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FICHTE

La ricerca della libertà e la tensione etica


Il pensiero del filosofo Johann Gottlieb Fichte, padre dell’idealismo tedesco, si basa
sul valore da dare alla verità, che non sta nel possederla, ma nel costante lavoro per
raggiungerla. Il possesso è pigrizia e orgoglio, mentre la ricerca è impegno ed
attività. La vita di Fichte è, infatti, l’esemplificazione di questo principio, cioè
sforzarsi per diventare liberi. Nato da una famiglia poverissima, già da giovane inizia
a farsi strada, e, grazie all’aiuto di un signore del suo villaggio, riesce a compiere i
primi studi nel collegio di Pforta. A diciotto anni inizia a frequentare l’università e
per guadagnarsi da vivere fa il precettore in Germania e Svizzera. Resta affascinato
da Kant dopo aver letto le tre Critiche, infatti si recherà a Konigsberg per ascoltare le
sue lezioni e fargli leggere il manoscritto della sua prima opera: il Saggio di critica di
ogni rivelazione.
Accusato di ateismo per aver identificato Dio con l’ordine morale del mondo nel
Giornale filosofico, si trasferisce a Berlino, dove entra a contatto con i maggiori
esponenti del Romanticismo tedesco, come Schlegel e Schleiermacher. Durante il
suo soggiorno in Germania, sotto il dominio delle truppe napoleoniche, Fichte scrive
i Discorsi alla nazione tedesca, in cui invita i tedeschi a insorgere contro lo straniero,
proponendo una nuova forma di educazione incentrata sull’amore per la libertà e il
primato culturale e spirituale. Nel 1810, istituita l’Università di Berlino, fu chiamato
prima ad insegnarvi, poi ne divenne rettore. Negli ultimi anni il filosofo integra
l’interesse etico con quello mistico-religioso, che lo porterà a definirsi “sacerdote
della verità”. Morirà di colera nel 1814.

L’io come principio assoluto e infinito


Il centro della filosofia di Fichte è l’aspirazione alla libertà. Egli fa partire la propria
riflessione dalle critiche mosse dai circoli antikantiani, portandole alle estreme
conseguenze. Esse si basavano principalmente su due punti: 1) la preesistenza di
una “cosa in se” indipendente dal soggetto e fuori dalle sue possibilità conoscitive,
2) il problema irrisolto dell’origine del materiale sensibile della conoscenza. Per Kant
l’io penso trascendentale, infatti, non era creatore, ma solo ordinatore della realtà
sensibile, e che quindi non si può ridurre al soggetto nella sua realtà “in se”. Se il
mondo dell’esperienza possibile è quello della rappresentazione, cioè il mondo
fenomenico di Kant, per Fichte non si può ammettere nulla al di fuori del soggetto
stesso, che non è più limitato ad una presunta realtà noumenica, ma è assoluto ed
infinito. Il “Grande Io” è il punto di partenza del sistema filosofico di Fichte, che deve
dimostrare tutti gli oggetti, cioè la natura, le cose e il nostro corpo.
Secondo Fichte, Kant era ancora limitato alla visione dogmatica della conoscenza,
dunque, seppur aprendo la strada alla prospettiva idealistica, pose dei limiti al
soggetto introducendo qualcosa di esterno ed irriducibile ad esso, cioè il noumeno.
Per questo non era riuscito a liberare l’Io da ciò che era esterno da esso. Fichte con
l’idealismo va a negare l’esistenza di una realtà esterna ed indipendente dall’uomo e
afferma l’infinità del soggetto, così che l’Io, divenendo originario, e principio da cui
tutto il mondo trae il suo significato e anche la sua realtà, possa essere liberato dalla
condizione di dipendenza da un mondo esterno.

La differenza tra dogmatici e idealisti


Fichte esprime le sue tesi principali in merito al dogmatismo e all’idealismo nella
Prima Introduzione alla Dottrina della Scienza, in cui egli li riconosce come i sistemi
filosofici a cui possono essere ricondotti tutti gli altri. La scelta di uno fra i due
dipende dal temperamento e dall’etica del singolo. Infatti, secondo Fichte un uomo
fiacco e inerte sarà per natura orientato verso il dogmatismo, che con una visione
strettamente materialistica e determinista, che considera la soggettività come
dipendente dalla realtà esterna, va a ridurre l’autonomia dell’Io. Al contrario, un
uomo attivo e dinamico sarà attratto dall’idealismo, che vede nell’Io infinità e
assoluta sovranità. La conseguenza fondamentale della svolta idealista, dunque,
permette all’individuo di raggiungere la piena realizzazione nel campo etico, perché
accoglie l’assoluta libertà del soggetto, mentre il dogmatismo lo rende prigioniero
dell’idea che tutta la nostra conoscenza dipenda dalle cose, negando libertà e
moralità. Quella dell’idealismo è una scelta di vita che coinvolge tutti gli aspetti della
personalità e che richiede un impegno totale e incondizionato.

L’Io e i tre momenti della vita dello spirito


L’Io di Fichte non può essere ne immobile ne statico, perché anelito verso la libertà,
e quindi spirito in infinita tensione verso un’ideale meta di perfezione. Possiamo dire
che “l’Io deve essere”, cioè è impegnato in un costante processo di
autorealizzazione. Questo Io non coincide con l’Io empirico, cioè l’Io personale di
ciascun individuo, ma con l’Io puro o universale, inesauribile attività creatrice. E’
creatore perché da senso e realtà al mondo che diversamente non potrebbe
esistere. Cioè, qualsiasi cosa, come le montagne o gli oceani, non esisterebbero
senza una coscienza che li percepisca come esistenti e che li illumini per farli
accedere al mondo del significato. Assunto ciò, Fichte identifica tre diversi momenti
essenziali in cui si articola l’Io spirito: tesi, antitesi e sintesi.
Nel momento della tesi l’Io pone sé stesso, cioè si rivela come attività autocreatrice.
Questo principio non può essere soggetto a dimostrazioni perché si tratta di
un’intuizione intellettuale originaria che coglie l’identità dell’Io con sé stesso (Io =
Io). Questo è sia un principio logico, sia ontologico, perché è l’Io stesso a creare la
propria essenza costruttiva, dunque l’Io puro è un’incondizionata attività creatrice
che ha immediata consapevolezza di sé: esso è autocoscienza o egoità.
Nel momento dell’antitesi l’Io si afferma, si determina, si distingue e si contrappone
al diverso da se, dunque l’Io pone il non-Io. Essendo una suprema attività, l’Io ha
bisogno di qualcosa di diverso da se per realizzarsi, quindi il non-Io costituisce la
natura intesa come il regno dei limiti.
Nell’ultimo momento, quello della sintesi, si giunge alla concreta situazione del
nostro essere nel mondo, in cui si fronteggiano una molteplicità di cose, quindi il
non-Io, che Fichte definisce Io finiti. Secondo questo principio: “l’Io oppone, nell’Io,
all’io divisibile un non-Io divisibile”, dunque l’Io, avendo posto come antitesi
indispensabile alla sua attività il non-Io, si va a particolarizzare nei singoli io empirici
e finiti che costituiscono il mondo nella sua concretezza e molteplicità.

La natura e la materia
Fichte vuole dimostrare come la natura e il mondo non siano realtà autonome e
indipendenti dal soggetto, come materia esistente prima della sua conoscenza, ma
come in realtà siano momenti indispensabili della vita stessa dello spirito, e quindi
esistano per l’Io nell’Io come funzioni della sua opera creatrice. In questa
prospettiva l’Io, nonostante il non-Io e la frammentazione negli io finiti, rimane un
soggetto unico e infinito, in cui i singoli io empirici sono manifestazioni particolari.
La dimostrazione di Fichte parte dalla riflessione che chiede se è davvero l’Io a porre
la realtà come oggetto della sua attività, dato che l’io empirico considera il mondo
come qualcosa di diverso da se. Dunque ci si chiede perché le cose ci appaiono
separate da noi. Fichte considera che l’Io pone il non-Io attraverso un processo
inconsapevole dettato dall’immaginazione produttiva, che da origine alla realtà delle
cose nella loro concretezza, che risulta essere contrapposta ai vari io empirici. Perciò
la funzione produttiva genera in realtà sia l’io empirico sia il non-Io.
Attraverso le varie fasi della conoscenza, quali sensazione, intuizione, intelletto,
giudizio e ragione, il soggetto arriva a comprendere come il mondo sia una
produzione dello spirito, quindi si innesca un processo di riappropriazione della
realtà che lo porta a riconoscersi alla fonte di ogni cosa.
Questo processo, come sappiamo, non può giungere ad una conclusione, perché l’Io
è una forza creativa e spontanea senza fine. Essa consiste nel continuo sforzo di
produzione e superamento del limite in una tensione infinita di
autoperfezionamento che coincide con la ricerca della libertà.
Il carattere etico dell’idealismo fichtiano
La contrapposizione tra Io e non-Io è necessaria anche nella vita morale. Lo sviluppo
dell’Io consiste nel superare l’urto infinito tra se stesso e il non-Io, che si rinnova
costantemente e che consente allo spirito di mostrarsi come soggetto etico. In ciò
risiede la missione di autoperfezionamento secondo cui l’Io è una perenne attività
tesa a vincere gli ostacoli.
Per Fichte il compito dell’uomo è quello di affermare la sua libertà superando le
difficoltà che si frappongono nella sua vita, e questo è uno specchio della vita piena
di stenti del filosofo. Per questo egli tende a interpretare tutto ciò che è un limite o
un ostacolo che lo spirito si pone per mettersi alla prova. L’uomo può essere
soggetto etico soltanto nella misura in cui è autonomo, quindi libero di
condizionamenti esterni come gli istinti e le passioni.

La superiorità morale
Per Fichte il mondo esiste in funzione dell’attività dell’Io e della sua vita morale. Esso
è un presupposto fondamentale per l’azione etica, dunque la vita morale ha il
primato rispetto quella teoretica. L’uomo ha la missione di forgiare se stesso tramite
l’impegno etico e, pur essendo un io finito, deve tendere sempre a realizzarsi come
un Io puro. Come mezzo va utilizzata la cultura, che implica l’idea di una formazione
ed educazione continua, messa in pratica grazie alla ragione, e in grado di
sottomettere gli istinti e la sensibilità, così da sottomettere la materia allo spirito.
Come sappiamo questo obiettivo non ha una fine, dunque è incessante, perché se
svanissero tutti gli ostacoli svanirebbe anche lo sforzo, presupposto della vita morale
e dello spirito. L’io finito non può raggiungere la perfezione e l’infinito, ma è infinito
e sublime il suo impegno continuo di autoperfezionamento.

L’istinto fondamentale dell’uomo


Nonostante l’obiettivo individuale di moralità, va tenuto in considerazione che
l’uomo non è mai solo perché vive con gli altri e ha il compito di contribuire alla
formazione di tutti gli uomini, aiutandoli a prendere consapevolezza della singola
legge morale. L’istinto sociale, quindi, deve essere l’istinto fondamentale dell’uomo.
L’uomo tenta di superare la propria limitatezza partecipando alla vita degli altri e in
questo modo costituisce la società. Quest’ultima ha lo scopo di realizzare la
completa unità di tutti i suoi membri e si fonda sul presupposto che gli altri uomini
sono esseri razionali simili a noi con cui collaborare. Per ottenere questo risultato
bisognerebbe obbedire a due regole: non bisogna trattare gli altri uomini come
mezzi ma come fini, perché calpestando la libertà altrui si distrugge la propria libertà
rendendosi schiavi di passioni ed egoismo; attraverso l’educazione bisogna tendere
non solo al nostro perfezionamento, ma anche a quello altrui.
Va fatta una distinzione tra i concetti di società e Stato. Lo Stato non è un fine, ma
un qualcosa di empirico che può o meno esistere nell’eventualità in cui gli uomini
raggiungano una virtù tale da non avere bisogno di un potere repressivo. Lo Stato ha
i mezzi necessari per far rispettare l’ordine. E’ uno strumento in vista del
miglioramento della società ma non è un fine. Il suo obiettivo è quello di rendersi
superfluo, perché deve rendere la società libera, in cui esiste collaborazione tra gli
uomini e in cui tutte le volontà riescono a trovare un reciproco accordo armonico. Si
tratta di una situazione ideale di società, in cui l’uomo, liberatosi dagli egoismi e
dalle passioni, sia in grado di farsi guidare dalla ragione e sappia porre rimedio agli
errori senza l’influenza di autorità superiori.

La missione del dotto


Fichte assegna un ruolo importante alla figura del dotto, cioè all’intellettuale che
non può vivere isolato incurante della società. La sua missione è nobile perché deve
guidare le classi sociali, ma Fichte non lo pone su un piedistallo. Fichte si riferisce
alla sua profonda cultura, che gli permette di comprendere ciò che gli altri
trascurano, ma al contempo deve sempre migliorarsi, perché dal suo progresso
dipende quello altrui. L’intellettuale deve stimolare le altre persone a perseguire
l’ideale di perfezionamento morale, partendo dalla conoscenza autentica dei bisogni
umani. Per questo Fichte ritiene che la filosofia sia la scienza suprema, perché più
delle altre riesce a penetrare l’essenza delle cose. Spetta all’intellettuale anche
indicare i mezzi più idonei per il raggiungimento della perfezione spirituale, e ancora
una volta la filosofia si dimostra un mezzo fondamentale, perché, acquisiti i dati
storici che ci permettono di cogliere i fatti, la filosofia si occupa di interpretarli e
orientarli verso il futuro, così da poterla utilizzare come punto di riferimento. Storia
e filosofia, dunque, devono essere essenziali nel patrimonio conoscitivo del dotto.

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