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Plato Redivivus

Introduzione: la ricorrenza della metafora platonica del sole nella filosofia Europea – I. Kajon
Nel 1704, Jonathan Swift pubblicò anonimamente un libro che conteneva i suoi scritti satirici sulla questione del
rapporto tra la cultura dei secoli passati e lo spirito dell’età presente: Resoconto di una battaglia tra i libri antichi e
moderni nella Biblioteca di San Giacomo. Vi è in questo testo un aspro dialogo tra un ragno, metafora del moderno, e
un’ape, metafora dell’antico: il primo è ben radicato nel mondo, protetto nel suo nascondiglio, divoratore di insetti; la
seconda, una creatura che vola di fiore in fiore libera nell’aria, lasciando intatto ciò di cui si nutre, produce cera e miele.
Possiamo ipotizzare, tuttavia, che Swift non propendesse per nessuna delle due parti in causa, e fosse piuttosto
favorevole ad un terzo atteggiamento: né gli antichi possono limitarsi a reclamare la loro superiorità sui moderni per
l’eccellenza delle loro opere, né i moderni possono ritenersi migliori degli antichi in nome delle loro conquiste sul piano
della matematica e delle scienze naturali. Swift si fa portavoce di una soluzione intermedia e proficua, facendo sua la
celebre metafora (risalente al XII secolo) degli antichi come giganti che sostengono sulle spalle dei nani che
rappresentano i moderni, i quali proprio per tale elevazione, agili sì, ma minuti e deboli, possono guardare più lontano
dei loro robusti aiutanti. I ragni e le api, pur nell’asimmetria dei ruoli e delle funzioni, dovrebbero trovare dunque un
accordo, senza rinunciare alla tensione che fra di loro inevitabilmente si instaura.
Egli non fu il primo ad esemplificare la lotta fra le inclinazioni umane mediante metafore animali: Bacon in Novum
Organum definiva definiva ragni i dogmatici, formiche gli empirici e api coloro che facevano uso sia della memoria che
dell’intelletto.
Il titolo di Plato redivivus allude al fatto che i saggi qui riuniti, in primo luogo, si riferiscono tutti a quella distinzione
tra il sensibile e l’intellegibile, i fenomeni e noumeni, che per primo Platone ha esposto in maniera insuperabile nei suoi
dialoghi; in secondo luogo, al fatto che gli autori moderni, in questo loro riferimento, interpretano i testi platonici da un
punto di vista peculiare, quello che problematizza nel pensiero di Platone la relazione tra metafisica e etica.
Il concetto di Bene, introdotto nel libro VII della Repubblica, è afferrabile, anche se non definibile, soltanto in una
dimensione diversa da quella che riguarda la conoscenza della natura o la conoscenza di un’oggettività data. Il Bene
indica ciò che rende possibile un’attività rivolta sia verso altri esseri umani, sia verso il mondo, soggetto agente
anch’esso. La metafora del sole (dal quale proviene luce, calore, vita, ma non può essere esso stesso guardato nel suo
fulgore se non a prezzo di oscurarsi la vista) è stata ripresa dalla filosofia Europea in molteplici modi e variazioni, in
quanto allusione a una realtà divina.

Fichte e Schelling di fronte alla crisi dell’argomento ontologico – P. Valenza


Fichte e Schelling si confrontano con l’argomento ontologico nella ricezione della critica kantiana, dimostrando di
condividere come nozione centrale quella dell’esistenza, seppur in termini molto diversi: per Fichte l’esistenza è quella
del soggetto morale, e quindi in lui appare compiersi la trasformazione in chiave etica della metafisica; in Schelling
l’esistenza è quella condizione entro la quale soltanto si può dare il soggetto ed è pensabile l’etica.

Fichte: la critica alle prove dell’esistenza di Dio:


Fichte tratta le prove dell’esistenza di Dio e introduce l’identificazione di Dio con l’ordine morale del mondo, l’idea
centrale del capovolgimento etico dell’impossibilità di pensare Dio se nono esistente.
-Prova geometrica: Cartesio deduce dal pensiero dell’essere realissimo la realtà dello stesso. Qui però il sofisma
risiede nel fatto che l’essere deve essere una proprietà mentre è solo il sostrato di ogni proprietà. Fichte contesta la
possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio a partire dall’essere realissimo o a partire dall’esistenza del mondo e quindi
di Dio come causa ultima.
-Prova a posteriori: non si può pensare una serie infinita di cause, si deve perciò supporne un’ultima e questa è Dio.
Ma nessuno chiarifica dove ci sei debba fermare, potremmo continuare ad indagare chiedendoci quale sia la casa di Dio.
Per Fichte, non c’è accidentalità nella totalità del mondo, ci sono leggi di natura che non rimandano a una causa prima.
-Prova morale: Fichte critica il modo in cui Platner restituisce la prova kantiana. La prova è così sintetizzata da Fichte:
kant considera il mondo e trova che esso sia orientato in modo tale che il fine sia la massima moralità possibile ecco
perché esso deve avere un autore morale. Fichte obietta che la prova morale in questo modo è mal costruita. Per Kant,
infatti, il mondo non può essere un sistema della moralità e non può divenirlo; il mondo come sistema morale è un’idea
irraggiungibile, un postulato (in Kant la realizzazione della moralità è irraggiungibile). L’errore è quindi nell’assumere
il mondo morale come una realtà e non come un compito, un fine.
A partire da questa critica Fichte formula la sua idea di Dio come ordine morale del mondo: com’è certo che debbo
agire, debbo presupporre un mondo nel quale agisco. L’uomo formato vuole soltanto far valere un fine razionale che
sia realizzabile. E’ la stessa cosa se dico che il fine della ragione è possibile e che c’è un Dio: ordine morale del mondo
e Dio sono una stessa cosa. Ciò non può essere determinato ulteriormente perché non è affare del pensiero, ma della
fede del cuore. Fichte parrebbe farne addirittura una sorta di asserzione che non comporta ragioni: egli parla infatti di
<<fede del cuore>> che è strettamente connaturata al nostro essere.

L’ordine morale del mondo come l’assolutamente esistente:


Fichte distingue l’approccio della coscienza che definisce “comune” e il punto di vista trascendentale:
Con punto di vista trascendentale qualifica la sua stessa filosofia come ciò che definisce le modalità di conoscenza.
“Non si ha a che fare con un mondo che esiste per sé: in tutto quello che contempliamo vediamo semplicemente il
riflesso della nostra attività interiore, del nostro io”; quindi il mondo non è un assoluto, né frutto di causalità.
Per il punto di vista della coscienza comune o della scienza naturale il mondo è un assoluto; “il mondo è
semplicemente perché è, ed è così semplicemente perché è così”. Rispetto a questa assolutezza, la ricerca di una
spiegazione è, conseguentemente, un’assurdità.
Fichte definisce compito del filosofo una “deduzione del convincimento del credente”: la deduzione è diversa dalla
dimostrazione. Per il filosofo, dimostrare equivale a negare la natura di principio a ciò che si dimostra. Ciò non significa
che la sua fede sia irrazionale, anzi: l’accezione di fede del filosofo dimostra d’essere fondata sulla ragione.
Il mondo come riflesso dell’attività interiore indica la strada per Fichte: non c’è modo di risalire dal finito all’infinito,
ma questa stessa idea di infinito è in noi come quella di Dio. La stessa ricerca di una causa sovrasensibile a partire dal
finito non si spiega se non in presenza di questa idea: mediante l’idea del soprasensibile verrebbe giustificata la fede.
Fichte introduce l’idea di un “ordine morale”: per via naturale il passaggio al soprasensibile appare implausibile;
appare come possibile, invece, se si pensa a un ordine morale presupposto che abbia a che fare con il punto di vista
trascendentale che vede il mondo come riflesso dell’attività interiore di ognuno.
Il filosofo introduce il problema di come l’io principio di spiegazione sia connesso col mondo soprasensibile: io mi
trovo libero da ogni influsso del mondo sensibile, attivo in me stesso e per me stesso, come una potenza elevata al di
sopra del sensibile. Ma questa libertà non è indeterminata; ha un suo fine, non lo riceve daqll’esterno, ma è essa stessa
a porlo. Io stesso e il mio fine necessario costituiamo il soprasensibile. Vi è il dualismo radicale tra natura (sensibile) e
libertà (soprasensibile), necessità e ordine morale.
Per la necessità della posizione del fine, ci si può riferire alla visione anche di Kant per cui l’essere attivo non può che
essere diretto a un fine; questo fine, però, nel momento in cui si forma il concetto di Sommo Bene, non è il fine
soggettivo, ma è il fare la creazione buona, cioè il fine compatibile con l’universalità della Legge Morale.
“Di questa libertà e di questa sua destinazione io non posso dubitare senza darmi per spacciato”: Sono libero di
dubitare della mia libertà, senza però la possibilità di evitarne le conseguenze: “darmi per spacciato”, smettere di essere
uomo. La libertà, come in Kant, è ciò che definisce la natura umana in termini di non natura, cioè di qualcosa che non
può essere determinato e che esce dalla catena delle necessità.”
La libertà è alla base della mia convinzione di essere libero. Convinzione, in questa accezione, e fede sono la stessa
cosa; se questa convinzione è il punto di partenza di tutto ciò che conosco, si capisce l’affermazione di Fichte:
“l’elemento di ogni certezza è la fede”. Fede è quel conoscere che è nella luce e in dipendenza del pieno riconoscimento
del mio essere libero.
La nostra libertà è soggettiva, mentre l’ordine morale è oggettivo: la piena accettazione della nostra libertà ci inserisce
in questa realtà di Dio come ordine morale del mondo. Dio come ordine morale del mondo esprime innanzitutto la via
d’accesso a questo ordine, poi un progresso con risultato positivo, infine, un’efficacia dell’intenzione morale.
Ne La destinazione dell’uomo Fichte dall’idea di volontà come intenzione e azione nel mondo sensibile, attraverso
l’idea di legge come ciò che definisce le relazioni e le conseguenze sul piano sovrasensibile delle intenzioni, approda
all’idea di Dio come volontà. Si possono fissare due idee su questa comprensione di Dio:
1. Lo sganciamento di quest’idea di Dio dalla consistenza e permanenza di un essere sussistente per sé e immobile:
assistiamo così alla trasformazione dall’ontologia all’etica sulla spinta della rivoluzione kantiana;
2. Il rapporto finito-infinito, il passaggio per la creazione va messo in relazione con la nostra finitezza.

Schelling: la critica alle prove dell’esistenza di Dio in Filosofia e religione


Nello scritto Filosofia e religione del 1804, Schelling dà una sinteticissima descrizione dei contenuti della filosofia.
Usa l’espressione “misteri” perché, all’origine della storia, filosofia e religione hanno condiviso lo stesso contenuto
esoterico, e la decadenza consiste proprio in una popolarizzazione di questi contenuti che ha riguardato la religione e
poi anche la filosofia. Il mistero contiene un’autenticità che va ripristinata. Il contenuto della filosofia: “I veri misteri
della filosofia hanno come contenuto supremo, anzi unico, oltre alla dottrina dell’assoluto, quella della nascita eterna
delle cose e del loro rapporto con Dio; l’intera etica, come avviamento a una vita beata, si fonda su questa dottrina e
ne è conseguenza. Questa dottrina, separata dall’insieme della filosofia, potrebbe chiamarsi filosofia della natura”.
L’etica rientra nell’ambito dei misteri, tuttavia, si fonda su altre due dottrine: quella dell’Assoluto e della nascita delle
cose da Dio: assistiamo a un rovesciamento rispetto alla radicalizzazione fichtiana del primato dell’etica, la gerarchia
delle dottrine metafisiche appare rovesciata: l’etica è causa della “filosofia della natura”.
Per Fichte era l’esistenza morale, per Schelling era l’eistenza in sé stessa che andava colta nella sua assolutezza.
Nell’opera, poi, viene dato conto della finitezza nella sua natura fisica, nelle sue condizioni spazio-temporali, fino al
concetto di “egoità” : la chiave per pensare come questa finitezza possa ricongiungersi all’assoluto dal quale proviene
Fichte afferma che l’egoità è solamente atto di sé stessa, agire suo proprio, non è nulla se si prescinde da questo agire; è
solo per sé stessa non in sé stessa. Egli indaga il nulla della finitezza che ricava dalla sua stessa teoria a partire dal
soggetto che è l’unico agente, e che fa da cerniera fra il mondo reale e l’ordine morale del mondo.
Schelling, invece, era preoccupato di restituire una modalità di coniugazione fra finitezza e Assoluto, e anzi convinto
che tramite un movimento interno nell’anima sia possibile questa connessione con l’assoluto (intuizione).
L’assolutezza dell’esistenza e la sua intuizione in Schelling:
L’intuizione intellettuale è una conoscenza che costituisce l’insè dell’anima stessa. Si chiama intuizione perché
l’essenza dell’anima – che coincide con l’assoluto – non può avere con l’Assoluto altro che un rapporto immediato.
Se per Anima egli intendeva il soggetto, allora il soggetto coinciderebbe immediatamente con l’Assoluto.
L’unico organo adeguato a un soggetto quale l’assoluto è una forma altrettanto assoluta di conoscenza che l’anima
non acquista dal di fuori – educazione, insegnamento – ma costituisce la sua vera sostanza eterna. L’essenza di Dio
consiste in una idealità assoluta, conoscibile solo immediatamente, e, come tale è assoluta realtà, cos’ come l’essenza
dell’anima consiste nella conoscenza che coincide con l’assolutamente reale, e quindi con Dio.
Vi è qui l’idea dell’identità fra “idealità assoluta” e “realtà assoluta”. Inoltre, la conoscenza viene presentata come una
forma di innatismo che è alla base dell’anima stessa; possiamo intenderla come un raccoglimento dell’anima che rientra
in sé stessa: in questo atto l’anima è un essere che fa tutt’uno con l’assolutamente reale.
Solo la verità fa conoscere il vero, l’evidenza l’evidente; ma verità e evidenza sono chiare per sé stesse, sono quindi
assolute, l’essenza di Dio. L’Assoluto è la fonte di conoscenza, in quanto è ideal-reale, acquisibile immediatamente.
La vera filosofia consiste nella dimostrazione che l’identità assoluta (l’infinito) non è mai uscita fuori di se stessa, e
tutto ciò che è, in quanto è, sia l’infinità stessa. “Non uscir da se stessi”: l’assoluto è determinato invariabilmente come
indifferenza totale. Con il singolo, immediatamente, si pone anche il tutto.

La scoperta del “vero Platone” in alcuni pensatori tedeschi del XX secolo – I. Kajon
In un libro su Platone e la storia del platonismo, James K. Feibleman mostrò come due filosofie e due religioni, molto
differenti fra loro, coesistessero nel lavoro di Platone:
-IDEALISMO: collegato al culto di Orfeo e Dioniso. Il mondo sensibile è separato da quello ideale.
L’uomo è un essere che considera la sua vita reale nell’infinito: aspira all’immortalità.
La tendenza etica è l’ascetismo: la ragione è vista come moderatrice di impulsi naturali, sentimenti ed emozioni.
-REALISMO: connesso al culto Ctonico o agli dei olimpici (personificazione di forze naturali o di qualità morali).
L’uomo è qui visto come un essere che poteva raggiungere l’infinito solo nel finito, come un essere sociale che esercita
la giustizia e la pietà. Il mondo ideale costituisce la misura etica del mondo sensibile, un mondo intellettuale che
culmina con l’idea del Bene. La tendenza etica è la moderazione; la ragione è la loro guida e adempimento.

Nella tradizione platonica prevalente, la ragione è stata capace di unirsi alla fede in verità sovrannaturali rivelate.
Nella tradizione platonica meno cospicua, la ragione, ispiratrice di buona condotta, è l’unica fonte di verità.
Dal punto di vista di Feibleman, il pensiero odierno è tornato al “vero platonismo”, il quale doveva abbandonare ogni
forma di misticismo e di scientismo, entrambi in nome della finitezza dell’uomo e della possibilità di raggiungere
l’eterno tramite l’etica. In questo modo si sarebbero difese la tolleranza, la pace tra le religioni, l’indipendenza dello
stato dalla religione, le radici etiche della politica e l’autonomia della scienza.
Feibleman ha presentato la sua ricerca come uno sviluppo del pensiero di Klibansky nel suo libro La continuità della
tradizione platonica durante il medioevo (Londra, 1939): egli scrive che Klibansky ha fatto bene ad attirare l’attenzione
ad una corrente di pensiero platonica esoterica. Klibansky veniva da una famiglia ebraica residente in Germania; egli
era cosciente della connessione tra la sua tradizione platonica e i più profondi bisogni espressi tramite le credenze
filosofiche o religiose della modernità, centrate sull’idea dell’uomo come un essere razionale e morale (bisogno di
giustizia, libertà di coscienza e pace).

Hermann Cohen: dal Platonismo logico al Platonismo etico


Cohen descrive Platone come il filosofo che, influenzato dall’arte greca, ha determinato per primo l’idea del tutto come
“visione” o immagine: la produzione di idee non è dovuta alla mente o all’intelligenza, ma all’”immaginazione mitica”
che non distingue fra ciò che è pensato e ciò che è visto. Secondo questa teoria non c’è contrasto tra forma e contenuto,
spirito e natura, soggettivo e oggettivo. Il platonismo appare a Cohen come una celebrazione della ragione teoretica,
logica e delle procedure matematiche che sono alla base di tutte le scienze.
Platone introduce una separazione netta fra il mondo della percezione (sensibile) e quello dell’intelletto, vedendo solo
nel secondo lo strumento che può procurare all’uomo la verità e la certezza del sapere; lui afferra l’infinito carattere del
pensiero, deducendo la forma finita del pensiero. E’ il fondatore dell’idealismo scientifico.
E’ la logica, secondo Platone, a porre le basi dell’etica: il Sollen (dover essere) è un semplice sviluppo di quel Sein
(essere) che è immanente nella scienza come struttura intellettuale.
Cohen, nel suo Fondazione dell’etica di kant, traccia la connessione tra il problema del sapere e quello della morale, tra
i principi etici e scientifici, tra l’essere ideale del Sein e l’essere ideale del Sollen. Nozione di bene: l’idea di bene è la
più alta e significante espressione del valore critico della teoria delle idee. L’espressione ambigua “oltre l’essere”
denota la relazione tra il problema dell’etica e la speculazione sul concetto di essere.
La transizione di Platone dalla riflessione sulle condizioni su cui l’oggettività della scienza è fondata alle condizioni su
cui l’oggettività dell’etica è fondata, secondo Cohen, riappare in modo identico in Kant; così come la dottrina delle idee
porta all’idea del Bene, così nell’idealismo critico le categorie portano alle idee; e tute e tre le categorie (libertà,
immortalità dell’anima e Dio) unite nell’idea della libertà, erigono la pietra miliare dell’esperienza e costruiscono il
Regno dell’Essere, un regno in cui ciò che è reale è ciò che deve essere.

Cohen ritiene Kant un discepolo di Platone per il suo estendere la facoltà teoretica del puro pensiero nella facoltà pratica
della pura volontà.
Nel 1917-18 completò la scrittura di Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, il lavoro in cui ha esposto la sua
etica e la sua filosofia della religione, usando parole ebraiche come forme di espressione.
Conseguentemente la sua interpretazione di Platone cambiò: non è più visto come il fautore di un idealismo logico e del
sistema filosofico costruito sulla logica, ma come il filosofo di una visione etica centrata sull’idea del Bene.
Il bene non è più la conseguenza e lo sviluppo di idee del sapere scientifico, ma va oltre queste idee, oltre ogni
dimensione che rimane legata ai fenomeni naturali. Il bene è oltre la logica: non necessita di essa per essere raggiunta.

Platone è ora caratterizzato come un pensatore che vede gli uomini come esseri finiti, che vivono nel tempo, distanti dal
divino, ma allo stesso tempo un essere che raggiunge il divino: l’infinito si apre nel sapere etico di Dio.
Anche se Platone apparteneva alla cultura greca, Cohen ora coglie le affinità fra la filosofia di Platone dell’etica e la
dottrina ebraica di Dio: entrambe affermano la visione dell’uomo come essere legato ai suoi affini, prima di tutto nello
spirito etico o nella ragione, nella mitezza e nella condivisione della sofferenza. La ragione può riconoscere una sola
modalità dell’essere, e anche una sola modalità di Dio.
Cohen afferma che Platone fu l’unico pensatore prima di Kant ad asserire il primato dell’etica, e fondò l’intera umana
cultura nello spirito della santità, che include la socialità e la giustizia; l’uomo vive nella dimensione etica.

Franz Rosezweig: Platone come un pensatore della Totalità – come pensatore dell’esistenza
Rosezweig fu allievo di Cohen. Nella stella della redenzione, interpretava Platone molto tradizionalmente, come il
pensatore che fondò la realtà sulle idee, cercando di trovare l’unità dell’essere, quindi indicando il mondo delle idee
come la vera dimora degli uomini. Ma è anche vero che a un certo punto della Stella egli traccia il contorno di un
Platone vicino alla questione dell’esistenza, alla finitezza dell’uomo, all’azione morale in presenza
dell’imperscrutabilità del futuro. Rosezweig certamente incluse Platone nella storia della filosofia come storia
dell’idealismo. La prima immagine di Platone emerge in quelle pagine della Stella che si occupavano del collegamento
fra idealismo e arte: egli spiega come il campo dell’arte sia il terreno di prova per la corrispondenza tra il pensiero e
l’essere, che è il tema centrale dell’idealismo. L’idealismo, per Rosezweig, particolarmente dal rinascimento, esalta sia
la bellezza come un felice equilibrio fra spirito e realtà, sia l’arte come la costruzione di un’oggettività che non è aliena
e opaca, ma vivente e ricca di significato. Platone, nella sua visione, fu il primo filosofo che, nonostante enfatizzasse
più il lato oggettivo che non quello soggettivo della bellezza, tracciò i contorni di una teoria della attività artistica e dei
suoi prodotti: realizzò come l’idealismo fosse centrato nell’estetica da dove traeva i suoi argomenti più persuasivi.
C’è una linea continua da Platone fino all’idealismo del XIX secolo: il mondo della bellezza ha rimpiazzato il mondo
reale, frutto delle idee che sostituiscono le cose, e una falsa oggettività ha rimpiazzato quella concreta. Il tutto delle idee
ha assorbito la variegata molteplicità delle cose e persone.
La seconda immagine di Platone (di un pensatore anti-idealista che era conscio del fatto che il pensiero non potesse
comprendere in sé la vera realtà e che tra il finito e l’infinito ci fosse unità-dualità) emerge in quelle parti della Stella in
cui si discute il principio infinitesimale, l’idea Greca dei cosmi e la sua relazione con il divino, il concetto del Daimon.
Platone, dice Rosezweig, prese il concetto di Daimon dal mito: indicava ciò che era peculiare in ogni uomo e ciò che in
qualche modo segna il suo destino, ciò che previene l’annullamento del singolo in una universalità in virtù dell’unicità
della sua esistenza. La Stella mostra come i passi biblici contengano referenze a un Dio chiamato “Buono” : ciò non
definisce Dio come soggetto, rendendoLo parte dell’essere; il suo “al di là dell’essere” è mantenuto perché Lui emerge
come soggetto che scappa ogni definizione precisa che la ragione può fare quando è diretta alle cose.
La logica, che è relazionata all’essere, può definire solo i soggetti che appaiono nell’essere, non il soggetto divino che
rimane oltre l’essere. Dio rimane libero di ogni coinvolgimento o immersione nel mondo delle cose dopo che le ha
create, perché la divinità è separata dall’essere e appartiene a un’altra dimensione: comparato con il soggetto che appare
nel mondo, Dio appare un non-soggetto, non un essere definibile da predicati.
L’idea di Bene è scoperta non da una ragione diretta al mondo finito, ma da una ragione che lo considera alla luce della
sua ultima fine. Ci sono poi due differenti approcci al platonismo nella Stella: Rosezweig rimane profondamente legato
alla comune interpretazione di Platone, che lo vede come un’idealista; dal secondo approccio un Platone che è piuttosto
un pensatore dell’esistenza della natura dalle idee, conscio della peculiarità di ogni individuo e la sapienza come amore
degli esseri finiti per l’infinito.
Ernest Cassirer: dal Neoplatonico Platone all’Etico-Politico Platone
Nel primo volume del suo lavoro “Il problema del sapere nella filosofia e nella scienza dell’età moderna” del 1906,
Cassirer, che fu studente di Cohen, presenta Platone come un pensatore con due differenti aspetti: uno legato alla storia
del cristianesimo del medioevo, l’altra alla nascita dello sviluppo del pensiero moderno.
Dal primo aspetto la dottrina di Platone emerge come collegata con quella di Plotino; dal secondo aspetto la dottrina di
Platone viene interpretata come una riflessione sui principi a priori delle scienze matematiche della natura.
Cassirer scrive: il primo passo dell’età moderna fu caratterizzato dal ripristino della dottrina del logos nel suo pieno
significato e contenuto, non era più usato come un mero strumento della teologia. Il filosofo mostra come, nel campo
della filosofia, Cusano,Cartesio, Leibniz, e Kant portarono alla luce il più importante nucleo della mediazione platonica
sul Logos: non è un principio divino dal quale l’intera realtà deriva tramite emanazione, ma lo strumento di pensieri
matematici e scientifici.
Il Logos non è l’assoluto, piuttosto rappresenta ciò che rende possibile la conoscenza della natura. Cassirer vedeva
Platone come colui che ispirò la scienza moderna, fondata sull’autonomia della ragione ma, tra il 1927 e il 1932,
Cassirer propose una differente interpretazione di Platone: in questi libri il platonismo emerge come una dottrina
dell’uomo come essere razionale della sfera etico-politica, e nella creazione dell’intero edificio della cultura. Questo è il
Logos che permette agli uomini di raggiungere il sovrasensibile, il divino: da questo contatto tra gli esseri umani e il
mondo intellegibile si originano quei principi etici che sono le basi di ogni società che riconosce la libertà, l’eguaglianza
e la fratellanza dei suoi membri.
Nei tre libri nei quali Cassirer identifica lo spirito filosofico come una presa di coscienza dello spirito, lui ricostruisce il
nesso che lega Cusano, che era estremamente influenzato dal pensiero italiano del suo tempo, il filosofo della scuola di
Cambridge, e Rousseau.
Cusano descrisse come l’anima, rimanendo nel mondo, si connette con l’infinito, vedendo in ogni faccio umana una
traccia della “faccia delle facce”. Secondo Rousseau solo l’uomo, come essere morale, è capace di raggiungere
l’incondizionato e l’universale. Platone fu la fonte principale di questi autori.
Più tardi, negli anni 1944/1945, Cassirer avrebbe messo in luce come Platone vedeva gli uomini non come parte della
natura, ma come costruttori di un mondo ideale.

Conclusione:
in Cohen, Resenzweig e Cassirer, in particola modo in Klibansky, c’è una difesa del platonismo come la filosofia che
considera gli uomini divisi tra il finito e l’infinito, che vivono nel tempo ma che sono anche uniti all’eterno attraverso la
loro ragione, una ragione che non coincide con l’amore patologico.
Un Addio a Dio. Il senso dell’umano nell’etica di Emmanuel Levinas – Orietta Ombrosi
All’inizio <<a-Dio>>. <<A-Dio>>, come addio (ad-Dio), prima di tutto. E’ un addio a Dio, senza mai lasciarlo.
Questo è l’incipit per un inno all’uomo e all’umano che in questo addio glorificano Dio, senza tuttavia mai cercarlo, mai
trovarlo. <<A-Dio>>, ad-Dio e a-Dio, come addio da parte dell’uomo a Dio, da un lato e, dall’altro, come un addio di
Dio all’uomo (un senza Dio e un per Dio contemporaneamente, ateismo e devozione). L’uomo e Dio sono separati
nell’unione, nel <<tratto di unione che separa l’addio>> nel <<tratto d’unione dell’ad-Dio>>, nel trattino che separa la
<<a>> (sia essa privativa che dedicativa e oltre) e Dio.
In questa formulazione è contenuto il <<senso dell’umano>> descritto da Levinas: non si misura con la presenza, fosse
anche la presenza a se stesso. La significazione della prossimità deborda i limiti ontologici, l’essenza umana e il mondo.
La significazione della prossimità deborda i limiti ontologici, l’essenza umana e il mondo. Essa ha senso attraverso la
trascendenza e l’a-Dio-in me che è la messa in discussione di me. La significatività del senso è da ricercarsi al di là
dell’essere, anche il <<senso dell’umano>> deve essere ripensato al di là delle categorie ontologiche proprie di una
certa tradizione della filosofia occidentale. La significatività al di là dell’essere, l’<<altrimenti che essere>> implica
un non senso e, al tempo stesso, dà senso alla dimensione etica. Una tale filosofia non può non pensare altrimenti la
significazione della significazione: non più a partire dall’essere ma a partire dall’<<uno-per-l’altro>> e anche
dall’<<a-Dio>>. Si passerà, allora, a concepire un’idea di umano (e di soggetto) non più inter-essato alla propria
esistenza e sopravvivenza, non più mosso dall’egoismo, ma un <<umano>> dis-inter-essato al proprio io e interessato
all’altro uomo, ovvero un <<umano>> il cui essere consiste solo nel suo dis-inter-esse per sé e nel suo inter-esse per
l’altro. Un <<umano>> sganciato definitivamente dall’esse, dall’essere e da tutte le sue declinazioni, come da tutte le
sue produzioni che, per Levinas, hanno condotto e ancora conducono, inevitabilmente alla guerra.
Non è allora grottesco parlare del senso dell’uomo quando di questo non si trovano che le ceneri, creazioni, della sua
potenza o i resti, derelitti, della sua fragilità? Dov’è il senso dell’umano? Cerchiamo il senso non allo scopo,
presuntuoso quanto assurdo, di creare una nuova guida per chi ha smarrito le vie dell’etica, ma per considerare, in tutta
la sua portata e gravità, il <<fiasco dell’umano>> , con la coscienza di questo fallimento e il desiderio di andare oltre.

Il fiasco dell’umano
Levinas scrive, nel 1976, un passo poco citato che merita di essere riportato interamente per la sintesi visionaria che vi è
annunciata in relazione al passato (dell’autore e nostro) e al presente: <<ci chiediamo se l’umano, pensato a partire
dall’ontologia come libertà, come volontà di potenza, o come capace di assumere nella sua totalità e finitezza l’essanza
dell’essere, (…) sia ancora all’altezza di ciò che nel bisogno umano, percuote l’intelligenza moderna; la quale, ad
Auschwitz, vide l’esito della legge e dell’obbedienza nei totalitarismi del XX secolo>>. Inoltre, <<l’esaltazione
dell’umano nel suo coraggio e nel suo eroismo, si inverte in coscienza di fallimento, ma anche di gioco. Gioco di
influssi e pulsioni. Gioco giocato senza giocatori né posta, senza soggetto e rigore razionale. E’ questo capovolgimento
della crisi del senso in irresponsabilità del gioco che è, forse, malgrado la sua ambiguità, la modalità più perversamente
sottile del fiasco umano. La morte, senza perdere il suo significato di fine, aggiunge alla leggerezza dell’essere la
gratuità di ciò che è vano. Vanità delle vanità>>. Alla crisi del senso si risponde, dunque, con l’<<irresponsabilità>> di
un gioco in cui non ci sono nemmeno più i giocatori poiché non c’è più soggetto e nemmeno attività>>. Ciò significa
che di fronte all’anti-umanismo, al nichilismo e al barbarismo contemporanei occorrerà rispondere responsabilmente e
filosoficamente, con un <<umanesimo dell’altro uomo>>, in cui ognuno è responsabile dell’altro e perfino di tutti gli
altri. Trovare, ritrovare, un umano disposto a giocare, a mettersi in gioco radicalmente.
Questo fiasco dell’umano appare a Levinas come una conseguenza di quell’esaltazione del Medesimo, Identico,
dell’Attività, dell’Essere e di tutte le sue perversità e sottigliezze. Infatti, il fiasco dell’uomo non è solo dell’uomo, ma
anche della <<razionalità del Medesimo>>, che è razionalità della terra salda “sotto il sole”., ossia della positività, della
solidità, sicurezza, radicamento, fondamento nell’essere. E’ tempo di abbandonare l’essere, la terra ferma che resta
solida benché lacerata, la positività.

Nell’<<a-Dio>>, il senso dell’umano

In questo congedo, in questo <<addio alla terra ferma>>, l’<<A-Dio>> significa prima di tutto, in principio. Esso è il
prologo: in principio era <<A-Dio>>. La significazione stessa del volto, “significanza del volto”, sarebbe la nuova-ma-
antica significazione del “senso dell’umano”, e quindi dell’etica, è inscritta nel “Per-l’altro”; questo è iscritto, a sua
volta, nell’<<A-Dio>>. Poiché è il volto stesso che <<mi domanda una significazione diversa da quella ontologica>>,
ma questa significazione di questo <<per-l’altro>>, che è il <<per-l’altro>>, sembra prendere origine dall’<<A-Dio>>,
secondo la scrittura dell’ultimo Levinas, quello di Dio che viene all’idea.
Levinas scrive: volto come A-Dio, nascita latente del seno. L’enunciato si termina e si concretizza come responsabilità
per il prossimo, per l’altro uomo, per lo straniero. Regime dell’Altrimenti che Essere. La responsabilità per il prossimo
si trova già sotto il regime dell’A-Dio. La significazione, l’A-Dio, il per-l’altro – concreti nella prossimità del prossimo
– sono la trascendenza.
Il “volto come A-Dio”: A-dio significa prima di tutto “la nascita latente del senso” “la significazione”.

La trascendenza dell’”A-Dio” rinvia in modo esplicito alla Rivelazione, ma A-Dio significa anche “separazione”, in
cui i separati non hanno alcun genere comune e non possono essere in alcun modo ricondotti a un insieme, una
separazione che sta anche a indicare l’”Assoluto” e “l’infinito”.
Tutto questo, ovvero il pensare una paradossale Rivelazione che nulla rivela di Dio, che si “esprime” bensì nell’”A-
dio”, cioè nella separazione assoluta; tutto ciò non deve essere interpretato come una”nuova prova dell’esistenza di
Dio”.
Derrida nel suo Adieu, sembra interpretare in questa direzione l’A-Dio: Ad-Dio al di là dell’essere, laddove non solo
Dio non ha da esistere, ma dove egli non ha da donarmi né da perdonarmi. <<L’ad-Dio, come il saluto e la preghiera,
deve rivolgersi a un Dio che non solo può non esistere, ma che può anche abbandonarmi e non volgersi verso di me con
alcun movimento di alleanza o di elezione?>>. Però, al contrario, il significato dell’A-Dio, sembra invece iscriversi
proprio in questo “volgersi a me”, in questo “movimento”, fosse pure di addio, ma che resta pur sempre direzionale,
rivolto “a me”, appunto. Se è vero che l’<<A-Dio>> indica metaforicamente che Dio può anche non essere e soprattutto
che non necessariamente deve darsi nella e come presenza, è vero altresì che nell’A-Dio, Dio, o il termine di Dio, si
“”volge a me”, si rivolge a me, viene all’idea dicendo <<A-Dio>>. L’A-dio descrive la nascita latente del senso, quella
della significazione, dell’etica, non solo il senso del termine Dio. L’A-Dio è pure, prima di tutto forse, il modo di essere
dell’Altrimenti che essere, ovvero Dio che viene all’idea, come vita di Dio. A-Dio, quindi, è come un venire all’idea da
parte di Dio, come movimento verso di me, come discesa pure , come vita di Dio. L’A-Dio dice, insomma, anche la vita
di Dio: vita di Dio in sé, vita di Dio in me, A-Dio-in-me, che è anche un altro modo di dire l’infinito nel finito, l’idea-
dell’infinito-in-me. La “in” dell’infinito come la “a” di A-Dio dicono infine non la negazione, ma la vita di Dio, e la
dicono come umanità. Vi è un pre-originario, preliminare, primordiale, primario A-Dio.
Levinas afferma che <<nella deposizione da parte dell’io della sua sovranità di Io, nella sua modalità di detestabile,
significa l’etica, ma probabilmente anche la spiritualità stessa dell’anima: l’umano o l’interiorità umana è il ritorno alla
coscienza non-intenzionale, alla cattiva coscienza, alla sua possibilità di temere l’ingiustizia più della morte, di preferire
l’ingiustizia subita a quella commessa e ciò che giustifica l’essere a ciò che l’assicura>>.
Il “Senso dell’umano” si dice così inaudito e iperbolico nell’A-Dio, si inscrive, si scrive dunque anche come e nel
“timore di Dio”. Ma si tratta di timore di timore di Dio o di timore per l’uomo? Entrambe le cose.
Quella di Levinas è un’etica mossa da questo A-Dio, e, al contempo tesa verso un addio A-Dio. La questione del
“manifestarsi” di Dio non è l’essenziale del discorso Levinassiano su Dio, come non lo è la questione della sua
esistenza o non esistenza. Rilevante è invece la questione della significazione e, in particolare, della significazione del
nome che lo enuncia: la parola Dio ambisce a trovare la “concretezza fenomenologica”, nella quale acquista
significazione la parola Dio. Mira a trovare le condizioni nelle quali acquista senso il termine Dio, allo scopo di trovare
la significazione ultima, quella che rende possibile ogni senso e di risalire così a ciò che è <<Senso in maniera
primordiale>>. Questa risalita porta, come si è visto, al “regime dell’A-Dio” o più semplicemente all’A-Dio.
Da una parte, Levinas ricerca le condizioni di possibilità della parola Dio, nel concreto delle relazioni etiche (al plurale)
e/o della relazione etica (al singolare) e, allo stesso tempo, egli ricerca le condizioni di possibilità del volto e della sua
visitazione in un al di là – di ogni fenomeno e di ogni fenomenalità – un al di là che rimanda, nel suo significato, a ciò o
a colui che è chiamato generalmente Dio e, in modo singolare da parte di Levinas, A-Dio.
La questione ultima di Levinas, il gesto ultimo del suo pensiero, è quello che consiste nel domandarsi “se è possibile
parlare legittimamente di Dio, senza attentare all’assolutezza che quel termine sembra significare”, se è possibile
pensare Dio nell’assoluta trascendenza, senza mai ridurlo all’essere o in immanenza e, quindi, trovare un linguaggio, un
discorso, un dire, una parola che garantisca questa stessa trascendenza, quel nome privativo e devoto ad un tempo che è
l’A-Dio. Un nome che è un A-Dio, che implica tutto il peso della responsabilità e del senso dell’umano, certo, ma anche
tutto lo smarrimento dell’abbandono. Si tratta di un addio da parte dell’uomo nei confronti di Dio e di un addio
all’uomo da parte di Dio.

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