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Le parole indiane sono scritte senza gli usuali diacritici.

R. Torella

Il pensiero dell'India.
Un'introduzione.
Cap. 8, 9, 10.

8) I Lokayata.

"Materialisti" vengono considerati coloro che sostennero le posizioni più critiche nei confronti del pensiero e più in generale
dell'ordinamento sociale e religioso brahmanico.
I materialisti sono noti con tre denominazioni principali: Lokayata, probabilmente "seguaci della mondanità", carvaka ("dall'eloquio
carezzevole"), barhaspatya ("seguaci di Brhaspati"). Alla figura di Brhaspati è attribuito il testo-radice di queste scuole, il
Brhaspatisutra, del quale sono pervenuti solo pochi frammenti.
L'unanime riprovazione che i Lokayata hanno riscosso presso tutti i sistemi filosofici indiani si riflette nella perdita di tutte le loro opere,
con l'unica eccezione del Tattvopaplavasimba ("Leone che sconvolge i principi"). Destino delle dottrine dei materialisti è stato dunque
quello di essere tramandate attraverso il resoconto sommario e quasi sempre malevolo delle scuole avversarie.
Questa scarsa fortuna presso le scuole filosofiche dominanti rende poco spiegabile la perdurante presenza dei Lokayata nell'asse
portante della filosofia indiana, al punto da far nascere il sospetto che la loro sempre riproposta liquidazione faccia parte di una sorta di
rituale canovaccio piuttosto che essere la testimonianza di un genuino conflitto. Drastica riduzione delle ambizioni conoscitive
dell'uomo. Se l'unica fonte di conoscenza diretta è la diretta percezione, cade ogni progettualità umana e insieme ogni pretesa di
controllo. Non è ammesso ad esempio alcun rapporto di causalità ed è dunque escluso ogni agire basato sulla prevedibilità degli effetti.
Ciò non vuol dire che il mondo sia retto dal caso, ma solo che nessun ordine può essere ricostruito dalle limitate possibilità dell'umano
conoscere. Nessun tipo di inferenza può essere ammessa perché per essere sicuri dell'invariabile concomitanza tra probans e
probandum sarebbe necessario tener conto di un numero infinito di casi. Dunque solo la diretta percezione è da considerarsi valido
mezzo di conoscenza. A questa affermazione tutti gli avversari dei Lokayata hanno buon gioco a ribattere che senza un uso del
ragionamento non si potrebbe pervenire a una tale conclusione.

9) Il jainismo

Le due grandi sfide all'egemonia brahmanica (propugnatrice di un sistema socioreligioso dominato dal sacrificio vedico, da cui veniva
fatto dipendere l'equilibrio dell'universo stesso e che di conseguenza in alzava la casta sacerdotale sopra tutte le altre) nascono
entrambe nel nord-est dell'India e approssimativamente nello stesso periodo (VI-V sec. a.C.), in corrispondenza con radicali mutamenti
sociali ed economici che portano ad un ascesa della casta militare (ksatriya).
Diffusione sempre più ampia del fenomeno dell'abbandono della vita sociale e della formazione di vere e proprie schiere di
"rinuncianti", di asceti alla ricerca di vie diverse da quelle rigidamente predeterminate dei professionisti del sacrificio. Asceta itinerante
e ksatriya di nascita è il fondatore storico del jainismo, Mahavira, L'ultimo di una catena di 24 "creatori di guado", essere onniscienti ma
umani che si avvicendano nelle varie aree allo scopo di proclamare i Tre Gioielli dell'eterna dottrina già Jaina: retta fede, retta
conoscenza e retta azione.
Jaina e buddhisti condividono la credenza che i rispettivi capostipiti siano degli esseri in tutto e per tutto umani e che abbiano raggiunto
l'illuminazione contando sulle loro forze individuali. A questo fine il Jana e il Buddha insegnano un metodo per condurre sulla via di una
progressiva qualificazione, fatto di pratiche spirituali, quali la meditazione, di osservanza etiche e di austerità di comportamento. Tutti
condividono la credenza nel karma, nel ciclo delle rinascite, nella possibilità di svincolarsi da esso e raggiungere una definitiva
liberazione. L'estremo ascetismo, propugnato dai Jaina, porta per i buddhisti solo a un'autodistruttivo vicolo cieco.
Per i jaina non si può fare a meno di menzionare quattro elementi: la non violenza, la centralità del karma, l'austerità del
comportamento volta il radicare ogni elemento emozionale e passionale. Il quarto elemento riguarda l'atteggiamento mentale
speculativo: la convinzione che ogni specifica posizione filosofica o religiosa debba ritenersi parziale e provvisoria. La presenza dei
Jaina rimane incrollabile nonostante il dominio musulmano.
Il corpus di scritture si distingue sulla base della divisione dei già in Ismo in due comunità, i digambara ("vestiti di spazio") e gli
svetambara ("vestiti di bianco") i primi esigono la completa nudità (ma non per le monache), accettano le elemosine nel solo palmo
della mano, non prevedono liberazione per le donne e negano che il liberato abbia bisogno di cibo.
Va notato, che è dai jaina digambara che verrà la maggior parte dei contributi di ordine teoretico e logico-epistemologico. Il canone
scritturale è in una forma di pracrito, l'uso di questa lingua va visto come l'esito di una deliberata presa di distanza dal sanscrito, la
lingua dei brahmani; era anche considerata la lingua parlata dagli dei. Le scritture jaina si diffondono sui più disparati argomenti e
traggono la loro autorità direttamente dall'onniscienza dei loro autori.
La visione del mondo proposta da questa filosofia è improntata a un deciso realismo e si colloca a metà strada fra le scuole
brahmaniche (che tendono in vario modo a sottolineare la permanenza della sostanza) e il buddhismo (in cui domina la visione del
continuo cambiamento). Con la sua caratteristica tendenza alla mediazione e al rifiuto delle posizioni unilaterali, il jainismo sostiene la
compresenza nel reale di un elemento costante e di variabili modi di presentazione e qualità (guna). Nell'universo vengono distinte due
fondamentali categorie: il "vivente" o "anima" (jiva) e il "non vivente" (ajiva), entrambe sussunte sotto la più ampia rubrica di "masse di
essere".

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La categoria jiva rimane, soprattutto nei testi più antichi, in bilico tra lo spirituale e il biologico, il loro numero è infinito, sono costituiti di
pura coscienza, sono dotati di onniscienza, energia e beatitudine, non hanno un'estensione propria, assumono la dimensione del corpo
al quale sono connessi. I jiva allora vengono classificate in base agli organi che possiedono: "a un senso" (il tatto, esseri elementari,
connessi con ciascuno dei cinque elementi), "a due sensi" (il tatto e il busto. Vermi, molluschi da conchiglia), "a tre sensi" (il tatto, il
gusto e lo dorato. Formiche moscerini), "a quattro sensi" (il tatto, il gusto, lo dorato e la vista. Farfalle, mosche, scorpioni), "a cinque
sensi", infine, sono gli esseri infernali, gli uomini e i semidei.
La categoria degli ajiva comprende il movimento, la stasi, la materia e lo spazio. La materia si presenta in diversi livelli di aggregazione
a partire da atomi che sono tra loro assolutamente identici.
I jiva, il gruppo dei quattro ajiva, uniti con il fluire dei karma, il merito e il demerito, il blocco del karma, l'impedimento di nuovo karma, la
distruzione del karma bloccato e la liberazione, formano i nove principi fondamentali dei jainismo.
L'anima, per la sua natura spirituale, risulterebbe inattingibile al karma (materiale) se non fosse per la presenza delle passioni che
fungono, per così dire, da collante. Le passioni nella loro forma più essenziale si riducono a quattro istinti fondamentali:
1) il desiderio di cibo, che porta agli esseri viventi alla competizione per ottenerlo, innescando
2) l'istinto della paura. L'abbondante consumazione di cibo mette e poi in moto
3) il desiderio sessuale, il cui soddisfacimento genera di nuovo desiderio di cibo. Per garantirsi la pronta disponibilità di cibo l'essere
umano sviluppa
4) l'istinto di accumulazione, che lo porta a un atteggiamento ostile verso gli altri esseri con cui si trova in competizione, ostilità che si
manifesta in attività lenti, alla cui base si trovano il senso dell'attaccamento e dell'avversione.
Il desiderio di cibo costituisce dunque la base della condizione di limitazione e di asservimento, rendendo possibile la presa soffocante
del karma sull'anima potenzialmente libera e infinita.
Un'altra importante dottrina è quella del non-assolutismo e quella, strettamente connessa, dei punti di vista parziali. Il jainismo parte
dalla constatazione che ogni oggetto possiede infiniti aspetti, per lo più riconducibili a due ordini tra loro radicalmente differenti: la
sostanza e i modi di manifestazione. Il jainismo ha una serena e realistica accettazione dei limiti e un sistematico rifiuto di ogni
assolutismo sia conoscitivo che etico, che non risparmia nemmeno le stesse posizioni jaina (dottrina del non assolutismo o del
"potrebbe essere").
Naya: "condotta, principio, metodo, dottrina". Ogni naya mantiene una sua validità, ma a patto che se ne ammetta la parzialità e il
bisogno di accostarlo a infiniti altri per arrivare a una sintesi onnicomprensiva. Anche i naya vengono classificati in sette tipi principali, a
loro volta divisi in due gruppi, concernenti il primo l'aspetto "sostanza" e il secondo l'aspetto "modi di manifestazione": naigama
(guardare alle cose come appaiono a prima vista, ora nella loro aspetto generale, ora in quello specifico, come fa il Nyaya-Vaisesika),
samgraha (guardare al loro sostrato comune, come fa il Vedanta), vyavahara (guardare alla loro individualità), rjusutra (guardare solo
al loro presente), sabda (fare riferimento a varie parole come sinonimi), samabhirudha (distinguere un significato specifico per ogni
parola), evambhuta (applicare una certa parola solo quando l'oggetto svolge effettivamente in quel momento l'attività espressa da
essa).
La consapevolezza del carattere comunque limitato e provvisorio dell'umano conoscere rimane nello sfondo delle riflessioni dei filosofi
jaina sul numero e la natura dei mezzi diretta conoscenza (pranama). La divisione tra conoscenza diretta e indiretta, non corrisponde a
quella generalmente intesa dal pensiero indiano, partendo invece dal presupposto che si dà autentico conoscere solo quando l'anima
fronteggia direttamente l'oggetto, senza cioè intermediazione dei sensi o dell'intelletto. Ciò confina tutta quanta l'esperienza dell'uomo
ordinario nella zona grigia dell'intelletto, riservando la conoscenza diretta al solo liberato. Oltre a quest'ultima, chiamata kevala
("isolata"), sono accolte nella rubrica "conoscenza diretta" altre due forme, accessibili anche a livelli intermedi di elevazione spirituale:
la conoscenza delle menti, o meglio delle modificazioni delle menti altrui, e la diretta intuizione di entità normalmente inaccessibili alla
percezione. Conoscenze indirette sono invece mati (" conoscenza intellettuale") e sruta ("conoscenza uditiva").
La prima comprende dunque la stessa percezione sensoriale oltre all'inferenza, all'analogia, alla memoria, ecc., la seconda coincide
con la conoscenza verbale, incluse le scritture, essendo sempre preceduta da una conoscenza di tipo mati ( ad es. percezione uditiva)
a cui si aggiunge la comprensione del significato. Nella percezione sensoriale vengono poi individuati quattro stadi successivi:
acquisizione del dato da parte dei sensi, la sua determinazione, l'accertamento delle sue caratteristiche specifiche e infine il definitivo
trattenimento nella memoria.

10) Il buddhismo

Le dottrine buddhiste maggiormente caratteristiche e rappresentative sono quelle facenti capo a quattro scuole:
• Sarvastivadin
• Sautrantika
• Madhyamika
• Yogaca.
Alla base di tutte le varie diramazioni del buddhismo sta un compatto insieme di dottrine la cui elaborazione è fatta risalire al suo
stesso fondatore. Obiettivo dell'insegnamento di Buddha è l'individuazione di un cammino di mezzo tra il nichilismo di chi riduce il
soggetto alla breve vicenda del corpo fisico, e l'eternalismo di chi lo concepisce come una sostanza autonoma e permanente. Tutto
quanto si dà nell'esperienza (sia dalla parte dell'oggetto sia del soggetto) condivide tre generali caratteristiche: frustrazione, in
permanenza e assenza di un se.
Il Buddha insegna a scomporre il ridondante edificio del mio personale in cinque aggregazioni elementari: forma-materia, sentimenti,
percezioni, impulsi e coscienza. Anche usare questi stati sono i 12 campi dei sensi: occhi, oggetti visivi, orecchie, suoni, naso, odori,
lingua, sapori, corpo, oggetti tangibili, mente e oggetti mentali. Si possono dunque classificare 18 elementi: i sei organi di senso, i sei
oggetti di senso, e le sei coscienze sensoriali.
Le "quattro nobili verità" stanno appunto ad asserire che esiste uno stato di frustrazione, che la sete ne è la causa, che è possibile
porvi fine ottenendo il nirvana e che per condurre a esso esiste, tracciato dal Buddha, un sentiero ottuplice.

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Obiettivo: definire la posizione delle quattro principali scuole buddhiste circa l'oggetto e la sua conoscibilità.

Le scuola dell'Abhidharma. I Sarvastivadin.


Dei tre "canestri" (pitaka) che raggruppavano i testi del canone buddhista, quello dell'Abhidharma era il più direttamente connesso con
la riflessione filosofica. Mentre il sutra-pitaka comprendeva i discorsi scritti al Buddha stesso e il vinaya-pitaka si occupava degli ordini
monastici, l'Abhidharma nasce come primo tentativo di ricavare dai testi dialogici e narrativi dei sutra un contenuto omogeneo, se non
altro per fini didattici. Il termine abhidharma starebbe per "avvicinamento, guida al Dharma". Era presente la pretesa di intendere la
dottrina organizzata e chiarificata dell'Abhidharma come superiore agli stessi pronunciamenti del Buddha. Questa pretesa, provocò la
reazione della scuola dei Sautrantika, che come dice la loro stessa denominazione, praticarono un ritorno ai sutra, unici a conservare
la parola del maestro. Alla base dei testi abhidharmici stanno le cosidette "matrka" (matrici), Elenchi tradizionali di argomenti di
discussione o di promemoria per la pratica. L'Abhidharma si interroga anche sui criteri da seguire nell'interpretazione, enunciando il
primo germe di quella dottrina della doppia verità che troverà grande seguito nelle scuole del buddhismo mahayana, secondo cui le
contraddizioni rinvenibili tra l'uno o l'altro testo originale dipendevano dai differenti obiettivi, se cioè presentare la verità assoluta oppure
vari livelli di verità provvisorie.
La scuola dei Sarvastivadin si dirama, già al tempo del sovrano Asoka, dal corpo centrale della comunità buddhista, rappresentati dagli
Sthavira ("anziani"). Il suo canone Abhidharma presenta un forte parallelismo con quello dei Theravadin, essendo costituito anch'esso
di sette testi. Lo Jnanaprasthana ("Sistemazione della conoscenza"), è stato composto verso la fine del I sec. a.C. è dunque il più
recente tra i sette, fu l'oggetto di un monumentale commento, la Mahavibhasa ("Grande commento analitico"), questo testo ha
un'importanza centrale per questa scuola. La sua redazione sarebbe avvenuta nella prima metà del II sec. d.C., su impulso del famoso
re Kaniska, ad opera di anonimi compilatori che ne attribuirono l'originaria composizione al Buddha stesso. L'enorme ed eterogeneo
materiale contenuto nella Mahavibhasa fu ripreso, elaborato e coordinato in quella che divenne la più prestigiosa sintesi della scuola
sarvastivadin, l'Abhidharmakosa ("Tesoro dell'Abhidharma") di Vasubandhu (circa IV-V sec.). L'opera di Vasubandhu fu a sua volta
oggetto di importanti commenti.
La letteratura dell'Abhidharma è tutta incentrata sull'individuazione e classificazione delle componenti ultime del reale, chiamate
dharma. L'intento di procedere a una catalogazione completa dell'esistente accomuna le scuole buddhiste della Abhidharma a due
antichi sistemi brahmanici: il Vaisesika e il Samkhya. Gli esiti, e in parte anche i moventi, di questi ultimi sono tuttavia fortemente
diversificate. Il Vaisesika opera un tipo di catalogazione "orizzontale", fotografando un mondo specializzato e oggettivato, svuotato di
ogni dinamismo e di tensione temporale. Il Samkhya, da parte sua, guarda al mondo esistente come una fase di un processo in
continua evoluzione, in cui il materiale, lo psichico e l'intellettuale si sviluppano dallo stesso ceppo. Mentre Vaisesika e Samkhya in
sostanza procedono alla catalogazione di oggetti, l'Abhidharma buddhista concentra la sua attenzione piuttosto sull'interazione tra
oggetti e stati mentali, vale a dire sul mondo dell'esperienza piuttosto che sul mondo tout court. Un mondo fatto di cose che
fronteggiano un soggetto conoscente e agente appare all'occhio buddhista l'esito di un tacito quanto fallimentare tentativo di porre un
argine a quello che ha un esame più ravvicinato non si rivela altro che un incessante fluire.
Il rapporto di causalità costituisce un oggetto privilegiato di discussione per tutte le scuole dell'Abhidharma. Ancora una volta la
sistemazione classica diventerà quella fornita dall'Abhidharmakosa, nota come dottrina delle sei cause e delle quattro condizioni
(nonché dei cinque effetti); mentre le quattro condizioni appaiono già all'interno di una lista di 24 data dall'Abhidharma dei Theravadin,
le sei cause sembrano essere una concezione propriamente sarvastivadin. I quattro tipi di condizioni sono: l'oggetto (nell'atto della
percezione), l'immediatamente precedente (lo stato mentale che viene immediatamente prima di quello della cognizione), la condizione
predominante (ciò che è più direttamente determinante per la natura dell'effetto, come ad esempio l'organo della vista per la
sensazione visiva), la condizione causale (ogni contributo alla realizzazione dell'effetto, come ad esempio la luce nel caso in
questione).
Le sei cause sono:
• La causa generica (ogni Dharma dell'universo è in qualche modo coinvolto, seppur alla lontana, in ogni rapporto di causalità, ad
esempio col non ostacolarlo)
• La causa coesistente (il condizionamento dovuto ai Dharma che si producono nello stesso istante di quelli direttamente coinvolti nel
processo di causa azione)
• La casa omogenea (responsabile della produzione di un effetto dello stesso tipo o qualità)
• La causa associata (si riferisce alla concomitanza dei soli stati mentali, ad esempio il piacere connesso a una determinata
sensazione)
• La causa onnipervadente (l'influenza negativa esercitata dalle varie contaminazioni della mente)
• La causa di maturazione [del karma] (la possibilità di produrre effetti connotati da un questi centri carnico positivo o negativo).
L'attenzione che i Sarvastivadin rivolgono al rapporto di causalità li porta a formulare una dottrina dalla quale trarranno la loro stessa
denominazione (sarvam asti, "tutto esiste"). Tutte le scuole buddhiste concordano nel presentare la causalità come una concomitanza
temporale di eventi, senza che si possa dire che qualcosa "genera" qualcos'altro (la formulazione buddhista è invece: "essendoci
quello, questo viene in essere"). I Sarvastivadin notano da parte loro che per dar conto della causalità bisogna riformulare in termini
adeguati la teoria della realtà come in permanente e in continuo flusso (che alcune scuole, come ad esempio i Sautrantika, intendono
in termini di "istantaneità" del dharma).
Per i Sarvastivadin è necessario che un Dharma estenda in qualche modo la sua esistenza su tutti e tre i tempi (passato, presente e
futuro) anche se solo la sua esistenza presente è da considerarsi ultimamente reale: se così non fosse, cause ed effetti, presenti come
sono in momenti diversi, dovrebbero il loro proprio status rispettivamente a qualcosa che non c'è ancora o che non c'è più. Quanto alla
dottrina dell'istantaneità, essa va analogamente riformulata: il Dharma non perisce nell'istante in cui nasce, ma passa attraverso
quattro distinte fasi: nascita, durazione, decadimento e distruzione.

I Sautraktika.
La scuola dei Sautraktika, "coloro che si appellano ai sutra come autorità ultima", nasce intorno al IV sec. d.C., probabilmente
all'interno dei Sarvastivadin, sotto la spinta di un rifiuto della piega eccessivamente scolastica e "realistica" che stava assumendo la

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tradizione dell'Abhidharma. Le differenze dottrinali, seppure non radicali, sono tuttavia considerevoli e apriranno la strada alle più
estreme posizioni dello Yogacara. L'unica opera esplicitamente sautrantica che ci sia pervenuta è il commento di Vasubandhu al
proprio Abhidharmakosa. I Sautrantika condividono con i Sarvastivadin la credenza nella realtà dell'oggetto esterno, ma non
concepiscono la sua istantaneità allo stesso modo. Ogni Dharma dura un solo istante e perisce non appena venuto in essere, senza
che per questo debba intervenire una causa, ma solo perché tale è la sua intrinseca natura. L'esperienza ci mostra che cose, quali ad
esempio una brocca, vengono distrutte dal contatto col martello. Se questa distruzione avviene è perché così è nella natura delle cose,
allora esse devono distruggersi fin dal momento della loro nascita, dato che la loro natura propria era, in quanto tale, esistente fin
dall'inizio. Se qualcuno obiettasse che una cosa per sua natura sarebbe destinata a durare, ma che viene costretta a perire da un'altra
cosa che con essa è incompatibile, come un martello, a quello si risponderebbe che, se la cosa perisce, non si può più dire che per
sua natura fosse permanente. Se, in conclusione, essa è peribile per natura, allora non si potrà che perire nel primo istante in cui viene
a essere.
Impermanenza e istantaneità, dunque, non rendono la cosa meno "reale", anzi costituiscono la condizione stessa della sua realtà. Solo
ciò che è impermanente può produrre effetti, l'efficienza causale è assunta dai Sautrantika come il criterio stesso per stabilire che una
cosa è reale. Questa revisione del concetto di "transitorietà dei Dharma " comporta di necessità un ripensamento dei modi della loro
conoscenza, dato che nell'istante in cui l'oggetto ha posto con la sua presenza le condizioni dell'atto conoscitivo, esso non esiste già
più. I Sautrantika considerano l'immagine mentale un indice sufficiente per stabilire l'esistenza di un oggetto esterno come sua unica
possibile causa, ma tale oggetto è destinato a permanere inaccessibile alla percezione e a essere perpetuamente solo inferibile.

I Madhyamika.
Vaibhasika: credono che la realtà di un oggetto esterno direttamente percepibile.
Sautrantika: credono che la realtà di un oggetto esterno solo inferibile.
Madhyamika: sostenitori della "vacuità" del tutto.
Il concetto di "vacuità" ( presente fin dalle più antiche opere canoniche in riferimento all'assenza di un io) , viene assunto dai
Madhyamika (" seguaci del cammino di mezzo") nel significato più estremo di assenza di "natura propria", e non limitato alle fittizie
entità (le "cose") della realtà convenzionale, ma esteso agli stessi Dharma in cui le scuole abhidharmia le scomponevano e che
consideravano come ultimamente reali.
Fondatore di questa scuola è Nagarjuna (circa 150-200 d.C.), il quale attinge a sua volta all'insegnamento dei testi della
Prajnaparamita ("Perfezione di Sapienza"), incentrati sulla figura del bodhisattva, che pur consapevole dell'universale vacuità si dedica
al soccorso delle creature. L'opera principale di Nagarjuna è "Strofe fondamentali sul cammino di mezzo", dedicata principalmente alla
dimostrazione delle interne contraddizioni contenute nelle dottrine dell'Abhidharma nonché in nozioni generali comuni alle varie scuole
realiste; essa presenta altresì capitoli dedicati al Buddha, al nirvana, alle quattro nobili verità. Altra opera importante di Nagarjuna é
"Sterminatrice dei dissensi", pervenuta in sanscrito insieme con un breve al auto-commento, in cui Nagarjuna risponde alle perplessità
suscitate, in particolare circa la questione centrale se la sua critica di ogni posizione filosofica fosse da considerarsi o meno essa
stessa una posizione.
Qualche secolo dopo Nagarjuna i Madhyamika si divisero in due scuole, che in Tibet ricevettero la denominazione di prasangika e
svatantrika. Secondo i primi, Nagarjuna non avrebbe inteso sostenere tesi in proprio, ma solo ridurre all'assurdo quelle avversarie;
secondo la scuola degli svatantrika, egli avrebbe invece avanzato argomentazioni indipendenti.
L'affermazione centrale della dottrina madhyamika è che tutte le cose sono prive di natura propria per il fatto di prodursi in dipendenza
l'una dall'altra. Il reciproco condizionamento a cui tutte sono sottoposte fa sì che di nessuna si possa affermare una natura definita e
immutabile, dunque che nessuna in ultima analisi, "sia".
Concetto di svabhava: "sussistere indipendentemente dall'altro", quindi una natura non soggetta a mutamento nel passato, presente e
futuro, innata, non prodotta, della quale non si può dire che sia dipendente da cause e condizioni. Misurata su questo metro, nessuna
realtà resiste alla critica e ognuna risulta ugualmente "vuota". « Quello che è la co-produzione condizionata, questo punto è per noi la
vacuità. Il termine "vacuità "è da intendersi in senso metaforico: il cammino di mezzo non è altro che questo.» (Madhyamakakarika
XXIV, 18)
Nagarjuna non intende sostituire alle dottrine di cui mostra l'interna contraddizione una differente dottrina, la propria. Ogni tesi che miri
a stabilire l'esistenza di un qualche tipo di entità o Dharma con una sua specifica natura si vota a una sorta di implosione. La posizione
dei Madhyamika è per l'appunto quella di negare la sostenibilità di ogni "asserzione" incondizionata, attribuendo indistintamente a tutto
il reale uno status di verità relativa, includente al suo interno anche il piano di dravyasat ("esistente in modo sostanziale, esistente per
davvero"; i dharma), che i Sarvastivadin avevano creduto di poter porre al piano di prajnaptisat ("esiste per convenzione").
La Madhyamakakarika mostra l'incongruenza di ogni genere di dottrina o concetto conducendo le loro premesse a conseguenze
inaccettabili, ovvero prendendoli in considerazione in termini di dilemma (è, non è) o di tetralemma (è, non è, è e non è, né è né non è),
già presente nei discorsi del Buddha.

Gli Yogacara.
La nascita del Yogacara avviene, oltre che in un contesto meditativo, entro il generale tono irrealistico e antirealistico che caratterizza
le scritture mahayana più antiche, con la loro sfrenata moltiplicazione di spazi e tempi fino a un quasi totale svuotamento fantastico del
mondo ordinario. I primi sutra che presentano i maniera relativamente sistematica dottrine Yogacara sono il "Trattato sugli stadi dello
Yogacara" e il "Sutra dello scioglimento dei nodi" (nel senso di 'completa esplicitazione dei significati reconditi').
La scuola assume la sua forma compiuta tra il IV e V secolo con le opere di Asanga e di Vasubandhu, basate su un gruppo di scritture
più recenti, da loro anche commentate, attribuite al bodhisattva Maitreya che sarebbe apparso ad Asanga e gli avrebbe trasmesso
cinque sue opere, tre delle quali sono tra i capisaldi dello Yogacara: "Ornamento dei sutra del Mahayana", "Discriminazione tra il medio
e gli estremi", "Discriminazione tra i dharma e la loro essenza".
Due dottrine stanno al centro dello Yogacara: le tre nature e le otto coscienze. L'intero mondo dell'esperienza è costituito
dall'evoluzione della coscienza in otto forme. Le prime sei corrispondono ai cinque tipi di cognizioni sensoriali più quella mentale, già
individuate nella fase antica del buddhismo, mentre la settima è quella che fa emergere l'aspetto della soggettività. L'ottava, introdotta

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dallo Yogacara, è la "coscienza deposito", che fa da sostrato latente e inconscio alle altre, fornendo loro un apparente contenuto
oggettuale attraverso la maturazione di "semi" depositi nelle esistenze precedenti. Questa coscienza che continuamente sorge e si
dissolve costituisce, fra le tre nature sopra menzionate, quella di mezzo. Essa, consistente nel continuo fluire di entità reciprocamente
condizionate da rapporti di causalità, forma, per così dire il sostrato ontologico delle altre due. Il mondo di oggetti esterni che il pensiero
discorsivo e il linguaggio proiettano forma la natura "costruita mentalmente". Secondo la definizione che troviamo nel "Sutra dello
scioglimento dei nodi" la natura costruita mentalmente coincide con "i nomi e le convenzioni che stabiliscono la natura propria e le
differenze dei Dharma al fine della loro empirica designazione". Una volta messi a nudo questi ingannevoli meccanismi proiettivi, la
coscienza deposito, progressivamente liberata dalle impurità che l'affettano, raggiunge lo stadio di natura " perfettamente compiuta". A
tale svolta radicale che apre la porta verso la liberazione è dato il nome di "repulsione del sostrato".
La posizione degli Yogacara, circa la realtà dell'oggetto esterno non appare univoca, e comunque non è chiaro se, o fino a che punto,
all'affermazione che il conoscere si eserciti solo su immagini già interne alla coscienza corrisponda anche la negazione ontologica di
ogni realtà esterna. Uno dei testi più citati sulla questione è una breve operetta di Dignaga "Disamina del supporto (della cognizione)":
«Quella realtà conoscibile interna che appare come esterna, quella è l'oggetto ... ». Dignaga arriva a questa conclusione dopo essersi
chiesto a quali condizioni debba soddisfare l'oggetto di una cognizione: deve poterla causare (e dunque essere una cosa "reale") e
avere la stessa forma che apparirà nella cognizione (dunque essere esteso e non di natura sottile). Nessuno degli oggetti proposti
dalle scuole realiste (i singoli atomi, il loro aggregato o la loro agglomerazione) è in grado di rispondere a questi requisiti. La
conclusione obbligata alla quale si arriva stabilisce quale debba essere la natura dell'oggetto che figura nella conoscenza, ma non dice
nulla circa il suo avere o meno un'esistenza anche all'esterno. Tuttavia è difficile credere che il pensiero Yogacara nella sua totalità
possa essere letto solo come una sorta di "idealismo" epistemologico, così ripetuti e almeno apparentemente inequivocabili sono i
pronunciamenti sull'inesistenza dell'oggetto esterno che trovano posto tanto nei sutra quanto nei commentari.

La scuola logico-epistemologica.
La cosiddetta scuola logico-epistemologica del buddhismo è stata lungo vista come un corpo estraneo penetrato nell'organismo di una
grande tradizione spirituale, che avrebbe subito il condizionamento esercitato dalla coeva filosofia bramanica e imitato passivamente il
suo sempre più pronunciato orientarsi verso questo tipo di tematiche. Solo recentemente è stato invece rivendicato il radicamento di
questi motivi nella tradizione buddista stessa. Inoltre va detto che se questi temi trovarono favore anche presso il buddhismo, ciò non
deve destare alcuna meraviglia, appartenendo il buddhismo sotto ogni aspetto al filone centrale della filosofia indiana. Dall'incontro-
scontro con le nuove dottrine buddhiste, alle quali, anche quando avversate, fu sempre riconosciuto un grande prestigio culturale, la
logica e l'epistemologia bramanica uscirono profondamente rinnovate.
In apertura della grande stagione della scuola logico-epistemologica del buddhismo troviamo ancora una volta il nome di Vasubandhu,
già incontrato come autore di opere sarvastivada-sautrantika e yogacara. Vasubandhu ammette soltanto due mezzi di conoscenza:
percezione e inferenza. La prima viene definita come un conoscere che deriva unicamente dall'oggetto, includendo tanto la percezione
attraverso i sensi di oggetti esterni quanto la conoscenza in prospettiva di sentimenti ed emozioni. Come l'autore stesso chiarisce,
questa definizione mira ad escludere la conoscenza sensoriale erronea (per difetti dei sensi), la conoscenza concettuale (frutto di
elaborazioni mentali che si sovrappongono al puro dato) e la conoscenza inferenziale. La definizione dell'inferenza è altrettanto
rigorosa e in parte innovativa, soprattutto nel suo non accontentarsi, come aveva fatto il Nyaya, della nozione generica di "relazione"
tra probans e probandum: « inferenza è la percezione di un oggetto inseparabilmente connesso (con un altro oggetto) da parte di chi
conosce questa (inseparabile connessione)». Vasubandhu si allontana dalla tradizione brahmanica anche nella formalizzazione
dell'inferenza, dove i cinque membri del Nyaya sono ridotti a tre: tesi, esposizione della ragione logica ed esempio. Oggetto
dell'inferenza è una specifica proprietà del locus (il fuoco rispetto alla montagna), mentre elemento da dimostrare e la connessione tra i
due.

Dignaga.
Se Vasubandhu può essere considerato il precursore della scuola logica del buddhismo, chi ne è l'indiscusso fondatore è Dignaga, che
le fonti tibetane voglio discepolo di Vasubandhu. Ultima tra le sue opere è il celebre "Sintesi dei mezzi di retta conoscenza", summa
delle concezioni di Dignaga nel campo della logica e dell'epistemologia, che l'autore corredò anche di un breve commento.
Solo due mezzi di conoscenza sono ammissibili: percezione e inferenza. E ciascuno ha un suo esclusivo campo di applicazione,
rispettivamente il particolare e l'universale. Già questo costituisce una rottura con la tradizione, in particolare quella del Nyaya, che
sosteneva invece l'applicabilità dei diversi mezzi di conoscenza al medesimo oggetto. Ciò che è stato tradotto con
"particolare" (svalaksana) significa alla lettera "carattere proprio (cioè diverso da ogni altro)". Lo svalaksana è reale, unico, determinato
da uno spazio, tempo e forma che sono soltanto suoi. Per esempio, egli menziona una specifica brocca, in grado di contenere acqua,
caratterizzata da un tempo, spazio e forma definiti. Lo svalaksana in senso stretto è invece una realtà assolutamente indivisa, un
istante. La percezione è definita come un atto conoscitivo esente da elaborazioni concettuali. Requisito dell'assenza nella percezione
di ogni elemento appartenente alla sfera della concettualizzazione/verbalizzazione. La percezione deve essere "non erronea" (cioè non
condizionata da disfunzioni dei sensi) e rende più sfumata e comprensiva la caratterizzazione delle elaborazioni concettuali,
assumendole come una "cognizione associata a un'espressione linguistica". Nella percezione sono incluse, oltre alle percezioni
sensoriali, anche la consapevolezza mentale delle percezioni e delle emozioni e la percezione sovra normale dello yogin.
L'universale, oggetto dell'altro mezzo di coscienza (l'inferenza), viene concepito in termini solamente negativi: di contro alla
sostanzializzazione e reificazione dell'universale operata dai sistemi brahmanici realisti, il suo contenuto è per Dignaga unicamente
"esclusione di quanto è altro". Sarà poi Dharmakirti ad estendere l'applicazione di questa concezione a tutti campi in cui operano gli
universali, cioè in senso lato ai contenuti del pensiero discorsivo. Dunque, linguaggio e pensiero discorsivo non esprimono universali
presenti in maniera indivisa nelle singole cose particolari, come affermano i realisti, ma solo una "differenza" attraverso l'esclusione di
ciò che è altro, ovvero di tutte quelle cose che sono accomunate dal fatto di avere differenti effetti rispetto alla cosa in questione. La
natura intrinseca della cosa costituisce la sua "differenza ", l'esclusione di ciò che altro costituisce la sua dimensione "comune".
Pertanto la parola si applica a quella differenza nella quale l'esclusione dell'altro ha fatto apparire una struttura "comune". Dal momento
che la denotazione del significato proprio di una parola comporta di per sé l'esclusione degli altri significati, proprio in quanto il suo

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proprio significato è la "differenza". Tuttavia, la differenza va presa come un termine relativo. Il potere della parola come fonte e
trasmissione della conoscenza risulta dunque drasticamente limitato. La cosa, a causa dei suoi molti aspetti, non potrà mai essere
espressa pienamente in una parola. Funzione di quest'ultima, è solo di denotare una certa porzione della cosa per il tramite
dell'esclusione di ciò che è altro da quella. Questo però non vuol dire che la cosa abbia "parti", ma solo che appare come associata
con la svariate cause di errore circa la sua natura. Compito di una parola è solo quello di rimuovere una di queste cause.
L'inferenza è di due tipi: l'inferenza per se stessi e quella per gli altri. La prima conosce un oggetto tramite un segno che triplice. Il
"segno" (linga) è una proprietà A presente nel locus che serve a far risalire a un'altra proprietà B dello stesso locus. Perché questo
possa avvenire devono però essere soddisfatte e tre condizioni: A deve essere presente in B, deve essere presente nei casi in cui B è
presente, deve essere assente nei casi in cui B è assente. La conoscenza che ne risulta avrà dunque un carattere generale, senza
poter fornire di B alcun carattere specifico.
L'inferenza per gli altri serve a presentare all'esterno i contenuti di questo interno processo inferenziale. Il primo passo consiste
nell'enunciazione di quanto ci si propone di dimostrare, nozione questa che può comprendere la proprietà da inferire, il locus di tale
proprietà e la connessione tra i due, tenendo comunque presente, che la differenziazione tra proprietà e possessore di proprietà è solo
una finzione concettuale senza basi nella realtà, assunta sola a fini strumentali. Il momento centrale rappresentato dall'enunciazione
della ragione logica, che presuppone una rosa di nove possibili combinazioni tra la proprietà da dimostrare, la proprietà attualmente
visibile a essa connessa e che serve a stabilirne l'esistenza, e le relative esemplificazioni positive e negative. Si tratta della cosiddetta
"ruota delle nove ragioni logiche", che insieme alla teoria del "triplice segno "costituirà il marchio inconfondibile della dottrina di
Dignaga.
Resta ora da valutare quali siano i presupposti ontologici di questa sofisticata teoria della conoscenza. Compito non facile, che diventa,
se possibile, ancora più delicato circa l'opera del successore di Dignaga, il grande Dharmakirti, nel quale una consapevole ambiguità di
fondo risulta ulteriormente accentuata. Spunti importanti per una soluzione si desumono dal modo in cui entrambi i pensatori
definiscono il rapporto tra il processo del conoscere, in cui agiscono i soli due pramana ritenuti validi, e la conoscenza acquisita
(prama). La posizione ultima di Dignaga e Dharmakirti è che tra i due momenti (pramana-prama) non vi è alcuna reale differenziazione.
L'apparire alla coscienza dell'oggetto di conoscenza non è altro che il presentarsi della coscienza stessa in forma di oggetto, il
pramana è la conoscenza in forma di soggetto ovvero la disposizione potenziale della conoscenza conoscere se stessa. Infine, la
conoscenza acquisita è il momento dell'auto consapevolezza della conoscenza.

Dharmakirti.
L'ambiguità di fondo delle sue dottrine ha reso problematico il tentativo di definire a tutti costi un'affiliazione ad una singola scuola.
Dharmakirti sembra in realtà muoversi fra due registri: un realismo di tipo se fenomenalistico, affine a quello dei Sautrantika, e un
assolutismo "idealistico" di marca Yogacara. Il primo corrisponde alla livello della verità relativa, il secondo a quello della realtà
assoluta. Gli oggetti che sono veri in senso assoluto non si uniscono a formare una classe né sono divisibili in sostanze e qualità. Se
questo avviene, è dovuto esclusivamente all'intervento del pensiero discorsivo. Se dunque l'unico mezzo di conoscenza attendibile è la
percezione, nella quale il particolare si riflette nella sua unicità integralmente e senza frammentazioni, il suo contenuto sarebbe però
destinato a rimanere inattingibile e incomunicabile, e pertanto incapace di entrare nel circuito dell'umana esperienza, se non fosse per
la "traduzione" operata dal pensiero discorsivo, il quale sebbene ultimamente "falso" serve però a rendere il contenuto della percezione
in qualche modo usabile e a rimuovere cause di errore. D'altra parte, seppure c'è un'assoluta alterità tra la cosa e la sua immagine
mentale, non di meno esiste tra le due un'innegabile coordinazione: una è causa dell'altra. Risulta chiaro che i due oggetti di
conoscenza, di cui parlava anche di Dignaga, non sono due entità distinte, ma solo due modi diversi in cui l'unico esistente (il
particolare) viene recepito da due diversi mezzi di conoscenza. Ma che cos'è che fa la validità di un mezzo di conoscenza? Il non
deludere le aspettative del soggetto conoscente, ovvero il permettergli un'azione efficace. A questo criterio se ne aggiunge un secondo,
del resto ben noto anche alle scuole brahmaniche: manifestare un oggetto che non sia stato già conosciuto in precedenza.
Dharmakirti analizza quale sia il fondamento ultimo della ragione logica. Due solo relazioni possono aspirare alla qualifica di
"connessione essenziale" tra due concetti: causalità e identità. Le sole inferenze da considerarsi valide saranno dunque quelle basate
su una proprietà essenziale ("questo è un albero perché è una quercia, in cui i due concetti sono queste in civil in quanto il primo
abbraccia implicitamente il secondo ed entrambi si riferiscono alla stessa "cosa"), e sull'effetto ("qui c'è del fuoco perché c'è del fumo").
L'inferenza, invece, che parte dalla causa per arrivare all'effetto, viene fatta rientrare nel primo tipo, l'efficienza causale costituendo la
natura stessa della cosa. La sussistenza del rapporto di causa-effetto deve essere stabilita preliminarmente attraverso la
concatenazione di un certo numero di percezioni e di non-percezioni delle due entità in questione.
Dharmakirti ammette infine un terzo tipo di ragione logica, la non-percezione, anche se poi finisce per considerarla un caso particolare
dell'identità: "qui non c'è il vaso, perché non se ne ha la percezione". La percezione dell'assenza del vaso, benché sia in sé distinta da
quella della superficie vuota, ha tuttavia una "connessione essenziale" con essa, così come la conoscenza determinata è legata alla
percezione diretta e ne rappresenta lo stadio successivo: lo stesso atto conoscitivo le abbraccio entrambe.
La scelta di Dharmakirti di dare un contenuto positivo alla relazione tra probans e probandum (individuandone gli unici tre modi
possibili identità, causalità e non-percezione) non è senza conseguenze. Essa comporta un sostanziale incremento sia in termini di
rigore che di semplificazione, rendendo ultimamente è superfluo il ricorso alla concordanza negativa tra probans e probandum, e
limitando l'uso delle esemplificazioni ai soli casi in cui probandum risulti noto all'interlocutore.
Sia Dignaga che Dharmakirti non rifiutano l'inclusione, tra i mezzi di conoscenza validi, della testimonianza autorevole, prima tra tutte
quella del Buddha, ma solo la considerano di pertinenza dell'ambito più generale dell'inferenza.

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