiettarsi, mentre deiezione è l’essere
schiacciati dalle cose, e l’essere schiacciati sulle cose. La deiezione assume anche figure
molto rilevanti, Heidegger parla dei discorsi sulle cose e un discorso per lui è la scienza, è una
categorizzzazione delle cose che le schiaccia, le immobilizza, quindi la scienza è chiacchiera,
la scienza che non pensa. Heidegger dice che anche la filosofia (come metafisica) non pensa
perché non va alla radice dell’essere ma si ferma alla superficie con la chiacchiera delle sue
categorie. La teologia non pensa se ritiene di categorizzare Dio entro categorie, formule rigide.
Il pensare è un esporsi di fronte alla possibilità che rimane sempre aperta, se la chiudi sei
deietto.
Il rapporto con glia altri, il mit-sein, può essere vissuto in modo autentico o in autentico. Un
rappporto è inautentico quando si traduce in un imporre un gestell, un imporre alla libertà
dell’altro una categoria; il vero rapporto è creare delle soggettività autonome, libere e non dei

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replicanti perché sarebbero dei deietti. Per uscire da questo rischio di deiezione, c’è un
ulteriore esistenziale, il sein-fur-tode (essere per la morte) che dà il senso a tutto il resto.
Dire che siamo per la morte sembra apparentemente una banalità, perché tutto muore. Ma
non è così perché sein-fur-tode si colloca dentro la dimensione della comprensione, perché
l’uomo sa di morire, sa che è per la morte e dunque anticipa la morte ma non nel senso che si
sopprime ma nel senso che sa che tutte le sue realizzazioni sono inesorabilmente segnate
dalla finitudine, sono destinate a finire. Dunque non c’è realizzazione, non c’è situazione che
possa essre considerata definitiva ed immutabile e a cui potersi legare in maniera assoluta.
Tutoè sotto il segno dela finitudine, dello s-terminio. Tutto è finito, tutto è limitato e quindi nulla
su di me può avere un dominio totale e viceversa neanche io non posso avere un dominio
totale su alcunchè perché sono destinato afinire. Allora l’esserre per la morte mi libera da
quell’inautenticità di legarmi a qualche cosa che limita il mio essere per la possibilità, la mia
libertà. È la categoria più liberante della soggettività. Questa categoria si lega con un altro
esistenziale, quello della cura; il prendersi cura che è diretta conseguenza della
consapevolezza di essere per la morte, perché se tutto è finito e limitato, tutto va accolto,
amato, rispettato come quella realtà fragile destinata ad infrangersi, se volete con una forma
pietas, di rispetto, di amore. La cura è una forma di responsabilità e anche un darsi alle cose.
Le cose non possono essere assolutizzate perché sono destinate a finire e ti divorano, ma
vanno vissute in pienezza proprio perché destinate a scomparire. Viverle in pienezza significa
viverle con rispetto e con quel senso di gratitudine che viene dall’esistenza provvisoria di quelo
che hai di fronte. Questo concetto viene tradotto con il vivi l’attimo fuggente che può essere
letto nel senso epicureo di delibare ogni singolo momento, o con quel senso della gratitudine
che è capace di rispetto dell’altro che è anch’esso un progetto che ha diritto di essere
rispettato. Allora l’essere per la morte si coniuga con l’esistenziale della cura, del prendersi
cura di ciò che nella sua finitudine è un evento dell’essere e in quanto tale deve essre accolto
e rispettato, in quanto in fondo è un dono dell’essere.
Il primo Heidegger è quello della prima parte dello schema, quello che si muove nell’orizzonte
di “essere e tempo”. Per Heidegger il senso dell’essere è la temporalità non cronologica ma
costitutiva, perché ogni evento dell’essere è appunto un evento che c’è e dispare e l’essere è
questa temporalità continua che produce eventi destinati ascomparire. Poi avviene la svolta. Il
primo Heidegger voleva costruire un’ontologia fondamentale, cioè una categorizzazione
dell’essere, voleva costruire un sistema dell’essere. Ma se il presupposto è ontologico, il
metodo è fenomenologico perché intende costruire un sistema dell’essere a partire da chi
pone la domanda sull’essere. L’uomo, colui che pone la domanda, poi scopre che è

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impossibilitato a dare una risposta definitiva sul senso dell’essere perché è un essere fatto per
la morte, è un esserre limitato che va a scomparire. Quindi per Heidegger la categoria
dell’essere per la morte è quella che fa fallire l’ontologia fondamentale, cioè il voler costruire un
sistema dell’essere. Anzi gli fa comprendere che l’uomo non può essere considerato il padrone
dell’essere perché l’uomo stesso è un evento dell’essere, per cui avviene la c.d svolta. Non ci
si può più rapportare all’essere a partire dal soggetto umano. La conclusione di “Essere e
tempo” è il comprendere che il soggetto non è pià la categoria fondante e rivelante essendo
per la morte. La svolta consiste nel fatto che il soggetto si deve porre in ascolto dell’essere
che significa liberarsi da se stesso, quindi eliminare il soggetto. Heidegger è uno dei padri del
decostruttivismo antropologico, con lui inizia la c.d. morte dell’uomo, la morte della soggettività
come fonte di definizione di tuta la realt, il soggetto deve fare un passo indietro (lo zucluc) a
Socrate e Platone, per rituffarsi nel pensiero attico, mitologico e presocratico (i fisici, i filosofi
della natura). È un ritorno alla fisis che è l’essere che parla e di cui i poeti sono i vati. Nel
saggio “Lettera sull’umanismo” Heidegger dice che l’esistenzialismo non è l’umanismo ma anzi
l’umanismo è il nichilismo perché la soggettività è la fonte del nichilismo dell’essere
(categorizzare per dominare). Il tramonto dell’occidente è la soggettività.
Il soggetto deve porsi in ascolto dell’essere e la parola dell’essere è soprattutto la parola
ascoltata dal poeta. La filosofia per Heidegger non pensa perché categorizza, il vero filosofo è
il poeta che ascolta la voce dell’essere che non è categorizzabile. Il linguaggio diventa allusivo,
che rivela e nasconde al tempo stesso e che è in cammino verso il linguaggio originario.
L’uomo da padrone dell’essere si trasforma in pastore dell’essere, in ascolto dell’essere. Nel
primo Heidegger c’è la critica della metafisica com edottrina dell’essere; nel secondo
Heidegger c’è un recupero della metafisica nel senso che secondo Heidegger l’essere si offre
nel linguaggio (linguaggio originario poetico e poi quello delle nostre categorizzazioni) che si
sedimenta in cetagorie. Ma queste categoie non vanno pres come definitive perché sono solo
il tracciato dui un linguaggio che si offre lungo la storia. Per cui la metafisica non è dottrina
dell’esserre ma storia dell’essere, è memoria di qualcosa che c’è stato da custodire con cura
e con pietas ma non ci si deve fossilizzare in queste memorie. Sono delle tracce che lascia
l’essere che io conservo nella memoria, è la storia del nostro camminare, dei sentieri percorsi,
è la storia che fa parte dell’umanitas. Può diventare anche storia degli errori nella misura in cui
a quelle espressioni del linguaggio rimaniamo attaccati in maniera feticistica. Storia
dell’erranza che si può trasforamare in storia degli errori e l’erranza è il cammino verso
l’essere, il cammino verso il linguaggio dell’essere. Il linguaggio dell’essere lascia delle tracce
che raccolgo in una storia dell’essere, la memoria dell’essere. Quindi il pensare anche come

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rammemorare (un concetto anche hegeliano) che al tempo stesso è anche un ringraziare per
quegli eventi dell’essere che mi sono stati donati manifestandosi.
C’è il recupero del pensiero mitologico che non è un pensiero fantastico ma un pensiero che
dà da pensare, c’è da scoprire il latente che sta dietro il patente. C’è anche un altro elemento,
il rituffarsi nella natura come ritorno panico alla natura, una forma di panteismo. Diceva
Heidegger, solo un dio ci potrà salvare dove dio è il dio natura. C’è una critica della modernità
come gestell. Questo può portare all’irrazionalismo. Heidegger ha avuto una vicenda politica
particolare. Non difese il proprio maestro Husserl quando il nazismo gli impedì di continuare ad
esercitare il suo magistero e anzi si espresse chiaramente come filo-nazista. C’è chi ritiene che
il mito del ritorno alla razza pura sarebbe l’effetto della sua filosofia come ritorno alla natura,
all’essere.

07/12/2011
Distinzione tra metafisica come dottrina dell’essere e metafisica come storia dell’essere. C’è il
passaggio dal primo al secondo Heidegger. Il primo Heidegger parte dal da-sein, si pone la
domada ontologica sul qual è il senso dell’essere. Nell’opera successiva a “Essere e tempo”,
“Introduzione alla metafisica”, Heidegger riprende la domanda che si Leibniz aveva già
formulato e riteneva essere al centro del pensiero filosofico, ovvero perché l’essere e non il
nulla (perché c’è la vita e perché poteva non esserci), una domanda radicale che sta alla
radice anche di ogni pensiero religioso.
Heidegger riprende questa domanda specificandola con un avverbio: perché l’essere e non
piuttosto il nulla? Heidegger dice che c’è piuttosto il nulla, non c’è l’essere. La forma è
interrogativa ma per accentuare l’attenzione sul nulla più che sull’essere. Ecco il nichilismo
radicale. Il nulla di cui parla Heidegger è di determinazione, come il nulla di Hegel, dal non
essere all’essere attraverso il divenire, la dialettica hegeliana. Poi che cosa sia quel nulla che
inn qualche modo è qualcosa, rimane indefinito. Così in Heidegger, questo essere che è un
nulla di determinazione che è un tutto di possibilità e nella possibilità tutto è possibile e se tutto
è possibile ciò che addiviene reale, è essere, è ente, è comunque un amanifestazione
dell’essere. Torna fuori il concetto di Nietzsche, al di fuori del bene e del male e il concetto
hegeliano che tutto ciò che è, in quanto è, è razionale. In Heidegger diventa tutto ciò che è, in
quanto è, è evento (er-eignis) d ell’essere. Ogni ente, in quanto evento dell’essere, in quanto
tale ha la sua dignità, al di là del bene e del male. Nel momento in cui tu sei, sei un da-sein,
sei un evento dell’essere che lascia una traccia e quindi puoi essere raccontato. Le tracce più
consistenti sono i grandi eventi, com ei grandi pensatori filosofici. Gli eventi li racconto e non li

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giudico, hanno un’escusrione storica, una tamporalità che è intrinseca ad ogni ente così da
essere temporalizzato, cioè finito. Nulla può assurgere alla qualità definitiva.
Ecco perché Hiedegger critica la metafisica perché ogni metafisica, in quanto dottrina
dell’essere, è una onto-teologia , cioè è una divinizzazione dell’ente che lo rende assoluto.
Onto-teologia significa considerare l’ente come qualche cosa presente, alla mano, che puoi
afferrare. Lo assolutizza per poterlo dominare. Heidegger mette dentro tutte le metafisiche e
tutte le teologie perchè vuole racchiudere dentro un ontos (dentro l’ente) l’essere, che
S.Tommaso indicava come lo stesso essere sussistente. Diceva che l’essere è il sussistente di
per sé però (dice Heidegger) lo ha identificato con un ente e lo ha identificato con Dio.
Per Heideger l’ente è evento dell’essere ed è manifestazione di un apossibilità dell’essere e in
quanto essere va accolto e vissuto così come è. Vuol dire che tutto è passabile, si è al di là del
bene e del male. La filosofia di Heidegger nega qualsiasi criterio di valutazione e quindi
legittima qualsiasi scelta.
Il primo Heidegger è quello della metafisica come dottrina dell’essere che è un onto-teologia.
Per Heidegger ogni onto-teologia è nichlistica perchè fa obliare l’essere. Al posto dell’essere ci
mette l’ente e la radice del nichilismo è la soggettività, in realtà è il da-sein. Il primo Heidegger
è partito dal da-sein per scoprire l’essere ma arriva alla negazione del da-sein come fonte di
legittimazione dell’essere. Trasforma il soggetto in recettore dell’essere che parla al soggetto
attraverso il linguaggio e nel linguaggio va decodificata la presenza, la voce dell’essere. Voce
di uno che grida. Nel linguaggio va colta la risonanza, e non la presenza, dell’essere. Ma ogni
parola è destinata a scomparire ma lascia un messaggio che io racconto con la storia
dell’essere. La metafisica diventa storia dell’essere. Ogni narrazione ha comunque dignità
perché è voce dell’esseere ma la storia dell’essere è una specie di necrologio dell’essere.
Il da-sein è comprensione che in realtà si trasforma in pre-compernsione. Comprensione è
colui che si pone la domanda e nel porsi la domasnda si dà anche le risposte che sono
sempre passeggere ma lasciano delle tracce. Così nello sviluppo del da-sein la comprensione
diventa in realtà una pre-comprensione. È esattamente il concetto di ermeneutica. Qui sta
appunto la chiave dell’ermeneutica. Ogni comprensione è già segnata dalle comprensioni che
la precedono.
La comprensione nel soggetto umano è sempre pre-comprensione perché ogni comprensione
si muove dentro una cultura, un linguaggio, un orizzonte linguistico che è fatto dei lasciti che
vengono dal passato, i quali costituiscono l’effettualità. L’uomo è nel mondo con
l’atteggiamento del progettatore ma già dentro una realtà che è già stata progetta da altri
prima che hhanno lasciato tracce. Quindi la pre-comprensione nasce dall’effettualità, da quel

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mondo che già pre-esiste, non solo mondo di cose ma anche il mondo dei linguaggi, dei
significati. Ma la comprensione non è semplicemenete una ri-petizione ma è un aggiungere
nuovi elementi alla compernsione che già c’è. Questo può essere tradotto nel rapporto tra
tradizione e innovazione, è l’immagine medievale dei nani sulle spalle di giganti che diventa la
rirproposizione della dialettica fra effettualità e possibilità. La pre-comprensione sta all’origine
di una nuova comprensione che aumenta la pre-comprensione di chi viene dopo in una
dielettica continua; sicchè la verità non è mai un’acquisizione definitiva, non c’è mai una
averità assoluta, anche la verità è un evento che è destinato a scomparire ma viene ad
assomarsi in questa storias dell’essere. La pre-comprensione si sedimenta nella storia
dell’essere e pemette nuove modalità di approcciarsi.
Heidegger sta al centro del pensiero contemporaneo per quattro fondamentali motivi:
1) Il Nichilismo, essere uguale al nulla, la soggettività come fonte del nichilismo ontologico perché
fa dimenticare l’essere. Ma anche nichilismo nel senso che tutta la nostra esistenza è finita,
l’unica nostra sopravvivenza è nella memoria, nella storia dell’essere e non nel futuro. La vite
finisce, si s-termina.
2) Heidegger esistenzialista, connotazione che egli stesso rifiuta perché l’esistenzialismo
francese aveva assunto una caratterizzazione umanistica (un saggio di Sartre,
“L’esistenzialismo è umanismo” a cui Heidegger risponde con “Lettera sull’umanismo”), egli
invece nega il valore della centralità della soggettività. Mentre nel primo Heidegger la
soggettività è vista come apertura sull’essere, nel secondo rifiuta alla soggettività questa sua
centralità ed inizia questo decostruttivismo antropologico che porta alla stessa morte del
soggetto. Nondimeno Heidegger ha fornito molte categorie tipiche dell’esistenzialismo
europeo: la categoria della gettatezza come possibilità aperta; la categoria che non c’è
un’essenza che precede l’esistenza; la categoria della gettatezza che può trasformarsi in
una forma di deiezione, di alienazione, quindi di insignificanza della vita, il non senso delle
cose, l’assurdità dell’esistenza, temi cari all’esistenzialismo di Sartre, Camu. Un altro concetto
è il senso di angoscia e di colpa dell’uomo, perché ogni ente è manifestazione dell’essere
ma è negazione di altre possibilità. Vivo la mia esistenza con colpa per aver sottratto spazio ad
altri. Altra categoria è la finitudine, la nostra esistenza è finita, non c’è altro, la c.d. coscienza
tragica che è altra categoria del pensiero esistenzialista. Tutte queste categorie vengono fuori
da “Essere e tempo” e sono alla base dell’esistenzialismo.
3) C’è anche un Heidegger che recupera il pensiero classico, il pensiero dell’essere, è
un’ontologia la sua, una filosofia che ridà attenzione al senso dell’essere, alla grande
interrogazione classica del pensiero filosofico. Questo aveva importanza in una cultura in cui il

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pensiero diventava una tecnica logica, che si ferma alle forme attraverso cui diciamo le cose
senza andare alle cose. Dice Husserl, torniamo alle essenze di fondo. Così in Heidegger c’è il
richiamo alla domanda radicale, è un riproporre il senso profondo dell’interrogarsi filosofico. È
una vera ontologia anche s e non categorizzabile, ma è comunque un richiamo all’essere.
4) L’ermeneutica: si parte dalla pre-comprensione, è il soggetto che già caricato di significati che
nella nuova situazione porta il bagaglio di questi significati e innova con un nuovo passo in
vanti, possibile perché cin sono dei passi indietro. Uno dei suoi discepoli, considerato padre
della filosofia ermeneutica contemporanea, è Gadamer che si muove nell’orizzonte di
Heidegger e lo supera. Il pensiero ermeneutico di Heidegger si vede nella pre-comprensione e
nella dialettica fra possibilità ed effettualità, dove il termine effettualità mi dà la piegatura
ermeneutica alla possibilità. La possibilità non è una possibilità allo stato puro ma si muove
sempre dentro una situazionalità ermeneutica, è il concetto di effettualità. L’ermeneutica
heideggeriana è in questa dialettica fra possibilità e effettualità.
Uno dei più autorevoli interpreti del pensiero contemporaneo Karl Lowith, dice che in “Essere e
tempo” il motivo religioso costituisce quasi il fondamento sotterraneo di tutto ciò che Heidegger
da sempre è venuto enunciando. Ma quella di Heidegger è una religione senza Dio. In
Heidegger c’è questo senso vago dell’essere e il rifiuto di dare il nome a Dio.
Il Caracciolo, filosofo italiano esistenzialista, dice nell’introduzione all’opera di Heidegger “Il
cammino verso il linguaggio” che nella logica interna al pensiero di Heidegger è escluso il
ritorno alla religione confessionalmente intesa. Il dio che ci potrà salvare, cui fa riferimento
Heidegger, non è il dio cristiano, si traduce in una forma di naturalismo.
Heidegger è un filosofo post-cristiano che non intende pronunciarsi sull’esistenza o non
esistenze di Dio, così come sulla possibilità o non possibilità degli dei. L’essere di Heidegger
conduce a un nulla senza nome.
Che cos’è la verità per Heidegger? È evento, è qualcosa che non raggiunge mai la definitività,
non è adeguazione de soggetto all’oggetto ma anzi è una creazione del soggetto che
interpreta l’oggetto, è la comprensione che diventa pre-comprensione. Quindi non c’è un
averità assoluta ma c’è una verità come rivelazione che manifesta e vela; manifesta un
momento ma non la realtà in sè. Quindi la verità semplicemente come traccia dell’essere ma
non presentazione dell’essere. L’uomo è anzitutto e-sistenza, e-xistens, esistenza che è
proiezione di sè, possibilità di, ma al tempo stesso è anche effettualità e quindi anche legato a
una dimensione temporale e spaziale, che appare e dispare, quindi non c’è una struttura
essenziale definitiva, l’uomo è quello che agisce nel momento in cui agisce.

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Non c’è alcun senso della storia. Storia è semplicemente evento che appare e scompare, è
destino che è tramonto, è destino che le cose finiscano. Non c’è un senso in sé che si
manifesta attraverso le cose, è semplicemente un apparire, un fenomeno, un manifestarsi che
non segue una logica, una razionalità. Quindi anche la storia è un declino, è tramonto, è
esclusione di ogni finalismo e di ogni fondamento alla storia.
Il padre e fondatore dell’ermeneutica contemporana (ne hanno posto le premesse Nietzsche,
Dilthay e lo stesso Heidegger) è Gadamer, nato nel 1900 e morto nel 2002, ha condotto
un’esistenza lunga e feconda. In lui c’è il recupero del senso della tradizione che si comprende
alla luce della grande preparazione sui classici greci e latini. Nel 1960, quindi a sessanta anni,
scrive la sua opera fondamentale, ”Verità e metodo”, il sottotitolo è “Lineamenti di
un’ermeneutica filosofica”. Ricoeur dice con riguardo al titolo dell’opera che si potrebbe anche
dire verità o metodo anziché verità e metodo. Nel termine metodo il riferimento è al metodo
scientifico, cioè al metodo della scienza della spiegazione. Il metodo ch era prevalente nel
movimento nel movimento del neo-positivismo. Il metodo è la via per raggiungere la verità ed è
quello indicato dalle scienze empiriche. Tutta l’opera di Gadamer mette in rilievo che se noi
assumiamo e assolutizziamo il metodo scientifico, in realtà ci neghiamo alla verità. La verità
non è il prodotto dell’esclusivo metodo scientifico. In questo senso è verità o metodo. Quello
che conta è la verità che non può essere data esclusivamente da un metodo ma attraverso
una pluralità di approcci tra cui Gadamer mette anche l’approccio estetico.
12/12/2011

Soggetto = coscienza storica


1) Determinazione storica della comprensione
Oggetto = storia degli effetti

2) Linguisticità della comprensione

Due nuclei teoretici per entrare nel pensiero di Gadamer. La sua provenienza di riflessione e di
studi è Heidegger. Proviene dall’ambiente culturale del neo-kantismo che si sviluppa
soprattutto a Marburgo, dove Gadamer si laurea. Il neo-kantismo si colloca dentro la
problematica delle scienze umane, delle scienze storiche che abbiamo visto con Dilthey,
laddove ci si chiedeva se avessero un vero e proprio statuto scientifico. Il neo-kantismo entra
dentro questa problematica con delle soluzioni che per un verso riprendono il
trascendentalismo kantiano e per un altro si muove partendo dalla critica della ragion pratica

120
(etica-morale), quindi assume le categorie a-priori del conoscere che poi applica al conoscere,
ma le assume non tanto dall’intelletto ma dalla volontà, quindi dalla prassi. Da qui nasce la
filosofia dei valori in cui si muove anche Max Sheler, uno dei filosofi su cui si è formato
Giovanni Paolo II.
Con questo ambiente era stato in contatto Dilthey, si era confrontato Husserl e da ultimo
Gadamer. Gadamer ha fatto la libera docenza con Heidegger. Il richiamo alla filosofia dei valori
è importante perché Gadmer, come Dilthey, è interessato soprattutto alla filosofia della
cultura. È un termine vago e generico che significa l’insieme dei prodotti dello spirito, quelle
che Dilthey chiamava le scienze dello spirito, tutto ciò che attiene alla produzione spirituale,
intellettuale, dalla scienza all’arte, alla poesia, alla musica, all’architettura, alla religione, tutto
ciò che chiamiamo cultura in cui rientra anche la filosofia. Quello che Heidegger chiamava
anche lo spirito assoluto. La filosofia della cultura è un tentativo di cogliere lo spirito di
un’epoca, di una società, di una collettività, una considerazione globale. Il problema di oggi è
la frammentazione culturale, la polverizzazione delle specializzazioni che porta ad una
chiusura di ogni ambito disciplinare in se stesso. L’importanza filosofica e antropologica del
discorso di Gadamer sta nel voler recuperare l’unità della cultura. Significa dire che non
esistono di per sé saperi totalmente separati dagli altri, c’è in tutti i singoli saperi un
circolazione interna che proviene dagli influssi degli uni sugli altri. Non esiste ad esempio l’arte
a sé, perché l’arte risente di molte influenze. In un processo culturale c’è un’ibridazione che fa
si che un fenomeno non è mai espressione solo di se stesso ma di un insieme.
Ed ecco allora uno dei punti su cui si è incentrata la riflessione di Gadamer, il “pensare
insieme” che diventa il discorso del “dialogo”, sono due elementi che si compensano. Il
pensare insieme e il dialogare significa che i singoli ambiti disciplinari non solo devono essere
interdisciplinari da un punto di vista metodico, ma devono prendere consapevolezza che il
proprio aspetto specifico è un loro punto di vista parziale su un insieme e se tu ti chiudi sul tuo
punto di vista parziale, perdi di vista l’insieme. Va recuperato l’insieme, pensare insieme.
Nessun ambito disciplinare deve chiudersi in se stesso. La sua, in questo senso, è una
filosofia della cultura, di cui Dilthey aveva posto le basi con quella concezione delle visioni del
mondo che partono dalla base comune che è la vita.

visioni
DILTHEY ----------- “vita”
intuizioni

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GADAMER -------- “tradizione” (cultura)

Diceva Dilthey che io, come appartenente alla società iper-tecnologica occidentale, posso
comprendere il boscimano dell’equatore perché abbiamo in comune la vita composta dei tre
elementi (intelletto, volontà e sentimento). Ciascuno ha la sua visione di vita, ma io posso
comprendere il meccanismo di composizione di quei tre elementi in modo da arrivare a
comprendere l’altro. Il concetto di vita in Dilthey ha una connotazione sull’irrazionalistico
perché la vita si comprende attraverso l’intuizione che è qualcosa di immediato. Gadamer al
posto della vita mette la tradizione. La tradizione non è passato, è qualcosa di vivente e
fecondante, è la cultura come paideia (processo formativo), l’insieme di tutti quei lasciti che
lungo la storia l’umanità si è creata e arriva fino a noi. Noi non siamo terreno vergine ma siamo
terreno già arato dal passato ma che vive nell’oggi e oggi genera nuovi prodotti. La cultura è
tutto ciò che viene dal passato e si innesta nel nostro presente.
La cultura è orizzonte.

“orizzonte”
Immobile mobile
Fusione degli orizzonti = circolo ermeneutico

Noi ci muoviamo in un orizzonte che ci contiene, per questo ce lo immaginiamo immobile, ma


in realtà l’orizzonte non è immobile, si allarga, quindi è mobile. In altri termini l’orizzonte si
accresce attraverso il lavoro di coloro che esso contiene. Non è qualcosa di immobile che
descrivo, cioè non c’è una scienza puramente descrittiva. La scienza come conoscenza è
qualcosa di limitato dal punto di vista in cui sei collocato, ma se ti arricchisci con altri punti di
vista e poi procedi oltre, ti accorgi che quell’orizzonte è più ampio e che quindi sei contenuto
dall’orizzonte ma ne sei anche il creatore. Noi siamo i figli della cultura e della tradizione ma al
tempo stesso ne siamo i padri.
L’orizzonte è immobile perché ci stiamo dentro e al tempo stesso mobile perché noi
camminiamo nell’orizzonte e l’orizzonte cammina con noi.
L’orizzonte da cui vengo è l’orizzonte del passato nel quale sono contenuto, è la tradizione ma
questa si muove con me, cosicché il presente arricchisce l’orizzonte. Questo viene definito da
Gadamer come fusione degli orizzonti, del presente e del passato. La fusione degli orizzonti
significa che nessuno può pretendere di avere l’esclusiva dell’orizzonte ma ognuno

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l’arricchisce. Se si mettono in dialogo (pensare insieme) questo diventa arricchimento
dell’orizzonte che sta camminando con coi.
In quest’ottica possiamo avere una verità. Di per sé no, dice Gadamer, perché la verità è
qualcosa sempre in cammino, per certi aspetti anche cangiante, mutevole dice Gadamer: “la
verità non si risolve mai in auto-trasparenza”. Vuol dire che non manifesta mai completamente
se stessa.
La visione beatifica nell’orizzonte cristiano, ad esempio, è il punto di arrivo e nessuno può
pretendere di avere la verità tutta intera.
La verità è quella contenuta nell’orizzonte o qualcosa che è al di fuori e al di sopra
dell’orizzonte? La verità è costruita dai nostri orizzonti o siamo aperti ad un orizzonte che
ancora non riusciamo neanche a vedere per la sua complessità? È come dire, la verità è
costruita dai nostri orizzonti, o la verità è quella verso il quale noi costruiamo i nostri orizzonti ?
Questo è il punto di criticità del pensiero di Gadamer e questo interrogativo non è stato del
tutto sciolto da Gadamer. Parla di un orizzonte universale che tutti ci contiene ma non ci
spiega cosa è. Inoltre non è scontato che i singoli punti di vista, che devono concorrere
all’orizzonte comune, siano tutti corretti. Al riguardo Ricoeur parlerà di ermeneutica critica e
non di una ermeneutica che semplicemente si ferma ai singoli punti di vista.
La fusione degli orizzonti è la fusione dell’orizzonte del passato con quello del presente. Io
sono contenuto dalla tradizione ma al contempo contribuisco a creare la tradizione.
Fusione degli orizzonti è il nuovo nome che prende il circolo ermeneutico. Il passato feconda il
presente che a sua volta consente di comprendere meglio il passato. Uno degli elementi della
fusione degli orizzonti è che il presente non solo è figlio del passato ma riesce anche a vedere
meglio il passato. Anche il passato si arricchisce del presente che sa sollecitare nuove
domande sul passato.
Quindi la tradizione è anche qualcosa di vivente, non appartiene solo al passato.
Abbiamo illustrato il primo punto sulla determinazione storica della comprensione che
ulteriormente specificato in coscienza storica (soggetto) e storia degli effetti.(oggetto)
Determinazione storica della comprensione significa che non esiste un soggetto allo stato
puro. Ogni soggetto che si pone in rapporto con la realtà (l’oggetto) è esso stesso già
determinato dalla realtà, è quello che Heidegger chiama la pre-comprensione. Quindi non
esiste un cogito cartesiano, un io trascendentale husserliano. Sia Heidegger che Gadamer
parlano di un soggetto storicamente determinato. Il soggetto per Gadamer è coscienza della
storia degli effetti, cioè della propria determinazione storica. Il soggetto è determinato dalla
tradizione, da quel bagaglio che lo precede. Al tempo stesso non c’è un oggetto, una realtà

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che mi sta di fronte, allo stato puro, cioè non esistono essenze immutabili o se esistono noi
non ne abbiamo la conoscenza. Esistono oggetti che sono caricati delle nostre interpretazioni.
L’oggetto non è mai dato nella sua immutabilità, è esso stesso in continuo divenire come il
gomitolo che si accresce. Anche l’oggetto è qualcosa in divenire, è la storia degli effetti. La
coscienza storica è anche detta situazione ermeneutica, cioè l’ambito che ti consente di
cogliere certi aspetti. La storia degli effetti sono le risposte che ti dai in cui ci sono anche i
nuovi interrogativi. L’uomo è la sua identità narrativa, è il risultato di tutti quei racconti, cioè di
quei contributi formativi che ha ricevuto. Non esiste l’uomo in sé ma quello che storicamente ci
siamo costruito e continuamente costruiamo.
13.12.2011

Ci troviamo di fronte ad un soggetto che è già dentro un orizzonte, ed è l’orizzonte storico nel
quale ognuno di noi è inserito che è frutto di una storia che ci precede, appunto la tradizione e
che accoglie ogni oggetto di ricerca, di analisi e di conoscenza che a sua volta, l’oggetto, è
caratterizzato dall’insieme delle letture che ne sono state fatte. Ogni oggetto è già carico delle
interpretazioni che lo hanno preceduto.
Dall’incontro tra l’orizzonte del soggetto che interpreta e che è a sua volta già dentro un
orizzonte appunto, con l’orizzonte dell’oggetto che si offre all’interpretazione che è già esso
stesso preparato e già analizzato, dall’incontro di questi 2 orizzonti che viene chiamata
fusione degli orizzonti (in Gadamer il circolo ermeneutico in cui il soggetto e l’oggetto si
articolano insieme e si arricchiscono insieme). Da questo tipo di logica, di incontro,che in
Gadamer vuole sfuggire dallo schematismo scientifico, infatti, la scienza è monologica cioè, si
riduce semplicemente al suo schematismo logico, pur dentro la molteplicità degli schematismi
logici che possono essere adottati, tuttavia rimane dentro uno schema rigido e formale; ma
vuole anche sfuggire alla visione onnicomprensiva della conoscenza la quale si era data nella
dialettica hegeliana (l’incontro il conflitto va verso la produzione di una verità assoluta che è
sempre auto trasparente a se stessa seppur variabile lungo il percorso storico, comunque una
verità che si presenta nella processione dialettica come assoluta). Nella fusione degli orizzonti,
invece, la verità è un processo continuamente aperto, non si risolve mai in piena trasparenza
ed è anche un processo che si arricchisce dal concorso dei diversi punti di vista. Così, la verità
non è ne fonologica, ne dialettica ma dialogica cioè si costruisce attraverso l’incontro anche
dei diversi orizzonti interpretativi costituiti appunto dai diversi partecipanti al dialogo intorno alla
realtà.
Detto questo alcune sottolineature che fanno della filosofia di Gadamer un recupero completo
e anche complesso, della tradizione intesa come processo di crescita del sapere e del

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conoscere attraverso le diverse interpretazioni. In questo modello di crescita attraverso la
tradizione viene rivalutata la funzione del pre-giudizio e della autorità.
Detto così farebbe pensare ad una filosofia sostanzialmente conservatrice e in parte lo può
essere perché fare richiamo all’autorità, almeno come viene intesa e pensata, è un richiamo
ad una forma di dogmatismo; in realtà Gadamer recupera il metodo anche scolastico
(pensiamo a come è costruita la Summa di Tommaso in particolare le sententiae cioè le
opinioni, o comunque le interpretazioni che su un determinato problema sono state date, non
si parte mai da zero; si parte sempre da un costrutto che ha già offerto delle soluzioni, dei
punti di vista. E le sententiae sono le auctoritas). Il recupero delle auctoritas, così come la
pensa anche Gadamer, non è un recupero nel senso imperativo e impositivo, ma è un
recupero nel senso di accrescimento nel conoscere, crescere nel conoscere. La verità è il
frutto di questo cammino che è preceduto anche dall’auctoritas (che come abbiamo detto, non
assume un valore imperativo, come adesione a qualcosa che non si tocca, non è solo
adesione a qualcosa di già pronto, questo sarebbe un ripetere. Le auctoritas invece sono dei
gradini che continuano ad ascendere, allora non posso saltare un gradino, ma devo farli tutti
per salire). Le auctoritas sono i gradini di questa scala da cui innalzarsi, non sono piedistalli su
cui sostare, e hanno un valore proprio perché sono proposte che aiutano a crescere nella
conoscenza.
Lo stesso vale per il concetto di pre-giudizio: noi lo usiamo in senso negativo, cioè come
qualcosa di avventato che in realtà è il frutto di una maldicenza o di una malvagità. Ma non è
questo il pre-giudizio che valorizza Gadamer, ma è semplicemente quella pre-comprensione,
quel bagaglio culturale nel quale siamo e ci muoviamo. Allora il problema è sapere se tutti i
pre-giudizi sono buoni, sono adeguati scalini (non marci) per salire la scala.
Gadamer non da una soluzione teorica e degli strumenti operativi per verificare quali sono i
pre-giudizi corretti e quali quelli scorretti, dice semplicemente che bisogna imparare a starci in
maniera giusta, questo significa riconoscere che comunque noi proveniamo da pre-giudizi.
Cioè rendersi conto che comunque ciò che caratterizza un uomo è proprio il pre-giudizio che lo
costituisce, il modo di essere di ogni uomo è caratterizzati da pre-giudizi che lo formano (il
modo di essere di un uomo è diverso dal modo di essere di una donna ad esempio).
È importante che ogni uomo abbia consapevolezza che un problema lo affronta proprio a
partire dai suoi pregiudizi (che come abbiamo detto non sono precipitanti, ma sono orizzonti
culturali) e Gadamer dice che ci si deve porre in maniera corretta, cioè essere consapevoli di
questo.

125
Essere consapevoli serve anche a mettersi in un atteggiamento anche di umiltà che riconosce
che il suo è soltanto un punto di vista parziale (possono esserci altri punti di vista che sono
diversi da uomo a uomo). E tutti i diversi punti di vista vanno poi fusi e questa fusione degli
orizzonti permette avere una più ampia visione della verità.
La fusione degli orizzonti è la fusione dei diversi punti di vista che sono sempre costituiti da
pre-giudizi, le nostre ricostruzioni sono sempre pre-giudiziali ed ecco il valore positivo del pre-
giudizio che è semplicemente un orizzonte particolare che porta in se delle ricchezze, ma non
può essere considerato come unico ed esaustivo orizzonte.
E allora stare nel pregiudizio in maniera corretta significa fondamentalmente 3 cose:
1. Sapere che è solo un punto di vista
2. Sapere che non è l’unico punto di vista
3. Sapere che possono esserci altri punti di vista che aiutano ad una maggiore
consapevolezza

Il secondo punto dello schema descritto (dopo la determinazione storica della comprensione
che era il primo punto) è la linguisticità della comprensione.
Questo punto è il punto nodale del pensiero di Gadamer. In qualche modo Gadamer da corpo
e sistematizzazione all’affermazione di Nietzsche : non esistono fatti ma interpretazioni.
Questo vuol dire che per Gadamer non esistono verità, essenze, realtà in se non esiste un
mondo di verità immutabili, esiste solo il mondo delle nostre interpretazioni. L’essere è il suo
venir percepito, l’essere è la sua interpretazione e l’interpretazione è la lingua, cioè il
linguaggio con cui noi diciamo le cose. Le cose sono la loro rappresentatività linguistica, non
esistono le essenze e questo porta a quello che viene indicato come lo scivolamento
nichilistico dell’ermeneutica, cioè l’ermeneutica svuota l’essere della propria consistenza, ma lo
soggetti vizza nel senso che lo riduce alla sua espressività e l’espressività è il linguaggio e il
linguaggio sono le nostre interpretazioni. Cioè l’essere è la sua interpretazione,
l’interpretazione non è l’interpretazione dell’essere ma l’interpretazione è l’essere. Non esiste
un essere in se. Al di fuori del linguaggio con cui diciamo l’essere non esistono altre strutture,
è chiaro che esistono i fatti ma non le loro sostanze; esiste solo il nostro modo di interpretare,
ma non l’essere in se. Quindi è un nichilismo ontologico perché viene negato l’essere in se;
oltre il linguaggio non c’è essenza, non c’è altro. Tutto si risolve nel linguaggio e oltre il
linguaggio non ci sono essenze. Esiste solo l’intrascendentabilità del linguaggio, fuori del
linguaggio non si va (come Witteghestein).
Qui troviamo anche una critica ad Hidegger: per Hidegger l’essere esiste non come essere
presente, ma come possibilità, è un essere che è un nulla di determinazione ma è proprio da

126
questo essere privo di determinazioni che nascono gli eventi i quali da un lato sono la
manifestazione dell’ente e dall’altra ne sono anche l’occultamento; per Gadamer non c’è
nemmeno l’essere, esiste solo la tradizione che è il linguaggio che sono le nostre
interpretazioni e al di fuori di questo non c’è altro.

Quindi la verità per Gadamer non è sicuramente la rappresentazione dell’essere;quindi non è


il rispecchiamento dell’essere, ma assume le nostre interpretazioni e ogni interpretazione ha
un suo valore, una sua valenza che deve essere messa in dialogo con le altre interpretazioni.
Di per se come principio assoluto la verità non esiste poiché non è rappresentazione di
qualcosa che è perché l’essere sono le nostre rappresentazioni. L’unica cosa importante è che
ci può mettere in dialogo con gli altri interpreti per costruire insieme il senso della storia.
Il senso della storia è la costruzione insieme della comunità in cui tutti si sentono partecipi di
un medesimo dialogo, ideale di una comunicazione globale in cui tutti possono essere
riconosciuti nella loro dignità di interpretanti e ognuno porta un contributo alla società di
comunicazione ( attraverso i vari orizzonti, cioè le varie interpretazioni dei soggetti) con la
consapevolezza che non si può mai arrivare ad una conformazione dei comunicanti piena e
completa perché non c’è un modello a cui conformarsi; ognuno porta un contributo che è un
contributo che è una differenza che si articola con altre differenze. È una storia che si articola
con altre diverse. Importante è fare entrare nella comunicazione le varie interpretazioni in
modo che ognuno possa essere riconosciuto nella propria differenza che entra in relazione
con altre differenze.
L’uomo in Gadamer viene messo al centro della dinamica della relazionalità in quanto
l’identità di una persona è frutto di tante identità che si definiscono nel corso della storia e che
si definiscono nel rapporto con gli altri. La mia identità è fatta di relazione. Il limite nella
riduzione del soggetto alla relazione è la perdita dell’io come assoluto che sta al centro e
fondamento dei tutte le relazioni, è cioè questo il nichilismo antropologico (il ridurre tutto ad
una forma di relazionalità). Quindi da una parte recupera il valore della relazione, noi siamo
relazione ma non possiamo essere ridotti a questa,siamo più della relazione.

Hidegger e Gadamer Ricoeur

I modello II modello
RIDUZIONE ONTOLOGIA APERTURA
relativismo ERMENEUTICA relatività
nichilismo (essere ed interpretazione) allusività
soggettivizzazione dell’essere

127
uno esclude l’altro esiste un rapporto

L’ermeneutica è nata come disciplina all’interpretazione dei testi antichi e dei testi giuridici. Poi
si trasforma in una dottrina generale della conoscenza (non più solo dei testi antichi) questo
con Diltay.
Il terzo passaggio è quello che avviene con Hidegger, Gadamer e Ricouer.e il terzo passaggio
è appunto l’ontologia ermeneutica cioè non c’è solo bisogno di codificare i testi antichi, non
solo c’è bisogno del comprendere ermeneutico dell’uomo e della realtà, ma lo stesso uomo, la
stessa realtà è interpretazione. Cioè la stessa realtà è questo divenire attraverso le diverse
interpretazioni che noi ne diamo,la realtà non è in se e per se, la realtà è ciò che noi definiamo
nelle nostre interpretazioni, lo stesso essere si modifica continuamente nel divenire attraverso
le nostre letture e interpretazioni; questa è l’ontologia ermeneutica: l’essere è interpretazione.
Abbiamo due modelli di ontologia ermeneutica:
1. Modello di Hidegger e Gadamer in cui l’essere è ridotto all’interpretazione, cioè
l’essere è l’interpretazione che noi gli diamo quindi è anche soggettivizzazione
dell’essere e quindi questo porta al relativismo (tutte le interpretazioni sono valide) e al
nichilismo (non c’è l’essere in se ma tutto dispare nell’interpretazione) come in
Gadamer dove l’essere avviene nell’evento ma l’evento è S-TERMINATO, avviene,
disviene e scompare.
2. Modello di Ricoeur; nel primo caso l’essere è uguale alla sua interpretazione. Qui
invece l’interpretazione si apre sull’essere quindi non c’è identità ma rimane una
distinzione fra interpretazione e essere. Quindi l’essere c’è, non viene creato
dall’interpretazione ma l’essere viene descritto da diverse interpretazioni che sono
relative (i diversi punti di vista parziali dello stesso essere). Quindi è quell’ontologia che
parte dal presupposto che l’essere c’è e non è riducibile alle nostre interpretazioni ma
questo essere non può essere detto in maniera esaustiva da nessuno, ma solo in
maniera parziale. La mia interpretazione si apre su questo essere ma la mia è
un’interpretazione parziale e quindi relativa che va fusa insieme alle altre interpretazioni
(torna quindi il concetto di Gadamer) ma l’essere c’è.
Ricoeur fa parte di questo secondo modello e parla di ontologia come terra promessa che io
posso già additare anche attraverso l’argomentazione razionale.
Nel primo modello l’ermeneutica sostituisce la metafisica; nel secondo, invece, c’è un rapporto
fra ermeneutica e metafisica: la metafisica aiuta l’ermeneutica a risolvere le questioni lasciate
aperte.

128
Ricoeur ripone l’essere al centro come qualcosa che c’è e l’ermeneutica permette
l’interpretazione dell’essere, l’ermeneutica aiuta la metafisica a cogliere l’essere nel suo
esserci. Aiuta a collocare se stessi nell’essere che è la realtà in cui ci muoviamo. E per
collocare se stessi nell’essere abbiamo bisogno di conoscere interpretando l’essere.

Ricoeur parla di ontologia come approccio.


Approccio: cioè, mi accosto ma ancora non catturo, è un modo di avvicinarsi (così sono i
nostri tentativi di approcciarci a Dio).
Ecco l’essere come terra promessa, noi ci approcciamo all’essere però nella consapevolezza
che l’essere esiste.

Ricoeur: (1913-2005) è un credente di confessione riformata evangelica, attivo nella società.


Ha un gran rapporto con il filosofo cristiano cattolico Munier e con lui collabora alla rivista
“Esprit” che era manifesto della filosofia personalista (Munier ne era esponente). Ma Ricoeur si
richiama soprattutto alla filosofia riflessiva che appartiene alla traduzione del pensiero
coscienziale francese, il cogito che si autoriflette. Si allarga poi nell’incontro con il pensiero di
Husserl e anche alle diverse anime della filosofia del linguaggio (in particolare all’anima
strutturalista) e da tutto questo nasce la sua riflessione che parte dal soggetto ma non si ferma
ad esso.

14.12.2011
Vediamo il pensiero filosofico di Ricoeur.
Il punto di partenza, centro focale di interesse e di apertura di Richaeur è il soggetto, l’io.
Abbiamo già detto la provenienza, la formazione di Richaeur è l’ambiente francese, in
particolare della cosiddetta filosofia riflessiva che prende le mosse dal soggetto, secondo la
più consolidata tradizione del pensiero francese che in Cartesio aveva il suo referente.
L’elemento costitutivo centrale di questa filosofia è il cogito cartesiano. Questa filosofia aveva
avuto uno sviluppo anche con, seppur con attenzioni diverse, Pascal (dove ritroviamo appunto
la centralità del soggetto).
L’altro referente di Richoeur oltre la filosofia riflessiva è la fenomenologia trascendentale di
Husserl e la filosofia di Merlau – Pontì, filosofo che anche lui ha come riferimento centrale la
coscienza, come soggettività trascendentale, legato anche all’io cogito di Cartesio.
Questo è il mondo di riferimento, poi l’altro riferimento centrale e per molti aspetti decisivo nella
formazione di Richaeur è Marcel (filosofo cristiano che appartiene all’esistenzialismo cristiano,
esistenzialismo che si apre alla dimensione cristiana; anche se rifiutava questa etichetta di

129
esistenzialista e si autodefiniva piuttosto un “socratico cristiano” e comunque anche in questa
definizione ritroviamo la centralità del soggetto che si interroga e che interroga). Ma, il
soggetto di Marcel è un soggetto non astratto,non è un soggetto puramente trascendentale,
un io puro, ma è il soggetto concreto, soggetto che si muove dentro la densità dell’esistenza e
quindi porta tutta la problematica, l’inquietudine dell’esistente e questo riferimento sarà molto
importante nella filosofia di Ricoeur.
Richaeur, poi collabora anche con un altro filosofo cristiano di area cattolica: Mounier e quindi
la filosofia personalista.
 SOGGETTO = IO CONCRETO 
COGITO
FATTUALITÀ
Tutti questi riferimenti servono per dire che il soggetto sta alAPERTURA
centro dellaALLA TRASC.
riflessione di
DELL’ESSERE
Richaeur. Ma per stare al centro questo soggetto, però, non è a se; per Ricoeur la filosofia
(concretezza) (totalità dell’essere)
deve partire dalla domanda del soggetto, da come poneva il cogito cartesiano. Ma a differenza
del cogito cartesiano“fattualità dei dati”
quello di Ricoeur nei quali
non è un parametri
cogito vuoto concreti
(anche se vitali da Dio
poi Cartesio
LINGUAGGIO “prodotti dello sp.” Si scorge (legati alla fattualità)
deduce l’esistenza, ma è una deduzione puramente teorica, è una deduzione matematica e
SIMBOLICO
questo fa del suo cogito un cogito vuoto). Il cogito di cui parla Ricoeur non è un cogito astratto,
non è un cogito assoluto ma vuoto; è un cogito che da una parte è radicato nella fattualità
Simbolo
della “LUNGO PERCORSO”
storia, nella concretezza (è la stessa fattualità di cui parlava Heidegger[la dialettica fra
possibilità e fattualità“AVVENTURA DELLO
che costituisce uno degliSP”
elementi della ermeneutica di] Heidegger). Ma
è anche un cogito che oltre ad essere radicato nella fattualità, dall’altra parte è anche aperto
allaMito CONFLITTO
trascendenza dell’essere (non abbiamo scritto dell’”essere DELLE perché uno
trascendente”
Significato Significato ambivalenza INTERPRETAZIONI
penserebbe a Dio), cioè questo cogito, io mi trovo concretamente qui in quest’aula ma io so
Patente latente (Dialettica delle interpretaz)
+
che sono dentro un universo più ampio; cioè io non sono semplicemente schiacciato dalla
ambiguità
fattualità, ma sono anche aperto alla totalità dell’essereANALISI CRITICA
(non si dice dell’essere totale, perché
se dico dell’essere totale è quell’essere che assomma a se tutto l’essere) nella sua più ampia
che però da sola non basta,
possibilità, ed è ovvio che in queste ampie possibilità c’è la realtà
bisogna fisica,
anche la realtà
saper metafisica, la
cogliere
realtà teologica ecc) quindi questo soggetto non è un soggetto chiuso in se ma è un soggetto
che è radicato in una fattualità già concreta e di cui porta i pesi come le realizzazioni
ARCO e le
ERMENEUTICO
contraddizioni di questa realtà, per cui è un’esistenza concreta; ma è anche un’esistenza che
I base II
base è in tensione verso, un’esistenza aperta intensionalmente, è aperta alla totalità dell’essere.
Spiegazione (scientifica)
interpretazione
- Strutturalismo - - sogg. Pensante-

INTENZIONAL
ITÀ

questo percorso di ritorno


Attraverso questa analisi ho la avviene attraverso diversi
130
rivelazione completa dell’uomo strumenti
In questa ambivalenza vediamo che il cogito del soggetto concreto è aperto e radicato nella
fattualità (che Ricoeur definisce come (archè) ma non nel senso di principio primo, ma
qui proprio come l’andare a scavare nel profondo ( come archeologia), il soggetto è come
gettato dentro questa realtà, è radicato nel profondo).
Dall’altra parte questo soggetto è aperto alla trascendenza dell’essere (Ricoeur definisce come
telosnel senso di chiamata, una vocazione; è una vocazione ad aprirsi).
Questo soggetto collocato dentro un’esistenza già di fatto, concreta, e intenzionalmente aperto
verso (telos) la totalità dell’essere.
Qui si dice che Ricoeur opera una rivoluzione copernicana al contrario. Questa metafora
della rivoluzione copernicana l’abbiamo trovata in Kant, dove la rivoluzione copernicana in
Kant era che non è più la realtà che gira intorno al soggetto, ma è il soggetto che gira intorno
alla realtà con le sue categorie che avvolgono la realtà; non è la realtà che da le categorie al
soggetto, ma è il soggetto che da le categorie alla realtà. La rivoluzione copernicana di
Ricoeur, invece, è rimettere il soggetto al centro dell’essere ma a partire dal soggetto. Quindi
non più il soggetto che avvolge l’essere, ma è il soggetto che già è al centro dell’essere ma a

131
partire dal soggetto, cioè è il das-ain di Hidegger, l’esserci , da questo soggetto che è un
esserci.
Da questo vediamo che c’è un legame abbastanza caro con Hidegger nel senso che, come
Hidegger pone il problema del senso dell’essere e lo pone a partire dal das–ain, lo pone a
partire dal soggetto, così fa anche Ricoeur, e in questo Ricoeur si collega non solo con la
tradizione cartesiana del cogito, ma anche con la tradizione fenomenologica di Husserl, però
anche qui: mentre il soggetto trascendentale di Husserl è un soggetto puro, il soggetto di
Ricoeur è un soggetto già concreto.
Quindi si parte dal soggetto, si parte dall’io. Questo io da cui si parte è un io che innanzitutto si
trova nella dimensione di questa concretezza dell’esistenza, trovarsi in questa condizione
significa trovarsi nella “fattualità dei dati” o “prodotti dello spirito”. Questi non sono
semplicemente dati sterili, oggettivi, ma sono i dati investiti anche della soggettività di colui che
si mette in rapporto con questi dati. Anche i dati (come l’io) non sono mai allo stato puro, sono
sempre collegati, legati con il soggetto e quindi sono investiti anche delle domande, della
soggettività del soggetto. Sono dati sempre investiti dalle precomprensioni del soggetto.
Allora il soggetto è un soggetto che è collocato dentro una fattualità che è costituita dai dati
con cui si rapporta secondo certe modalità e da questo suo rapportarsi nascono anche i
prodotti che noi possiamo chiamare genericamente prodotti dello spirito. In altre parole: il
soggetto è un soggetto che si muove dentro una realtà che è per molti aspetti precostituita da
se stesso, cioè nella realtà il soggetto esprime me stesso, nei prodotti culturali il soggetto
esprime se stesso.
Così che se il soggetto vuole capire chi è realmente se stesso deve passare attraverso
l’analisi dei “prodotti dello spirito”. Deve intraprendere un “lungo percorso” detto anche
“avventura dello spirito” (ad esempio: tutti noi abbiamo fatto delle esperienze nella nostra
vita e per capire chi siamo dobbiamo fare un analisi di queste esperienze presenti e passate e
questo lo facciamo non semplicemente con un discorso puramente teorico, ma cercando di
interpretare tutte le varie situazioni e i vari momenti che abbiamo vissuto, questo è il lungo
percorso di Ricoeur). Detto in altre parole: se io voglio conoscere l’io, il soggetto, lo posso
conoscere attraverso gli atti che egli ha posto (i prodotti dello spirito) e quindi attraverso
l’analisi dei prodotti dello spirito, deve esserci questa lettura e interpretazione.

Ora il punto importante che Ricoeur vuole mettere in rilievo è uno: Ricoeur da un certo punto di
vista si contrappone a quelle che lui chiama le filosofie del linguaggio selvaggio che sono le
filosofie, in particolare, del linguaggio scientifico, del neo-positivismo. Le chiama così perché in

132
realtà sono filosofie stratte, cioè sono filosofie che passano da modelli teorici che in qualche
modo poi ripongono nella realtà, come se la realtà fosse unicamente riducibile a quelle
categorie logiche. Mentre la realtà, secondo Ricoeur, esprime una densità molto più ampia e
profonda. Quindi seppur anche Ricoeur parte dalla soggettività, questa soggettività però è letta
all’interno della concretezza dell’esistenza, perché altrimenti avremmo un soggetto che impone
(ecco perché “selvaggio”) le proprie categorie, non ascolta l’essere,ma si impone si di esso.
Ora quindi, per leggere questa profonda e complessa realtà, Ricoeur ritiene che non sia più
sufficiente la sola fenomenologia trascendentale di Husserl, da essa si parte (perché si pone al
centro il soggetto) ma in essa non si può rimanere perché è essa stessa ancora vuota, è
un’astrazione. Si parte da essa ma non si può rimanere in essa.
Ci vuole quindi l’ermeneutica, l’interpretazione, un’interpretazione che però non può essere
fonologica, cioè ad una sola direzione. L’interpretazione, in Ricoeur, va fatta con l’uso di
diversi strumenti perché la realtà è complessa, è multisemantica (qui riprende il concetto
aristotelico dell’essere che si dice in diversi modi, l’essere è multi semantico); e proprio perché
l’essere è multi semantico è necessario avvalersi di diversi strumenti di lettura interpretativi.
Quindi il lungo percorso dell’io che passa attraverso i prodotti dello spirito esige anche un
lungo percorso di ritorno verso l’io: come l’io esce da se stesso e va verso il mondo, verso
tutte le componenti con cui si relazione, c’è un io che poi torna a se stesso e per tornare a se
stesso ha bisogno di diversi strumenti per indagare sulla realtà nel suo insieme.
Questa complessità di modalità per ritornare a se stesso potremmo chiamarle anche diverse
modalità di interpretazioni. La molteplicità delle interpretazioni vengono definite da Ricoeur
come conflitto delle interpretazioni. Qui il termine conflitto va preso nel senso hegeliano;
per Hegel conflitto non significa lotta dell’uno con l’altro, con la scomparsa del’uno o dell’altro;
ma conflitto significa dialogo, dialettica. Ma a differenza della dialettica hegeliana che porta a
quella sintesi onnicomprensiva, il conflitto delle interpretazioni nell’accezione che ne da
Ricoeur non è per una sintesi speculativa, totalizzante ma è per un incontro-confronto un
incontro che cerca di arricchirsi gli uni degli altri, senza mai arrivare ad una sintesi totale e
assorbente, ma rimane la diversità delle interpretazioni le quali però convergono per
l’arricchimento della consapevolezza di se e la consapevolezza della realtà.

Ovviamente il termine interpretazioni è usato in senso molto ampio e vasto, anche la scienza,
da questo punto di vista è un’interpretazione del reale e quindi è necessario poi comprendere
come, ad esempio la scienza, è funzionale, è utili alla comprensione del soggetto stesso.

133
In particolare Ricoeur nella prima fase (potremmo definirla come fase fondante) della sua
riflessione si dedica alle interpretazioni archeologiche archè e teleologiche (
telos) e in particolare prende in esame due tipi di interpretazioni archeologiche:
 Una è quella di Marx che è un’interpretazione archeologica nel senso che Marx va a
vedere il radicamento del soggetto nell’archè della società, quindi come archeologia
della società
 L’altra è quella di Freud che è un’interpretazione archeologica come archeologia
della psiche. L’archè dell’inconscio e subconscio e quindi che indica come il
soggetto è radicato nel suo psichismo.
Per quanto riguarda invece le interpretazioni teleologiche il riferimento è:
 A Hegel da un lato, l’Hegel che indica la dimensione dello spirito come il motore che
innerva tutte le realtà e che ne costituisce l’anima profonda. Lo spirito che è sintesi
superiore e che permette di cogliere i diversi elementi dell’esistere come innervati da
una presenza che supera ogni condizionamento: lo spirito. la filosofia dello spirito di
Hegel sarebbe un modello di interpretazione teleologica.
 E alla fenomenologia del sacro di Rudolph Otto per sottolineare come appunto
nell’uomo c’è non soltanto la trascendenza dell’essere ma anche la dimensione
all’essere trascendente (il sacro).

Cioè nell’uomo non c’è soltanto radicamento nella sua psiche e nella società, ma nell’uomo c’è
anche questa tensione che lo porta e verso la totalità dell’essere (Hegel) e verso l’essere
trascendente. In altre parole se io vado a vedere i prodotti dell’uomo, scorgerò che in questi
prodotti l’uomo manifesta da una parte quello che è il suo mondo vitale, ma dall’altra manifesta
anche una domanda di qualcosa che va oltre.
E allora, se io voglio ricondurre l’uomo a se stesso tutto è prodotto dall’uomo, ma per capire
l’uomo devo passare attraverso i suoi prodotti e coglierli nella loro multisemanticità per poter
capire chi è veramente quest’uomo, chi è questo soggetto.
Allora vedrò che nei suoi prodotti da una parte esprime esigenze vitalistiche (Freud e Marx) ma
dall’altra l’uomo esprime anche desideri più alti. E in particolare proprio in questa analisi dei
prodotti dello spirito Ricoeur prende in considerazione un prodotto particolare: il simbolo, cioè
il linguaggio simbolico che è uno dei linguaggi più utilizzati dall’uomo. È linguaggio simbolico
anche quello matematico, ad esempio e sono dei linguaggi con i quali si vuole dare anche una
rappresentazione della realtà. Ma il linguaggio simbolico matematico è altamente formalizzato
e l’uomo non si esprime soltanto attraverso la matematica, utilizzando solo questo tipo di

134
linguaggio si impoverisce la realtà. Di fatto noi diciamo la realtà anche con dei simboli che
dicono e rimandano, dicono e non dicono, ti lasciano sempre pensare qualcosa di altro
rispetto a quello che tu immediatamente vedi. Attraverso il simbolo: da un lato do
un’indicazione, dall’altro però esprimo qualcosa che è diverso. Il simbolo manifesta e rimanda,
è sempre apertura.
Ricoeur si dedica anche all’analisi dei grandi simboli dell’umanità e in particolare ai simboli
anche del peccato e della pena. In particolare distingue fra simbolo come elemento atomico,
unitario, esclusivo (che rimanda ad un’inca realtà; come ad esempio la penna che in quanto
oggetto è una penna ma è anche il simbolo della letteratura nel suo insieme)e il mito che è un
simbolo che si traduce in una narrazione, però ha la stessa logica del simbolo che da una
parte dice e dall’altra allude. Cioè ha un contenuto patente e ha un contenuto latente. Nel
simbolo abbiamo un significato patente, che è il significato immediato e poi c’è un contenuto
latente che è quello che è il significato più proprio e profondo del simbolo. Così nel mito c’è un
significato immediato patente (quello del racconto in se) e un significato latente, quello che è lo
specifico del mito è soprattutto il significato latente, che però io devo saper decodificare
attraverso il significato patente.

Il richiamo al linguaggio simbolico permette a Ricoeur di applicare proprio questo conflitto delle
interpretazioni perché soprattutto nel linguaggio simbolico si può scorgere da una parte quella
che è l’effettualità dell’uomo, ma dall’altra esprime anche un desiderio di qualche cosa d’altro
(ad esempio Ricoeur analizza il mito della caduta dell’uomo nel peccato dove troviamo il senso
di colpa dell’uomo e la sua caduta ma anche la volontà di superare questa colpa).
Proprio dall’analisi dei grandi miti della storia dell’umanità (in particolare i miti religiosi) l’uomo
può, applicando la duplice metodologia archeologica teleologica, recuperare il senso
dell’uomo, la ricchezza del suo io.

Inoltre oltre al conflitto delle interpretazioni, Ricoeur partendo dalla filosofia della soggettività
trascendentale di Husserl ne vede però anche i limiti; cioè il fatto che questo soggetto che
interpreta non è mai un soggetto puro, ma è un soggetto che già è dentro l’esistenza e quindi
va anche incontro a tutte le ambiguità dell’esistenza (cioè l’uomo quando esprime se stesso,
esprime le sue possibilità ma anche manifesta i suoi limiti, e allora potrebbe magari prevalere il
limite sulla possibilità. L’uomo è dentro questa ambiguità.
Per questo l’uomo è al tempo stesso ambivalente e ambiguo. Se io dico ambivalente vuol
dire che ha diverse modalità di esprimersi; e allora per questo c’è bisogno di diverse
interpretazioni (conflitto delle interpretazioni). Però l’uomo è anche un essere ambiguo perché

135
nel suo manifestarsi può presentare anche dei lati negativi che diventano ostilità, impedimento
alla piena rivelazione delle sue possibilità.
Allora quando io vado ad analizzare i prodotti dell’uomo, non solo devo mettere in atto diversi
modelli di interpretazione, ma devo mettere in atto anche una capacità di sospetto, cioè devo
chiedermi se quei prodotti sono prodotti che esprimono le reali e profonde possibilità
dell’uomo, o sono prodotti che in realtà ne segnano il limite e la negatività. Devo cioè applicare
ai prodotti dell’uomo anche un’analisi critica, devo porre degli interrogativi. Interrogativi che mi
dicono come la coscienza dell’uomo non è qualcosa che agisce in maniera astratta e pura, ma
agisce sempre caricata da tutta una serie di, anche interessi, che gli derivano dall’esistenza e
allora è necessario capire quali sono questi interessi; io poi li posso condividere o meno ma io
devo capire quali sono questi interessi, analizzarli perché la coscienza non è pura ma legata
alla fattualità. Così che oltre alla dialettica delle interpretazioni, è necessario utilizzare anche
un’analisi critica. Il soggetto, nell’analisi dei suoi prodotti fa riferimento ai maestri del
sospetto (Marx, Nietzsche e Freud) che sono coloro che hanno sospettato su tutto, e per primi
hanno mostrato come il soggetto “sospettato” non è un soggetto puro (come lo pensavano
Cartesio e Husserl).
Quindi possiamo dire che:
 Il CONFLITTO DELLE INTERPRETAZIONI fa riferimento all’ambivalenza
 L’ANALISI CRITICA fa riferimento all’ambiguità

Quindi Ricoeur vuole far comprendere come, per comprendere la realtà che è polivalente è
necessaria la dialettica delle interpretazioni , cioè i diversi strumenti di interpretazione perché
l’approccio con la realtà deve essere sempre pluridimensionale.
Per questo Ricoeur parla della categoria dell’ arco ermeneutico che poggia su due basi che
sono: la spiegazione e l’interpretazione.
La spiegazione è quella scientifica, e per comprendere la realtà abbiamo bisogno e della
spiegazione scientifica e dell’interpretazione.
Lo strutturalismo è una metodologia che nasce dalla linguistica (analisi filologica, lessicale,
strutturale, sintattica grammaticale del nostro parlare) e lo strutturalismo è un’analisi scientifica
delle strutture del linguaggio. E lo strutturalismo da metodo si trasforma anche in filosofia, nel
senso che privilegia la struttura sul soggetto parlante. Secondo questa filosofia noi non
parliamo noi siamo parlati, cioè in noi c’è una struttura che ti fa dire, ma non siamo noi che
diciamo, ma mentre noi diciamo in realtà opera in noi una struttura inconscia di cui noi non
siamo padroni.

136
Cioè non esiste il soggetto parlante e il soggetto parlante è uno che quando parla non solo sa
quello che dice, ma anche perché lo dice e qual è l’intenzione a cui orienta il suo dire. Cioè lo
strutturalismo come filosofia nega il soggetto come responsabile del suo agire e del suo dire.
Ora, Ricoeur prende in esame anche lo strutturalismo come metodo scientifico perché se io
devo capire l’uomo, devo anche capirne le sue strutture linguistiche, cioè che ha delle strutture
che sono funzionanti a prescindere dalla consapevolezza o meno che ne abbia l’uomo e
agiscono comunque sulle nostre azioni, e dunque è necessario prendere perfetta
consapevolezza di queste strutture. Questa è la spiegazione, l’analisi scientifica; ma questa da
sola non basta per comprendere l’uomo, perché in realtà dietro alla struttura c’è l’io pensante,
c’è un soggetto pensante (questa è la tesi che pone Ricoeur in contrapposizione con Husserl e
con lo strutturalismo stesso). E per raggiungere il soggetto pensante dobbiamo passare anche
attraverso l’interpretazione che ci porta alla comprensione del soggetto.
Ecco allora che se io voglio comprendere il soggetto umano, ma più ampiamente tutta la
realtà, non solo devo usare il sistema scientifico, ma neanche non devo usare solo quello
ermeneutico e filosofico, ma li devo usare insieme, ognuno porta il proprio contributo. Questo è
l’arco ermeneutico che in qualche modo è un altro nome che Ricoeur da al concetto di conflitto
delle interpretazioni, perché anche nel conflitto si dice che non basta un solo tipo di lettura ma
ce ne vogliono altre.

L’analisi critica è una forma di ascesi sul pensiero e sulle decisioni che devono permettere di
cogliere quali sono i veri motivi per cui io faccio una determinata scelta e non un’altra. L’analisi
critica è sempre importante su se stessi per vedere come nei nostri pensieri possono anche
introdursi elementi non del tutto corretti.
Allora i maestri del sospetto fanno parte anche essi di un’ermeneutica che potremmo chiamare
ermeneutica della deideologizzazione (i nostri interessi) . E dunque è un elemento
fondamentale per una consapevolezza sempre più profonda e autentica sia del soggetto che
della realtà. Ma questa ermeneutica non basta perché rappresenta soltanto l’aspetto negativo,
è necessario anche saper cogliere nell’uomo anche questa tensione verso la totalità, questa
intenzionalità del soggetto verso la trascendenza dell’essere.

Possiamo dire che ci sono 3 passaggi:


1. Necessità di fare la sintesi del molteplice in quanto la realtà è complessa, attraverso
il conflitto delle interpretazioni
2. La sintesi del molteplice diventa anche sintesi dell’eterogeneo. Dentro questo
molteplice ci sono anche molti elementi discordanti tra loro, ma gli elementi discordanti

137
ma che non necessariamente sono elementi che si escludono. Allora da una parte
devo mettere in chiaro quali sono i motivi di un mio agire, dall’altro però devo anche
saper far emergere l’intenzionalità verso un ulteriore.
3. Sintesi del discontinuo.
19/12/2011
L’arco ermeneutico, cioè il rapporto tra spiegazione e comprensione, è un tema che Ricoeur
ha sviluppato in diverse opere della seconda parte del suo pensiero in particolare in quella
intitolata “Dal testo all’azione” attraverso il quale elabora una teoria del testo che si sviluppa
in cinque tappe. Tutto questo Ricoeur lo utilizza anche nell’ermeneutica biblica, in particolare
in un’operetta “Ermeneutica filosofica e ermeneutica biblica”.
Il testo non è da intendere soltanto come opera scritta, il testo è qualsiasi realtà espressione di
una parola (prima viene la parola e poi lo scritto), qualsiasi opera d’arte, un’opera economica
che è sempre un testo, anche l’azione è un testo (“dal testo all’azione”). Da una parte c’è la
struttura con cui comunichiamo qualcosa e dall’altra il messaggio comunicato. Bisogna poi
trovare la sintesi tra modo di comunicare e messaggio comunicato e questa sintesi fa si che il
modo, che va analizzato scientificamente, mi permetta di aprirmi al che cosa, cioè al significato
che può avere quell’azione. Il significato dell’azione o del testo non è del tutto esauribile nel
modo della comunicazione, cioè il messaggio è qualcosa di più rispetto al modo della
comunicazione. Qui si gioca la dialettica tra aspetto patente e aspetto latente che aveva già
messo in evidenza Husserl. L’aspetto patente è quello che vedo, l’aspetto latente è il
messaggio che c’è dietro il quale viene espresso attraverso l’aspetto patente ma non
necessariamente ne viene esaurito. Anche il simbolo ha un spetto patente e un aspetto
latente. L’aspetto patente è la sua realtà che già comunica qualche cosa, che rimanda ad un
aspetto latente. L’aspetto patente può essere studiato scientificamente, a partire da questo ci
si eleva all’aspetto latente. Quest’ultimo non è mai completamente esaurito dall’aspetto
patente che può rimandare a diversi significati che la comprensione può esplicitare. L’arco
ermeneutico è la dialettica tra spiegazione e comprensione, vale per il simbolo e per ogni agire
come per qualsiasi altro testo.
Le cinque tappe: 1) Effettuazione del linguaggio come discorso; 2) effettuazione del discorso
come opera strutturata; 3) parola e scrittura; 4) “la cosa” del discorso come proiezione di un
mondo; 5) mondo del discorso come mediazione della comprensione di sé.
Dice Ricoeur in “Ermeneutica filosofica e ermeneutica biblica”: “la triade discorso, opera e
scrittura, costituisce soltanto il treppiedi della problematica decisiva riguardante il progetto di
un mondo. Mondo dell’opera nel quale sta il centro di gravità della questione ermeneutica ”. I

138
primi tre elementi, discorso, opera e scrittura, costituiscono l’elemento della spiegazione che
richiedono una spiegazione di caratere tecnico-scientifico. Mentre gli ultimi due punti, “la cosa”
del discorso come proiezione di un mondo e mondo del discorso come mediazione della
comprensione di sé, costituiscono l’elemento della comprensione.
1) Effettuazione del linguaggio come discorso. La lingua è un sistema di segni virtuale e
fuori del tempo che prescinde dal soggetto. La lingua ha già una sua struttura di per sé e
una sua logica. Noi usiamo la lingua per produrre un evento, cioè il discorso. La lingua è
la struttura logica di fondo che presiede al dire, prima del dire c’è una struttura logica che
è la lingua, fatta di segni (semiotica) e di sintassi (sintattica). La lingua serve per fare un
discorso, per dare un significato (la struttura semantica). Dalla lingua si passa all’evento
del discorso che produce un significato. Effettuazione del linguaggio come
discorso.
La lingua è la struttura di segni, la parola è il discorso che veicola un significato.
2) Effettuazione del discorso come opera strutturata.
Il discorso essendo un evento non è arbitrario nel senso di non avere una sua struttura.
L’effettuazione del discorso come opera strutturata tiene conto di quattro elementi:
contesto, mittente, destinatario e messaggio. Non è che il contesto, il mittente e il
destinatario crea il messaggio, perché questo c’è o non c’è, ma assume una coloritura e
un significato, da cui nasce un pragmatica (cioè un uso), che dipende dai tre precedenti
elementi. L’opera strutturata è anche codificata nei diversi stili, i generi letterari, ed è
espressa con uno stile proprio, tipico dell’autore che fa l’opera. Ad esempio possiamo
avere un genere letterario profetico, poi c’è lo stile di Isaia, Geremia ecc.. Anche lo stile è
un elemento che va studiato scientificamente e aiuta la comprensione.
3) Parola e scrittura. A volte nell’atto parlato si riescono a cogliere più intensamente i
significati perché chi parla accentua un’espressione piuttosto che un’altra e
l’accentuazione provoca nell’ascoltatore la forza illocutoria, una reazione anche emotiva.
La parola e la scrittura comunicano lo stesso contenuto ma non hanno la stessa forza
illocutoria e anche perlocutoria (che ti chiama ad agire). È vero che la scrittura ti consegna
un significato. Il dire ha la forza illocutoria e perlocutoria che è importante, la scrittura fissa
il contenuto del dire, ha questa funzione. Il dire è necessario per comprendere meglio lo
scritto, lo scritto, a sua volta, è importante perché fissa il contenuto del dire e ti permetti di
tornarci sopra.
4) “La cosa” del discorso come proiezione di un mondo, è il mondo del testo, la realtà
che descrive, la cosa di cui parla, è il suo contenuto, ma non è solo il contenuto del testo

139
ma è dire che quel mondo che il testo mi comunica non è il mondo intero ma è una
possibilità di mondo. Ogni vangelo, ad esempio, è la proiezione di un mondo. Ogni testo
apre un mondo possibile ma non è tutto il mondo.
5) Mondo del discorso come mediazione della comprensione di sé. Quest’ultimo
elemento vuole dire che ogni testo mi parla e mi interroga, mi stimola ad uscire da me
stesso per comprendere meglio me stesso. Ogni lettura eogni rapporto è una
provocazione a se stessi. Dalla spiegazione alla comprensione che non è solo
spiegazione e comprensione di un testo ma è comprensione dell’uomo. Ricoeur parte dal
soggetto, da un io che è vuoto e deve riempirsi come una realtà che attraverso le cose
riscopre se stesso, parla infatti del lungo percorso che ciascuno è chiamato a fare
passando attraverso i segni, la cosa del mondo, i contenuti, i significati che mi vengono
dalla percezione della realtà per poi collocarsi meglio nel modo, per collocarsi nel modo
più corretto possibile nell’essere. Quindi la comprensione del mondo di un testo diventa in
realtà via per la comprensione di se stesso. Dal mondo del testo alla compernsione di se
stessi.
La filosofia cristiana veniva etichettata da Heidegger come un ferro ligneo, come dire
un’espressione insensata. Nei primi del novecento c’è stato un dibattito, il c.d. dibattito della
Sorbona che avvenne il 31 marzo del 1831 nella celebre università di Parigi della Sorbona,
intitolato:“Esiste un filosofia cristiana?” Chi pose la questione fu il il Brehier che negava che fra
la filosofia e il cristianesimo possano esserci rapporti. Secondo lo stesdso il cristianesimo è
privo di contenuti filosofici e il cristianesimo esprime soltanto istanze etico-sociali. Neppure la
filosofia scolastica può essere definita una filosofia cristiana perché ogni contenuto speculativo
è di derivazione greca, cioè Platone, Aristotele, Plotino. Nel dibattito intervennero anche
diversi protagonisti del pensiero cristiano, tra cui Etienne Gilson (“La filosofia nel medioevo” e
“Lo spirito della filosofia medioevale“) mette in rilievo che nella scolastica ci sono diverse
nuove tesi filosofiche, in particolare per qaunto riguarda S. Tommaso, ispirate alla tradizione
ebraico-cristiana. Se è vero che le Scritture non sono opere filosofiche nondimeno esprimono
dei concetti filosofici, anche se non teoreticamente sviluppati. Se ad esempio nella tradizione
cristiana si parla di peccato e di responsabilità dell’uomo nel peccato, si pone il concetto
filosofico della libertà dell’uomo che non è presente nella tradizione greca in cui c’è solo il fato,
il destno. Gilson rifiutavas la consueta alternativa della storiografia ottocentesca secondo cui la
teologia cristiana o è solo teologia o è filosofia, ma in tal caso è aristotelica o platonica, non è
cristaiana nel senso che non nasce dal cristianesimo. Maritain entra in questo dibattito con una
sua formulazione che vedremo.

140
Ricoeur è un pensatore cristiano, parte dal presupposto che non esiste un io puro, l’io parte
da un situazione ermeneuticamente costituita, l’io è già al centro dell’essere che è l’essere
come realtà che lo circonda ma anche l’essere storico. L’io è al centro di una cultura e nessun
io (nessun uomo) può presumere che il suo mettersi a riflettere nasce da un vuoto di contenuti,
nasce invece dentro dei contenuti in cui è già contenuto. Per cui non è vero che possa esistere
una filosofia prettamente laica, nel senso che non parte da presupposti. Ogni filosofia parte da
presupposti, l’importante, diceva Gadamer, è averne consapevolezza e starci nel modo giusto.
Ricoeur dice espressamente riguardo al suo fare filosofia che parte da una prospettiva
cristiana, in riferimento a una rivelazione.
Nel “Conflitto delle interpretazioni” dice Ricoeur: “Il compitro del filosofo si distingue da quello
del teologo in questo senso. La teologia biblica ha per compito di sviluppare il kerigma. … Il
filosofo invece, anche cristiano, ha un compito diverso. Non dico che egli metta tra parentesi
ciò che ha ascoltato e ciò in cui crede, perché come potrebbe filosofare in tale stato di
astrazione su un argomento così essenziale, ne sono del parere che debba subordinare la sua
filosofia alla teologia in un rapporto ancillare (secondo la concezione medioevale philosophia
ancilla theologiae). Tra l’astrazione e la capitolazione c’è lo spazio autonomo che è io
chiamerei approccio filosofico. E assumo approccio nel suo senso approssimativo
intendendo con ciò il lavoro incessante del discorso filosofico di porsi in realzione di
prossimità con il discorso kerigmatico e teologico. Un’operazione che postula insieme
l’ascolto e l’autonomia del pensiero responsabile.”. In altre parole anche il non credente non
può non confrontarsi con un discorso che ha il persuppopsto delal rivelazione. Il filosofo deve
mettersi in ascolto di tutti i linguaggi, anche del linguaggio della fede. La parola di Dio, prima
ancora di esserre tale è parola che interroga l’umanità. Da quel contenuto di fede cerco di
coglierne, anche razionalmente, un contenuto.
Nell’opera “La logica di Gesù”, Ricoeur dice che siamo assetati di certezze, vuole avere
garanzien assolute, invece per trovare se stessi si deve rinunciare a se stessi, chi vuole
guadagnare la propria vita la deve perdere. La morte a se stesso è assumere la
consapevolezza di una ragione che non può presumere l’onnipotenza, come Dio non si è
manifestato nel segno della onnipotenza ma nel segno della onni-debolezza.
20.12.2011

Per parlare della filosofia cristiana partiamo dalla “Fides et ratio” questa enciclica del 1998
che tocca la problematica del rapporto tra fede e ragione e la centralità della sapienza che
nasce dalla rivelazione e come questa sapienza è fonte anche di un cammino di riflessione
umana e prova, la riflessione umana, ad elevarsi a livelli più alti.

141
L’interesse si pone soprattutto nel capitolo V: “gli interventi del magistero in materia filosofica”
dove fa riferimento al primo magistero ufficiale per quanto riguarda questa tematica, di Leone
XIII, in particolare alla lettera-enciclica di Leone XIII del 1879 “Aeterni Patris” dove viene detto
che è stato l’unico documento pontificio di quel livello dedicato interamente alla filosofia.
Mostrando come il pensare filosofico sia un contributo fondamentale per la fede.

Ora, il titolo dell’enciclica di Giovanni Paolo II “Fides et Ratio” non è messo a caso, ha un
significato preciso. I critici di questa enciclica (sia all’interno del mondo credente che al di fuori)
anche quelli del mondo laico e laicista (laico: è un pensiero che non fa riferimenti a autorità di
qualsiasi genere, ma in particolare all’autorità religiosa, è un pensiero che sviluppa se stesso o
autonomamente senza fare richiami o riferimenti a contenuti religiosi, oppure ha comunque
riferimenti a contenuti religiosi ma non da credente. Laicista : è un pensiero che ha anche forte
connotazione polemica spesso nei confronti del pensiero credente, della chiesa e del pensiero
religioso, e assume connotazioni di radicale opposizione. Quindi il pensiero laico è un pensiero
che ha una sua valenza, il pensiero laicista assume connotazioni prettamente ideologiche)
hanno spesso interpretato questa enciclica come “Fides aut ratio”; cioè se sei credente non
sei un uomo libero che usa autonomamente la sua ragione, se sei uomo della ragione non
puoi riferirti a un pensiero credente (è un po’ l’atteggiamento di un tipico illuminismo radicale
che guarda alla religione unicamente come superstizione e alla fede come una rinuncia alla
ragione).
Ma in realtà il papa affermando “fide set ratio” vuole proprio affermare l’opposto di questo, non
sola fides o sola ratio, ma “et”. Non è questione di doppia verità, c’è un unico logos, c’è
un’unica sapienza che viene da Dio.
La fede non è un’equazione razionale, è comunque una scelta.
Ricoeur stesso affronta questa tematica, in particolare quando parla del male dice che il male
provoca un duplice scacco: lo scacco alla ragione (Severino dice che il male come il dolore è
una di quelle cose che l’uomo non riesce a spiegare), non c’è la risposta all’ultimo male che
poi tutti gli altri mali elimina: la morte. Questo è uno scacco alla ragione perché comunque
l’uomo di fronte alla morte è costretto a cedere e qui interviene la fede (con Gesù Cristo che ci
dice che la morte non è l’ultima parola sulla vita perchè c’è la resurrezione e la vita eterna),
questa è la vera sconfitta della morte, che però si colloca nella dimensione della fede.
La ratio che comunque nella fides trova il suo completamento, ma la ratio da sola, di fronte a
queste domande radicali (come quella della morte) subisce uno scacco, una sconfitta. Il
secondo scacco: il male è scacco anche alla fede, cioè se io credo che Dio è misericordioso

142
padre onnipotente lo faccio perché ne sono convinto, ma se poi mi rapporto alla vita reale e
vedo come i suoi figli, anche quelli che credono in lui vivono e sono trattati, allora mi domando
come mai, come si può parlare di Dio misericordioso di fronte al male e alla sofferenza. Di
fronte allo scacco della fede la risposta è Gesù Cristo, è la sapienza della croce che mette in
discussione ogni altra sapienza e qui veramente è la fides che da la risposta ultima che è però
obbedienza della fede, mi affido e confido. Questa risposta allora, non è più puramente
filosofica, ma è una risposta credente; ecco la fides che non è semplicemente una risposta di
tipo razionale, ma questo non vuol dire che sia irrazionale o superstizione, vuol dire che si
colloca in un’altra dimensione.

Inoltre il titolo è “Fides et Ratio” e non “Ratio et Fides”. Qui ritroviamo Agostino e Anselmo:
credo ut intelligam (Fides et Ratio); da qui possiamo vedere che anche da un punto di vista
umano, nella stessa nostra esistenza, la fides precede comunque ogni tipo di sviluppo della
ragione: se io non credessi che il m0ndo ha una struttura razionale la scienza non avrebbe
senso; la scienza è fondamentalmente basata su un atto di fede e fiducia. L’altra parte
dell’affermazione di Agostino è: intelligo ut credam (Ratio et Fides) dove la ratio è quella
precondizione che mi dice che poi l’atto di fede non è un atto irrazionale ma ha una sua
ragionevolezza. L’intelligo u credam è quel fare filosofia in accordo con la fede.

Al numero 59 dell’enciclica viene citato Antonio Rosmini di cui parleremo dopo. Inoltre, anche
dai maestri del sospetto si può trarre un contributo per la nostra fede: forse non è possibile
trarlo direttamente da un punto di vista teoretico, ma se ne può trarre ad esempio per una
purificazione della nostra fede che non è detto che non sia condizionata da presupposti
ideologici, o da interessi di classe.

Tutto questo discorso (attenzione della chiesa nei confronti del pensiero filosofico), il modo in
cui la chiesa affronta il pensiero filosofico è un po’ dialettico, nel senso che: se ci si trova di
fronte a forme di razionalismo e immanentismo assoluto, la chiesa stimola al recupero e al
ritorno alla fede perché la ragione da sola non ci da risposte adeguate; laddove invece si
deprime la ragione la chiesa afferma di non cadere nel fideismo, bisogna prestare attenzione.
Come affermava Agostino: una fede che non pensa non è una fede perché non rispetta l’uomo
nella sua integralità e l’uomo ha bisogno di entrambe. Allora laddove si mette l’accento su una
forma di fideismo o sentimentalismo religioso il magistero ecclesiale stimola a recuperare l’uso
della ragione (in nome della pienezza dell’uomo) e questo valeva anche per l’Aeterni Patris
perché nel periodo di Leone XIII dove da un lato c’era l’affermazione del razionalismo, del

143
positivismo ecc; dall’altro c’erano però anche tendenze di tipo fideistico, e di fronte a queste
forme il papa dice: attenzione la fede deve avere quel rapporto di amicizia con la ragione.

L’enciclica Aeterni Patris indubbiamente ha provocato una rinascita di studi e di dibattito


filosofico all’interno della chiesa e questo dibattito in realtà ha prodotto due filoni fondamentali:
1. Quello più consistente e accreditato all’interno delle università teologiche ed è il filone
del neo-tomismo o più genericamente possiamo parlare della neo-scolastica (nella
quale ci rientra sia Bonaventura sia Scoto che Tommaso) però se l’enciclica rilancia
tutta la filosofia medievale, in particolare quella che maggiormente accredita è quella di
Tommaso. E di cui l’esponente più importante e significativo è Maritain.
2. Anche questo secondo filone dello spiritualismo ha avuto grande importanza e anche
ricadute su altri fronti ed ha le sue radici in Francia nella II metà dell’800.
Ora, spiritualismo è un termine molto generico e per certi versi ambiguo; spiritualismo
significava dare la centralità alla coscienza umana, allo spirito umano, cioè si parte dall’io.
Questo filone dal punto di vista cristiano si muove nell’orizzonte di Agostino, così come si rifà
all’io Cartesiano e all’io di Pascal (altra faccia della centralità dell’io nella tradizione filosofica
francese).

Mentre il tomismo poneva la centralità nell’essere, quindi l’aspetto metafisico, sistematizzato in


categorie metafisiche da cui poi si passa all’io; lo spiritualismo fa il processo inverso: parte dal
soggetto, dall’io e partendo dall’io poi si apre alla trascendenza che però non viene del tutto
categorizzata in formule precise e chiare, ma resta il senso anche del mistero che trova poi
nella risposta della fede il suo pieno compimento e adempimento.
Lo spiritualismo, inoltre, troverà ricadute in particolare nel filone filosofico del personalismo. Il
termine personalismo da una maggiore concretezza al termine spiritualismo perché con il
termine spiritualismo si fa riferimento ad un puro dato coscienziale; con il termine personalismo
si da attenzione a tutto l’essere del soggetto, alla totalità del soggetto che non soltanto è
coscienza ma anche sensibilità, volontà ecc. ma il punto di contatto dei due filoni (spiritualismo
e personalismo) è che comunque si parte dal soggetto e non dall’essere.

Rosmini
Rosmini è precedente alla Aeterni Patris però si inserisce in quel filone di ripresa del pensiero
cristiano che la Aeterni Patris ha sollecitato e in qualche modo Rosmini è vicino alla visione
dello Spiritualismo, o meglio, si muove più nell’area della centralità della coscienza. Ma la

144
centralità della coscienza in Rosmini (e qui coniuga tradizione Agostiniana con quella Tomista)
è abitata dall’idea dell’essere. Si parte dalla coscienza ma questa coscienza è abitata
dall’idea dell’essere che ne costituisce la sua struttura sia di carattere critico, quindi
conoscitivo, sia di carattere metafisico, la struttura.

Rosmini (1797-1855) è una personalità ricca e per certi aspetti problematica.


Un’opera importante è “le 5 piaghe della chiesa” che fu letta dalla critica del tempo ed in
particolare dalla santa inquisizione come qualcosa che andava contro la chiesa, ma in realtà
era un atto di amore per la chiesa che doveva essere, appunto, curata dalle sue 5 piaghe.
Rosmini era un religioso e da un punto di vista politico rilevante fu la sua figura: puntava
all’unità di Italia che però, secondo lui, doveva essere fatta con il papa. Si colloca nei
cosiddetti cattolici liberali che, appunto volevano l’unità in comunione con il papa. Fu inviato
dal governo piemontese come ambasciatore in trattativa con il papa.
Questo accenno alle vicende politiche è importante perché era proprio di Rosmini fare il
dialogo tra le culture (rifiuto dell’aut-aut) anche se non nel senso di et-et. Qualcuno dice che
in qualche modo Rosmini fece come Tommaso quando utilizzò una filosofia (Aristotele) quale
struttura di fondo del suo pensiero, ed è da tener presente che Aristotele era percepito come
un filosofo razionalista, materialista, ateo e quindi Tommaso fece un’operazione rischiosa e
coraggiosa. La stessa operazione la tenta Rosmini e ovviamente la tenta con la cultura del
proprio tempo e in particolare con la cultura ispirata a Kant.
In Italia Gioberti aveva invece assunto Hegel come riferimento per l’elaborazione della sua
filosofia e per il dialogo con la fede cristiana.
Rosmini invece assume Kant. In questo momento era in corso un dibattito filosofico legato
all’origine delle idee e Rosmini si muove in questo dibattito e vuole recuperare sia la tradizione
metafisica propria anche della tradizione cristiana in particolare quella aristotelico-tomista, sia
la tradizione platonico-agostiniana, quindi in qualche modo coniugare Tommaso e Agostino
(anche qui vediamo il dialogo tra le culture) e sia soprattutto questa tradizione anche filosofica
del pensiero cristiano da coniugare con la cultura moderna, e la cultura moderna impersonata
in questo caso da Kant.
Secondo Rosmini dal punto di vista dell’origine delle idee bisognava evitare 2 scogli:
1. Il razionalismo deduttivi stico (Cartesio) che pone nella ragione l’unica fonte della
conoscenza
2. Empirismo che si ferma e parte unicamente dai fenomeni.

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Comunque sia il razionalismo che l’empirismo sono filosofie soggettivistiche; la prima perché
non tiene conto dell’essere, parte semplicemente dalla ragione e deduce le categorie della
ragione; la seconda rimane unicamente legato alle percezioni soggettive del conoscente e
quindi rimane un fenomenismo soggettivistico. Sostanzialmente era lo stesso problema di Kant
che tra i due fa quella sintesi per cui da una parte abbiamo le categorie a priori (forme ma
prive di contenuto, senza materia), dall’altro canto invece abbiamo materia ma senza forma.
La stessa operazione fa Rosmini ma con una differenza fondamentale rispetto a Kant: Rosmini
parla di un triplice essere:
 Essere IDEALE
 Essere REALE
 Essere MORALE

Iil termine ideale non deve essere pensato in termini trascendenti, cioè l’essere verso cui
dobbiamo andare, è l’idea dell’essere. Ora, secondo Rosmini in realtà l’io è abitato da
un’unica idea. Mentre Kant ne aveva elaborate 12 (le 12 categorie a priori), per Rosmini in
realtà esiste un'unica idea che è quella dell’essere, che abita da sempre, dunque è innata,
abita in tutti dunque è universale (sono le caratteristiche delle categorie kantiane) che è intuita
dalla mente umana (non nel contenuto ma nella forma) perché appunto è intrinseca alla mente
umana.

21/12/2011
Luce = SOGGETTO = trascendentale
ESSERE
- innato 1) ideale
- intuito 2) reale
- trascendente/trascendentale 3) morale
- forma e contenuto
- universale

Soggetto e essere si implicano. Il soggetto è abitato fontalmente e fondamentalmente


dall’essere che è inteso in senso ideale; il soggetto è abitato dall’dea dell’essere. La categoria
a-priori fondamentale e fondante è kantianamente l’io trascendentale, non è semplicemente
l’io empirico. Al di là delle personali concretizzazioni del soggetto empirico, l’uomo in quanto
tale è abitato dall’idea dell’essere che prende luce nel soggetto. Il soggetto è luce, è la luce

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che fa vedere l’essere, permette di vedere l’essere. Al tempo stesso l’essere dà il fondamento
al soggetto. Significa che questo non sarebbe tale se non avesse l’actus essendi (per dirla in
termini tomistici), se non avesse in sé l’esser. Ma l’essere non nasce dal sogegtto, dà al
soggetto la sua conistenza ma non nasce dal soggetto. Rosmini cerca di coniugare il
trascendentalismo kantiano con l’ontologsmo tomista. L’essere non è una semplice idea che
abita il soggetto, ma lo stesso essere è ciò che dà conistenza al soggetto.
Allora ecco che c’è forma e contenuto: l’idea di essere non è semplicemenet un aforma a-
priorri com ele categorie kantiane ma quell’idea di essere è già un contenuto ontologico che dà
consistenza al soggetto. C’è questa circolarità: l’essere viene alla luce nel soggetto ma è
l’essere che dà consistenza al soggetto.
Qui Rosmini è molto biblico: se non ci fosse l’uomo che riconosce l’essere questo non avrebbe
voce, non esisterebbe; l’immagine di Adamo che dà il nome significa dare consistenza
all’essere, è riconoscerlo come essere. È nel soggetto che viene a consapevolezza l’essere.
Questo è importante per Rosmini anche sul piano della morale perché l’essere per eccellenza
è la persona. È la persona che dà coscienza all’essere e quindi è nella persona che l’essere
diventa la parola che porta all’evidenza ogni altro ente. È l’uomo che riconosce l’essere e
quindi è l’uomo che dà valore all’essere. È nel soggetto che viene alla luce la verità.
Ecco allora il soggetto trascendentale e l’essere. Il soggetto trascendentale porta alla luce
l’essere ma non fonda l’essere, è l’essere che fonda il soggetto. Se io dico che è il soggetto
che inventa la legge morale, dico che il soggetto è il luogo in cui viene alla luce la legge morale
ma non è il soggetto che fonda la legge morale. Così qui Rosmini dice che non è il sogegtto
trascendentale che fonda l’essere.
Mentre Husserl non si pronuncia su questo, Rosmini dice chiaramente che l’essere non è
prodotto del soggetto, viene a coscienza nel soggetto. L’essere è trascendente e al contempo
trascendentale. Trascendentale vuol dire che prende consapevolezza di sé attraverso il
soggetto.Trascendente vuol dire che però non è fondato dal soggetto, è al di sopra e al di
fuori del soggetto, e quindi ha una consistenza ontologica che viene alla luce all’interno del
soggetto ma non è fondato e creato dal soggetto.
L’essere può coincidere con l’idea di Dio? Si e no. No perché per Rosmini Dio non è un’idea
ma una realtà. Ma la risposta è anche si (e in questo è agostiniano). Questa idea dell’essere
che abita il soggetto umano è universale, è trascendente (va al dilà delle consapevolezze
concrete, storiche del soggetto umano che è limiatto) oltre che trascendentale, quindi il
soggetto che è finito e limitato non può essersela data, è talmente universale che qualcuno
deve averla immessa in lui. Dal momento che quest’aidea è universale ed abbraccia tutta la

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eraltà vuol dire che nel sogggetto quest’idea è stata immessa da Dio. Rosmini dimostra
l’esistenza di Dio a partire dal soggetto umano. Il tomosmo parte dal reale per risalire a Dio (le
cinque vie), nella cultura moderna si parte dal soggetto, dall’io per risalire all’essere.
Rosmini è un’antesignano di queste correnti filosofiche, a partire dal soggetto abitato
dall’essere si può risalire all’essere trascendente in quanto tale. Questa è la via antropologica
alla metafisica. Il soggetto è abitrtato dall’idea dell’essere, questo Rosmini lo chiama essere
ideale.
Come si realizza la conoscenza? Dice Rosmini che dall’idea dell’essere derivano le idee pure
o categorie (di identità, contarddizione, sostsnza, causa, ecc.) che servono alla costruzione
della conoscenza del reale. L’essere reale sono gli enti, le realtà con cui abbiamo ache fare, è
anche Dio (non è solo un’idea) perché dal punto di vista conoscitivo per l’uomo Dio è un
essere reale. Essere e idea, essere e soggetto, in Dio coincidono. Nella filosofia c’è la
domanda di Dio ma non c’è la conoscenza concreta di Dio che avviene attraverso la
rivelazione di cui la teologia deve esplicitare i contenuti e approfondire le categorie. La
conoscenza vera e propria avviene con la teologia, la filosofia rimane sulla soglia.
La conoscenza avviene attraverso l’incontro fra l’essere ideale e l’essere reale, cioè gli
enti che incontriamo (qui Rosmini è kantiano).
L’idea dell’essere è innata, non si acquisisce attraverso l’esperienza, in questo senso è
trascendentale ed è anche intuita nel senso che è un atto di presa immediata del soggetto,
non è il risultato di una deduzione logica o di un ragionamento. È logico che Rosmini parla da
filosofo, colui che porta alla luce con un atto di introspezione, coglie questa presenza in
maniera intuitiva. L’ultimo termine è universale vuol dire che è propria dell’uomo in quanto
tale, è il concetto kantiano delle categorie.
Di Rosmini va sottolineato l’atteggiamento dialogico tra le culture, lo sforzo di coniugare
l’antichità con la modernità (si parte dal soggetto), la soggettività con la metafisica. Rosmini si
muove nell’orizzonte di Kant, l’orizzonte del soggetto è il mediatore dell’essere ma a questa
idea di essere dà una conistenza ontologica, non è solo forma ma anche contenuto. Dal
soggetto si risale a Dio, è la via moderna alla metafisica. Anche Maritain si muove su questo
orizzonte e dice che “il soggetto è intenzionalmente orientato verso l’essere”, cioè verso
l’oggettività. Non è un soggetto che detta le leggi all’essere ma c’è un’apertura verso l’essere
però a partire dal soggetto.
Dal punto di vista della conoscenza in Rosmini lo hema è kantiano. La conoscenza è un
giudicare in cui intervengono due elementi: l’elemento invariabile, che è l’idea l’essere, e
l’elelemnto mutevole che sono i contenuti degli enti, le realtà conosciute. La conoscenza di

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queste realtà passa attraverso le tradizionali vie della conoscenza.. Rosmini parla di
sentimento fondamentale con riferimento alla percezione sensibile, è la nostra corporeità,
sensibilità che ci mette in realzione con gli enti. Ogni conoscenza inizia dall’esperienza ma non
finisce con l’esperienza perché poi c’è la riflessione e la deduzione. I gradi della conoscenza
sono percezione, concettualizzazione e deduzione logica secondo lo schema classico. La
percezione sensoriale non può esserci per ler realtà soprannaturali, per queste interviene la
deduzione logica, il ragionamento. Quello che non è del tutto tradizionale è definire la
conoscenza in termini kantiani come sintesi a-priori, come sintesi fra l’idea dell’essere e i
contenuti che nascono dal sentimento corporeo e via scendendo verso la deduzione razionale.
Ecco l’essere reale.
Il rapporto tra filosofia e teologia. Per Rosmini la filosofia è scienza della sapienza, cioè
scienza delle ragioni ultime dell’idea dell’essere e del fondamento ultimo dell’idea. L’opera
fondamentale è “Teosofia”: L’idea dell’essere in sé è inattingibile (è a maggior ragione Dio),
nella sua struttura di fondo è già intuita ma non ne ho la esplicitazione, si arricchisce nel
contatto con il reale. L’uomo non può sapere come è Dio, può sapere solo che è una vita
travalicante l’umana intelligenza. La filosofia si ferma sulla soglia, oltre si va attraverso la
rivelazione.
La teologia a sua volta va distinta dalla religione, la prima è scienza, la seconda è azione e
culto. La distinzione non è separazione. La teologia dà le categorie ma non può sostituire la
preghiera e il culto e se vogliamo gli aspetti emotivi. Il teologo conosce le dottrine intorno a Dio
e l’uomo religioso vi conforma la vita.
Veniamo all’essere morale. Rosmini riprende alcune categorie kantiane, soprattutto
l’imperativo categorico che per Kant è l’io che deve seguire se stesso, l’autonomia della
volontà, il dovere per il dovere, una concezione che per Kant è autocentrata sul soggetto.
Rosmini invece esprime l’imperativo categorico in tre maniere che dicono la stessa cosa:
1) “segui il lume della ragione”. Per Rosmini il lume della ragione è l’essere, quindi significa
segui l’essere ideale, segui l’idea dell’essere;
2) “aderisci a tutto l’essere reale (che è costituito dagli enti)” perché ogni essere reale è
abbracciato dall’idea dell’essere, cioè ogni ente è espressione dell’essere. Qui applica sia
la categoria agostiniana che tomista. Per Tommaso l’essere è uno , è vero e ….Per
Agostino l’essere in quanto tale è bene, il male è privazione d’essere. Ogni ente è bene,
anche il più spregevole.

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3) “ama l’essere ovunque lo conosci in quell’ordine che egli si presenta alla tua intelligenza ”
ovvero “mantieni l’ordine morale”. Ordo essendi e ordo amandi. (ad es. non posso amare il
mio cane più di mia moglie e dei miei figli perché non si rispetta più l’ordine morale).
L’essere reale per eccellenza è, dopo Dio, la persona che è il principio di fondo
dell’agire morale, non soltanto perché è l’elemento coscienziale che porta alla luce l’ordo
essendi e l’ordo amandi ma perché ne diventa il termine di riferimento, sta al centro
dell’agire morale e politico. Sta anche al centro del diritto. Nella “Filosofia del diritto”
Rosmini dice che “la persona ha nella sua stessa natura tutti i costitutivi, essa dunque è il
diritto sussistente, l’essenza stessa del diritto”, perché è nella persona che si manifesta
l’essere.
Rosmini parla di diritti innati (alla giustizia, alla verità, alla felicità), poi ci sono i diritti
derivati connaturali (diritto sul proprio corpo e alla sua conservazione) e di diritti acquisiti
(tra cui il diritto di proprietà).
Da questa concezione morale anche del diritto trae una filosofia politica che ne fa un
filosofo liberale, avverso sia al liberalismo selvaggio (individualismo) che al collettivismo.
Lo stato è anzitutto garante dei diritti innati che deve promuovere. Rosmini è contrario sia
allo statalismo hegeliano che alle ideologie socialiste.
Maritain partecipa al dibattito tenutosi alla Sorbona di Parigi dicendo che è possibile il
rapporto tra filosofia e religione dal momento che la filosofia non è una scienza ma una
sapienza. Tutta la enciclica Fides et ratio parla di filosofia come sapienza, di una ragione
che è aperta alla sapienza. Sapienza attiene anche alle scelte di vita delle persone. Dice
che la filosofia cristiana è un modo di fare filosofia e non una particolare dottrina filosofica.
È un filosofare nella fede (partendo da quel bagaglio di pre-comprensione) e in accordo
con essa. Al riguardo c’è un’opera del 1933, “La filosofia cristiana”.
Distingue fra natura della filosofia come tale, la cui norma immediata è nella ragione, e il
suo stato concreto nel filosofo. Maritain parla di due contributi che vengono dall’essere
credente, uno soggettivo, cioè i contenuti, ed uno soggettivo.

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