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PERCHÉ VERGA È UN CLASSICO?

1. Perché, pur essendo scrittore “regionale” quanto al mondo rappresentato, è stato autore di respiro
europeo per consapevolezza letteraria e lucidità di visione, più coerente e geniale degli stessi maestri del
Naturalismo francese nell’applicare il canone realista del- l’“impersonalità”.
2. Perché ha saputo ricondurre il mito positivista del progresso all’antica idea di hybris, coniugando l’epica
dello sviluppo alla visione tragica del teatro greco.
3. Perché ha saputo interpretare meglio di altri il passaggio traumatico dal mondo arcaico e immutabile
delle passioni primitive a quello moderno della ragione calcolatrice e dei grandi mutamenti sociali.
4. Perché nelle sue opere ha saputo compiutamente raffigurare la “religione della famiglia” e la “religione
della roba” come principi ispiratori dell’agire umano.
LA VITA [1840-1922]
Infanzia e prima giovinezza
Nacque nel 1840 a Catania da famiglia agiata di ascendenze nobiliari e di sentimenti liberali.
L’insegnamento e l’esempio di Antonio Abate, fervente patriota, gli ispirarono le prime prove narrative: i
romanzi Amo- re e patria, I carbonari della montagna (pubblicato a sue spese nel 1861-1862) e Sulle lagune
(pubblicato a puntate sulla rivista filogaribaldina “La nuova Euro- pa”). Nel 1858 si iscrisse a giurisprudenza
a Catania (non arrivò mai alla laurea); fra il 1860 e il 1864 militò nella Guardia nazionale e fondò e diresse
una rivista vicina al radicalismo garibaldino, “Roma degli Italiani”.
Gli anni fiorentini
Dal 1865 risiedette per lunghi periodi a Firenze (ca- pitale del Regno d’Italia), dove strinse amicizia con Luigi
Capuana e Francesco dall’Ongaro; quest’ultimo lo introdusse negli ambienti dell’alta società che gli
ispirarono i romanzi mondani della seconda stagione narrativa (a cominciare da Una peccatrice, stampato
nel 1866) e lo aiutò a raggiungere il successo con la pubblicazione di Storia di una capinera (1871).
Gli anni milanesi
Nel 1872 si trasferì a Milano, capitale letteraria d’Ita- lia. Strinse amicizia con esponenti della Scapigliatura,
come Emilio Praga e Arrigo Boito, e con editori come Emilio Treves. Proseguendo con l’apprezzato filone dei
romanzi mondani pubblicò Eva (1873), Tigre reale ed Eros (1875), mentre maturava la sua “conversione”
alVerismo con il bozzetto siciliano Nedda (1874), segui- to nello stesso anno dal Padron ‘Ntoni, primo
nucleo dei futuri Malavoglia e, nel 1878, dalla novella Rosso Malpelo e dalla prima idea di un ciclo di
romanzi dal titolo provvisorio La Marea. Siamo nella terza stagione della narrativa verghiana; nel 1880
vennero pubblica- te le novelle di Vita dei campi, nel 1881 I Malavoglia, nel 1883 le raccolte di bozzetti
Novelle rusticane e Per le vie. Nel frattempo (1882) aveva fatto visita a Zola a Parigi e pubblicato l’ultimo dei
“romanzi mondani”, Il marito di Elena. Una burrascosa vicenda sentimentale (Verga ebbe fama di grande
seduttore), conclusasi con un clamososo scandalo, contribuì a ispirargli la trasposizione teatrale della
novella Cavalleria rustica- na: l’esordio teatrale di Verga, nel 1884 a Torino (con Eleonora Duse nella parte
della protagonista Santuz- za), fu un trionfo; qualche anno dopo (1890) Cavalleria rusticana divenne anche
opera lirica, con le musiche di Pietro Mascagni.
Il rientro a Catania
Seguirono anni di scoraggiamento e difficoltà economiche, durante i quali vennero pubblicate diverse
raccolte di novelle (Drammi intimi nel 1884, Vagabondaggio nel 1887, I ricordi del Capitano d’Arce nel 1891
e Don Candeloro e C.i nel 1894) e, soprattutto, il romanzo Mastro-don Gesualdo (nel 1888 a puntate sulla
“Nuova Antologia”, l’anno seguente in volume). Raggiunta la tranquillità economica a seguito di una causa
vittoriosa intentata contro l’editore Sonzogno, potè ritirarsi a Catania, dove si dedicò ancora al teatro (nel
1896 con una versione teatrale della Lupa, nel 1901 con gli atti unici La caccia al lupo e La caccia alla volpe,
nel 1903 con Dal tuo al mio) e lavorò al terzo romanzo del ciclo dei Vinti, La duchessa de Leyra, senza
tuttavia portarlo a termine. Si dedicò anche all’amministrazione delle sue terre assumendo sem- pre più la
mentalità conservatrice del gentiluomo di campagna: si oppose ai fasci siciliani (1894) come alle proteste
scoppiate a Milano (1898), approvò le guerre coloniali, si iscrisse al Partito nazionalista, appoggiò l’entrata
in guerra dell’Italia nel 1915 e l’impresa fiumana di D’Annunzio nel 1919. Nominato senatore del Regno nel
1920, negli ultimi anni lavorò, con l’amico e discepolo Federico De Roberto, alla sceneggiatura ci-
nematografica dei suoi bozzetti teatrali. Morì nel 1922.
LE COSTANTI LETTERARIE
Verga ha attraversato diverse stagioni narrative cambiando ogni volta ambienti, tecniche e linguaggi.
Possiamo tuttavia notare, nelle narrazioni patriottiche, mondane e veriste, alcune costanti a livello di
“filosofia di vita”. La sorte dei personaggi verghiani appare sempre segnata da un destino avverso contro
cui ogni ribellione risulta inutile; la saggezza consiste nel sa- persi piegare e rassegnare, mentre chi si crede
arbitro del proprio destino è condannato inesorabilmente alla sconfitta. Questa lotta impari contro il fato
avverso costituisce il nucleo drammatico di tutti i suoi libri; in questa lotta, inoltre, l’eroe è abbandonato a
se stesso, perché la società descritta da Verga non conosce pietà o solidarietà, ma è mossa solo da uno
spietato e cinico egoismo; i deboli sono condannati a essere schiacciati dai più forti, come anche dalla storia
e dalla natura.
OPERE
I romanzi patriottici
Le prime prove narrative di Verga seguono schemi romantico-risorgimentali, legando gli ideali patriotti- ci
della lotta per l’indipendenza nazionale a vicende sentimentali che ruotano attorno ad amori puri e
smisurati.
Amore e patria (1856-1857, rimasto inedito) è ambientato sullo sfondo della guerra di indipendenza
americana.
I carbonari della montagna (1861-1862), ambientato negli anni napoleonici, narra di una banda di briganti-
patrioti che sui monti della Calabria lottano contro le truppe di Gioacchino Murat; l’opera, nata all’indomani
dell’armistizio di Villafranca (1859), è caratterizzata da un forte sentimento antifrancese.
Sulle lagune (1862-1863), ambientato in Veneto e ispirato da un fatto di cronaca, narra dell’amore infelice
fra un cadetto dell’esercito asburgico di occupazione e una bella ragazza di Oderzo; il conflitto fra amore e
patria porterà entrambi al suicidio.
I romanzi mondani
Dopo l’Unità d’Italia l’interesse del pubblico per la narrativa storico-patriottica scemò rapidamente e si
diffuse l’interesse per vicende sentimentali di ambientazione borghese; Verga fra il 1871 e il 1875 scrisse
cinque romanzi di questo genere, da lui stesso più tardi raggruppati sotto il titolo comune di Bozzetti del
cuore: Una peccatrice, Storia di una capinera, Eva, Tigre reale, Eros. In generale l’impostazione non è
realista, ma romantica; l’autore rifiuta la “scienza” del cuore e si rassegna piuttosto al suo insondabile
“mistero”.
La passione d’amore
La passione d’amore assume connotati diversi nei personaggi maschili e femminili. La donna, spesso ritratta
nei panni della femme fatale, conosce solo la dedizione fino allo struggimento o, al contrario, l’abbandono
a una sfrenatezza che infrange ogni pudore e ogni legge sociale; nell’uomo si configura invece come
passione travolgente ma superficiale, limitata alla sfera dei sensi, che anzi lo distoglie da altri interessi e
ambizioni, come l’affermarsi in società e il far- si una posizione. Da questa pregiudiziale misogina di matrice
positivista nascono i contrasti che concludono drammaticamente tutte queste storie d’amore, ambientate
nei salotti mondani di Firenze e Milano che Verga ben conosceva. L’autore stesso ammetteva che le
complicazioni sentimentali raccontate nei romanzi non esistono nello stato di natura, ma sono frutto del
benessere e dell’artificio della società moderna.
La poetica verista
La svolta verista
Pur continuando a scrivere romanzi mondani, già nel 1874 Verga pubblicò Nedda, novella ambientata tra i
poveri contadini siciliani. Il successo che essa riscosse, assieme all’affermarsi della narrativa naturalista
francese (del 1877 è l’Ammazzatoio di Zola) e allo scalpore suscitato dall’inchiesta Franchetti- Sonnino sulla
realtà sociale ed economica siciliana, determinarono in Verga la svolta verista. Affrontando nuovi ambienti
e nuovi temi, lo scrittore volle sviluppare una nuova tecnica narrativa, i cui principi egli espose solo in parte
in dichiarazioni teoriche e vanno quindi desunti dalle opere stesse o dalle sue lettere.
La rinuncia al “ritratto” e al “narratore
onnisciente”
Il primo aspetto caratteristico è la rinuncia a tratteggiare il “ritratto” dei personaggi; Verga prende le
distanze dal “narratore onnisciente” per trasportare il lettore direttamente “dentro” la vicenda narrata,
dandogli l’illusione di trovarsi realmente immerso nella realtà vissuta dai personaggi.
Il racconto perde così il suo carattere di finzione per diventare “documento umano”, fatto realmente
accaduto. La rinuncia al narratore onnisciente in nome dell’impersonalità del racconto era uno dei postulati
della scuola naturalista, anche se nessuno, neppure Zola, l’aveva spinto fino alle sue estreme consegnenze,
come in- vece fece Verga: che non si limitò ad adottare il ruolo impassibile del narratore-scienziato, ma
trasferì la voce narrante all’interno del mondo rappresentato, adottando il punto di vista di un narratore
popolare “omodiegetico”, cioè solidale al racconto, in quanto attore o spettatore dei fatti narrati. Questi
principi (la mano dell’artista deve rimanere «assolutamente invisibile» e l’opera d’arte deve sembrare
essersi «fatta da sé») furono esposti da Verga nella Prefazione alla novella L’amante di Gramigna (1880, poi
compresa in Vita dei campi).
Il “discorso indiretto libero” e la rappresentazione
del sentimento
Per conferire al racconto l’immediatezza della testimonianza orale Verga tratta la sintassi con grande
libertà, ricorrendo frequentemente al “discorso indi retto libero”, che permette di innestare, nel corpo del-
la narrazione indiretta, inserti di discorso diretto che rinviano appunto al narratore omodiegetico.
Altro espediente tecnico è la rinuncia alla descrizione “interna” dei moti dell’animo (tipica del narratore
onnisciente); pensieri, sentimenti ed emozioni vengo- no descritti solo nella misura in cui si traducono in
atteggiamenti esteriori, osservabili dallo sguardo del testimone-osservatore che è, ancora una volta, il
narratore omodiegetico.
Il ciclo dei vinti
Dopo il successo di Nedda, incoraggiato dall’editore Treves, Verga iniziò un altro bozzetto siciliano, Padron
‘Ntoni, che da semplice novella divenne poi romanzo, e addirittura primo di un ciclo di cinque romanzi (l’i-
dea venne probabilmente dal ciclo dei Rougon-Mac- quart di Zola) intitolato dapprima La Marea e succes-
sivamente I vinti.
Le linee-guida
Possiamo ritrovare le linee-guida di questo ciclo in alcune lettere e poi, soprattutto, nella Prefazione ai
Malavoglia (1881). I cinque romanzi (I Malavoglia, Ma- stro-don Gesualdo, La duchessa de Leyra,
l’Onorevole Scipioni e L’uomo di lusso) dovevano rappresentare complessivamente «una specie di
fantasmagoria del- la lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro e all’artista, e assume tutte
le forme, dalla ambizione alla avidità del guadagno», adattando stile e tecniche narrative ai diversi ambienti
rappresentati. Il progetto rimase incompiuto: Verga non andò oltre l’abbozzo dei primi capitoli della
Duchessa de Leyra.
Una visione fatalista della vita umana
Nella Prefazione ai Malavoglia Verga appare convinto dell’esistenza di una legge universale che governa
tutti i destini umani, legge di cui i romanzi dovevano fornire la conferma e che consiste in questo: la vita
umana a ogni livello è agitata da una lotta di tutti contro tutti senza pietà e senza quartiere, lotta governata
dal più sfrenato egoismo e in cui il calcolo e l’interesse sono gli unici criteri di scelta. In un simile contesto i
deboli sono destinati a soccombere e i forti a prevalere e non ha più senso parlare di “vizi” e “virtù”, per-
ché essi presuppongono la libera scelta dell’uomo (il libero arbitrio), mentre invece per Verga il comporta-
mento umano è determinato senza scampo dalle leggi brutali della lotta per la sopravvivenza e
l’autoaffermazione. Questa lotta provocata dalla «ricerca del meglio» è motore della società e della storia
umana. Il “progresso infinito” (idea di matrice positivista), se osservato concentrando l’attenzione sui desini
individua- li, appare a Verga nient’altro che una brutale macina da cui nessuno, a nessun livello sociale, può
salvarsi: il vincitore che oggi si impone schiacciando il vinto sarà schiacciato a sua volta dai vincitori di
domani.
Un ciclo incompiuto
La rivoluzionaria tecnica narrativa adottata, e in parti- colare la rinuncia al narratore onnisciente, è
probabilmente la causa dell’incompiutezza del ciclo. Se infatti era possibile rappresentare la psicologia
elementare delle classi più umili attraverso la mera descrizione del comportamento esteriore, la cosa si
rivelava irrealizzabile affrontando i più alti livelli sociali, dove le convenzioni, l’educazione, la cultura, oltre a
rendere estremamente complesso il mondo interiore dei personaggi, alimentano la dissimulazione e
impongono una “maschera”.
I Malavoglia [1881] La vicenda
Nel paesino di Aci Trezza, alle pendici dell’Etna, vive la famiglia Toscano, soprannominata Malavoglia, com-
posta dal patriarca padron ‘Ntoni, dal figlio Bastianaz- zo sposato con Maruzza la Longa, e dai loro cinque
figli: il giovane ‘Ntoni, Luca, Mena, Alessi e Lia. Pro- prietari della casa del nespolo e di una barca, la Prov-
videnza, i Malavoglia vivono onestamente di pesca fino a quando la partenza del giovane ‘Ntoni per il servi-
zio militare (siamo all’indomani dell’Unità d’Italia) li spinge a improvvisarsi commercianti, acquistando a
credito una partita di lupini dallo zio Crocifisso, l’usu- raio del paese. Il naufragio della barca e del carico e la
morte di Bastianazzo avviano la famiglia alla cata- strofe, anche perché ‘Ntoni, rientrato dalla leva, non sa
più adattarsi alla vita di prima. A partire da questo momento, disgrazie si sommano a disgrazie: perdute la
barca e la casa, i Malavoglia si riducono a lavorare a giornata; Luca muore nella battaglia navale di Lis- sa;
Maruzza muore di colera; Lia, disonorata, fugge in città e finisce in un postribolo; ‘Ntoni frequenta cattive
compagnie e finisce in carcere; padron ‘Ntoni, spezza- to da tante sventure, muore miseramente in ospeda-
le. Ma alla fine Alessi, riscattata la casa del nespolo, sembra avviare la rinascita della famiglia.
La legge dell’interesse
L’interesse economico è il motore principale dell’in- treccio romanzesco; esso non solo motiva e guida le
azioni, ma stabilisce anche il sistema dei valori e le gerarchie sociali: solo chi ha «delle barche sull’acqua e
delle tegole al sole» gode di stima e considerazione, la perdita della casa del nespolo e della Provvidenza
getta i Malavoglia da un giorno all’altro nella categoria dei reietti; sulla base dell’interesse (e non certo
dell’amore) vengono combinati i matrimoni; sulla base dell’interesse agisce lo zio Crocifisso, non a caso
detto «campana di legno» perché sordo a qualunque altro argomento. Badare ai propri interessi è la legge
fondamentale degli abitanti di Aci Trezza, che li chiude in un gretto egoismo rendendoli ciechi alle disgrazie
altrui e sordi ai richiami della pietà e della solidarietà.
Il mito del benessere e «l’ideale dell’ostrica»
Il romanzo iniziale del ciclo dei Vinti vuole mostrare che cosa accade a chi sente «le prime irrequietudini pel
benessere» e prende coscienza «che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio». In questo senso
personaggio emblematico è il giovane ‘Ntoni che, abbaglia to dalle sirene del progresso quando si è
allontanato da Aci Trezza per il servizio militare, non accetta più di spezzarsi la schiena con rassegnazione e
pazien- za, ma vuole andarsene a fare fortuna, per mangiare «pasta e carne tutti i giorni». La sua è dunque
una vicenda di formazione, o meglio di de-formazione, per- ché va incontro a un completo fallimento:
tornato di notte al paese ridotto come un pezzente, si dà al bere e al contrabbando, riducendosi a livello
quasi anima- le. La sua colpa consiste nella violazione della legge del destino che impone a ciascuno di
accontentarsi di ciò che possiede, senza aspirare a cambiamenti: legge che nel romanzo è incarnata dal
vecchio padron ‘Ntoni e che nella novella Fantasticheria Verga stesso chiamò «ideale dell’ostrica»: l’uomo
può essere felice solo nella «rassegnazione coraggiosa» che lo fa rima- nere tenacemente attaccato allo
scoglio sul quale la fortuna lo ha lasciato cadere. ‘Ntoni comprende tutto questo, ma troppo tardi: nel
mondo di Verga l’ammissione delle proprie colpe e il ravvedimento non basta- no, per il colpevole non
esiste redenzione. In questo senso l’orizzonte ideologico verghiano richiama quello della tragedia greca: il
desiderio di migliorare la propria condizione è la versione moderna della hybris an- tica, cioè della
tracotanza dell’uomo che si ribella al fato credendosi arbitro del proprio destino: una colpa che può essere
espiata solo con l’annientamento. Verga appare quindi lontanissimo sia dalla visione religio- sa e
provvidenzialistica di Manzoni, sia dalla mentalità moderna tutta fiduciosamente protesa al progresso
tecnico, sociale, economico.
Caratteri narrativi
Il rifiuto del narratore onnisciente in favore del narratore omodiegetico ha come prima conseguenza il fatto
che l’orizzonte degli eventi narrati sia limitato ad Aci Trezza: come un personaggio se ne allontana, esce
dall’orizzonte narrativo e di quel che gli capita siamo aggiornati limitatamente a quanto egli stesso riferisce
(o a quanto possono riferire eventuali testimoni occasionali). Così avviene per ‘Ntoni: nulla sappiamo del- le
esperienze da lui vissute dopo la “fuga” dal paese, quel che possiamo conoscere sono semmai i segni, fisici
e psicologici, che esse hanno lasciato in lui. A creare sapienti effetti di realtà e di colore locale
contribuiscono inoltre: la gestualità “teatrale” dei personaggi, che ne crea efficaci ritratti dal vivo e aggira la
rinuncia all’introspezione; l’impiego frequentissmo di similitudini e proverbi tutti legati all’esperienza e alla
cultura dei parlanti; i soprannomi, non di rado ispirati a una lettura ironico-grottesca del personaggio (si
pensi allo zio Crocifisso, alla Santuzza, agli stessi Malavoglia).
Il problema della lingua
Per conciliare la ricerca del colore locale con l’esigenza della comprensibilità, che comportava la rinuncia al
dialetto, Verga adottò una lingua molto vicina al parlato e ricca di locuzioni idiomatiche; ricorse a particolari
accorgimenti sintattici al limite della sgrammaticatura, come il “che” polivalente, il pro- nome pleonastico
(«la gente gli rideva sul muso allo zio Crocifisso»), le “frasi foderate” («ci vuole la terra al sole, ci vuole!»); a
livello lessicale, impiegò termini («sciara», «fariglioni», «malabestia», «Giufà») o modi di dire («da pagarsi
col violino», «aceto dei sette la- dri») che rinviano al dialetto, arricchendo in questo modo da un lato la
lingua italiana di nuovi lemmi e dall’altro nobilitando il dialetto che acquisisce dignità scritta e dimensione
sovraregionale.
Da notare anche l’abnorme frequenza dei verbi all’imperfetto, tempo della durata e della ripetizione,
espediente che esprime la visione immobilistica del desti- no tipica di Verga.
Mastro-don Gesualdo [1889]
La vicenda
La vicenda è ambientata a Vizzini fra il 1820 e il 1848. Gesualdo Motta è un self-made man che è riuscito
laddove il giovane ‘Ntoni aveva fallito: grazie al suo fiuto per gli affari e a una vita di sacrifici e rinunce in
nome del valore supremo della «roba», da modesto muratore è diventato il “re” del mattone e ora vuo- le
arrivare a controllare l’intera produzione agricola della zona e dettare i prezzi al mercato. Allo scopo di
ottenere il sostegno o almeno la neutralità dei nobili locali sposa l’aristocratica Bianca Trao, pur sapendo- la
sul lastrico e incinta di un altro. Ma anche per lui, proprio quando si crede al vertice, comincia la caduta:
logorato dalla continua guerra contro la cupidigia di parenti e compaesani e dai bocconi amari inghiottiti in
famiglia (della moglie e della figlia Isabella non solo non ha ottenuto l’affetto, ma neppure il rispetto), muo-
re di cancro abbandonato a se stesso tra l’indifferenza generale, mentre la sua «roba» viene dilapidata con
noncuranza dal genero, il duca de Leyra.
I temi: aristocrazia e borghesia; essere e avere
Nel romanzo va in scena il conflitto fra due mondi e due mentalità, quella aristocratica, incarnata dai Trao,
immobilistica e fondata sul privilegio del sangue, e quella borghese e imprenditoriale, dinamica
espericolata, incarnata da Gesualdo, che ne rappresen- ta la dimensione epica ed eroica: un uomo dedito
alla “religione della roba”, lungimirante e infallibile, pronto ad affrontare rischi, disagi, sacrifici e dotato di
una vo- lontà incrollabile. Verga stigmatizza entrambe queste mentalità, queste concezioni del mondo; se
all’inizio il fiuto per gli affari di Gesualdo sembra avere la meglio, in realtà alla fine emerge ancora una volta
la visione immobilistica verghiana: infatti la «roba» accumulata dal nostro rampante e aggressivo
imprenditore finisce dissipata nelle mani dell’aristocratico, parassitario e nullafacente duca de Leyra: lo
scontro fra nobilità e borghesia si conclude senza vincitori. E le “virtù” imprenditoriali, che fanno di
Gesualdo un vincente nel campo degli affari, si trasformano in “vizi” sul piano esistenziale, facendo del
protagonista un vinto nel campo degli affetti e della piena realizzazione di sé, come a ribadire che “religione
della roba” e ricerca della felicità sono fra loro incompatibili. Tra tutte le persone più vicine a Gesualdo,
padre, fratelli, moglie, figlia, non ce n’è una di cui egli possa fidarsi, con cui possa confidarsi e sfogarsi: tutte
sono per lui unica- mente fonte di dispiaceri, rabbia e amarezza, al punto di avvelenargli la vita.
L’emblema della malattia
Il cancro allo stomaco che uccide Gesualdo al termine del romanzo somatizza emblematicamente la sua
religione di vita fondata sull’attaccamento ossessivo alla «roba»; il suo rifiuto a sottoporsi all’operazione
per rimuovere la massa tumorale è significativo: Gesualdo non sa e non vuole staccarsi dalla «roba», che
finisce per divorarlo dall’interno; l’avere, cui è stato dato il primo posto, finisce per annientare l’essere.
Interessante è la lettura del personaggio in chiave prometei- ca: Prometeo, benefattore dell’umanità e
garante del progresso, è uno dei grandi miti di fine Ottocento, e significativamente il titano venne
condannato da Zeus ad avere il fegato dilaniato da un’aquila, come Gesualdo ha questo «cane arrabbiato»
che gli divora le viscere. Altrettanto emblematiche sono le malattie che colpiscono i Trao (demenza, tisi),
segni di un sangue malato, di una nobiltà ormai estenuata e consunta, destinata a essere cancellata dalla
storia.
Matrimonio e amore
L’avere distrugge l’essere anche nell’ambito dei rap- porti familiari: passione amorosa e istituzione
matrimoniale appaiono totalmente dissociati, in quanto la seconda rientra interamente nella logica
dell’interesse economico. Non è un caso se i rapporti coniugali, nel romanzo, sono infelici e infecondi,
mentre le relazioni passionali avvengono al di fuori del matrimonio e sono feconde; così pure il matrimonio
riparatore (fra Bianca e Gesualdo) non consacra l’unione fra i due amanti (Bianca e il baronello Rubiera), ma
riconduce la vicenda nell’ordine economico dell’esistenza attraverso la scelta del partito più vantaggioso:
l’esito è il muro di incomunicabilità che separa Gesualdo dallamoglie e dalla figliastra.
ereditarietà e libertà
Sulla scorta delle idee di Hippolyte Taine anche nel Mastro-don Gesualdo Verga mostra come i compor-
tamenti vengano determinati dall’ambiente sociale e dal momento storico; rispetto ai Malavoglia acqui- sta
maggior peso l’elemento della razza, e lo si vede dall’importanza che assumono le tare ereditarie dei Trao e
la fisionomia dei personaggi; la razza determi- na anche aspetti caratteriali (l’ostinazione dei Motta, la
reticenza dei Trao) e inclinazioni (Isabella, come la madre, ha una relazione clandestina). Però a Gesual- do
Verga assegna anche caratteri che nulla hanno di ereditario; e così pure l’influsso esercitato dal con- testo
sociale e storico non produce affatto lo stesso effetto nei vari personaggi: nel comportamento indi- viduale
rimane sempre un elemento imprevedibile e incalcolabile, una zona d’ombra dove si gioca il libero arbitrio
dell’uomo. Piuttosto, l’antagonista con cui la libertà si scontra è ancora una volta il destino, la ne- mesi che
colpisce chiunque voglia sovvertire l’ordine costituito: anche Gesualdo è un vinto perché ha osato violare
«l’ideale dell’ostrica».
Le novelle
Verga pubblicò otto raccolte di novelle: Primavera e altri racconti, Vita dei campi, Novelle rusticane, Per le
vie, Drammi intimi, Vagabondaggio, I ricordi del capi- tano d’Arce, Don Candeloro e C.i. Scritte spesso per
motivazioni economiche, alcune sono tra le più belle della narrativa italiana moderna e spesso costitui-
scono il primo abbozzo di successivi romanzi: Vita dei campi è anticipazione dei Malavoglia, Novelle rustica-
ne del Mastro-don Gesualdo, Drammi intimi e I ricordi del capitano d’Arce della Duchessa de Leyra.
nedda [1874]
Momento di svolta dalla narrativa mondana ai soggetti rusticani, la novella narra la dolorosa vicenda di una
povera raccoglitrice di olive emarginata perché “disonorata” e costretta a vivere di stenti in una società
moralista e perbenista. Siamo ancora lontani dalla poetica dell’impersonalità e la protagonista conserva
alcuni tratti dell’eroina romantica in lotta contro le avversità del destino e i pregiudizi sociali; scopo
dichiarato è muovere a compassione le lettrici borghesi di fronte a una sorte tanto dolorosa e ingiusta.
vita dei campi [1880]
La raccolta comprende otto novelle (si segnalano Fantasticheria, Rosso Malpelo, Cavalleria rusticana, La
lupa e L’amante di Gramigna) in cui per la prima volta si assiste all’eclissi del narratore onnisciente,
sostituito da un narratore popolare che esprime un punto di vista radicalmente ostile al protagonista: in un
mondo dominato dall’egoismo, dal calcolo e dalla violenza, chiunque non segua la mentalità corrente e
agisca per motivi diversi dal proprio tornaconto deve essere messo al bando, emarginato, soppresso; letto
attraverso il giudizio ostile del narratore che incarna la mentalità dominante, il protagonista perde però
ogni tratto eroico assumendo caratteri criminali o ferini. La campagna perde ogni connotazione idilliaca e
bucolica e appare come un luogo ostile dove impera, come dappertutto, la lotta per la sopravvivenza con le
sue regole spietate.
novelle rusticane [1883]
La raccolta comprende dodici novelle (si segnalano La roba e Libertà) i cui personaggi appartengono per lo
più alla moderna borghesia intellettuale o imprenditoriale e rappresentano un’umanità perfet- tamente
integrata nella cinica morale dell’interesse. Il narratore popolare questa volta condivide la men- talità del
personaggio e ne approva l’astuzia senza scrupoli, specie se usata a danno dei deboli e degli sprovveduti; la
cultura appare come strumento di in- ganno e veicolo di sopraffazione. Solo la natura fa da argine alla
dominante mentalità rapace ed egoistica: con la sua forza devastante e distruttrice; con le ma- lattie; con la
vecchiaia e la morte, cui nessuno può sfuggire.
Per le vie [1883]
La raccolta comprende dodici novelle (si segnalano Il canarino del n. 15, Via crucis e L’ultima giornata) in cui
Verga trasporta nell’ambiente milanese la sua visione disincantata e immobile del mondo. Sono storie di
de grado e miseria i cui protagonisti, per lo più di estrazione popolare, si agitano in un mondo in cui può
solo accadere di sprofondare più in basso e dove, rispetto alla già spietata mancanza di solidarietà delle
campagne, si sperimenta la dimensione ancora più alienante dell’assoluta indifferenza.
Il teatro
Verga trascrisse per il teatro tre delle sue novelle: Cavalleria rusticana (1884: è l’atto di nascita del teatro
verista), Il canarino del n. 15 (che sulle scene divenne In portineria, 1885) e La lupa (1896). L’esito delle rap-
presentazioni fu alterno, ma in generale il passaggio dalla forma narrativa a quella teatrale conferisce a
questi testi un aspetto convenzionale e patetico, lontano dall’efficacia espressiva dell’originale.
LA LUPA
La novella di Verga La Lupa, pubblicata per la prima volta su rivista e successivamente oggetto di una
riduzione teatrale, appartiene alla raccolta Vita dei campi e la sua protagonista (la Lupa, appunto) è una tra
le protagoniste più incisive dell’intera produzione verghiana, grazie alla sua sensualità feroce e distruttiva.
Le vicende ruotano intorno alla sua sconcertante passione per il giovane Nanni: la donna, pur di averlo
vicino e riuscire a sedurlo, sarà disposta a dargli in moglie la figlia.
La Lupa riassunto
Ambientata in un piccolo paese siciliano, La Lupa racconta di una donna, gnà Pina, soprannominata la Lupa
dalla gente del posto per il suo comportamento e il suo aspetto: è una donna non più giovane, “randagia”,
conturbante e sensuale, che “per fortuna” non va mai in chiesa e seduce ("spolpa") gli uomini del villaggio.
Ha una figlia, Maricchia, “buona e brava”, che non può che piangere di nascosto per il suo destino infelice:
con una madre del genere nessuno la prenderà in moglie.
Un giorno la Lupa si innamora di Nanni, un giovane appena rientrato dal servizio militare con cui lavora nei
campi, ma il ragazzo, che ridendo rifiuta la donna, dichiara di desiderarne invece la figlia. Così, dopo
qualche mese, la Lupa costringe Maricchia a sposarlo e accetta il matrimonio a una condizione: che i due
vadano a vivere in casa di lei, lasciandole un angolo per dormire.
Con questo stratagemma la donna, ancora follemente innamorata, può restare a contatto con il genero e
portare avanti con successo la sua bramosa opera di seduzione.
Maricchia arriva disperata a denunciare la madre in commissariato. Nanni confessa l’adulterio (è “la
tentazione dell’inferno!”), ma la denuncia non ha alcun risultato: le forze dell’ordine chiedono alla donna di
lasciare la casa, ma la Lupa rifiuta di farlo.
Le cose non cambiano nemmeno quando Nanni, poco dopo, viene colpito al petto dal calcio di un mulo e,
ritenuto in punto di morte, confessa ancora i suoi peccati e si pente. Ma una volta guarito, “il diavolo torna
a tentarlo” e non ha intenzione di smettere: “ammazzami”, risponde la Lupa, “ma senza di te non voglio
starci”.Al colmo della follia, Nanni capisce che l’unica soluzione per liberarsi della donna è prenderla alla
lettera e ucciderla.
Analisi
La Lupa è una tra le novelle più note della raccolta Vita dei campi, anche e soprattutto grazie alla sua
conturbante protagonista. La sua sensualità aggressiva la rende per l’intero paese un diavolo o una strega,
dagli “occhi da satanasso”. Per veicolare queste caratteristiche Verga fa un interessante uso di colori
ricorrenti. Rosso e nero si ripetono nella novella a partire dal colore delle labbra e dei capelli della donna.
La descrizione che Verga fa della donna è un classico esempio di straniamento tramite regressione del
punto di vista (ne abbiamo parlato qui): il narratore si identifica con il punto di vista del paese, senza
prenderne le distanze, presentando i giudizi sulla donna e la visione che il resto del villaggio ha di lei.
Non a caso, a confermarne le caratteristiche è proprio un proverbio: la Lupa seduce Nanni durante le ore
pomeridiane: "In quell’ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona".
La Lupa non solo è totalmente estranea alla concezione di donna della mentalità popolare, non è mansueta
e domestica, ma è anche contraria alle leggi che dominano la vita di paese: la religione e la roba (uno dei
temi cardine della raccolta Novelle rusticane e del racconto La roba). Non si reca alle funzioni, né ha
scrupoli a sacrificare la dote della figlia pur di avere il genero vicino.A indicare la sua estraneità al resto del
paese è anche il sistema di nominazione.
La Lupa è compagna (gnà) Pina, ma il suo nome reale compare solo una volta nel testo e in un discorso
diretto. Come Rosso Malpelo, è sempre identificata con il soprannome con cui è nota in paese (ancora a
esempio dell’abbassamento del punto di vista).
La natura disumana della follia che guida la protagonista rende irrisolvibile il problema erotico-sentimentale
attorno a cui è costruita la novella. L’unico esito possibile è, come accade in Cavalleria rusticana, un esito
tragico. Che uno dei due amanti debba morire è la sola soluzione possibile. Il calcio del mulo ricevuto da
Nanni in pieno petto si rivela un tentativo fallito e insufficiente, non abbastanza potente perché la vicenda
abbia un suo compimento catartico. Disfarsi di un’ossessione così totalizzante e morbosa non può essere
tanto semplice: l’assassinio diventa la sola alternativa possibile.
Il finale del racconto è tuttavia ambiguo: Uccidere la Lupa è la sola azione (decisione?) effettivamente
compiuta dal ragazzo, che anche così non riesce però ad acquistare un ruolo attivo. Anche nel liberarsi da
una passione opprimente e diabolica, Nanni sembra ancora una volta succube della donna. “Pallido e
stralunato”, non può fare altro che compiere balbettando quanto da lei suggerito ("Ammazzami, rispose la
Lupa, chè non me ne importa; ma senza di te non voglio starci").
Al contrario, la Lupa si riafferma nella sua statuaria e indifferente consapevolezza e continua a marciare con
passo ferino verso l’oggetto del suo desiderio.
Libertà
La novella Libertà di Giovanni Verga venne pubblicata per la prima volta il 12 marzo 1882 su “La domenica
letteraria” e l’anno seguente inserita nella raccolta Novelle rusticane. Nei dodici testi che la compongono,
Verga ripropone e radicalizza temi a lui cari, quali religione della roba e pessimismo storico. Logica
economica e interesse egoistico improntano il comportamento di tutti i personaggi della raccolta, mentre
sull’orizzonte sociale non c’è spazio per illusioni riformistiche. Scala gerarchica e denaro regolano i rapporti
di forza da cui è bandita la solidarietà. Inoltre, il focus di Verga privilegia l’analisi delle dinamiche sociali ed
economiche collettive rispetto a quella del singolo in lotta con l’ambiente, come dimostra la novella in
esame. Qual è l’argomento di Libertà
Questo racconto è problematico sia per l’oggetto, sia per la posizione dell’autore di fronte a esso, pur nella
trasfigurazione letteraria. A riguardo, l’accusa di mistificazione della storia avanzata da Sciascia mi sembra
inutile: la storia permette a Verga scrittore (non storico) di affrontare motivi generali, analoghi a quelli
presenti nei Malavoglia. Verga narra le fasi salienti di una rivolta contadina scoppiata in Sicilia e repressa dal
generale Nino Bixio, passata alla storia come i fatti o il massacro del Bronte. I braccianti vogliono la libertà
in senso socio economico come riforma agraria. I notabili temono questa libertà, che leggono in senso
politico come rivoluzione e carneficina.
La trama della novella Libertà
Dal punto di vista strutturale, il testo è articolato in tre atti: azione, reazione, punizione.
Nell’incipit in medias res il lettore si imbatte in una folla inneggiante “libertà”, ossia un’equa distribuzione
della proprietà terriera. Armata di falci, scuri, sassi, travolge il centro del paese “come il mare in tempesta”,
poi esonda nelle abitazioni dei notabili “come un carnevale furibondo”. In un crescendo di violenza
sottolineata dal cromatismo rosso/nero vengono uccisi borghesi, aristocratici, preti, sbirri accusati di
malversazioni o immoralità. Tra le vittime innocenti anche donne, bambini e un padre di famiglia in
difficoltà.Il giorno seguente gli insorti si radunano piano piano nella piazza deserta. L’inagibilità di chiesa,
municipio, circolo li smarrisce. Il pensiero della spartizione delle terre li rende avidi, li divide e disorienta,
ora che il padrone non l’hanno più. Poi l’arrivo di Bixio, “il generale che faceva tremare la gente”, comporta
le prime esecuzioni sommarie. Il processo istituito in loco completa arresti e condanne. In paese ognuno
ritorna alle proprie occupazioni. Secondo i notabili libertà è sinonimo di rivoluzione e carneficina. La
normalizzazione, invece, per i contadini significa ricominciare ad accettare la logica di arbitrii e sopraffazioni
che ha alimentato la rivolta. In fondo braccianti e galantuomini sono legati a doppio filo per vivere. A
distanza di tre anni si concludono i processi. Mentre i giurati non dissimulano disinteresse e noia, gli
imputati di cui è emblema la figura del carbonaio sono piegati dalla sofferenza della delusione e dello
sconcerto. Qual è la posizione di Verga?
In Libertà, la posizione di Verga è di cupo pessimismo: le differenze di classe sono ineliminabili. Verga, da
latifondista conservatore, monarchico e crispino, non ha forse una visione fatalistica della realtà agraria?
Poiché l’assetto sociale è naturale, lo scrittore catanese pensa che ogni cambiamento sia destinato a fallire.
Adesso diamo la parola alla storia.
D’ANNUNZIO, LA VITA E LE MASCHERE
La sua vita privata divenne anche vita pubblica, era molto attento alla sua immagine, per lui la vita
coincideva con l'opera d'arte accanto alla quale egli aggiungeva la propria immagine.
Ha costruito diverse immagini di se stesso, nei vari periodi in cui ha vissuto si è creato un’ immagine che è
riuscito a promuovere con il mondo esterno. D'Annunzio non era il suo vero cognome, si chiamava
Rapagnetta, D'Annunzio era solo il nome d'arte.
Studia prima a Pescara e poi a Prato al Collegio Cicognini. Si trasferirà poi a Roma nel 1881 e si creerà la
prima maschera: quella dell'esteta: colui che ricerca il piacere. Invece di laurearsi si mette a scrivere sui
giornali (nella Cronaca Bizantina) questa fase finisce nel 1894. Conosce poi Eleonora Duse che diverrà sua
amante; incontra la filosofia di Nietzsche, uno dei maestri del sospetto, il quale afferma che l'uomo debole
si crea delle filosofie per superare questa debolezza, e per questo elabora il concetto di <<superuomo>> (in
realtà oltreuomo: Ubermensch), fedele alla terra e al sangue, legato all'istintività e non alla mente.
Prima parte dall'estetismo per poi arrivare, quindi, al Superuomo di Nietzsche. Questa fase arriva fino al
1910 quando egli, inseguito dai creditori per aver accumulato molti debiti, decide di scappare in Francia dal
1910 al 1915 e qui l'immagine che dà di sé è quella dell'esule, colui che fugge. Nel 1915 vi è la Prima guerra
mondiale e lui diventa un interventista, in questa quarta fase il poeta attira il popolo nelle radiose giornate
di maggio, facendo prevalere un’altra maschera, quella del comandante. Parte così volontario per andare in
guerra e compie due azioni spettacolari:
-VOLO SU VIENNA: del 9 agosto 1918 , fu una trasvolata compiuta dall’Ansaldo S.V.A. dell’ottantasettesima
squadriglia. Dieci erano monoposto, ed uno biposto pilotato dal Capitano Natale Palli, mentre il Maggiore
Gabriele d'Annunzio, comandante della Squadra Aerea S. Marco, era nell'abitacolo anteriore. Nel corso di
questa azione, puramente dimostrativa, vennero lanciati su Vienna 400000 manifestini tricolori.
-BEFFA DI BUCCARI: un’incursione a sorpresa che si svolse nella notte tra il 10 e l'11 febbraio 1918 nella
Baia di Buccari (in Croato Bakar) nell'ultimo anno della Prima guerra mondiale, nel corso della quale
vennero ugualmente lasciati scritti da parte del poeta.
Nel Dopoguerra D'Annunzio occupa Fiume nel 1919 e proclama la reggenza del CARNARO, governando la
città per circa un anno. E’ qui che egli inaugura la tecnica dei discorsi dal balcone da cui prese spunto il
fascista Mussolini. Nel 1920 Giolitti fa sgombrare D'Annunzio da Fiume.
Questa quarta fase finisce nel 1921. Dal 1921 fino alla morte nel 1938 D’Annunzio si ritira in una sua casa
museo, chiamata il Vittoriale degli Italiani, dove si rinchiude con tutti i suoi cimeli, diventa una sorta di
museo. Quest’ultima fase può chiamarsi del fantasma.

I TEMI
Due risultano i concetti chiave dell’ideologia di D’Annunzio. Essi sono: l’Estetismo ed il Superuomo.
ESTETISMO: si intende la ricerca del piacere, fine a se stesso; l’identificazione della bellezza, del godimento
estetico, dell’arte, della forma come assoluto; l’idea centrale del fare della propria vita un’opera d’arte. Per
questi motivi la vita dell’esteta diviene essa stessa arte ed acquisisce un’importanza fondamentale. Il
movimento dell’Estetismo ebbe, in Europa, tre grandi maestri:
J. K. Huysmans in Francia (Controcorrente- A rebours) Oscar Wilde in Inghilterra (The picture of Dorian
Gray) G. D’Annunzio in Italia (Il piacere)
SUPERUOMO: si intende un uomo particolare, al di sopra della morale comune, in grado di cogliere segreti
e di provare sensazioni più forti rispetto agli uomini semplici. Il mito del "superuomo" deriva a D'Annunzio
dalla lettura di Nietzsche, che viene tuttavia deformata, manipolata e interpretata ad uso e consumo del
poeta. Carlo Salinari ne fa risalire la nascita al 1895, con la prima puntata del romanzo "Le vergini delle
rocce", uscite sul "Convito", la rivista diretta da Adolfo De Bosis. La concezione del superuomo è
profondamente aristocratica: è un uomo che odia l’eguaglianza e la democrazia ed esalta la violenza e la
prevalenza dei più forti sui più deboli. Il superuomo dannunziano non è però fuori del tempo, perchè la sua
polemica si indirizza << contro la plebe, ma anche e soprattutto contro la nuova borghesia dell'industria e
del commercio e contro i principi di libertà e di eguaglianza da essa promulgati con la Rivoluzione>>.
ESORDIO
L’esordio del giovane d’Annunzio avviene sotto il segno di due scrittori: Carducci e Verga. Infatti, le prime
due raccolte liriche, Primo Vere e Canto Novo, si rifanno a Carducci. La prima opera letteraria, la raccolta di
novelle Terra Vergine, invece, è influenzata dal Verga verista.
Primo Vere è la prima raccolta di liriche, pubblicata quando l’autore era appena sedicenne. Innanzitutto,
l’opera è interessante per la strategia promozionale allestita dall’autore stesso che diffonde in
contemporanea con l’uscita della sua creazione la notizia di una sua precocissima morte a causa di un
incidente a cavallo. Ciò dimostra come, anche se ancora in piena adolescenza, d’Annunzio conoscesse già i
meccanismi della pubblicità e del sistema economico del tempo.
Canto Novo riprende da Carducci la metrica barbara e porta all’estremo il tema della fusione tra io e
natura.Compare anche il vitalismo esasperato, che mostra fin da subito, da contrapporsi al fascino della
morte. Per Terra Vergine, invece, il poeta verista non è così influente. Di Verga c’è solo il rimando alla
propria terra d’origine, le campagne abruzzesi per D’Annunzio. L’opera presenta l’intromissione del
narratore e il mondo descritto è idilliaco, non problematico; questo va contro le regole verghiane. Fin
dall’esordio, quindi, il giovane d’Annunzio presenta una propria personalità e sopratutto aspetti del
Decadentismo Italiano del quale diverrà uno dei portavoce. Il periodo notturno
Nell’ultima fase della sua produzione, definita comunemente periodo notturno dal titolo dell’opera più
significativa, Notturno (1921), d’Annunzio segue le tendenze della cultura italiana dei primi del Novecento.
Sperimenta quindi nuove forme di prosa, una prosa lirica, evocativa,di memoria, frammentaria.
(GUARDA MAPPA DECADENTISMO SUL QUADERNO)
Prose liriche e di memoria
D’Annunzio quindi inizierà dal 1913 a pubblicare opere di questo genere: la Contemplazione della morte
(1912), la Licenza della Leda senza cigno (1913), il Notturno (1921), Le faville del maglio (1924 e 1928), il
Libro segreto (1935). Si tratta di opere diverse tra loro, ma accomunate da un taglio autobiografico e dal
registro stilistico più misurato.

Un d’Annunzio rinnovato
Si nota quindi un d’Annunzio rinnovato, genuino e sincero, al pari di quello di Alcyone, senza le solite
maschere fastidiose. Queste prose presentano una materia nuova, ricordi d’infanzia, sensazioni fuggevoli,
confessioni soggettive, un ripiegamento ad esplorare la propria interiorità, pervasa da inquietudini e
perplessità, e soprattutto dal pensiero della morte.
Anche la struttura di queste opere è nuova: non più costruzioni complesse ed artificiose, ma il frammento:
un procedere per libere associazioni, un fondere presente e passato attraverso la memoria.

Il Notturno
Quest’ultima stagione della produzione dannunziana viene definita periodo notturno, dal titolo della più
significativa di queste prose, il Notturno. Composta nel 1916, un periodo nel quale lo scrittore era costretto
alla totale immobilità e al buio totale per il distacco della retina. A causa della provvisoria cecità tutta
l’esperienza si concentra quindi sugli altri sensi. La redazione definitiva, pubblicata nel 1921, conserva il
carattere di annotazione casuale, ossia quello che caratterizza realmente l’opera.
Occorre notare che oltre al carattere innovativo, queste prose seguono un fenomeno culturale che in quegli
anni andava in direzioni analoghe, la tendenza al frammentarismo. Non solo, ma queste prose rivelano
ancora una presenza del narcisismo e di autocelebrazioni del proprio vivere inimitabile.
Alcyone
Alcyone è una raccolta di liriche pubblicata nel 1903 ed è considerato il terzo libro delle Laudi del cielo, del
mare, della terra e degli eroi. E’ l’opera in cui il poeta dimostra la sua massima capacità artistica. In questo
libro l’autore celebra la stagione estiva, che simbolicamente rappresenta la fase più rigogliosa nella vita di
un uomo.
Alcyone nella mitologia greca classica è la figlia di Eolo, il re dei venti. Il libro si compone di 88 testi ed è
suddiviso in cinque sezioni. Ogni sezione affronta una tematica specifica facendo riferimento ad una
stagione, ad un ambiente naturale e allo stato d’animo ad esse associato. Nell’Alcyone il tema
fondamentale è l’identificazione dell’uomo con gli elementi della Natura, il panismo.
Le 5 sezioni della raccolta
La prima sezione è ambientata nel mese di Giugno, quando la primavera lascia il posto all’estate. Il poeta
descrive il paesaggio tra Fiesole e Firenze attraverso lodi che esaltano gli elementi naturali e paesaggistici
del luogo.
Nella seconda l’ambientazione si sposta in Versilia, durante il mese di Luglio. L’uomo si abbandona alla
bellezza della natura fino a fondersi con essa. A questa sezione appartiene la lirica più famosa del poeta: La
Pioggia nel Pineto.
Anche nella terza sezione si celebra la stagione estiva nella sua pienezza, e qui il panismo si armonizza
perfettamente con la teoria del “Superuomo”.
Nella quarta compaiono i primi assaggi autunnali, l’estate sta per finire. Dal punto di vista simbolico, il
poeta intende affermare che, così come si assiste al tramonto della stagione estiva, così tramontano i miti
improntati sulla ricchezza e i beni strettamente materiali. Ciò che rimane per sempre sono invece l’Arte e la
Poesia.
Nell’ultima parte del libro è dedicata interamente al mese di Settembre, quando l’estate volge al termine
lasciando il posto all’autunno. Nel testo si trova anche una dedica al poeta Pascoli ed un saluto a Carducci.

Le tematiche
Gabriele D’Annunzio con l’Alcyone dimostra di fare una scelta precisa: ricalcare le orme del classicismo
ridando attualità alla tradizione classica. Nella raccolta la natura è vista come manifestazione di Dio, che
riflette le vicende sia esteriori che interiori dell’uomo. I luoghi descritti dal “Vate” si trovano in Toscana, ma
si ispirano a quelli della Grecia arcaica e classica. Le donne di cui si parla all’interno dell’opera sono
piuttosto sfuggevoli, quasi creature mitologiche, tutte rappresentate dalla figura dell’attrice Eleonora Duse.
Le Laudi e il Teatro
L’approdo all’ideologia superomistica coincide con la progettazione di vaste e ambiziose costruzioni
letterarie; nel campo della lirica vuole affidare il sommario della sua visione a sette libri, le Laudi del cielo
del mare della terra e degli eroi. Nel 1903 vengono terminati e pubblicati i primi tre, Maia, Elettra e
Alcyone. Ma anche questa costruzione rimane incompiuta, infatti dopo la morte vengono pubblicate
Merope e Asterope, e gli ultimi due libri pur annunciati, non vennero mai scritti.

Maia
L’autore non adotta più uno schema metrico tradizionale, ma fa uso di versi liberi mantenuti
inflessibilmente in strofe di ventuno versi (ciascuna numerata in terne di sette) lungo tutto il poema. Il
poema prende spunto dalla crociera in Grecia e nell’Egeo che il poeta compì nei mesi di luglio. In realtà il
poema costruisce la trasfigurazione in chiave eroica e leggendaria di quella esperienza ed in esso l’ideologia
del superuomo, molto frequente nelle opere di d’Annunzio, caratterizza fortemente la forma e i temi
trattati. L’opera si ispira molto a vari testi scritti dal filosofo tedesco Nietzsche.

Elettra
Raccoglie poesie celebrative già apparse in precedenza. Anche qui vi è un polo positivo, rappresentato da
un passato e da un futuro di gloria e di bellezza, che si contrappongono a un polo negativo, un presente da
riscattare. L’aura che avvolge i componimenti è la presentazione della metamorfosi dell’Eroe dannunziano,
non più un “Ulisside”, ma una entità che ha pieno possesso della fusione esteta-superuomo, e che quindi
ora è votato a nuove imprese di conquista e propaganda.
Approdo al teatro
L’ideologia superomistica ha un peso determinante nell’approdo di d’Annunzio al teatro, che avviene nel
1896 con la composizione di Città morta. Il teatro, rivolgendosi alle moltitudini, può essere il più potente
strumento di diffusione del messaggio superomistico. La drammaturgia dannunziana rifiuta ovviamente
tutte le regole e forme attuali. D’annunzio ambisce ad un teatro di “poesia”, che trasfiguri e sublimi la
realtà, riportando in vita l’antico spirito tragico, che rappresenti personaggi d’eccezzione, passioni e conflitti
psicologici fuori dal comune. La sua avventura si apre con la scrittura di una serie di libri, intitolata “le
Laudi”.

Romanzi del superuomo


I romanzi frutto della fase del superuomo sono: Il Trionfo della Morte, Le vergini delle rocce, Il fuoco, Forse
che sì forse che no. In questi romanzi D’Annunzio e i suoi alter-ego non riescono mai a realizzarsi come eroi
e ciò è anche testimoniato dal fatto che l’autore non riesca mai a concludere i cicli narrativi iniziati, che
nella loro conclusione avrebbero proprio visto l’evolversi dei vari personaggi e il raggiungimento delle loro
mete.

Trionfo della Morte


Il primo in ordine cronologico è Il Trionfo della Morte, che rappresenta, però, ancora una fase di
transizione. Il protagonista, Giorgio Aurispa, è di fatto un’esteta. Egli è travagliato da una malattia interiore,
acuita dal ritorno in famiglia, che gli fa rivivere il conflitto col padre. Per migliorare le sue condizioni si ritira,
insieme alla sua donna, Ippolita Sanzio, in un villaggio abruzzese. Da quel mondo primitivo, Giorgio è però
disgustato e respinto. A peggiorare la situazione ci sono le avverse forze oscure, manifestate nella sua
donna. La soluzione finale è il suicidio. Questo atto può essere visto simbolicamente con la definitiva morte
dell’esteta in d’Annunzio

Vergini delle rocce


Il successivo romanzo, Le vergini delle rocce , nome ripreso dal famoso quadro di Leonardo da Vinci (foto
sotto), segna una svolta radicale, tanto che è definito il manifesto politico del superuomo. In esso vengono
espresse le nuove teorie aristocratiche, reazionarie e imperialistiche di d’Annunzio. L’eroe del romanzo è
Claudio Cantelmo,che va alla ricerca di una donna con la quale generare il futuro superuomo. Egli deve fare
la scelta tra tre donne, appartenenti a un famiglia nobile in decadenza. La più forte e maestosa delle tre,
Anatolia, però, non può seguire Claudio, perciò egli è sopraffatto dal fascino perverso di Violante, immagine
della donna fatale. E’ evidente come la decadenza e la morte esercitano sugli eroi dannunziani un
irresistibile attrazione.

Il fuoco
Il fuoco, poi, si propone come il manifesto artistico del superuomo: l’eroe, Stelio Effrena, medita una
grande opera artistica. Gli si oppongono però forze oscure che prendono corpo in una donna, Foscarina
Perdita. Ella incarna l’attrazione dannunziana per la morte, tramite il suo amore possessivo, che ostacola la
costruzione della sua opera. Al disfacimento allude anche lo scenario, la decadente città di Venezia. Il
romanzo termina con Foscarina che lascerà solo Stelio, che, comunque, non porterà a termine l’opera.
Forse che sì forse che no
L’ultimo dei romanzi del superuomo, Forse che sì forse che no, presenta una tema nuovo: l’esaltazione
della macchina, simbolo della realtà moderna. Il protagonista, Paolo Tarsis, realizza il suo sogno di volare. E’
ovviamente presente la figura della donna nemica, che in questo caso è Isabella Inghirami. Anche qui l’eroe
sembra dover soccombere all’influenza negativa della donna, che durante un volo rischia la morte, evitata
solo grazie al compimento di una vera e propria impresa.
GIovannI pascoLI
PERCHÉ PASCOLI È UN CLASSICO?
1. Perché è il maggiore rappresentante italiano della poesia simbolista.
2. Perché come nessun altro ha saputo cogliere e far percepire il mistero della vita.
3. Perché la sua ispirazione poetica è stata sorretta da una sensibilità sottile, capace di leggere le voci del- la
natura come un libro segreto, dove sono riposte le grandi verità dell’esistenza umana.
4. Perché, poeta evocativo e visionario, ha saputo guardare al di là della superficie del mondo fisico per
afferrare l’essenza delle cose.
5. Perché il suo occhio penetrante, guardando gli og- getti più umili con lo stupore incantato di un fanciullo,
raggiunge sempre verità eterne e universali.
LA VITA [1855-1912]
Infanzia e giovinezza
Giovanni Pascoli nacque nel 1855 a San Mauro di Romagna (Forlì), quarto di dieci figli. Il padre am-
ministrava una tenuta agricola e Giovanni crebbe in campagna, in una famiglia patriarcale e agiata. A otto
anni entrò nel collegio dei padri scolopi a Urbino, dove frequentava la prima liceo quando, nel 1867, il
padre venne assassinato in circostanze misteriose; fu un delitto destinato a rimanere impunito e che
sconvol- se il sereno nido familiare: la madre morì l’anno se- guente e il fratello maggiore Giacomo si
trasferì con il resto della famiglia a Rimini. Giovanni riuscì a termi- nare il liceo e, grazie a una borsa di
studio, a iscriver- si a Bologna alla facoltà di lettere. Partecipò alla vita culturale bolognese e venne a
contatto con i circoli socialisti, sposando la causa della giustizia sociale; la partecipazione a una
manifestazione di protesta lo privò della borsa di studio e Pascoli dovette abbando- nare gli studi.
Intensificò il suo attivismo politico dopo aver conosciuto l’anarchico Andrea Costa; si impegnò nella
propaganda in favore della Prima internazionale e conobbe la prigione. Scarcerato, abbandonò la po- litica
attiva temperando i suoi ideali in un umanita- rismo interclassista di stampo contadino, contrario allo
scontro sociale e venato di sensibilità evangelica. Ripresi gli studi, nel 1882 si laureò con una tesi sul poeta
greco Alceo.
Gli anni della maturità
Dedicatosi all’insegnamento del latino e del greco nelle scuole superiori, fu assegnato prima a Matera,
quindi a Massa e infine a Livorno. Nel 1892 vinse per la prima volta il prestigioso premio internazionale di
composizione poetica in lingua latina indetto dalla Re- gia accademia di Amsterdam; passato alla carriera
accademica, insegnò prima a Bologna, poi a Messina, quindi a Pisa. Nel 1905 fu infine chiamato dall’univer-
sità di Bologna a succedere a Giosue Carducci nella cattedra di letteratura italiana. L’ossessione di rico-
stituire il nucleo familiare lo spinse a riunire attorno a sé le sorelle Ida e Maria (detta Mariù) rinunciando a
sposarsi; visse pertanto il matrimonio di Ida come un tradimento. Nel 1895 a Castelvecchio di Barga (Luc-
ca) prese in affitto una casa che in seguito acquistò, facendone il suo nido definitivo assieme alla sorella
Mariù. In questi anni travagliati nacquero le raccolte poetiche più celebri: Myricae, Poemetti, Canti di Ca-
stelvecchio, Poemi conviviali.
Gli ultimi anni
Assunto il ruolo di poeta ufficiale impegnato a cele- brare la patria, pubblicò le raccolte Odi e inni, Poemi
italici, Poemi del Risorgimento, Canzoni di Re Enzio. Nel 1911 tenne un discorso pubblico (La grande pro-
letaria s’è mossa) celebrando la guerra coloniale di Libia. Morì di cancro nel 1912, dopo avere vinto per la
tredicesima volta il premio dell’Accademia olandese.
LE COSTANTI LETTERARIE
Pascoli fu uomo dai molteplici interessi e poeta assai versatile, eppure tutti i suoi testi hanno un’impronta
inconfondibilmente unitaria.
La morte del padre
La morte del padre è l’episodio che ha segnato la vita di Pascoli e sta alla base della sua vocazione poetica.
L’elaborazione del lutto conferisce una nota domi- nante a tutta la sua produzione. L’evento traumatico,
spezzando la sua vita in un “prima” spensierato e in un “poi” drammatico, ha generato in lui un meccani-
smo regressivo che attira il suo immaginario poetico verso quel “prima” rivissuto come un tempo edenico.
La regressione
Tale regressione, che si manifesta nel simbolo ricor- rente del «nido» (luogo al riparo dalle insidie del mon-
do sotto la protezione degli affetti familiari), prende tre diverse direzioni:
M1. una regressione anagrafica (la fanciullezza, stagione dell’innocenza, della fantasia e della spontaneità,
come alternativa al mondo adulto dominato dal calcolo, dall’egoismo, dall’insensibilità); 2. una regressione
sociale (il mondo arcaico e armonico della campagna, regolato dalle eterne leggi di natura, come alternativa
all’universo alienante della modernità tecnologica e cittadina); 3. una regressione storico-culturale (il
mondo classico, ai primordi della civiltà occidentale, come alternativa alla cultura borghese
contemporanea).
LE OPERE
Il fanciullino [1897-1903]
Un autore sincronico
Pascoli fu autore sincronico: portava cioè avanti più opere contemporaneamente, sicché la sua produzione
può essere ricondotta a una medesima poetica, che egli stesso ha illustrato nella prosa del Fanciulli- no.
L’opera ebbe una lunga gestazione: uscita in ante- prima parziale nel 1897 (con il titolo Pensieri sull’arte
poetica), solo nel 1903 fu pubblicata in forma integrale (in 20 capitoli), anche se non definitiva (Pascoli
pensa- va a ulteriori ampliamenti).
Il fanciullino e il poeta
La riflessione di Pascoli ruota tutta attorno alla figura cardine del «fanciullo eterno», la parte infanti- le
dell’uomo che ha un approccio conoscitivo con la realtà basato sull’intuizione e la spontaneità. Il fanciullino
riassume la nostra essenza in un tratto della nostra esistenza, ma il formarsi in noi di un io adulto non
comporta la sua scomparsa: pur messo a tace- re, il fanciullino rimane parte integrante della nostra
personalità, quella che ci consente di stupirci e di sognare.
Pur albergando nel cuore di ciascuno, chi lo ascolta più volentieri è il poeta, simile in questo a Omero, il
poeta cieco che si fa guidare per mano proprio da un fanciullo. Il fanciullino è dunque l’anima poetica
dell’uomo. Riprendendo la celebre definizione dantesca, Pascoli considera poeta chi accetta di scrivere ciò
che il fanciullino gli «detta dentro».
La visione poetica del mondo
Il fanciullino per Pascoli designa la sfera irrazionale, dominata da fantasie ed emozioni: la visione poetica
del mondo è diversa da quella elaborata dalla ragione o dalla scienza. Il poeta è un «veggente» il cui
sguardo non considera l’utilità pratica o l’impatto sociale di oggetti e fenomeni, ma «ci trasporta nell’abisso
della verità» celato spesso nelle cose più umili. La conoscenza poetica è dunque una conoscenza metafisica
che avviene per via immediata e intuitiva; il poeta possiede una facoltà divinatoria grazie alla quale può
vedere la rete di somiglianze e relazioni fra le cose che sfugge all’approccio analitico della ragione e della
scienza. Siamo, evidentemente, in pieno Simbolismo: conoscere infatti è riconoscere, è “illuminazione”. Il
fanciullino non impone alle cose le proprie sovrastrutture mentali, ma le elegge a maestre, osservandole
con la meraviglia di chi vede per la prima volta; il nuovo, infatti, non si inventa (si inventa ciò che non
esiste), ma si scopre. Per conoscere il fanciullino sfo- glia il libro aperto della natura, di cui bisogna saper
decifrare l’alfabeto: nel libro della natura è infatti già scritta la verità.
Il linguaggio: onomatopea e fonosimbolismo
La natura, oltre che una foresta di simboli, è per Pa- scoli un’orchestra di suoni; la natura ci parla, ma solo il
fanciullino è in grado di comprenderne la lingua. Tradotte in parole, le voci della natura diventano
onomatopee, il cui scopo tuttavia non è una resa realisti- ca: a Pascoli interessa decrittare il messaggio in
esse implicito, rendere comprensibili le verità che esse oscuramente affermano; si tratta di un «linguaggio
pre-grammaticale» (Contini). Oltre all’onomatopea Pascoli utilizza molte figure di suono (allitterazioni,
assonanze) e mediante un uso peculiare di metro e rima costruisce un linguaggio fonosimbolico.
Il fanciullino come nuovo adamo
Pascoli definisce il fanciullino come «l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente»; dare un
nome alle cose significa dare un nome alle verità in esse celate; ma l’atto poetico del nominare è un atto di
conoscenza, in quanto dare un nome significa riconoscere un senso.
Le verità scoperte dalla poesia simbolista sono di or- dine ontologico, riguardano cioè l’essere in sé; esisto-
no dunque indipendentemente dall’uomo (e dal fanciullino che le scopre). Come non si può modificare il
senso ontologico delle cose, così l’atto di chiamarle per nome – cioè di dichiarare la verità riguardo al loro
essere – non ammette arbitri. Perciò Pascoli quando deve designare un oggetto sceglie di usare non un
nome generico ma il nome proprio (Contini parla di «linguaggio post-grammaticale» in relazione ai
numerosi termini tecnici anche derivati dal dialetto o dal lessico contadino presenti nella poesia
pascoliana): questo non in ossequio a uno scrupolo scientifico di classificazione, ma per religioso rispetto
della verità della cosa, di cui il nome proprio è garante. Al nuovo Adamo spetta dunque il compito di
introdurre per la prima volta in poesia quei termini, anche tecnici, poco diffusi anche nella lingua comune.
L’analogia
Lo sguardo del fanciullino non si ferma però mai alla singola cosa: ogni oggetto è parte di un tutto ed egli sa
scoprire «le somiglianze e relazioni più ingegnose». A esprimere queste relazioni è deputata l’analogia,
figura che mette in relazione gli aspetti comuni fra le cose, in particolare nella forma della sineddoche: nella
poesia simbolista l’analogia non collega due elementi di pari grado, ma sempre una parte con il tutto. Ma
allora le grandi verità non devono essere cercate nelle grandi, ma nelle piccole cose; anzi il genio del poeta
si riconosce proprio nella sproporzione fra la piccolezza dell’oggetto e la verità che egli sa cogliervi. Pascoli
riesce a nobilitare la materia più umile conferendole un respiro metafisico (è il cosiddetto «sublime dal
basso»).
Questa concezione poetica ha anche un risvolto esistenziale: per Pascoli la ricetta della felicità sta nel saper
gioire del poco; questa è la miglior medicina contro il dolore e l’invidia: a chi sa accontentarsi non manca
nulla. A livello sociale ciò si traduce in un socialismo “addomesticato” che rinuncia alla lotta di classe per
vagheggiare una società di piccoli proprietari terrieri, liberi e contenti di ciò che hanno. Una visione cui non
sono estranei echi classici (in particolare della poesia di Orazio e di Virgilio).
«poesia pura» e «poesia applicata»
Per Pascoli la poesia ha una suprema utilità morale e sociale, ma solo in quanto nasce da una spontanea
inclinazione al bello e al buono: «il poeta è poeta, non oratore o predicatore»; egli può dunque insegnare,
in quanto ci aiuta a riscoprire le verità sepolte nelle piccole cose, ma non deve atteggiarsi a maestro o a
filosofo, altrimenti la poesia diventa vuota retorica. Poeta coltissimo, Pascoli considerava la tradizione
poetica italiana ammalata di troppa cultura: i nostri poeti avrebbero sempre preferito l’imitazione (rifarsi a
questo o a quel modello) rinunciando a restituire al lettore la naturale freschezza della natura; la cultura
dovrebbe in realtà avere lo scopo ultimo di restituire l’uomo alla sua ingenuità originaria.
Myricae [1891-1911]
composizione e struttura
La gestazione di questa raccolta fu lunghissima. I primi testi risalgono agli anni settanta; il titolo comparve
per la prima volta nel 1890 a raggruppare nove poesie pubblicate sulla rivista “Vita Nuova”, e quindi l’an-
no successivo in un piccolo volume a stampa, offerto come dono di nozze a un amico, comprendente 22
poesie. Seguirono altre edizioni: nel 1892 (72 poesie); nel 1894 (116 poesie); nel 1897 (152 poesie); nel
1900 (156 poesie), in cui venne definitivamente fissato l’indice. Pascoli intervenne ancora negli anni
successivi con diverse varianti d’autore: l’ultima edizione è del 1911. Evolutasi di edizione in edizione, in
quella definitiva del 1900 la struttura della raccolta è articolata in 15 sezioni di ampiezza variabile
intercalate da testi isolati. Prevale il criterio della varietà e i temi appaiono legati a distanza da un sottile
intreccio circolare.
Titolo e genere
Myricae è termine latino (preso a prestito dalla IV Bu- colica di Virgilio) per indicare le tamerici, umili arbusti
comuni in area mediterranea, impiegati dai contadini per far ramazze o accendere il fuoco. Per Pascoli
simboleggiano il mondo umile delle piccole cose legate alla terra; inoltre rappresentano un legame con il
luo- go natale perché particolarmente abbondanti proprio nei paraggi di San Mauro di Romagna. La scelta
del termine latino è assieme un omaggio a Virgilio, una specificazione di genere (poesia bucolica) e una di-
chiarazione di poetica (fondata su semplicità di ma- teria e stile).
Temi: la morte, il nido
Fin dalla Prefazione Pascoli suggerisce la chiave di lettura del libro, dominato dal tema funebre della ri-
evocazione dei lutti di famiglia: la morte, nel giro di dieci anni, del padre, della madre e di tre fratelli. Ma la
dimensione privata assurge a visione del mondo, in cui al bene assicurato da madre natura si mescola il
male provocato dalla malvagità dell’uomo.
Il nido è il grande archetipo attorno al quale ruota il mondo poetico pascoliano. Esso è il luogo degli af- fetti
e il rifugio contro la cattiveria degli uomini; ogni distacco dal nido è un trauma, così come ogni ritor- no è
una regressione alla beatitudine della prima in- fanzia (al nido il fanciullino guarda come al grembo
materno). Il nido è anche simbolo del riparo offerto dalla natura contro la violenza della storia: pertan- to è
legato al polo positivo della campagna (ricco di risvolti ideologici, come la celebrazione della piccola
proprietà terriera e della serena semplicità della vita contadina), contrapposto alla città (dove gli uomini si
riuniscono solo per farsi del male).
La tensione drammatica che anima la raccolta è data dal fatto che anche nel nido la violenza si abbatte co-
munque, trasformando lo spazio edenico nel teatro di un dramma. Il tema della morte si innesta quindi
nell’idillio bucolico spezzandolo; il nido appare alla fine come il campo in cui il bene, la natura e la vita
danno battaglia contro il male, la storia e la morte.
Le forme: sperimentalismo metrico
Pascoli adopera versi e versicoli di varia lunghezza, dal trisillabo all’endecasillabo, e in particolare il no-
venario, raro nella tradizione precedente. Per quanto riguarda gli schemi strofici passa dal sonetto al ma-
drigale, dall’ottava alla strofe saffica, dalla quarti- na alla ballata, raggruppati in sezioni metricamente
omogenee.
simbolismo e frammentismo
Pascoli ha introdotto il Simbolismo in Italia. Non gli interessa dare della campagna una visione realistica o
pittoresca, ma cogliere nella natura (e nel lavoro dell’uomo a contatto con essa) il senso metafisico del
mondo e della vita. Gli oggetti non sono mai solo quello che sembrano, ma simboli che rimandano ad altro.
Pascoli è poeta ellittico, che non descrive ma evoca, non spiega ma suggerisce; l’espediente più usato a tal
fine è l’onomatopea, carattere distintivo del suo linguaggio poetico. Tale matrice simbolista spiega anche il
carattere frammentario di molte poesie, brevi e concentrate su un’immagine, secondo il principio
rimbaudiano dell’il- luminazione che improvvisamente svela la verità na- scosta. Altri elementi significativi
sono: la «frantuma- zione paratattica del verso» e gli «e abrupti d’apertu- ra» (Mengaldo): questi ultimi,
postulando l’esistenza di un retropensiero non verbalizzato, sottolineano il carattere frammentario della
lirica, trascrizione solo parziale di un motivo poetico.
La poesia essenziale di Myricae, rinunciando allo sviluppo poematico del tema come alla comples- sa
sintassi della tradizione, ha aperto la strada alle grandi sperimentazioni poetiche di primo Novecento in
Italia.
canti di castelvecchio [1903-1914]
composizione e struttura
Comparsi singolarmente su giornali e riviste a partire dal 1897, i Canti di Castelvecchio furono riuniti in vo-
lume nel 1903; altri testi furono aggiunti nelle edizioni successive: l’ultima, postuma ma controllata dall’au-
tore, è del 1912. Altre due liriche inedite furono inse- rite, per volontà della sorella Maria, nella settima edi-
zione del 1914, portando il totale a 59 (cui segue una sezione a parte di nove poesie: Ritorno a San Mauro).
I testi formano un coerente percorso stagionale da un autunno all’altro, con richiami espliciti a Myricae: in
apertura di raccolta è nuovamente citato l’incipit del- la IV Bucolica virgiliana, mentre nella Prefazione, alle
precedenti tamerici primaverili sono contrapposte le presenti, autunnali. Un autunno anche biografico, che
coincide con il trasferimento nella casa di Castelvec- chio di Barga e la ricostituzione del nido; sicché, se
Myricae è il libro del passato e del nido infranto, Canti di Castelvecchio è il libro del presente e del nido ri-
trovato.
I temi: la poesia come risarcimento
Dominante è ancora il tema funerario. La poesia trova giustificazione in quanto risarcimento contro il
destino crudele che ha infierito sulla famiglia del poeta; scri- vere dei familiari defunti equivale a richiamarli
in vita: «il figlio ridona al padre attraverso la poesia ciò che l’assassino impunito gli ha tolto» (Nava).
Le forme: dal frammento al canto
Il titolo evoca una discontinuità rispetto al breve respi- ro delle Myricae, richiamando la tradizione lirica, più
che bucolica, e architetture più distese e compiute. In effetti lo sperimentalismo metrico pascoliano
affronta strutture più complesse: il novenario è concatenato con ottonari, settenari e quinari; il decasillabo
con l’endecasillabo; compaiono anche distici di endeca- sillabi a rima baciata, un componimento ispirato
alla forma metrica popolare chiamata “rispetto”, nonché frequenti rime ipermetre. Folclore e vernacolo
Tra le maggiori novità rispetto a Myricae osserviamo nei Canti una componente folclorica legata a mestie- ri
e abitudini della gente di Garfagnana (dove si trova Castelvecchio), nonché a detti e credenze romagnole; il
poeta infatti va ora cercando nella cultura popolare di zone periferiche, custodi di una sapienza natura- le,
le stesse verità esistenziali che nella precedente raccolta il fanciullino aveva colto solo nelle voci della
natura. Compito ulteriore del poeta diviene quello di preservare le antiche tradizioni, prima che vengano
cancellate dal progresso e dalla modernizzazione. Per le medesime ragioni il «linguaggio post-grammatica-
le» di Pascoli si arricchisce ora di inflessioni vernaco- lari e di termini tecnici ascrivibili all’ambito delle arti e
dei mestieri della tradizione romagnola e garfagnina.
poemetti [1897-1909]
composizione, struttura e novità
Uscita in prima edizione nel 1897 e in seconda nel 1900, la raccolta dei Poemetti venne quindi sdoppia- ta
in Primi poemetti (1904) e Nuovi poemetti (1909), costituenti comunque un dittico unito sin dall’epigrafe
comune, paulo maiora, ancora una citazione dalla IV Bucolica virgiliana, che lascia intendere questa volta
un innalzarsi della materia. Ritornano temi e scenari consueti: il mondo della campagna, il motivo funebre,
il sogno di un’umanità più buona, affrontati però in modo nuovo, con tono più solenne, più scoperta in-
tenzione ideologica, taglio meno lirico-simbolico e più narrativo-descrittivo. Di conseguenza il linguaggio si
fa più aulico e la struttura metrica dominante è ora la terzina dantesca.
Un «romanzo georgico»
Diversi componimenti appaiono concepiti e disposti in sequenza, come singoli episodi del «romanzo ge-
orgico» (Bàrberi Squarotti) che ha come protagonista una famiglia di contadini della Garfagnana osservata
nella sua vita quotidiana, dall’autunno alla successiva estate. Nei Primi poemetti abbiamo due sezioni de-
dicate alla semina e all’inverno; nei Nuovi altre due, dedicate alla fioritura primaverile e alla mietitura;
compaiono inoltre quattro lunghi componimenti isola- ti (2+2), fra cui merita un richiamo il secondo, Le
armi, dedicato in realtà ai pacifici strumenti impiegati nei lavori agresti. Veniamo così introdotti in una
società semplice e laboriosa, radicata nei ritmi e nelle leggi di natura, una società di cui Pascoli rappresenta
le mo- deste occupazioni come riti e opere d’arte.
Siamo di fronte a una celebrazione, ideale e politica, della civiltà contadina: un mondo armonico, sempli- ce
e solidale, arcaico e patriarcale, sobrio e immobile nella sua circolarità stagionale. Del tutto assenti sono
invece gli aspetti negativi (attaccamento alla roba, mancanza di solidarietà, sfruttamento, miseria, ingiu-
stizia) denunciati dagli scrittori veristi; Pascoli immagina piuttosto una società di piccoli possidenti terrieri
come antidoto alla fame e all’emigrazione.
All’intento celebrativo dell’opera contribuisce il lin- guaggio, caratterizzato da registro sublime e patina
classica e letteraria, che conferiscono a persone e azioni un profilo epico.
pascoli metafisico
Accanto alle istanze ideologiche Pascoli sviluppa ri- flessioni di più ampio respiro, che investono l’intera sua
visione del mondo e sono collocate in apposi- te sezioni, ancora una volta due per libro. Nei Primi poemetti
abbiamo Il bordone-L’aquilone (dedicata al tema della morte, comune destino di tutto il creato) e I due
fanciulli-I due orfani (dove è evocato il senso del mistero che ci sovrasta generando inquietudine e
smarrimento, contro i quali unica arma efficace è la solidarietà). Nei Nuovi poemetti abbiamo Il naufrago- Il
prigioniero (che promuove una filosofia della bontà e della sopportazione di fronte ai “naufragi” della vita,
lasciando emergere l’ispirazione più cosmica e reli- giosa di Pascoli) e infine Le due aquile-I due alberi (in cui
emerge netta l’alternativa fra l’egosimo di chi si innalza a danno degli altri e la carità fraterna di chi soccorre
il bisognoso; fra l’avidità senza fine e la sem- plicità che si accontenta del poco e nulla spreca).
poemi conviviali [1904-1905]
composizione, struttura, titolo
Il progetto risale all’inizio degli anni novanta, ma si concretizzò solo nel 1904 (prima edizione, 19 com-
ponimenti) e nel 1905 (seconda edizione definitiva, 20 componimenti).
Il titolo richiama la tradizione classica, greca e latina, dei carmina convivalia, poesie composte per allietare i
banchetti; recuperare tale tradizione per Pascoli si- gnifica ritornare ai primordi della poesia, recuperarne
l’essenza originaria: la poesia ha infatti avuto origine proprio nei banchetti.
I temi: la rivisitazione del mondo antico
Siamo ancora di fronte a un procedimento regressi- vo, questa volta di tipo storico-culturale, dal moder- no
all’antico. Il poeta riprende miti, leggende, episodi storici del mondo greco e romano, a volte in funzione
metapoetica (nel Cieco di Chio Omero è simbolo del dono della poesia ottenuto a prezzo di drammatiche
rinunce; nella Cetra di Achille è distinta la funzionedell’eroe, che compie grandi gesta, da quella del poe- ta,
chiamato a celebrarle).
Scopo di Pascoli è istituire un confronto fra antichità e modernità per stabilire che cosa, dell’antico, riman-
ga vivo ancora oggi. L’immagine del mondo antico che emerge da queste poesie non è però idilliaca, ma ve-
lata di pessimismo; su tutti gli eroi evocati incombe lo spettro della morte: solo la poesia, dando sfogo al
do- lore dell’esistenza, può riconciliare l’uomo con il suo destino, consolandolo di essere nato.
L’ultimo rapsodo e il «poeta degli iloti»
Quella dei Poemi conviviali è una poesia di “secondo grado”, che nasce cioè da altri testi ed è intessuta di
riprese, allusioni, citazioni. Pascoli si propone come «l’ultimo dei rapsodi» (Elli), gli antichi cantori greci che
rielaboravano e variavano i materiali della tradi- zione.
Non manca però un messaggio umano e civile; in par- ticolare nel componimento dedicato a Esiodo l’antico
cantore è definito «poeta degli iloti», cioè degli schiavi, dei reietti, degli ultimi: è l’emblema di una poesia
che rinuncia alla celebrazione delle gesta eroiche per con- sacrarsi alle fatiche quotidiane, ugualmente
degne di canto, di tanti uomini umili e ignoti.
pascoli latino
I carmina [1914]
Pubblicata postuma (1914) in due volumi a cura della sorella Maria, l’opera raccoglie più di cento liriche in
lingua latina, comprese quelle vincitrici del concorso indetto annualmente dalla Regia accademia di Am-
sterdam. Pur trattando vicende e personaggi dell’an- tica Roma (con particolare attenzione a figure umili ed
episodi marginali rispetto alla grande storia), i componimenti sono del tutto assimilabili, per stile e
tematiche, a quelli in lingua italiana.
Il “poeta vate”
Succeduto a Carducci all’università di Bologna, Pa- scoli tentò di raccoglierne l’eredità di vate nazionale e
poeta della storia patria, in competizione con D’An- nunzio. Capitoli di questa epopea nazionale dovevano
essere le raccolte degli ultimi anni: Odi e inni (1906), le Canzoni di Re Enzio (1908-1909), i Poemi italici e i
due inni A Roma e A Torino (1911, in occasione del cin- quantenario dell’unificazione) e gli incompiuti
Poemi del Risorgimento.

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