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STORIA DELLA FILOSOFIA MODERNA

di Alberto Frigo

14/2/22
Uno scandalo per la filosofia. La prova del mondo esterno da Cartesio a Berkeley a Condillac.
Questione che appartiene alla metafisica, attraverso autori lungo circa un secolo, dal 1641 al 1754.
Essere e tempo, 2: Befragte, Gefragte, Erfragte. Domanda. Quando poniamo una domanda
filosofica abbiamo tre elementi. Il filosofo a cui la domanda viene posta, chi viene interrogato:
Descartes, Berkeley e Condillac. Oggetto del domandare: la prova dell’esistenza del mondo esterno.
Ciò su cui si interroga quando si pone a quella gente lì quella domanda, di che cosa ne va, qual è
l’interesse della domanda, cosa ci guadagniamo, in vista di quale scopo e in che senso ci poniamo
questa domanda.
La risposta al terzo elemento è la modernità della metafisica moderna, l’orizzonte è che cosa
definisce la metafisica moderna e ne sancisce la modernità. La prova dell’esistenza del mondo
esterno definisce la metafisica moderna e lo fa precisamente sancendone la modernità, lo statuto di
metafisica postmedievale e prekantiana.
Dobbiamo capire in che senso l’oggetto della questione definisce la filosofia moderna nella sua
modernità. Le decisioni operate da Cartesio ristrutturano la metafisica, la ridefiniscono e
riformattano. Ridistribuiscono le carte, cambia il gioco. Questo viene fatto in particolar modo coi
tre oggetti della metafisica speciale. Ridefinisce ognuno degli elementi. L’anima è la res cogitans o
mente. Prima di Cartesio l’anima è la forma attiva di un corpo fisico organico che ha la vita in
potenza. Ora è una res, una cosa, la cui essenza coincide con l’essere pensiero in atto. Una cosa che
esiste solo e soltanto in quanto atto di pensiero. Se per assurdo io non pensassi non esisterei.
Quando il pensiero non è in atto non c’è. Non possiamo quindi dire che c’è una sostanza pensante,
qualcosa che sta sotto e di cui gli atti mutevoli. Lo leggiamo nei manuali e anche in Cartesio. Ma il
pensiero non è una sostanza che pensa. Questo è il grande problema che Cartesio consegna ai
posteri. La mente è pensiero in atto. Non c’è niente di sostanziale, ci sono solo gli atti. Basta che mi
addormenti profondamente e non mi svegli più o che con un incidente vada in coma perdendo la
coscienza che la mia esistenza si interrompe. Quello che resta è il corpo, si potrebbe dire. E
l’immortalità dell’anima? Hume: la mente come un teatro dove diverse percezioni successive
passano e scompaiono fondendosi in una complessità di strutture e relazioni, una infinità varietà di
sensazioni successive, cioè non è niente. Bundle theory, non c’è niente, c’è solo il fascio di
percezioni. Arriva Kant, infine, dicendo che con un paralogismo abbiamo confuso un soggetto
trascendentale che garantisce il giudizio, funzione sintetica dell’esperienza, con la sostanza che è
una categoria che si applica agli oggetti del mondo. Res cogitans non vuol dire sostanza che pensa,
per quanto Cartesio lo dica. A lui interessa l’attività, l’attualità, il pensiero esiste solo in atto. Come
assicurare la permanenza? Hume: la mente non c’è propriamente, c’è solo una serie di atti mentali.
Secondo oggetto della metafisica speciale: Dio. Prendendo San Tommaso c’è la possibilità di
conoscere Dio, ma è limitata. Conosciamo di Dio solo che esiste e ciò che non è. Conoscenza
negativa, indiretta. Non possiamo conoscere Dio attraverso un’idea finita, creata nella nostra mente.
C’è una sproporzione tra la nostra mente finita e Dio infinito, nessuna rappresentazione può
correttamente contenere Dio. Che Dio esiste lo possiamo dimostrare, che cosa sia no. Vedere per
speculum. Dopo la morte nella beatitudine ci sarà conoscenza di Dio diretta, faccia a faccia. Qualità
non rappresentabili qui. Nessuna idea finita può rappresentare l’infinito. Arriva Cartesio e dice che
noi abbiamo un’idea di Dio in quanto sostanza infinita. Questa idea è positiva, chiara e distinta,
innata.
Cartesio ha un’idea diversa tra conoscere e comprendere. Intelligere è come toccare col pensiero,
comprendere vuol dire abbracciare. Possiamo avere un’idea di Dio, ma non comprenderlo, avere
una rappresentazione adeguata. Anzi, l’incomprensibilità fa parte della ragione formale
dell’infinito, di Dio. Avere un’idea di Dio in quanto infinito significa avere un’idea di Dio in quanto
incomprensibile. Per Tommaso non c’era proprio rappresentazione. Per Cartesio c’è, ma con
l’incomprensibilità come elemento essenziale. Per lui le verità matematiche, logiche sono create,
Dio avrebbe potuto crearle diversamente. Io non so cosa Dio può fare, lo comprendo come
incomprensibile. Posso pensare che avrebbe potuto creare altre leggi matematiche, anche se per me
è completamente incomprensibile.
Tesi del velo delle idee. Ryle (1949), Concept of mind e Rorty (1979), Philosophy and the mirror of
nature. C’è un abisso tra il mondo interno ed esterno. Le idee sono un velo, più o meno trasparenti,
e possono diventare schermo, che rimandano immagini senza andare oltre. La percezione implica
una interfaccia. Non abbiamo un accesso diretto al fuori, ma sempre mediato. Il dibattito
sull’esistenza del mondo esterna rimanda al dibattito tra realismo diretto e rappresentazionalismo.
Teorie del riferimento diretto ci sono anche prima di Cartesio. Cartesio non si limita a ragionare
sulla possibilità di conoscenza del mondo esterno, ne dà una prova, rispetto alle cose concrete e
materiali. Il veil of ideas vale anche riguardo a oggetti astratti come quelli matematici.

15/2/22
(…) Teoria della informazione contro teoria della trasformazione.
Atto comune del conoscente e del conosciuto. Conoscere significa da parte di chi conosce ricevere
la forma dell’oggetto conosciuto. Conoscere quindi significa da parte di chi conosce informarsi,
ricevere la forma della cosa conosciuta, cioè ricevere la similitudine dell’oggetto conosciuto. Il
soggetto in qualche maniera è diventato la forma dell’oggetto. La teoria dell’astrazione è il
meccanismo che permette di fare questo.
Questa dottrina della conoscenza viene modificata radicalmente a partire da Scoto. Si impone una
concezione della conoscenza – sempre autorizzata da Aristotele come quella precedente – di tipo
trasformativo, produttivo. La conoscenza non è il frutto di un incontro in cui qualcuno è attivo e
l’altro passivo, ma è il risultato di una doppia causalità concorrente e concomitante, quella del
soggetto su di me e quella mia autonoma della produzione della rappresentazione dell’oggetto. C’è
un carattere produttivo della conoscenza, della operazione dell’intelletto che fa sì che la conoscenza
non sia un incontro, ma coincidenza: la causalità esterna fa sì che si operi una causalità interna
mentale che produce una conoscenza. Da una parte abbiamo, riceviamo una idea, dall’altra ci
facciamo un’idea.
1. La prima conseguenza è un nuovo modo di pensare l’oggetto della conoscenza. L’oggetto
non è ciò che incontro, ma la rappresentazione che mi faccio di ciò che incontro. Ob-iectum:
qualcosa che è gettato davanti. Sant’Agostino con altri dice che quando vedo qualcosa
emetto dei raggi visivi che prendono abbracciano qualcosa. L’oggetto è qualcosa che mi
sono buttato davanti, che impedisce di avere un rapporto diretto con la cosa. Conoscere non
è assumere una forma, ma produrre un oggetto e tramite quello vedere come stanno le cose.
Soggetto come rappresentazione.
2. Nell’informazione è una similitudine, una somiglianza, mentre nella trasformazione una
rappresentazione. Visto che è una rappresentazione può anche non essere somigliante.
Diversamente che nell’informazione dove la forma è ricevuta, non prodotta. Ad esempio:
un’idea finita può rappresentare l’infinito. Posso produrre un’idea che sia capace di
rappresentare, malgrado essa non sia l’oggetto a qualche titolo, ma sia dissimile.
3. Possiamo distinguere due figure della presenza: la presenza degli oggetti ai sensi e la
presenza degli oggetti mentali alla mia mente.
4. Due forme o figure o sensi della realtà. Realtà come esistenza fuori dalla mente e realitas è
la consistenza dell’oggetto conosciuto, realtà delle rappresentazioni. Noi generiamo degli
atomi al posto della realtà delle cose. Perché parliamo di realtà delle rappresentazioni?
Perché alcune sono consistenti, altre – come il quadrato rotondo – no. Il dolore non ha un
oggetto, idea negativa, oscura, confusa. Non ha una realitas nel senso di consistenza. Ciò
che è realmente possibile e pensabile, perché offre all’intelletto un contenuto non
contraddittorio, gli offre cioè un essere oggettivo, stabile e vero, che l’intelletto può
ratificare. Ratitudo. Non sto pensando a niente, non c’è un oggetto di pensiero. La realitas
come oggettività degli oggetti di pensiero, le essenze in quanto obiectae.
(…)
Quando parla del cogito, Cartesio dice: res vera, res vere existens.
Il passaggio da una teoria dell’informazione a teoria della trasformazione avviene già prima di
Cartesio: il termine cognitivo non è più la cosa, ma la rappresentazione della cosa. Questa non è più
ricevuta dal soggetto, ma creata dalla mente e così riceve il suo essere in quanto oggetto mentale.
Nel modello precedente la conoscenza è assimilazione dell’oggetto (forma) al soggetto, relazione a
due termini, mentre la relazione che si instaura nel modello trasformativo è a tre termini: oggetto,
rappresentazione, soggetto. Teoria che produce un dibattito con questioni che Cartesio eredita. La
nozione di un velo delle idee, la opposizione tra rappresentazionalismo e realismo diretto è qualcosa
che già i Medievali hanno considerato, messo a fuoco e discusso.
Per quanto riguarda il mondo, Cartesio non si limita a dire che le idee sono rappresentazioni e
quindi mezzo che è anche un ostacolo che può impedirci di accedere alla realtà delle cose, anzi ha
una realtà propria. Cartesio fa di più. Un ragionamento che riguarda la possibilità di provare
l’esistenza del mondo esterno e quindi del mondo materiale. Come dice il titolo della sesta
meditazione il problema è quello dell’esistenza delle cose materiali, cioè la possibilità di dimostrare
che queste cose materiali esistono. Esigere una prova che mostri in maniera irrefutabile che le cose
immateriali esterne, anche il mio corpo, esistano. A partire da Cartesio ci sarà una serie di dibattiti
che riguarderanno espressamente la prova cartesiana. Tutti gli autori del ‘600 e in parte del ‘700
prendono parola in merito. Poi si arriva a Hume e a Kant: uno scandalo per la filosofia. La prova
dell’esistenza del mondo definisce la filosofia moderna per quello che fa Cartesio, è la maniera in
cui viene ripensata dalla filosofia moderna la voce mondo della metafisica speciale. Nella sua
modernità: prima e dopo la filosofia moderna questo problema non è più pertinente.

16/2/22
La questione di provare il mondo esterno abbiamo visto come sia essenziale alla struttura della
filosofia moderna. Occorre capire come è propria della metafisica moderna e non pre-moderna e
post-moderna (che non esiste).
Parte della confutazione dell’Idealismo nella Critica della ragion pura. Questo testo sancisce che la
prova dell’esistenza del mondo esterno è uno degli elementi che sancisce la modernità della
filosofia moderna, ma che non riguarda più il periodo che Kant sta inaugurando con la sua
metafisica. Qui troviamo la formula «uno scandalo per la filosofia» (Testo 1). Questo scandalo deve
finire. Nell’Analitica dei principi, tra il secondo e il terzo postulato del pensiero empirico, che
cercano di ridefinire le categorie della modalità dell’intelletto: possibile, reale e necessario. Kant
sottolinea come queste categorie non accrescano il concetto di cui si predicano, ma accrescono il
sapere della relazione di quell’oggetto rispetto al soggetto conoscente. Come vengono definiti
questi tre postulati? Ciò che è possibile è ciò che è in accordo con le condizioni formali
dell’esperienza: un oggetto materiale senza tre dimensioni non è possibile. Reale è ciò che è
connesso con le condizioni materiali dell’esperienza, ovvero la sensazione o percezione sensibile.
Necessario è ciò la cui connessione reale è determinata dalle condizioni universali dell’esperienza:
quel fenomeno non può non prodursi ed essere oggetto di una percezione empirica. Queste pagine
che leggiamo si situano dopo le spiegazioni sulla realtà. Il problema dell’idealismo problematico e
dello scetticismo riguarda la connessione degli oggetti come oggetti di sensazione. Questa tesi
discute la definizione della realtà come l’aveva data Kant, affermando che ci può essere qualcosa
che sia percepito come sensazione, ma che non sia reale. Se reale è ciò che è connesso alle
condizioni materiali dell’esperienza, per l’idealismo posso illudermi che qualcosa possa essere
connesso alle condizioni materiali dell’esperienza senza perciò stesso essere reale. La morte e Dio
non sono reali in senso kantiano.
Distinzione tra senso esterno e senso interno: il primo di permette di accedere a oggetti che hanno
una consistenza, sono portatori di proprietà e ci danno l’idea di una permanenza di essi nella
variazione, il secondo, l’accesso alle nostre percezioni e contenuti mentali, è caratterizzato dalla
variazione continua, in cui non si registra nessuna permanenza.
Materialismo: tutto ciò che esiste è materiale, corporeo. Idealismo: tutto ciò che esiste è
immateriale, incorporeo. Realismo: alcuni enti sono materiali o corporei. Spiritualismo: alcuni enti
sono immateriali o incorporei.
Cartesio cercherà di stabilire la verità dello spiritualismo: ci sono delle cose che non sono materiali,
che implica di escludere l’idealismo, di prendere in considerazione l’idealismo, salvo poi scartarlo,
per affermare il compossibile realismo. Dualismo cartesiano: ci sono cose estese e cose immateriali.
Testo 2. L’Estetica trascendentale ha dimostrato la falsità dell’Idealismo dogmatico di Berkeley. Il
problema non è se questa prova c’è, ma se è probante. Torniamo all’Idealismo problematico di
Cartesio, che sottolinea l’insufficienza nella prova dell’esistenza del mondo esterno. Asserisce
l’incapacità in cui siamo di dimostrare tramite una esperienza immediata che il mondo esterno
esiste. Una prova che sia una dimostrazione sufficiente, una via diretta. Il dubbio cartesiano è
ragionevole, conforme a un solido modo di pensare. Questa prova deve essere rigorosa, secondo il
modello di certezza che ci fornisce di nuovo Cartesio: l’unica certezza del cogito: io sono. Però
Cartesio sembra non essere all’altezza, perché non ha trovato una prova sufficiente. Anche la sua
prova non è probante, sufficientemente degna del dubbio che è formulato. Cartesio è preso come
modello di un idealismo problematico. È ancora un solo portavoce dell’idealismo. Non è riuscito a
provare il realismo. Cartesio ha sbagliato strada: andava da un’esperienza interna certa, il cogito,
verso la dimostrazione dell’esperienza esterna certa, il mondo. Bisogna invece andare in senso
contrario, affermando che persino l’esperienza interna, il cogito – interpretato come asserzione
empirica -, è possibile solo quando si presupponga un’esperienza esterna. Non provo il cogito
quando dubito del mondo – dalla meditazione II alla meditazione VI –, è il contrario: posso provare
il cogito solo se dimostra l’esperienza reale del mondo esterno. Solo invertendo la logica della
dimostrazione cartesiana si può dimostrare ciò che Cartesio ha cercato insufficientemente di
provare. Kant inverte l’assioma della metafisica cartesiana che la mente è meglio conosciuta del
corpo. Si tratta di fornire una prova che Cartesio non ha fornita, migliore di quella di Cartesio,
migliore proprio perché contraria a quella di Cartesio. Ammirazione e delusione per Cartesio.
Teorema. «La semplice coscienza – ma empiricamente determinata – della mia propria esistenza
dimostra l’esistenza degli oggetti nello spazio fuori di me.» Il senso interno dei fenomeni
determinati, sempre variabili. Se c’è un’esperienza empirica del senso interno, questo è
necessariamente connesso con l’esistenza di oggetti nello spazio fuori di me.
Dimostrazione. «Io sono cosciente della mia esistenza come determinata nel tempo. Ogni
determinazione di tempo presuppone qualcosa di permanente nella percezione. Questo permanente
non può tuttavia essere qualcosa in me, poiché appunto la mia esistenza nel tempo può essere
determinata soltanto mediante questo permanente. La percezione di questo permanente è quindi
possibile solo attraverso una cosa fuori di me, e non già mediante la semplice rappresentazione di
una cosa fuori di me. Di conseguenza, la determinazione della mia esistenza nel tempo è possibile
solo mediante l'esistenza di cose reali, che io percepisco fuori di me. La coscienza nel tempo,
orbene, è necessariamente congiunta con la coscienza della possibilità di questa determinazione
temporale, e perciò è anche necessariamente collegata con l'esistenza delle cose fuori di me, intesa
come condizione della determinazione temporale. Ossia, la coscienza della mia propria esistenza è
al tempo stesso una coscienza immediata dell'esistenza di altre cose fuori di me.» Connessione
necessaria tra coscienza interna ed esterna.

21/2/22
Heidegger riassume Kant in Essere e tempo. La prova dell’esistenza delle cose fuori di me consiste
nella permanenza e mutamento. Per definire delle relazioni temporali – successione, simultaneità e
durata - occorre avere una cooriginaria esperienza di permanenza e mutamento.
Dato questo presupposto, accettabile da tutti:
1. L’esperienza del senso interno, l’esperienza che faccio della mia vita interiore, della mente, ciò
che accade in me è un’esperienza temporalmente determinata. I fenomeni si organizzano in una
serie di mutamenti continui. Non si tratta dell’io penso, appercezione trascendentale, non è una
rappresentazione di sé astratta e trascendentale, ma coscienza di se empiricamente determinata.
Il soggetto determinato secondo una serie di contenuti che prova, di cui fa esperienza in sé.
Esperienza quindi in senso proprio del soggetto come determinato in varie maniere. Una
conoscenza empirica dei contenuti mentali e il fatto che questa esperienza caratterizzata da un
continuo mutamento quindi organizzata da un punto di vista temporale: successione,
simultaneità e durata.
2. Per la temporalizzazione occorre però che ci sia, oltre alla variazione, qualcosa di permanente
che permetta di cogliere le variazioni, secondo una sequenza temporale.
3. Questo permanente – Kant ci ricorda - non può essere in noi, deve essere qualcosa di percepito,
il tempo in sé non è percepito come qualcosa di assoluto, serve un oggetto che sia percepibile.
Questo oggetto permanente non può essere una percezione, perché queste sono variabili, non
posso trovarlo dentro di me tra le mie rappresentazioni, perché l’esperienza del tempo nelle
rappresentazioni è determinata proprio in virtù di questo permanente.
4. Dal momento che quello che non è in me è fuori di me devo cercarlo fuori di me. Se la vita nella
mia mente è temporalizzata è perché necessariamente posso far esperienza di qualcosa di
permanente al di fuori di me. Quindi necessariamente esiste qualcosa fuori di me di cui faccio
esperienza, che è permanente. Non può essere un’idea, una tra le rappresentazioni, nei fenomeni
di senso interno, quindi necessariamente deve essere un fenomeno del senso esterno, quindi
esistono dei fenomeni del senso esterno. C’è qualcosa fuori di me che mi permette di avere
un’esistenza temporalizzata fuori di me.
Conclusione: esistono delle cose fuori di me e questa coscienza delle cose al di fuori di me è la
condizione di una determinazione temporale dell’esperienza del senso interno. Perché ci sia un io
temporalizzato ci vuole la possibilità di una esperienza degli oggetti fuori di me come permanenti
nello spazio e nel tempo. C’è una connessione necessaria tra esperienza temporalizzata di me e la
l’esperienza della permanenza del mondo esterno. La mia coscienza nel tempo, la possibilità di una
determinazione temporale dell’esperienza interna implica necessariamente la permanenza
dell’esistenza degli oggetti fuori di me.
Esperienza interna-esterna sono due aspetti della stessa esperienza (non c’è una se non c’è l’altra,
una è condizione di possibilità dell’altra). L’esperienza interna è in parte esperienza esterna. Si
coimplicano. Non c’è solo una delle due. La possibilità dell’esperienza temporalizzata richiede il
permanente esterno come sua condizione di possibilità. Dalla realtà dell’esperienza interna alla
realtà dell’esperienza esterna. Tutte le esperienze interne sono in parte esterne. Fra esperienza
interna ed esterna c’è una connessione necessaria.

Non è una dimostrazione, ma la esibizione di un dato di fatto, un teorema che viene dimostrato in
qualche modo per assurdo, mostrando che se le cose non stessero così non potremmo avere quello
che abbiamo nella vita della mente, non potremmo vivere la vita della mente come la viviamo. È
una dimostrazione ma senza passi – premesse, termine medio e conclusione - è una mostrazione: c’è
una connessione necessaria tra esperienza interna (temporalmente determinata) ed esperienza
esterna (di permanenza nella variazione).
Questo permanente è il tempo stesso, in quanto noi lo immaginiamo come un enorme quadrante che
sta dietro a tutte le nostre esperienze, misurandole. Kant dice che questo permanente non può essere
qualcosa di astratto, che non è un fenomeno, ma deve darsi nei fenomeni da qualche parte. Il tempo
in quanto tale non è percepito in sé, ma tramite dei fenomeni – per questo abbiamo bisogno di
orologi.

Vediamo tre osservazioni di Kant che seguono la dimostrazione.


1. Immediatezza: non c’è in senso proprio una vera prova. C’è semplicemente una connessione tra
due esperienze, non una prova cioè deduzione, una serie di passaggi. L’esperienza esterna è
immediata: perché si dia l’esperienza interna che è immediata, autoevidente, deve esserci quella
esterna che quindi è anche lei immediata. Non c’è una sorta di salto o passaggio. Sono due facce
della stessa medaglia. Se abbiamo un senso interno abbiamo anche un senso esterno. Ma si tratta
di connessione immediata e non di una deduzione. Ed è questo l’errore di Cartesio: l’idealismo
ha supposto che l’unica esperienza adeguata sia quella interna. L’errore è la ricerca di una
prova, non la prova in sé. Non c’è deduzione. Questa immediatezza non è né prima né dopo la
prova, è la prova stessa. Non c’è bisogno di mediazione. L’errore di Cartesio è stato quello di
aver cercato una prova, di essersi avventurato in una deduzione, senza aver capito che non
serviva. Ma l’immediatezza della connessione impedisce qualsiasi errore.
2. Questo permanente del mondo esterno cos’è in realtà? Non è semplicemente la percezione di
oggetti, ma il fatto che l’esperienza del mondo esterno presuppone un’idea di materia come
estensione, come qualcosa che permane nelle variazioni, come condizione di possibilità del
cambiamento e quindi ogni determinazione temporale nel mondo esterno. Quindi come
determinazione anche in senso diretto della nostra esperienza del mondo interno. Non puoi
determinare un oggetto dell’esperienza, sempre mutevole, senza un substrato materiale
permanente. Materia: non determinazione ontica, ma condizione a priori della costituzione del
mondo. Il mondo come lo percepiamo presuppone che ci sia la materia, qualcosa di stabile nelle
variazioni. Quindi il permanente di cui facciamo esperienza del mondo esterno prende forma in
figure singole. Se volessimo astrarre dalle determinazioni singolari potremmo dire che quando
ho a che fare con il mondo (alcune cose cambiano veloci, altre meno ecc) non ho a che fare con
il cinema (variazione costante di immagini). C’è qualcosa come la consistenza del mondo, il
permanente cui fa riferimento Kant che costituisce una condizione dell’esperienza del mondo
esterno e che consente la determinazione nel senso interno.
3. Questo non vuol dire che io abbia sempre una intuizione effettiva di ciò che esiste nel mondo
esterno. La dimostrazione non dimostra che ogni volta che c’è vita nella mente allora c’è
qualcosa di corrispondente nel mondo esterno: posso sbagliarmi. Quello che è importante è la
connessione necessaria tra le due esperienze. L’essere nel tempo dell’io, la temporalizzazione
della nostra esperienza interna, implica l’essere nello spazio di oggetti che esistono fuori di noi.
È questa connessione a essere necessaria. Questo è l’essenziale, che tra la coscienza del proprio
esistere temporalmente e l’esistenza delle cose fuori di noi ci sia una connessione necessaria.
Poi che io pensi di vedere le cose o se sono delle allucinazioni non cambia, non inficia la
dimostrazione. Conta il legame tra due esperienze possibili, non l’effettiva connessione tra
mondo esterno e rappresentazione mentale conforme veramente alle cose. È una sorta di
considerazione su una considerazione necessaria, non su una doppia effettività. Non che se ho
esperienza interna allora quelle cose esistono veramente.

La prova dell’esistenza del mondo esterno definisce la metafisica moderna. In che senso la definisce
nella sua modernità? È un tratto caratterizzante della metafisica moderna in quanto moderna. Dopo
Kant la prova dell’esistenza del mondo esterno non è più un elemento della metafisica, non deve
esserlo.
L’idealismo per Kant non è innocente rispetto ai fini essenziali della metafisica, la definisce a
partire da Cartesio. La esistenza del mondo esterne deve poter essere ammessa solo per fede. La
prova è insufficiente proprio perché è una prova, perché è mediata, non riconoscendo la
connessione immediata tra mondo interno e mondo esterno, andando fuori strada. Cartesio diceva
che è poco probante, ma in realtà è proprio sbagliata. Vi si deve contrapporre una esibizione della
connessione necessaria tra la connessione del mondo interno e mondo esterno.
Quella di Kant è una prova definitiva. Non è una prova che può essere discussa e analizzata nelle
sue forme. O si ammette o non lo si ammette e quindi si dovrebbe negare la totalità dell’esperienza
psichica.
Quindi Kant si pone dopo Cartesio e chiude l’orizzonte cartesiano, una critica che è una diagnosi a
posteriori. La storia della metafisica moderna è la storia di uno scandalo: si cerca una prova dove la
prova non va cercata. Lo scandalo è il fatto stesso che si cerchi una prova. Questo scandalo viene
fatto scoppiare da Cartesio e poi viene messo a tacere da Kant: non c’è niente che può turbare
perché non c’è bisogno di provare niente, c’è una sorta di evidenza della connessione necessaria che
fa sì che non ci sia bisogno di una prova. Questa ricerca di una prova è essa stessa scandalosa
perché è vana, è scandalo che ci si interroghi su una necessità di prove del mondo esterno,
l’esigenza stessa.
Dire che l’idealismo problematico è uno scandalo significa dire che a partire da Kant inizia una
nuova epoca, lo scandalo non fa più problema perché non c’è più problema. Scandalo come
qualcosa di vergognarsi.
La ricerca di una prova che vada dalla certezza del cogito alla certezza dell’esistenza delle cose del
mondo esterno non deve sussistere perché ce l’abbiamo immediatamente senza bisogno di passaggi
o prove.

Questa diagnosi di Kant è confermata da chi viene dopo:


- Husserl: la fenomenologia conferma questa immediatezza. Il mondo non è da conquistare
andando fuori di sé ma si costituisce all’interno della coscienza, è connesso intimamente alla vita
cosciente. Per lui si tratta di costituire il fenomeno del mondo a partire dall’idea di orizzonte:
mondo e io come due regioni all’intento della coscienza
- Heidegger: essere-nel-mondo è una determinazione essenziale, fa parte della struttura stessa del
Dasein, l’esserci, essere là (nel mondo). Il dove dell’esserci è il mondo. Se c’è Dasein c’è
necessariamente rapporto con il mondo: il rapporto con il mondo è costitutivo, è quello che fa il
Da del Dasein. L’ente che esige prove, il Dasein, è già un ente che strutturalmente si trova nel
mondo, se no non sarebbe il Dasein. Scandalo pensare qualcosa che esiste indipendentemente dal
mondo e che poi deve recuperare il mondo quando invece l’essere-nel-mondo è qualcosa di
costitutivo del Dasein. Scandaloso invece è che non si capisca che essere al mondo è costitutivo,
è dato immediatamente e non deve essere provato. Per lui neanche sono due facce della stessa
medaglia come per Kant, ma coincidono proprio, il legame si stringe ancora maggiormente: il
Dasein (nome effettivo dell’uomo) è proprio entrambe le cose, quindi l’essere al mondo è una
delle sue strutture portanti.

Ci si può domandare piuttosto in virtù di quale occultamento del Dasein ci si sia domandati
sull’esistenza del mondo, interrogandosi come l’epoca cartesiana abbia così lungamente
miscompreso, malcompreso, occultato questa struttura del Dasein, che definisce l’uomo stesso. Da
San Tommaso in poi.
Con Heidegger c’è una conferma maggiore che la prova dell’esistenza del mondo definisce la
metafisica moderna nella sua modernità. Bisogna ora mostrare che è con Cartesio che comincia
questa vicenda. Abbiamo visto come quest’epoca si chiude, dobbiamo mostrare come si inaugura.
Andare a monte e non più a valle. Significa vedere se Cartesio è effettivamente il primo a formulare
un dubbio sull’esistenza del mondo esterno e quindi a rispondere a questo dubbio con una prova.
Bisogna vedere se è stato il primo che inventa/porta alla luce per la prima volta una prova del
mondo esterno perché inventa un dubbio effettivo sull’esistenza del mondo esterno.

Cartesio, Meditazioni metafisiche. Ondate di dubbio che caratterizzano la prima meditazione.


1. Una prima ondata che riguarda le conoscenze sensibili particolari, conoscere attraverso i
sensi. Un’esperienza sensibile, verità del senso comune assunta dalla filosofia, per esempio,
con Aristotele per cui tutto ciò che è nell’intelletto è passato dai sensi. Evocazione di tutte le
illusioni dei sensi, la possibilità che i sensi ci ingannano.
2. Seconda ondata: tutto ciò che è a portata di mano immediata, le conoscenze sensibili non in
generale, ma degli oggetti presenti, vicini. Viene ripreso il tema classico della distinzione tra
il sonno e la veglia.
3. Il dubbio si espande ulteriormente: per sognare occorre che abbia fatto qualche esperienza di
ciò che sogno. Come per i pittori: il disegno di un cavallo alato comporta che il cavallo e le
ali devono essere state viste prima da qualche parte. La stessa cosa per la pittura astratta:
anche se fosse solo colore, devo aver avuto un’esperienza di quel colore. Ecco la terza
ondata. Anche le conoscenze generali - delle «nature semplici materiali» dice altrove -
possono essere messe in dubbio. Qui interviene quella figura singolare del Dio onnipotente
ingannatore, che potrebbe scalfire anche le verità certe come quelle matematiche.
4. L’ultima ondata di dubbio è quella che l’evidenza sia un’apparenza di evidenza, anche
rispetto a ciò che mi sembra esente da ogni forma di dubbio. In chiusura il Dio onnipotente
ingannatore viene sostituito da un genio maligno.

Ecco così la posizione del dubbio metodico: negazione di ogni conoscenza in cui ci sia la minima
ragione di dubitare.

Questi dubbi si trovano anche prima di Cartesio? Lui stesso dice che molti dei suoi argomenti sono
presi dagli scettici antichi, dice di aver visto libri scritti da scettici e accademici (due dello
scetticismo) su questi temi e che non è senza disgusto che ha rimasticato un cibo così comune, che
ha riproposto una serie di temi così comuni e noti. La prima modernità è epoca della rinascita dello
scetticismo, vengono ripresi testi di scettici come Sesto Empirico, si ritrovano i testi di Cicerone e
S. Agostino sugli scettici antichi, gli scettici moderni che li riprendono, uno su tutti Montaigne.
È quindi un tema ben noto, ma un piatto che ha due ingredienti nuovi: quindi mette in scena dei
dubbi scettici che sono argomenti tradizionali, ma ci sono due elementi che lo rendono diverso:
1. Rifermento a un Dio che può tutto, questo utilizzo con funzione scettica di un Dio onnipotente.
Non è nuovo il ricorso a Dio, ma il fatto che questa onnipotenza divina sia totale e si eserciti
anche rispetto alle verità analitiche ed essenze matematiche. Almeno in parte, quindi, è un
ingrediente nuovo. Anche altri scettici si riferiscono alla potenza divina per dubitare delle
certezze più certe, ma Cartesio va più lontano. Con la dottrina della libera creazione delle verità
eterne: il fatto che Dio decida per una libera decisione che 2+2=4 e quindi avrebbe potuto fare
diversamente, questo è un elemento nuovo.
2. Cartesio propone un dubbio che riguarda anche l’esistenza del mondo esterno in generale.
Dubbio che consiste nel dubitare che tutta la nostra esperienza del mondo esterno sia una
illusione generalizzata. Dubbio che riguarda l’esistenza delle cose esterne non solo la possibilità
di conoscerle. L’esistenza stessa delle cose esterne. La prima ondata di dubbi: nostra incapacità
di conoscerle. Ma dalla seconda e ancora di più con la terza (distinzione sonno/veglia) non solo
errore di conoscenza delle cose percepibili con i sensi ma in generale l’esistenza delle cose fuori
da me.
Cartesio insiste sul fatto che la prima meditazione apre questo dubbio sull’esistenza stessa delle
cose che vengono percepite dai sensi, in modo generalizzato. Non solo la possibilità di
conoscere, l’esistenza stessa, la posizione delle cose fuori di noi, indipendentemente da noi.
Verso la fine della sua vita uno studente lo intervista. Viene fuori che nella prima meditazione si
parla in particolare e soprattutto delle cose esistenti e se queste ci siano veramente. La prima
meditazione apre il dubbio sull’esistenza stessa delle cose percepite dai sensi, non soltanto sulla
verità della percezione. Questo è un elemento nuovo.
Anche argomento di indistinzione sonno/veglia: mai declinato nel senso della vita forse può
essere un sonno, ma si dice che spesso sembra di essere sveglio, mentre sogno che presuppone
la distinzione dell’esperienza di sonno e veglia. Questo veniva detto anche prima, non la vita
intera come sogno. Il dubbio sull’esistenza generalizzata del mondo esterno è nuovo ed è
proprio per questo che viene introdotta la novità della prova del mondo esterno.

22/2/22
Ci stiamo domandando se prima di Cartesio c’è qualcuno che dubiti dell’esistenza del mondo
esterno e si trovi nella condizione di doverla dimostrare. Cartesio immette due nuovi ingredienti,
utilizzando gran parte degli espedienti degli scettici antichi: il ricorso all’onnipotenza divina come
ragione del dubbio universale – Dio potrebbe fare, secondo la dottrina della libera creazione delle
verità eterne, che 2+2=5; dubbio sulla esistenza delle cose esterne, non soltanto sulla possibilità di
conoscerle. È un dubbio che tutti possiamo formulare. La fortuna di Matrix come film – non è un
film semplice – si fonda sull’idea che noi capiamo la plausibilità del dubbio che si pone il
personaggio. Se non fosse plausibile per uno spettatore medio non avrebbe fatto tutti quei soldi il
film. Non è in realtà un dubbio così naturale, tant’è vero che molti filosofi prima di Cartesio non
l’hanno formulato.

T4) Scetticismo antico. Agostino, Contra academicos. Mai i vostri argomenti mi hanno convinto
sulla impossibilità universale della percezione. Quello che gli scettici dicono è che non la
percezione del mondo è dubbia, non la sua esistenza. Le impressioni soggettive del mondo possono
essere sbagliate.

Scolastica. Simile allo scetticismo antico, ma leggermente diversa. I medievali avrebbero avuto i
mezzi per formulare un dubbio simile a quello di Cartesio, ma non lo fanno. Avrebbero avuto una
teoria del “velo delle idee”, ma questo non implica il dubbio cartesiano.
Vediamo il motivo della mancanza di esigenza di dubbio sul mondo esterno. Possiamo distinguere
due ordini di illusioni sensibili. Due usi possibili: un uso naturale delle nostre facoltà sensibili e uno
non naturale. Nel caso dell’uso delle facoltà sensibili nelle condizioni normali non ci sono ragioni
per formulare un dubbio sull’esistenza del mondo esterno per almeno quattro motivi. Gli usi non
naturali è quando qualcosa di non naturale, superiore alla nostra natura – Dio, angeli e demoni –
interviene nelle nostre sensazioni. Non naturale rispetto alla nostra quotidianità normale. Per una
vasta parte della nostra storia della metafisica esistono enti superiori o diversi da noi. Quattro
ragioni:
1. Metodo. Quando i medievali si interrogano sulle illusioni della sensazione si tratta sempre di
un’analisi di tipo ontologico, piuttosto che epistemologico. A loro interessa capire come si
produce una illusione, un passaggio di specie tra un oggetto percepito e un soggetto
percipiente, non gli interessa capire cosa si può conoscere, una teoria generale sulla
conoscenza dell’uomo. Gli interessa spiegare in modo meccanico o funzionale capire come
funziona la conoscenza umana, non cosa in generale possiamo conoscere, le implicazioni in
senso largo. Cartesio dice che se a volte ci sbagliamo allora i sensi sono inaffidabili, va
subito alle conseguenze generali. Il medievale andrebbe nel particolare a cercare di capire
cosa è successo. Diverso approccio epistemologico.
2. Le illusioni per i medievali sono una conferma della affidabilità dei sensi. Al contrario di
Cartesio: siccome a volte ci sbagliamo, allora i sensi sono solitamente affidabili. L’analisi
delle illusioni e degli errori nell’ambito della sensazione è una conferma della validità dei
sensi come strumento di conoscenza. Cartesio diceva al contrario: dato che talvolta i sensi
mi ingannano, allora dobbiamo dubitarne sempre. Anche nei medievali c’è una
generalizzazione, ma in senso negativo. Nel Discorso sul metodo, 1637 scritto in francese
per il volgo, mentre le Meditazioni metafisiche escono quattro anni dopo, dice che potrei
sbagliarmi anche nei ragionamenti più astratti e nelle verità più generali e certe come quelle
matematiche.
3. Teoria della informazione. Se la adottiamo allora dubitare dell’esistenza del mondo esterno
è inutile. Se io vengo informato, modellato dalla forma di una cosa esterna che agisce sui
miei sensi, allora questa esiste.
4. Assioma e argomento forte per l’approccio generale alla conoscenza: l’uomo è fatto per
conoscere. C’è un finalismo che fa sì che l’uomo sia fatto per conoscere. Dio non ci dà una
cosa che non funziona. Dio quando ci fa ci fa nel migliore dei modi, e dato che abbiamo i
sensi questi non possono che funzionare bene, per cui non c’è motivo di porre un dubbio di
ordine generale.
Quindi per quanto riguarda le cause naturali, cioè gli usi naturali delle nostre facoltà di conoscenza,
è evidente che non ci sono buone ragioni per formulare un dubbio sull’esistenza del mondo esterno.

Per quanto riguarda le cause non naturali, i tre tipi di enti che possono agire in noi, i medievali si
fanno quattro ipotesi quando incontrano un oggetto nell’esperienza: c’è un libro fuori di me, me lo
sta mostrando un demone, un angelo o Dio. Perché questa ipotesi non porta a dubitare dell’esistenza
di un libro fuori di me? Perché un demone non può fare altro che manipolare le sensazioni che già
ho, può soltanto combinare delle percezioni, ma non crearne ex novo.
1. Un diavolo non può produrre in me una allucinazione totale, un mondo che non abbia
nessun rapporto con il mondo che io abbia percepito. Questi sogni sono sempre
inevitabilmente composti dalle mie percezioni precedenti, come dice anche Cartesio. Non
posso sognare qualcosa di completamente inedito per me. Il Diavolo può produrre solo delle
illusioni, non delle allucinazioni in senso proprio, può bensì ricombinare delle sensazioni
che io già possiedo.
2. Gli angeli sono più perfetti dell’uomo, diversamente dal Diavolo. L’angelo potrebbe di
principio ingannarci in maniera totale, produrre un’illusione di qualcosa che non esiste per
niente, ma non lo fa. Per una serie di ragioni, perché in ogni caso non può impedire a una
creature inferiore come l’uomo di conseguire una condizione che gli spetta, quella di ente
sensibile capace di conoscere, ciò che la natura d’uomo esige. Di principio potrebbe farlo,
ma gli angeli non sono stronzi e non lo fanno, mentre il Diavolo sì.
3. Nel caso di Dio non soltanto potrebbe, ma può farlo sia di principio che di fatto. Egli non ha
condizioni nell’esercizio delle sue capacità e poteri. Dio però non vuole – così i medievali
risolvono la questione. Perché è buono. Un Dio ingannatore sarebbe qualcosa che non
conviene alla natura divina.
In questa maniera non c’è spazio di manovra nella riflessione medievale per situare un dubbio sul
mondo esterno. Il mondo esiste e io lo percepisco: su questo non ci sono dubbi. I medievali
avrebbero a rigore gli strumenti, ma non li usano nel modo in cui Cartesio li usa.

Nel passaggio da Tommaso a Scoto si sviluppa una riflessione sulla distinzione tra potenza assoluta
e potenza ordinata in Dio. Si distingue quindi in maniera sempre più netta potenza ordinata e
potenza assoluta: una onnipotenza esercitata rispettando l’ordine delle cause naturali – e anche
l’esistenza degli oggetti, oltre alle leggi della natura – accanto alla quale si insiste sempre di più su
una potenza illimitata, per cui Dio può tutto, potendo fare sì che le cose siano del tutto diverse da
come sono, non esercita questa potenza assoluta, ma irrigimenta la sua potenza nell’ordine dei
fenomeni naturali così come si producono. La potenza assoluta di Dio si manifesta nei miracoli, per
esempio. Questo insistere sulla potenza assoluta di Dio è un elemento che può andare nella
direzione di un dubbio radicale, perché Dio può a priori e di fatto, ma non vuole. Sorge il dubbio:
non è che Dio in realtà anche vuole? Dio è buono quindi non può mai fare sì che io mi sbagli
quando conosco, ma essendo onnipotente in un momento eccezionale sì. Riflessione sulla
onnipotenza divina sviluppata dal XIV secolo in poi, che ha effetti anche in Cartesio. Dio può
addirittura negare le leggi della logica, fare che ciò che sia avvenuto non sia mai avvenuto, andare
financo contro il principio di non contraddizione. Questa riflessione pone l’accento su ciò che Dio
può fare rispetto alla sua bontà, così che il dubbio sul suo inganno diventa non necessario, ma meno
implausibile.

Pier D’Ailly (1351-1420) ci propone una riflessione su evidenza assoluta ed evidenza condizionata.
Questo ci permette di considerare meglio la distinzione sull’onnipotenza divina. Evidenza assoluta e
condizionata sono identiche tranne che per un elemento, condividendone tre:
1. Si distinguono dall’errore perché sono una forma di assentimento vero, sono una forma di
giudizio vero.
2. Producono questo giudizio o impressione di verità nell’anima senza esitazione.
3. Sono causate naturalmente, non risultato di un atto di fede, di una azione e di una forza
sovrannaturale. Che la Trinità sia fatta come tale non posso averne un’evidenza né assoluta
né condizionata, lo conosco perché mi è stata rivelata.
Qual è la condizione di differenza?
4. L’evidenza assoluta impedisce in maniera totale e radicale che l’intelletto si sbagli in suo
proposito, non può mai indurci in errore. Ad esempio, i primi principi: identità, non
contraddizione e relazione fra tutto e parti. Di questo ho evidenza in maniera inconfutabile.
Secondo esempio: le verità matematiche. Terzo: so di vivere, di essere – precursore del
cogito. Qual è il quarto criterio che interviene? Quello per cui a proposito di queste evidenze
non posso essere indotto in errore a meno che Dio non cambi le carte in tavola, facendo un
miracolo e scompaginando l’ordine della natura, esercitando in maniera imprevedibile la sua
potenza assoluta. Condizionata perché ha una condizione, si tratta di una evidenza, ma sotto
la condizione che Dio lasci le cose come stanno. Quali sono gli oggetti di questa evidenza
condizionata? Le cose sensibili ed evidenti. Che la neve sia bianca e che sia così percepita
da me è indubbio, ma stante che Dio mantenga le cose così come sono. Se Dio scompagina
le carte e fa sì che il carbone mi appaia come neve bianca tutto va a rotoli. È un passo
ulteriore, siamo sempre più vicini sul dubbio sull’esistenza del mondo esterno, perché uno
potrebbe dire che tutte le nostre evidenze sono condizionate e c’è la possibilità che Dio che
ci ha fatto apparire le cose in un modo, potrebbe farcele apparire in maniera diversa. Salvo
che Pierre d’Ailly è un medievale e quindi glossa queste formule dicendo che non abbiamo
nessuna ragione di dubitare in questo senso, non abbiamo rationabiliter nessuna ragione di
dubitare. Perché renderebbe la nostra vita sensibile e mentale assurda, senza sensibilità e
nozione di causalità. Il mondo dovremmo immaginare essere completamente diverso da
com’è e pensare che noi siamo completamente disadattati a esso. Anche Pierre d’Ailly che
va abbastanza lontano e dice testualmente che sarebbe possibile che Dio distruggesse tutto
l’universo lasciando in noi le percezioni delle cose esistenti, l’ipotesi annichilatoria. Non ce
ne accorgeremmo, Dio potrebbe farlo. Si tratta di evidenze condizionate, ma non c’è motivo
per dubitarne. Quello che sappiamo di Dio, del mondo, degli angeli, dei demoni e di noi
stessi non ci permette di prendere sul serio questo dubbio. È un dubbio metafisico. Cartesio
userà ‘metafisico’ in senso tecnico, ma anche talvolta nel senso di iperbolico, cioè un dubbio
che non ha motivo di essere formulato, perché non ci sono ragioni di essere formulato.

I medievali quindi dispongono di strumenti necessari per formulare dubbi sull’esistenza del mondo
esterno, secondo cui è possibile che tutta l’esperienza non corrisponde all’esistenza del mondo
esterno e noi vivremmo una allucinazione universale. I medievali avrebbero potuto formulare
questo dubbio, a maggior ragione dopo la distinzione dell’onnipotenza divina e delle evidenze
assolute e condizionate, e tuttavia non lo fecero. Sarà Cartesio a farlo.

La prova della dimostrazione dell’esistenza del mondo esterno è uno degli elementi che struttura la
metafisica e in particolare la filosofia moderna, cioè non si trova prima di Cartesio e non si trova
più dopo Kant. Non c’è vero dubbio assimilabile a quello cartesiano prima di lui e non c’è più
bisogno della prova poi.

Discorso sul metodo (1637). Viene presentata anche il suo percorso esistenzial-intellettuale. Si parla
dell’esperienza del sogno e della veglia, ma si tratta non si una esperienza de-realizzante, di ipotesi
di annichilimento, ma soltanto una maniera per distinguere varie forme di sensibilità. Il problema
non è il sogno in quanto tale, ma il fatto che ci si limiti alle sensazioni per conoscere. Il sogno è
quindi un’altra forma di sensibilità – qui Cartesio è più aristotelico delle Meditazioni. Aristotele ha
scritto un trattatello sui sogni, concepiti come una modalità di percepire. È in questo senso che
Cartesio tratta del sogno e della veglia. Questa è un ambito in cui abbiamo percezioni sensibili più
intere, coerenti, mentre nel sogno più vive, ma meno evidenti. La morale non è quindi che è
impossibile distinguere il sogno dalla veglia, ma che non dobbiamo mai fidarci dalle sensazioni.
Con esse rischiamo sempre di sbagliarci. L’argomento del sogno è declinato nel Discorso sul
metodo in virtù di un altro tratto: è così vero che noi possiamo sognare delle verità – io posso
sognare un teorema matematico, quanti matematici l’hanno fatto e quante volte pensiamo in sogno
di sognare qualcosa di sensazionale, salvo poi destarci e scoprire che non era vero? Cartesio dice:
che io lo scopra in sogno o durante la veglia il teorema di Pitagora – sempre che resta vero, perché
io sono nell’ambito della ragione, non più del sensibile – questo conferma che il sogno è una figura
di un altro modo di sentire. Come tutte le sensazioni sono ingannevoli dunque è anche svalutato il
sogno. La soluzione che Cartesio offre al problema è che la distinzione tra le due distinzioni è di
grado: organicità. L’errore nei sogni è pensare di rappresentarsi delle cose sensibili alla stessa
maniera che le percepiamo durante la veglia. Alcuni tratti che dovrebbero rendercele più sospette di
quelle diurne, cioè che siano incoerenti, inorganiche e che non costituiscano una forma di
esperienza effettiva. Il trattamento del rapporto sonno-veglia è diverso da quello delle Meditazioni e
non implica di assumere l’ipotesi che la vita tutta sia sogno.

Ci possiamo domandare quindi perché – le Meditazioni non le ha pensate nei quattro anni
successive, pubblica il DSM per ragioni strategiche – nel Discorso non ci sia il dubbio generalizzato
sull’esistenza del mondo esterno, perché la coppia sonno-veglia non è la stessa. A questa domanda
ci sono due risposte che si possono dare.
1. Qualcuno gli chiede perché non ha insistito maggiormente sui dubbi nel Discorso. Nel marzo
del ’37 risponde: «avrei dovuto spiegare ampiamente la falsità e incertezza di tutti i giudizi che
dipendono dall’immaginazione, ma non l’ho fatto perché avendo scritto in lingua volgare avevo
paure che gli spiriti deboli abbracciassero subito i dubbi e gli scrupoli senza cogliere le ragioni di
non dubitare.» Anche il dubbio sulle verità matematiche non c’è nel DSM. La paura era quella di
non riuscire a recuperare il suo pubblico. Essendo un libro per tutti non era bene formularvi
dubbi troppo radicali che compromettessero la possibilità di pervenire alla certezza che li
vincesse. Tant’è vero che Cartesio infatti era stato considerato un ateo, lasciando in preda al
dubbio demolitore.
2. Per formulare il dubbio che abbiamo detto e soprattutto per proporre la prova che Cartesio
propone occorreva fare ricorso a uno strumento concettuale un po’ tecnico: la distinzione tra
realtà formale e realtà oggettiva delle idee. La realtà formale delle idee è la dimensione dell’idea
in quanto atto del pensare, che si distingue dalla realtà oggettiva delle idee, cioè la dimensione
contenutistica delle idee. Tutte le idee hanno la stessa realtà formale, sono tutti modi o atti,
meglio, del mio pensiero, laddove invece hanno realtà oggettiva diversa, perché la realtà
oggettiva dell’idea di Dio è infinitamente più grande della realtà oggettiva dell’idea di una
sostanza finita e così l’idea di sostanza finita rispetto ai modi della sostanza finita. Cartesio non
può inserire questi tecnicismi in un libro scritto per persone semplici e volgari.

Struttura delle Meditazioni metafisiche. Considerazione di tipo macrostrutturale e microstrutturale.


Partendo dalla seconda le Meditazioni sono un percorso scandito in giornate – ci sono riferimenti
costanti a questo. Ci sono a livello microstrutturale in apertura di tutte le meditazioni – forse salvo
la VI oltre che la I – una ripresa e riformulazione, che però spesso ci dice di più di quanto abbiamo
ottenuto dalla meditazione precedente. A livello macrostrutturale troviamo una struttura a cipolla,
con rimandi esterni più o meno simmetrici. La prima solleva dubbi sull’esistenza delle cose esterne,
l’ultima li scioglie, la seconda meditazione e la quinta per l’esistenza delle cose materiali, la terza e
la quinta propongono rispettivamente due e una terza dimostrazione dell’esistenza di Dio. La quarta
meditazione ragiona sulla questione del vero e del falso, che è centrale nelle Meditazioni: come
posso conoscere qualcosa in maniera certa. Oltre alla lettura lineare del testo è opportuno fare una
lettura che salta da una parte all’altra in maniera più o meno simmetrica. Ed è quello che faremo
noi: nella III meditazione si inaugura il problema dell’esistenza del mondo esterno che verrà risolto
nella VI. C’è un salto continuo tra due momenti simmetrici, che prevede naturalmente che quello
che c’è in mezzo sia conosciuto.

23/2/22
L’inizio della III meditazione vede uno sviluppo di una analisi critica di quello che potremmo
chiamare il realismo spontaneo: la credenza naturale non problematizzata che fuori di noi esistano
oggetti sensibili. Cartesio parte sempre dall’opinione comune dell’uomo volgare, abbiamo visto la
partenza dall’esperienza sensibile. Stessa cosa qui, il realismo spontaneo, immediato è un’opinione
comune per cui fuori di noi esistono corpi con cui noi interagiamo. Di Dio, che esiste. Parte dal
realismo spontaneo in una meditazione che non ha per tema l’esistenza delle cose materiali – lo sarà
invece la VI, insieme alla separazione tra mente e corpo.
Tre momenti più un’introduzione, che è una ripresa del dubbio metodico e rimessa nel dubbio
meditante. La terza meditazione non si ricollega alla fine della seconda, ma un po’ più indietro.
Meditazioni’ è un termine inedito per la filosofia – al tempo era utilizzato in un contesto religioso.
Cartesio è un uomo che passa da una condizione da credenze apparentemente certe alla liberazione
da essa e alla acquisizione finalmente di certezze definitive. Cartesio sa come finisce il percorso ma
ci tiene sempre a ribadire a che punto siamo. È una strategia filosofica: non dobbiamo assumere
come già dato ciò che a questo punto delle Meditazioni non abbiamo ancora.

Tre momenti:
1. Analisi del realismo spontaneo: una sorta di decostruzione, riconduzione ai suoi elementi
fondamentali. Cartesio mostra che non è una postura immediata, non è un atteggiamento che
implica un atto unico, ma è il frutto di un giudizio, non è una postura immediata, una
percezione, un semplice rapporto con le cose esterne, ma è un frutto di un giudizio. Non è
una credenza immediata che tutti pensiamo di avere.
2. Confutazione, critica delle ragioni che sostengono il realismo spontaneo. Quel giudizio che è
in realtà il risultato di un’inferenza è un’inferenza infondata. Le sue ragioni non sono
sufficienti.
3. Refutazione, rigetto di queste ragioni che si sono dimostrate inefficaci. Non soltanto ci sono
sembrate inefficaci, ma ci sono buone ragioni per sostenere il contrario. Potremmo a
maggior ragione sostenere l’immaterialismo, piuttosto che il realismo.

La meditazione poi va verso la direzione della dimostrazione dell’esistenza di Dio. Nella VI


meditazione poi Cartesio però riprenderà le ragioni del realismo spontaneo ora ritenute insufficienti
in qualche modo riabilitandole. Il realismo spontaneo ritorna a essere ragionevole. È la differenza
tra opinioni vane e opinioni sane, gioco di parole che fa Pascal, che fa riferimento a un possibile
fondamento delle credenze. È possibile rendere ragione del realismo.

III MEDITAZIONE
Inizia con una ripresa del dubbio metodico. Negazione metodica: se c’è anche una parvenza di
dubbio allora questa deve essere considerata come falsa. È bene farlo adesso. Nella II meditazione
fa l’esempio della conoscenza di un pezzo di cera, che ci mostra come noi conosciamo meglio la
nostra mente di quanto conosciamo i corpi. Quando aveva introdotto questo esempio diceva che il
suo spirito aveva piacere a errare fuori strada e non riusciva a stare dentro i limiti della conoscenza
certa e bisogna lasciargli la briglia un po’ sciolta. Questa è la situazione in cui non so niente del
mondo esterno. Il pezzo di cera avrebbe potuto far sospettare al lettore dell’esistenza del mondo
esterno, avendo fatto una serie di esempi che farebbero credere che il mondo esiste. La seconda
parte della II meditazione sembrerebbe lasciare un po’ le briglie. Io so solo che esisto, come cosa
pensante, per il resto non so niente. Cartesio vuole ora ritirare le redini, non ammettendo niente di
vero se non ciò che è perfettamente indubitabile. E quindi dobbiamo chiudere gli occhi, chiudere le
orecchie e separarci da ogni conoscenza sensibile, che in quanto dubitabile è considerata falsa.
Ritorniamo a una posizione di dubbio metodico.
Sono una cosa che pensa. Anche se le cose che sento, penso, percepisco sono apparenze, sono certo
che sono in me. È un rimando alla II meditazione, da cui riprende esattamente le stesse attività della
cosa che pensa. Differenti atti di pensiero: dubbio, affermazione dell’ego, negazione del dubitabile,
ecc. Sono una cosa che pensa insieme ai miei pensieri, che hanno varie forme, sono vari modi del
pensiero. Metto in dubbio tutto il resto che proviene dai sensi. Resta un io con le sue cogitationes o
pensieri. Ho anche delle sensazioni e immaginazioni, però solo come contenuti mentali. Ho delle
rappresentazioni di cose sensibili, ma di cui sono certo soltanto come contenuti mentali, atti o modi
del pensiero. Quelle sensazioni mi dicono qualcosa su di me, non sul mondo. Quando sento
qualcosa devo sempre parafrasare, in regime di dubbio metodico, con «mi sembra di sentire».
1. Come possiamo descrivere questa condizione? È una condizione in cui lo spiritualismo o
immaterialismo è possibile, ma anche il materialismo. Delle cose che non sono pensanti non
so niente, quindi devo mantenere il dubbio. Può darsi che l’immaterialismo sia vero, come
anche l’immaterialismo. Nello stato attuale della meditazione non abbiamo niente di certo.
Io sono solo una cosa che pensa, per quanto ne so. Precisando, escludendo tutto quello che è
dubbio. Sospendo il giudizio sul resto. La conoscenza di me come cosa che pensa so che non
dipende dall’esistenza delle cose esterne a me, che per il momento resta completamente nel
dubbio. Situazione di certezza e incertezza al contempo.
2. Statuto dei contenuti mentali che mi sembrano di rappresentare cose fuori di me. Tra i
pensieri di me come cosa che pensa trovo anche sensazioni e immaginazioni: il punto è di
togliere da queste rappresentazioni il fatto che esse rimandano a qualcosa che esiste fuori di
me e che esiste di per sé stesso. In virtù del dubbio metodico devo scorporare da quelle
rappresentazioni che mi sembrano parlare del mondo il riferimento o al mondo. Sono
soltanto che io sto pensando, niente di più. Cartesio le qualifica a tal fine come «vane».
3. Questi contenuti mentali sono soltanto atti della mia mente. Questo isolamento dell’ambito
del mentale definisce strettamente l’ambito dell’indagine successiva. Adesso posso solo
esplorare meglio questa isoletta che ho. Non devo immaginare di avere possibilità di
uscirne, devo solo sperare che qui dentro si trovi qualcosa che non ho ancora individuato,
cui non ho ancora fatto attenzione.
Non ha ancora parlato di amare e odiare, per esempio, come atto della res cogitans. Il
francese lo aggiunge, ma non è pertinente.

Definita questa situazione di dubbio metodico e di certezza sull’ego e le sue cogitationes ora ricerca
in queste una possibile nuova certezza. Qualcos’altro di altrettanto certo quanto il cogito stesso,
quanto la mia esistenza come cosa pensante e le modificazioni di questo pensiero.
Se guardo meglio dentro trovo una regola. Nel cogito non si trova altro che una percezione chiara e
distinta di ciò che conosco. Questa non sarebbe sufficiente ad assicurarmi che è vera se percepissi
qualcosa di chiaro e di distinto che si dimostrasse poi essere falsa. Nel cogito trovo una esperienza
di cosa sia in generale essere certo di qualcosa, affermare qualcosa che mi si dà in una percezione
chiara e distinta. Ho già potuto stabilire una regola generale che mi mostra che una percezione, una
conoscenza chiara e distinta è anche vera. Questo criterio viene dedotto dal cogito. Regola generale
per identificare altre conoscenze altrettanto certe. Cartesio dice che le cose in realtà non vanno così
bene perché c’è sempre una ipotesi da scartare: che Dio mi inganni sulle conoscenze chiare e
distinte. Lo dirà poco più avanti. Può accadere che io mi sbagli anche nelle conoscenze dotate di
evidenza perfetta. Per cui bisogna dimostrare che Dio esiste, che Dio non è ingannatore e definire
che cos’è il vero e il falso – III e IV meditazione. Dopodiché potrà concludere che la regola di
conoscenza certa funziona. Per ora la regola resta sospesa, non applicabile perché prima va fondata
l’esistenza di Dio come garante della verità dell’evidenza delle idee chiare e distinte.

C’erano tante cosa che credevo chiare e distinte, ma poi in passato ho scoperto essere false. Questa
regola quindi mi ha portato fuori strada. Qui entra in gioco la faccenda del realismo spontaneo, un
esempio plateale di quanto sta dicendo. Il realismo spontaneo, con i suoi tre momenti di analisi,
confutazione e refutazione serve qui per dirci che quella falsa esperienza di certezza e distinzione
che crediamo di avere quando affermiamo che le cose esistono è falsa. In quel caso lì non c’è
chiarezza e distinzione, per cui non si sta applicando con validità quella regola generale. Ad
esempio concepivo l’esistenza di cielo, terra, astri e di tutto ciò che “usurpavo”, “commerciavo” coi
sensi. Cosa ho di certo di questa esperienza del mondo esterno che mi sembrava assolutamente
chiara e distinta, nel regime di dubbio metodico? Posso affermare con certezza che ho delle
rappresentazioni sensibili. Non nego che queste idee si presentino a me, che siano modi del mio
pensiero. Questo è certo. Quello che invece è incerto, che accettavo quasi per abitudine è che
pensavo che ci fossero delle cose fuori di me da cui queste idee procedessero e rispetto a cui erano
simili.
La presunta percezione è un composto di una certezza e di una incertezza: di una rappresentazione
mentale – questo è indubitabile, per cui posso affermare che ho delle idee – e di un giudizio –
mediato, non passivo e immediato come la percezione – di esistenza di una causa esteriore alla mia
idea, rispetto a cui è simile.
Cartesio fa un passo ulteriore e dice che è per abitudine a formulare questo giudizio dell’esistenza
della causa della rappresentazione che noi pensiamo che le nostre idee abbiano anche un riferimento
oggettuale esterno. Avviene per abitudine una confusione e commistione di percezione e giudizio
delle nostre rappresentazioni. Ma non possono essere unite, perché una è certa, l’altro suscettibile di
dubbio metodico. Sto confondendo due forme di presenza: la presenza di un atto mentale immediata
a me e invece la presenza fuori di me di qualcosa di reale che ne è la causa. L’analisi mi mostrerà
che non sto applicando la regola generale, perché sto applicando l’evidenza a qualcosa che è
evidente, ma anche a qualcosa che non lo è, perché il contenuto presenta due elementi uniti in modo
solo fittizio.
28/2/22
La III meditazione si ricala nella II, a metà. Cartesio dice: non ammetto se non quanto è vero solo e
soltanto necessariamente, cioè assumo come falso tutto ciò che non è necessario, ciò che è dubbio.
Per questo sono solo e soltanto, cioè precisamente, una res cogitans. Elimino, preciso, recido tutto
ciò che è dubbio. Sono una cosa vera, con un’essenza, ed esistente, che pensa. Per le cose che non
sono io, le res extensae o i corpi, sotto la condizione di dubbio metodico è possibile che non
esistano. La conoscenza di me stesso considerato così precisamente non può dipendere da cose di
cui non conosco neppure l’esistenza. Potendo dubitarne, devo negarle. È possibile che io sia una
cosa che pensa materiale o immateriale. La mia conoscenza di me non dipende dall’esistenza di
queste cose. Lo spiritualismo è vero, è certo che c’è una cosa che pensa, ma non l’idealismo. Sentire
in questo momento non è altro che pensare. L’ego con le sue cogitationes, atti di pensiero. Tra
questi ci sono anche atti che sembrano rinviare a qualcosa di esterno al pensiero stesso, come le
sensazioni. Ci sono anche atti di immaginazione, in cui sembro formarmi qualcosa di corporeo.
Questi atti sono in me, ma non devo per questo presupporre che esistano cose esterne. È possibile,
cioè dubbio, quindi falso.
La III meditazione riparte da qui. Metto in dubbio tutto il mondo esterno. Cosa trovo dentro di me?
Oltre all’ego e alle cogitationes, anche una regola: ciò che è concepibile come chiaro e distinto è
vero. Come viene scoperta questa regola? Nel cogito. Esperienza di una cosa chiara e distinta,
necessariamente vera. È possibile dubitare anche della regola generale. Perché? Perché potrei
immaginare che Dio sia ingannatore e mi faccia tale che anche nei casi in cui percepisco qualcosa di
chiaro e distinto anche in quei casi non vi sia certezza. Anche nel caso del cogito potrei sbagliarmi.
Anche in 2+3=5 potrebbe darsi il caso di un’evidenzia non assoluta, ma condizionata, sotto
l’eventualità che Dio non mi inganni. Quindi devo togliere la condizione del Dio ingannatore,
dimostrando che Dio esiste, che non è ingannatore e devo spiegare per quale ragione io mi inganno.
Alla fine della IV meditazione, dopo aver dimostrato che Dio esiste, che non mi inganna e come
può accadere che io mi inganni, allora può sostenere la regola generale.
Cartesio propone anche una analisi, confutazione e refutazione del realismo spontaneo, della
spontanea credenza dell’esistenza delle cose fuori di noi che siano la causa delle percezioni che noi
abbiamo.
Il realismo spontaneo sembra essere una applicazione della regola generale: in passato prendevo per
certo ciò che poi si è mostrato come dubbio, come i cieli, la terra, gli altri e le sensazioni. Ho
mostrato che il realismo spontaneo era dubbio. È un caso in cui la regola generale non funziona, o
funziona male, perché ci porta da ciò che è chiaro e manifesto a ciò che è dubbio.
Analisi del realismo spontaneo. Usurpare coi sensi vuol dire fare uso. Non è una condizione teorica
del riflettere con le sensazioni, è un livello preteorico. La terra, il cielo, gli altri e il resto vuol dire
tutto. Percepivo chiaramente i pensieri o le idee delle cose, ma mi ingannavo nel ritenere che
l’esistenza di qualcosa che le causasse fuori dime scaturisse dalla percezione stessa. Le idee o
cogitationes stavano davanti alla mia mente, obversari: mettersi davanti – ob-iectum. Le idee delle
cose sensibili erano davanti alla mia mente. Presenza alla mente delle idee di queste cose. Realtà e
realitas. Oltre a questo c’è un giudizio asserito: esistenza esterna, causalità conoscitiva e
somiglianza tra res e idea. Che si rifà alla teoria gnoseologica dell’informazione medievale. Da una
parte c’è la presenza dell’idea delle cose alla mia mente e dall’altra un giudizio dell’esistenza di una
causa simile all’idea. Composto di due figure della presenza: nella mente e fuori dalla mente. Noi
quando percepiamo il mondo usurpandolo, nella nostra quotidianità preteorica, pensiamo di avere
una percezione, cioè una sorta di datità immediata, una sorta di figura della passività. C’è qualcosa,
io vi sono davanti e soffro di qualcosa che mi affetta, affeziona, essendovi modificato. Cartesio: non
è una percezione, c’è un giudizio di qualcosa che io non percepisco direttamente, ma che suppongo.
Da una parte passività, dall’altra attività. Quando sono in una posizione di realismo spontaneo
l’unica cosa che percepisco veramente è la presenza nella mia mente delle idee. Poi dico che quelle
idee sono causate da cose esterne simili a loro. Ora – dice Cartesio – della percezione sono certo,
invece del giudizio di esistenza per quanto ne so è possibile anche il contrario.
1. C’è una equivocità del termine percezione: presenza delle idee davanti alla mente, presenza
delle cose davanti al soggetto percipiente. Laddove c’è percezione nel primo caso e credenza
nel secondo, giudizio abitudinario. Chi lo dirà in maniera estremamente chiara? Hume
lettore di Cartesio, che scrive due libri per glossare questa frase: ritenevo di percepirlo
chiaramente per l’abitudine che avevo a chiederlo. Hume: vi spiego come un giudizio che
deriva da abitudine diventa una credenza così salda che lo scambiamo per una percezione.
2. ‘Idea’: contenuto mentale. Per il momento ci interessa che ciò che avevamo chiamato
cogitatio, atto del pensiero, figura o modo del pensiero è idea.
3. Entra in scena anche una distinzione tra due tipi di atti mentali: percezione e giudizio, cioè
affermazione o negazione. Passività della ricezione della percezione e attività del giudizio,
che lavora su quel che la percezione dà.
4. La percezione produce un giudizio vero: sono una cosa che pensa che ha una percezione tra i
suoi pensieri. Il giudizio – esistono cose fuori di me causa delle mie percezioni – conduce a
una falsa percezione, un’apparenza di percezione.
5. Abbiamo parlato di analisi del realismo spontaneo: qui la riduzione produce un misto di cose
che sono in me e cose che sono fuori di me. Questa analisi produce la distinzione tra l’idea e
la sua percezione o il giudizio sull’esistenza, ma soprattutto ci mostra che un atteggiamento
che sembra immediato, spontaneo, compatto è un composto di due cose: cose in me e cose
che io postulo esistere fuori di me.
6. Esistenza esterna, causalità e somiglianza sono ciò che va a costituire il mio giudizio che è a
fondamento del realismo spontaneo. Strutturano poi anche la confutazione, refutazione e la
prova ulteriore. Se ho una percezione sensibile allora esiste qualcosa fuori di me che è la
causa della mia idea e che ha una qualche forma di somiglianza. Perché sceglie come esempi
il cielo, la terra e gli astri? Non abbiamo percezione della rotondità della terra bensì della
sua estensione piana, né dell’atmosfericità del cielo ma lo vediamo come uno schermo e le
stelle sembrano piccole luci attaccate sullo sfondo del cielo.

C’è un paragrafo poi che formula in maniera chiara l’ipotesi del dubbio radicale prodotto da un Dio
ingannatore. Proposizioni chiare e manifeste come le verità matematiche e geometriche come
2+3=5 possono essere falsificate da un Dio ingannatore. Distribuendo i miei pensieri in generi
precisi vedo in quali c’è verità e falsità. Vi si trova così il realismo spontaneo e la dimostrazione
della sua falsità.

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L’analisi ha mostrato che dietro a una presunta evidenza chiara e manifesta c’è una confusione. Se
la chiarezza vuol dire la presenza immediata indubitabile di qualcosa alla mente, la distinzione
significa la separatezza di qualcosa da tutto ciò che non è. Nel caso della percezione che ho
l’impressione di avere delle cose fuori di me ho certamente chiarezza, perché mi si dà così, ma non
distinzione, perché in realtà dentro quel mi si dà così ho un darmi così immediatamente dell’idea
alla mia mente e in più il giudizio abitudinario che esistono le cose fuori di me al di là e causa della
mia idea. La regola generale chiede come punto di partenza la chiarezza e la distinzione, ma non è
questo il caso. Cartesio quindi riprende la via principale del dubbio sull’esistenza del Dio
ingannatore, che va alla dimostrazione dell’esistenza di Dio della III meditazione e alla dottrina del
vero e del falso della IV. Per un paragrafo Cartesio prende questa via, però qui parlando dello
smontaggio del realismo spontaneo. Ha fatto l’analisi, mostrando che abbiamo la percezione delle
idee e il giudizio dell’esistenza di qualcosa fuori di me che è causa e che è simile alle idee in me.
Tutto questo sotto il criterio del dubbio metodico: il dubitabile è falso, per cui l’unica cosa che so
finora e sotto questo regime è che esiste la res cogitans più le sue cogitationes. Poi potrei anche
essere una cosa materiale che pensa, ma per ora so di essere solo una cosa che pensa. Ora tocca alla
confutazione.

L’ordine del pensiero richiede che…: l’unica cosa che so è il cogito. Il dubbio mi ha impedito di
procedere sulla via maestra della dimostrazione di Dio. Ordine è un termine metodologico, per cui
non presupporre mai qualcosa di nuovo che non sia deducibile da quanto già appreso: cogito e
cogitationes. La confutazione procede in due punti: (1) distribuire tutti i pensieri in due generi
precisi e (2) ricercare in quali di essi sia pertinente trovare la verità o la falsità.
Prima distribuzione: ci sono idee che sono tamquam immagini di cose. Altri pensieri hanno in più
forme ulteriori. Oltre a questa rappresentazione nel mio pensiero è compreso anche altro. Pensieri
che sono rappresentazioni di cose come delle figure, quadri di cose e altri pensieri che sono
rappresentazioni ma che in più comprendono qualcosa di più largo: volontà, affetti e giudizi.
1. Immagini non fa riferimento a qualcosa di immaginabile, configurabile con
l’immaginazione – contemplare le figure disegnate nella sede corporea. Come immagini qui
significa in generale essere rappresentative. La scelta del termine idea. Termine cui Cartesio
dà un significato profondamente nuovo. Prima era un termine riservato ai contenuti della
mente divina. Dio ha delle idee, nel senso che pensa le cose in quanto partecipanti nella loro
essenza nella mente divina. Con Cartesio ‘idea’ vuol dire ogni contenuto mentale che sia in
qualche senso rappresentativo, si tratti di idee sensibili, immateriali, essenze numeriche e
matematiche, incomprensibili come quella di Dio, ecc.
2. Idea è un contenuto del pensiero che è sempre controparte di una percezione, oggetto preso
nel pensiero come terminante di quello su cui un pensiero si applica. L’idea implica sempre
il cogito, il pensiero che ha bisogno di un oggetto del pensiero, l’idea è sempre dentro una
mente che la pensa. Ci sono altre forme di pensiero che sono volontà, affetti e giudizi. Non
esistono pensieri vuoti, stati mentali con pensieri senza oggetto di pensiero. I contenuti sono
le idee, gli stati mentali sono il fatto che noi apprendiamo, concepiamo, pensiamo alle idee.
Combinato di dimensione noetica, vita della mente nel senso di atto di pensiero, e
noematico, che implica che ci sia l’atto e il contenuto di pensiero.
3. Nozione di rappresentazione. Dire che le idee in senso proprio sono come delle immagini
vuol dire che sono rappresentative di cose, ma questa non indica solamente una
raffigurazione o somiglianza pittorica. Questo è importante perché ci sono idee di cose che
non sono raffigurabili, come Dio, un angelo, un ippogrifo, un personaggio letterario, ma non
solo. La rappresentazione stessa ha dei gradi di esattezza. Un’idea confusa o oscura è
un’immagine che ci mostra poco ciò di cui è immagine. Un’idea chiara e distinta invece ci
offre una rappresentazione che ci permette di riconoscere perfettamente ciò di cui parliamo.
Questo non vuol dire che le rappresentazioni siano anche perfettamente adeguate. La
conformità tra l’oggetto e la sua rappresentazione è una conformità sempre sotto un certo
rapporto. La totale e perfetta conformità è impossibile per l’uomo. Anche se ce l’hanno non
sanno di averla, perché solo Dio è in grado di giudicare che una rappresentazione è
perfettamente adeguata, completa.
4. Cartesio cambierà idea su questa faccenda. Quango gli chiedono la definizione di idee ne
darà una che comprende entrambe le categorie, non solo idea in senso proprio,
rappresentativo.

Le II obiezioni si concludono con una spiegazione, esposizione geometrica delle Meditazioni.


Propone una riesposizione secondo definizioni, assiomi, teoremi ecc. In questo luogo dà delle
definizioni. Saranno riprese nei Principi di filosofia, manuale di filosofia che nella sua speranza
avrebbe dovuto sostituire i manuali scolastici per i collegi gesuiti. Manuale didattico, sintetico e
chiaro. Ci dà definizione di pensiero e di idea. Pensiero: ciò che è talmente in noi che ne abbiamo
immediatamente coscienza, ovvero tutte le operazioni dell’intelletto, della volontà,
dell’immaginazione e dei sensi in quanto ne siamo coscienti e nei limiti della nostra coscienza.
Pensiero diventa sinonimo stretto di coscienza, criterio per riconoscere la presenza di pensiero. Se
c’è coscienza c’è pensiero e tutto ciò di cui abbiamo coscienza è pensiero, nei limiti di quanto per
noi è accessibile alla coscienza. Il che vuol dire che non c’è pensiero incosciente. Laddove
pensiamo che ci sia pensiero incosciente c’è in realtà materia, meccanicità. Pensiero è strettamente
coincidente con coscienza. Tutte le cose che accadono in noi essendone noi coscienti o in quanto ne
siamo coscienti. Talmente in noi che ne abbiamo immediatamente coscienza. Abbiamo coscienza di
tutto ciò che accade in noi. Del pensiero in atto, non come facoltà. Questo sta alla base del cogito: io
posso affermare che esisto soltanto e fintantoché sono capace di pensare in atto. Coscienza come
criterio del pensiero che si applica agli atti cogitativi, cioè agli atti del pensiero. Dalché la
definizione di idea: la forma di ogni pensiero in virtù della percezione immediata della quale
diventiamo coscienti di quel pensiero. Forma, il più di cui parlava prima: ci sono altre forme di
pensiero. Diventiamo coscienti di quel pensiero grazie alle forme: pensiamo sempre in maniera
determinata. Non pensiamo mai in astratto, a vuoto, in maniera indeterminata. C’è una forma del
pensiero in virtù della percezione della quale diventiamo coscienti del nostro pensiero. Questa
definizione di idea permette di definire i pensieri in tutte e tre le forme. Quando diciamo pensiero
c’è un atto intenzionale. Atti in quanto con-saputi, co-scienti dal soggetto pensante. Idea non viene
più ridotta al solo contenuto del pensiero, un’idea-oggetto, nome particolare dell’oggetto
intenzionale, ciò che il pensiero porta. Idea diventa un nome generico per dire tutti i nostri contenuti
mentali, cioè tutti gli atti di pensiero possibili. Idee cioè forme delle nostre cogitationes. Il pensiero
per Cartesio è sempre eidetico, se penso ho un’idea, se voglio so sempre ciò che sto volendo, se
desidero so sempre ciò che sto desiderando. Lo stesso è desiderare e sapere ciò che si desidera,
come per la volontà e il sapere. La coscienza è coscienza del pensiero come determinato in un modo
o in un altro.

In quali di questi generi c’è la verità e la falsità? Per quanto riguarda le idee se le si considera in sé
sole sempre senza riferimento ad altro è impossibile che siano false. Le idee sono sempre vere, nel
senso che è sempre vero che ho quell’idea. Posso anche avere un’idea oscura e confusa, ma ho
quell’idea. Comunque, è vero che sto immaginando, sto concependo questa idea. Se prendo in se
stesse anche le altre forme di pensieri, in particolare le volontà e gli affetti, non c’è possibilità di
errore. Posso volere qualcosa di male, addirittura l’impossibile, ma è vero che lo voglio, il mio
desiderio, la velleità. L’unico punto in cui rimane possibile il vero e il falso sono il terzo tipo di
pensieri, ossia i giudizi. Subito però declina questa ricerca come una ricerca della falsità: è nei
giudizi che c’è la massima occasione dell’errore. L’errore principale consiste nel considerare idee in
me come realmente esistenti mentre non lo sono. Nei giudizi c’è la principale e la più frequente
occasione di errore, che consiste nel ricondurre delle idee sensibili a cose esterne che ne sono causa
o conformi. Lessico della teoria della conoscenza come informazione. Se c’è dell’errore nelle nostre
conoscenze e pensieri l’errore viene in particolare e solo e soltanto da questi giudizi in cui noi
riferiamo idee che sono in noi a cose fuori di noi come cause simili a quelle idee. L’errore per
eccellenza, quindi, è il realismo spontaneo. Ma è anche il luogo dove per eccellenza ci sbagliamo.
La convinzione del realismo spontaneo è l’errore più palese e principale dei nostri giudizi.

2/3/22
Idee-oggetto e forme di pensiero che aggiungono qualcosa di più ampio: volontà, affetti e giudizi.
Nell’idea è compreso un riferimento al pensiero, dimensione noematica di cui il pensiero è la faccia
noetica. Alla domanda su dove troviamo il vero e il falso la risposta è nei giudizi, in maniera
precipua e frequentissima in quei giudizi che riferiscono un’idea nel primo senso a un oggetto che
sia esterno e rispetto all’idea causa e simile. L’errore si trova in particolare nei giudizi perché i
giudizi implicano un riferimento a qualcos’altro. Forma diversa di analisi che aveva già proposto.

Re-ferre. Seconda distinzione condotta a partire dall’idea di origine, unde. Scoperto questo filo
conduttore ho scoperto che la possibilità del falso dipende dal fatto che io talvolta riferisca,
riconduca delle idee a cose fuori di me. Però guardiamo le idee dal punto di vista del re-ferre, del
riportare, della loro origine. Alcune idee mi sembrano innate, altre avventizie, altre ancora fatte da
me, fattizie. Ci sono delle nozioni di cui conosco il significato in maniera innata, dalla mia stessa
natura, da me. Le idee innate hanno origine in me. Esempi: cosa significhi cosa, verità, pensiero.
Queste tre nozioni entrano nel cogito: io sono una cosa che pensa. Io sono, io esisto, ogni volta che
lo affermo o lo concepisco con la mente necessariamente è vero. Scoprirà che c’è l’idea innata di
Dio, delle verità matematiche. Gli esempi che ci dà tengono conto dello stato attuale del percorso.
La verità per Cartesio fa parte delle idee innate. Anche questa è una tesi che ha grosse difficoltà:
qual è l’idea innata a cui pensi quando concepisci l’idea innata di verità? La vecchia dottrina
scolastica dice che la verità è l’adaequatio rei et intellectus. Cartesio dice tra oggetto e intelletto: sta
parlando di realitas o realtà? Difficile venirne a capo.
Cartesio eredita la dottrina delle idee innate. Nella V meditazione riprenderà il Menone. È qui
platonico. Dire che una idea è innata vuol dire che abbiamo in noi la facoltà di produrla, senza
bisogno di trarla da qualcosa che è fuori di me. Oppure dice che l’idea innata è la medesima cosa
che è la facoltà di pensare, perché riscontro nella facoltà di pensare dei pensieri che non procedono
né da oggetti esterni né dalla mia volontà. È una passività senza alterità, una datità a partire da sé,
originaria. Disposizione che non dipende da nient’altro. Come quando diciamo che la generosità è
innata in una certa famiglia, o una certa malattia. Il che fa sì che in certi punti Cartesio dice che tutte
le idee sono innate, in un certo senso, perché sono io a pensarle. Nel senso più forte, preciso e ben
definito le idee innate sono caratterizzate da una passività senza alterità.
Idee avventizie. Ho aggiunto alle idee che avevo del sole, la percezione del calore e di un rumore
l’idea di una causa esterna che è causa dell’idea che ho. Ho fatto un passo ulteriore e ho riferito le
mie idee a qualcosa fuori di me. Ora so quanto questo era un pregiudizio che non era così certo e
inattaccabile. Hanno origine esterna, rispetto a cui sono passivo.
Idee fattizie: fatte, finte costruite da me stesso. L’ippogrifo, la sirena sono idee da me confezionate.
La loro origine può essere la più varia: componendo idee avventizie tra loro, con innate – come il
pensiero. L’origine anche in questo caso è interna, ma mediata da una volontà attiva.

Questa classificazione Cartesio ce la propone come una tipologia presunta, apparente, formulata a
partire dalla presunta origine delle idee. Senonché, avendo fatto una origine solo presunta, quale sia
effettivamente la loro origine non lo so. In regime di dubbio metodico di questa origine non so
nulla.
1. È possibile che siano tutte innate, come in un idealismo solipsistico: tutto quello che mi pare
di vedere, sentire, ecc. ha origine in me nel senso che sono cose che saltano fuori dalla mia
facoltà di pensare.
2. Seconda ipotesi: sono tutte fattizie, che corrisponde al sogno continuato, per cui la vita è
sogno. Tutto quello che provo è una continua costruzione della mia mente. Resta il problema
del reperimento del materiale di partenza, dei contenuti che richiedono un accesso al mondo.
Mettendo questo tra parentesi, la vita come tale sarebbe un sogno continuo. È una forma di
solipsismo anche questa, solo che in un caso le idee mi arrivano, nell’altro le sto producendo
io.
3. Tutte le idee sono avventizie: empirismo. Niente è nell’intelletto che prima non sia stato nel
senso. Sensazione e idea avventizia sono sinonimi. Senza sensazione non c’è niente nella
mente. Da Aristotele a Locke: le idee innate sono astrazioni da idee avventizie.

Il problema di Cartesio è portare le nostre idee a qualcosa fuori di noi. Segue la domanda
sull’origine delle idee e questo gli permette di distinguere 3 tipologie di idee, facendo anche tre
ipotesi: quella solipsista, quella di Calderon de la Barca e quella empirista. Bisogna ora considerare
le ragioni che mi inducono a ritenerle somiglianti a tali cose. Mi devo domandare quali ragioni mi
conducono a giudicare che esistano delle cose fuori di me che sono causa e che sono simili a quelle
idee che ho in me. Devo guardare se in queste idee avventizie che ho isolate ci sia qualcosa che
giustifichi questo giudizio qua, secondo il quale alle mie idee avventizie io possa riferire delle cose
che sono fuori di me, causa e simili. Devo comprendere le ragioni del giudizio che sta dietro alla
percezione delle cose esterne. Quali ragioni ho di formulare quel giudizio? Ora si tratta di mettere in
luce le ragioni del realismo spontaneo e mostrare che non sono buone ragioni.
1. Sembra che questo mi sia insegnato dalla natura.
2. Faccio esperienza che queste idee mi si presentino contro la mia volontà, nonostante essa,
sono involontarie. Prescindono da me stesso. C’è una passività che esclude una
determinazione o decisione soggettiva.
1. Impulso spontaneo, non lume naturale. La luce naturale è indubitabile, infallibile. Impulso
significa slancio cieco. L’impulso naturale spesso mi ha condotto al mio male, all’errore.
C’è spontaneità buona e spontaneità cattiva.
2. Involontario non significa necessariamente esterno alla mente. Potrebbe essere in me, ma
che mi rimane oscuro - come l’inconscio.

7/3/22
Nelle idee innate l’atto di pensiero è volontario, l’oggetto di pensiero involontario. Per le idee
fattizie entrambi l’atto e l’oggetto sono volontari. Invece con le idee avventizie né l’atto né
l’oggetto sono volontari.
La luce naturale mostra che dato che dubito esisto, mentre gli impulsi naturali mi hanno spesso
ingannato col senno di poi. Differenza tra una spontaneità buona e una spontaneità cattiva. La
spontaneità può essere una guida falsante nella misura in cui non si identifica con il lume naturale.
Che queste idee siano involontarie non significa che provengano da qualcosa di fuori di noi. È
possibile che ci sia una facoltà nascosta in me che è causa di queste idee. Ne segue un giudizio
ragionevole sull’esistenza di una causa esterna simile all’idea. Sarebbe assurdo che a mandare le
idee in me fosse qualcosa di esterno ma diverso da ciò che mi rappresento. A questo giudizio viene
invece opposta una serie di casi banali: l’immagine sensibile del Sole rispetto a quella astronomica.
Se abbiamo per la stessa cosa, il Sole, due idee diverse, allora questo vuol dire necessariamente che
non ci può essere somiglianza con la cosa, altrimenti ci sarebbe anche somiglianza tra le idee.

Qui stiamo facendo una sorta di approfondimento del primo smontaggio del realismo naturale, che
ci offre dopo l’analisi una percezione dell’idea e un giudizio. Ora sappiamo che si tratta di idee
avventizie, che hanno la caratteristica di presentarsi come involontarie. Abbiamo un’idea
avventizia, che ha una serie di caratteristiche, la cui più interessante è che ci sembri involontaria.
Non si fa realismo spontaneo con idee fattizie o innate. Il giudizio ora è riformulabile: è qualcosa
che deriva da una propensione naturale, anzi da un impulso naturale. È l’effetto di un impeto
spontaneo. Cartesio sta affondando sul realismo spontaneo: ora sappiamo in cosa consiste e da dove
deriva.
C’è una differenza tra l’impeto spontaneo e il lumen naturale. Primo elemento di affidabilità.
Perché uno è affidabile e un altro no? Una spontaneità – quella del lumen naturale – è
incorreggibile, laddove la spontaneità legata alla credenza delle cause esterne come cause delle mie
idee avventizie è correggibile. Ci si può affidare del lumen naturale perché non c’è niente che ci
permetta di mettere in discussione il lumen naturale, non c’è una facoltà ulteriore per discriminare il
suo errore. Invece l’impeto spontaneo è correggibile, perché ci può rettificare di avere preso una
strada sbagliata. Capace di essere corretto dall’uso di una facoltà ulteriore oppure no sono le due
qualità che decidono della affidabilità o inaffidabilità di un impulso o di una tendenza spontanea.

Sono due spontaneità che sembrano avere ambiti di applicazione diversa. Per quanto riguarda il
lumen naturale è inconfondibile che abbia una funzione innanzitutto teorica: per primo da esso è
evidente che esisto. Laddove quando ci parla dell’impeto naturale fa l’esempio sul bene, pratico.
Ricorda una formula che c’è in Ovidio e in San Paolo: video meliora proboque, deteriora sequor,
questione della akrasia della volontà.

Questo passaggio dagli esempi di carattere pratico ci consente di distinguerli a partire dai loro
effetti: l’uno ci dà certezza e stabilità, l’altro insicurezza e instabilità.

Cos’è il lumen naturale? Da dove lo tiriamo fuori? Dal cappello, senza preavviso. Qua Cartesio fa
entrare in scena un operatore epistemologico che lui ritiene indispensabile per considerare la vita
della mente, dato come evidenza che ciascuno deve sottoscrivere. Non c’è nessuna prova di esso e
che sia affidabile, salvo dire che c’è. A partire dal cogito. Il cogito anche in questo caso tiene in
piedi tutto il sistema cartesiano. Mi ha detto che penso, che posso derivare dal cogito una regola
generale. Dal cogito tiro fuori anche il lume naturale, cioè una capacità di ben giudicare, comune a
tutti gli uomini (cfr. altrove). «La potenza di ben giudicare comune a tutti gli uomini.» Una volta
che l’ho pensato il cogito, è un’evidenza. Questo è il lume naturale. Sta chiamando con un altro
nome una cosa che lui ha già sperimentato, nel cogito.

È una spontaneità buona che conduce al vero. Facoltà di ben giudicare, ma in particolare di
percepire, di accedere ai principi. In questo Cartesio non fa altro che utilizzare un lessico che i suoi
contemporanei conoscono, cfr. San Tommaso. Capacità di accedere in maniera incontrovertibile a
dei principi. Questi principi sono per esempio il cogito, che in una lettera famosa è chiamato
«principio». Alcuni principi di ordine causale sono introdotti per mezzo del lume naturale. Più
avanti ancora l’idea che ingannare sia una forma di difetto e che non sia attribuibile a Dio, e anche
la regola generale stessa è sottoposta al lume naturale. Conoscenze prime, che una volta che le si
pensa non le si può concepire che come vere. Queste verità non sono sottomettibili a un dubbio
effettivo e le vediamo in virtù di questo lumen naturale.

Abbiamo adesso il cogito, la regola generale – che per adesso è in dubbio ma che sappiamo che poi
verrà approvata – e il lume naturale.

L’involontarietà viene smontata facendo riferimento alla possibilità che ci sia in me una facoltà di
cui non so niente e che è causa delle mie idee. Le mie idee potrebbero essere frutto di una mia
facoltà non ancora conosciuta. Questa è una ipotesi legittima: so qualcosa di me stesso, ho
cominciato a esplorare l’isola che sono io stesso, ma ancora non l’ho esplorata tutta. Non so se in un
angolo di quest’isola non ci sia una facoltà capace di produrre idee avventizie, una capacità
effectrix, capace di produrre come causa efficiente le mie idee.

La conclusione è che la tendenza del realismo spontaneo, misto di percezione di idea avventizia più
giudizio motivato da naturalità e involontarietà, è in realtà un impulso cieco, senza ragioni. Una
tendenza effettiva che trovo in me, non costruzione astratta o artificiosa. Cieco perché non
giustificabile. Questa è la confutazione che segue all’analisi. Non è una percezione ma un giudizio è
ciò che traggo dall’analisi. Non è un giudizio certo ma un impulso cieco è ciò che traggo dalla
confutazione. Il che lascia aperte le possibilità che non ci sia nessun mondo fuori di me, che questo
mondo ci sia ma non sia fatto come io lo credo, che il mondo ci sia ma che le mie percezioni non
derivino da quel mondo. Cartesio qua mette sul tavolo tutto ciò che dopo nella filosofia moderna
emergerà: Malebranche e l’occasionalismo, Berkeley e l’idealismo, Leibniz. Vie già aperte in tre
righe.

Non solo le ragioni del realismo spontaneo non sono sufficientemente buone, ma ci sono inoltre
ottime ragioni per refutarlo. Ci arriva attraverso una serie di passaggi indiretto che hanno come
scopo principale la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Cartesio aveva distinto tra percezioni, cioè
idee nel senso forte, e altre forme del pensiero. Aveva offerto una seconda tipologia tra idee: innate,
avventizie e fattizie. Ora offre una terza tipologia, in questa nuova via – dice – che resta da
percorrere. La questione dell’origine delle idee è sempre direttiva. Nuova tipologia che si basa sulla
distinzione tra realtà formale e realtà oggettiva delle idee. Le idee sono degli atti, cioè dei modi del
pensiero, delle modificazioni della res cogitans e d’altro canto sono degli atti rappresentativi, cioè
non soltanto delle cogitationes ma delle cogitationes che hanno un oggetto.
Idea è una nozione equivoca presa formalmente è un atto del pensiero, una modificazione della res
cogitans, presa oggettivamente è la rappresentazione di qualcosa. Dal punto di vista formale è un
modo del mio esistere come cosa che pensa, dal punto di vista oggettivo è un modo di esistere della
cosa pensata nel pensiero. L’idea è un modo di essere della cosa stessa in quanto presente nel
pensiero. Realtà formale e realtà oggettiva distinguono le due facce di ogni pensiero, atto e oggetto
di pensiero – dimensione noetica e noematica. Le idee hanno sempre una realtà formale e una realtà
oggettiva. La realtà oggettiva è realtà dell’idea, un modo di esistenza dell’oggetto rappresentato. Il
Sole in quanto oggetto di pensiero da parte di una sostanza pensante.

Da un punto di vista della realtà formale le idee sono tutte uguali, sono tutti modi della sostanza
pensante. Da un punto di vista formale le idee sono tutte uguali, non c’è differenza alcuna,
sembrano tutte procedere da me. Sono però diverse da un punto di vista della realtà oggettiva: sono
diverse le cose rappresentate, che hanno diversi gradi di realtà. Si distinguono le sostanze dai modi
e poi le sostanze finite da quelle infinita – una, che è Dio. Le sostanze finite sono tutte quelle create:
materiali animate e inanimate, immateriali – gli angeli – e poi i modi di queste sostanze. Cartesio
dice che la realtà oggettiva rispecchia la gradazione di questa realtà formale delle cose fuori di noi.
Da un punto di vista formale le sostanze infinite hanno più realtà delle sostanze finite e queste
hanno più realtà dei modi. Lo stesso vale per le idee: l’idea di Dio ha più realtà oggettiva dell’idea
di un angelo, che a sua volta ha più realtà oggettiva dell’idea di un colore o di grandezza. Se
l’essere oggettivo è il modo di essere delle cose nell’intelletto e nelle cose fuori dall’intelletto ha
diversi gradi di perfezione e di realtà, allora ci saranno diversi gradi di perfezione e di realtà nella
realtà oggettiva delle idee. Il che non significa che una cosa sia più o meno nell’intelletto, ma che la
cosa rappresentata abbia più o meno realtà di un’altra.

Abbiamo una nuova tipologia, quella descritta dalle idee e poi i due aspetti delle idee. C’è inoltre
una gerarchia di realtà e perfezione nelle cose del mondo che poi è rispecchiata nella realtà
oggettiva delle idee. Qui stiamo cambiando tono, dalla meditazione al trattatello. Ci dice che c’è
una facoltà per distinguere il vero e il falso: il lume naturale. Poi dice che il mondo ha diversi gradi
di perfezione che si riflette nella distinzione tra realtà formale e in particolare oggettiva delle idee.

Viene introdotto un assioma causale, attribuito al lume naturale. In una causa efficiente e totale ci
deve essere tanta realtà quanta ce ne sia nel suo effetto. La realtà della causa ≥ realtà del suo effetto.
Verità incontrovertibile che percepiamo con il lume naturale. Cartesio ce lo dimostra nell’unico
modo in cui i principi possono essere dimostrati, cioè per assurdo. Perché - «ne segue» - ex nihilo
nihil fit. Ciò che è meno perfetto non può essere causa di ciò che è più perfetto perché per fare
qualcosa di più perfetto dovrebbe dare ad altro qualcosa che non possiede.

Non si tratta di una causa e basta, ma efficiente e totale. Efficiente: produce l’essere dell’effetto, che
non può avere realtà da altro che dalla sua causa. Totale: l’effetto deve tutta la sua realtà dalla sua
causa, non parzialmente o relativamente a un suo aspetto. Per esprimere queste due condizioni
Cartesio utilizza due termini: causare formalmente o causare eminentemente. La causa che è uguale
nel suo grado di realtà al suo effetto è una causa che causa formalmente il suo effetto. La causa che
ha più realtà dell’effetto è una causa che causa in modo eminente l’effetto.

Un elemento che viene introdotto in maniera surrettizia è che l’essere oggettivo è un modo
imperfetto d’essere ma un modo d’essere. Anche all’essere oggettivo potrà essere applicato questo
assioma causale. L’essere oggettivo non è un puro niente, una funzione del pensiero, ma un modo
d’essere. Un modo di essere più imperfetto del modo di essere fuori dalla mente, ma non un puro
nulla. Essere oggettivamente è un modo d’essere che ha un suo importo ontologico.

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Assioma della causa efficiente. L’applicazione di questo assioma non riguarda soltanto gli effetti la
cui realtà è attuale o formale – le sostanze finite e infinite e i loro modi -, ma riguarda anche le idee.
Esempio di applicazione alle realtà o cose: pietra e calore. Poi alle idee: anche per la realtà
oggettiva ci vuole una causa che abbia altrettanta realtà quanta io ne trovo oggettivamente nell’idea.
Per il momento Cartesio ci sta dicendo che l’assioma della causalità non vale soltanto per le realtà
formali, ma anche per le realtà oggettive. L’essere oggettivo non è un puro niente, ma un modo di
essere effettivo, che perciò esige una causa. Non è una pura finzione, ma è un modo di essere
effettivo, e in quanto tale cade sotto l’assioma causale: ci deve essere una causa anche per le realtà
oggettive ed essa deve rispondere alle stesse esigenze di altrettanta realtà formale di quella
oggettiva.

Cartesio fa due obiezioni che vengono introdotte in maniera un po’ indiretta: è più esplicito nella
seconda:
1. Per le realtà oggettive non c’è una vera causa. Io non divento pietra quando penso una
pietra, quand’essa agisce sui miei sensi, non divento caldo quando sento il calore. Per cui
non c’è vera causalità, la realtà oggettiva non deve sottostare al principio di causalità. Quella
che si esercita rispetto alla realtà oggettiva non è una vera causa effettiva.
1. Risposta di Cartesio: la realtà oggettiva non è nulla, non è un perfetto nulla, è qualcosa.
In quanto tale ha bisogno di causa.
2. Questo modo di essere della realtà oggettiva è inferiore, imperfetto rispetto al modo di
essere formale delle cose. Il formale in un certo modo di essere è più dell’oggettivo.
3. Per l’essere oggettivo ci vuole una causa che sia distinta dal semplice essere formale
della mente. Formalmente le idee sono modi del pensiero. Per causare la realtà formale
delle mie idee basta la mia mente, perché sono tutti modi del mio pensiero. Da dove
viene il contenuto, l’oggetto dell’idea? Serve una causalità – realtà formale della cosa
esterna – che ha agito sulla realtà formale dell’idea determinandone il contenuto o realtà
oggettiva.
4. Pone un assioma ulteriore: la realtà della causa deve essere formale nel momento in cui è
causa della realtà oggettiva. La causa della realtà oggettiva deve essere ricercata in una
realtà formale che abbia tanta realtà quanto la realtà oggettiva di cui è causa. Devo
andare a ricercare nel mondo delle realtà formali che siano tante quanto le realtà
oggettive di cui sono causa.
Colpo di mano di Cartesio: sta dicendo che la causa delle idee sono il mondo. Dopo un
gran lavoro di decostruzione scopriamo che abbiamo un assioma che dice che la realtà
oggettiva delle idee mette capo a una realtà formale esterna alle idee che abbia tanta
realtà formale quanto la realtà oggettiva delle idee di cui sono causa. Fa un salto dalla
mente all’esterno della mente.
2. La seconda obiezione precisa l’assioma per cui la realtà oggettiva deve avere per causa una
realtà formale almeno tanto grande se non più grande. Uno potrebbe dire che non c’è
bisogno di uscire dalla realtà oggettiva. Io posso assumere che una realtà oggettiva abbia per
causa un’altra realtà oggettiva almeno tanto grande. Rimando a una causa che anch’essa ha
solo realtà oggettiva. Potrei supporre che l’idea di qualcosa abbia come causa un’altra idea,
che abbia altrettanta realtà oggettiva. Potrei non uscire dal mondo dell’oggettività, ma
restarci dentro e applicare l’assioma causale dentro la realtà oggettiva.
Perché c’è il salto dalla realtà oggettiva alla realtà formale, al mondo?
Perché le idee hanno come causa le cose. Assunzione strabiliante. Sarà luogo di infinito
dibattito per capire come vada qualificata. Quando cerchiamo la causa di un’idea dobbiamo
cercarla fuori dall’idea. Un principio si prova mettendolo in dubbio. Se fosse falso avremmo
regresso all’infinito, perché si deve pur pervenire a una prima idea, la cui causa deve essere
un archetipo che contenga tutta la realtà formale che nell’idea ultima è contenuto oggettivo.
Serve una causa prima che sia causa formalmente di tutte le realtà oggettive delle idee.
Esempio: Dio e Spinoza.
Il pregiudizio del realismo spontaneo ora è addirittura un assioma.

Otteniamo come nuovo compito la verifica dell’applicazione dell’assioma. La causa formale causa
formalmente o eminentemente una realtà oggettiva. Devo vedere se c’è una realtà oggettiva che in
qualche maniera non può avere come realtà formale, sia formalmente che eminentemente, me
stesso. Cioè se ci sia una idea di cui la res cogitans non possa essere causa. Devo vedere se c’è
un’idea la cui realtà oggettiva è tale che mi imponga di porre come sua causa qualcosa di diverso
dalla mia mente. Questa idea sarà l’idea di Dio, ma ci interessa meno, perché per fare questa
verifica Cartesio offre delle considerazioni interessanti sul realismo spontaneo. O trovo un’idea che
mi permetta di porre effettivamente l’esistenza di una causa che esista formalmente e che sia
diversa dalla mente oppure sono ridotto alla mente con le sue cogitationes.

Ritorna ora il rigore metodico, la condizione del meditante che ha solo la res cogitans e le sue
cogitationes.

Fra le mie idee c’è:


1. L’idea di me stesso, come res cogitans
2. Dio
3. Angeli (sostanze finite immateriali)
4. Uomini (sostanze finite materiali e immateriali)
5. Animali
6. Cosa inanimate

Per trovare la causa di ciascuna di queste idee dobbiamo uscire dalla res cogitans o no? Per l’idea di
me nessun problema. Per quanto riguarda le idee di angeli, uomini o animali possono essere ridotte
a 1 + 6 + 2. Posso comporle a partire dall’idea che ho di me, di Dio, delle cose corporee inanimate,
anche nell’ipotesi in cui mi trovo adesso in cui non esistano angeli, uomini e animali.

Nel caso delle cose inanimate non c’è niente che possa derivare da me in quanto res cogitans. Cosa
so chiaramente e distintamente dei corpi? Le qualità matematiche, geometriche: figura, estensione
(grandezza e posizione), movimento. A ciò si aggiungono sostanza, durata e numero. Questo è
chiaro distinto, mentre oscuro e confuso è tutto ciò che riguarda le qualità seconde: le qualità
sensibili. Quasi non idee, idee di non cose. Spiega che sono materialmente false – su cui
sorvoliamo. Quello che ci interessa è che hanno pochissima realitas, realtà oggettiva.

Le qualità sensibili dei corpi sono hanno così poca realtà che se sono false la causa sono io come
imperfetto e se sono vere hanno così poca realtà oggettiva che basto io a causarle. In ogni caso
basto io.

Per quanto riguarda le qualità comuni (primarie) le posso derivare da me stesso. Nell’idea di me
trovo quella di sostanza, durata e numero. Riduzione alla res cogitans.

Le qualità geometriche non sono derivabili da me, in quanto res cogitans. Però visto che la res
cogitans formalmente è una sostanza, la sua realtà formale è più grande della realtà oggettiva di
queste qualità che sono modi della sostanza. Figura, estensione e movimenti sono modi di una
sostanza che le faccia da supporto. La loro realtà oggettiva in quanto modi è inferiore alla mia realtà
formale di res cogitans in quanto sostanza. Quindi per l’assioma causale posso essere io la causa, in
modo eminente avendo più realtà formale di quella oggettiva di tali modi. Refutazione del realismo
spontaneo. Rimangono solo l’idea di me stesso e l’idea di Dio.

Scopro che tutte le rappresentazioni che trovo nella mia mente posso aver derivato tutto dall’idea di
me stesso, con l’unica eccezione dell’idea di Dio. Questo vuol dire che anche le idee avventizie del
mondo esterno, composte da qualcosa di chiaro e distinto – qualità e quantità di materia estesa,
sostanza, che dura nel tempo – e con qualità sensibili, tutto questo è derivabile a priori dall’idea che
ho di me stesso, senza l’esistenza di una cosa. Non si può escludere a rigore l’ipotesi immaterialista,
anzi abbiamo qui delle ragioni per l’immaterialismo più forti dei pregiudizi del realismo spontaneo,
per cui le idee avventizie siano provenienti da cose esterne, in modo involontario e per tendenza
naturale.

L’assioma causale deriva dagli assiomi della uguale o maggiore realtà della causa rispetto all’effetto
e della distinzione tra realtà formale e realtà oggettiva. L’idea di Dio è l’idea di una sostanza
infinita. Per trovare qualcosa che abbia altrettanta realtà formale della realtà oggettiva dell’idea di
Dio devo porre Dio, come sostanza infinita. Ottengo una definizione di Dio e la prova della sua
esistenza.

9/3/22
Le ragioni che mi conducevano a sostenere il realismo spontaneo erano insufficienti. Vige un
principio di ragion insufficiente. Le ragioni sono troppo deboli: confutazione. A ben guardare ci
sono anzi delle ragioni più forti o meno deboli per sostenere che non esiste niente fuori di me, solo
io e Dio. Non solo è infondato, ma ci sono buone ragioni per sostenere che sia falso. Siamo in
questa situazione. C’è però un assioma che ci conduce verso il realismo: la causa della realtà
oggettiva delle nostre idee deve essere ricercata fuori dalla nostra mente.

La VI meditazione inverte la polarità delle valutazioni fatte nella III: l’immaterialismo non ha delle
ragioni così forti, mentre il realismo più forti di quanto credessimo. Implica che si prenda coscienza
che si è arrivati a uno stadio ulteriore della questione. Le verità ulteriori sono contenute nella
seconda parte della III, nella IV e nella V meditazione. Dio esiste, non è ingannatore e la regola
generale è non valida e infondata. Abbiamo in più una terza verità, dalla V meditazione, che ci dice
qual è l’essenza delle cose materiali. C’erano idee chiare e idee confuse. Distinzione tra qualità
primarie, essenziali e qualità secondarie, soggettive che non stanno nelle cose ma nella nostra
percezione delle cose. Figura, estensione e movimento fa parte delle qualità essenziali delle cose.
L’altro elemento che si aggiunge è la possibilità di rivedere le argomentazioni precedenti. Io non
dovrò fornire argomenti nuovi, ma riconsiderare gli argomenti che prima mi erano sembrati deboli e
che ora potrebbero sembrare differenti alla luce delle nuove acquisizioni. Le ragioni che
sembravano insufficienti in realtà sono sufficienti per refutare l’immaterialismo. Ripresa del
realismo spontaneo sotto una luce nuova. La stessa prova ora sarà più chiara, a tal punto da essere
probante.

L’esistenza delle cose materiali è immediatamente da considerare come possibile. In quanto oggetto
della matematica pura. La possibilità delle cose materiali è dimostrata dal fatto che io ho l’essenza
di esse che coincide con la matematica pura. Le qualità matematiche sono conosciute in maniera
chiara e distinta, certa. Ma tutto ciò che conosco in maniera chiara e distinta fa parte della realitas,
di quelle cose che hanno una vera essenza, di quelle cose che sono effettivamente possibili. Dio in
quanto potenza assoluta può sempre realizzare quelle cose che sono nella loro essenza possibili.
Non si tratta di un quadrato-rotondo, ma fa parte dei contenuti mentali ben formati. Basta allora
applicare a questa macchina l’operatore Dio in quanto potenza assoluta e abbiamo la possibilità
della esistenza delle cose materiali. Burman intervista Cartesio e gli chiede spiegazioni. Cartesio gli
risponde che le dimostrazioni della matematica hanno degli oggetti veri e l’oggetto della
matematica preso nella sua realtà è un vero e reale ente, alla stessa stregue dell’oggetto della fisica,
con la differenza consta nella considerazione dell’oggetto come esistente in atto, mentre la
geometria come possibile. Enti reali nel senso di realitas, qui opposta al fatto di esistere in atto,
realmente fuori nel mondo.
Questa distinzione tra esistenza possibile delle cose materiali ed esistenza reale è la distinzione tra
geometria e fisica. Mathesis, analisi delle qualità semplicemente geometriche. La fisica è quella
stessa geometria, ma portata nel mondo reale. Per Cartesio è essenziale perché il suo progetto
scientifico è quello della matematizzazione universale della natura. La crisi delle scienze europee di
Husserl: sovrapposizione totale senza resto tra mondo naturale e mondo matematico. Principi di
filosofia: la seconda parte descrive la natura da un punto di vista matematico in astratto e la terza
passa ai fenomeni che esistono di fatto ed essi non sono altro che una trasposizione delle
considerazioni matematiche nel mondo reale. Questa è una delle ragioni per cui non Cartesio non
ammette il vuoto. Sui principi delle cose materiali e Sul mondo visibile sono i titoli delle due parti.

Posso dire che l’esistenza delle cose materiali è probabile. Guardiamo l’immaginazione, la quale
sembrerebbe non essere altro che l’applicazione della facoltà conoscitiva a un corpo che le sia
presente intimamente. Definizione per noi un po’ strana, ma che Cartesio assume far parte di un
lettore colto della sua epoca. Questi avrebbe detto che l’immaginazione consisterebbe in una
contemplazione interna. Sto applicando la forza della mia mente a una serie di figure che sono
proiettate in un corpo presente intimamente a me, cioè nel mio cervello. Se io sono capace di
immaginare e se ammettiamo questa immaginazione come facoltà conoscitiva che implica
l’interazione tra una facoltà conoscitiva immateriale e un supporto materiale allora questo supporto
materiale dovrebbe esistere, c’è grande probabilità che esista. Non è solo possibile, ma anche
probabile l’esistenza delle cose materiali, a seconda che io ammetta la condizione
dell’immaginazione come medium tra materialità e immaterialità e che io parli solo di quel corpo
che è a me intimamente presente: il cervello.

Cartesio propone due osservazioni sull’immaginazione, che propone come chiarimenti rispetto a
quello che ha appena detto, che hanno uno statuto molto diverso. Non ci si basa più sulla
immaginazione come facoltà con certe caratteristiche, per cui è una facoltà e che agisce osservando
le figure su un certo supporto materiale. Cartesio invece fa una fenomenologia della
immaginazione: come essa si presenta in quanto fenomeno psichico. Cerchiamo di chiarire la
differenza che intercorre tra immaginazione e intellezione pura, dice. C’è una differenza che posso
cogliere quanto colgo con l’intellezione con un triangolo. Faccio una cosa diversa quando lo
immagino: un’aggiunta. Se penso o invece mi immagino un triangolo faccio due cose diverse: la
seconda attività comprende la precedente più un surplus. Chiliagono. Per immaginare ci vuole una
tensione, uno sforzo psichico di cui non ho bisogno per intendere intellettualmente: questo di più è
la differenza tra immaginazione e intellezione pura. Differenza fenomenologica. Si contrappone un
modo di pensare che è la intellezione pura e un modo di pensare che è la immaginazione.

C’è un nuovo protagonista fenomenologico: la confusione. Il chiliagono me lo rappresento


confusamente. Quando penso alle cose corporee tendo a immaginarle. Se leggo la definizione di
chiliagono faccio lo stesso ugualmente: quella è una rappresentazione confusa, non chiara e distinta.
La chiarezza e la distinzione e la confusione finora non ci erano serviti per distinguere un modo di
pensare da un altro. Diventa il filo conduttore. L’immaginazione è un qualcosa di un più, ma che mi
risulta evidente da un meno di percezione. Vedo che l’immaginazione ha un surplus quando faccio
esperienza di confusione, che è una mancanza di immaginazione. Riferimento alla confusione come
elemento discriminante, tratto da tener da conto nella analisi delle idee.

Carattere parassitario della immaginazione. Non tantum sed etiam simul: non soltanto concepisco,
ma anche contemporaneamente immagino. Parassitario perché lavora costantemente su contenuti
dati da altro alla mente. Viene sempre in seconda battuta. L’immaginazione lavora su delle idee che
possono essere idee intellettuali o sensibili: su idee innate, geometriche o su idee avventizie. Posso
immaginare, rappresentarmi con uno sforzo di immaginazione un triangolo oppure posso
immaginarmi una cosa concreta, anche in assenza di essa.
L’immaginazione è distinta dall’intellezione pura, nel senso che non è essenziale alla natura della
mia mente, laddove la facoltà di intelligere lo è. Posso esistere in quanto cosa che pensa, in quanto
mente anche senza immaginare. Se posso esistere senza immaginare vuol dire che l’immaginazione
non dipende da me in quanto cosa pensante, visto che posso esistere senza questa facoltà, quindi
dipende da qualcosa di diverso da me. Quando immagino applico la facoltà di pensare a qualcosa di
diverso da me, il mio cervello, quindi è probabile che il mio cervello esista. Questo anche
immaginare qualcosa è un sovrappiù rispetto alla essenza della mia mente. Potrei esistere anche
senza immaginare senza smettere di essere ciò che sono. Deve l’immaginazione quindi appartenere
a me come a qualcosa di altro da me che è in qualche modo collegato a me. La dottrina della
immaginazione come facoltà della contemplazione interna sullo schermo del cervello non ha ragioni
per essere rifiutata.

Cominciamo a vedere una distinzione tra modi essenziali del pensare e modi non essenziali del
pensare. Modi accidentali non soltanto nelle loro occorrenze, ma nella loro generale presenza nella
vita della mente. Potrei nascere e morire senza mai aver immaginato. Quella nozione di coscienza,
criterio del mentale – se c’è pensiero c’è coscienza – deve essere ridetto nei termini di intellezione,
la coscienza deve essere messa in parallelo, fatta coincidere con questo intelligere che c’è in noi. Se
il pensiero non esiste senza coscienza pensiero e intelligere coincidono. La coscienza sembra essere
questa dimensione del pensare. Un uomo fatto nascere nello spazio buio non avrà idee avventizie,
solo innate. Farà immaginazioni? No. Avrà delle passioni? Neanche. Amore di sé? Non può sapere
che c’è un sé. L’unica cosa che non può non esserci è la coscienza.

Pagine di ripresa seguenti. Sono solito immaginare non solo gli oggetti della matematica pura, ma
anche – seppur non altrettanto distintamente - gli oggetti sensibili. L’immaginazione di essenze
matematiche mi dice che il mondo esterno è possibile. Il carattere confuso dell’immaginazione mi
dice che è addirittura probabile che qualcosa di esterno esista. Trovavo confusione in maniera
emblematica nelle qualità secondarie, sensibili. La confusione sembra un indice di qualcosa di più
rispetto alla semplice vita della mente, della possibilità di passare dalla mente a qualcosa di più –
ora per lo meno il cervello. Ritorniamo alla III meditazione quando abbiamo smontato il realismo
spontaneo. Richiamerò alla memoria l’analisi del realismo sensibile, la confutazione e la
refutazione; infine, cosa devo ora credere. Che non vuol dire opinare, ma la verità della questione
affrontata, cosa si deve credere, cosa si impone come credenza. Fa un riassuntone della III
meditazione, simile ma non perfettamente identico. Ha un elemento di radicale differenza che è
costituito dalla descrizione della sensibilità. Fa entrare in scena un protagonista nuovo, che sarà al
centro in Condillac: il corpo mio. Leib e Koerper, corpo vivo percipiente e cadavere.

Sentivo di avere una testa: averle nel senso di appartenervi, il mio me. Tra altri corpi benevoli o
dannosi: piacere e dolore. Sensazione vuol dire avere, cioè sentirsi in un corpo. Vuol dire anche
sentirsi in un mondo di corpi che si presentano a me come vantaggiosi e svantaggiosi, connotati
come fonti di piacere e di dolore. Sensibilità interna, inoltre, degli appetiti e degli affetti. Sensazioni
fisiche corporee che hanno a che fare con stati d’animo. Condillac ripartirà da qui. Percepiva le
qualità. Le sensazioni di piacere e di dolore non lo faceva percepire e distinguere oggetti, non porta
a pensare come esistente il mondo esterno. Condillac dirà il contrario: è perché aveva quella
sensibilità del mio corpo che posso uscire dal mondo esterno con delle buone ragioni per farlo.

Opposizione tra ciò che è in me e ciò che è extra-me, mente e miei pensieri e corpi che sono esterni
alla mente. Da qui in poi c’è una sorta di nuovo intermediario, il mio corpo. In me, le mie
sensazioni, ma in particolare le mie sensazioni che descrivono una sfera della corporeità che mi
appartiene come distinta da una sfera della corporeità che non è mia. Sensazioni che descrivono la
mia corporeità come Leib. Questo è l’in me. L’extra me diventa l’ambito delle cose materiali in
quanto corpi che non sono il mio corpo.

Non è causale la maniera in cui Cartesio propone la lista delle qualità sensibili. La lista delle
tipologie delle qualità sensibili non è causale: il tatto è il primo. Col tatto – dirà Condillac –
un’esperienza del mondo diventa possibile. Fa da guida per la scoperta del mondo esterno.

14/3/22
Abbiamo esistenza possibile delle cose materiali a partire dalla loro essenza, che si riconduce alle
proprietà geometriche, perché ogni essenza possibile può essere creata almeno dalla potenza di Dio.
Esistendo Dio e potendo realizzare ciò che è possibile esse sono possibili.
L’esistenza delle cose materiali è probabile. Questa ci è data dalla immaginazione, che ha delle
qualità fenomenologiche che fanno sì che si percepisca in lei una differenza dall’intellezione pura,
quando si immagina di compiere uno sforzo ulteriore. Il che ci fa comprendere che è una facoltà che
non appartiene alla mai essenza in quanto solo cosa pensante, ma posso utilizzarla in virtù del fatto
che non sono solo una cosa pensante. Insieme a una teoria standard della immaginazione come
percezione delle immagini nella parte interna del cervello tutto questo può portarci ad affermare che
è probabile – più che possibile – che esista un corpo, il corpo su cui io vedo le immagini delle cose
materiali quando immagino, cioè il mio cervello. Non lo chiama tale perché non ci è ancora
arrivato, ma è quello schermo fisico rappresentativo che mi appartiene a qualche titolo.
Quando facciamo fatica a immaginare scopriamo la differenza con la intellezione pura. Questo
viene seguito da Cartesio dicendo che forse immaginare non è nient’altro che riprodurre idee
avventizie per cui seguendo questo filo conduttore analizziamo le idee soprattutto confuse, cioè le
idee sensibili.
Protagonista ulteriore è il corpo proprio. Abbiamo utilizzato la distinzione tra Leib e Körper. Anche
il francese tra corp e chere. In italiano quando parliamo di carne pensiamo al corpo morto, che è il
contrario delle precedenti lingue. Cartesio distingue, la sua dimostrazione riguarderà i corpi in
generale e anche il corpo in particolare che è il mio corpo, quello all’interno del quale sento.
La parte finale della VI meditazione è una riproduzione della III in qualche maniera, riguardo le
ragioni per sostenere il realismo spontaneo: le idee avventizie sono involontario e la propensione
naturale rivelatasi un impulso cieco e spontaneo.

(93) Cartesio si ripete all’inizio di ogni meditazione. Qui sta commentando la III, la riprende
arricchendola. È cambiata la situazione, ci offre una interpretazione di ciò che aveva detto.
Involontarietà. Nuovo elemento della vivacità. Sono più vivaci e chiare, vivide ed espresse dice il
latino. Quelle che arrivo a sapere in maniera moderata, prudente e attraverso la meditazione. Non si
dice «chiare» in realtà. Idee «più vivide ed espresse». Più distinte delle idee della memoria e di
quelle ricavate con riflessione accurata e consapevole. Secondo elemento inedito: la filosofia non è
altro che una versione latinizzata, sofisticata del senso comune, perché dice che in virtù di questa
qualità delle idee, che sono più vivide ed espresse, e del fatto che ho fatto uso dei sensi prima della
ragione, vedendo che quando ragionavo avevo idee meno vivaci di quella ottenute con la
percezione, mi sono convinto dell’assioma aristotelico-scolastico che non c’è niente nell’intelletto
che non sia stato prima nel senso. «Nullam [ideam] plane me habere in intellectu quam non prius
habuisse in sensu». Questo assioma è una sorta di versione sofisticata, detta in latino della banalità
della vivacità delle nostre idee sensibili. Questo mi fa concludere che ogni conoscenza che io ho
deriva dai sensi. Deduzione esplicita della versione filosofica del realismo spontaneo dall’evidenza
del tipo di idee con cui abbiamo a che fare. Le tesi degli scolastici sono una forma sofisticata di ciò
che ogni bambino sa. Questa è una grande tesi di Cartesio per cui lui sostiene che la fisica
aristotelica e la teoria della scienza aristotelica siano una versione puerile del mondo, una visione
spontanea, che tutti noi abbiamo prima di cominciare a meditare. Questa tesi ha grande fortuna –
visione polemica in Cartesio per cui pensa di avere più coscienza critica dei greci e medievali. Nel
‘900 le tesi della fisica aristotelica non sono considerate false – la scienza ha dimostrato che non c’è
un luogo naturale degli elementi -, o meglio sono scientificamente false, ma descrivono bene la
nostra esperienza del mondo. Riportare la visione della scienza aristotelica a una esperienza puerile
avrà grande fortuna per chi dirà che la descrizione aristotelica sarà una corretta descrizione della
nostra esperienza del mondo, dove non vediamo atomi e fenomeni quantistici ma oggetti che vanno
in una certa direzione ecc.
Ripresa della ragione della involontarietà delle idee avventizie, con un’aggiunta. Viene inserito il
corpo proprio. Non era senza fondamento che io credessi che le cose esistessero fuori di me e
fossero causa delle idee che ne avevo essendo simili ad esse. Non era senza fondamento neanche
ritenere di avere un corpo mio. Ora si tratta ineditamente di dimostrare anche il corpo proprio. Per
gli altri corpi basta riceverne una idea involontaria. Questo corpo mi appartiene in virtù di un diritto
speciale che ho su di esso. Da questo corpo non posso mai separarmi, laddove da tutti gli altri corpi
posso separarmene. Non è separabile da me come lo sono tutti gli altri corpi.
1. Primo elemento di questo diritto speciale: l’inseparabilità. Mi appartiene. Essere e tempo: un
tratto del Dasein, la Meineit, mi riguarda sempre.
2. Secondo aspetto del corpo mio: in esso o attraverso di esso sentivo tutti gli appetiti e gli
affetti. Il corpo proprio è il luogo e il fine degli appetiti e affetti: descrizione del sentire. Il
latino dice che tutti gli appetiti e affetti li sentivo in illo et pro illo. Forse pro vuol dire
piuttosto: «come rivolti a quel corpo». Non ha a che fare con il mondo fuori di me, ma con il
corpo stesso. La tristezza viene sentita nel corpo e ha a che fare con il corpo.
3. Terzo elemento: sentivo nelle parti del corpo e non in altre parte le stimolazioni dolorose e
piacevoli. Il corpo è spazializzato. Il male alla mano non è percepito nel cervello, ma nella
mano.

Seconda ragione: essere condotti dalla natura a credere nel realismo spontaneo. Il corpo diventa un
nuovo strumento per riproporre gli argomenti della III meditazione rinnovandoli in parte.
L’insegnamento della natura diventa duplice: sono condotto dalla natura, ma non solo riguardo
all’esistenza delle cose materiali esterne alla mente, bensì anche nel rapporto tra stimolazioni
corporee, fenomeni fisiologici e fenomeni mentali connessi a quei fenomeni fisiologici. La natura ci
insegna che gli oggetti esistono fuori di noi simili alle idee avventizie di cui sono causa. Ma fa
anche corrispondere, seguire a una percezione dei sensi interni – un prurito nello stomaco,
secchezza nella gola, ecc. e corrispettivi mentali. Il ché ci fare pensare alla doppia accezione di
‘natura’: che ha a che fare in generale con il nostro rapporto con le cose che sono nel mondo e più
in particolare con quel corpo che è il mio corpo. La natura ha preso un doppio oggetto ormai come
tema dei suoi insegnamenti: prima ci insegnava solo a porre oggetti fuori di noi, ora anche a
connettere fenomeni del nostro corpo proprio a fenomeni mentali corrispondenti. Sono due
insegnamenti diversi: rispetto alle cose esterne mi parla anche di una somiglianza tra cose e idee,
mentre riguardo al corpo non c’è nessuna somiglianza tra la fame e l’oggetto della fame. Però – dice
Cartesio – anche questo me lo insegna la natura. Questo mi fa porre in un caso un corpo che è mio,
quello in cui sento il movimento dello stomaco a me inseparabile nel quale situo questo movimento
e situazione, nell’altro caso pongo un tavolo fuori me, per esempio. Ho bisogno di una immagine
perfettamente astratta per esprimere un fenomeno fisiologico. Nella fine della sua vita Cartesio
scriverà Le passioni dell’anima, su questa questione.

Evoca gli errori che si possono produrre nelle sensazioni, delle ragioni particolari di dubitare
dell’attendibilità delle idee avventizie. Anche qui aggiungendo un nuovo elemento: gli errori dei
sensi interni. Non soltanto la torre rotonda anziché quadrata, la grandezza del Sole. Ora compare
anche la illusione dell’amputato, la tendenza a localizzare una sensazione in una parte del corpo
mutilata, che non c’è più. Questo è un tipo di errore che non riguarda più un oggetto diverso da me,
ma il corpo mio proprio. Posso sentire il dolore in una parte del corpo benché quella parte del corpo
non esista più. Anche quello può essere messo in dubbio: perché posso avere sensazioni di dolore
senza parti del corpo. Ripresa dei dubbi generali poi che vengono riassunti sotto due rubriche: la
difficoltà di distinguere il sonno dalla veglia e il Dio ingannatore, il fatto che Dio potrebbe avermi
fatto tale che io mi sbagli sulle cose che mi apparivano quantomai vere. Ignorando ancora l’autore
della mia origine o fingevo di ignorarlo – sta parlando della situazione della III meditazione.
Riguardo alle ragioni che mi inducevano a concepire la verità delle cose sensibili una era l’impulso
spontaneo contrapposto al lume naturale. E poi l’involontarietà non implica la alterità da me perché
potrebbe esserci una facoltà interna ancora ignota a me.

Colpo di scena. Ma ora comincio a conoscere meglio me stesso e l’autore della mia origine: non
devo accettare per vero tutto ciò che proviene dai sensi e neanche dubitare di tutti gli oggetti che
essi offrono. Conosco meglio me stesso, perché da una parte ho fatto una esplorazione dei contenuti
mentali, scoprendo la dimensione formale e obiettiva, la natura innata, avventizie e fattizia delle
idee, ecc. e anche la distinzione tra il vero e il falso nella IV meditazione. Inoltre so meglio chi è
Dio, so che esiste e anche qual è la sua essenza, fra cui non poter essere in nessun modo
ingannatore. Conosco adesso in maniera sicura la regola generale, per cui tutto ciò che conosco in
maniera chiara e distinta è anche necessariamente vero. L’ego si conosce meglio, conosce meglio
Dio e quindi conosce anche che la regola generale è vera – fine della IV meditazione. Conosce
anche meglio le cose materiali. Conosce l’essenza: la qualità delle cose materiali sono quelle
geometriche, ovvero estensione, figura e movimento. I corpi non sono altro che queste tre qualità
primarie. Da tutto questo cosa ricavo? Quello che dice Cartesio qui: non ritengo che si debba
ammettere imprudentemente tutto ciò che proviene dai sensi e neppure revocare tutto questo in
dubbio. I sensi sono talvolta fallaci, ma in un senso anche veritieri. Quindi la conoscenza sensibile,
le idee avventizie nella fattispecie, hanno un contenuto di verità parziale, ma non inconsistente.
Sono in grado adesso di distinguere tra ciò che i sensi offrono come verità e ciò che in essi è falso,
fra le idee sensibili. Il che vuol dire che potrò trovare nelle idee sensibili qualcosa che mi parla
dell’esistenza del mondo esterno e che mi dice hce il mondo esterno esiste. Non è cambiato niente
nelle ragioni pro e contro, ma il mio stock di conoscenze, più ampio e sicuro di quanto disponevo
nella IV meditazione, per riguardare a quegli argomenti con occhi nuovi e apprezzarli con diversa
prospettiva.

C’è una lunga riflessione sulla distinzione reale tra res cogitans e res extensa. Questo passaggio non
ci interessa, si trova in Una cosa che pensa di Landucci, mostrando che l’argomento di Cartesio non
funziona tanto bene. Cartesiodice che tutto ciò che intendo chiaramente e distintamente, così può
essere fatto da Dio. So di essere una cosa che pensa a partire dalla concepibilità chiara e distinta
della cosa pensante, concepibile separatamente dalla res extensa e viceversa. La distinzione reale tra
le due sostanze implica che i modi dell’una sono diversi dai modi dell’altra. Distinzione delle due
natura e dei due tipi di modi. Questa distinzione vuol farci credere di escludere l’ipotesi che io sia
una sostanza estesa in cui ineriscano direttamente i modi del pensiero, ovverosia che io sia una cosa
estesa che pensa. Se i modi appartengono direttamente alla loro sostanza allora i modi della cosa
estesa sono esclusivamente i suoi.

Nuovo assioma del lume naturale: se c’è una facoltà passiva deve esserci una facoltà attiva. La
prima – ricezione delle idee avventizie – implica la seconda – fonte e origine di ciò che percepisco.
Non deve trovarsi in me stesso, perché non ne sono cosciente – e pensiero è coscienza -, non
implica l’intellezione, perché non sono idee volontarie. Deve essere in qualche altra sostanza fuori
di me quindi. Questa deve avere formalmente o eminentemente tutta la realtà che è oggettivamente
nelle idee prodotte da tale facoltà attiva – assioma causale. Fuori di me la facoltà attiva deve essere
in cose che rispettano l’assioma causale. O è un corpo – quindi causa formalmente le mie idee –
oppure è Dio o qualche creatura più nobile del corpo – che causa eminentemente le mie idee delle
cose corporee. Ma dal momento che Dio non è ingannatore e non facendolo tramite qualche altra
creatura, le cose corporee esistono.

Il nuovo assioma è in realtà una nuova versione dell’assioma causale. La riabilitazione e


ripensamento dei due argomenti che sembravano fallaci della involontarietà e della naturale
propensione. Ora conosco più me stesso, so che pensiero è coscienza e non ci sono facoltà nascoste.
L’inclinazione naturale è diversa dal lume naturale potendo condurmi a sbagliarmi. Ma la
conoscenza che Dio non è ingannatore mi permette di avere completa fiducia nelle inclinazioni
naturali irresistibili. Non sono cambiate le ragioni, ma la loro validità, per la miglior conoscenza di
me stesso e di Dio.

Cosa c’è di vero e cosa c’è di falso nelle percezioni sensibili? La somiglianza non è stata salvata.
Mostriamo che esistono cose corporee causa delle nostre idee, ma neghiamo che siano simili alle
nostre idee. Cosa possiamo dire con certezza a partire dalle idee avventizie? Nelle idee sensibili c’è
tutto quanto intendo chiaramente e distintamente, quanto compreso nell’oggetto della matematica
pura. I corpi esistenti sono corpi matematici sono figura, estensione e movimento. Quanto al resto
particolare e confuso posso sbagliarmi. Dalché la conoscenza in generale della essenza dei corpi che
corrisponde alle qualità geometriche e una serie di informazioni di tipo vitale, che sono pratiche:
che ho un corpo, in cui si localizzano piaceri e appetiti, che ci sia una unione reale ed effettiva, che
sia inserito in una rete, economia di corpi che agiscono su di lui provocandogli piacere e dolore,
vantaggi o svantaggi, che ci sia vagamente una corrispondenza tra la variazione delle sensazioni e la
variazioni degli oggetti sensibili, tra le variazioni percepite e quelle reali del mondo.

Cosa viene provato? Che esistono delle cose materiali, cioè dei corpi che hanno delle essenze di
tipo geometrico. Fuori di noi c’è un mondo che non è il mondo che noi percepiamo – noi
percepiamo colori, suoni, sapori, luci, odori. Esiste questo mondo al di là della nostra percezione
immediata che è l’essenza delle cose materiali. Esistono dei corpi provvisti di un’essenza
matematica, geometrica, che non sono altro che modulazioni di figure e movimento diversi. Il
mondo una massa uniforme che viene modellata e fatta muovere. Per il resto sulle qualità precise di
ogni oggetto possiamo fare delle indagini particolari sapendo che possiamo anche sbagliarci: peso,
grandezza, velocità. Abbiamo poi un mondo di sensazioni che non ci dicono niente sul mondo come
sta: semplicemente ci dicono al massimo che se c’è una variazione di colore ci deve essere anche
una variazione di qualche genere in quella massa di materia. Corrispondenza senza somiglianza.
Infine ci dice che sono inserito in una rete di rapporti che alcune cose sono utili, altre dannose. I
sensi ci dicono da una parte in generale che c’è un mondo di cose che sono estensione e movimento,
dall’altra quali cosa sono utili, quali dannose, piacevoli o spiacevoli. Quindi i sensi hanno una
funzione pratica. Ci parlano del corpo nostro proprio in cui si sperimentano appetiti e affetti e in cui
si interagisce con altri corpi per ricercare il piacevole ed evitare il dannoso.

15/3/22
Vediamo i punti essenziali della dimostrazione cartesiana e come questa prova è stata interpretata
da Cartesio stesso a Berkeley.

1. Il primo punto è l’elemento causale: prova significa cercare una causa. Per provare l’esistenza del
mondo esterno è necessario passare per la causalità, che coinvolge il mondo mentale e il mondo
extramentale. Provare l’esistenza del mondo esterno significa costruire un ponte causale tra il
mondo mentale – la realtà oggettiva delle nostre idee – e il mondo extramentale. Questo può essere
inteso sia in senso stretto – la mente in quanto esiste al di là dei propri contenuti – che gli oggetti
esterni non mentali. È sempre una questione di una causa formale, una causa che esista formalmente
alla realtà oggettiva delle nostre idee. Questo è il punto chiaro anche della critica di Kant: cerchi di
costruire un ponte da un punto A a un punto B senza renderti conto che non c’è bisogno di ponti.
Tutta la realtà è ancorata al problema della causa. Come spiegare queste idee, da dove vengono?
Facendo questa domanda vado oltre la realtà oggettiva che esiste in maniera vivente. Posso solo
essere io con la mia mente, ma può essere anche un mondo esteriore a me.

2. Ruolo riconosciuto da Cartesio alla inclinazione naturale, cioè il fatto che il realismo spontaneo
sia una credenza, non da elaborare con un ragionamento, bensì abbiamo naturalmente. Questa
inclinazione naturale da un lato può essere messa in dubbio, ma dall’altro può essere salvata perché
garantita da Dio e poi perché può essere concepita come una riproposizione dell’assioma causale
per cui la realtà oggettiva deve avere una causa di qualcosa che esista formalmente, cioè fuori dalle
nostre idee. Abbiamo questa tendenza spontanea e praticamente invincibile. Facciamo fatica a
pensare che le nostre idee avventizie non vengano da qualcosa di diverso da noi. Questa tendenza
naturale contiene in sé come elemento ulteriore la ricerca di una somiglianza tra causa e idea
causale.

3. Ruolo specifico del corpo proprio, la carne, il Leib, con cui sento affetti e appetiti. Scoperto nella
VI meditazione gli serve per distinguere ciò che è salvabile nelle sensazioni e ciò che invece resta
oscuro e confuso: le informazioni che le sensazioni ci danno rispetto a ciò che è utile e dannoso per
la nostra conservazione, se i corpi esterni attorno a noi sono piacevoli o spiacevoli, dal valore
pratico. Privilegio del corpo a noi più intimamente connesso che a tutti gli altri corpi. Quasi misto e
confuso con la mente: non sono come un nocchiero sulla nave, non vedo il mio corpo che si ferisce
senza provare il dolore della ferita, ma sono intimamente connesso al mio corpo.

Questi tre elementi decideranno della posterità della prova cartesiana. Per quanto riguarda
l’elemento della causalità (1) verterà su questo la polemica sulla prova di Cartesio. Per l’elemento
della propensione naturale (2) a porre l’esistenza dei corpi esterni sarà ciò che porrà a tema
Berkeley, interrogandosi sulla effettiva realtà di questa propensione. Abbiamo veramente
propensione di quel genere a porre delle cose esterne indipendenti come causa delle nostre
percezioni sensibili. Abbiamo veramente un bisogno quando poniamo una relazione di causa-
effetto, bisogno metafisico perché derivato da una inclinazione naturale. Su questo lavora Berkeley.
Condillac dirà che la via per raggiungere la dimostrazione dell’esistenza del mondo esterno non è la
via della causa, né della inclinazione naturale, ma soltanto la mia del corpo proprio (3).

Per quanto riguarda il primo elemento (1) è stata definita la via cartesiana all’immaterialismo da
alcuni storiografi. C’è una via immaterialistica che si produce in ambito cartesiano, in autori a lui
più o meno fedeli, che porta a una tesi contraria al realismo di Cartesio, negando l’esistenza dei
corpi. Dicono che la prova cartesiana è innanzitutto possibile e probabile, poi che la prova è
possibile, ma non probabile, poi che la prova non è provante per niente e per finire che la prova del
mondo esterno non è proprio possibile. Tendenza inaugurata da Cartesio perché nei Principi di
filosofia, all’inizio della II parte all’art. 1-2 troviamo una riscrittura della dimostrazione fornita nella
VI meditazione. Mostra già che Cartesio si è ricreduto su quanto detto nella VI meditazione,
capendo che la questione della inclinazione naturale non può funzionare. Cartesio dice che la prova
dell’esistenza del mondo esterno è certa, efficace, valida con una certezza non comparabile con
l’esistenza del cogito, dell’ego e di Dio. Pone già una gradazione tra livelli di certezza.

Prima cesura aperta da Cartesio diventerà presto una voragine dicendo che la prova ha tante qualità,
ma anche tanti difetti. Cartesiani di stretta osservanza dicono fin da subito che la faccenda non
tiene. La situazione si complica molto di più con Spinoza e Malebranche, il quale in particolare
consacra molte pagine de La ricerca della verità e altri testi dicendo che la prova cartesiana è
accettabile, ma non probante. Per cui diciamo che il mondo esiste soltanto per fede, perché Dio ce
l’ha detto nella Rivelazione della Sacra Scrittura: Dio ha creato il mondo. Qualcuno dirà: se parti
dalla Bibbia devi avere letto un libro per dire che c’è un libro, e prima sapere che questo libro,
almeno, c’è.

Autori che influenzeranno molto Leibniz, uno dei quali è Fardella, un autore dell’Italia meridionale,
con tesi ancor più radicali dicendo che è possibile che il mondo esista, ma nemmeno la rivelazione
divina serve a darci una certezza totale. Si arriva alla fine del ‘600 poi con Bayle, grande scettico, e
poi con Norris, e Collier, di ambito anglosassone, che venendo subito prima di Berkeley affermano
che non c’è nessuna prova dell’esistenza del mondo esterno. La Rivelazione non serve a nulla per
compensare questa debolezza della prova. È impossibile fondare su un argomento razionale o
rivelato la credenza dell’esistenza dei corpi esterni. Le ragioni della prova appaiono in definitiva
insufficienti.

In corrispondenza con questo lungo dibattito vediamo anche affermarsi progressivamente una
dottrina della causalità che va sotto il titolo di occasionalismo. Una dottrina che afferma che le
cause seconde non hanno efficacia causale. Quando vedo un corpo che muove un altro corpo,
quando esso produce un’idea in me, o quando un’idea ne produce un’altra queste relazioni di
produzioni non sono reali. È Dio che produce l’effetto di ogni causa, non la causa stessa. È Dio che
assicura queste relazioni: all’occasione dell’evento A, Dio produce l’evento B. Che si tratti di
relazioni tra eventi corporei, tra eventi mentali o tra le due tipologie. La relazione causale è soltanto
una impressione. Questo rende estremamente complicato percorrere la via della causalità per
dimostrare la esistenza del mondo esterno. «Perché Dio deve creare il mondo, oltre a tutto questo
lavoro?» altri chiedono a Malebranche. Questo diventa poi l’orizzonte comune di quasi tutti i
pensatori di fine ‘600 e inizio ‘700, con variazioni specifiche come Spinoza e Leibniz. Orizzonte
che si presta facilmente a sviluppare l’occasionalismo.

Il Trattato sui principi della conoscenza umana cambia completamente tono rispetto alle
Meditazioni. È un testo che è nato con la finalità di persuadere, prima ancora di convincere, in
maniera immediata e diretta. È un’opera di gioventù. Questo significa che è radicale e intransigente,
con poco spazio per le obiezioni. Cartesio a ogni passo si premuniva di risposte a obiezioni
possibili. Berkeley va dritto per la sua strada. Leibniz quando lo legge dice che si tratta di un testo
di un giovanotto che cerca di farsi notare, roboante ed eccesivo. È una sorta di ossessione che
Berkeley ha e continuamente mette in evidenza: il fatto che occorra accordare, avvicinare il più
possibile la filosofia e il senso comune. Abbiamo visto in Cartesio che è esattamente il contrario: la
filosofia è ciò che si ottiene nel momento in cui ci si libera dai pregiudizi del senso comune, false
credenze che si presume di avere certamente mentre certe non sono. Alla fine si scoprono verità
coincidenti con quelle del senso comune, l’esistenza del mondo esterno, però il percorso prevede un
allontanamento quanto più radicale dal senso comune. Per Berkeley è il contrario: non è la filosofia
che deve allontanare dal senso comune per illuminarlo, ma è la filosofia ma rendersi adeguata al
senso comune per essere il più possibile aderente a verità che condividiamo tutti in virtù di una
conoscenza quasi immediata e riflessa. Nella giovinezza in una lettera dice di sé: «sono un giovane,
un parvenue, un pretenzioso e vanitoso che ha come unico amore l’amore per la verità.»

Berkeley è irlandese, figlio di un ricco protestante. Va alle prime scuole in una località dove aveva
studiato anche Swift e poi entra a Dublino al Trinity College dove ha una formazione classica:
teologia, filosofia, matematica, ma anche lingue classiche e scienza. Contesto irlandese interessante
perché in virtù di questa formazione Berkeley eredita una serie di questioni che hanno a che fare col
rapporto tra religione e filosofia. In particolare con questioni di tipo epistemologico e questioni di
tipo religioso. Eredità che viene in virtù della rivoluzione di Locke con il Saggio sull’intelletto
umano. Inaugura l’empirismo moderna a partire dalla tesi radicale che tutte le conoscenza hanno
origine dai sensi. Una sensazione poi caratterizzata in modo complessa da Locke. Questo conduce a
una serie di riflessioni che investono anche l’ambito teologico: la possibilità di elaborare un
discorso razionale sui temi della fede. Ogni parola, discorso dotato di senso deve avere come
controparte la presenza di un’idea nella nostra mente. Quando parliamo sensatamente di qualcosa è
perché abbiamo un’idea di quello di cui parliamo. La corrispondenza tra parole dotate di senso e
presenza di un’idea è facile da comprendere per quanto riguarda l’esperienza comune e molto più
difficile da comprendere per questioni teologiche, come Trinità e Incarnazione. Questo assioma
metodologico che riguarda la teoria della conoscenza, cioè la corrispondenza stretta tra discorso
dotato di senso e presenza di un’idea nella nostra mente, nel caso della teologia rischia di mettere a
repentaglio la possibilità stessa di una teologia, di un discorso sul divino. Due autori che Berkeley
ha potuto frequentare nella sua formazione e John Toland e King, che affrontano di petto questa
questione religiosa. Toland con Il cristianesimo senza misteri, prendendo un lato della questione,
dicendo che visto che il discorso dettato dal senso è un discorso che rinvia a un discorso dell’idea
nella mente, allora il cristianesimo deve essere depurato da tutti quei discorsi vuoti che rinviano a
dei misteri, cioè a delle cose incomprensibili. Il risultato è un teismo che rifiuta tutti i misteri come
pure chiacchiere. Non avendo un’idea della Trinità sto parlando di parole vuote. Dal punto di vista
della difesa di un discorso teologico King sostiene che è possibile sviluppare un discorso analogico
su Dio: un discorso che parli di Dio senza avere in effetti idee del divino, che abbia soprattutto una
funzione pratica. Il discorso teologico non ci dice niente sul divino, ma ci indica come comportarci,
come agire, come condurre la nostra vita e le nostre azioni, ha una funziona pratica e performativa
in qualche maniera e non informativa. Il contesto irlandese è importante per una connessione
costante tra questioni epistemologiche e teologiche. Non c’è una distinzione effettiva, le due cose
sono immediatamente legate. E questa è una eredità della nuova impostazione, del nuovo corso
assegnato alla filosofia, in particolare anglosassone dal Saggio di Locke.

Formazione standard al Trinity College per approfondire anche l’attualità filosofica. Berkeley è un
buon lettore degli autori della prima modernità: Locke, Hobbes, Malebranche, Bayle, Newton. È
una figura di erudito informato dell’attualità del suo tempo. Anche della attualità prossima, nel
senso che trova a Dublino Molineaux che formula il suo noto problema: se ridiamo la vista a un
cieco nato, costui riuscirà a organizzare lo spazio visuale come facciamo noi? Ha avuto un rapporto
col mondo tramite tutti gli altri sensi. Questo problema avrà una risposta da Locke e poi da altri
autori. In qualche senso il Trattato è anche una risposta a questa domanda.

Diventa diacono e comincia molto presto a pubblicare: il Saggio su una nuova teoria della visione è
del 1609. Nel ’10 il Trattato sui principi della conoscenza umana, di cui pubblica la prima parte. La
seconda parte la perde in Calabria. Ci sono dei carnet di note personali in cui lui commenta le sue
stesse tesi, i cosiddetti Philosophical Commentaries. Sono seguiti poi da una serie di testi più
politici e da una partecipazione attiva dal punto di vista della evangelizzazione. Nel ’24 smette di
insegnare e comincia a fare attività soltanto pastorale. Decide di fondare una università o scuola
nelle Bermuda. Va nel Newport, ma i fondi non arrivano e l’impresa si incaglia, così è costretto a
far ritorno in Inghilterra. L’elemento pratico è una sorta di fissa non estemporanea di Berkeley, per
cui occorre con lui tenere insieme la riflessione teorica e la pratica. Fare filosofia non è un’attività
disgiungibile dalla pratica missionario-pastorale. Gli ultimi anni come vescovo e nel ’44 esce il
libro che fa più successo, uno strano testo che si chiama Siris, sulle virtù curative dell’acqua di
catrame.

I testi come il Saggio, il Trattato e il Dialogo si possono enucleare riconoscendone la volontà di


costruire un sistema compatto attorno a un sistema di tesi che gli sembrano centrali. Berkeley non
ha l’impressione di procedere con pezzi distinti di una riflessione generale, con strumenti retorici
anche diversi, ma insistendo su uno stesso punto. Berkeley riconosce a se stesso di essere un
filosofo miope, minuzioso perché sul pezzo, pazientemente accostato a una questione particolare
senza abbandonarla mai.

Titolo. Un trattato che riguarda i principi della conoscenza umana, in cui le cause maggiori di errori
e difficoltà che si trovano nelle scienze; insieme ai fondamenti dello scetticismo, dell’ateismo e
della irreligiosità. Non un’esposizione completa di una dottrina, ma soltanto dei suoi principi.
Ricorda i principi di filosofia di Cartesio, in particolare la prima parte sui principi della conoscenza
umana. Chiara ascendenza cartesiana. Conoscenza umana. Il Saggio di Locke era sul «human
understanding», intelligenza, su come si conosce. Berkeley invece risponde con un saggio, trattato
sui principi della conoscenza che l’uomo ha acquisita, non sulle facoltà di conoscere e della loro
capacità di agire, bensì sullo statuto stesso della conoscenza. Non tanto come la conoscenza si
costituisce, ma lo statuto stesso della conoscenza. le altre due parti che erano previste – ce ne parla
nei Philsophical Commentaries – avrebbero riguardato i temi dello spirito, Dio, morale e libertà
nella II parte e la filosofia naturale e la scienza in generale nella III, dall’esistenza del vuoto alle
nozioni di coesistenza e relazioni che secondo Berkeley stanno alla base della fisica e della
matematica come scienza. È un trattato «Dove si ricercano le cause principali di errore e di
difficoltà nelle scienze; insieme ai fondamenti dello scetticismo, dell’ateismo e della irreligiosità».
È allo stesso tempo un trattato sui principi della non conoscenza umana. Triplice oggetto polemico:
una questione di tipo epistemologico, una di tipo teologico e una morale. Una teoria della
conoscenza diversa da quella di Berkeley laddove sostiene l’esistenza di corpi esterni secondo
Berkeley è una teoria che conduce alla idolatria, alla stranissima idea per cui una tesi
epistemologica può produrre un atteggiamento etico disdicevole. Sbagliarsi sui principi della
conoscenza umana può portare a essere non solo scettici e atei, ma anche idolatri, irreligiosi. Il
problema è sempre quello del fondamento: della conoscenza umana e della non conoscenza umana.
Mettere a fuoco e indagare il fondamento primo, l’origine stessa di queste tesi.

Lettera dedicatoria. Esercizio di stile. Due punti. Il dedicatario, Conte di Pembroke, era stato anche
il dedicatario del Saggio sull’intelletto umano di Locke. Il suo scopo nel mondo è promuovere una
conoscenza utile e promuovere la religione.
Prefazione. Soltanto nella I edizione, poi viene espunta. Berkeley indica gli obiettivi polemici del
suo Trattato, ridotti alla postura scettica. Ritiene di affermare per contro a questa posizione
l’esistenza e l’immaterialità di Dio e d’altro canto l’immaterialità dell’anima. Considerazioni
metodologiche sulla miopia di Berkeley, sul modo in cui il testo va letto. Bisogna tenere insieme
sguardo ravvicinato e sguardo prospettico, per evitare un doppio errore metodico, che si
produrrebbe qualora ci si fermasse su affermazioni singole, che guardate da se stesse potrebbero
indurre a formulare conclusioni irricevibili e assurde. D’altro lato se si fa una lettura troppo
generale, disattenta del testo allora non si comprende in questo caso la validità dell’argomentazione,
perché si sfugge al dettaglio delle tesi.

Introduzione. 25 paragrafetti. Ha uno statuto strano. Sembra non introdurre al testo che introduce,
imbarcandosi su una serie di considerazioni che riguardano il linguaggio e gli abusi del linguaggio,
non sembra aver a che fare con ciò che poi Berkeley farà. A che cosa gli serve questa introduzione?
Perché introdurla con delle pagine non attinenti al testo? Risposta metodologica: questa
introduzione comincia a abituarci a un modo di ragionare che sarà quello necessario per capire gli
argomenti del testo.

16/3/22
Introduzione al Trattato sui principi della conoscenza umana. Due parti: §1-5 sulla problematica e
oggetto del trattato e poi §6-25 critica delle idee astratte, con riferimento a Locke.

§1 La filosofia non è nient’altro che lo studio della saggezza e della verità. Stessa formula che
troviamo nella prefazione dei Principi di filosofia di Cartesio. Saggezza non solo pratica, che si può
derivare soltanto dalla conoscenza delle prime vere cause dei fenomeni, diceva lì Cartesio. Bisogna
risalire ai principi primi: Berkeley non farà nient’altro.

A questa enunciazione segue un paradosso, secondo il quale ci si potrebbe aspettare che chi avrebbe
più speso tempo per essa dovrebbe aver meno dubbi e difficoltà, mentre è proprio tutto il contrario.
La filosofia dovrebbe darci l’idea del vero e del bene, verità etica e teorica, e non ci riesce, mentre
ci riesce molto di più la non saggezza.

§2 Le due cause del fallimento della filosofia corrispondono al rapporto tra la mente e i suoi oggetti,
che Berkeley sembra descrivere come disproporzionato, e in secondo luogo una concezione delle
facoltà stesse di conoscere come radicalmente imperfette, inefficaci, inaffidabili.
Gli oggetti hanno delle qualità che mi impediscono di comprenderli, perché vi è una disproporzione
tra la mente finita e le qualità degli oggetti che cadono nell’ambito dell’infinito, incomprensibile di
per sé. D’altra parte le nostre facoltà di conoscere sono poche per numero e impotenti per capacità.
Berkeley sta facendo del cartesianesimo quando parla di mente finita e natura dell’infinito.
L’infinito è soltanto Dio o anche qualcos’altro? Riguardo alle nostre facoltà di conoscere fa
riferimento alla VI meditazione di Cartesio. Dio non possiamo comprenderlo, ma solo intenderlo,
diceva Cartesio. Questo per Berkeley vuol dire che non ci capiamo niente alla fin fine, essendo
l’oggetto Dio sproporzionato alla conoscenza umana. I sensi ci dicono solo quello che è utile e
dannoso, non l’essenza effettiva delle cose materiali, quella la intendiamo con l’intelletto. Abbiamo
facoltà impotenti, limitate che ci impediscono di accedere alla verità delle cose. Prende materiale
cartesiano in senso anticartesiano. Berkeley dice che ci sono tanti oggetti sproporzionati al nostro
intelletto e anche tante facoltà che non ci permettono di conoscere come stanno veramente le cose.
O meglio questo è un discorso comune: una interpretazione meramente scettica del discorso
cartesiano. Berkeley propone un Cartesio letto come scettico, un autore che produce una sfiducia
nella conoscenza umana.
§3 Cartesio, IV meditazione: non abbiamo facoltà imperfette, ma perfette di cui facciamo talvolta
cattivo uso. Abbiamo un desiderio naturale dato da Dio di conoscere la verità e i desideri naturali
non possono rimanere permanentemente insoddisfatti. Cartesio, ma anche Aristotele: Dio – o
meglio la natura – non può averci fatto tali che noi desideriamo il vero e non possiamo ottenerlo,
possiamo conoscere il bene e non riuscire ad attuarlo. Tiene insieme cose (filosofie) e autori che
sembrano non poter stare insieme. Per dire che di fatto l’uomo non è per natura imperfetta e non è
per natura incapace di conoscere. Bisogna sbarazzarsi dalla falsa impressione che l’uomo sia stato
creato in maniera tale che non è in grado di accedere a conoscenze effettive che guardano sia il bene
che il vero. Contro una sorta di cartesianesimo a caratterizzazione scettica sottolineare con
Aristotele che l’uomo è fatto in maniera tale che è in grado con i suoi propri mezzi di raggiungere
una conoscenza certa del vero e del bene. Non sono le nostre facoltà impotenti o imperfette.
Sarebbe se no un Dio maligno o impotente, quindi dobbiamo ritrovare una fiducia nelle capacità
umane di conoscenza.

§4 Dobbiamo interrogarci su quali principi hanno introdotto questa falsa credenza sulle capacità o
meglio incapacità umane di costituire una scienza effettiva del vero e del bene. Vedere quali
principi stiano alla base all’idea diffusa che l’uomo sia condannato a una sorta di incapacità,
stupidità naturale e quindi sia condannato anche a una condizione di ignoranza incurabile. Mostrare
i falsi principi che hanno condotto a ritenere incurabile la nostra ignoranza. Mostrare i principi di
una filosofia falsa. Sarà necessario anche contemporaneamente produrre i principi di una filosofia
vera, con lo scopo di mostrare che l’errore è evitabile, che le facoltà umane sono forse limitate nelle
loro capacità, ma non per questo del tutto impotenti e i nostri oggetti di conoscenza sono in un
senso preciso proporzionati alle nostre capacità di conoscere. Mettere alla berlina i principi di una
filosofia falsa che hanno portato ai tre errori e poi anche una filosofia vera. Così potremo procedere
verso una saggezza certa e una conoscenza del vero e del bene, che avrebbe dovuto essere contenuta
nella II e III parte del suo progetto iniziale. Noi leggiamo il lavoro preliminare di decostruzione
berkeleyana.

§6 Al fine di preparare la mente del lettore: non è una questione di contenuti, ma di attitudine. Per
preparare la mente bisogna dire qualcosa del linguaggio e dei suoi abusi. Per fare questo occorre
preliminarmente trattare la questione complessa delle idee astratte. Come ha fatto Locke, nel suo
modo. [Per questo Berkeley è il padre della filosofia analitica.]
Per spiegare la dottrina delle idee astratte Berkeley fa una serie di distinzioni, a partire da tre forme
di astrazione, tre sensi del processo di astrazione, a cui si aggiungerà al §10 un senso lato di
astrazione che sarà l’unico che Berkeley ammetterà.
§7 1. Le qualità esistono congiunti e mischiati insieme, molti nello stesso oggetto, non
separatamente. Considerare a partire dal composto una qualità senza le altre. Estrazione di una
qualità dal complesso di qualità. Una forma di indipendenza di una qualità dalle altre qualità con cui
si presenta solitamente a noi.
§8 2. C’è qualcosa in comune e simile a più individui. Considerare ciò astrattamente, partendo da
qualità particolari e approdando a un’idea generale. Non processo di rendere indipendente, ma di
configurare un’idea generale e astratta.
§9 3. Astrarre da un complesso di qualità l’idea generale di quel complesso di qualità, a partire da
varie istanze di complessi simili di qualità. Composto dei primi due sensi.

Abbiamo qui una dottrina standard dell’astrazione. Se prendiamo uno dei manuali che Berkeley
studiava a scuola troviamo questo. Si reperisce nel lessico stesso: recision, il latino è il lessico di
riferimento.

Queste considerazioni assumono un’ontologia di fondo, della distinzione tra cose e modi o qualità.
Berkeley dà per assodato, assume come autoevidente una ontologia a due uscite: ci sono modi che
sono modi di sostanze. Ontologia banale che lui assume come autoevidente in queste pagine.
Astrazione vuol dire di più che la semplice separazione. Il termine inglese che Berkeley usa più
spesso è frame, nel senso di comporre, realizzare, dare forma a qualcosa. Astrarre è separare – il
primo senso è sinonimo di separare, anche il secondo, separando generale da particolare. Per il terzo
senso abbiamo più l’idea di una composizione, non soltanto una separazione.

§10 Nei paragrafi 10-17 Berkeley sviluppa una serie di critiche a questa concezione di astrazione.
Berkeley sottolinea che non c’è in noi, non vede in sé e nemmeno in generale negli altri suoi simili
una capacità come questa di astrarre. Se altri hanno questa meravigliosa facoltà di astrarre le proprie
idee possono parlarne meglio, for myself «trovo una facoltà di immaginare, rappresentare,
comporre e dividere». Immaginare significa sempre riprodurre la sensazione, cioè pensare cose
particolari con le loro determinazioni particolari, non mai cose generali. Se penso al senso del
termine ‘uomo’ l’idea di uomo che elaboro è l’idea di un uomo bianco, nero, ambra, dritto o
deforme: deve avere qualche qualità, non può essere l’uomo in generale. Non posso separare le
qualità particolari dalla cosa che è portatrice di quelle qualità, ho una capacità di separare ciò che è
unito di fatto, ma separabile di diritto, però non posso astrarre ciò che è inseparabile. Di diritto un
naso può esistere staccato dalla testa, questa dal corpo, come una mano, di fatto sono sempre uniti.
Ma non posso mai immaginare un uomo senza immaginarlo anche con certi tratti, colori, parti.

Ricorro a uno strumento teorico per mettere alla prova una tesi che è l’esperienza interna: io non
riesco a farlo, mi pare che non riesca a farlo nessun altro, quindi non si può fare. La refutazione che
Berkeley propone e la tesi che propone si basa sull’esperienza interna. Non c’è riscontro interno di
poter operare questa performance mentale, né in alcun altro.

Berkeley ragiona in maniera ambigua sulle nozioni di qualità e parti: si possono concepire
separatamente delle qualità o delle parti che sono separabili di principio, ma non separabili di fatto.
Il naso dalla testa. La forma quadrata dalla presenza dei lati. Né di principio o diritto né di fatto. C’è
una lunga tradizione che Berkeley conosce sulla natura delle parti: un naso tagliato è ancora un
naso? Questioni che Aristotele si era posto fin da subito in maniera molto tecnica. Uso ambiguo di
qualità e parti. Sembra che le parti siano sempre in qualche modo concepibili come separate di
principio se non di fatto, perché se sono delle parti si possono sempre in qualche modo tagliare, ma
ci sono delle parti che sono essenziali al tutto. D’altro canto, Berkeley parla di qualità o parti, ma
non si capisce quali qualità potrebbero essere separate di principio anche se inseparabili di fatto. C’è
un po’ di ambiguità lessicale.

Nuova concezione che Berkeley propone: astrarre significa concepire come separato con la mente
ciò che è almeno di principio separabile di fatto. Anche se di fatto non è mai separato. L’illusione
della facoltà di astrazione è imputabile al linguaggio. Ci sono due citazioni del Saggio di Locke:
differenza classica tra uomo e animale del linguaggio. La colpa è del linguaggio e dell’idea di
linguaggio che ci facciamo. Locke dice che c’è una differenza tra uomini e animali. Questa
differenza risiede nella capacità di astrarre: d’altro canto la capacità di produrre idee generali è
inseparabile dalla capacità di linguaggio. Quindi gli animali non hanno linguaggio né idee generali.
Il ragionamento di Locke è il seguente: se esiste il linguaggio esistono idee astratte e generali, ma
gli animali non hanno linguaggio, quindi non hanno idee generali e astratte. C’è una precisa
identificazione tra il possesso di idee generali e astratte, tra capacità di astrarre producendo idee
generali e capacità di avere un linguaggio. Questa precisa coincidenza fa sì che Locke neghi agli
animali il possesso di entrambi.

Il primo corollario è che per comunicare abbiamo bisogno di idee generali e astratte. Perché non
possiamo avere il linguaggio che è lo strumento che usiamo per comunicare.
Secondo corollario: i termini generali del linguaggio rinviano uno a uno a delle idee generali e
astratte di enti corrispondenti, cui i termini si riferiscono. Le idee generali e astratte sono idee in cui
sono contenute tutte le cose particolari in ciò che condividono e in ciò che concordano. Le idee
generali sono una sorta di astrazione nel senso forte del termine, ottenuta prendendo soltanto ciò in
cui molti particolari convergono e togliendo ciò in cui molti particolari si distinguono. Questa è la
tesi che Berkeley riconosce in Locke e che dice essere la causa della nostra falsa percezione che
abbiamo della capacità di concepire idee generali e astratte. Ossia: io ho il linguaggio, in esso ci
sono parole generali, ho l’impressione che esse implicano il riferimento a idee generali, ho anzi la
convinzione che se non avessi idee generali non potrei parlare con gli altri, quindi mi faccio una
falsa credenza di poter fare una cosa che di fatto non so fare: concepire veramente qualcosa come lo
studente, l’uomo o il tavolo e concepirlo a partire da un’idea generale astratta.

La tesi di Berkeley è che non esistono idee generali e astratte: si tratta di una illusione. Si possono
concepire solo degli usi generali di idee particolari, cioè un uso generalizzato e generalizzante di
una idea particolare di per sé. Non esistono idee generali astratte, sono sempre idee particolari, che
hanno determinazioni particolari non astratte. Ciò che può essere generale è solo la loro funzione,
l’uso che ne facciamo. Si tratta di idee particolari, di cui facciamo un uso generale. La generalità è
un attributo non della natura delle idee, ma della loro funzione. Esistono termini che possono essere
utilizzati come segni di una moltitudine di idee particolari. Visto che non esistono idee generali e
astratte, a che cosa facciamo corrispondere i termini generali del linguaggio? Non più a uno a uno a
idee astratte: il termine generale è un termine che è segno, che sta per una moltitudine di individui o
idee di particolari. Berkeley dirà più precisamente che un termine generale è un segno di più idee o
cose particolari, che sono tutte suggerite indifferentemente alla mente da quel segno. Sia le cose
particolari che i termini particolari possono subire un processo di generalizzazione quando vengono
utilizzati come segni di più idee o individui particolari considerati indifferentemente. La generalità
tanto delle idee quanto dei termini non dipende dalla loro natura, ma dalla loro funzione, cioè
capacità di denotare una classe di individui.

21/3/22
Berkeley denuncia lo stato della filosofia del suo tempo come uno stato di scetticismo, dovuto in
buona sostanza a una sfiducia nella ragione umana di poter cogliere il vero e il giusto. Sfiducia che
riguarda le facoltà stesse della mente, cioè una imperfezione radicale dell’uomo nella sua capacità
di accedere al vero e al giusto. Parentesi sulle ragioni di questa sfiducia: abusi, cattiva
comprensione del linguaggio. Riportati in ultima istanza a un errore filosofico: una cattiva
concezione dell’astrazione. L’astrazione è psicologicamente impossibile, non può essere realizzata.
È una parola vuota, che non ha significato. Se si vuole accedere a idee generali e astratte, ottenute
per astrazione, pretendendo che abbiano un contenuto concettuale definito benché generale, in
questo caso si sta parlando di cose che non esistono. Idea che Berkeley oppone a questo è la sua
teoria dell’astrazione: quando parliamo in generale non ci sono idee generali astratte, ma solo idee
particolare cui si attribuisce una funzione o uso generale, rispetto a una molteplicità di individui.
Funzione, uso di idee sempre necessariamente particolari. Teoria del significato lockiana per cui a
ogni termine corrisponde un’idea: un termine per avere un significato deve rimandare a un’idea. Se
ci sono termini generali ci devono essere concetti generali. Questo giustifica nell’uomo l’uso della
ragione, diversamente dagli altri animali. Se ci sono termini generali è perché usiamo un termine
che rimanda a una cosa particolare in maniera generale, dice Berkeley. Un termine, ma anche una
cosa o un’idea che sono per loro natura particolari, come campione di una classe di individui
tralasciando le determinazioni particolari di questi individui. Un’idea, un termine, una cosa
particolare stanno per, rappresentano, significato in Berkeley un gruppo, un genere, un insieme di
cose particolari. È una critica che si basa sull’assunto che pensare significa avere un contenuto
mentale provvisto di una qualche forma di aspetto, cioè che significa avere idee particolari
concepibili, cioè idee che abbiano dei caratteri particolari. Per Berkeley cognizione, percezione,
pensiero e immaginazione sono termini strettamente sinonimi. Avere un’idea è sempre avere
un’idea con un aspetto particolare, cioè con caratteristiche particolari. Pensare significa sempre
pensare con il supporto dell’immaginazione, questo è il punto. Pensare è sempre pensare con un
contenuto particolare, o pensare un contenuto con un aspetto particolare. Una particular
conceivable idea. Se è particolare è concepibile e se è concepibile e particolare. Questo il punto
chiave della critica a Locke.

I paragrafi 13-15 riprendono l’astrazione di Locke: astrarre è difficile, dovuta alla nostra condizione
imperfetta per costruire una forma di conoscenza e comunicazione. La costituzione del linguaggio e
quindi delle idee astratte è difficili e vi siamo costretti lottando contro la nostra naturale
imperfezione per costruire qualcosa di comune che ci permetta di allargare le nostre conoscenze.
Significa cercare di dare forma a qualcosa di perfettamente impossibile dal punto di vista
psicologico. La difficoltà è una stretta impossibilità, falsa difficoltà. Non è segno dell’imperfezione
dell’uomo.
§14 Com’è possibile che i bambini subito comincino a parlare? Vuol dire che non è così difficile se
anche i bambini riescono a farla questa operazione e pretesa. Lunga questione da Aristotele sulla
difficoltà dell’astrazione: filosofi che hanno capito male cosa sia l’astrazione. Non è qualcosa che si
acquisisce con grande sforzo e non immediatamente, al contrario il linguaggio si produce
immediatamente.
§15 L’astrazione non è necessaria all’ampliamento della conoscenza e della comunicazione.
L’universalità non consiste nella natura della cosa, ma nella relazione ai tanti significati che essa
sorregge. Rappresentazionalismo. Non ci sono cose come il triangolo in sé platonicamente, né idee
assolute. Ma solo idee, nomi o cose nella loro natura particolare che vengono rese universali
nell’uso. Se la scienza chiede universalità per essere tale, questa non va ricercata negli oggetti siano
essi nature (essenze) o idee (contenuti mentali). Va cercata nella relazione. Una particolarità può
essere utilizzata per riferirsi a un insieme di particolari presi insieme. Autore giovane senza
precisione lessicale. Pag. 275. Individui presi nella loro indifferenza rispetto alle loro differenze.
Frame: dare forma a un’idea generale astratta. Per via di astrazione. Opposto a have in view.
Universalità senza un’effettiva rappresentazione di una idea generale e astratta, universale. Il
problema è allora come faccio a fondare la verità delle dimostrazioni che riguardano tutti gli
individui di una stessa specie o genere.
§16 Se faccio una dimostrazione, come dice Berkeley, se non dispongo di un’idea generale del
triangolo, come faccio? Sembra quindi che per essere certi che questa proposizione sia vera
universalmente ci siano due opzioni: o dobbiamo fornire una dimostrazione particolare per ogni
particolare triangolo, quindi o procediamo per via di esaustione, verificando uno a uno tutti i casi e
questa opzione è evidentemente impossibile, oppure dimostriamo una supposta idea generale e
astratta che sia l’oggetto effettivo della dimostrazione. Sembrano esserci due possibilità soltanto:
analisi completa oppure dimostrazione dell’oggetto universale e astratto.
Soluzione di Berkeley: la dimostrazione, benché condotta su un’idea particolare di un triangolo
particolare, riguarda una qualità, caratteristica che non è toccata dalle variazioni possibili di un
triangolo particolare. Non si tratta di un’idea astratta, ma di una considerazione soltanto a una
qualità nell’indifferenza delle altre qualità che possono variare. Una qualità indifferente alle altre
qualità. Non cambia la questione. Non lavorare sull’idea astratta di triangolo, ma considerare come
semplicemente triangolare una figura particolare. Non disponiamo dell’idea astratta di triangolo.
L’idea particolare viene considerata soltanto come triangolare. In questa maniera si può astrarre in
qualche modo, ma ciò non proverà mai che si stia elaborando un’idea astratta e generale incoerente
del triangolo. Operazione della mente che considera soltanto una certa caratteristica in un’idea
particolare. Senza prestare attenzione a ciò che varia nei particolari e non intacca la mia
dimostrazione.
Rappresentazione: stare per, funzione senza somiglianza. Essere il marchio, suggerire una serie di
termini individuali non implica necessariamente una somiglianza tra suggerente e ciò che è
suggerito. Pura funzione segnica, stare per, stand for. Berkeley recupererà più tardi la somiglianza,
ma in generale la rappresentazione è una semplice funzione: questo sta per quello e qualsiasi questo
può stare per qualsiasi quello, a rigore. Questa rappresentazione permette di capire come è costruito
il linguaggio umano, in cui una parola sta per qualcosa, senza nessuna somiglianza tra la parola e la
cosa. Permette anche di comprendere come funzionano i nostri sensi. Berkeley in un contesto
occasionalista comprendeva sotto il rapporto tra segno e significato anche il rapporto tra oggetti e
sensazioni che ne abbiamo. C’è eterogeneità totale tra quest’ultimi, tra segni utilizzati da Dio, non
dall’uomo, per significare gli oggetti della natura. Segno vuol dire arbitrarietà. Il linguaggio
matematico ne è un chiaro esempio. ‘Esprimono’ dirà Leibniz, Berkeley dice significano, stanno
per, rappresentano. Le percezioni sono segni istituiti non dall’uomo, ma da Dio.

Fare un uso generale del particolare significa generalizzare, in virtù di una funzione che gli
attribuiamo. C’è una ambiguità di fondo. Perché un’idea di per sé può essere idea di un particolare
in quanto sempre particolare oppure diventare segno di generale. Posso pensare a qualcuno perché
la sua idea sta per lui, ma posso anche pensare a lui perché lui sta per l’uomo, l’umanità. Posso
anche pensare a qualcuno come rappresentante di tutti gli individui della specie umana con il colore
dei suoi capelli, o con gli occhiali, o di tutti i viventi che hanno quattro arti. Quantità variabile e
insiemi variabili di cose. A rigore può diventare idea di quasi tutto, di una cosa materiale prendendo
in considerazione la sua materialità, ecc. Rende l’arbitrarietà totale. Questo dirà Foucault in Le
parole e le cose: tutto può diventare segno di tutto.

Berkeley è rigorosamente Cartesiano nel rapporto tra possibilità e concepibilità. Nel Draft, nella
prima versione della Introduzione riprende paro paro le frasi della VI meditazione, l’argomento che
sta alla base dell’esistenza del mondo esterno. La concepibilità dimostra l’esistenza. Berkeley quasi
ripete il testo di Cartesio. B. pone una identità stretta tra possibile e ciò che possiamo concepire.
Un’idea generale astratta e quindi anche un’essenza generale non è concepibile e quindi non è
possibile: nemmeno Dio può pensare o fare un’idea generale e astratta. C’è un’identità stretta tra
possibile e concepibile. Ciò che non possiamo concepire non è possibile e se qualcosa è possibile
possiamo concepirla. Questa considerazione rientra nella grande sconfinata fiducia nella mente
umana: pensabile è possibile, altro che imperfezione come diceva Cartesio.

Come facciamo a costruire il riferimento indifferenziato del nostro termine particolare che usiamo
per stare per un gruppo? Quando generalizziamo usiamo un termine particolare come
rappresentante di un gruppo di individui in virtù di una qualità presa in considerazione. Come
facciamo a sapere che tutti quegli individui hanno quella qualità? Dobbiamo avere una idea
generale e astratta della qualità in questione. Per fare uso generale di idee particolari devo fare
attenzione ad aspetti isolati ignorando gli altri, ma per farlo gli altri particolari devono essere
associati e perciò devo avere un criterio, un’idea generale di ciò che li rende simili. Utilizzare
un’idea particolare in maniera universale come rappresentante di tutte quelle altre istanze di quella
qualità particolare. Resta da capire come riconosco tutte quelle altre istanze. Questo criterio non può
essere individuale, ma una qualità generica. Si deve basare sulla costituzione del gruppo stesso.
Bisogna spiegare come si formino le sorti, i gruppi, i kinds, le specie. Berkeley non ha una
spiegazione per questo. Non ci dice come faccio a costituire i gruppi stessi e riconoscere cosa fa di
questo gruppo un gruppo. Questo è il grande problema di Berkeley, al quale risponde in due
maniere. Per la prima non ne abbiamo bisogno, naturalmente procediamo senza avere bisogno di
costituire effettivamente i gruppi, ma procediamo a tentoni – sempre nel Draft dice che succede che
ci sono individui che hanno bisogno di comunicare. Essi hanno poca sensibilità per le differenze tra
individui e quindi vanno a tentoni nella costruzione di gruppi e verificano che stanno tutti
costruendo gruppi più o meno alla stessa maniera e poco alla volta costruiscono un linguaggio che
prevede che un termine si riferisca a un gruppo di individuo – la genesi non prevede l’elaborazione
di una idea generale e astratta. Donald Davidson lavorerà tanto sulla teoria della traduzione radicale.
Quando traduco devo capire come fare ad associare a quella parola che traduco un gruppo di
individui. Devo trovare qualcosa di analogo nella mia lingua quando traduco, che si riferisca allo
stesso gruppo. Il senso di Smilla per la neve. C’è una lunga parte sul lessico della neve degli inuit.
Ognuno di quei termini individua gruppi di fenomeni, che hanno qualcosa in comune. Il nostro
linguaggio non lavora così: dobbiamo fare la parafrasi. Supponiamo che non conosciamo la loro
lingua: come facciamo a capire che sta parlando di neve farinosa o di neve calpestata da un orso,
visto che da noi non ci sono termini per distinguere e quindi per comprendere? Davidson parla di
traduzione radicale, con l’esempio di Gavagai, un esploratore che va nella giungla del Bormio,
trova una popolazione che non ha mai conosciuto la civiltà e devono comunicare. Vedono spuntare
un leprotto e poi ritornare nella natura. Loro dicono «Gavagai». Lui pensa significhi leprotto,
mentre invece è radura. Come faccio a costruire una traduzione? Davidson dice per una serie di
adattamenti progressivi tra il sistema che io costruisco e il sistema che loro mi propongono.
Berkeley ha più o meno la stessa idea. Non c’è l’idea che ci sia associato a un termine
necessariamente un’idea del gruppo, ma il fatto che la lingua funziona costruendo gruppi e si
costituisce mano a mano con adattamento e confronti progressivi in uno scambio coerente di
termini. Berkeley non ha una dottrina e sembra suggerire che non c’è una modalità di fondare dal
punto di vista epistemologico la costituzione di gruppi di individui a cui il termine particolare si
riferisce, quando lo usiamo in maniera generalizzata. Sembra rimandare l’onere di questa
spiegazione a una descrizione della genesi del linguaggio. Secondo punto: la questione produce
problemi anche a livello della matematica, non facendone più una scienza astratta, ma empirica.
Berkeley non ha paura di questo e va in quella direzione lì. Ci saranno poi sviluppi di questo anche
nel ‘900 che hanno seguito l’intuizione di Berkeley. Queste obiezioni saranno rivolte a Berkeley fin
da subito e saranno l’angolo morto della teoria berkeleyana dell’astrazione. Non capiamo come
funzioni dal punto di vista teorico, per quanto capiamo come funzioni. Non siamo in grado di
frame, di configurare un’idea generale e astratta e tuttavia siamo in grado di configurare linguaggi,
quindi in una maniera o nell’altra ce la facciamo. Berkeley non dà una soluzione, critica Locke e
dice che siamo in grado di operare astrazioni utilizzando idee particolari come rappresentanti di
cose e di gruppi di cose.

La teoria dell’astrazione di Locke è un portato della falsa comprensione del linguaggio, per cui ogni
termine del linguaggio per essere significante deve riferirsi a un’idea. Locke: la riferirsi a idee
generali e astratte determinate. Risposta di Berkeley: non è che ad un termine generale e astratto
non sia associata una definizione, questa c’è sempre. Quando parlo di triangolo posso associarvi la
definizione ‘una superficie piana compresa fra tre linee rette”. Ma non c’è corrispondenza
biunivoca, il riferimento è a idee di triangoli con caratteristiche diverse. Una cosa è mantenere la
stessa definizione per un nome, un’altra è farla stare per sempre la stessa idea.
§19 Esistono termini che non rinviano a particolari e non ce n’è nemmeno bisogno. Esempio
dell’algebra e subito dopo della conversazione. Le lettere dell’algebra stanno per una quantità
precisa, ma indeterminata. E voi riuscite a parlare in termini algebrici, a risolvere o a non risolvere
un problema di algebra senza associare a ognuna di quelle lettere una quantità precisa.
Semplicemente ogni termine dell’algebra sta per una quantità indefinita di quantità. Il linguaggio
algebrico funziona senza che ci siano idee particolari definibili associate a ogni termini. Lo stesso
vale nella conversazione. Non è necessario che alle parole che si formulano siano associati
significati precisi. Scopo della conversazione è produrre degli effetti: passioni, azioni, porre la
mente in qualche disposizione. Cfr. Introduzione. Il linguaggio nella maggior parte dei casi lo
usiamo a vuoto, senza che i termini siano riferiti o riferibili a idee particolari. Funzioni retoriche,
espressive o perlocutorie del linguaggio. Si può parlare con proprietà di linguaggio senza che
nessuno dei nostri termini significhi esattamente qualcosa di preciso. Nel misunderstanding si parla
di due cose diverse e la conversazione funziona. Le formule di cortesia hanno questo ruolo: sono
disponibile all’ascolto e chi sta parlando può parlare. Non abbiamo bisogno di significati precisi
perché il linguaggio funzioni. Possiamo parlare con proprietà di linguaggio senza che il linguaggio
dica niente.

§21 Conclusione e formula di metodo. Visto che la astrazione è una falsa operazione ed è alla base
degli abusi di linguaggio voglio tenermi coperto da questi rischi e l’intelligenza di ciò che propongo
meno resa oscura possibile dall’uso di un linguaggio che la deformi. Togliere il più possibile lo
schermo opaco delle parole che rischiano di condurmi in errore. Parlerà nel §24 del velo delle
parole, che comporta in sé un riferimento a una dottrina falsata dell’astrazione che sta dietro a
queste controversie. Il che vuol dire anche costruire un nuovo linguaggio. È un trattato sui principi
fondamentali della conoscenza umana e degli errori della filosofia del suo tempo e quindi è anche
una proposta di riforma del linguaggio. Termini come ‘cose’, ‘oggetti’, ‘realtà’, ‘sostanza’ dopo la
lettura del Trattato avranno un significato nuovo, adeguato alla cosa che si sta pensando, ripulendo
dalle sue ambiguità del linguaggio comune. Ripensare il linguaggio della filosofia ripensando la
filosofia stessa.

§22 Devo liberarmi dalla rete delle parole, meglio di quanto hanno fatto altri filosofi del mio tempo,
ma in secondo luogo bisogna per non sbagliarmi facilmente limitare i miei pensieri alle mie proprie
idee spogliate dalle parole. Gli oggetti che considero li conosco chiaramente e adeguatamente. Non
posso essere ingannato nel pensare che ho un’idea che non ho. Non c’è niente di più necessario che
una percezione attenta di ciò che è presente nella mia intelligenza. L’ambito della mia indagine è
considerato come l’ambito della mia coscienza, l’ambito dei contenuti intenzionali, il campo della
coscienza unico ambito in cui mi posso muovere. Se ho un’idea non posso dubitare di averla. Gli
oggetti del pensare se li considero li conosco chiaramente e adeguatamente. Cioè se ho un’idea la
posso considerare e posso avere rispetto a questa idea tutta la conoscenza che ritengo di poterne
estrarre. Per distinguere l’accordo o il disaccordo non c’è bisogno se non di fare attenzione ai miei
contenuti mentali. L’ambito, l’isola: io e miei pensieri. Ecco tutto ciò che ho. Lì non ci sono dubbi e
incertezze. Non posso dubitare di avere un pensiero. Ma non Cartesio, perché in qualche maniera
sono buttate fuori dall’ambito delle questioni da prendere in conto le idee oscure e confuse. Se ho
un’idea non posso dubitare di averla. Non ci sono neanche dubbio sulla possibilità che ho di
conoscere quella idea. Gli oggetti che considero li conosco chiaramente e adeguatamente. Non
Cartesio: non c’è spazio per idee che siano oscure e confuse. Doppio anticartesianesimo: Cartesio
diceva che abbiamo idee oscure e confuse e non è possibile per l’uomo sapere se potrà avere
un’idea completa e adeguata, privilegio di Dio. Berkeley è estremamente più ottimista. Se mi tengo
nell’ambito della coscienza non ci sono difficoltà, dubbi, timori di sbagliarsi, cadere in errore, ecc.

22/3/22
Parte 1» si riferisce al fatto che il Trattato era pensato all’interno di un sistema più vasto. Questa
prima parte è essa stessa scandita idealmente in tre sezioni: una prima §1-33 propone una
dimostrazione dell’immaterialismo, che essa stessa si scandisce in tre momenti.§1-7 esposizione
della dottrina, §8-24 critica alla dottrina opposta del materialismo o realismo, §25-33 esposizione
ulteriore della metafisica immaterialista. La parte §1-33 è pars costruens. Sezione seconda §33-84
troviamo quindici obiezioni e risposte. Ultima sezione §85-156 vede una serie di corollari di quanto
detto in precedenza che permettono di trarre le conseguenze fisiche ed etiche della tesi
immaterialista. Si tratterà di concentrarsi sullo statuto delle idee in §85-134, di ragionare sulla
morale, la fisica e la matematica e poi §135-156 sugli spiriti: la nostra e le altre menti e la mente di
Dio.
Nelle prime 4 pagine (§1-7) tutto è già detto, il lavoro teorico è compiuto. L’inizio è già la fine in
un’esposizione concisa ed efficace. Tutto è corollario e lunga ripresa attraverso la forma di
obiezioni e risposte e ulteriori corollari. Accelerazione iniziale. Capiamo le indicazioni di metodo
delle pagine introduttive: miopia e ipermetria. Il testo è scritto in vista di questo tipo di lettura:
avendo chiari nel dettaglio i primi 7 articoli.
Il testo del Trattato fa tesoro di quanto acquisito nell’introduzione. Lo scopo delle pagine
introduttive è preparare la mente alla lettura di ciò che seguirà. Comunicazione senza contenuto
preciso. Triplice attitudine: diffidare delle parole, necessità di attenersi come unico ambito di
indagine ai contenuti coscienziali, l’assioma implicito nella dottrina dell’astrazione che il
concepibile coincide con il possibile – tanto a livello delle essenze che delle esistenze, natura e
concetti.

In §1-3 c’è una prima formulazione dell’argomento immaterialista, dal §4-7 una sorta di conferma
di questo argomento tramite la presa in conto di un’obiezione e la risposta a questa obiezione. Nella
critica si parla di una sorta di sillogismo di apertura.
§1 Tipologia di idee. Come Cartesio c’è una suddivisione delle idee. Idee attualmente impresse nei
sensi, qualcos’altro percepito prestando attenzione alle passioni e alle operazioni dell’anima, idee
formate con la memoria o la immaginazione per composizione o divisione o semplice
rappresentazione di ciò che non è più attualmente sensibile ai sensi delle idee o contenuti mentali
ottenuti nel primo o secondo modo. Idee attualmente impresse nei sensi perché alcune sono
osservate, le percepisco insieme. Il loro complesso è indicato da un unico nome, così sono
considerate come un’unica cosa. Tre tipi di idee, o meglio tre oggetti della conoscenza umana. Parte
da un’evidenza che dà come acquisita per qualsiasi lettore. Berkeley usa un termine diverso: gli
oggetti della conoscenza umana. Questi sono di tre tipi. Distinzione che trovavamo già in Cartesio
tra idee avventizie, fattizie, innate (in senso lato le terze). Assomiglia a quella di Cartesio, ma
soprattutto a quella di Locke, che nel Saggio distingue idee di sensazione e di riflessione, semplici e
complesse: sensazione semplici, riflessione semplici o complesse, idee complesse di idee semplici
di sensazione o di idee di sensazione e idee di riflessione.

Non è solo la questione sulla origine sulle idee che è alla base di questa tripartizione di Berkeley,
piuttosto essa si basa sul grado di attività o passività della mente. Totale passività delle idee
sensibili, parziale passività nelle idee che deriviamo prestando attenzione alle nostre proprie
operazioni, totale attività nelle idee ottenute combinando gli altri tipi di idee. Per Cartesio era una
domanda sull’origine, qui la gradazione dipende sull’ordine di autonomia.

Il problema della categoria. Berkeley dice espressamente che delle operazioni della mente non si
possono avere propriamente delle idee, ma si hanno solo delle nozioni, cioè atti mentali che non
hanno propriamente un contenuto rappresentativo come una particular conceivable idea. Per questo
Bertini usa «nozioni». Berkeley usa else such as. Cosa possiamo conoscere di ciò che la mente fa?
Cosa possiamo conoscere delle menti e della nostra mente? L’ultima sezione del Trattato sarà
dedicata a questo.

La seconda cosa che fa Berkeley, più imprevedibile dal punto di vista del senso comune dal quale si
sta ponendo, dopo l’evidenza di questa tipologia delle idee per chiunque, è dire, senza dire che è
evidente per chiunque, che troviamo le idee di sensazione del primo gruppo associate, cioè
prendiamo tante idee per una cosa sola e quindi chiamiamo col nome di cosa una cosa che in realtà
non è unitaria, ma è soltanto una compagine di idee sensibili. Tipologia degli oggetti di conoscenza
più equiparazione tra oggetti della conoscenza sensibile del primo ambito e cose intese come
compagini di idee. L’oggetto della conoscenza è innanzitutto l’idea semplice oppure l’idea
complessa e queste sono le cose sensibili. Non solo tripartizione degli oggetti di conoscenza, ma
identità secca tra oggetti della conoscenza sensibile come conglomerati di idee semplici della
sensazione e cose sensibili. La cosa sensibili altro non è che un conglomerato più o meno
costantemente presentantesi di idee sensibili semplici. Il termine denota un insieme di percezioni
sensibili costantemente presentantesi insieme. Le cose sensibili sono insiemi di idee sensibili. Cosa
è complesso di idee sensibili. Quindi c’è una distinzione secca tra oggetto della conoscenza – che
prende una forma precisa nella conoscenza sensibile che sono le idee di sensazione – e cose
sensibili che non sono altro che una composizione di idee che sono messe insieme. L’oggetto della
conoscenza prevede un soggetto della conoscenza.

§2 Oltre alle idee o oggetti della conoscenza c’è perimenti qualcosa che li conosce o percepisce.
Mente, spirito, anima o me stesso. C’è un aliquid, un qualcosa, una res come per Cartesio,
something, non so che. Questo x conosce e percepisce. E opera su questi oggetti di percezione.
Completamente distinta dalle idee. Queste esistono o sono percepite: è lo stesso, esse est percipi.
Cosa intendo con mente, spirito, anima o io? Riformare il pensiero corrisponde a riformare il
lessico.

Nessuna determinazione o qualificazione ontologica. Non sostanza, non soggetto. Qualificazione


ontologica neutra: qualcosa, come res su cogitans. Res non vuol dire niente. Una cosa che è attiva,
percipiente e che non è percepita. Indeterminazione ontologica: non dico niente se non cosa questo
something fa, l’essere attivo e percipiente, oltre a non essere un’idea. Tutto quello che so di lui è
questo. L’idea è passiva, la mente attiva. Cartesianesimo che va anche oltre: è una ripresa
dell’attualismo cartesiano, per cui la mente per esistere deve esistere in atto. Non semplicemente
capace di, avente la facoltà di sentire e percepire. Berkeley porta alle estreme conseguenze
l’attualismo di Cartesio. Landucci, Una cosa che pensa: quando una mente non pensa scompare dal
mondo. Ci sarebbe un’esistenza con delle enormi fratture di sonno. Berkeley arriva così lontano, poi
costruendo una dottrina del tempo che attenua questo. Conoscenza è percezione in atto. Percezione
è il rapporto con tutti i contenuti della conoscenza, ci sta dicendo qui Berkeley. Conoscere è uguale
a percepire. Anche Cartesio lo dice in qualche punto. E poi: questa cosa percipiente e attiva la
chiamo mente. Cartesio: intellectus, ratio, mens ecc. termini che mi erano sconosciuti di cui ora
conosco il significato.

C’è un elemento che Berkeley ci dà come evidente di per sé. Per le idee esistere significa
strettamente essere in una cosa percipiente o pensante, ossia essere percepite o pensate. L’esistere
per le idee coincide con il loro essere oggetto di percezione ossia il loro sussistere in un oggetto
percipiente. Per le idee esistere vuol dire dipendere da un soggetto percipiente. Determinazione
della esistenza delle idee come dipendenza da un soggetto percipiente. Strano: finora in Cartesio
esistere voleva dire essere fuori dalla mente. Ex-sistere: mantenersi fuori dalla propria causa.
Tradizionalmente la causa pone un’esistenza come dipendente dal punto di vista causale, ma
indipendente nella sussistenza. Qui l’esistenza è l’esistenza delle idee nella mente che le percepisce.
Più che e-sistenza si tratta di una in-sistenza, una insistenza delle idee nella mente, una alterità
immanente, senza trascendenza rispetto alla mente. Non usciamo mai dall’isola della mente. Le idee
dipendono dalla mente e si danno solo e soltanto in essa quindi questo significa esistere per la
mente. Un senso nuovo epistemico dell’esistenza. Sussistenza come modo di essere delle idee
all’interno della mente. Berkeley cambia il lessico e parla di esistenza. Non ha bisogno di
dimostrare l’esistenza delle cose materiali, le idee non hanno bisogno di essere dimostrate come
presenti-sussistenti nella mente. Esistenza ma dovremmo dire ‘insistenza’, inerenza, avere come
supporto del proprio essere una cosa che pensa. Non potersi produrre se non in virtù di una cosa che
pensa e che ne è la causa o il supporto. I modi non stanno in piedi senza sostanza. Berkeley dice
‘esistenza’. Esistere per le idee significa esistere nella mente, perciò essere pensate.

Contrapposizione tra attivo e passivo. La mente è attiva. In senso largo, anche quando subisce le
idee attualmente impresse nei sensi. Proprio della cosa che pensa è essere attiva. Il che vuol dire che
per converso l’altro è passivo, le idee sono in qualche senso non attive. Più avanti dirà che le idee
sono «inerti». This perceiving, active being. Le idee non sono attive e bisogna comprendere in che
termini e senso.
Abbiamo una mappatura esaustiva di quello che esiste, che si articola in oggetti della conoscenza e
qualcosa che conosce. L’isola ci offre solo due elementi da descrivere. L’opposizione non è più tra
me, in me ed extra me, ciò che esiste fuori dalla mente che devo guadagnare con una prova, ma è
solo tra una mente e i suoi contenuti. (L’opposizione soggetto-oggetto di conoscenza in realtà non
esiste prima di Kant.)

§3 Gli oggetti di conoscenza nella loro tripartizione non possono esistere senza la mente (pensieri,
passioni, idee dell’immaginazione). Le idee o cose sensibili non possono esistere se non in una
mente che li percepisce. L’idea di una esistenza assoluta di cose non pensanti al di fuori della mente
è strettamente inconcepibile. Quindi l’essere delle cose percepibili è coincidente con il fatto di
essere percepiti. Esistono soltanto nella mente cioè nelle cose pensanti che le percepiscono. Il motto
è «esse is percepi», essere è identico a essere percepito. Percipere vuol dire anche velle,
reminiscere e fare tutte quelle altre operazioni di conoscenza che sono proprie della mente. Altro
non possiamo pensarlo, quindi non può essere. Pensare una cosa che esiste fuori di noi e pensarla
come disgiunta, facendo astrazione cioè, dalla qualità di essere percepita, in atto o in potenza, è
qualcosa di impossibile. Quindi l’essere delle cose percepite coincide con l’essere percepite, da me
o da un altro qualsiasi. Altrimenti separo qualcosa che non sono separabili neanche di principio.

23/3/22
Il mondo consiste nell’essere percepito o percepire. Sillogismo in apertura che arriva alla
conclusione che gli oggetti della conoscenza hanno esistenza come passività di percezione.
Confermare, validare un principio è provare a negarlo e vedere come sia impossibile negarlo. Non
si riesce a contraddirlo, a concepire il contrario. Lo stesso fa qui Berkeley in §4-7.

§4 Riprende l’opinione comune, il senso comune che dice che le cose hanno esistenza reale,
assoluta, distinta dall’essere percepita dall’intelligenza. Esistenza naturale o reale. Qui reale nel
senso moderno di realtà fuori di noi. Nega anche l’esistenza di essenze che sussisterebbero
assolutamente fuori noi. Le realitates come le essenze matematiche che esisterebbero in qualche
luogo anche indipendentemente dall’essere percepite. Qui sta parlando di oggetti sensibili, per cui
sembra che naturale e reale sono sinonimi, ma altrove no.

Come argomenta Berkeley per mostrare che questa opinione comune è sbagliata? Essa esibisce una
contraddizione patente. Cosa sono gli oggetti se non ciò che noi di essi percepiamo coi sensi? E
cosa percepiamo oltre alle nostre idee o sensazioni? Qualcuna di queste, o qualche combinazione di
esse, esiste senza essere percepita? Esse est percipi. Le cose sensibili non sono altro che insiemi di
sensazioni. Le sensazioni non sono altro che contenuti mentali. Esistere per un’idea significa essere
percepito. Quindi le cose sensibili non esistono se non sono percepite. Oggetti non percepiti non
sarebbero oggetto di conoscenza umana, non se sapremmo nulla, quindi non sarebbero nulla, perché
ciò che non si può pensare non esiste, l’inconcepibile non esiste. Pensare un’esistenza di qualche
genere significa percepirla, cioè pensarla. Questo sarà il master argument.

L’opinione comune quindi non è un principio, è da rifiutare. Non solo questo è un errore, ma è un
errore che mette capo al solito problema, al fatto che noi pensiamo di essere capaci di astrarre delle
cose che di fatto non riusciamo ad astrarre. Concepire la esistenza degli oggetti sensibili
indipendentemente dal loro essere percepiti o percepibili significa fare astrazione: astrarre dagli
oggetti sensibili la loro esistenza separando l’elemento percezione. Concepirli come non
attualmente percepiti, come esistenti indipendentemente da ogni percezione significa astrarre gli
oggetti sensibili dal fatto che sono sempre percepiti. Questa astrazione non è possibile.
Come mi è impossibile vedere, sentire senza sensazione attuale, così mi è impossibile concepire nei
miei pensieri qualsiasi oggetto o cosa sensibile – strettamente sinonimi – distinti dalla percezione o
sensazione di essi. Faccio un’astrazione che non è realizzabile. Credo di poterlo astrarre, di poter
separare l’esistenza delle cose sensibili dal fatto che sono percepite. Credenza falsa perché penso di
fare una astrazione che in realtà non so fare. Non posso parimenti pensare un conglomerato di
sensazioni senza ammettere al contempo che quel conglomerato è sentito. L’esistenza di un oggetto
sensibile è quindi inseparabile dall’essere percepito. Questo errore è il portato di una astrazione
falsa, cioè di una pretesa astrazione, cioè di una convinzione di essere in grado di astrarre, anzi di
poter compiere un minuzioso sforzo di astrazione, nicer, più sofisticato. Come non posso concepire
un triangolo senza qualità.

§6 Esse est percipi: o sono percepiti da me o sono percepiti da qualche altro spirito creato, cioè
finito o devono essere percepiti nella mente di qualche Spirito eterno, cioè nella mente di Dio,
l’Altro per eccellenza. Qualcuno che li percepisca ci deve essere.

§7 Non c’è altra sostanza che lo spirito o ciò che percepisce. Sostanza nel senso di sostrato, luogo di
supporto, soggetto delle qualità percepite. Lo spirito è sostanza cioè supporto, soggetto, sostrato
delle qualità percepite, che in-sistono, sono supportate da un soggetto che le percepisce. Non solo ci
sono oggetti della percezione e soggetti percipienti. Ci sono solo sostanze pensanti, non sostanze
estese. L’unica cosa che merita il nome di sostanza è la mente. Perché degli atti della mente è
ovviamente lei il supporto. Per quanto riguarda le qualità sensibili queste qualità non sono modi di
una sostanza estesa, ma sono qualità che insistono in una sostanza pensante, cioè la sostanza che
percepisce. Quindi l’unica sostanza che esiste è la mente. La parte finale del Trattato sarà dedicata
agli spiriti.

Niente mi dava da pensare che lo spirito si intendesse al plurale. Cartesio non ha mai dimostrato che
le altre menti esistono, lo postula. L’unica altra sostanza pensante che lui dimostra è Dio. Io e Dio:
degli altri uomini non so niente dal punto di vista della dimostrazione rigorosa. Berkeley la eredita.
Husserl scriverà le Meditazioni cartesiane e consacra una meditazione sulla intersoggettività.

Sezione §8-24 intorno alla possibilità di salvare il realismo o il materialismo, cioè l’ipotesi che
esistano in effetti delle cose fuori di noi non pensanti e non attualmente percepite e che esistano
anche indipendentemente dalla percezione attuale. Lo si salva normalmente distinguendo le idee
dalle cose, con la teoria classica rappresentazionalista. Le idee non fanno altro che rappresentare le
idee che stanno fuori dalla mente. Noi certo abbiamo accesso diretto alle nostre idee. Ma questo
accesso ci permette di accedere indirettamente a cose che non sono cose.

§8 Esistono cose ed esistono idee di cose. Le due dimensioni vanno distinte e gli oggetti della
conoscenza umana, in particolare gli oggetti sensibili della conoscenza umana, sono diversi dalle
cose sensibili. Questa è la tesi realista. Noi conosciamo le cose attraverso le idee. Tramite le idee
noi conosciamo cose che non sono idee. Ci sono cose simili a quelle delle quali esse siano copie o
immagini, le quali cose esistono senza mente in una sostanza non pensante. Ricostruzione del
realismo spontaneo: causa, non pensanti ed estese e simili alle idee di cui sono causa. Contro questa
visione Berkeley formula una serie di obiezioni. Un’idea può essere simile e soltanto a un’idea. È
impossibile concepire per noi una somiglianza eccetto che fra le idee. Se questi supposti originali o
cose esterne, le cose di cui le idee sono immagini, rappresentazioni, somiglianze siano percepibili o
no, ci si può chiedere.
Risposta di Berkeley: un’idea assomiglia solo a un’idea, un colore a un colore, una percezione
sonora a una percezione sonora. O le cose che poniamo come originali sono anch’esse percepite,
percezioni e quindi idee, oppure se sono cose che supponiamo poter concepire come non percepite,
come esistenti indipendentemente dalla percezione, dovremmo dire che un’idea è simile a qualcosa
che non è idea. E questo è inconcepibile. Similitudine è istituire una relazione tra due cose. Lo fa la
mente tra le idee.
28/3/22
§8 Realismo spontaneo recuperato da Cartesio: causalità, esistenza esterna e somiglianza. Berkeley
insiste sulla somiglianza come criterio per passare dall’interno all’esterno. La somiglianza non è
una via percorribile perché si dà solo tra idee e idee, quindi di fatto non mi fa mai uscire dalla
prigione mentale, facendomi trovare un’altra idea, oppure dovremmo supporre che qualcosa di non
eidetico sia simile a un’idea e che quindi la causa che si pretende esista esternamente
indipendentemente abbia qualcosa di simile a ciò che esiste in me come idea. La via della
somiglianza come via da scartare perché non percorribile.

Nel seguito di questa sezione (§8-22) - §22-24 contiene il master argument – ci sono considerazioni
che vertono su un secondo tipo di risposta che apparterrebbe al realismo spontaneo riformulato
filosoficamente, per salvare l’idea che gli oggetti della conoscenza sono oggetti mentali, ma le cose
conosciute sono delle cose che esistono fuori dalla mente. Un’altra strategia per distinguere oggetti
della conoscenza da cose conosciute consiste nel distinguere qualità primarie e qualità secondarie.
Strategia classica ereditata da Cartesio e Locke e chi li segue, già a partire da Galileo. Dire che
certamente le qualità secondarie sono soggettive ed esistono solo nella nostra mente, ma esse sono
l’effetto soggettivo di qualità primarie che invece esistono nelle cose in sé. Quindi sono reali e
perciò in qualche maniera la somiglianza non sussiste tra qualità secondarie percepite e oggetti
esteriori, ma tra qualità primarie percepite e oggetti esteriori. Strategia legittima che molti autori
adottano, che produce poi secondo Berkeley un’idea di materia come estensione con figura e
movimento, materia come una sorta di sostrato dotato solo di qualità primarie che produce agendo
in noi qualità secondarie. Pag. 299. Soggettività e oggettività: qualità primarie e secondarie.

§10 Qual è la risposta di Berkeley? In primo luogo mostrare che qualità primarie e secondarie sono
indisgiungibili, hanno un’unità essenziale. La pretesa separazione tra le due ancora una volta è
frutto di una cattiva astrazione. Se si dimostra che sono inseparabili dall’astrazione, cioè sono
separabili anche di fatto – perché la inconcepibilità della separazione nella mente implica quella di
fatto. Le cose sono inconcepibili senza le qualità secondarie. Tutte le qualità sono soggettive,
esistono solo nella mente, quindi non ci sono qualità fuori dalla mente esistenti in maniera
autonoma. Anche le qualità primarie esistono solo nella nostra mente.

§11 Le caratteristiche che riconosciamo nelle qualità primarie, se anche pensassimo di astrarle e
concepirle autonomamente da ogni qualità secondaria, dovremmo riconoscere in ogni caso che
anche lì ci sono caratteristiche puramente soggettive. Quelle qualità quindi sono sempre rapportate
alla nostra percezione. Anche queste variazioni delle qualità primarie sono soggettive, dunque
anche le qualità primarie sono soggettive.

Nei paragrafi successivi farà la stessa considerazione sull’unità o del numero, caratteristiche che
Cartesio metteva tra le idee semplici, nozioni comuni che possiamo attribuire alle qualità primarie.
Tutto questo è soggettivo. Anche le qualità che attribuiamo alle qualità primarie, che una certa
quantità di materia sia lunga e profonda è una considerazione soggettiva che dipende dal
percipiente.
A meno che non vogliate sostenere una estensione in generale o un movimento in generale: idee
astratte. Ciò che non siamo in grado di concepire. Così hanno fatto i filosofi da Aristotele: hanno
assunto una materia prima, base indifferenziata di tutte le cose che noi concepiamo come la
determinazione indeterminata che fa da sostrato a ogni sostanza per il modello ilemorfista
aristotelico.
Le qualità primarie sono soggettive e quindi dipendenti dalla mente.

In §12 e §13 lo schema si ripete identico per le qualità primarie e secondarie: relatività vuol dire
dipendenza dalla mente e quindi esistenza soltanto nella mente.
Berkeley si fa erede di una serie di argomenti di tipo scettico. Pierre Bayla, Dizionario filosofico,
aveva portato all’estremo alcune tesi scettiche come quella della indistinzione tra qualità primarie e
secondarie. Aveva un aspetto scettico in particolare rispetto alla natura della scienza moderna che si
occupa dei fenomeni e non dell’essenza delle cose stesse. In B. questo viene recuperato non per
formulare una tesi sulla natura della scienza, ma per ribadire il carattere soggettivo di tutte le qualità
sensibili, siano esse primarie o secondarie. Recupero di un argomento scettico in chiave antiscettica.
Vuole eliminare un’ipotesi che condurrebbe a una forma di scetticismo.

§16-17 La seconda parte di questa considerazione sulle qualità primarie e secondarie si trova nei
paragrafi 16 e 17 con la considerazione sulla sostanza. Aveva detto nel §7 che non esiste nessuna
sostanza tranne la mente, che ora va qualificata.
L’estensione è un modo o un accidente della materia, sostrato che la sostiene. Riformulazione della
distinzione tra qualità primarie e secondarie, dicendo che c’è una sostanza estesa – con anche figura
e movimento -, sostrato che sostiene queste qualità primarie. Cartesiano, Cartesio non avrebbe detto
che l’estensione è un modo o un accidente – se non per sbaglio una volta -, avrebbe detto che è
l’attributo principale, mentre movimento e figura i modi. Dite che non avete un’idea della materia,
ma dovete avere almeno un’idea relativa della materia. A questo termine associano l’idea di essere
in generale, insieme alla nozione relativa del suo sostenere gli accidenti. Essere in generale e
relazione tra gli accidenti che sostiene. Siamo nella peggiore delle situazioni, quella di
un’astrazione insostenibile: sia per quanto riguarda l’essere in generale. Che cos’è la metafisica per
Berkeley? Non può essere la scienza dell’essere in quanto essere. Anche la nozione di sostenimento
degli accidenti. Bisognerà cambiare anche la definizione di metafisica.
Siamo sempre alla solita inconcepibilità, con il vantaggio ulteriore di averci segnalato non solo i
dubbi legati alla affermazione di una materia che esiste fuori dalla mente, ma anche dei dubbi più
specifici riguardo alla nozione stessa di sostanza. Qualcosa che sostiene non è positiva, è solo
relativa e in ogni caso perfettamente vuota. Un’idea generale e astratta quindi non un’idea. Un non
so che che è supporto delle qualità che percepisco.
In questo Berkeley è erede di Locke, che ha condotto una lunga serie di considerazioni sulla
effettività, cioè realtà della sostanza, per vederne solo uno strumento concettuale per organizzare la
nostra esperienza del mondo. Un amo cui attaccare le qualità sensibili che percepisco. Non c’è un
amo, ce lo metto io. Locke: un non so che che supporta delle qualità. Berkeley fa il passo ulteriore:
un non so che non c’è. Una funzione logica che ci serve per articolare il nostro discorso sul mondo,
ma è una organizzazione perfettamente soggettiva, quindi non c’è il bisogno di un riferimento reale
della sostanza. Sostanza non denota niente, è un’idea che non ci dà da pensare niente, un’idea
generica nel senso peggiore del termine.
Lo spirito – ci aveva detto però – è una sostanza. Pratica deprecabile ci dice ora. Concezione
generica di qualcosa che sarebbe sconosciuto e supporto di qualità.
Quando diciamo «sostanza» non stiamo dicendo niente. Hume: bundle theory, assenza di sostanze
effettive. La mente è il teatro, anzi lo spettacolo in cui le immagini passano senza soste come in un
cinema senza schermo dove le immagini vengono proiettate. Non c’è niente di permanenete, ma
solo qualità. Non c’è niente che stia sotto. Resta da domandarsi perché la mente meriti questo
termine piuttosto che altri.

Ultimo momento di critica, ripensamento, rivisitazione del realismo spontaneo. Riguardo la nozione
di causalità fra oggetti esterni e le nostre idee. Sviluppato in §18-21, in cui Berkeley ritorna sulla
questione della prova dell’esistenza delle cose esterne alla nostra mente come causa delle nostre
percezioni. Ci ritorna mettendo insieme due cose: la prova cartesiana e la sua riscrittura,
reinterpretazione piuttosto critica in ambito occasionalista. La dottrina occasionalista della
conoscenza: le cose esterne sono occasioni che occasionano in Dio la produzione nella nostra mente
della percezione loro associata. Le cause seconde non sono effettivamente cause. La causa prima
produce in noi la percezione. Berkeley evoca una serie di obiezioni possibili traibili dalla dottrina
occasionalista sull’esistenza del mondo esterno. Malebranche aveva criticato la prova cartesiana.
Berkeley prende da autori precedenti – come aveva fatto per Bayle – e le porta alle estreme
conseguenze.

§18 Critica della dottrina cartesiana. Come sarebbe possibile stabilire che ci siano corpi fuori di noi
che siano cause simili alle nostre idee? Ci sono due vie per uscire dalla prigione: i sensi o la
ragione. Per i sensi abbiamo conoscenza solo nelle nostre percezioni. Cose che sono
immediatamente percepite dai sensi e non pongono la percezione di qualcosa di esterno a noi.
Ragione qui vuol dire non un’evidenza immediata data dai sensi, ma un’evidenza mediata, cioè il
risultato di una dimostrazione, condotta dalla ragione.
Se abbiamo qualche conoscenza dell’esistenza del mondo esterno resta un’inferenza razionale.
Traduzione di come i Principi di Cartesio avevano ritrascritto la dimostrazione della VI
meditazione. È la prova cartesiana quindi che qui è oggetto di critica. Quale ragione di uscire dalla
mente se gli stessi sostenitori autentici della materia non pretendono che ci sia una necessaria
connessione tra le cose e le nostre idee. Passo ulteriore a Malebranche: le cause seconde non sono
causa necessaria delle nostre idee. Prova cartesiana in sé già dubitabile, ancora di più se ci
aggiungiamo l’occasionalismo, che rende non necessaria la relazione causale tra le cose esterne e la
percezione che ne ho. Occasionalismo che mettendo in dubbio l’assioma causale al centro della
dimostrazione cartesiana, perché la dottrina occasionalista afferma che non c’è reale causa
dell’interazione tra cose finite e create, cioè tra cause seconde. Mettendo in dubbio la possibilità di
applicare l’assioma causale all’interazione tra corpi l’occasionalismo rende del tutto debole o
inefficace la prova cartesiana. Berkeley va più in là a partire da quanto già è stato detto.

§19 Nell’ipotesi occasionalista abbiamo un Dio che crea il mondo, i corpi materiali, senza bisogno
che essi esistono, perché produce in noi le percezioni, senza necessariamente produrre il mondo.
Possiamo fare a meno di postulare la materia per rendere ragione della percezione. Anzi sarebbe
meglio non postularla perché senza affermare l’esistenza dei corpi esterni avremmo un sistema più
semplice. Anziché avere Dio e le cose esterne avremmo solo due elementi: Dio e noi stessi.
Questo è l’uso che B. fa dell’occasionalismo: la critica della causalità diretta fra cause seconde
produce un giudizio di inutilità dell’esistenza del mondo esterno. Dio sarebbe stato più saggio, cioè
con soluzione più economica, se non avesse creato il mondo, perché noi non abbiamo percezione di
esso. Malebranche: la causa seconda non è causa, ma ragione della causalità divina, spiega perché
Dio agisce così. Berkeley invece punta solo sulla causalità.
Nel §53 si ricorda esattamente la dottrina occasionalista. Ipotesi stravagante: affermano l’esistenza
della materia senza che essa faccia qualcosa. La stessa considerazione in §67-71, in cui riprende la
questione dell’occasionalismo. B. sottolinea che l’occasionalismo ragiona sulla nozione di ragione
sconosciuta, è incomprensibile. Cosa sia occasione non è spiegato, non si vede comunque perché
Dio dovrebbe produrre anche le cose oltre alle sensazioni che ne abbiamo. Al massimo si può dire
che le cose esistono nella mente di Dio, come idea, ed Egli a partire da quella idea produce in noi le
percezioni che ne abbiamo. Ma questo significa confermare ancora una volta che le cose esistono
soltanto nelle menti, che sia quella archetipica divina o nella nostra a partire da quella. Riduce
l’occasionalismo a una semplice interazione tra la mente divina e quella umana. Questo tipo di
lettura è particolarmente pertinente perché sfrutta la dottrina di Malebranche per cui Dio vede in se
stesso una sorta di estensione intellegibile, a partire da cui produce le nostre idee delle qualità
materiali. Alla fin fine B. fa una sorta di lettura estrema del Malebranchismo e lo fa eliminando
l’occasione, non esistono più le cose esterne, semplicemente Dio produce le mie sensazioni con
regolarità e con una logica costante e io le percepisco. C’è solo la causalità di Dio, con delle norme
che regolano la sua azione e fa sì che io abbia nella mia percezione una serie di fenomeni. Berkeley
va oltre, riprende M. e butta via una parte della teoria di questo che gli sembra inutile, foriero
solamente di problemi ulteriori. Azione diretta di Dio sulle nostre menti senza intermediazione dei
corpi esterni.
§20 Riassume quanto detto. Se ci sono non li conosciamo, se ci sono non cambierebbero i fenomeni
percettivi che riceviamo – sarebbero inutili rispetto alla nostra conoscenza e alla spiegazione di
essa.

Master argument. Ha prodotto molti dibattiti dal punto di vista della critica nell’individuare quanto
abbia aggiunto a ciò che è stato finora detto. Dal §24 al §33 si tratta di corollari. Non siamo già
abbastanza sicuri che gli oggetti della sensazione esistono solo nella mente che li pensa e non
mettono capo a oggetti esterni?

§22 Ritorniamo all’esperienza interna, diretta. Guardate se potete concepire la possibilità di una
qualità sensibile, quindi anche una cosa sensibile, e se siete in grado di percepirlo come non
percepito. Se siete in grado. Contraddizione assoluta. Argomento radicale: vi concedo tutto se mi
mostrate che siete in grado di concepire la possibilità di una qualità sensibile concepita come non
percepita. Se c’è questa possibilità, se riuscite a concepire questa possibilità vi accordo tutte le
vostre tesi più strampalate dell’esistenza del mondo esterno, come causa, simile, ecc.

§23 Niente di più facile di concepire o immaginare delle cose che esistono insieme al fatto che
nessuno le percepisca. Cosa state facendo se non percepire delle cose sensibili e togliere l’idea
ssociata di qualcuno che le percepisce? Perciò questo è niente per lo scopo. Potete immaginare, ma
non concepire possibile che esistano oggetti al di fuori della mente. Farlo è una manifesta
contraddizione, una manifest repugnancy.

§24 Parlare di esistenza assoluta di oggetti esteriori alla mente: questa formula non ha alcun senso,
indica una contraddizione diretta oppure niente in assoluto, parole vuote. È una performance
impossibile pensare qualcosa di esterno al pensiero senza che sia pensato, lo starei sempre pensando
io. Questo vuol dire che l’unica maniera per spiegare questo tipo di atteggiamento è riferirsi a una
ipotetica capacità astrattiva. In §23 si trova «framing an idea» togliendo ogni riferimento da questo
oggetto la percezione fatta da chicchesia. È impossibile.

La definizione di «master argument» si trova nel suo Commentaries ed è definitivo: o lo si accetta o


lo si rigetta. Non è discutibile, integrandolo o modificandolo.

Argomento che assomiglia al cogito. Lì si giocava con l’esperienza coscienziale. Qui si lavora sulla
percezione sensibile, ma siamo nello stesso tipo di dinamiche. Una prova del cogito: se non penso,
io non sono; io sono (perché sto pensando). Se concepisco qualcosa che è possibilmente esistente
come non concepito, lo sto concependo; quindi esiste come concepito. Assomiglia al cogito.

Berkeley offre anche un’analisi di perché noi invece crediamo al realismo. Secondo Berkeley
questo è un effetto di un difetto di attenzione. La mente non fa attenzione a se stessa e pensa di
poter concepire qualcosa di esistente come non concepito. Questa postura, oltre che l’effetto di una
serie di tesi e dottrine filosofiche, è anche l’effetto di una mancanza di attenzione verso se stessa. La
mente pensa di pensare qualcosa che esista senza essere pensata. L’astrazione impossibile che il
realismo spontaneo suppone è quella della mente da se stessa. Per questo B. insiste sulla esperienza
interna e sulla necessità di fare un piccolo sforzo di attenzione in più. Possiamo ingannarci se non
poniamo attenzione a quello che succede nella nostra mente.

Questo argomento ha la forma dell’autorefutazione, una sorta di serpente che si morde la coda. Se
pongo qualcosa, mi trovo ad ammettere che questo è falso e quindi è vero ciò che sostiene Berkeley.
Dimostrazione per assurdo. Strategia che si adotta per i primi principi. Per dimostrare la verità,
basta porre il contrario, per vedere come sia falso o contraddittorio, e quindi ritornare alla verità
iniziale, essendosi autodistrutte le altre possibilità. L’atto stesso confuta ciò che si sta ponendo,
ponendosi si toglie, in qualche maniera. Se lo pongo, lo tolgo. Se pongo che il principio del
realismo spontaneo, necessariamente lo invalido.

Risulta non facilissimo capire perché Berkeley parli di una contraddizione in termini. C’è stato un
vasto dibattito cercando di capire se Berkeley stia parlando di una autorefutazione o di una
contraddizione effettiva come sembra dire. Assomiglia di più a gridare: «io sono in silenzio»,
piuttosto che ad affermare un quadrato rotondo. L’affermazione nega il suo contenuto. Se affermo
qualcosa di fuori dalla mente, io affermo che non esiste, perché lo dico, penso, affermo, ecc.
Berkeley dice che la formula o è priva di senso o include una contraddizione (§24). O sono queste
parole il segno di una diretta contraddizione, o non vogliono dire niente. B. insiste sulle nostre
capacità di concepire qualcosa come limite rispetto al possibile. Osservando la nostra esperienza
interna vediamo che se qualcosa è totalmente inconcepibile allora esso stesso è impossibile, quindi
non esiste. Se non posso farlo con la mia mente non si può fare, quindi non esiste. Il gioco è a
partire dall’introduzione nella discussione dell’astrazione e poi qui sulla performance intellettuale.

Berkeley stesso sottolinea che l’errore che sta alla base della falsa credenza è al solito un errore di
astrazione. Pensare qualcosa come non percepito, togliendo la sua relazione con la percezione.
Un’astrazione non realizzabile, praticabile, impossibile, quindi che non ha nessun corrispettivo reale
nelle cose e cioè non ha un denotato realmente distinto, perciò conferma la validità del principio
berkeleyano. È un argomento maestro non per quello che ci dice, ma per il fatto di esibire in
maniera plateale il rapporto tra concepibilità, pensabilità e possibilità che abbiamo visto fin
dall’inizio essere il filo conduttore. Berkeley contempla la impossibilità di concepire qualcosa che
non è pensabile e quindi non possibile.

Tutto è ricondotto alla prima persona. Non posso concepire qualcosa che non è concepibile da me.
Però l’argomento di Berkeley per il materialismo dice che non posso concepire qualcosa che non sia
oggetto di percezione mia adesso, oppure da parte di qualcun altro adesso o altrove, o almeno da
parte di Dio. Quindi l’unica osservazione che si può fare del master argument è che come il cogito
funziona solo in prima persona. Ma nella confutazione del materialismo Berkeley aveva messo in
campo altri spiriti, finiti o infinito. Prima persona e attuale invece il master argument.

29/3/22
La parte §25-33 è dedicata a ciò che non è oggetto della conoscenza. Distinzione soggetti e oggetti
della conoscenza strutturante per tutto il Trattato e anche qui la ritroviamo. Ritorna l’altro polo che
sono i soggetti. Per precisare la natura e la conoscenza che di essi abbiamo. L’unica cosa che
abbiamo è il §7: non c’è sostanza se non lo spirito, ciò che percepisce. Nel §2 parlava di qualcosa di
attivo, unica qualità di questo essere o soggetto attivo. Queste prime determinazioni vengono qui
precisate. In un primo senso nel meglio definire il carattere attivo, cioè precisando che l’attività
della mente, del soggetto conoscente è in qualche modo la controparte di una inerzia delle idee. La
contrapposizione è tra ciò che è puramente passivo e ciò che è invece attivo. Tutte le nostre idee
ossia le cose che percepiamo sono inattive, inerti, sprovviste di capacità positive. Non c’è potere o
attività incluse in esse. Una dimostrazione di questo punto – assioma generale: tutto ciò che è idea
lo possiamo conoscere adeguatamente. Tutto ciò che c’è nell’idea lo posso conoscere: le idee non
tengono mai in serbo caratteristiche che io posso scoprire osservandole più attentamente. Se guardo
le mie idee non trovo nessun riferimento a qualche forma di potere o attività. Quindi le idee sono
completamente inerti. Non possono essere cause esse stesse e non possono nemmeno rappresentare
qualcosa che sia causa, cioè che sia attivo e positivo. In esse non troviamo nessun potere, capacità
di produrre o alterare una operazione. Ragion per cui tutte le idee sono necessariamente inattive,
inerti, il che vuol dire che non possono produrre qualcos’altro, essere causa in senso stretto di
qualcosa di altro, foss’anche un’altra idea, né essere rappresentazioni di cose che sono cause.
Perché il simile rappresenta il simile e quindi se l’idea non è mai per sua natura strutturalmente
attiva non può rappresentare qualcosa di attivo. Non possiamo nemmeno dire che le idee
rappresentano configurazioni di cose esterne materiali ecc., che appunto esse sono attive e che le
idee si limiterebbero a rappresentare. Primo passo del carattere attivo della mente consiste
nell’affermare il carattere inattivo, propriamente inerte delle idee.

Qui Berkeley ci sta un po’ prendendo per il culo, non ci dà una dimostrazione, ci dice che le cose
stanno così. È così nel senso che la dimostrazione che ha fatto della non esistenza del mondo
esterno ci conduce verso questa determinazione delle idee. Fuori di noi non ci sta niente. Le idee
dipendono dalla mente, le sono subordinate e ciò che dipende non è attivo. In che senso le idee
siano sempre inerti ci risulta più difficile capirlo. B. fa riferimento a una esperienza interna,
evidenza empirica dell’impossibilità di riconoscere nei contenuti mentali che sono i nostri una
dimensione di attività. Introspezione come strumento guida dell’analisi. Diventerà sempre più
pertinente questo riferimento nei paragrafi che seguono rispetto alla nostra propria mente. Presa di
posizione se non ingiustificata quanto meno poco giustificata. Quando ci dice che l’idea non può
essere ritratto di qualcosa di esterno di attivo. Perché l’idea in sé stessa non sia attiva è più difficile
capirlo. Una risposta consiste nel vedere in questo paragrafo dei casi in cui gli autori scrivono
assumendo la postura di altri autori. Come nei pittori nella fase della formazione, in cui copiano
opere di altri grandi artisti, poi via via acquisendo il proprio stile. Un artista può però mantenere in
certi momenti o appropriarsi direttamente di stili altrui. Col proprio personale tocco, ma nello stile
altrui. Succede anche in filosofia, negli autori settecenteschi e in Berkeley che in realtà in questo
paragrafetto sta facendo il Locke. Capitolo On power del Saggio. Lo vediamo da un indicatore
testuale: le idee anche nel senso della riflessione. Ma non ci aveva detto che le idee che ricaviamo
dalle operazioni della mente non sono propriamente idee? È la precisa posizione teorica e
terminologica di Locke. Qui Berkeley sta rifacendo velocemente delle lunghe pagine lockiane e
cerca di sbarazzarsi in fretta e furia dalla possibilità di attribuire alle idee una qualche forma di
potere – questo spiegherebbe l’oscurità del paragrafo. Come mi formo l’idea di potere? Locke
aveva un’analisi che riusciva a dare conto del fatto che abbiamo un’idea di potere. Nozione tra le
nostre idee. Berkeley questo non lo ammette.
Frase finale sui corpuscoli, che descrive come la materia è fatta. Qualità secondarie derivano dalla
configurazione dei corpuscoli che caratterizza le qualità primarie innanzitutto.
L’idea non fa mai niente. Affermazione un po’ dogmatica, tono dovuto al fatto che stava
sbarazzandosi di un tema che Locke aveva più lungamente sviluppato.
B. aggiunge che non solo il soggetto è attivo, ma è l’unica cosa attiva, perché le idee sono
necessariamente passive.

§26 Nella nostra mente troviamo una successione continua di idee, variazione continua – è una
evidenza empirica e portato della riflessione cartesiana. Forme di suscitare ex novo o apparizione,
variazione e scomparsa. Le idee cambiano secondo tre modi. Visto che le idee non hanno potere
attivo o causale devo trovare un’altra causa delle mie idee. Questa causa deve perciò essere una
sostanza, ma non c’è una sostanza materiale corporea, quindi rimane che la causa delle idee è una
sostanza attiva incorporea, vale a dire lo spirito. La mente stessa è causa di queste idee, secondo le
tre figure del creare dal nuovo, modificare o eliminare. Nuova caratterizzazione della mente come
causa delle idee. Resta vago su che spirito, in ogni causa una sostanza spirituale.

§27 Uno spirito, non la nostra mente, ma quale che sia, è un essere semplice, indiviso, attivo.
Semplicità e indivisione. Qualità ulteriori che entrano in scena. Non è frutto di composizione né
suscettibile di scomposizioni. B. vuole evitare la conseguenza ultima dell’attualismo cartesiano: la
bundle theory humiana, che nega il substrato sostanziale, per cui la mente non è altro che i suoi
contenuti e i suoi atti. Vuole evitare questo perché questo per lui è un pericolo per le conseguenze
teologiche che comporta. Berkeley cerca di dirci che la mente non è una congerie di pensieri.
L’esistenza effettiva della mente non è nient’altro che la serie delle idee, togli la mente se togli la
serie di percezioni. Per Berkeley queste sono tesi da rigettare. La mente non è assimilabile alla
maniera d’essere dei corpi, diversa da un composto di contenuti e atti mentali. Cosa sia non lo
sappiamo, deve essere diversa da quello, da una mera sequenza di contenuti.
Non ci può essere un’idea formata – possiamo dire che è sinonimo di frame – idea nel senso stretto
della mente perché qualcosa di passivo non può rappresentare qualcosa di attivo.
Non abbiamo un’idea, solo una conoscenza dei suoi effetti, non è percepita in se stessa.
Sappiamo quello che la mente non è. È un agente del tutto diverso dalle idee, è non idea. Non può
essere rappresentata da idee. Non ne abbiamo un’idea in senso stretto – passività, composizione,
ecc. – ma una nozione. Nozione vuol dire essere in grado di verificare la verità di alcune formule
che pronunciamo rispetto alla mente, alcune caratterizzazioni di essa che poniamo, tramite
un’esperienza interna. L’introspezione più una sorta di via negativa che passa per la negazione di
ciò che le idee sono ci dice qualcosa su ciò che la mente sia. Quando diciamo che nella mente c’è
intelligenza e volontà, che è attiva e non passiva, che abbiamo dei poteri nella mente, mentre le idee
non ne hanno, ecc. Una psicologia negativa. Per la teologia negativa si dice che di Dio non si
conosce l’essenza in maniera positiva e determinata, ma si conosce negativamente negando le
imperfezioni che troviamo nelle creature la sua natura. E lo si conosce attraverso gli effetti. Non lo
si conosce attraverso gli effetti, non direttamente, ma tramite negazione delle imperfezioni che
troviamo nelle creature: Dio è infallibile, cioè non è soggetto a nessuna forma di fallibilità che
conosciamo, Dio non è malvagio, non soggetto a nessuna forma di cattiveria che conosciamo e di
Dio possiamo conoscere la saggezza e provvidenza tramite lo spettacolo del mondo cioè gli effetti
che produce. Lo stesso dell’anima, di essa abbiamo una psicologia negativa: non è scomposta,
divisibile, passiva e possiamo attribuirle caratteristiche a partire dagli effetti che sperimentiamo, la
capacità di modificare le nostre percezioni a partire dalle modifiche di esse. Ma che cosa sia l’anima
non lo sappiamo. Una lunga serie di autori, con capostipite Malebranche, erano concordi a ritenere
che nella mente non si dia conoscenza in senso proprio, ma semplice sentimento. Cioè delle cose
esterne ho un’idea, laddove della mente non ho propriamente un’idea, ma ho un sentimento che mi
permette di essere sicuro della sua esistenza e posso avere una conoscenza relativa di essa a partire
dagli effetti che produce. Berkeley in questo senso è erede del suo tempo di una lunga tradizione
postcartesiana che vedeva nella mente un oggetto incapace di essere colto tramite una conoscenza
propriamente eidetica. Che io possa riferire alla mente certi elementi non vuol dire che io ne abbia
un’idea. Possiamo conoscere i contenuti della nostra conoscenza, ma non della mente che conosce.
Che siamo indivisibili anche questa è un’evidenza che possiamo tutti sottoscrivere. B. non è così
lontano dall’esperienza del senso comune che noi facciamo di noi stessi. È molto più probabile che
noi possiamo sottoscrivere che la mente sia una sostanza pensante, che abbiamo una idea di essa.
Qua dice che ne abbiamo una nozione. Il riferimento è San Tommaso che dice che noi abbiamo una
notizia di noi stessi oppure un’idea frutto di un processo di astrazione. Della mente non abbiamo
idea, ma nozioni.

Berkeley ritorna sulla questione delle menti. Ridice quanto detto in §135-140. Sulla natura e
conoscenza della mente. La conoscenza umana non è così manchevole perché non si ha un’idea
della mente. Non è un difetto, un argomento che permetta di accusare il sapere umano di
imperfezione, perché delle cose che sono menti non è necessario avere idee. La dottrina della
inconoscibilità della mente non si può giocare per affermare che il nostro sapere è imperfetto e
siamo in una condizione di inferiorità e di manchevolezza rispetto alla nostra ambizione di
conoscenza. Della mente non si può avere idea. Anche qui c’è dietro Malebranche che diceva che la
nostra capacità di avere conoscenza della mente è temporanea, perché dopo la Risurrezione avremo
un’idea della nostra mente perfettamente chiara. Qui sulla terra in questa condizione non si conosce
la nostra mente, ma poi la si conoscerà. Per B. qui e dopo la risurrezione nell’eternità non c’è
possibilità di avere idea delle menti. In §136 non è un problema se non abbiamo una facoltà
specifica che ci permetta di conoscere la nostra mente o gli spiriti in generale. Non si danno idee per
conoscerle. In §138 dice che l’idea non è attiva e quindi non può essere rappresentazione di
qualcosa che è attivo e non ha nessun senso dire che potremmo avere un’idea della mente togliendo
l’attività. Rendere sensibile la mente pensandola equivale a darne una interpretazione falsata, con
categorie erronee. Oggi una delle vie preferite della ricerca è trovare i correlati cerebrali delle nostre
attività o performance mentali. Della mente in se stessa non abbiamo idee. §138-139-140 Quando
usiamo termini che riguardano la mente come spirito e anima vogliamo dire qualcosa che pensa,
vuole, percepisce senza che questo implichi la presenza di un’idea di ciò di cui parliamo. Queste
parole indicano o significano una cosa reale. Abbiamo una nozione perché sappiamo cosa diciamo
quando usiamo il termine, ma questo non significa che noi ne abbiamo un’idea. §142 Non possono
essere conosciute nella stessa maniera degli oggetti insensibili e passive, delle idee. Non ne
abbiamo propriamente idee. Non ho un’idea in senso proprio di questi oggetti. Idee e nozioni vanno
radicalmente distinte: come conoscenza degli spiriti e conoscenza delle cose sensibili. Abbiamo
idee solo degli oggetti sensibili, mentre di tutto il resto abbiamo nozioni. Abbiamo nozione della
somiglianza, ma non un’idea, come dell’uguaglianza, volontà, spirito. Abbiamo idee solo di oggetti
sensibili. Questo anche vuol dire che se fossimo rigorosi e correggessimo come si conviene il nostro
linguaggio dovremmo parlare diversamente: abbiamo nozione della sostanza pensante e non idee
propriamente di questa caratteristica della nostra mente e non solo nostra.

Della cosa che pensa B. dice almeno positivamente una cosa: che è una sostanza. Questo è il vero
problema. Della mente non si limita a dire che è attiva, indivisa, ma una sostanza. Qui non ci sono
possibilità di dire che è una nozione solamente, ma è una vera e propria conoscenza. La mente è una
sostanza in senso proprio. Idea vuota, uncino o supporto di qualità, ma la mente non può essere
ridotta a una teoria dell’ammasso dei suoi pensieri, deve essere qualcosa in più. Quindi la mente è
sostanza. Attribuita alla mente è una caratterizzazione che sembra non essere simile o riconducibile
a quelle evocate cioè di indivisione, attività ecc. Sembra qualcosa di più. Sostanza non vorrebbe
dire nient’altro se non che le idee esistano nella e grazie alla mente. Anche così abbiamo poco, una
nozione vuota, relativa. Sostanza vuol dire causa? La mente è la causa delle sue idee, nel senso che
è responsabile di produrle, modificarle o eliminarle. Sì e no, perché non di tutte le idee è
propriamente causa la mente, come non degli oggetti sensibili avventizi. Caratterizzazione della
mente come sostanza. Non conoscenza nozionale della mente, al pari della indivisibilità. Sostanza
sembra dire qualcosa di più, anche se non sappiamo cosa. Che la mente non è un ammasso e che i
contenuti mentali in qualche modo dipendono per esistere da qualcosa che non è un contenuto. Non
è un ammasso di pensieri, una sequenza di pensiero 1, pensiero 2, ecc. perché allora non sarebbe
semplice e indivisa. E la mente permette ai pensieri di esistere, all’idea e anche alle operazioni della
mente. Essere in e essere grazie a un soggetto pensante. Il che vuol dire che Berkeley non usa
sostanza né per dire la permanenza nel tempo, né l’identità personale o sostanziale. La usa solo per
dire che oltre alle idee c’è qualcosa di più, di irriducibile alle idee, cui queste devono la loro
esistenza. Riusciamo a fare di sostanza un’idea in senso proprio? Su questo punto Berkeley ha delle
serie, grosse difficoltà. La soluzione meno problematica della sua è Hume, ma B. vuole evitarla.
Questa è una assunzione impegnativa. Oppure si può dire che questo è un paralogismo e c’è un Io
penso che è una funzione logica trascendentale. Berkeley si ostina a parlare della mente come di
una sostanza.

30/3/22
§89 Formula di Berkeley stesso: bisogna porre un’affermazione distinta tra cosa, realtà ed esistenza.
In generale abbiamo delle cose o delle entità. Spiriti o idee: sostanze attive indivisibili o inerti e
transitorie. Transitorietà: esseri dipendenti che non sussistono da se stesse, sostenute dalla mente o
sostanze spirituali, ossia in queste esistono. Senso interno o riflessione: conosciamo la nostra
propria esistenza. Mediante la ragione conosciamo gli altri spiriti. Delle relazioni tra idee possiamo
solo avere una nozione. Le nozioni fanno parte di quegli oggetti della conoscenza che sono
assimilabili al mentale. Con questo schema B. sostiene di aver esaurito la descrizione degli oggetti
che ammobiliano, occupano il nostro mondo. Non c’è nient’altro che sostanze pensanti, oggetti
pensati e relazioni che si istituiscono tra oggetti pensati. Ontologia che si riduce al minimo, non
scalare, ma oppositiva. Gli oggetti del pensiero si definiscono per opposizione: attività-inerzia,
indivisibilità-divisibilità, ecc.

Distinzione tra intelligenza, understanding (o intelletto) e volontà. Tra atti della mente puramente
percettivi e atti della mente che sono attivi in senso forte: composizione, scomposizione,
costruzione di analogie, ecc. Questa differenza in Berkeley è essenziale perché gli permette di
ritrovare la nozione stessa di realtà, tra semplice illusione di realtà e la realtà stessa, di trovare e
superare a suo modo il dubbio cartesiano sull’impossibilità di distinguere tra il sonno e la veglia.
Per la volontà trovo in me stesso la facoltà di suscitare idee, variare, spostare, eliminare. A rendere
possibile questa serie di fenomeni è la mente in quanto volontà. Dipendono dalla mia mente non
solo per esistere le idee, ma anche per le loro occorrenze e nei modi delle loro occorrenze. Sono
delle idee di cui dispongo, su cui ho una sorta di potere assoluto. Si distingue dalla volontà della
mente che è la percezione, dove un potere simile non c’è. Le idee impresse nei sensi non sono
creature della mia volontà, perciò c’è qualche altra volontà o spirito che le produce. Berkeley
procede da una distinzione fenomenologica, tra due regimi – uno attivo delle idee che dipendono
dalla mia volontà, creature della mia mente e l’altro che corrisponde alle idee sensibili che non
dipendono dalla mia volontà, non potendo decidere cosa vedere e percepire in generale. Questo
secondo tipo di fenomeni appartengono alla percezione o intelligenza cioè alla dimensione passiva
della mente. Il termine va usato con precauzione perché la mente è per sua natura attiva. La mente è
per essenza qualcosa di attivo, laddove le idee sono inerti, ma ci sono dei fenomeni mentali, che
hanno una figura della passività più grande. Questa figura della passività invita a dire che queste
idee non sono figure della mia volontà, perciò sono creature di una volontà o spirito altro che le
produce.

§29-30 Se ad essere responsabile di queste percezioni non sono io, ci deve essere qualcuno di
responsabile, dal punto di vista della percezione e della volontà. Ci deve essere qualcuno che mi
manda quelle idee che io percepisco passivamente.
Queste idee sensibili che percepisco, oggetto di una attività mentale passiva, sono più forti, vivaci e
distinte da quelle dell’immaginazione. Sono più forti, vivaci e distinte da quelle
dell’immaginazione. Mi si presentano come dotate di una serie di caratteristiche specifiche. Sono
più forti e più vivaci, si imprimono con più efficacia nella mia mente che quelle che io posso
suscitare volontariamente. Si presentano in una successione regolare, una serie. Questa connessione
testimonia della saggezza e benevolenza dell’autore di queste idee. Le regolarità sono chiamate
Leggi di natura. Le regole o i metodi con cui la mente da cui dipendiamo – una nuova figura –
suscita in noi le nostre idee dei sensi si chiamano leggi di natura. Questa mente causa da un punto di
vista dell’agire volontario delle idee da noi percepite passivamente è – non ce lo dice qui – Dio, che
ci manda le idee sensibili più forti, evidenti e manifeste e che inoltre sono dotate di una particolare
regolarità nella loro produzione. Il che manifesta che quella causa è supremamente causa e
benevola. Sono delle leggi che ci permettono di sopravvivere. Se questa esperienza non fosse
regolare da un punto di vista della loro connessione non potremmo sapere mai se da un certo
fenomeno x succederà un certo fenomeno y. Ci sarebbe una situazione di totale caos e incertezza
perché le leggi di natura non sarebbero tale, e in una situazione totalmente sregolata non sarebbe
possibile sopravvivere.
Dalla distinzione intelletto e volontà due ordini di conoscenze e due ordini di fenomeni: fenomeni
che prevedono solo la mia mente come operatore e fenomeni che implicano due menti – quella
divina e la mia – secondo le leggi di natura che regolano questo secondo ordine di fenomeni.
Da cui la distinzione tra cose reali – idee impresse dall’Autore della natura in me – e cose
immaginarie.
Le idee del senso sono più forti, vivaci, distinte, stabili, regolari, ordinate e coerenti di quelle
dell’immaginazione. Hanno più realtà. Distinzione fenomenologica di grado.
Le cose reali sono l’ordine di idee che dipendono dalla volontà divina piuttosto che dalla mia
volontà. Si presentano come più di quelle caratteristiche dette.
Berkeley ha recuperato una distinzione del senso comune e anche filosofica tra sonno e veglia e
inoltre è riuscito a introdurre nel suo macchinario teorico la presenza di Dio, come già
caratterizzata, Autore delle percezioni o cose sensibili che si organizzano secondo le leggi di natura
e perciò autore allo stesso tempo saggio e benevolo. Al posto di inviarci quelle idee in modo del
tutto caotico, casuale e variato continuamente ce le manda secondo pattern regolari che ci
permettono di orientarci nel mondo delle cose, cioè delle idee senza pensare che da un momento
all’altro tutto potrà cambiare. Si chiude questa prima sezione con una serie di considerazioni
piuttosto impreviste, ma che permettono a Berkeley di chiudere il cerchio sul senso e sulla portata
dell’immaterialismo. Questo ci porta ad affermare che non esistono che spiriti percipienti e cose
percepite, ma non ci priva della possibilità di distinguere la realtà dalla pura immaginazione,
rappresentazione, dalla allucinazione. L’immaterialismo non suscita alcun dubbio della differenza
tra esperienze reali e oniriche. Al contrario ci permette di distinguere, perché le esperienze reali
hanno certe caratteristiche che le individuano, mettendo capo alla mente divina particolarmente
saggia e benevola.

Osservazione sulla dipendenza. A dipendere sono soltanto le cose dalle menti. L’esistere in maniera
dipendente è la caratteristica delle idee, dipendenti dalla mente. C’è anche un’altra forma di
dipendenza: della nostra mente da quella di Dio (§30). Finora dipendenza era sinonimo
dell’esistenza delle idee nella mente di un soggetto che le pensa, quelle cose che esistono perché
qualcos’altro da loro le pensa. Ora la nostra mente finita nella sua attività dipende dalla mente
superiore di Dio.

Questo vuol dire che ci sono idee che dipendono in due maniere: e idee che dipendono in una
maniera sola, alcune dipendono e da noi – per esistere dipendono da chi le percepisce in quanto
pensate – e anche da Dio che ce le ha mandate, e inoltre ci sono idee che dipendono solo da noi.

La forza delle percezioni dipende dalla forza di chi le causa. La forza, evidenza e chiarezza dipende
dalla forza di chi le causa. A percezioni dotate di forza limitata corrisponde forza di chiarezza ed
evidenza limitata. A percezioni dotate di forza, chiarezza ed evidenza assolute come quelle della
percezione sensibili corrisponde una forza maggiore, come è quella di Dio.

§33 Realtà: le percezioni che ci manda Dio. Le conoscenze sensibili che ci manda Dio. Cosa
intendiamo noi con realtà? Il mondo esterno, ciò che è sensibile, oggettivo, cioè uguale tutti, cioè
almeno due: a noi e a Dio. Alla fine della fiera quando Berkeley dice che la realtà coincide con le
percezioni sensibili, quelle idee che hanno come causa Dio ci vuole dire che la realtà coincide con
quelle percezioni che sono condivise da due menti: la mente di Dio che me le manda e la mia mente
che le riceve. La realtà è qualcosa che sta lì e che possiamo guardare in due almeno. È una
condivisione di idee che fa la realtà, un po’ come nel senso comune reale è ciò che può essere
oggetto di una percezione condivisa.

§34-40 Prima obiezione. Tolto il mondo resta un progetto chimerico di idee. Dai principi premessi
non siamo privati di alcuna cosa della natura. Ciò che percepiamo rimane tanto sicuro quanto prima.
La distinzione tra realtà e chimere conserva la sua piena forza. C’è una distinzione tra due tipi di
contenuti mentali: realtà e fantasia. Tutto rimane come prima, non cambia niente. Le idee della
fantasia sono più deboli di quelle dei sensi, segno di una mente più saggia e potente. Si eliminano le
sostanze corporee, ma queste non c’erano. Sembra che stiamo mangiando e bevendo idee, ma se
chiamiamo idee le cose sensibili tutto diventa chiaro. Sull’uso del termine idea: il termine cose in
contrapposizione a idea è usato per significare qualcosa all’infuori della mente, cosa ha un
significato più comprensivo di idea e include spirito o cose pensanti oltre che le idee. Che esista
davvero ciò che percepisco non lo dubito più di quanto dubiti di me stesso. Non vogliamo essere
scettici, ma combattere lo scetticismo. Non c’è mai il dubbio che le cose esistono: tolti gli oggetti
sensibili oltre alle percezioni ho tutto quello che mi serve per distinguere il sonno dalla veglia e
spiegare l’esperienza.
La tesi di Berkeley non deve scioccare, ma avvalorare la percezione comune.

§42-44 Percezione dell’esteriorità. In questa Berkeley fa il riassunto di quello che diceva nel Saggio
sulla visione. In cui Berkeley dimostrava che anche la visione era una sorta di fenomeno che non si
produce a partire da un rapporto con gli oggetti esterni, ma di organizzazione delle percezioni
stesse. Vedere è costruzione di pattern di percezione, come tutta l’esperienza. La percezione delle
Leggi di natura data come nozione assiomatica, non spiegata. Parafrasa questa nozione
semplicemente affermando che si tratta di fenomeni che presentano una qualche forma di regolarità,
di coerenza, ecc. Legge di natura diventa una sorta di ritornello. Berkeley lo assume come evidenza,
una regola di produzione dei fenomeni che si presenta come stabile e rigorosa nella sua
affermazione.

§45-48 La postulazione di una materia esterna come supporto delle qualità sensibile è del tutto
inutile. Berkeley ricorda alcune dottrine scolastiche, occasionalista e della creazione continua. Dio
deve assicurare in ogni istante che Dio faccia in modo che da un momento all’altro il mondo
scompaia nel baratro assoluto. Pura complicazione quella della materia. Senza questa ipotesi non
dobbiamo formulare ipotesi rocambolesche come quella della creazione continua e siamo in una
posizione migliore.

§48 Dice in maniera chiara che ovunque si dica che i corpi non hanno esistenza oltre alla mente non
sarebbe compreso se intendesse questa o quella mente particolare invece che qualsiasi mente. Che i
corpi esistono solo e soltanto nella mente significa nella mia, altrui o di Dio. C’è sempre bisogno di
una mente che le pensi, qualsiasi essa sia. Mia, altro spirito finito o Dio, spirito infinito, che
percepisce tutto. Tutto quello che io non percepisco e altri in parte percepiscono lui lo percepisce.
Se nessuna mente finita percepisce qualcosa almeno Dio lo percepisce, se è qualcosa.

11/4/22
In questo sistema delle idee Dio ci manda le percezioni degli oggetti sensibili, che si impongono a
noi come idee avventizie, in maniera non volontaria, con un grado molto alto di regolarità, armonia,
coerenza. Ci sono due letture possibili che corrispondono a due opere di Berkeley: il Trattato e i Tre
dialoghi – una sorta di commento che fa al Trattato.
La prima lettura è minimalista. Dio si limita a garantire la coerenza delle nostre percezioni, manda a
tutti percezioni che siano coerenti fra loro, non entrino in contraddizione. Garanzia che il traffico
delle idee degli uomini sia ordinato e in accordo. Lettura suggerita, anche se non esplicitamente
proposta, dal Trattato.
Nella seconda lettura Dio non si limita a garantire la coerenza delle percezioni tra le diverse menti
finite semplicemente, ma in qualche modo possiede la conoscenza degli oggetti stessi. A partire da
queste idee distribuisce le percezioni alle varie menti finite. La seconda ipotesi ha dei vantaggi
perché ci fa capire che Dio ha nella sua mente delle idee. Archetipi a partire dai quali manda i
diversi oggetti nelle menti umane.
La seconda ipotesi ci permette di comprendere che le idee sono in Dio anche in senso forte,
lasciandoci però la difficoltà di comprendere come idee sensibili siano in Dio, che non ha un corpo
come noi.
Le obiezioni riprendono delle questioni che abbiamo già trattato. La quinta sul concetto di sostanza
applicato alle menti, in cui il rapporto non è quello di sostanza e accidente, ma di soggetto e idee
che in esso sono percepite. Dal §50 in poi abbiamo una serie di obiezioni riguardo la possibilità di
spiegare come la scienza meccanicistica – che Berkeley conosce – possa ancora esistere nel
momento in cui ci poniamo sotto un regime immaterialista. La risposta di Berkeley è affermativa: la
scienza può esistere come illustrazione e analisi delle leggi che regolano la produzione dei
fenomeni. Questa spiegazione si limita a individuare in maniera sempre più articolata e precisa le
leggi che regolano i fenomeni e la loro produzione. L’obiezione dice: senza materia che esista fuori
di noi in maniera autonoma fuori di noi indipendentemente fuori dalla nostra percezione non c’è
possibilità di scienza vera. Per Berkeley al contrario fare scienza significa solo e soltanto analizzare
e mettere in luce la regolarità e la costanza delle leggi di natura. Cioè mettere in luce quelle regole e
quei metodi che stanno alla base della produzione divina delle percezioni sensibili. Visto che queste
sono regolari, armoniche e coerenti dimostrano che sono il risultato dell’applicazione di un metodo,
di leggi che Dio segue. La scienza non è altro che un tentativo di descrivere in maniera sempre più
precisa queste leggi. Non c’è bisogno di porre delle qualità occulte, delle cause meccaniche che
stanno alla base dei fenomeni, ma solo occorre rendere conto delle apparenze, indicare la costanza
delle leggi di natura che regolano la produzione, da parte di Dio, dei fenomeni che percepiamo.
§101-117 consacrati alla nuova concezione della filosofia naturale che si deduce da questa
posizione metafisica di Berkeley. La fisica è scienza dei rapporti regolari tra le idee sensibili, cioè le
leggi che ne governano la produzione. Questa attitudine permette di evitare ogni forma di
scetticismo. Nel senso che non c’è nessuna natura vera, reale che sia nascosta. La natura non è altro
che l’insieme dei fenomeni, in particolare quelli che si producono in maniera regolare e costante
sotto la produzione di Dio. Non c’è niente di nascosto, l’essenza delle cose naturali, qualità interne
o occulte, qualità primarie da scoprire dietro le qualità secondarie. L’unica cosa che va indagata è la
legge di produzione dei fenomeni.

Non cambia niente se al posto della meccanica introducete la dinamica. Leibniz aveva riformulato
la meccanica con la dinamica: non solo materia, figura e movimento, ma anche forza.
Scoperta newtoniana della gravità, che regola i rapporti tra le masse. Non mi interessa, dice B., se
non nei fenomeni.

Indagare la natura e fare una scienza fisica non significa avere una conoscenza più esatta della causa
dei fenomeni, ma solo una più ampia comprensione della regolarità di essi. Non capiamo di più dei
fenomeni stessi. Sono prodotti da Dio, che ce li manda: questo lo sappiamo prima e dopo l’indagine
scientifica. Quello che ci fa capire di più è quanto questa produzione divina sia regolare, costante,
armoniosa e uniforme.

Ci spiega anche lo scopo, la scienza nel suo progredire: la scienza è empirica, deve mostrare sempre
di più come tutti i fenomeni rispondano a leggi, regolari e costanti.

§107 Berkeley riassume le tesi sulla fisica o filosofia naturale. I filosofi si distraggono invano
quando cercano una causa naturale distinta dalla mente o dagli spiriti. Lo spirito divino è l’unica
causa efficiente, non c’è bisogno di nient’altro.
Ci interesserebbe di più delle cause finali, messe al bando dalla scienza moderna, che si vanta si
spiegare tutto con la causa efficiente. Contro la teleologia aristotelica e il finalismo teologico.
Invece Berkeley dice che l’unica causa efficiente è Dio e anzi a dire il vero sarebbe meglio se gli
scienziati parlassero di cause finali, dell’armonia con cui il mondo è fatto. Leibniz è tra i grandi
fautori di una reintroduzione delle cause finali come elemento di spiegazione.
La scienza non è inutile, ci fa capire che il mondo è estremamente ben regolato e ci mostra come a
produrre i fenomeni non è il caso cieco, ma uno spirito governatore ben saggio che è Dio.
Da ciò che percepiamo non possiamo proprio dimostrare nuovi fenomeni, ma dedurre da fenomeni
altri, cioè individuare leggi di natura. I fenomeni della natura non dipendono dall’essenza delle cose
stesse, ma solo e soltanto dalla volontà di Dio, che come tutte e le volontà è contingente e può in
linea di principio cambiare, mentre la scienza è solo di ciò che è universale e necessario. Posso
dedurre leggi o connessioni tra fenomeni solo, ma c’è sempre la possibilità che Dio cambi le carte
in tavola.

La fisica che Berkeley propone non ha cause efficienti, o meglio una sola divina, ammette cause
finali – la provvidenza e saggezza divina che guida le leggi naturali -, è condizionata dalla volontà
divina di non cambiare le leggi dei fenomeni, una fisica ha immediatamente dei corollari
apologetici, perché più illustriamo con chiarezza le leggi dei fenomeni, più mostriamo che sono
armoniche e coerenti, più dimostriamo che Dio è saggio e intelligente. La fisica è soggetta a uno
sviluppo indefinito infine.

Le obiezioni sono in realtà delle occasioni per Berkeley di precisare dei punti e aggiungere
elementi.

Obiezione settima sulla spiritualità della causazione: solo gli spiriti sono causa effettivamente delle
idee, allora dovremmo dire che non l’acqua raffredda, ma lo spirito raffredda, non il fuoco brucia,
ma lo spirito brucia. Berkeley dice: rispondo di sì, in certe cose dobbiamo pensare come i dotti e
parlare come il volgo. È la maniera per significare la necessità di una sorta di doppio discorso, uno
del linguaggio ordinario che va mantenuto per non scioccare le abitudini di linguaggio, e poi però la
possibilità di pensare altrimenti i fenomeni stessi. Il significato dei termini è fissato dalla
consuetudine, ma quando si parla rigorosamente sono le idee che percepiamo e non le cose.
Immaterialismo, ma senza volere a tutti i costi che stravolga il linguaggio comune.

In questo senso §54-57 tornano sulla questione centrale, ma a partire da questo approccio sulla
coscienza comune, a proposito della credenza dell’esistenza della materia fuori di noi, non spirituale
e non percepita, e sulla genesi di questa credenza. L’obiezione che si fa è: come è possibile che tutti
ci credano e come sono arrivati a questa credenza assurda? Berkeley qui chiude i conti con la
possibilità della esistenza del mondo esterno. In maniera molto sbrigativa. Cosa risponde a questa
obiezione? Riguardo alla credenza stessa fa tre considerazioni: c’è qualcuno che non ci crede, che
tutti ci credano mica vuol dire che sia vero sulla sola base del consenso universale, il quale invece
può essere luogo di un errore condiviso, viste anche le tendenze degli uomini a lasciarsi
condizionare dalla lingua, e infine quelli che ci credono in realtà credono soltanto di crederci,
perché credere all’esistenza del mondo esterno vuol dire credere a una tesi contraddittoria nel suo
contenuto, perché non è possibile concepire qualcosa che non è concepito, perciò agiscono come se
ci credessero senza interrogare la loro credenza. È l’attitudine adottata da molti cristiani che
credono di credere, presumono di credere – perché gliel’hanno detto fin da piccoli, perché pensano
che sia una cosa giusta da fare, perché li fa star bene fisicamente o psicologicamente -, ma se
interrogati su cosa credono fanno fatica a rispondere. È una credenza non universalmente condivisa,
che se anche fosse tale non sarebbe perciò vera, ed è una credenza ipocrita, un’apparenza di
credenza. Non c’è nessun oggetto suscettibile di sostenere questa credenza, nessun contenuto che
possiamo attribuire davvero a questa credenza.

§56 Visto che è una cosa così improbabile, anzi impossibile da performare, come finiamo tutti per
crederci? Qual è la genesi di questa credenza? Due pagine che saranno riprese da Hume, con cui
questa genesi sarà dettagliata in maniera più precisa. Molti uomini sapendo di percepire idee senza
conoscere i loro autori furono portati a credere che esistessero oggetti a loro indipendenti. Il punto
di partenza è che le idee siano avventizie, non sono suscitate dal nostro interno e non dipendono
dalle nostre operazioni. Come per Cartesio, le idee avventizie sono involontarie a doppio titolo: per
il loro contenuto e per la loro occorrenza. La reazione spontanea del senso comune a questo è che
queste idee esistano fuori di noi. Entrano in scena i filosofi e dicono che le idee non esistono fuori
dalla mente, le idee sono gli oggetti immediati della nostra coscienza, ma per spiegare quel carattere
avventizio delle idee di sensazione pongono certi oggetti che esistono realmente al di fuori della
mente di cui le nostre idee sono le immagini. Cause somiglianti alle nostre percezioni. Tutto parte
dalla coscienza di non essere autori delle nostre percezioni. I filosofi sono fedeli al carattere delle
idee avventizie, a loro modo.

§57 Ma per il principio di somiglianza le idee assomigliano solo ad altre idee. Sono inerti. I filosofi
non comprendono la differenza tra il nostro spirito e quello di Dio. Ultima pecca dei filosofi che
non sono Berkeley: i filosofi non capiscono che a porre le percezioni sensibili è una intelligenza
suprema per la regolarità con cui si presentano, cioè agisce, e quando il corso della natura è
interrotto da un miracolo sono disponibili a evocare la presenza di ente sovrannaturale, ma non per
il presentarsi regolare delle idee. Perché la libertà per noi è intesa antropomorficamente come
indifferenza o non costrizione, cioè variazione, mutevolezza e imprevedibilità, allora i fenomeni
naturali non possono avere come causa Dio, mentre ne scorgiamo l’azione solo nei miracoli.

§58-59 Se dovessimo fissarci solo sui fenomeni, come capiamo che Copernico ha ragione e prima ci
si era sbagliati, perché è la Terra che gira attorno al Sole? Le apparenze ci dicono il contrario. Per
Berkeley la scienza ci permette di definire le leggi di produzione dei fenomeni e a partire da queste
immaginare delle condizioni di esperienza che non sono ancora fattualmente le nostre, ma che
potrebbero esserlo: se fossi un soggetto percipiente piazzato non sulla Terra, ma nella sfera celeste,
allora percepiresti la terra che si muove e non il Sole. Lo scopo della scienza è produrre anche
esperienza percettive possibili che le confermino. È quello che ha fatto Keplero, mostrando che i
conti non tornavano. Per cui devo postulare una situazione percettiva diversa. Non dobbiamo
buttare via la scienza, ma capire che la sua funzione è diversa da quella che immaginiamo.

Perché se deve fare un orologio non fa solo il quadrante, ma anche tutto l’ingranaggio interno –
meccanismi invisibili alla base dei meccanismi visibili? Perché di fatto quello che interessa è che ci
siano leggi regolari e uniformi. Quale migliore regolarità di quella che va a tutti i livelli? Nel
momento in cui sappiamo che anche dentro gli organismi si trovano sempre ulteriori conferme delle
leggi di natura. Dio agisce con questa logica sempre e ovunque, anche nei fenomeni non percettibili,
perché se poi venissero percepiti dovrebbero confermare regolarità. Se non ci fosse niente sarebbe
una natura meno splendidamente articolata e meno coerente. L’immagine che usa Berkeley è quella
del libro della natura, l’idea che la natura sia un libro scritto da Dio che parli in qualche modo della
sua saggezza. Scritto con una grammatica semplice, come il nostro linguaggio. Con pochi tipi di
percezioni sensibili, più le nozioni che possiamo avere a partire dall’analisi delle nostre operazioni e
un insieme di leggi Dio può fare tutto ciò che vuole. Più i mezzi sono economici più la grandezza
della produzione finale è visibile.

§108 Il punto è riconoscere un insieme di segni che rimandano gli uni altri e più si legge il libro
della natura più si ammira l’autore che con questi pochi mezzi è riuscito a produrre una narrazione
straordinaria. Questa è una conferma ulteriore della ricerca naturale: con strumenti più potenti
scopriamo fenomeni precedentemente impercettibili ordinati come gli altri.

§77-81 Questione della causa occasionale. Critiche all’idea che le cose esterne esistano, ma siano
solo occasioni, non causa delle nostre percezioni, così Dio avrebbe creato qualcosa di inutile. C’è
una immagine che Berkeley utilizza parlando di Dio come di un musicista che contempla un suo
spartito ed esegue la melodia che è costituita dal nostro insieme di percezioni. Quando ascoltiamo la
musica non contempliamo uno spartito, ma ascoltiamo la melodia, mentre chi suona vede lo
spartito. Si immagina che Dio possieda lo spartito delle leggi della natura. Difficoltà di concepire la
produzione divina delle percezioni sensibile: o Dio vigile o Dio che ha degli archetipi e da questi
produce le nostre sensazioni. Qui abbiamo una terza immagine di Dio che contempla l’insieme dei
fenomeni che devono prodursi e da questo dà voce e armonia a tutti i fenomeni. Postula in Dio una
conoscenza non sensibili di oggetti che diventano sensibili nelle nostre percezioni.

Ultime critiche riguardano la religione: nella Bibbia Dio crea la materia. Ma Dio parla al popolo e
usa il linguaggio del popolo.

§85-134 Considerazioni sulla funzione in generale di questa nuova dottrina dell’immaterialismo,


per la scienza, la fisica e la matematica. Da un punto di vista generale la dottrina che sta
proponendo è salutare perché permette una quadruplice liberazione (§85-100): dallo scetticismo –
non c’è niente di esterno da conoscere -, dal rischio di tipo religioso dell’ateismo – la materia posta
dai materialisti viene concepita indipendentemente da Dio -, dall’idolatria – le cose materiali sono
idee, allora gli idoli sono percezioni, perciò meno importanti e inviate da Dio, unica cosa veramente
reale in questo universo -, mi libero da una serie di false astrazioni come il tempo, i valori, bene e
male, ecc.

§135-156 Gli altri spiriti e Dio. Subito prima B. parla della conoscenza che abbiamo di noi stessi:
non abbiamo conoscenza in senso proprio ma nozioni indirette che derivano dalle performance della
nostra mente. Stante questo in §145 si chiede come conosciamo gli altri, le altre menti. Non
possiamo conoscere l’esistenza degli altri spiriti altrimenti che dalla loro attività e idee che questi
suscitano in noi. Non possiamo percepirli direttamente, se non le loro attività, cioè le idee che
producono in noi. Movimenti, cambiamenti e combinazioni di idee o oggetti i quali mi informano
che ci sono certi agenti particolari simili a me che li accompagnano e concorrono alla loro
produzione. Classe di fenomeni che mi informano che dietro a questi fenomeni stanno agenti simili
a me. Per cui la conoscenza non è immediata. Vedo segni o indici che mi informa che ci sia una
mente simile alla mia. Posso indurre con un processo analogico che c’è dietro a questi fenomeni un
principio agente di pensiero non dissimile da quello che riconosco in me stesso. Le idee sono
l’unica via alla conoscenza, talvolta segni di un agente in cui proietto ciò che percepisco in me,
come causa, un soggetto agente. Berkeley ci dice questo, non sappiamo quali segni o indici:
movimenti, cambiamenti e conglomerati di idee.

12/4/22
§148 È chiaro che non vediamo un uomo, ma soltanto una certa serie di idee, che ci indirizza a
pensare che ci sia un distinto principio di pensiero e movimento simile a noi che accompagna questa
serie di idee e che è rappresentato tramite essa. Che ci sia un soggetto attivo simile a noi alla base di
quei fenomeni. In §135 diceva «accompagna e concorre». Le idee sono inerti e non possono
rappresentare in senso proprio qualcosa di agente, di attivo. Qui forse un attore che rappresenta un
personaggio, qui sta per un personaggio, una maschera. Le idee quindi sono la parte visibile di un
principio agente simile a noi. In virtù del fatto che constatiamo in quelle percezioni qualcosa di
simile a noi, o che noi possiamo postulare essere simile a noi. In virtù del fatto che constatiamo in
quelle percezioni qualcosa di simile alle percezioni di cui noi stessi siamo causa nella misura in cui
agiamo come mente.

Dalché la differenza tra queste percezioni che ci suggeriscono la presenza di fronte a noi di una
mente finita e la percezione della mente suprema che è Dio: nello stesso modo vediamo Dio –
Berkeley dice. Ovunque vediamo in ogni tempo simboli manifesti del potere della divinità. Più che
qualitativa la differenza è quantitativa. Ogni fenomeno percettivo è simbolo manifesto della
divinità. Sembrerebbe differenza di grado piuttosto che di natura.
Qui entra in gioco una conoscenza che non passa solo dalla percezione, ma anche dalla messa in
opera del pensiero analogico. Non ce lo dice a chiare lettere, ma è ciò che sta dietro a questa
formula. Proietto una mente simile a me, per analogia. Dico che non si tratta di percezioni di cose
inanimate, ma di menti. Oltre alla dimensione percettiva e a quella strana forma di conoscenza
eidetica che è la conoscenza per nozione. C’è anche almeno suggerita la conoscenza di tipo
analogico, che passa dalla necessità di proiettare in fenomeni percettivi una dimensione di attività
che sperimentiamo in noi e che possiamo mettere dietro ad alcuni fenomeni di percezione singolari
con delle qualità specifiche – che Berkeley non specifica ma – che noi siamo in grado di
riconoscere.

§146-156 Capitoli finali sulla conoscenza di Dio, mente suprema. Lo scopo del Trattato è
gnoseologico-epistemologico, ma scritto da un uomo di Chiesa e con finalità apologetica. Capitoli
lirici – poco apprezzati dagli interpreti anglosassoni. Da un punto di vista metafisico tutta la
macchina dell’immaterialismo funziona perché c’è una super-mente, altrimenti tutto crolla. Può
sembrare per noi anacronistico, poco sensato. Resta che per Berkeley è essenziale per la sua
costruzione metafisica. Berkeley fa una serie di considerazioni su Dio, sulla conoscenza che noi ne
abbiamo. Dio è autore di tutti i fenomeni naturali caratterizzati da ordine, regolarità e uniformità. Di
interessante in questa parte conclusiva c’è che finora aveva insistito sul fatto che i fenomeni
prodotti secondo metodi regolari chiamati leggi di natura, qui aggiunge che questi fenomeni sono
anche finalizzati, cioè che abbiano come funzione la preservazione dell’uomo, e insiste sugli istinti,
appetiti, idiosincrasie animali, l’associazione tra piacevole e utile e spiacevole e dannoso. Sistema
armonioso non solo in sé, ma anche per noi, esseri umani. Fenomeni finalizzati al bene dell’uomo.

Dio è percepito in maniera del tutto identica alle altre menti. A partire dalle idee che produce in noi,
con l’unica differenza che in questo caso la percezione è costante. Non c’è angolo o momento della
nostra esistenza in cui non si percepisca Dio.

Dio è anche colui che assicura la possibilità di un rapporto tra le menti, nel senso che Dio assicura
che le menti possano comunicare fra loro in quanto, certo, un altro individuo produce un effetto
tramite un atto della sua volontà, ma poi che questo produca un’idea in me dipende da Dio. Dio
entra in gioco anche nel rapporto tra noi esseri umani.

Interpretazione di alcuni passi evangelici: Dio è la luce in cui vediamo ogni cosa, in Lui siamo
viviamo ed esistiamo.

Siamo completamente dipendenti da Dio. Introduce un sentimento di devozione, religiosità.

Più di tutto si percepisce Dio, condizione di possibilità di ogni percezione. Ci è più intimamente
presente delle cose stesse, senza averne una percezione diretta. Sfondo su cui emergono tutte le
percezioni che abbiamo.

Dio e natura (vs Spinoza). Per natura non va inteso qualcosa di indipendente e a se stante, né Dio
stesso. Non un materialismo ateo, né un creazionismo autonomo. La natura dipende costantemente
da Dio, non essendo Dio. Dio è il musicista e la musica è la natura.

Teodicea. Riguardo la presenza nella natura di mostri, errori, dimensioni di controfinalità. Sembra
che la natura sia in contraddizione. Risposta classica del mosaico: tu vedi le tessere e non vedi il
disegno – anche adottata da Cartesio nella IV meditazione, a partire da Agostino. È un errore di
prospettiva, non della natura.
Secondo argomento delle vie generali. Lunga tradizione rinnovata recentemente dalle tesi di
Malebranche sulla volontà generale e sulla generalità delle leggi di natura. Dio ragiona a grandi
linee, per progetti generali, per esigenze ampie. Sceglie le vie più semplici, per cui deve sacrificare.
Gli errori di dettaglio permettono di mantenere semplicità e uniformità delle leggi.
Terza considerazione. Forse la nostra incapacità di capire i fenomeni che si producono è perché
abbiamo una visione umana, troppo umana. Forse l’effetto di un pregiudizio contratto dalla nostra
familiarità con mortali impotenti e parsimoniosi (§153). La struttura estremamente raffinata del
mondo, la splendida profusione di cose naturali non deve essere interpretata come debolezza e
prodigalità, ma argomento della ricchezza del potere divino. Dio dà a piene mani, senza timori, più
c’è meglio è, la ricchezza è la sua regola. Tanta ricchezza può produrre qua e là effetti collaterali.
Noi uomini siamo dominati da una legge di calcolo, da una legge di costi-benefici, Dio no. Il caso
di Berkeley che ha qui in mente è il caso dei malvagi che posterano.

Fine dell’opera. Questa è la prima parte di un sistema che prevedeva anche una trattazione di
morale. Questo fa pensare che Berkeley stesse preparando il terreno per altre trattazioni.

Per Berkeley la prova della dimostrazione del mondo esterno è inutile, perché non c’è niente da
provare. Abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno per costruire una esperienza del mondo. La
nostra mente, i suoi contenuti mentali, la postulazione di una mente suprema autrice in parte di
alcuni dei nostri contenuti mentali, noi disponiamo di alcuni strumenti sufficienti per proporre una
analisi esaustiva della nostra esperienza. Anzi andare oltre questa ricostruzione, basandosi sulla
posizione fuori di noi di materia non senziente, non pensante e non percepita significa avventurarsi
in un campo delle assurdità e astrazioni. La prova del mondo esterno è inutile e anzi abbiamo degli
ottimi argomenti per sostenere che anche se volessimo tentarla non ci riusciremmo. Per la buona
ragione che quello che dobbiamo pensare – un mondo esterno indipendente dal nostro pensarlo - è
strettamente impensabile. Nella ricostruzione della credenza che anche Cartesio ammetteva come
punto di partenza della sua analisi della esistenza del mondo esterno dicendo che si tratta di una
falsa credenza, ipocrita, apparenza di credenza. Crediamo di credere, in realtà se ci pensiamo un
attimo non sappiamo cosa stiamo credendo. Anche questa credenza è una falsa credenza, apparenza
di credenza. C’è solo l’apparenza di realismo spontaneo.

CONDILLAC

Atteggiamento diverso, non si pone sul piano della metafisica nel senso forte come l’abbiamo intesa
come dottrina dell’essere in generale che decide cosa c’è nel mondo e partire da quello poi precisa
come la conoscenza si produce. Anche Berkeley comincia con una presa di posizione di tipo
diverso, perché il suo tipo di analisi è un’analisi di tipo genetico, interno, empirista nel senso della
genesi della credenza. È qualcosa che in parte abbiamo già visto in Berkeley. Condillac si situa su
questa linea, cercando di raccontarci come noi di fatto si arrivi a costruire un mondo fatto di oggetti
che noi stimiamo non essere percezioni inviateci da Dio, ma cosa fuori di noi. Alla fine vogliamo
sempre capire perché crediamo che il mondo esterno esista, dare una prova effettiva di questa
credenza. Ma la fondazione non è più metafisica, ma di tipo genealogico.

Condillac vive nel pieno settecento, ’14-’80. È un autore che eredita quanto successo, soprattutto
Locke, Malebranche e Berkeley. Autori che abbiamo evocato e letto. Ha un ruolo essenziale nella
cultura francese ed europea del secondo settecento. È amico di una cricca di intellettuali parigini.
Ha una formazione classica-scolastica, ma che poi viene rinnovata dal confronto con gli illuministi.
Trova una figura centrale in Rousseau, estimatore e nemico: «il più grande metafisico del nostro
tempo». Scrive relativamente poco, alcune opere centrali e altre meno note e compilative. Scrive il
Saggio sulle origine delle conoscenze umane (1746), il Trattato sulle sensazioni (1754) – riscrittura
del primo -, Trattato degli animali (1755), dagli anni ’60 diventa precettore del principe Ferdinando
erede del Ducato di Parma e scrive una gigantesca somma di filosofia in 13 volumi in cui tratta di
tutto lo scibile umano a beneficio di questo delfino. Una parte centrale di opere che lo situano al
centro del dibattito europeo e che lo rendono un intellettuale noto in tutta Europa e poi un’attività di
compilazione.

Condillac ha una posizione metodologicamente molto originale. Che si fonda su una serie di
assunti. Il primo è l’eredità che Condillac accoglie del modello newtoniano-lockiano. Questi sono il
modello di come si fa scienza e filosofia in epoca moderna. Locke viene tradotto molto presto in
francese e in questa lingua viene letto in tutta Europa, più ancora che in francese. Eredità che ha la
forma di un doppio imperativo. L’esigenza di non fare ipotesi newtoniana, hypoteses non fingo.
Analizzare i fenomeni come si danno. Come in Berkeley: descrizione più esaustiva e dettagliata
delle leggi. Storia come classificazione e discernimento, mostrando analogie differenze,
descrizione. Questo fa la scienza: fenomeni e loro leggi di produzione. Questa eredità newtoniana si
lega a quella lockiana, che applica questa tecnica alla vita della mente. Voltaire: molti hanno voluto
fare il romanzo dell’animo umano, finalmente è venuto un saggio che ha voluto scrivere
modestamente la storia – Locke. Fare una descrizione alla maniera di Newton, ma del mondo
interno, condotta in maniera semplicemente storica, cioè descrittiva. Locke è estremamente
riservato sulla natura stessa della mente. La natura è materia o sostanza materiale? Il Saggio ha
come simbolo la sonda: saggiare nel senso di mettere alla prova. Primo elemento: questa eredità
newtoniana-lockiana. Descrive i fenomeni nella loro logica di produzione senza postulare una
possibilità della conoscenza dell’essenza stessa, si tratti dei fenomeni del mondo esterno, o dei
fenomeni del mondo interno. Una osservazione sperimentale, una storia che si limiti a descrivere in
maniera accurata, rigorosa e il più possibile esaustiva.
Questo fa sì che Condillac abbia anche una postura interessante rispetto a che cos’è la metafisica.
Condillac considera la metafisica una scienza che è allo stesso tempo prima e seconda. È prima
perché si occupa di descrivere i fenomeni da un punto di vista di questa storia, nella maniera più
radicale e dettagliata possibile. Indagine in particolare sui fenomeni mentali che va alla radice,
esibendoli nella loro costituzione. Ma è una scienza anche seconda, per la cronologia. Viene sempre
in seconda battuta. Per lui l’essenziale è ricostruire la genesi. Non storia nel senso di descrizione,
ma proporre una genesi, cioè una ricostruzione storica nel senso di genetica. Da Locke a Condillac
abbiamo un passaggio dal senso antico di storia al senso moderno di storia. Da un lato semplice
descrizione di fenomeni, dall’altro storia nel senso di genesi. Noi abbiamo già sempre imparato a
pensare. La nostra mente si è sempre già costituita. La metafisica non la facciamo nel primo istante
della nostra vita, ma dopo. La filosofia come la nottola di Minerva hegeliana arriva a cose fatte.
Scienza prima perché ci deve dire ciò che c’è di più fondamentale nella struttura e costituzione della
nostra mente, ma ce lo dice ritornando in maniera riflessiva nel progresso compiuto spontaneamente
dallo spirito nella sua costituzione. Condillac ha tre termini: c’è una metafisica spontanea, del
sentimento, come si forma in maniera irriflessiva nelle nostre esperienze. Impariamo a conoscere,
sentire, fare riflessioni. C’è poi una metafisica astratta e ambiziosa. Quella che è la metafisica dei
sistemi, delle grandi proposizioni. Riflette sul sistema. È la metafisica che pretende di parlare di
essenze, strutture immutabili, conoscenza della vera natura delle cose della mente. Questa
metafisica è da Condillac rigettata. È in ogni caso la metafisica di alcuni autori a lui precedenti,
soprattutto Spinoza. E c’è una metafisica ridotta, che ha come unica ambizione di ricostituire,
ripercorrere la genesi delle conoscenze umane. È sempre seconda perché la sua ambizione è
ricostruire ciò che si è già ricostituito. La natura fa tutto per prima, noi veniamo dopo e cerchiamo
di capire come questo processo si sia operato. La metafisica non è altro che una teoria che
ricostruisce lo sviluppo delle facoltà della mente umana dalla loro origine fino alla loro compiuta
formazione. Ne parla come una presa di coscienza del processo già compiuto dalla mente.
L’esempio che fa è la differenza tra l’essere dotato da un punto di vista retorico e conoscere le
regole dell’arte oratoria, o con la musica. La metafisica ritorna indietro e mostra la genesi.
Ricostruire la genesi permette di correggere genesi ulteriore o errori che si prodotti lungo di essa.
Metodo newtoniano-lockiano, ma modificato come metafisica ridotta, teoria della genesi, ritorno
riflessivo sul progresso compiuto spontaneamente dallo spirito. Ripresa di una metafisica di
riflessione, che mostra come le facoltà si siano prodotte. Che non vuol dire accettare il dato di fatto,
ma capire come si producono i fenomeni mentali ed eventualmente correggerli con delle accortezze.
Condillac è autore anche di una logica o di un’arte oratoria.
La necessità di applicare in maniera rigorosa il protocollo empirista. Termine storiografico per
descrivere l’atteggiamento di Condillac e che permette di comprendere meglio questo progetto di
metafisica come metafisica seconda, ridotta, di riflessione che viene dopo la metafisica spontanea,
cioè la costituzione normale delle nostre facoltà. Per protocollo empirista si intende la
combinazione di due imperativi: il primo classico del rifiuto di ogni forma di innatismo, cioè
l’assunzione che ogni conoscenza umana parte e non può partire se non da conoscenze sensibili, da
dati sensibili o esperienze empiriche. Non c’è niente di già dato. Il già là è inconcepibile. Si parte
sempre da un primo dato, sempre sensibile. L’unica possibilità che ammettano i sistemi empiristi e
in particolare poi quello di Locke è la positività passiva e la datità di un dato sensibile che ci
avviene e che incontriamo con la prima esperienza sensibile. Qui abbiamo già uno scarto rispetto a
Locke, che ammetteva due fonti di dati empirici: una esterna e una interna. Condillac: per un
empirista l’origine è una, la sensazione. A tal punto che Condillac vede nelle idee di sensazione di
Locke una forma di innatismo. L’origine per sua definizione non può che essere unica. Il punto 0 è
sempre una sensazione. Critica a Locke per questo primo elemento del protocollo innatista cioè la
necessità di rifiutare ogni forma di innatismo. Il che vuol dire che ogni riflessione dovrà essere
dedotta dalla sensazione secondo Condillac. Bisognerà mostrare come la riflessione, un’attività
autonoma della mente non più passiva, ma attiva, emerga dalla sensazione stessa. Va ancora più in
là: Locke non è andato abbastanza a fondo e ha lasciato delle cose imperfette perché non è andato
abbastanza indietro. Fa come se noi fossimo capaci di sentire immediatamente. All’inizio ci sono le
idee di sensazione, gusto, olfatto, odorato. In realtà anche le sensazioni, le facoltà di sentire, i sensi,
hanno bisogno di essere formati. Non si nasce con la capacità di sentire, si apprende a sentire.
Anche le sensazioni sono geneticamente ricostruibili nella loro apparizione. Il punto di partenza è il
vero punto 0, una percezione nel senso di coscienza modificata da qualcosa. Da qua bisogna
costruire, capire come uno faccia a sentire. Locke parte troppo avanti. Bisogna vedere come uno
impari ad avere idee tattili, conoscenze tattili, o visive. Ogni forma di innatismo deve essere tolta,
anche quella lata che consiste nel dire che noi siamo capaci di vedere appena apriamo gli occhi.
Secondo assioma alla base del protocollo empirista. Difficile da immaginare. C’è una solidarietà
fondamentale tra i materiali della conoscenza e le operazioni della mente che si applica a questi
materiali. Non ci sono facoltà della mente. La mente non nasce con delle facoltà, essa viene
semplicemente modificata da delle percezioni e le modificazioni progressive di queste percezioni
danno luogo a operazioni sempre più complesse. L’unico dato percettivo è la modificazione iniziale
della nostra coscienza. Da questo dato si procede con operazioni sempre più complesse. Queste
operazioni non sono facoltà, ma punti di vista diversi, sempre più articolati sul materiale delle
nostre conoscenze, che viene diversificato e modificato a partire dalla percezione. Condillac rifiuta
l’immagine banale per cui ci stanno da una parte facoltà della percezione e dall’altra dati percepiti,
soggetto e oggetto. Non c’è niente dall’altra parte, ma c’è il soggetto che viene modificato da un
oggetto. La modificazione produce una modificazione mentale, cioè del soggetto stesso in possesso
di quella percezione. Questo fa sì che ci sia una operazione, che dà luogo poi a un altro punto di
vista sullo stesso contenuto mentale. Questa è una operazione diversa da quella precedente, più
complessa, che permette di guardare diversamente e così la mente si sviluppa. Facciamo fatica a
immaginarlo, ma un computer funziona così, senza avere delle facoltà, ma con input e algoritmi.
Le operazioni della nostra mente sono fondamentalmente solidali, cioè indistinguibili, con i
contenuti della conoscenza. C’è solidarietà fondamentale tra operazioni e contenuti.

13/4/22
Altre due considerazioni di tipo generale. Condillac lascia in sospeso ogni tipo di affermazione sulla
fisiologia. Per una ragione strategica, metodologica, perché quello che gli interessa è mostrare la
storia naturale dell’anima, cioè come i fenomeni psichici si producano. Non gli interessa vedere
qual è il supporto organico, fisiologico di questi fenomeni psichici. Che si tratti di materia, figura e
movimento o forze vitali non cambia niente alla sua indagine. Questa si situa all’interno del campo
dei fenomeni psichici, unici fenomeni con cui abbiamo a che fare. Quello che gli interessa è la
logica interna dei fenomeni psichici. Che noi siamo un cervello in una vasca, un corpo
effettivamente fatto come siamo, o un computer attaccato a un’anima, poco importa. Questa
indifferenza metodologica al correlato extramentale dei contenuti mentali diventa ancora più
esplicita quando vediamo che Condillac è alla fin fine un occasionalista. Adotta una dottrina
occasionalistica della causa per cui di fatto le cose materiali esterne sono cause non efficienti, ma
occasionali delle nostre percezioni. La natura effettiva della causa occasionale è poco rilevante. Non
è quell’oggetto specifico a causare la mia percezione del corpo, ma è Dio stesso. Ci propone una
storia in senso genetico dell’anima, delle operazioni dell’anima e della loro logica. Si mantiene
all’interno del campo dei fenomeni psichici. Non sono le cause occasionali a causare propriamente,
ma Dio. Ultimo elemento un generale scetticismo sulla possibilità di conoscere la natura della
mente. Anche in Berkeley sembra una ambizione eccessiva. Noi possiamo descrivere i fenomeni
psichici, la produzione delle operazioni della mente, la logica che governa questa produzione e i
risultati che ne derivano. Cosa sia la mente in quanto tale – Berkeley diceva immateriale, attiva e
indivisibile – non possiamo dire alcunché. Condillac ha questa prudenza. Oggi siamo nella stessa
identica situazione: quale sia il correlato materiale dei fenomeni coscienziale non lo sappiamo
ancora - non abbiamo fatto dei passi avanti mostruosi. Alcuni si riferiscono a punti del cervello che
svolgono operazioni, ma è una conoscenza limitata e parziale. Andiamo ancora a tentoni. La nostra
vita psichica funziona benissimo anche senza che noi sappiamo queste cose.

L’ultimo elemento di introduzione è un elemento di metodologia che vale come sintesi di quanto
detto finora. Per C. il metodo di questa metafisica ridotta conforme al protocollo empirista che si
ispira al modello newtoniano-lockiano è l’analisi. Un doppio programma: risalire fino all’origine
prima delle nostre idee e svilupparne poi la generazione in maniera progressiva. Ripartire
dall’origine e dall’origine proporre uno sviluppo coerente e senza intoppi, salti, incongruenze.
L’analisi è un processo a due termini, doppio movimento, scomporre per ricomporre. Per ritornare a
ciò che c’è di più originario e poi ricomporre per tornare a quello che si dà nei fenomeni attuali.
L’unica positività data se non si vuole presupporre nessun elemento di innatismo è la
scomposizione. Ma tutto deve essere poi dedotto poi dalla sensazione, generato a partire da essa. La
conoscenza non è che sensazione trasformata. Tutto quello che noi facciamo altro non è se non
sensazione trasformata. Tutto il sistema deve avere come unica base la sensazione. Scomporre in
vista del tutto che si vuole spiegare e ricomporre rifacendosi solo e soltanto a quel punto primo che
è quello più originario. L’arte di pensare non è altro che l’arte di analizzare. Non solo
scomposizione, ma anche ricomposizione unicamente a partire da ciò che si è scomposto. Vediamo
che la nostra scomposizione è efficace quando ci rendiamo conto che da quell’originario riusciamo
a dedurre tutto. Altrimenti non abbiamo trovato il veramente originario. D’altro canto nel ricondurre
tutto all’originario non possiamo fare ricorso a qualcos’altro. Unica strada: questa è l’analisi. Si
arriva così quindi a dove siamo adesso, senza presupporre elementi ulteriori o estranei. Cosa
significa fornire una storia ragionata dell’anima, che C. vuole fare? Una spiegazione genetica delle
diversificazioni delle operazioni della nostra mente, modificazioni, che sono correlative alla
modificazione dei materiali delle nostre conoscenze, il tutto partendo da un’unica origine, la
sensazione, e facendo astrazione da ogni riferimento a delle cause fisiche che sarebbero le cause
occasionali di queste modificazioni mentali. La mente stessa nel suo sviluppo non si propone come
configurata in facoltà, ma come capace di esibire stati relativi dell’anima che sono modificazioni di
un dato primitivo manipolato a diversi livelli. Non si tratta di descrivere le facoltà dell’anima, ma
come da un’anima, mente, affetta da una sensazione originaria per via di modificazioni successive
si ottenga la nostra mente. Come si possa produrre cioè un’analisi della vita della mente a partire dal
dato iniziale della sensazione, restituendocela tutta per via di genesi.

Per fare questa operazione di una storia ragionata genetica dell’animo umano dobbiamo adottare
una finzione. Abbiamo già una mente già sempre fatta, la metafisica è sempre seconda, abbiamo già
imparato a imparare, a sentire. Quindi dobbiamo adottare un metodo che ci permetta di esibire la
genesi. Questa è sempre alle spalle. Sarà la grande idea di Derrida, che chiama differance, lo scarto
rispetto all’origine. Ripensa l’ermeneutica e la fenomenologia a partire da questa questione. Scrive
un commento a Condillac e a Rousseau. Come faccio a ritrovare l’origine se sono sempre dopo
l’origine? Come faccio a rendermi estraneo a ciò che per me è banale? Come faccio a sapere cosa
vuol dire imparare a vedere io che so cosa vuol dire vedere? Io che so già sentire? Come faccio a
ritrovare l’origine, stante che l’origine mi è già sfuggita? A costruire una metafisica che sia
riflessiva, in effetti capace di ripercorre in maniera cosciente il processo della metafisica spontanea?
Risposta di Condillac: con una finzione, un modello che ci permetta di osservare, mettere in scena e
osservare la genesi, in un modello esterno che sia quanto il più possibile simile a noi, ma in qualche
modo depurato di molte scorie che ci rendono incapaci di guardare dentro noi stessi per ritrovare la
genesi. Modello esplicativo che esibisca i fenomeni nella loro costituzione. Questo centro è la
statua. Dispositivo fizionale – non fantasia o immaginazione – come lo stato di natura lo è per il
contrattualismo, com’è la storia congetturale dell’umanità del secondo Discorso di Rousseau. Non
vuol dire finto, vuol dire più vero del vero, perché esibisce l’origine che noi non possiamo vedere,
perché è alle spalle, ma che nella statua vediamo esibita. Dalché l’importanza metodologica. Avviso
importante al lettore all’inizio del Trattato. Mi sono dimenticato – dice – di una cosa che avrei
dovuto dire a più riprese nell’opera: questa dimenticanza vale più delle ripetizioni. È molto
importante di mettersi esattamente al posto della statua che osserveremo. Bisogna cominciare a
esistere con la statua, non avere che un solo senso per un solo tipo di sensazioni, non acquisire che
le idee che essa acquisisce, non contrarre che le abitudini che essa contrae, essere solo e soltanto
quello che lei è. Esistere solo e soltanto come statua. Vivere come lei e come lei vive. Cioè seguire
esattamente i precetti dell’analisi. Condillac in questo avvertimento ci dice che bisogna ripercorrere
la genesi dell’esistenza, delle facoltà umane proposta nel testo così come si dà. Bisogna nascere di
nuovo quella statua, non bisogna mai quindi fare l’errore della ricorrenza, proiettare sull’originario
qualcosa di successivo senza averlo dedotto. Bisogna proprio fare come la statua. Non dare niente
di dato prima e non correre mai più avanti di quanto lei non abbia fatto, né presupporre prima, né
presupporre dopo più di quanto abbia acquisito. Per mettere in scena la genesi delle facoltà umane
la statua è il modello perfetto solo a patto che lo si adotti rigorosamente, vivendo esattamente come
lei vive.
All’inizio della prefazione esibisce proprio il paradosso della genesi e del mezzo genetico. È
impossibile ricordarsi dell’ignoranza in cui eravamo inizialmente da cui siamo partiti. L’ignoranza
non lascia tracce. Noi non ci ricordiamo di avere ignorato. Ci ricordiamo solo di avere ignorato di
ciò che abbiamo appreso. E per accorgerci che abbiamo appreso qualcosa bisognava sapere già
qualcos’altro. Mi accorgo che ignoravo qualcosa solo perché mi accorgo che poi l’ho appresa.
Bisogna che già prima avessi qualche contenuto mentale. Bisogna essersi sentito con qualche idea
per osservare che si sente un’idea nuova. La memoria riflessa suppone sempre un punto anteriore
già positivo, mai un punto 0. Bisogna notare di avere appreso qualcosa che rendersi conto che prima
si sapeva. E notare che si ha qualcosa di nuovo. Dell’ignoranza non si ha ricordo. Derrida parte da
qui. Non posso ricordarmi di avere ignorato tutto. La prima conoscenza che ho non è l’origine. Non
posso ricordarmi dell’ignoranza iniziale, del vuoto iniziale di conoscenza. Questa è la difficoltà
iniziale del metodo genetico. Condillac richiama anche il fatto che facendo questo va oltre Locke e
il suo primo Saggio sull’origine delle conoscenze umane. Bisogna ora condurre veramente
un’analisi genetica. Ci indica le caratteristiche della finzione che mette in scena. Com’è fatta questa
statua e cosa gli si farà fare. La statua è fatta in questo modo. È organizzata interiormente come noi.
È animata da uno spirito, una mente come la nostra, salvo che è priva di ogni specie di contenuto.
L’esterno della statua è di marmo, non sente spontaneamente, e noi ci riserviamo di aprire una alla
volta le sue facoltà sensibili. La statua ha il corpo identico al nostro, una mente come la nostra,
salvo che vuota, ma non comincia a sentire tutto insieme, bensì un senso alla volta. Versione ridotta
e controllata riducendo al minimo le variabili.

Alla statua facciamo avere conoscenze aprendo un senso alla volta, l’interruttore di una delle sue
fonti di sensazione alla volta, incominciando dall’odorato, perché è quello tra tutti i sensi che
sembra contribuire meno alle conoscenze della nostra mente. Partiamo dall’odorato perché è il
meno informativo dei sensi, ci dice meno cose sul mondo. Riferimento alla gerarchia dei sensi
aristotelica. È il più semplice, basico. Ci dice meno sulle cose, ci parla meno del mondo.
Cosa vogliamo fare con questa operazione genetica per tramite della finzione della statua? Il
risultato che ci proponiamo è di mostrare, dopo aver considerato uno alla volta i sensi e poi nella
loro coordinazione collaborativa, vogliamo mostrare come la statua sia un animale capace di
vegliare sulla sua autoconservazione. Non un uomo nel senso forte del termine, ma una mente
umana con le capacità e facoltà basiche. Un bambino tra i sei e sette anni, non un adulto né un
filosofo. Un animale capace per esempio di evitare ciò che lo nuoce.

Il principio che governerà l’analisi è interno alle sensazioni stesse. Tutte sono piacevoli o
sgradevoli. La statua è interessata a trovare piacere, a gioirne, a evitarne delle altre che sono
sgradevoli. Questo interesse è sufficiente a produrre tutte le operazioni della nostra mente, cioè
l’intelletto e la volontà. Il principio di doppio piacere è il principio conduttore. Di tipo utilitaristico.
Lo sviluppo della mente non è guidato da esigenze di tipo teorico, ma pratico. Queste governano le
operazioni e mostra come le idee si legano fra loro, poi le abitudini, con operazioni sempre più
complesse e così via.

Il tutto a partire solo e soltanto dalla sensazione: tutte le forme della vita della mente, tutte le forme
di pensiero non sono altro che la sensazione stessa che si trasforma in maniera diversa. Non c’è
nient’altro che sensazione trasformata.

Il testo è diviso in quattro parti. Dei sensi che di per se stessi non giudicano gli oggetti esterni.
Carattere non informativo sul mondo esterno. Del tatto, cioè del solo senso che giudica da se stesso
gli oggetti esterni. Unico senso informativo sul mondo esterno. Come il tatto insegna agli altri sensi
a giudicare gli oggetti esterni. Dei bisogni, dell’industria e delle idee di un uomo isolato che
dispone di tutti i sensi. Questi titoli ci mostrano che la genesi delle conoscenze umane riguardano la
possibilità della conoscenza del mondo esterno. Lo scopo dichiarato dai titoli delle tre sezioni
iniziali è come noi riusciamo a costruire un mondo di oggetti fuori di noi e di come il tatto sia il
protagonista principale di questo. Il Trattato sulle sensazioni è un’opera a sé stante, ma anche di
occasione. Condillac riprende molte analisi già fatte nel Saggio. Nel frattempo, Diderot scrive una
recensione nel ’49 dicendo che Berkeley è molto affine a Condillac, per cui ci piacerebbe sapere
cosa pensa questo dell’opera di quello. Lo scrive malignamente insinuando l’idealismo anche in
Condillac. Per quanto noi si spazi nel mondo, scrive Condillac, noi siamo sempre solo nella nostra
mente, abbiamo a che fare solo con le nostre idee. Il Trattato delle sensazioni è anche, se non
soprattutto, una risposta a questa critica. Sembra che io sia immaterialista, dice, mentre non lo sono
ci sono due sostanze, estese e pensanti – l’ha sempre detto. Di fronte all’accusa deve trovare una
maniera per mostrare come sia possibile il protocollo empirista e in regime di analisi genetica
produrre la conoscenza di un mondo che sia percepito come esterno. Deve proporre una spiegazione
più efficace di quella che Berkeley aveva fornito. Io poi ci credo che il mondo esterno esista.
L’unica maniera per avere conoscenze effettive sulla vita della mente ve la mostro.

Prima modalità di vita della statua: l’odorato. La statua ha soltanto questa porta aperta. Le
presentiamo una rosa, però se viviamo in quella statua lei non percepisce un odore di rosa, lei è
l’odore di rosa. Lei è solo e soltanto quell’odore di rosa. Non sono per lei odori di qualcosa, ma
sono modi di essere, modificazioni del suo essere. Nessuna materia, nessuna cosa esterna può
apparire nella mente della statua che è ridotta al suo olfatto. Non lo chiama nemmeno odore di rosa,
è quell’odore. Punto di partenza minimo della sensazione. Un dato puntuale che è immediatamente
non un dato, ma anche una maniera d’essere. Nel momento in cui l’odore di rosa si impone la statua
diventa capace di attenzione, mette a fuoco un odore rispetto agli altri. Quell’odore si impone
rispetto agli altri. Condillac fa in un solo colpo il passaggio all’attenzione, mentre in altri testi è più
preciso. Ci sono delle sensazioni che abbiamo senza rendercene conto. A un certo punto abbiamo
coscienza dell’oggetto, poi addirittura distinguiamo le sensazioni dal sottofondo indistinto.
Condillac dice: a un certo punto qualcosa si impone perché diventa rilevante. Questo produce da
parte della mente l’attenzione. La mente non è soltanto percipiente, ma ha una sensazione di tipo
focalizzata. Questo non vuol dire che faccia l’attenzione, ma che è assegnata a un contenuto
esclusivo che occupa interamente il suo spazio percettivo e che lascia sullo sfondo, anzi oblitera
completamente le altre percezioni. Si sente unicamente come odore di rosa, perché quello si è
imposto come odore principale. Prima operazione subito generata, non perché la mente faccia
qualcosa, ma perché i dati hanno semplicemente come controparte mentale una operazione mentale
diversa dalla semplice percezione indistinta. Questo vuol dire anche che provo anche gioia o dolore.
Questa attenzione o capacità di sentire se è rivolta a una sensazione piacevole è gioia o se
sgradevole è sofferenza. È un dato, non è un giudizio. Il fatto che ogni sensazione sia piacevole o
spiacevole è una caratteristica generale di tutte le sensazioni. Assioma di Condillac. Se mi sento
gelsomino sono gelsomino, felice o triste.
Sono senza poter desiderare niente di niente. Per poter desiderare di essere in un’altra maniera
dovrei sapere che sia possibile essere in un’altra maniera. Nel primo istante gioisco senza uscita. La
sofferenza non può fargli desiderare un bene che non conosce. La gioia non può fargli temere un
male che non conosce. Se il carattere gradevole o sgradevole è causa di un dolore violento, la statua
non si muove, non reagisce. È e si sente male. Si tratta di una condizione di malessere, non di una
condizione da cui si senta l’esigenza di uscire. La statua non si sente nel primo istante se non per
mezzo del dolore che prova e ignora che può anche cessare. È lì dentro, chiusa nel piacere o nel
dolore. L’insegnamento che ci dà la storia non c’è per la statua punto 0. Sta lì e soffre in silenzio.
Non immagina neanche la possibilità di essere in un altro modo. La natura in qualche modo ci
avverte di ciò che dobbiamo rifuggire, ma non ci avverte che possiamo e dobbiamo farlo. Bisogna
sapere che si può essere altrimenti per poterlo essere. Per questo il desiderio è sempre artificiale.
L’artificio è il fatto che cambiando la situazione noi possiamo notare che passiamo da una
situazione piacevole a una spiacevole e viceversa. Quindi o possiamo voler ritornare a una
situazione precedente, o volerla sfuggire. Il desiderio nasce sempre e solo da confronto e memoria.
Se non c’è cambiamento, variazione, memoria della variazione e comparazione tra passato e
presente non c’è desiderio. C’è semplicemente il fatto di essere imprigionati all’interno di ciò che ci
è dato. Il desiderio è storico, artificiale. Quello che vogliamo è semplicemente la conseguenza di ciò
che siamo stati. Il desiderio non tende mai al nuovo in quanto nuovo. Al massimo lo fa in maniera
astratta in un momento molto lontano della vita psichica. Al punto 0 c’è solo sensazione, attenzione
e connotazione affettiva, non c’è nessun desiderio o pulsione. Perché ci sia serve modificazione,
memoria e comparazione tra presente e passato – la memoria lo è direttamente. Come nasce la
memoria? L’odore che sente non gli fugge interamente quando il corpo odorifero cessa di agire sul
suo organo. L’attenzione che ha dato a quest’odore rimane e ne resta un’impressione più o meno
forte della dipendenza dall’attenzione che ha richiesto quest’odore che sia più o meno viva. Ecco la
memoria. Non è altro che una duplicazione, condivisione tra l’impressione presente e passata che
ancora in parte è presente. La capacità di sentire si divide e viene condivisa da due sensazioni: una
immediata presente viva e l’altra meno presente e meno viva che è la persistenza dalla percezione
passata. Memoria, quindi, vuol dire essere due allo stesso tempo: percepire simultaneamente una
percezione presente e una percezione meno attivamente presente, più debole. L’intensità dipende
dalla forza della memoria dipende dalla forza della percezione stessa. Husserl dice esattamente la
stessa cosa col fenomeno della ritenzione, alla base della percezione temporale, una sorta di eco che
permane quando sento la cosa nuova, un’eco che sta ancora lì. Come per la melodia, non si sente un
suono alla volta, ma il passaggio che è ritenzione-attenzione-protensione, se no al posto della
melodia si udirebbero una serie di rumori. Come per la parola. Condillac dice che la memoria è
questo: ritenzione più attenzione presente. Dà luogo a dei problemi. Se una attenzione presente
debole è insieme a un ricordo forte. Perché la differenza non è di natura, ma di grado.
La memoria, attenzione doppia, è anche comparazione. La scissione, le due maniere d’essere non
possono non essere confrontate: ecco il giudizio. Dare nello stesso tempo la propria attenzione alle
due idee. Ciò la memoria stessa impone, anzi permette di fare, anzi fa. La statua percepisce che
l’odore di rosa non è quello di violetta. Un giudizio non è altro che la percezione del rapporto tra
due idee che si comparano.
Abitudini. Facilità di fare un’operazione, più la si fa, meglio la si fa. Il giudizio si fa facile e si
contrae l’abitudine a giudicare e a ben fare. Non c’è nemmeno più bisogno che la mente ci pensi.
Lo stupore. Se tutte le situazioni fossero differenti non ci sarebbe stupore. Mentre nel caso per
esempio che per un lungo tempo che la statua sia rosa e poi per un lungo tratto gelsomino, allora c’è
stupore. Nient’altro che coscienza di un contrasto più vivo rispetto all’assenza di un contrasto che
precede. Lo stesso succede se il passaggio da una situazione all’altra non è solo brusco, ma anche
affettivamente connotato. Se era rosa felice e diventa gelsomino triste. Modificazione effettiva e
anche affettiva. Questo permette di graduare lo stupore. C’è uno stupore più forte che deriva anche
dal fatto che c’è una differenza anche qualitativa. La statua è divenuta capaci già di tre cose.

Se gli odori attirano in modo uguale la sua attenzione si conservano nella memoria secondo ordine
cronologico. In maniera più o meno uniforme. Se poi la successione diventa numerosa il ricordo
degli ultimi è più forte e quella dei primi scomparirà. Ci si dimentica delle cose passate. Le capacità
mnemoniche sono limitate. Alcuni fenomeni scompaiono subito dopo essere percepiti. La memoria
dunque è una serie di idee che formano una specie di catena. Ma il punto essenziale è che questa
serie può essere ripercorsa secondo due principi: quello cronologico e un principio di piacere. Il
piacere è uno stimolo per la vita della mente, può essere il principio che conduce la mia attività
mnemonica. Verità empirica molto facile da verificare. Abbiamo tendenze a costruirci serie di
ricordi che non sono reali. Il piacere è un principio organizzatore della vita della mente e posso
ricostruire serie mnemoniche seguendo il principio di piacere. La vita della mia mente comincia a
complessificarsi. Sono capace di ricordarmi cosa ho fatto questa mattina o ricordarmi solo delle
cose belle fatte questa mattina. Entra in scena il bisogno. Determinante perché mi fare determinare
cosa posso e voglio percepire e cosa posso e voglio non percepire.

26/4/22
Il principio di piacere e di dolore permette di ricostruire serie di idee non secondo cronologia, ma
secondo idee più piacevoli. La rimozione è un passato spiacevole obliterato. Un altro elemento è il
fatto che si comincia a produrre anche un giudizio comparativo che permette di produrre idee
indifferenti. Ma per C. tutte le sensazioni sono o positive o negative. Tuttavia quando si
moltiplicano le esperienze è possibile averne un apprezzamento comparativo che fa sì che quelle
che sembrano meno piacevoli delle altre risultino indifferenti. Non solo la possibilità di avere
passati diversi, reali o immaginari, ma anche indifferenza comparativa.
Ultimo elemento del bisogno. Al §25 del capitolo 2 definizione dle bisogno. Tutte le volte che la
statua è in una consizione di dolore o meno piacevole essa si ricorda dlele sensazioni passate, le
compara con la sensazione che è attualmente e sente che è essenziale, cioè importante per lei
ritornare a essere ciò che era. Da ciò nasce il bisogno o la conoscenza che essa ha di una bene e
tramite il quale essa giudica che sia necessario. Quindi bisogno più la necessità di partecipazione
alla gioia di quel bene.
Il bisogno è sempre e soltanto retrospettivo. Tesi essenziale – vecchio paradosso del Filebo
platonico -: ci può essere un bisogno originale? Secondo C. no. Il bisogno implica memoria più
giudizio comparativo. Il bisogno è il frutto della memoria. Perciò noi desideriamo ciò che abbiamo
già provato. I nostri desideri sono il frutto della nostra storia. Se non abbiamo mai provato di meglio
non desidereremmo mai altrimenti. Non solo non c’è desiderio senza conoscenza, ma anche senza
conoscenza al passato: bisogna che abbiamo già provato una situazione migliore per volerla
ritrovare, il bisogno è sempre anamnesi, riprovare ciò che abbiamo già trovato e provato. La storia
della statua decide del suo futuro, la statua è una macchina che impara dalle proprie esperienze e
sviluppa desideri in conformità alle proprie esperienze. È una teoria perfettamente immaginente del
proprio desiderio, non possiamo desiderare una cosa ignota o futura.
Diventa questo il principio motore della vita della statua. Se il bisogno può dipendere da un dolore,
situazione spiacevole passata, languore per situazioni di indifferenza. La statua non vuole altro se
non fuggire, liberarsi da quel dolore. Se invece la sensazione di malessere è comparativa, se il
ricordo delle sensazioni passate è meno forte ho un bisogno meno forte. Tanto più c’è contrasto
tanto più il bisogno è intenso. Il bisogno è l’effetto della valutazione comparativa tra il malessere
attuale e il ricordo di un benessere passato. ma c’è una condizione ulteriore.
Quando sono in una situazione di per sé indifferente – non sto male, non ho dolore fisico né ricordo
di situazioni più piacevoli – mi annoio, comincio a compararla con un paio di situazioni passate più
eccitanti, comincia a darmi fastidio. La noia diventa insopportabile. Può essere un peso così forte
che il dolore stesso può produrre lo stesso effetto del dolore intenso: la fuga. Come fa la noia a farci
diventare insopportabile una situazione che non lo è? Stesso bisogno di volerne uscire il prima
possibile in ogni modo possibile. Non soltanto il bisogno nel senso di valutazione comparativa
dell’attuale spiacevole con un passato piacevole, ma anche una situazione di indifferenza.

La vita psichica della statua diventa sempre più complessa. Questa differenza di complessità si
declina poi nei paragrafi seguenti nell’analisi delle figure di vita più o meno persa nella memoria.
Di fronte a questi bisogni la statua l’unica cosa che può fare è ricordare maniere d’essere già vissute
e riportarle in vita. oppure immaginare, cioè riportare le maniere d’essere passate come se fossero
presenti. La statua ha provato a cambiare situazione. L’immaginazione è una nuova attività psichica
della statua. Per la statua c’è sensazione viva, passata riattivata come se fosse viva. Per lei il mondo
non c’è, ci sono solo le maniere d’essere. Noi siamo condannati alle cose esterne, perché abbiamo
perfettamente coscienza della differenza tra una percezione attuale che ci affetta dall’esterno,
l’immaginazione e il ricordo. La statua non può sottrarsi a un sentimento sgradevole attuale che
immaginando una maniera d’essere che le piace. Può produrre effetti dei quali la nostra mente non è
più capace. Nuove figure della vita psichica che dipendono dal rapporto tra il bisogno, percezione
presente, memoria e immaginazione.

Capacità di sviluppare desideri. Saltiamo il passo sulla reminiscenza e identità personale. Sintesi
che propone C. in cui dice quali sono le abitudini contratte per la statua (§39). Concludiamo che la
statua ha contratto una serie di abitudini, capacità dovute alla ripetizione dell’azione: attenzione,
memoria, comparare, giudicare, immaginare, riconoscere – reminiscenza condillachiana che
saltiamo. Più le si esercita più diventano efficaci e si riesce a manovrarle. Quali sono i limiti di
queste capacità? Se la nostra statua sente due odori nel primo momento dell’esistenza non giudica
due maniere d’essere. Come può riconoscerli distinti? Non mi sembra verosimile questo, perché
ignorando che vengono da due corpi diversi niente può indurlo a distinguere. Grazie al fatto di poter
distinguere una maniera d’essere che prova non può mai esercitare il giudizio su due maniere
d’essere concomitanti. La statua non è capace di dire che due odori dati al contempo siano due
odori. Ne sente un terzo: il frutto del misto dei due. Perché la statua non vive in un mondo di
oggetti, ma di maniere d’essere. Non è capace di distinguere due sensazioni concomitanti. Per
distinguere il concomitante abbiamo bisogno di due riferimenti che ci permettono di discernere due
cose distinte. La capacità di discernimento, di distinguere due maniere d’essere che si diano
contemporaneamente non appartiene alla statua. Il mondo della statua è un mondo di ricordi ma che
a livello istantaneo è frutto di confusione, per cui ogni sensazione si dà in blocco. È un punto che
noi fatichiamo a immaginare.

Capitolo 3. Conseguenza dell’analisi del bisogno. Una operazione ulteriore: desiderio. Una specie
di secondo nome del bisogno. Non è altro che l’operazione dell’anima, un’azione delle abitudini
dell’anima dirette sulla cosa di cui sentiamo il bisogno. Non è altro il desiderio che la
determinazione dell’azione delle operazioni dell’anima in direzione dell’oggetto del bisogno. Il
desiderio ha una gradazione che corrisponde alla gradazione del bisogno stesso. Dal desiderio nasce
una passione. Quando è particolarmente intenso, dominante, diventa l’unico della vita psichica,
ecco una passione. È un desiderio che non permette di averne altri. Non ci sono nuove facoltà che
entrano in scena, ma una variazione di operazioni. La passione è un desiderio che prende tutto lo
spazio della vita psichica. Dalché la possibilità di costituire anche un sistema delle passioni: amore
e odio e tutto ciò che ne deriva. Amore di sé, in un senso c’è solo amore di sé, perché la statua non
può che amare le proprie maniere d’essere. La statua è le sue sensazioni. Speranza e timore. Quattro
passioni chiave per costituire tutto il sistema delle passioni.

La volontà. Formazione della volontà. Il ricordo di aver soddisfatto qualcuno dei desideri rende la
speranza ancora più forte di poterne soddisfare degli altri. In questa maniera la statua mette tra
parentesi gli ostacoli che si oppongono alla soddisfazione di nuovi desideri. In atlri casi ha
desiderato e ottenuto, questo fa sperare che anche in casi futuri succederà e fa mettere tra parentesi
gli ostacoli che si opporranno. Genesi della volontà: una illusione. La credenza che ci basti
desiderare per poter ottenere ciò che desideriamo, che ciò dipenda solo da noi. Ma non è così. È una
forma di derivazione del desiderio assoluto perché assolutizza il rapporto sperimentato in
precedenza tra desiderio e soddisfazione. Tira cattive conseguenze. I bambini credono che basti
chiedere per ottenere. Volontà come desiderio assoluto derivato dal grado di probabilità dedotto da
esperienze passate. Di nuovo il passato, noi siamo la nostra storia. Senza avere provato certi
desideri non svilupperemmo l’operazione di volere. L’esperienza, il nostro passato decide del nostro
presente e futuro. È una conseguenza del rapporto tra desideri e soddisfazioni che abbiamo
sperimentato nel passato. La volontà è un desiderio assoluto non più legato all’oggetto che l’ha
provocato. Non possiamo mai rivolgerci a qualcosa che non conosciamo, ma si apre la possibilità a
qualcosa di non passato. La speranza per l’avvenire non esattamente identico al passato.

Capitolo 4 dedicato alla statica della vita della mente. Non più le operazioni mentali, ma i contenuti,
le idee. Nozioni che la statua forma senza riceverle soltanto. Vediamo se la statua ha anche delle
nozioni autonomamente elaborate. Queste si deducono da ciò che essa stessa ha esperito, per
astrazione: ricondurre percezioni singole a classi di percezioni, costituire insiemi di percezioni. idee
astratte e generali. Il titolo non deve ingannarci: nel senso positivo berkeleyano, idee singole che
stanno per gruppi di idee.
Abbiamo l’idea di piacere e dolore in generale, piacevole e spiacevole. Abbiamo anche delle idee di
numero. Distingue la statua nei suoi stati all’idea di unità ogni volta che prova una sensazione o che
se ne ricorda. Ha le idee di due o di tre ogni volta che la memoria le ricorda due o tre maniere
d’essere distinte. Idee di numero fino a tre. La statua sa contare fino a tre. Oltre la sua capacità di
numerare si limita, si perde. Oltre il tre c’è moltitudine indefinita. La nostra capacità di numerare è
limitata, dalla forza della nostra memoria.

Questo gli permette di espandere la vita desiderante, perché può desiderare il bene in generale. Può
Affrancarsi dalla sua storia. L’idea generale e astratta può fare desiderare qualcosa di buono.

Terzo ordine di idee in possesso della statua: possibile e impossibile. A partire dall’esperienza e
memoria, dalla variazione delle sue maniere d’essere. La nozione di impossibile è la controparte dei
limiti della sua immaginazione. È impossibile per la statua immaginare che ci siano due maniere
d’essere in contemporanea. Nella casella percepibile c’è questo. È il portato della sua esperienza,
struttura psichica che fa sì che non sia in grado di distinguere due sensazioni contemporanee.

Durata è la nozione del quarto ordine di idee. conseguenza nella sua strutturazione della capacità di
numerare. Si limita a tre istanti: uno centrale, uno di ricordo e uno di proiezione nel futuro. Cosa c’è
al di là e al di qua? Eternità. La statua è un’anima che vive in un ambito o spazio temporale che ha
come centro il presente. Al di là del passato e del futuro c’è l’eternità. Questa durata indefinita è una
eternità assoluta. Si sente come se fosse esistita sempre e non dovesse mai smettere di esserlo. Gli
uomini che vivessero come statue non saprebbero di essere nati e non saprebbero di dover morire,
perché non avrebbero nessuna maniera di pensare che c’è qualcosa al di là di questi tre stati. Una
analisi della sensazione, del sentimento del tempo pertinente se la rapportiamo alla vita psichica di
individui a stadi primari della vita. Rousseau: i bambini non mentono perché non sanno fare
promesse. Temporalizzazione che dipende dalla vita psichica della statua, esatta controparte.
Ulteriore analisi della vita temporale, dicendo che la nostra maniera di misurare il tempo nei limiti
indicati funziona così: noi misuriamo il tempo mettendo in rapporto la serie delle sensazioni attuali
a quelle passate, associandole a uno a uno. Noi misuriamo il tempo che passa misurando,
ricordandoci dei pensieri che abbiamo in quel tempo. Stanti così le cose si danno configurazioni
ultime di questo rapporto. Se nella percezione attuale non si produce niente, ma ci ricordiamo di più
cose, quell’istante non passa, per me non vale niente. Perché valga qualcosa ci vuole molto tempo.
Il punto più importante è che è possibile moltiplicare le maniere di esistenza solo avendo a che fare
con le maniere d’essere. Ci dà la possibilità di interpretare la vita psichica solo a partire da memoria
e percezione. Conferma la possibilità di una vita psichica minimale, ma estremamente articolata.

Capitolo 5 dedicato al sonno come elemento di comparazione con la vita psichica della veglia.
L’analisi che propone C. è il sonno come uno stato in cui le idee cioè le sensazioni non conservano
lo stato in cui si sono prodotte e non osservano la legge che regola l’immaginazione cioè la legge
del piacere. Non legami cronologici né principio di piacere. Il sogno e la vita onirica funziona come
una sorta di reagente per mettere in luce le qualità precise della vita psichica della veglia, la capacità
della mente di organizzare serie di ricordi ma anche bisogni seguendo il principio di piacere.

Da un solo senso abbiamo ottenuto gran parte della vita psichica dell’uomo. Basta l’odorato per
avere quasi tutto ciò che l’uomo ha, che un bambino a 5 anni ha. La genesi delle operazioni o
facoltà della vita psichica umana è suscettibile di essere prodotta a partire da un solo senso. Il che
indica anche quello che dovrà essere dedotto da un altro senso e poi la combinazione: la capacità di
discernere più sensazioni concomitanti e poi quindi contare, ecc. Dalché – secondo paragrafo del
capitolo 7 – tutto ciò che la vita psichica produce sono trasformazioni della sensazione. Una
sensazione trasformata. Non c’è nient’altro che diverse maniere di essere attenti, desiderare e
sentire. Non c’è altro che sensazione trasformata.

Terzo punto che C. mette in rilievo: l’unico altro principio che interviene è il fatto che le sensazioni
sono connotate positivamente o negativamente dal punto di vista del piacere o dolore, cioè non sono
indifferenti, sono connotate da un punto di vista affettivo.

Questa analisi per C. è completa, si tratterà ora di applicare agli altri sensi. Il capitolo 8 è dedicato
all’udito, poi verrà combinato con l’odorato, poi il gusto, ecc. Diventerà la faccenda più complessa
con la vista.

Capitolo 6 appartiene alle questioni con cui C. ha difficoltà a fare i conti cioè la questione della
personalità della statua. Riprende la questione della possibilità di costituire un’unità della mia
esperienza psichica. Ne ha già parlato nella reminiscenza a proposito dell’unità delle percezioni.
riprende Locke e prova fallimentarmente a riproporre una sua versione dell’identità personale.

27/4/22
Si parte da una sensazione, poi fenomeni legati di attenzione, memoria, confronto, giudizio,
inserimento di una dimensione passionale con bisogni e desideri, costituzione di serie di maniere
d’essere differenti condotte secondo principio della cronologia delle percezioni sensibili o
dell’interesse, insieme a queste conoscenze intellettuali ulteriori, idee come le nozioni particolari di
piacevole e spiacevole. Questo modello basico è trasferito agli altri sensi. Nell’ottavo all’udito, nel
nono udito e odorato, nel dieci gusto solo e poi unito a odorato e udito, nell’undicesimo alla vista.
Si combinano via via per vedere cosa succede, che cosa si ottiene in più rispetto a quanto già
ottenuto, se si sviluppano operazioni mentali ulteriori o se questa possibilità è offerta dalla
combinazione di sensi.

Per l’udito funziona alla stessa maniera: l’oggetto dell’udito o modalità di esistenza che si deve
immaginare nel caso della statua limitata alla sola facoltà di udire dei suoni è l’esistenza nella forma
di modificazione sonora. Ovidio: l’eco è il suono che vive in lei. La statua come è esistita in
quell’odore o successione di odori, adesso esisterà come suono e sue gradazioni, più o meno forti,
intense, ecc. Appare subito però la distinzione che con l’odorato non si poneva, o meglio Condillac
sembrava porre ma in realtà lo fa solo retrospettivamente: la distinzione tra suono e rumore.
L’orecchio è organizzato per cogliere un rapporto determinato tra suono e suono, ma non può
cogliere il rapporto se non vago tra rumore e rumore. Il rumore è per il senso dell’udito ciò che una
moltitudine di odori è per il senso dell’odorato. Rumori e suoni come due tipi di modificazioni
sonore: una apprezzabile e l’altra non apprezzabile in qualche modo. Tra suoni è possibile cogliere
un rapporto e tra rumori no. C. propone una analogia con la vita odorifera. L’odorato non aveva la
capacità di sentire molteplicità concomitanti, di distinguere due odori dati insieme – questa analogia
vale quel che vale. Qui abbiamo un caso emblematico di rottura del protocollo empirista: dire che
l’orecchio è organizzato per cogliere il rapporto tra un suono e un altro vuol dire smettere di
procedere secondo una analisi genetica rigorosa, cioè sensazione più modificazione delle sensazioni
e postulare un rapporto tra configurazione fisica e onde sonore che la statua non può conoscere. La
statua non sa di avere un orecchio e ancor meno che c’è una forma di affinità tra certi tipi di onde
sonore, cioè i suoni, e il nostro orecchio e una certa difformità tra certi tipi di onde sonore che sono
i rumori e il nostro orecchio. Perché sentiamo alcuni suoni come rumori indistinti? Perché il nostro
orecchio è fatto in modo tale da essere sensibile a una certa gamma di vibrazioni sonore: questo la
statua non può saperlo. Abbiamo due modi di esistenza per la statua quando la statua è suono, un
modo di esistenza che è quello del suono propriamente detto e un modo di esistenza che è il rumore
propriamente detto.
La statua non è in grado, come non era in grado per gli odori, di riconoscere suoni o rumori
concomitanti, nemmeno nel caso in cui li abbia sentiti in sequenza. Può ricordarsi di un odore
sentito attualmente, ma non può distinguere due suoni o rumori che si danno contemporaneamente.
Problema del discernimento di due sensazioni concomitanti, non accessibile alla statua. Stiamo
ripartendo da capo come se la statua avesse un solo senso, l’udito.

C’è però una capacità che viene illustrata alla fine di questo capitolo ottavo, una capacità nuova.
non è possibile distinguere due suoni o rumori che si danno contemporaneamente. Ma è possibile
distinguere un suono e un rumore che si danno contemporaneamente. Se nessuno dei due è
dominante rispetto all’altro, per intensità o interesse o qualsiasi motivo, in quel caso è possibile in
qualche maniera percepire la diversità attuale, la molteplicità, la duplicità di sensazioni attuali e
distinguere la compresenza di due. Suoni di natura diversa, anche da un punto di vista affettivo. Una
sequenza di suoni è in grado di dare un piacere infinitamente più grande che una sequenza di
rumori. La statua non desidera soltanto essere un suono particolare, ma desidera essere una melodia.
Si ricorda di una successione di suoni passati. Desideri determinati sempre da esperienze passate di
piacere. La statua non desidera solo ritornare un suono singolo, ma un’intera area. I suoni sono
apprezzabili, i rumori no. Se la statua sente nello stesso tempo un rumore e un’area, cioè una serie
di suoni, di cui l’uno non domina l’altro, suono che ha sentito distintamente prima, in quel caso è
capace di sentire le due cose insieme, di vivere in qualche maniera la molteplicità attuale. Se la
nostra statua avesse sentito i suoni prima e poi i rumori mi sembra che questi due fenomeni siano
troppo diversi per essere confusi. Allo stesso tempo questo rumore, questo canto di cui si ricorda
come di due modificazioni che si sono prodotte in maniera cronologica, successiva in lei.
Tra un rumore e un suono non c’è possibilità di dibattito sulla confusione. Tra un olezzo e un
profumo è più complicato. L’odorato è percepito come senso a bassa distinzione di gradazione. Lo
sottolineava anche Aristotele come nostra peculiarità, rispetto agli altri animali.

L’analisi del suono permette di scoprire una nuova capacità: sentire due cose al contempo. Però due
cose che ha già sentite. La possibilità di accedere alla diversità attuale è legata alla esperienza di
quella diversità in maniera cronologica nel passato. La statua è capace di distinguerli nel caso in cui
quel suono e quel rumore si danno in lei contemporaneamente. Così è possibile accedere alla
percezione attuale della distinzione di un suono e di un rumore che si danno contemporaneamente.
Il principio generale per cui è la nostra storia a decidere come reagiamo ai nuovi stimoli è qui
confermato. La statua non acquisisce qualcosa di totalmente nuovo, ha la capacità di mettere in
movimento le operazioni dette applicandole in maniera innovativa. La statua ha una nuova maniera
di essere doppia, di vivere in maniera duplice, di essere due al contempo. Cioè l’unica maniera che
aveva finora era quella molto basilare di percezione attuale e ricordo della percezione precedente al
contempo. Attenzione attuale e al passato, in ogni istante siamo doppi in qualche maniera. Adesso
riusciamo a essere doppi anche in maniera nuova. Per una fatalità riusciamo a percepire
contemporaneamente due cose. Siamo al contempo due cose. Non una cosa passata e una presente
ma due cose attualmente, due sensazioni attuali.

Il capitolo si chiude nel penultimo paragrafo con un’avvertenza cioè un principio che Condillac
ritiene essenziale. È un principio metodologico che dice così: vedremo nel seguito che nelle
sensazioni di cui non giudichiamo non sappiamo distinguere che ciò che le circostanze ci hanno
appreso a osservare. Che tutto il resto resta confuso per il nostro sguardo e che non abbiamo
nessuna idea al pari che non le avessimo proprio nemmeno sentite. Questo vuol dire che nelle
sensazioni c’è molto di più, ci può essere molto di più di quello che noi riusciamo a osservare. Se io
non ho mai percepito un suono, ma solo rumori e a un certo punto percepisco un suono sovrapposto
a un rumore di fondo, io non percepirò due cose al contempo, ma solo rumore. La percezione del
composto c’è, ma non sono capace che di sentire solo il rumore, in cui la melodia non è separata dal
rumore. Perché non ce l’ho dal passato e così non posso distinguerlo nel presente. Nelle nostre
esperienze ci sono tante cosa che noi possiamo rischiare di non vedere, ad esempio una melodia.
Rumore della voce e invece una bellissima musica: ma non possiamo sentirla. Ad esempio, il suono
delle sfere celesti per Aristotele, anche se non ce ne siamo mai resi conto. Solo che non siamo mai
stati in grado di sentirla separatamente e quindi di riconoscerla. Nelle nostre percezioni ci sono tante
cose che noi percepiamo, ma che non siamo in grado di metterle a fuoco. Diventerà molto
importante questo.

Capitolo nove. Odorato e udito insieme. Non per questo abbiamo accesso a un mondo di cose
esteriori. Supponiamo che la statua abbia due fonti di conoscenza, questo non vuol dire che la statua
abbia l’idea di qualcosa di esteriore. Se anche al primo momento dell’esistenza la statua sente suoni
e odori non saprà distinguere le due maniere d’essere. Non saprà distinguere queste maniere
d’essere, avrà un’esistenza confusa odorifero-sonora, sarà una maniera d’essere confusa di tipo
sonoro e odorifero, perché non ha imparato a distinguere in precedenza.
Supponiamo che le capiti di separare i due tipi di sensazioni, allora sarà capace di distinguere nel
caso che si producano insieme. Nel caso di due fonti di sensazioni distinte, abbiamo accesso in quel
caso alla molteplicità attuale, previa distinzione di esse nel passato. Questo sempre e soltanto se il
piacere di gioire di un tipo di sensazione non la distrae dal piacere di gioire dell’altra. In una
dominanza affettiva una mette in silenzio l’altra. Più compiaciuto dell’odore piuttosto che del
suono. Doppia esistenza. Sembra che l’essere della statua sia aumentato, le sue maniere siano
aumentate. Non soltanto possibilità di essere due tipi della stessa sensazione al contempo, ma
possibilità di essere due tipi di sensazioni al contempo. La molteplicità della statua aumenta. O
addirittura posso essere tre cose al contempo: un odore, un suono e un rumore di fondo.

Capitolo 10. Del gusto unito all’odorato e all’udito. Ancora più breve. La velocità di dimostrazione
aumenta: è sempre la stessa faccenda, ma con qualche elemento nuovo. Apriamo solo il gusto. Si
proporranno gli stessi fenomeni che abbiamo visto in precedenza, con l’unica differenza che nel
caso del gusto c’è un rapporto affettivo ancora più forte. Il bisogno di nutrimento gli rende i sapori
ancora più necessari e si impongono alla statua con ancora più vivacità. La statua potrà essere più
triste di quanto non avesse di quando aveva un odore sgradevole e sarà più felice quando soddisferà
i desideri del gusto più di quando non sia sentendo un suono particolarmente armonioso. Una
gradazione non soltanto neutra di varie forme di sentire, ma anche di intensità. L’odore ha un
ambito di fenomeni sensoriali a bassa intensità. I suoni hanno un impatto affettivo più forte: una
musica o un rumore ci affetta in maniera più intensa che un odore gradevole o sgradevole. Il gusto
peggio ancora: un buon sapore o uno disgustoso si imprimono in noi con più vivacità rispetto sia a
suoni che odori. Gradazione di vivacità dell’effetto prodotto da queste sensazioni.

Se mettiamo insieme questi tre sensi. L’esistenza si moltiplica, ci sono dei fenomeni addirittura di
armonia interna, perché l’odorato e il gusto si accompagnano insieme. Adesso anche la vista del
piatto è importante. La vita si triplica e così anche la modalità di combinazione, tre ordini di idee,
ecc. Il capitolo si chiude con una avvertenza: forse ho supposto una eccessiva capacità della statua
di distinguere le varie fonti della sensazione. La statua non sa di avere questo, è un punto che prova
vari tipi di sensazioni. La mia mademoiselle Ferrand che ha suscitato questo testo secondo la sua
narrazione gli ha detto: la fai troppo facile, o C., non è detto che la statua sia in grado di distinguere
le varie forme di sensazioni, può darsi che non sappia distinguere la fonte della sensazione. È
importantissima per capire cosa ci dice subito dopo sulla vista. Con questa confondiamo spesso gli
ordini di sensazione. Pensiamo di stare vedendo delle cose, in realtà stiamo associando idee che ci
vengono dalla vista con idee che ci vengono da altre fonti, in particolare dal tatto. Noi abbiamo
l’abitudine di associare fonti distinte di sensazione a organi di sensazione distinti, ma le cose non
sono così semplici e in particolare non sono così semplici per la statua e diventa tematico nel caso
della vista.

Questione del rapporto con il mondo esterno. La vista ci sembra essere quel senso che non ha a che
fare soltanto con le modificazioni che si producono sulla nostra facoltà di sentire, ma con un mondo
fuori di noi. Detto altrimenti noi sentiamo gli odori nel nostro naso, ecc., ma non sentiamo le
immagini sulla nostra cornea, sui nostri occhi, percepiamo di vedere delle cose fuori di noi. Il senso
per eccellenza rispetto al quale è possibile cominciare a porre la questione del mondo esterno,
l’occasione della scrittura del suo Trattato, l’accusa di essere stato troppo seguace di Berkeley,
avendo ceduto all’idealismo.

La vista sembra essere un senso che immediatamente ci proietta fuori di noi. Inoltre la vista è un
senso particolarmente delicato rispetto a un’analisi teorica che se ne vuole fare, perché è un senso
più difficile di cui ricostruire la genesi. È più arduo liberarsi rispetto alla vista delle abitudini
acquisite, in particolare a giudicare gli oggetti che vediamo come fuori di noi. È un senso in cui il
processo di genesi, cioè analisi e ricostruzione, sciogliere la generazione della facoltà della vista, far
vedere come impariamo a vedere, come i fenomeni visivi si producano a poco a poco è
particolarmente difficile. Sembra che noi si nasca già capaci di vedere. Nel caso della vista la
questione è particolarmente complessa. Troviamo come riferimento ancora una volta Berkeley.
Troviamo una sorta di riscrittura del Trattato di Berkeley in cui ricostruiva la genesi della credenza
nell’esistenza del mondo esterno.
Capitolo 11. Si pensa che siamo sempre stati capaci di vedere come oggi, che tutte le nostre idee
sono nate con noi e ritornare all’origini è quasi impossibile. Nel caso della vista è difficile sciogliere
la generazione della nostra capacità di vedere. Se un filosofo suppone che tutte le nostre conoscenze
possano trarre la loro origine dai sensi gli spiriti immediatamente si rivoltano contro una opinione
che sembra loro strana, quella per cui il pensiero è colorato, o che l’anima vedendo qualcosa diventi
ciò che vede. Qui abbiamo il punto iniziale che avevamo trovato in Berkeley: le sensazioni
concepite come le cose stesse, non modi del pensiero, che il pensiero diventi ciò che pensa. Questo
gli uomini comuni. Arrivano poi i filosofi, che pensano che le sensazioni non siano oggetti, ma
modificazioni della nostra anima, e quindi immagini degli oggetti. Dimensione
rappresentazionalista. Da questo però ne segue che le nostre percezioni riguardano solo oggetti che
sono in noi stessi e diventa quindi necessario spiegare ricondurre a oggetti fuori di noi sensazioni
che sono in noi. Diventa stupefacente che con dei sensi che non provano niente se non in loro stessi
e non hanno modo di presupporre uno spazio al di fuori di loro si sia arrivati a supporre degli
oggetti fuori di loro che siano le occasioni delle sensazioni. Enpasse di Berkeley. O adottiamo
l’ipotesi assurda che l’anima sia gli oggetti, oppure adottiamo l’ipotesi rappresentazionalista, per cui
dobbiamo spiegare come sia possibile passare da delle modificazioni della nostra anima alle cose
esterne e come sia possibile evitare la posizione di Berkeley, che consiste nel dire che parto dalle
modificazioni dell’anima e tuttavia non voglio dire come B. che esiste un mondo esterno. Condillac
ha a disposizione solo modificazioni della cosa che pensa. Ma non vuole assumere la posizione per
cui non esistono oggetti esterni, ma solo conglomerati di sensazioni con conformazioni differenti
che chiamiamo oggetti, cose, ecc. Come rimanere genetico nell’analisi della sensazione e non
perdere il mondo esterno? Questa è la difficoltà. La vista sembra essere la via d’uscita. Il capitolo
undici è dedicato a mostrare che le cose non stanno così, la vista non più del gusto e dell’odorato
può proiettarci fuori di noi. In sede introduttiva C. ricorda l’esperimento di Molineaux, cieco dalla
nascita. Ci si domanda se riacquisendo la vista sarebbe stato capace di vedere immediatamente un
mondo di oggetti o se avrebbe dovuto apprendere a vederli. Tesi di Molineaux e di Locke che aveva
contestato in parte, ma che ora ritrova pienamente.

Cosa vede la statua nel momento in cui ricominciamo da capo e le diamo solo il senso della vista?
Come statua vedente mi sembra che la statua percepirà molti colori senza osservarne, metterne a
fuoco nessuno in particolare. L’attenzione sua è troppo diffusa e vede una fantasmagoria, variopinto
insieme confuso di colori. Variazioni di luce più o meno intensa e con frequenza diversa.
supponiamo poi che una di queste luci colorate si imponga più delle altre e si isoli. Abbiamo quindi
l’attenzione, che permette di isolare una sensazione unica, accompagnata dal solito criterio del
piacere-dispiacere. Se ci sono più colori che si impongono uno dopo l’altro potrà poi riconoscerli e
il solito fenomeno che si produce sempre ugualmente come nei casi precedenti. Il problema è che la
nostra capacità di isolare i fenomeni colorati va appresa. Esempio del pittore, cioè dello sguardo
nostro e dello sguardo del pittore. È simile che la statua, rispetto a due o tre colori che le si offrono
come siamo noi stessi rispetto a un quadro variopinto di cui i soggetti non ci sono familiari. Prima
vediamo i dettagli confusamente, poi i nostri occhi si fissano su una figura, poi su un’altra. La vista
confusa del primo colpo d’occhio non è l’effetto di un numero di oggetti assoluto e determinato, in
maniera tale che ciò che è confuso debba esserlo per gli altri. Qualcuno come un pittore che ha
l’abitudine a distinguere i soggetti di un quadro li vedrà distintamente tutti questi oggetti che gli si
danno insieme. Il modello della pittura serve per immaginare una situazione in cui non riusciamo a
mettere a fuoco le cose, nel caso della vista.
Lo sguardo può affaticarsi. Questa è un elemento assolutamente nuovo rispetto alle analisi
precedenti. Cioè il fatto che a causa di una vivacità eccessiva di un colore, o perché non si riesce a
stare tanto a lungo su un’immagine l’occhio si sposta. La statua cambia punto di osservazione in
maniera meccanica. E lo fa continuamente, senza sosta, c’è in lei un movimento continuo. Di nuovo
gli occhi si affaticano e spostano su altre cose, fino a quando un po’ alla volta si chiudono e la
giornata finisce. Questo elemento ulteriore di fatica è essenziale, perché ci introduce a una
differenza rispetto agli altri sensi: la motilità di questo senso. Finora i sapori e gli odori li abbiamo
sentiti, si producevano e noi eravamo lì, per cui le sensazioni ci arrivavano. La vista possiede una
motilità interna, autonoma, che prevede da una parte la capacità di muoversi sugli oggetti a
disposizione, non essere assegnata dalla circostanza a una visione, ma di poterla cambiare, alternare
con altre visioni. E d’altra parte come contraltare il fenomeno della fatica, il fatto che l’occhio non
possa stare a lungo a guardare qualcosa di troppo intenso o una durata troppo lunga. Questa
osservazione empirica ovviamente ancora una volta è una deroga al protocollo empirista: non
sappiamo che la statua abbia un occhio, faccia movimenti, lei essenzialmente è sensazioni visive.
Tuttavia in deroga al protocollo empirista Condillac sottolinea il fatto che la vista non è come gli
altri sensi, non è schiava delle circostanze. Propone un ambito di sensazioni in cui le circostanze
esteriori non decidono pienamente della nostra performance percettiva. Possiamo fare qualcosa,
però abbiamo come controparte questo fenomeno della fatica, della continua variazione da un
oggetto a un altro. Fino a quando chiudiamo completamente le palpebre e andiamo a dormire.

2/5/22
Ultimi capitoli del I libro, capitolo undicesimo in particolare – il dodicesimo è un breve riassunto.
L’uomo limitato al solo senso della vista. Solita partenza da zero con un senso solo. Sembra essere
un senso che ci mette immediatamente in relazione con un mondo di oggetti fuori di noi. Laddove i
suoni difficilmente possono essere relazionati in maniera immediata agli oggetti esteriori,
modificazioni delle nostre relazioni senzienti. Con la vista sembra che io abbia a che fare con
oggetti fuori di me. Gli oggetti della vista vengono percepiti immediatamente come una forma di
modificazione dell’organo senziente. Sentiamo i rumori nelle orecchie, i gusti sulla lingua, ecc., non
sentiamo le cose che vediamo nei nostri occhi, come su uno schermo dentro alla nostra testa.
Progressiva deduzione delle operazioni nella facoltà di vedere. Il punto di partenza è la confusione
di tutte le sensazioni visibili come indiscernibili. C. insiste con la metafora del pittore, che con un
sol colpo d’occhio discerne tutti gli oggetti del quadro con una progressiva esplorazione degli
oggetti per metterli a fuoco distintamente. Esempio dei quadri del primo Dalì: primo colpo d’occhio
vede un paesaggio, il secondo oggetti, il terzo una figura rappresentata tramite quegli oggetti che
fanno finta di essere un paesaggio.
La confusione è il primo punto che Condillac sottolinea. Il secondo è la coppia motilità-fatica, che
nel caso degli occhi è in deroga al protocollo empirista. C. assume che i nostri occhi possono
muoversi. Lo sguardo, la vista è un senso passivo, ma direzionabile, nel senso che può essere
condotto, deliberatamente nel senso che possiamo muovere i nostri occhi per vedere cose diverse,
ma anche in maniera non deliberata. Movimenti che vengono svolti dallo sguardo che sono la
controparte di una fatica che si produce nel momento in cui siamo sottoposti a una visione troppo
intensa oppure stiamo a fissare troppo a lungo un oggetto e il nostro sguardo non riesce perciò a
concentrarsi e si muove. Guardare è sempre un guardare in movimento, mai fisso, mai assegnato in
maniera definitiva a una visione, ma sempre suscettibile di spostarsi altrove.
Confusione, motilità e fatica – che conducono al ciclo sonno-veglia – e poi terzo elemento che
Condillac sottolinea è la capacità di discernere più percezioni alla volta. Nell’udito si dà capacità di
sentire due suoni uno prima dell’altro e poi quindi anche di percepirli contemporaneamente insieme.
Nel caso della vista Condillac va oltre: assume che noi nella visione in maniera spontanea vediamo
più cose. Laddove altri tipi di percezioni accaparrano la nostra capacità sensibile, parlando da un
punto di vista dell’esperienza spontanea, nella visione mi si aprono più cose. Questo dato
immediato viene pensato da Condillac affermando che nel caso della visione in virtù di quel
fenomeno di motilità e fatica è possibile percepire insieme tre colori, visioni contemporaneamente.
Come avviene questa possibilità di discernerne tre? Una cosa diventa ricordo, a un certo punto
diventa faticosa e perciò cede il campo a un’altra cosa. C’è un punto in cui queste tre percezioni –
ricordo della prima, percezione affaticata della prima e percezione attuale della terza – si
equilibrano il grado di intensità di intensità e di percezione e in questa maniera riesco a percepirne
3.
Non dipende dalla proiezione di due percezioni distinte passate su percezione attuale, come nel caso
del suono. Non è il passato che viene riproiettato sul presente per distinguere una molteplicità
presente. Ma la molteplicità si dà in maniera attuale, così da percepirne 3 contemporaneamente.
Non più di 3, perché i limiti della memoria e della statua sono sempre gli stessi e non può contarne
più di 3.
Il suo occhio affaticato si porta su un terzo colore. La sua attenzione determinata in questa maniera
d’essere si sposta dai due primi – attuale e ricordato – tuttavia non è determinata a tal punto da
fargli dimenticare tutto ciò che è stata. Osserva quindi ancora il rosso e il giallo come due maniere
d’essere che l’hanno preceduto. Una espansione del fenomeno della memoria in buona sostanza. Si
rende conto che è al contempo tre cose, in qualche maniera.
Noi pensiamo che vedere sia vedere della estensione e cioè delle superfici colorate di grandezze
determinate. Superfici dei solidi, non vediamo dentro, con forme o grandezze determinate. Vediamo
dei rettangoli, forme di un cubo in prospettiva, ecc. Scopriamo che le cose stanno diversamente.
Estensione vuol dire che ci sono delle cose che ne escludono altre, perché non possono stare
insieme, ma si affiancano in modo contiguo o formando un continuum. La vista non è in grado di
percepire delle superfici, perché non è in grado di vedere cose solide – non ne ha idea – e non è in
grado di percepire delle grandezze definite, cioè delle figure, perché non ha interesse a percepirle.
La statua fa l’esperienza visiva di un insieme di impulsi colorati, di gradazioni e intensità diversa,
gli uni diversi dagli altri. Questi impulsi colorati non sono né delle superfici, perché non ha idea
alcuna di cosa sia un solido, e non sono nemmeno grandezze determinate, perché per ottenere
coscienza di una grandezza determinata dovrebbe avere interesse a percorrere un po’ alla volta il
profilo, ciascuno dei lati, poi a metterli insieme e poi a racchiudere l’impulso colorato in questo
profilo. La statua non ha occasione di farlo né interesse. È un lavoro estremamente dispendioso che
la statua non farà perché niente la spinge a farlo. Troviamo una conferma del principio che ci sono
molte più cose di quelle che vediamo effettivamente. Un modo di accedere al mondo visivo come
quando mettiamo le gocce dall’ottico. Immaginate di cominciare l’esperienza del mondo con le
gocce dell’ottico. Vediamo degli sfumati impulsi colorati senza forma precisa che non riusciamo a
costruire come dei solidi, tant’è che quando usciamo dall’ottico inciampiamo nelle cose. Questa è
l’esperienza che ha la statua, insieme di pixel senza figura, un’estensione vaga, immensa, senza
limiti e in qualche maniera vive in queste percezioni colorate come in una grande fantasmagoria
di impulsi visivi. Non vede un mondo di cose la statua. Non vede oggetti, cose visibili. Ma
vede, cioè è, perché è le sensazioni che ha a questo punto, un insieme di sensazioni, impulsi ottici
che sono colorati. La statua sente solamente che esiste in molte maniere, che non sono altro se non
in base all’intensità o al cromatismo. I soli cambiamenti che può provare è di essere più
sensibilmente un colore piuttosto che un altro, può essere più colori insieme, con intensità diversa,
ecc. Non ha percezioni di oggetti, la vista non ci dà accesso al mondo.
Corollario: potrebbe darcelo, con la vista potremmo costruire oggetti, potremmo vedere le figure
almeno di questi impulsi colorati, cioè considerare la dimensione e la configurazione di questi
impulsi colorati. Per farlo, per sapere che un punto nero è in realtà un triangolo nero, dovremmo
guardarlo, concentrarci un po’ alla volta su un lato, e percorrerlo tutto, poi su un altro e percorrerlo
tutto, poi sul terzo, poi metterli insieme e infine riempirlo. L’occhio non ha interesse a fare questo
percorso, non ha nessuna ragione per farlo. Potremmo vedere delle configurazioni triangolari, ma
non abbiamo interesse a farlo. Questa è la ragione per cui ci aveva detto quel principio: noi
percepiamo molto di più di quanto riusciamo a vedere. Non tutto ciò che c’è nella sensazione
diventa oggetto effettivo della sensazione, il mondo è più ricco di quanto noi riusciamo
effettivamente a percepirne.
Anche con la vista la statua vive soltanto nelle sue sensazioni, cioè non esce da esse, ma le ha come
sue maniere di essere, di esistere, sono modi della statua di esistere, modificazioni della sua
esistenza. Lei è odore, sapore, colore. Questa è la morale che C. tira nel capitolo finale in cui
riunisce tutti i sensi tranne il tatto e dice: anche se li riuniamo tutti la statua non suppone di dovere
le sue maniere d’essere a delle cause esterne. La statua ignora che ci siano delle stimolazioni esterne
delle facoltà sensibili. Non sa di avere un corpo, non osserva queste sensazioni insieme che dopo
averle percepite separatamente. In ogni caso la statua non ha mondo, ha un mondo di sensazioni,
cioè esiste in queste sensazioni come modificazioni della sua maniera d’essere, ma non sono
modificazioni di qualcosa di esterno a lei. Abbiamo un sensismo, un empirismo basato sulla
sensazione come unico principio della conoscenza, che è al contempo un idealismo: non c’è un
mondo fuori. Queste conoscenze sensibili non sono mai rapportate dal soggetto a qualcosa al di
fuori di se stesso. Il soggetto le sente, le percepisce, le considera solo come modificazioni del suo
stesso essere, che non conosce, in quanto non sa di avere un corpo.

Nelle ultime pagine del Trattato fa l’ipotesi di far sì che si mantenga una sensazione di un certo tipo
di senso permanente, variando le altre. Un odore ad esempio. Succederebbe che lei penserebbe di
essere una sostanza odorifera che ha queste altre qualità. Se ci fosse una qualità che restasse
costante permanente, mai interrotta nella sua vita psichica, allora lei crederebbe che il suo essere
consista in quella condizione permanente. Al massimo quello che la statua può fare è considerarsi
come una cosa odorifera che ha dei suoni, sapori, ecc. Può applicare la struttura soggetto-accidenti a
ordini diversi di sensazioni. Ma siamo sempre all’interno della sua vita psichica. Questo punto è
importante altrimenti non capiamo in che senso il tatto cambi le carte in tavola.

Ultima parte che ci interessa in maniera tematica, in cui risolve la questione dell’immaterialismo,
dell’accusa di caduta nella tesi di Berkeley che fa dei corpi degli agglomerati di sensazioni,
salvando l’esistenza del mondo. Condillac passa dall’analisi del senso del tatto. Non cerca una
dimostrazione che ci faccia passare da un mondo interiore a un mondo di cause esterne delle
sensazioni, ma mantiene il protocollo empirico, via empirista rigorosa, per cui è dentro la
sensazione che devo trovare la possibilità del mondo esterno, essendo tutto ciò che ho. Non è
facendo un salto, ponendo una relazione causale tra l’interno e l’esterno della mente. Questo è il
problema che aveva sottolineato Berkeley: non si può fare. Condillac dice che non si può fare, ma il
tatto ci permette di fare qualcosa di analogo a questo salto, ci permette di mettere in contatto mondo
esterno e mondo interno, ci consente di trovare un punto di contatto tra la vita della mente e ciò che
non è solo la vita della mente, non passando dalla relazione causale che può perciò essere sempre
messa in dubbio, come ha fatto chi ha criticato la prova cartesiana dicendo che in realtà la
postulazione di una causa esterna delle sensazioni non è necessaria e quindi non è una via effettiva.
Non è saltando fuori come il Barone di Münchhausen che si salva dall’annegamento tirandosi su per
i capelli. C’è una maniera per trovare una sorta di via al mondo dall’interno, dice Condillac.
L’analisi di C. è particolarmente felice e dotata di una singolare posterità novecentesca, quando in
molte pagine della fenomenologia in cui si discute tra Leib e Körper, ecc., da Husserl a Merleau-
Ponty a Derrida e altri, tutte queste analisi trovano nel tatto il loro punto di partenza.

Procediamo quindi con il tatto. Condillac nelle prime pagine di questa seconda parte sul tatto
avanza in maniera lenta e inesorabile. Condillac sottolinea un sentimento tattile fondamentale.
Sensazione della statua in quanto ridotta alla solo capacità tattile, ridotta a 0 come al solito. Cosa
sente? Una sensazione fondamentale: il peso delle parti del corpo tra di loro, il fatto che la statua è
sempre innanzitutto e sempre l’azione di una parte del corpo sulle altre, in particolare dei
movimenti della respirazione. Condillac vuol dire che c’è una sorta di sensazione fondamentale, un
sentimento tattile fondamentale che precede tutte le altre che è la sensazione del peso del nostro
corpo sul nostro corpo. Delle parti sul nostro corpo, anche se le altre fossero per assurdo sospese per
aria, almeno sentiremmo il peso del nostro petto su di noi. Sentimento fondamentale permanente,
accompagna costantemente le altre percezioni tattili. È originario, perché è in qualche maniera il
primo che sentiamo. Infine è fondamentale perché in qualche maniera ci dà un accesso primario a
noi stessi. Se non all’io, che ha bisogno di modificazioni perché emerga, quantomeno al sé come
esistente, alla propria esistenza in atto. Un sé senza io. Primo punto questo sentimento
fondamentale. Sentimento e sensazioni sono in francese all’epoca indistinti e si usano per dire la
stessa cosa. Questo è il punto 0.

Comincia a fare delle variazioni – capitolo due. Questo sentimento è uniforme e in qualche maniera
puntale, semplice, senza estensione. Finché è uniforme non si spazializza, non ha luogo nel corpo
stesso, è come un punto, mi sento come in un punto, in virtù di questo sentimento fondamentale.
Sente di esistere, ma senza spazializzarsi. Anche se variamo il calore. In una situazione di
isolamento sente di esistere dal punto di vista tattile, senza avere un’estensione, senza sentirsi in
punti diversi. Supponiamo che aumenti la temperatura nella stanza, questo sentimento fondamentale
varia leggermente, perché magari per respirare faccio più fatica, cambia di intensità ma resta
uniforme. Comunque non c’è spazializzazione. Lo stesso avviene se stimolo questa stanza in due
punti del suo corpo ma in maniera uniforme. Finché la stimolazione è uniforme non c’è situazione
dello stimolo in una parte qualsiasi del corpo.

Capitolo due e tre. Lo stesso avviene se la sottopongo a una serie di stimolazioni non uniformi.
Avrà solo un sentimento confuso di sé senza percezione di un corpo esteso. Lo stesso anche se lo
faccio stimolare in punti diversi in maniera non uniforme e in tempi diversi. Riconoscerà delle
differenze, ma senza spazializzarle. Quando tocchiamo qualcosa la sensazione è in un punto del mio
corpo. Non sento la sensazione tattile da qualche parte. La statua invece all’inizio della sua vita non
è capace di farlo, deve imparare. Può anche sentire una sensazione tattile del tipo della mano che
sente qualcosa, ma non è in grado di situarla in alcun luogo. Queste maniere d’essere – mano che
tocca qualcosa – che lei osserva contemporaneamente come coesistenti, si distinguono più o meno e
sono uno una distinta dall’altra, come i colori. Tuttavia non sono né in continuità o contiguità per
cui non danno nessuna idea di estensione. Non c’è il luogo. Sono uno fuori dall’altro, ma senza
spazializzazione propriamente. Imparare a sentire da un punto di vista tattile sarà diventare capace
di operare questa spazializzazione, situare nel corpo delle sensazioni, nel proprio corpo in
particolare, unico cui abbia accesso.

Punto 0 il sentimento fondamentale. Punto 1: queste sensazioni anche multiple, distinte di ordine e
natura diversa, ma che in qualche maniera sono sempre percepite come pure maniere di essere di se
stessa e non come delle sensazioni del suo corpo situate in punti diversi.

Per passare al punto 2 Condillac propone un colpo di scena, il capitolo quarto. Esce dal solito rigore
dell’analisi e fa una considerazione più ampia. Dice Condillac che in qualche maniera le sensazioni
– è una dimostrazione graduale – appartengono solo all’anima, sono maniere d’essere dell’anima,
qualcosa che fa parte, che è una modificazione dell’anima stessa. Se le cose stanno così però
l’individuo non avrebbe nessuna chance di sopravvivere – sta parlando in generale – se considerasse
le proprie sensazioni come mere modificazioni dell’anima. Come farebbe un bambino appena nato a
occuparsi dei suoi bisogni se non avesse nessuna nozione del suo corpo e dei corpi che lo
circondano? La natura deve provvedere in qualche maniera a far sì che noi siamo in grado di
distinguere il nostro corpo e gli altri corpi, le sensazioni come sensazioni che riguardano le
modificazioni del nostro corpo e le sensazioni come informazioni dei corpi esterni. Assioma
cartesiano per cui l’analisi delle sensazioni ha una finalità pratica. Lo stesso fa Condillac. La natura
fa tutto in noi e si prende carico di permetterci di situare le sensazioni nel nostro corpo e farci
conoscere le sensazioni che non sono nel nostro corpo, ma negli altri corpi. Ci permette di capire
che ci sono altri corpi oltre al nostro corpo. Come lo fa la natura? – terzo punto della dimostrazione.
Lo fa con un artificio, per cui la natura ci fa credere che le sensazioni, in particolare tattili, si
trovano negli organi sollecitati. Che quando sentiamo con le mani qualcosa le sensazioni siano nelle
nostre mani e non nella nostra anima, come di fatto è. L’artificio della natura consiste nel farci
credere che la sensazione è in un punto del corpo. Noi crediamo di trovarci, trovare in noi stessi,
negli organi che noi non siamo propriamente, che sono esterni a noi come anima. Questo artificio ha
un fondamento di tipo biologico, fisico che C. non analizza. Gli interessa che la natura produce
questo artificio per permetterci di sopravvivere.
Posto questo artificio, il punto è come la statua arrivi a scoprire che ha un corpo e ci sono altri corpi,
in virtù di questo artificio. Non basta avere per natura questa tendenza, ma bisogna avviarsi a una
analisi della scoperta del proprio corpo e dei corpi altrui. Osserviamo! – è l’imperativo con cui
termina questa quarta parte.

Data questa spazializzazione, intrinseca al tatto e frutto di un artificio naturale, gli interessa
puntualizzare come l’uomo giunga a scoprire il proprio corpo e i corpi diversi dal suo, come giunga
a porre un sé corporeo in un mondo di corpi distinti da sé. Cioè come giunga a scoprire l’esistenza
del mondo esterno. Perché la statua sopravviva e non sia destinata a perire immediatamente. Perché
la statua debba avere e abbia necessariamente delle percezioni tattili spazializzate cioè situate negli
organi, cioè in punti diversi del nostro corpo, tuttavia non conoscerà il suo corpo non appena avrà
quelle sensazioni. Per scoprirlo avrà bisogno di analizzare, cioè è necessario che osservi il suo io in
tutte le parti in cui gli sembrerà di trovarsi. E non farà questa analisi spontaneamente, ma condotta
dalle circostanze. Stante questa struttura della natura, questo artificio che la conduce a spazializzare
il sé negli organi del senso come fa la statua a scoprire di avere un corpo e che esistono corpi diversi
dal suo? Il punto di partenza sono dei movimenti, indotti dalla natura stessa – non c’è deroga del
protocollo empirista ma applicazione delle circostanze alla statua stessa – di movimenti che sono
per esempio reazione di fuga da un dolore, da qualcosa di doloroso, oppure una cosa o sensazione di
piacere troppo intenso. C’è per la statua anche nel tatto un motilità legata a una dinamica di rapporti
di piacere o dispiacere. Questo fa sì che lei si sposti in altri luoghi, che il suo tatto venga a contatto
con altri oggetti. Questa scoperta può condurla a scoprire cose diverse da lei, ma anche a sentire se
stessa. Si ripetono, si variano questi movimenti e le capiterà di portare a più riprese su se stessa e
sugli oggetti che le sono attorno.
Contingenza banale che è la contingenza dei movimenti dovuta alle reazioni a stimoli e a una
motilità corporea simile a quella visiva, cioè essere sottoposta a stimoli e anche ricercarne altri.
Questo fa sì che la statua vada in giro e muova la mano, toccando qualcosa di freddo per esempio, o
qualcosa di estremamente piacevole. Movimento altrove può andare a toccare altre cose, oppure
può tirando indietro la mano toccare se stessa. La scoperta del mondo proprio e altrui avviene nella
sua fase iniziale tramite movimenti casuali dovuti alla esposizione alle circostanze esterne. Questo
fa sì che la statua tocchi delle cose diverse da lei e anche se stessa.
Ora, quali sono queste sensazioni tattili? Quando tocca i corpi esterni e tocca se stessa sono
sensazioni di solidità. In questi fenomeni di tatto cosa percepisce la statua? Solidità. È la percezione
di due cose che si fanno resistenza l’una all’altra. Fino a che si escludano vicendevolmente – il
contrario è la loro penetrabilità reciproca. La specificità della sensazione di solidità è una
sensazione che parla di due cose contemporaneamente, che si escludono, nel senso che l’anima non
conosce il suo corpo, percepisce queste sensazioni come modificazioni in cui non percepisce altro
che se stessa. Invece la solidità ha la proprietà di rappresentare due cose che si escludono l’una fuori
dall’altra e l’anima quindi non può che percepire nella sensazione di solidità qualcosa che è diverso
da lei. Trova quindi due cose che si escludono e percepirà se stessa e qualcosa di diverso da sé. Se
l’anima deve porsi in una di queste due cose che percepisce dovrà porsi come non presente
nell’altra cosa. L’anima ha la sensazione di solidità tramite la quale passa fuori da se stessa.
Movimenti casuali che producono sensazioni tattili, e in tutti questi casi quello che percepisco è la
sensazione di due cose contemporaneamente che si escludono reciprocamente, la sensazione di
solidità in cui la statua trova sé e altro da sé, non una cosa soltanto. È sempre una sensazione
duplice la solidità. Proprio questa permetterà di distinguere corpi esterni e corpo proprio.

3/5/22
È il senso del tatto che permette alla statua di accedere a un mondo di fenomeni che conferiscono
una esteriorità di qualche genere. L’analisi di Condillac parte dal sentimento fontamentale, costante
senza variazioni. Tramite questo o sue successive contemporanee modificazioni non si accede
all’estensione o corporeità, perché le maniere d’essere che si ottengono tramite sensazioni multiple
sono maniere d’essere che coesistono, non sono né continue né contigue. Queste sensazioni
multiple non sono situate di fatto in una estensione effettiva, sono una fuori dall’altra, ma non come
due colori posti uno di fronte all’altro. Possiamo pensare a un esempio, se vi è capitato di essere
anestetizzati oppure se avete perso conoscenza o svegliati dopo una serata particolarmente
piacevole: cominciate a sentire il vostro corpo e le vostre sensazioni corporee che non sono situate
propriamente nello spazio. Avete una sensazione vaga e indistinta di cose del vostro corpo che vi
danno percezioni tattili, ma che non sapete esattamente dove mettere. La statua quando è solo viva
nel tatto all’inizio ha un’esperienza vaga di un’estensione di cui non riesce a comprendere i
contorni, non ha nessuna idea di estensione vera e propria. Dice alla fine del capitolo 3 che sente le
estensioni tattili come sente i colori e gli odori, che non sono situati in uno spazio effettivamente.
Siamo a metà via tra i colori e gli odori. Come colori c’è esteriorità, ma come gli odori e i suoni non
sono propriamente situati in maniera tale che io abbia un’idea di estensione. La natura ci ha dato
considerazioni preliminari: ci ha fatto tali che possiamo rappresentarci dei corpi, in virtù di un
artificio che la natura produce, che conduce a credere che le sensazioni che proviamo non siano
situate nella nostra anima, ma nei nostri organi corporei. Una spazializzazione originaria che fa sì
che le nostre percezioni tattili siano organiche, cioè noi abbiamo tendenza a differenza degli altri
tipi di sensazioni a situarli negli organi di senso stessi, non come nel caso del suono, luce, immagini
o odori: in noi stessi, ma non negli organi di senso. Quest’artificio della natura fa sì che la statua si
senta e senta le sensazioni tattili negli organi stessi. Questo non vuol dire immediatamente che la
statua abbia una possibilità di accedere a un mondo di corpi, proprio e altrui. La spazializzazione è
una sorta di assioma, prerequisito o verità empirica che Condillac assume come punto di partenza e
che ci dice che nel caso delle modificazioni tattili le percezioni non sono modificazioni di essere
dell’anima, com’è stato finora, ma come modificazioni degli organi. Ci vuole che questa esperienza
si costituisca, che questa capacità, tendenza indebita, perché le sensazioni non sono nei nostri
organi: è la nostra anima che sente. Però la natura ci ha fatti tali che abbiamo la tendenza a situarli
nei punti del corpo che sono sollecitati da parte di un agente esterno da un punto di vista tattile.
Cosa deve fare la statua? Deve costituire a partire da questo artificio della natura dei corpi, in
particolare il proprio corpo e i corpi altrui. È quello che Condillac fa e illustra nelle pagine seguenti.

A partire dal capitolo 5. Questo ci racconta come l’esplorazione dovuta alle circostanze esterne, più
motilità spontanea della statua, sempre circostanze non desideri precisi della statua, questo ci
permette piano piano di scoprire il proprio e altri corpo. Primi movimenti reattivi, meccanici,
istintuali, quasi incoscienti che la statua compie in virtù di com’è fatta – si sposta dal calore che
brucia o si stanca di sentire qualcosa e muove la mano. Questo movimento porta ad altre sensazioni
tattili, che potranno essere di due tipi: sensazione di cosa esterna o sensazione del proprio corpo.
Punto di partenza per questa esplorazione sono le circostanze dinamiche nel senso di moti indotti
dalla statua così com’è fatta e la motilità sua spontanea. La statua comincia a esplorare il mondo,
con i corpi diversi da sé e il suo.

Come giunge a mettere a fuoco questi due fenomeni? Tramite la sensazione di solidità. Intesa come
percezione della resistenza che si fanno l’una e l’altra due cose per escludersi mutualmente.
Percezione della resistenza reciproca di due cose che si escludono mutualmente. Nei due corpi
solidi che si premono l’uno sull’altro noi percepiamo la resistenza che si fanno l’uno all’altro, se
potessero penetrarsi i due si confonderebbero in uno solo. Solidità, sensazione che ci permette di
accedere a una sensazione dei corpi e del proprio. Poniamo che l’uomo sia in un luogo con corpi
liquidi e gassosi: in questo caso non potrebbe mai conoscere i corpi. Ma laddove c’è solidità c’è
possibilità di accesso alle cose e al proprio corpo. Perché nel caso delle sensazioni degli altri sensi
la statua non trovava che se stessa, nel caso di percezione di questa solidità, che rappresenta
contemporaneamente due cose che si escludono l’una l’altra, l’anima non sentirà questo come una
delle sue modificazioni in cui percepirà solo se stessa. Due cose che si escludono, perciò percepirà
questa sensazione nelle due cose. Non due colori o un suono e un rumore, ma due cose che si
escludono: l’una non è l’altra. Percepire una modificazione in due cose, per mezzo della quale
l’anima passa da se stessa fuori di se stessa. Se due cose si escludono una delle due cose deve essere
posta fuori da me. Ognuna delle due cose dice: io non sono l’altra. La modificazione dice: trovami
un altro, c’è alterità. Laddove le modificazioni sono del gusto, dell’odorato o tatto senza resistenza
esse mi dicono che sono solo una modificazione mia. La percezione della solidità mi dice
immediatamente che siamo due: uno che tocca e uno che è toccato. Non c’è passivo e attivo, ma due
che si resistono reciprocamente e si escludono reciprocamente resistendosi. Questa è la sensazione
che può costituire il filo conduttore per la scoperta del proprio corpo e dei corpi altrui.

La statua fa quei movimenti dati dalla propria costituzione e motilità spontanea. Ce ne sono alcuni
in cui per caso gli capita di toccare il proprio petto con la propria mano, che si resistono
reciprocamente, si rinviano e dicono di essere poste una fuori dall’altra. Fatto questo la statua
ritrova se stessa nell’una e nell’altra, perché si ritrova in entrambe, si sente ugualmente in esse.
Qualsiasi altra parte del suo corpo la distinguerà e la ritroverà ugualmente.
Esperienza del corpo proprio. Poniamo che gli capiti un’esperienza causale che quest’uomo fosse
legato in posizione vitruviana non scoprirebbe mai il proprio corpo. Supponiamo che le circostanze
facciano sì che muovendosi scompostamente tocchi il proprio petto: scopre che altro è la mano che
fa pressione sul petto e altro il petto che fa pressione sulla mano. Abbiamo due cose che si rinviano
mutualmente e si mettono necessariamente una fuori dall’altra. Però questo due è anche
riconducibile all’unità. Sono sempre io, lo sentono i miei organi. Riconduco all’uno. Questo
avviene in maniera più chiara nel caso in cui le due sensazioni siano anche diverse di natura o
intensità. Allora la distinzione è ancora più forte. E tuttavia la possibilità di ricondurle all’unità è
sempre possibile. Supponiamo che la statua faccia esperienza di sensazioni toccandosi casualmente
le varie parti del corpo. Si ritrova in varie parti del corpo: naso, mano, orecchio, bocca. Così ottiene
semplicemente una immagine del proprio corpo per punti. Supponiamo però che faccia questa
esperienza in maniera continua. Allora in quel caso avrà una esperienza costituita di un viso. Sentirà
sotto la sua mano una continuità dell’io. Questa stessa mano renderà l’estensione più sensibile. Ecco
un io continuo ed esteso, un corpo proprio. Se questa esplorazione avviene in maniera divisionista
non c’è costituzione dell’estensione del corpo proprio, se avviene in maniera continua e regolare
abbiamo la costituzione dell’estensione del corpo proprio.
Due paragrafi consacrati alla conoscenza del proprio corpo e del corpo altrui. Scopre e si riconosce.
Lo stesso essere senziente si risponde in qualche maniera da una parte all’altra. Dai due lati
dell’alterità c’è una voce che dice all’unisono: sono io. Che continui a toccarsi in ogni dove la
solidità rappresenterà due cose che si escludono e sono contigue. In ogni dove l’essere senziente si
risponderà in ognuna delle due: sono io. Non è più il calore e il freddo, ma sente il calore da una
parte e il freddo dall’altra. La spazializzazione produce un’esperienza dell’estensione corporea del
corpo proprio che fa sì che ci sia anche una distinzione tra l’io e il suo corpo. Non è più il caldo e il
freddo sentito, un suono, un odore, ma è un corpo con delle sensazioni tattili. All’altro lato
dell’esperienza quando non tocca più il proprio corpo la statua non porta più le mani che su se
stessa: crederà di essere tutto ciò che esiste. Ma se tocca un corpo estraneo l’io che si sente
modificato dal corpo estraneo non si sente nel corpo estraneo. Scopre che le sue maniere di essere
sono totalmente fuori di lei e come ha formato, costituito il suo proprio corpo forma anche gli altri
corpi. Sente la modificazione nella sua mano, l’alterità del corpo nella sua mano, non c’è un’eco di
risposte identiche nei due lati: da un lato sono io, dall’altro non c’è niente che lo dica. Nel lato della
soglia della solidità che non è appropriabile, in quel lato la maniera d’essere che sperimenta è da
considerare in qualche maniera fuori di lei, non riappropriabile. Questa parte va assegnata tramite
un giudizio a oggetti esterni. La sensazione di solidità le permette di dare consistenza a corpi che
non sono lei. Abbiamo una costituzione analoga del corpo proprio e dei corpi esterni, che passa
tramite la figura e forma dell’esperienza della solidità.
L’anima, la statua non sente i corpi in se stessi, ma solo le sue sensazioni. Cos’è fare esperienza del
proprio corpo? È costituire l’unità e continuità di una serie di sensazioni distinte e coesistenti
tramite un’esperienza tattile in cui dei due lati della soglia ci sia sempre l’io che risponde. Questo è
fare esperienza del proprio corpo. Significa dare consistenza, costituire nella loro continuità una
serie di sensazioni tattili tutte caratterizzate dal fatto che sono esperienze di solidità, ma in cui c’è
sempre l’io a confermare che quelle sensazioni gli appartengono. Prendere coscienza del suo corpo
significa esplorarlo in questa maniera quindi definirne l’estensione definendola mano a mano che la
si sente. Viceversa non c’è appropriazione di entrambi i lati della sensazione di solidità nella
conoscenza dei corpi altri dal proprio.

Nel tatto la statua accede al proprio io costituendolo tramite una esplorazione corporea, che
definisce via via i limiti del corpo come totalità vissuta. Dare consistenza al proprio corpo e agli
altri è il risultato di una esplorazione progressiva, che costituisce la frontiera tra io e non io.
Questo fa sì che Condillac pensi a proposito del tatto una forma di identità, cioè di costituzione
dell’io, che non è temporale, legata alla percezione della persistenza di un medesimo nel passaggio
del tempo, ma è locale, una identità di luogo, ciò in cui io posso espandermi continuando a sentire
la risposta “è mio” dai due lati. Io non sono ciò che permane nel tempo malgrado le differenze – la
risposta che davano i sensi precedenti: sono ciò di cui mi ricordo e che sento attualmente, la mia
storia -, io sono l’ambito di sensazioni che posso esplorare con continuità e che definiscono il
perimetro del mio essere. Terza osservazione: la frontiera non è più tra io e non io, o tra dentro e
fuori, - per Cartesio le cose esterne a me – ma tra familiare ed estraneo. Il Leib è l’ambito di ciò che
mi è famigliare, laddove il corpo, Körper l’ambito dello straniero. Una posizione nuova in cui la
coppia che l’articola non è più dentro-fuori, ma familiare-straniero.
Ulteriore osservazione che in base a questa analisi non c’è scoperta del corpo proprio che precede
quella degli altri corpi: il mondo non giunge dopo aver costituito l’io. Questo si costituisce
corporeizzandosi, cioè facendo l’esplorazione del proprio corpo, ma costituendosi definisce
immediatamente anche l’esistenza e i limiti del mondo. Non c’è quindi salto necessario da un io che
si costituisce senza il mondo e autonomamente e un mondo che va poi recuperato, in cui bisogna in
qualche modo entrare. Perché se ne è stati esclusi in virtù della costituzione dell’io perfettamente
autonomo. Ma i due mondi, mio e fuori di me cioè familiare ed estraneo, si costituiscono
simultaneamente: sono i due lati che man mano che esploro la frontiera scopro come mio e non mio.
Nel caso della frontiera interna del corpo ne definisco i limiti, in quella esterna pongo solo
l’esistenza senza definirne i limiti, almeno in prima istanza.
Il che vuol dire che C. in qualche maniera riesce o tenta o spera di poter costituire il fenomeno
mondo come un fenomeno interno alla coscienza, ma nel quale è possibile individuare
un’esperienza della estraneità. La statua non sa niente dei corpi in quanto esistenti fuori di lei.
Fenomeno interno della coscienza che può essere caratterizzato dal tratto dell’estraneità, del non
me. Quindi una possibilità di pensare il mondo esterno senza pensarne l’esternità come un fuori
dalla coscienza, ma come un modo dell’averne la coscienza caratterizzato dall’averlo come
estraneo. Husserl: come accediamo al fenomeno del mondo? Come accediamo alla sfera dei
fenomeni una regione di essi che sono estranei all’io, che non gli appartengono, ma che in qualche
maniera stanno fuori di noi? C. pensa che l’operatore della solidità permetta di articolare questa
distinzione di regioni fenomenologiche all’interno della coscienza: una regione io e una regione
mondo.
Dalché lo stretto parallelismo nel modo di costituzione del mio corpo e di corpi altri dal mio. Il
modo di costituzione dei corpi esterni è identico al modo di costituzione del corpo mio. È un
tentativo attraverso il tatto di rispondere alla domanda sulla conoscenza del mondo esterno: non è
una prova in senso tecnico perché non si parte da un punto in cui il mondo non è dato e si approda
alla certezza della datità del mondo nella sua esistenza, ma è una prova in senso lato perché ci
illustra come in virtù di un artificio della natura e di una serie di operazioni – protocollo genetico –
che permettono una esplorazione progressiva che si costituisca un fenomeno come quello del
mondo esterno. Che si sviluppi quindi una abitudine, una facilità a porre l’esistenza di corpi diversi
dal mio.

Una dimostrazione in Cartesio. Una negazione del bisogno di una dimostrazione in Berkeley,
perché porre degli oggetti che esistono in maniera assoluta fuori e immediatamente dalla mente
coincide a pensare a un quadrato rotondo. Una descrizione di come noi si pervenga, in virtù
dell’esperienza tattile, a costituire due regioni percettive, l’io e il mondo. Passo ultimo sarà Kant in
cui ci sarà un tentativo di negare l’esigenza di una prova perché non c’è le necessità di un passaggio
ma i due sono dati insieme, mondo interno e mondo esterno, soggettività e mondo sono dati insieme
per la loro necessaria reciproca costituzione.

Il resto del capitolo è dedicato a dettagliare come questa esplorazione di cui C. ci ha dato la formula
chiave si produca concretamente, prima da un punto di vista pratico, come si riproponga di pensare
prima i fenomeni legati al desiderio e poi cosa produca da un punto di vista della conoscenza
intellettuale, facendo (…) di quali idee la statua in virtù del tatto è in grado di formare.
La descrizione che C. fa di questa serie di esperienze è segnata dalla constatazione che la statua
all’inizio è stupefatta in qualche maniera del fatto che non si ritrova in ciò che tocca, che il suo
corpo non sia coestensivo alla totalità delle cose che percepisce dal punto di vista tattile, ma che
mano a mano che fa esperienza tattile riesce sempre meglio a precisare i contorni del suo corpo e
del mondo esterno.

Il capitolo sesto e settimo analizzano la dimensione pratica della vita della statua ridotta al tatto. In
particolare sottolineano che la statua in qualche maniera prova piacere a espandere la propria
esistenza tramite esplorazione tattile del mondo e quindi prova un piacere estrinseco nel muoversi,
come occasione per precisare la frontiera tra io e non io. E quindi a scoprire sempre nuovi ambiti di
non-io e confrontarli sempre in maniera più precisa con l’io. Perciò tutta una serie di fenomeni che
Condillac sottolinea di esplorare il mondo a tastoni, in maniera sempre più precisa, maneggiare
soprattutto le cose più facili a maneggiare o più strane. Le cose che più contrastano sono oggetto di
una attenzione più grande e di una sorta di un continuo espandersi di questa esperienza. E il fatto
che questa esperienza poi possa essere, a differenza delle altre ma già in maniera analoga alla vista,
condotta dalla statua stessa, che possa muoversi, che non sia solo esposta alle sensazioni tattili, ma
che possa procurarsele essa stessa, tramite movimento. Il che fa sì che la statua riesca a formare in
qualche maniera, di accedere a nuovi tipi di desideri, perché ha nuovi tipi di piaceri. Il suo desiderio
nel caso degli altri sensi consisteva nello sforzo delle facoltà dell’anima per riproporgli un’idea
piacevole che aveva già provata. L’idea era la sola sua gioia che poteva procurarsi da se stessa
perché non poteva darsi sensazioni, ma nel caso del tatto il desiderio prende una forma nuova,
un’azione di tutte le parti del corpo verso nuove sensazioni, slancio, tendenza. Fa sì che si
sviluppino anche nuove passioni, che non riguardano più soltanto le sue maniere d’essere, ma il
mondo. Il desiderio è esteriorizzato. Prima potevo ritornare a essere quell’odore piacevole mentre
ora è un odore spiacevole, ecc. Ora invece posso sviluppare una passione, un desiderio che non è
più soltanto autocentrato, ma è eterorivolto, posso voler percepire nuovi corpi piacevoli. Maniere
d’essere che situo negli oggetti stessi. Come c’è la possibilità di costituire un mondo estraneo, così
posso rivolgere i miei desideri a questo mondo estraneo. Non desiderio di qualcosa di preciso, ma di
qualcos’altro di piacevole. Descrizione della curiosità, genesi: prima si agita, incontra qualcosa di
piacevole, fissa l’attenzione, ha il desiderio di fondersi con esso, poi la fatica, ricordo di altri piaceri
precedenti, nuovo desiderio, nuova agitazione che può essere ritorno a ciò che ha provato, in questo
ritorno può capitare di scoprire qualcosa di inedito e altrettanto piacevole. Questa serie di fenomeni
gli fa sviluppare la speranza che potrà ottenere in futuro altre sensazioni spiacevoli inedite diverse
da quelle che ha già provato. Comincia a giudicare che ci sono scoperte da fare per lei. Diventa
quindi capace di provare il desiderio di qualcosa di nuovo o curiosità, che nasce quando la statua ha
fatto nuove scoperte e ha i mezzi, pensa di avere i mezzi per farne di ulteriori. Errore dovuto alla
costituzione del fenomeno della curiosità. Desiderio senza fine, desiderio di desiderare
ulteriormente, caratterizzazione che C. eredita da Hobbes, primo grande pensatore della curiosità
come passione, principio motore della vita psichica, desiderio del nuovo in quanto nuovo, cioè falsa
deduzione dalla esperienza precedente di una possibilità di una esperienza inedita piacevole che
venga a stupirmi ulteriormente. La statua riesce a sviluppare questo rilancio perché come nel caso
della vista ma ancora più nettamente può con il tatto esplorare da sé, dirigere le esperienze che fa
con motilità autonoma. Secondo elemento: rapporto con un mondo che ora è esterno, non solo
sensazioni proprie, quindi l’esteriorità può essere il luogo di una scoperta dell’inedito. La statua
mano a mano che entra nel mondo e fa passi sempre più grandi nella esplorazione del mondo che
non è lei sviluppa bisogni e desideri nuovi, in particolare questo desiderio di desiderare ancora e
ulteriormente, basato sul giudizio o speranza che ci sono altre scoperte da fare, che diventa un
motore della vita psichica.

4/5/22
Terza parte del Trattato di Condillac si limita ad applicare a quanto scoperto col tatto agli altri
sensi. Abbiamo scoperto la curiosità. Il desiderio non riguarda più le mie maniere d’essere passate,
ma degli oggetti che esse siano parti del corpo non ancora conosciute o oggetti estranei a me. La
statua è assegnata a un mondo e il suo desiderio è anch’esso mondano, laddove il desiderio era una
figura dell’amore di sé. Qui il desiderio riguarda, è condotto verso cose palpabili.

Dal punto di vista della dimensione intellettuale abbiamo compreso la situazione della statua. Il
principio motore della scoperta di nuove idee è questa motilità comandata dal bisogno, dal piacere,
ma anche dal piacere specifico che è la curiosità. Come di consueto le idee che la statua acquisisce
sono le idee per cui ha qualche interesse – piacere e dolore – che la inducono a conoscere. Nel caso
del tatto oltre al piacere-dolore e al caso c’è un terzo elemento che interviene nella definizione delle
conoscenze che la statua acquisisce progressivamente, cioè la semplicità dei rapporti. La statua nel
caso del tatto acquisisce conoscenze solo in maniera differenziale, cioè confrontando sensazioni
differenti. Caldo-freddo, liscio-ruvido non sono qualità assolute, ma solo relative, laddove i colori,
gli odori e i sapori erano assoluti in qualche senso. Le conoscenze di tipo tattile sono sempre
l’effetto di un apprezzamento relativo. Risultato di un apprezzamento di un rapporto. Il principio
ulteriore è questo principio della semplicità dei rapporti, ovvero di procedere da rapporti semplici a
complessi, in maniera mai diretta, sempre comparativa. Se gli oggetti fossero ugualmente solidi,
duri, caldi, ecc. la statua avrebbe sensazioni senza rendersene conto, confonderebbe i corpi, se non
ci fosse difformità, percezione dello scarto non avrebbe nessuna idea delle qualità tattili delle cose. i
primi tipi di scarti sono quelli interni a una qualità specifica: scarti di calore, ruvidità, durezza. E poi
si procede progressivamente ad apprezzare scarti sempre più complessi. Questo è il principio
generale, che C. mette in opera associandolo a quello della curiosità. La statua in qualche modo va a
tastoni nel mondo cercando all’inizio scarti netti e poi sempre più precisi. Si comincia a farsi un
mondo. Il mondo è molto vago. La statua comincia a orientarsi in questo mondo buio pesto col
tatto: c’è un tavolo, poi una cosa meno ruvida del tavolo, il tavolo ha due lati, e così via. Più
rapporti sono multipli più la statua prova interesse a esplorare. È un circolo virtuoso che le permette
di inoltrarsi verso conoscenze sempre più specifiche. La statua è in grado di circoscrivere i corpi,
cioè percepire delle forme, cioè appunto sentendo la solidità e la continuità di un rapporto di
continuità circoscrivere un corpo. Le porzioni di estensione che non può separare o che separa
difficilmente le rende un oggetto, cosa che l’occhio non era in grado di fare. È soltanto in virtù della
percezione di uno scarto. La statua sarebbe stata indifferente alle forme se fossero state tutti
conformi. Approccio comparativo. Cosa c’è dietro a questa insistenza dietro alla dimensione
comparativa? Il fatto che abbiamo due mani, non una sola. È una banalità, una datità primordiale
che fa sì che noi tendiamo a sentire insieme due cose e a confrontarle immediatamente. Quando
tocchiamo tocchiamo sempre a due mani. C’è scarto: c’è quindi interesse ad apprezzare la
differenza. Quindi di nuovo sembrano degli assiomi che C. facilmente si autoaccorda, ma in realtà
sono le controparti di una nostra dimensione fisiologica, che C. mette fuori dall’analisi
propriamente coscienziale che è la sua, perché la statua è fatta fisiologicamente, da un punto di vista
delle forme, come noi, con due mani, occhi, piedi, ecc. Ci dice anche come si costituisce
l’esperienza dei corpi. L’esperienza che C. definisce da un punto di vista della statua che ha il tatto
è di due tipi: da un lato sensazioni semplici, variazioni di una sola sensazione. Se sono uniformi,
identiche le sensazioni quello che distinguiamo sono i gradi e lo distinguiamo con grande difficoltà.
Il tatto fa fatica a dirci che rapporto c’è tra gradi diversi di calore o di freddo in un corpo che
percepiamo. Le differenze sono percepite in maniera imperfetta. Anche quando si confrontano
sensazioni che sono semplici, ma di genere differente. Si confrontano per esempio una cosa che è
soltanto calda e un’altra soltanto fredda. La statua dice: questo non è quell’altro, si accorge che
freddo e caldo non possono sussistere nello stesso oggetto contemporaneamente. Sviluppa l’idea dei
contrari, l’idea di due sensazioni contraddittorie. Per le altre sensazioni questo non c’è mai stato.
Due odori o sapori non sono contrari, cioè contraddittori, laddove nel caso del tatto questa
esperienza accade. Questo per quanto riguarda le percezioni semplici, uniformi rispetto a un solo
aspetto della cosa che sto analizzando.

Quando invece ho a che fare con percezioni multiple: sento un composto di percezioni tattili – in
questo caso di nuovo posso escludere una dall’altra le cose, ma posso anche analizzare ognuna di
quei due oggetti e farmi un’idea di questo oggetto, mettendo insieme, componendo le varie qualità
che sperimento in lui, con una serie di confronti che riguardano gli oggetti tra di loro. Dell’oggetto
in se stesso una parte è diversa dall’altra. Quindi tramite una serie di atti comparativi ottengo la
costituzione di un mondo fatto di oggetti, composti, insiemi di sensazioni che sperimento essere
insieme, in una figura della quale vedo il carattere chiuso, integro. Appartengono al mondo non
mio, giudico essere fuori di me. Così ho ottenuto i vari oggetti del mondo.
Condillac chiama questa serie di operazioni ‘riflessione’. Per noi ha a che fare con il ritorno
dell’anima su se stessa: operazione spirituale che caratterizza la capacità dell’anima di piegarsi, di
riflettersi su se stessa. A cosa dobbiamo pensare? A quella macchina dell’aspiratore di polvere
automatizzato. Questo riflette: a forza di sbattere più volte costituisce un’idea della stanza e non ci
va più a sbattere, ha costruito il suo mondo. Per riflessione: andando avanti per differenze,
percezioni che giudica distinte mette insieme – lo fa solo da un punto di vista della geometria basica
il robottino. Noi lo facciamo in maniera più complessa, non solo per la figura, ma anche per le altre
qualità tattili: texture, freddo-caldo, molle-duro, ecc. Dobbiamo immaginare però la statua e noi
stessi come un robottino-aspirapolvere che combina le sensazioni. Riflessione: costruzione di
oggetti tramite determinazione di rapporti, esterni tra oggetti e interni tra le varie qualità di oggetti.

Abbiamo quindi una nuova comprensione di che cosa sia un oggetto, diverso dal mio corpo: la
percezione di grandezza, solidità, ecc. che scopro unite. Gli basta sentire delle qualità di percezioni
che vanno insieme. Non c’è nessun sostrato o soggetto dei corpi percepito, sostegno. C’è un insieme
di qualità come per Berkeley. Semplice aggregato cioè di fatto una abitudine che noi ci facciamo a
sperimentare insieme una serie di qualità tattili. Questo è visibilissimo per differenza dalle altre
cose che non sono la statua. Stessa logica dei corpi esterni anche per il corpo proprio. Come faccio a
sapere che il mio corpo è fatto così? Lo so perché ho cominciato a fare esperienza di una serie di
forme e per differenza posso diventare attento alle forme che sperimento nel mio proprio corpo e
dare anche a lui una forma. La costituzione del corpo proprio non la dettaglia, gli interessa capire
come abbiamo un mondo esterno di oggetti in cui ci muoviamo, ma per il corpo proprio avviene lo
stesso. In un ambiente asettico la statua non riuscirebbe nemmeno ad avere coscienza del proprio
corpo, non avrebbe la possibilità di fare quella riflessione appena descritta. Noi siamo un robottino
che scopre via via il mondo e scopre la sua stessa forma. Una costruzione progressiva di sé e del
mondo che non prevede nessun tipo di sostrato o di soggetti, ma soltanto uno spazio condiviso in
cui il sé e il mondo interagiscono e che un po’ alla volta esploro e definisco nei suoi tratti.

Come faccio a distinguere qualità primarie e qualità secondarie? Le sue proprie sensazioni
divengono le qualità proprie degli oggetti. Da un punto di vista esterno, logico ci sono solo qualità
secondarie che lui spalma sugli oggetti. Ma se le sensazioni sono vive, le giudica al contempo nella
sua mano e nel corpo che tocca. Laddove invece se sono deboli, come un calore invece moderato,
non le mette che nel corpo che tocca. Così può cessare di considerarle come appartenenti a lei, ma
non cessa di attribuirle agli oggetti che le occasionano. È un errore che gli altri sensi non hanno
potuto fare perché percepivano sempre le sensazioni come sé modificato diversamente. La
spiegazione di C. è che per quanto riguarda la percezione delle qualità secondarie quando è intenso
lo metto nel soggetto e nell’oggetto, quando è debole solo nella cosa. Da un punto di vista astratto ci
sono solo qualità secondarie, perché quello che so delle cose è una organizzazione delle percezioni
che ne ho. Sono sensazioni tutte le qualità secondarie per Berkeley: anche la estensione. C. dice che
in realtà l’esperienza che fa la statua può vedere introdursi un errore che consiste nel distinguere
due generi di percezioni, delle percezioni che tendo a mettere e in me e nella cosa e delle percezioni
che invece tendo a mettere soltanto nella cosa. Quando c’è un calore intenso dite che il fuoco brucia
e scotta. C. dice che quando il fuoco è mano forte e sento un calore che non è troppo intenso dico
solo che la cosa è calda non che scotta. Riesco a distinguere in qualche maniera casi in cui faccio
attenzione sia alle qualità della cosa che alle qualità o sensazioni che la cosa produce in me: è un
errore, perché sempre si tratta di sensazioni che ho, ma un errore che mi permette di comprendere
perché la mia esperienza del mondo presenta una diversità tra qualità primarie e secondarie.
Condillac ha bisogno che questo sia un errore strutturale della nostra vita psichica, perché altrimenti
non avremmo un animale in grado di conservarsi, non in grado di distinguere fenomeni piacevoli,
da dolorosi. C. sta descrivendo un animale capace di distinguere qualità primarie, da secondarie,
capace di provvedere alla propria autoconservazione.

Nel seguito del capitolo ottavo Condillac ci propone alcune altre considerazioni sul tipo di idee
astratte, tratte dall’esperienza di qualità comuni a più sensazioni accessibili dalla statua nella sua
dimensione tattile: idea innanzitutto di numero, scopre le proprie mani quindi prende coscienza di
avere cinque dita e perciò comincia a poter contare a più di tre, fino a cinque se non addirittura a
dieci. Perciò comincia a poter distinguer più di solo tre qualità, perché può numerarle. L’idea è che
avendo le mani possiamo contare, avere un’idea di numero non solo di unità o fino a tre. Abbiamo
così la nascita spontanea dei sistemi numerari, a base 5 o a base 10.
Altro tipo di idee astratte o comuni di caratteristiche sensibili è una nuova idea di durata, prima
legata alla successione delle proprie percezioni contate configurandosi come spazio di tre percezioni
preceduto da una eternità indietro e una eternità avanti del tutto indeterminata. La nuova durata
riesce in qualche maniera a mettersi nello spazio, immaginata a partire da una grandezza,
sviluppando una immagine del tempo su una linea. Un’altra immagine spontanea che abbiamo di
una linea del tempo, su cui qualcosa si muove e la durata è la capacità di contare, dare un numero a
questo movimento sulla linea del tempo. Aristotele: numero del movimento secondo il prima e il
poi, cioè la misura. Esattamente questo per C.: quando ha il tatto la statua riesce a misurare il tempo
come su una linea contando il movimento, le grandezze percorse, prendendo un’unità di misura, su
questa linea. Una linea che ha un’estensione limitata alla capacità di contare, ma che può essere in
qualche maniera prolungata indeterminatamente indietro e in avanti. La statua si pensa quindi come
eterna nel passato e nel futuro. Idem per la nozione di spazio, che è il frutto dell’applicazione della
nozione acquisita di grandezza alla taglia dei corpi e anche alla distanza dei corpi, non occupata dai
corpi stessi. Possiamo prendere uno standard di unità di misura, dire che un corpo occupa un tale
spazio e anche in generale misurare lo spazio che separa due cose solide, verificando quante volte
l’unità di misura scelta occupa lo spazio. Idea dello spazio come luogo dei corpi. Possiamo
prolungarla indefinitamente e abbiamo quindi anche una nozione di immensità da un punto di vista
spaziale. Forma nuova di nozioni ottenute già con altri sensi.

Possibilità di costruire astrazioni, cioè idee generali è immensamente più grande con il tatto, perché
non produce solo astrazioni delle qualità tattili che sperimenta, ma anche un numero non
determinato a priori di idee astratte degli oggetti, come l’idea generale di che cos’è un cubo di 9
metri, di un cono con una base molto larga, ecc. Può produrre idee generali tante quante sono i tipi
di corpi che individuano il mondo.

Ultima nozione che la statua riesce a produrre è quella di idea stessa, una nozione astratta di idea.
Come fa? Le sensazioni sono idee per la statua. A ogni scoperta che la statua fa prova che il proprio
di ogni sensazione è di farle prendere coscienza o di qualche sentimento presente in lei o di qualche
qualità presente fuori di lei – così le giudica -, cioè che il proprio di ogni sensazione è idea. Idea
significa impressione, sensazione che produce una conoscenza. La statua si rende conto che le sue
sensazioni, benché di diverso genere, qualità primarie e secondarie anche, malgrado la loro
differenza sono tutte informative. Tutte le sensazioni possono quindi essere ricondotte in maniera
generica sotto la nozione di idea: qualcosa che ci informa con qualche informazione. Il ricordo è
ancora un’idea, perché riporta alla mente una conoscenza. Quindi nella memoria ci sono idee
intellettuali o idee e nell’attualità sensazioni. La differenza è solo di grado, ancora una volta. Idee
semplici e sensazioni, questo fa sì che si possa descrivere in maniera efficace la vita della mente
come di un vivente che ha sensazioni attuali e stock di idee. Cioè la statua comincerà a pensare se
stessa come una mente che ha percezioni attuali e idee intellettuali, cioè percezioni passate nella
memoria pensate come sensazioni informative o idee.
C. fa questo per mostrare come ci capita di sviluppare la credenza alle idee innate. Questo
immagazzinamento di idee nella memoria sono sensazioni ritenute. Comincio a pensare le
sensazioni come idee intellettuali, a poco a poco mi dimentico di averle acquisite e posso addirittura
approdare a credere di averle fin dalla nascita. Esperienze di profili triangolari mi hanno portato ad
avere la nozione astratta della triangolarità, che si sedimenta nella mia memoria e posso
dimenticarmi di questa genesi pensando che sia un’idea innata.
Disputa contro Locke nella sua attualità.

I capitoli seguenti della seconda parte non aggiungono molto e soprattutto riguardano temi per noi
meno interessanti sul sonno, immaginazione. Ultima sezione del capitolo ottavo. La statua può fare
molte cose, ma appena in maniera accennata, perché la sua è una esplorazione pratica, guidata da
ciò che incontra, dagli interessi personali. Quindi non dobbiamo immaginarci a statua come
provvista di una descrizione esatta di ciò che la circonda. Come delle mappe piene di imprecisioni,
dedotte dal viaggio e non da una immagine satellitare che siamo riusciti a ottenere. Produce
un’immagine non lontanissima da quella reale, ma in molti casi errata.

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