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VERGA

VITA
Giovanni Verga nacque a Catania nel 1840 da una famiglia di agiati proprietari
terrieri. Durante i primi studi, presso maestri privati, assorbì in particolare da
Antonino Abate il patriottismo e il gusto letterario romantico, fondamentali nella sua
formazione. In generale la sua formazione fu irregolare, e questo segnò la sua
fisionomia di scrittore che si discosta dalla tradizione. Verga, infatti, si formò sugli
scrittori francesi moderni, come Dumas padre e figlio, e Feuillet, che lasceranno
un’importante impronta sui primi romanzi.
Nel 1869 Vega compie un lungo soggiorno a Firenze, consapevole del fatto che per
diventare uno scrittore autentico doveva venire a contatto con la vera società
letteraria italiana.
Nel 1872 si trasferì a Milano, in cui entrò in contatto con gli ambienti della
Scapigliatura, che influenzarono tre romanzi: Eva, Eros e Tigre reale.
Nel 1878 avviene la svolta verso il Verismo, che si traduce in molte pubblicazioni, tra
cui Rosso Malpelo, Cavalleria Rusticana, Mastro-don Gesualdo.
Nel 1893 Verga ritorna a Catania, e dopo la rappresentazione del dramma Dal tuo al
mio, si chiude in un silenzio totale, dedicandosi alla cura delle sue proprietà agricole.
Le sue posizioni politiche si fanno molto chiuse e conservatrici e a seguito dello
scoppio della Prima Guerra Mondiale si schiera nelle posizioni dei nazionalisti.
Muore nel gennaio del 1922.

I ROMANZI PREVERISTI
La produzione significativa di Verga ha inizio con i romanzi composti a Firenze e a
Milano. A Catania aveva pubblicato Una Peccatrice, un romanzo fortemente
autobiografico che narra la storia di un borghese intellettuale siciliano, che conquista
il successo ma vede inaridirsi l’amore per la donna amata, che così si suicida.
A Firenze pubblica Storia di una capinera, che narra di un amore impossibile e una
monacazione forzata.
A Milano pubblica Eva, Eros e Tigre reale, che analizzano le passioni mondane, la
condizione dell’intellettuale e si inseriscono nella polemica anticapitalista della
Scapigliatura. In particolare Eva narra la storia di un giovane pittore siciliano che,
trasferitosi a Firenze, che brucia i suoi ideali nell’amore per una ballerina, che
disprezza l’arte e lo asservisce al suo bisogno di lusso.
Questi romanzi sono considerati dalla critica degli esempi di Realismo, ma in realtà si
collocano in un clima tardoromantico, con ambientazioni aristocratiche e della
boheme artistica, e con un linguaggio spesso enfatico ed emotivo.
LA SVOLTA VERISTA
Dopo un silenzio di tre anni Verga pubblica Rosso Malpelo, un racconto che si
discosta sia per temi che per stile dalla narrativa precedente. Rosso Malpelo è la
storia di un garzone di miniera che vive in un ambiente disumano, narrata con un
linguaggio nudo e scabro, che riproduce la narrazione popolare con rigorosa
impersonalità. Con questo racconto inizia la nuova maniera verista.
Spesso si parla di conversione al verismo, ma in realtà Verga vi approda in maniera
graduale. Due anni prima, infatti, aveva pubblicato un bozzetto di ambiente siciliano,
Nedda, che descriveva la vita misera di una bracciante. Nonostante il mutamento
degli ambienti, rimanevano i toni melodrammatici e il gusto romantico.
Verga descrive il vero a partire dai tempi di Eva, Eros e Tigre reale, anche se ancora
possedeva mezzi approssimativi e inadatti.
L’approdo al Verismo è, dunque, il frutto di una chiarificazione progressiva di
propositi già radicati e la conquista di strumenti concettuali e stilistici più maturi,
cioè la concezione materialistica della realtà e l’impersonalità.
La svolta Verista, inoltre, non va interpretata in termini moralistici. Verga non vuole
abbandonare gli ambienti dell’alta società per dedicarsi a quelli popolari, ma, come
scrive nella prefazione dei Malavoglia, si propone di studiarli in maniera più incisiva e
sfruttando i nuovi metodi. Il popolo è il punto di partenza per lo studio dei
meccanismi della società, perché propone meccanismi meno complessi, che vanno
applicati agli strati superiori dell’aristocrazia.

POETICA E TECNICA NARRATIVA VERISTA


Alla base del nuovo metodo narrativo si colloca la poetica dell’impersonalità.
Secondo la sua visione, la rappresentazione artistica deve conferire al racconto
l’impronta di cosa realmente accaduta, e perciò deve riportare “documenti umani”. Il
modo di raccontare deve porre il lettore faccia a faccia col fatto nudo e schietto, in
modo che non abbia l’impressione di vederlo tramite l’occhio dello scrittore. Lo
scrittore, dunque, deve eclissarsi, non deve inserire reazioni soggettive, riflessioni,
spiegazioni, ma deve mettersi nella pelle dei suoi personaggi, vedere le cose con i
loro occhi ed esprimerle con le loro parole. Il lettore deve percepire i fatti come
narrati sotto i suoi occhi, senza che nessuno spieghi gli antefatti e che tracci un
profilo dei personaggi. Il loro carattere deve rivelarsi man mano che procedono
azioni e parole, e a tal fine eliminare qualsiasi artificiosità letteraria.
La tecnica dell’impersonalità non è da vedersi come un metodo filosofico, ma
piuttosto come un procedimento tecnico ed espressivo, un modo di dare forma
all’opera per conseguire determinati effetti artistici.
In sintesi non si trova il narratore onnisciente tradizionale, come in Manzoni o Scott.
Il narratore si mimetizza tra i personaggi stessi, non informa sul loro carattere e sulla
loro storia e non offre descrizioni dettagliate dei luoghi. Il pubblico a cui si rivolge
sembra essere quello dello stesso ambiente, e se il narratore commenta i fatti lo fa in
base alla visione elementare della collettività popolare, che non riesce a cogliere le
motivazioni psicologiche delle azioni e le deforma in base ai suoi principi
interpretativi.
Di conseguenza anche il linguaggio muta. Esso è spoglio e povero, ricco di modi di
dire, paragoni, proverbi, imprecazioni popolari, dalla sintassi elementare e scorretta
da cui traspare la struttura dialettale.

L’IDEOLOGIA VERGHIANA
Il principio dell'impersonalità di Verga nasce da posizioni radicalmente pessimistiche.
Nella Prefazione ai Vinti Verga ritiene che l'autore non abbia il diritto di giudicare la
materia che rappresenta. Questo pensiero scaturisce dalla convinzione che la natura,
l'uomo e gli animali siano governati da leggi universali rigide e immodificabili. Il
meccanismo che si innesca è quello della lotta per la vita, secondo cui il più forte
schiaccia il più debole. Quindi la generosità, l'altruismo, la pietà sono valori che non
trovano posto nella realtà, perché gli uomini sono mossi dall'egoismo e dalla volontà
di sovraffare gli altri. In quanto legge naturale, si tratta di una legge immodificabile, e
perciò non si possono modificare di conseguenza la realtà esistente, né del futuro,
né del passato. Questo si ripercuote anche sullo scrittore. Se è impossibile
modificare l'esistente, ogni intervento giudicante appare inutile e privo di senso, e
allo scrittore non resta che riprodurre la realtà così com'è. Il giudizio correttivo,
l'indignazione e la condanna esplicita sono atteggiamenti di chi ha fiducia nella
possibilità di modificare il reale.

Il pessimismo di Verga ha una connotazione fortemente conservatrice, a cui si


associa un rifiuto esplicito per le idee progressiste contemporanee, democratiche e
socialiste.
Il suo pessimismo, però, non implica l'accettazione della realtà esistente, ma
consente a Verga di cogliere ciò che c'è di negativo nella realtà senza filtri.
Anche se non da giudizzi correttivi, Verga rappresenta con grande acutezza
l'oggettività delle cose, quindi il pessimismo non è un limite, ma la condizione del
suo valore conoscitivo e critico.
Inoltre assicura a Verga l'immunità dai miti che trionfani nella letteratura
contemporanea, cioè il mito del progresso e il mito del popolo.
Anche se il popolo si trova al centro delle opere di Verga, in realtà queste non
possiedono un atteggiamento populistico, che consiste nella pietà per le miserie
degli umili e nella fiducia di un miglioramento del paternalismo benefico dei ceti
privilegiati. La scelta di regredire nell'ottica popolare, di raccontare dal punto di vista
della lotta per la vita, che nega ogni valore di umanità e di altruismo, costituisce la
dissacrazione più impietosa di ogni mito populistico progressivo.
È assente anche il populismo di tipo romantico e reazionario. Pur sottolineando la
negatività del progresso moderno, Verga non contrappone ad esso il mito della
campagna, della civiltà contadina arcaica, concepita come Eden, perché il
pessimismo induce Verga a vedere che anche nel mondo primitivo della campagna
sono presenti le stesse leggi del mondo moderno, e dunque l'interesse economico,
l'egoismo e la ricerca dell'utile.
Per questo Verga è uno scrittore scomodo, perché non propone immagini
consolatorie, ma aspre e sgradevoli che stimolano la riflessione critica.

IL VERISMO DI VERGA E IL NATURALISMO DI ZOLA


Le differenze che separano il verismo di Verga e il naturalismo di Zola sono molte.
Innanzitutto per quanto riguarda le tecniche narrative, in Zola la "voce" che racconta
riproduce il modo di vedere e di esprimersi dell'autore, del borghese colto, che
guarda dall'esterno e dall'alto la materia. Sono tanti i giudizi di Zola sulla materia
trattata, come nel secondo capitolo di Germinal, in cui sottolinea la mancanza di
pudore dei giovani usando il paragone dei "cagnolini", e da un giudizio basato sul
suo codice morale borghese.
C'è, quindi, un distacco tra il narratore e i personaggi, mentre in Verga la voce
narrante è interna al mondo descritto e partecipe alla sua visione.
Nell'Assommoir Zola fa un'eccezione in cui riproduce il gergo particolare dei proletari
parigini. La voce narrante si adegua alla mentalità e al linguaggio dei personaggi
popolari e da voce ad un coro che commenta gli eventi. Si tratta però solo di una
soluzione episodica e non totalizzante come in Verga. Le zone in cui parla il narratore
continuano ad avere un linguaggio letterario e colto, lontano dal gergo.
Zola non utilizza la tecnica verghiana della regressione, e la sua impersonalità è
caratterizzata dal distacco dello scienziato che si allontana dall'oggetto per
osservarlo dall'esterno, mentre Verga si eclissa nell'oggetto.

Queste due tecniche narrative sono la conseguenza di due ideologie radicalmente


opposte. Zola crede che la letteratura possa cambiare la società ed ha piena fiducia
nella funzione della letteratura. Inoltre, dal punto di vista sociale, Zola crede questo
perché si colloca nel contesto borghese, essendo egli stesso uno scrittore borghese
democratico, che si confronta con una realtà dinamica, una società sviluppata. In
questo ambiente Zola si sente il portavoce di esigenze reali e sa che può rivolgersi ad
un pubblico in grado di recepire il suo messaggio.
L’ideologia di Verga, invece, si basa sul pessimismo di chi ritiene che la realtà sia
immodificabile. Mentre dal punto di vista sociale Verga è il tipico galantuomo del
Sud, proprietario terriero conservatore, che si confronta con un mondo arretrato e
immobile. Per Verga, quindi, la letteratura può portare alla conoscenza della realtà,
ma non al suo cambiamento.
VITA DEI CAMPI
Vita dei campi è una raccolta di racconti pubblicata nel 1878. In questa raccolta, a
partire da Rosso Malpelo, si legge la nuova impostazione narrativa di Verga, in cui
viene applicata la tecnica narrativa dell’impersonalità e si vedono protagoniste scene
della vita contadina siciliana. Accanto alla rappresentazione veristica si può trovare
ancora un atteggiamento romantico, di vagheggiamento romantico del mondo
arcaico, in antitesi con l’artificiosità borghese. Tendenze veristiche e romantiche
dunque coesistono.
Le tappe che Verga compì nei tre anni di pausa prima di giungere al verismo non
sono note, ma probabilmente fu influenzato da Zola e l’Assommoir, in cui la voce
narrante diviene l’interprete del coro, riproducendone la mentalità e i modi di
esprimersi. Questo suggerì a Verga la tecnica della regressione.
Tra le altre influenze rintracciamo anche Luigi Capuana, che con le sue recensioni
contribuiva a diffondere la conoscenza di Zola, dando una sistemazione personale
alle teorie veriste.

IL CICLO DEI VINTI


Parallelamente alle novelle, Verga concepisce anche un ciclo di romanzi che riprende
il modello del Ruougon-Macquart di Zola. A differenza dello scrittore francese, che
aveva l’intento scientifico di seguire gli effetti dell’ereditarietà, Verga pone al centro
del ciclo la volontà di tracciare un quadro sociale, scegliendo in particolare “i vinti”. Il
criterio unificante, dunque, è il principio della lotta per la sopravvivenza, ricavato da
Darwin. Al ciclo appartengono I Malavoglia, che rappresentano le basse sfere,
Mastro-don Gesualdo, in cui analizza l’avidità di ricchezza, La Duchessa de Leyra,
vanità aristocratica, L’onorevole Scipioni, ambizione politica, L’uomo di lusso,
ambizione artistica. In questa scala ascendente anche la lingua e lo stile si adattano
al soggetto, passando da un linguaggio e una mentalità popolare nei Malavoglia, a
una più elevata in corrispondenza dell’ambiente sociale.
I MALAVOGLIA
I Malavoglia è il primo romanzo del ciclo dei vinti. Narra la storia di una famiglia di
pescatori siciliani. I Malavoglia, soprannominati così per definire il contrario delle
loro qualità, possiedono una casa, una barca e conducono una vita tranquilla. Nel
1863 il giovane ‘Ntoni, figlio di Bastianazzo e nipote del patriarca padron ‘Ntoni,
deve partire per il servizio militare, dunque la famiglia è costretta a trovare un nuovo
lavoratore da pagare. A ciò si aggiunge una cattiva annata per la pesca e la dote per
Mena, che deve sposarsi. Pandron ‘Ntoni, per far fronte alle spese, decide di
acquistare un carico di lupini da rivendere in un porto vicino, ma la barca naufraga in
una tempesta, Bastianazzo muore e il carico va perduto. I Malavoglia si trovano di
fronte ad una perdita e a un debito da pagare. Nel frattempo la casa viene pignorata,
il secondogenito Luca muore, la madre Maruzza è uccisa dal colera, la nave naufraga
ancora, ‘Ntoni, dopo aver conosciuto la vita delle grandi città, non si adatta più alla
sua vita di prima, e coinvolto in cattive compagnie finisce per dare una coltellata alla
guardia doganale, spinto anche da motivi d’onore, poiché don Michele corteggia la
sorella Lia. Al processo ‘Ntoni ottiene una condanna mite, Lia fugge dal paese e
Mena non può più sposare Alfio. Padron ‘Ntoni va a morire all’ospedale, il figlio
Alessi riscatta la casa e continua il mestiere del nonno, mentre ‘Ntoni, una volta
uscito di prigione, si rende conto di non poter più restare in famiglia e si allontana
per sempre.

I Malavoglia rappresentano un mondo rurale arcaico, chiuso in ritmi tradizionali rotti


dal processo della storia. La tranquillità della famiglia si spezza a partire dal 1863,
all’indomani dell’Unità d’Italia, e mette in luce le rapide trasformazioni a cui tutto il
villaggio è costretto, insieme alla società italiana. Il primo evento è quello della
coscrizione obbligatoria che sottrae braccia al lavoro, che innesca diverse difficoltà
economiche. Si aggiungono le tasse e la crisi della pesca. A causa di questi eventi I
Malavoglia sono costretti a diventare dei negozianti, da semplici pescatori.
Subiscono un processo di declassazione, mentre altri, come don Silvestro, ricorrono
ai gesti più subdoli pur di arrivare ad una posizione di potere.

Nel romanzo si contrappongono due personaggi, che descrivono due atteggiamenti


completamente opposti. Il giovane ‘Ntoni incarna le forze disgregatrici della
modernità, uscendo dall’universo chiuso del paese e venendo a contatto con il
mondo esterno, che non gli permette di adattarsi nuovamente ad una vita di fatiche.
Padron ‘Ntoni, il nonno, invece rappresenta lo spirito tradizionalista, l’attaccamento
ad una visione arcaica e ai suoi valori. Il conflitto fra i due è uno dei motivi che
disgrega la famiglia. Anche se Alessi alla fine riesce a ricomporre un piccolo
frammento dell’antico nucleo familiare, nel frattempo si sono succedute tante morti,
‘Ntoni e Lia si sono allontanati, e Mena ha rinunciato al matrimonio per disonore. Il
finale con la partenza di ‘Ntoni è emblematico, poiché è lo stesso che aveva messo in
crisi quel sistema, e se ne distacca per sempre rivolgendosi verso la realtà del
progresso.

I Malavoglia sono spesso stati interpretati come la celebrazione di un mondo


primordiale e dei suoi valori. In realtà il romanzo rappresenta la disgregazione di
quel mondo e l’impossibilità dei suoi valori. Se nella prima fase di Verga era ancora
presente la nostalgia romantica per la campagna arcaica, adesso si supera questa
fase perché lo scrittore approda a un verismo pessimistico, consapevole che questo
mondo arcaico è solo un mondo mitico, che non è mai esistito. Fin dall’inizio è
regolato dalla legge della lotta per la vita che regola anche il mondo moderno,
perché questa legge esiste in ogni tempo e luogo. Nei Malavoglia il mondo popolare
è caratterizzato sia da valori puri, sia dall’avarizia, dall’attaccamento alla proprietà,
dall’avidità e dal cinismo. Sono pochi i personaggi in cui approda una morale ideale.
Ne risulta una costruzione bipolare. Il coro popolato da personaggi si divide in due,
offrendo di conseguenza due punti di vista opposti. Da un lato ci sono I Malavoglia,
caratterizzati da valori puri, dall’altro la comunità del paese, mossa dall’interesse
personale. L’alternarsi dei punti di vista ha una funzione fondamentale, perché
l’ottica del paese deve straniare sistematicamente i valori ideali proposti dai
Malavoglia, e di conseguenza va a denunciare l’impraticabilità degli stessi in un
mondo dominato dalla lotta per la vita. L’idealizzazione romantica della realtà arcaica
e il verismo pessimistico reagiscono l’una contro l’altra.
MASTRO-DON GESUALDO
In Mastro-Don Gesualdo l’azione si svolge nei primi decenni dell’Ottocento, nell’Italia
preunitaria, nella cittadina di Vizzini, a Catania. Gesualdo Motta, da sempre
muratore, con la sua intelligenza e la sua energia, è arrivato ad accumulare una
fortuna. All’inizio del romanzo, Gesualdo deve sposare Bianca Trao, discendente da
una famiglia nobile in rovina, per coronare la sua ascesa sociale. Nei calcoli di
Gesualdo il matrimonio può aprirgli la porta verso l’aristocrazia, ma in realtà viene
escluso dalla società nobiliare, che lo disprezza per le sue origini. Questo lo si capisce
dall’appellativo mastro-don. Neanche la moglie lo ama, e la figlia Isabella, avuta con
un cugino, lo disprezzerà pure, vergognandosi delle sue umili origini. Anche i suoi
fratelli e il padre mirano a squattrinarlo. Isabella si innamora di un cugino povero,
ma per riparare Gesualo la da in sposa al duca de Leyra, nobile squattrinato. Tutte
queste amarezze minano la salute di Gesualdo, che si ammala di cancro, viene
ancora messo in disparte dalla figlia e passa i suoi ultimi giorni in solitudine,
guardando le ricchezze accumulate con fatica essere sperperate in un palazzo.
Muore sotto lo sguardo infastidito di un servo.

Verga rimane fedele al principio di impersonalità, ma rispetto I Malavoglia e alle


novelle deve elevare lo stile, poiché non si tratta più di un ambiente popolare, ma di
un ambiente borghese e aristocratico. Anche il narratore si innalza e non si verificano
più gli effetti di straniamento che caratterizzavano la rappresentazione delle basse
sfere. Il narratore riprende lo sguardo lucido e critico, che mette in luce le bassezze,
le meschinità, le durezze ciniche del protagonista e degli altri personaggi. Il narratore
non torna onnisciente, ma utilizza una tecnica molto drammatica. La storia
dell’ascesa sociale, ad esempio, è narrata da Gesualdo stesso, che in un momento di
quiete si abbandona ai ricordi. Non si tratta di un romanzo corale, ma vede un
protagonista, e gran parte della narrazione è focalizzata su di lui. I pensieri dei
protagonisti sono riportati da Gesualdo tramite il discorso indiretto libero.

La lotta fra due poli, in questo romanzo, si interiorizza in Gesualdo. Pur dedicandosi
all’accumulo di ricchezze, Gesualdo sente il bisogno di relazioni umane, ha il culto
della famiglia, ama la moglie e la figlia e vorrebbe essere ricambiato, per questo è
generoso con gli altri. La generosità però è sempre soverchiata dall’attenzione gelosa
all’interesse economico. Il denaro è ciò che lo porta ad essere disumano con i suoi
lavoranti, o quando rinuncia a Diodata, che lo amava, per sposare Bianca che può
addentrarlo nell’aristocrazia. Scompare ogni tentazione idealistica, e subentra un
pessimismo assoluto, che non gli consente di rappresentare nessuna alternativa
ideale.

La scelta di Gesualdo in favore della logica della “roba” è una sconfitta umana,
perché dal punto di vista umano tutti lo odiano. La sua epica lotta per il denaro ha
provocato solo odio, amarezza e dolore, che si traduce in un cancro allo stomaco.
Gesualdo assume coscienza del suo fallimento per via della sua esigenza di affetti
autentici e di moti generosi. Si può parlare della religione della roba. Gesualdo è un
vincitore materialmente, ma è un vinto sul piano umano. Verga descrive un uomo
che si è costruito da se il proprio destino, un eroe della dinamicità e
dell’intraprendenza, ma il suo giudizio sul meccanicismo del progresso resta
negativo.

L’ULTIMO VERGA
Dopo Mastro-don Gesualdo Verga lavora a lungo su La Duchessa de Leyra,
incompiuto, mentre L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso non verranno mai
neanche affrontati. Probabilmente dovettero combinarsi l’inaridimento
dell’ispirazione, la stanchezza dello scrittore, le difficoltà di affrontare gli ambienti
dell’alta società col suo metodo e il logoramento dei moduli veristi, sostituiti da
nuovi orizzonti.

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