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GIOVANNI VERGA

Verga è con Manzoni il più grande narratore dell’Ottocento. Senza di lui non si sarebbe sviluppato
il romanzo moderno: il Verga Verista rinuncia alla prospettiva onnisciente usata da Manzoni, così il
punto di vista narrativo coincide con quello dei personaggi. Per la prima volta nella storia del
romanzo italiano si abbandona un atteggiamento di dominio ideologico, infatti, l’impersonalità
verghiana comporta una radicale rinuncia: l’autore, infatti, non manifesta più i suoi sentimenti e
ideologie, ma assume l’ottica narrativa e il linguaggio dei suoi stessi personaggi. Per la prima volta
il popolo diventa protagonista determinando con la propria prospettiva, la prospettiva stessa del
racconto.
Verga nasce a Catania nel 1840 da una famiglia di proprietari terrieri; egli aveva vent’anni quando
Garibaldi guidò in Sicilia l’impresa dei mille e quindi Verga resterà sempre fedele ai valori
dell’unità nazionale e al culto del Risorgimento. Durante la sua adolescenza legge i romanzi di
Alexandre Dumas e quelli di Guerrazzi, e prova a scrivere un romanzo dal titolo Amore e Patria .
Subito dopo l’arrivo di Garibaldi, dirige vari giornali patriottici e pubblica un romanzo storico, i
Carbonari della montagna, che rappresenta la lotta del popolo calabrese contro gli invasori francesi
di Murat.
La vera storia dell’arte di Verga Comincia con il periodo fiorentino, dove si stabilisce a partire dal
1869. Qui viene influenzato dalla letteratura filantropico-sociale di Caterina Percoto e compone
Storia di Una capinera, un romanzo epistolare e il dramma Rose caduche. Comincia a profilarsi
anche un atteggiamento moralistico e critico e un interesse per situazioni estreme ed esasperate.
A fine novembre del 1872 Verga si reca a Milano, dove resterà stabilmente fino al 1893: Milano era
a quel tempo la capitale letteraria e nella città lombarda Verga frequenta i salotti e i caffè dove si
ritrovano gli artisti. Milano era anche la capitale economica del paese: studiando il comportamento
della gente e i meccanismi economici, Verga si convince sempre di più che l’epoca romantica è
finita e che l’arte è diventata ormai un lusso in una società dove dominano <<le banche e le Imprese
Culturali>>. Nel 1874 esce Nedda, una novella che si ispira alla narrativa filantropico-sociale allora
in moda, ma in cui emergono per la prima volta le tematiche siciliane che caratterizzano l’adesione
al verismo da parte di Verga. Alla fine del 1877 l’arrivo a Milano di Luigi Capuana, scrittore e
critico letterario siciliano, contribuisce alla formazione di un gruppo di narratori e critici che si
propone di creare il “romanzo moderno” attraverso l’adesione al programma naturalistico sostenuto
in Francia da Emile Zola. Il primo racconto naturalista o verista di Verga è Rosso Malpelo del
1878, seguito da Vita dei Campi e dal romanzo I Malavoglia. Il decennio che va dal 1880 al 1889
è quello dei capolavori: dopo Vita dei campi e I Malavoglia escono Novelle Rusticane, Per le Vie,
il dramma scenico Cavalleria Rusticana e le prime due edizioni di Mastro-don Gesualdo
Sul piano politico, nel periodo 1878-1882 appare vicino agli ambienti della Destra storica, che
propongono un’alternativa agraria al predominio del grande capitale industriale del Nord: tale
alternativa avrebbe ridotto il potere degli industriali settentrionali a vantaggio dei proprietari terrieri
meridionali. Perciò collabora alla rivista <<Rassegna settimanale>> di Franchetti e Sonnino,
sociologi e uomini politici della destra storica. Dopo il 1882, Verga si allontana da qualsiasi
prospettiva politica assumendo atteggiamenti sempre più conservatori e a volte di tipo nazionalista
e antisocialista. Dal 1893 Verga torna a risiedere a Catania. Qui cerca di lavorare per il teatro dove
mette in scena La Lupa e il dramma Dal tuo al mio, in cui rappresenta la lotta di classe nelle
zolfatare da una prospettiva antisocialista. Nel 1920 è nominato senatore del Regno e
successivamente muore nel 1922.
LA FASE ROMANTICA DELL’APPRENDISTATO
CATANESE
La formazione di Verga è provinciale e attardata ancora orientata al romanticismo. Ad esempio, I
Carbonari della montagna è proposto come <<romanzo storico>> quando, in quel periodo, la
narrativa era orientata verso il romanzo di storia contemporanea; inoltre, il binomio tra amore e
patria è tutto romantico e nella produzione catanese si avverte una chiara linea di sviluppo. Se nei
primi romanzi l’elemento patriottico è determinante, in Sulle Lagune costituisce lo sfondo della
storia dell’amore più che il suo vero nucleo narrativo. Questo aspetto storico-patriottico è lasciato
cadere nel romanzo Una Peccatrice. Questo romanzo parla della storia d’amore tra l’artista Pietro
Brusio e la nobildonna Narcisa Valderi. Desiderio di gloria artistica e volontà di conquista della
donna portano il giovane al successo come commediografo, e allora la donna, che prima lo aveva
ignorato, si innamora di lui. A questo punto, però, le convenzioni sociali finiscono per trionfare: il
giovane si stanca dell’amore-passione e Narcisa, disperata, si lascia morire piuttosto che rinunciare
alla passione. Quanto alle soluzioni formali, l’impianto del racconto è ancora elementare, fondato
sulla schematica contrapposizione fra “buoni” e “cattivi” nei romanzi patriottici e sul semplice
rovesciamento della situazione nel rapporto fra uomo e donna in Una peccatrice (dapprima l’uomo è
appassionato e la donna indifferente, poi è la donna ad amare e l’uomo a ritrarsi).

I romanzi fiorentini e del primo periodo milanese: la fase


tardo-romantica e scapigliata
STORIA DI UNA CAPINERA
Il passaggio dalla preistoria alla storia dell’arte verghiana avviene con il primo romanzo fiorentino,
Storia di una capinera. Esso risente di un ambiente in cui grande autorità aveva lo scrittore
romantico Francesco Dall’Ongaro e in cui Caterina Percoto, con i suoi racconti campagnoli di
tendenza filantropico-sociale, costituiva un punto di riferimento obbligato. E in effetti anche il
romanzo verghiano sembra ispirarsi a una letteratura di tipo filantropico volta, in questo caso, a
documentare un’ingiustizia sociale: la monacazione coatta di cui erano vittime le ragazze povere.
Tuttavia il romanzo non si esaurisce affatto in una denuncia sociale. Anzi esso vuole essere «una di
quelle intime storie, che passano tutti i giorni inosservate». Vi si narra di una educanda, Maria,
orfana di madre, vissuta sempre in un collegio di monache. Prima di prendere i voti, in occasione di
un’epidemia di colera, ella trascorre qualche mese in campagna nella casa del padre e della
matrigna, e dunque ha la possibilità, per la prima volta, di conoscere il mondo. Può quindi
frequentare un giovane, Nino, e innamorarsene. Ma la legge economica è più forte dei suoi
sentimenti. Non avendo la dote, deve tornare in convento e prendere definitivamente il velo. Non
riesce tuttavia a rinunciare all’amore e a dimenticare il giovane di cui è innamorata. Nel frattempo,
però, Nino, ha sposato la sorellastra, che, a differenza di Maria, è provvista di una ricca dote. Per la
passione d’amore Maria s’ammala e sfiora la follia, sino a morire. Il romanzo presenta i seguenti
punti di interesse:
1) per la prima volta Verga compie una scelta antiretorica e si sforza di assumere il punto di
vista di un personaggio semplice e il suo linguaggio ingenuo ed elementare;
2) come soluzione linguistica viene adottato il fiorentino, secondo i dettami del manzonismo
allora dominante: e se a volte il linguaggio risulta lezioso, troppo aggraziato e artificioso,
esso appare però meno enfatico di quello dei precedenti romanzi;
3) Nell’opera compare il tema dell’orfano e dell’escluso, che poi tornerà in Nedda, in Rosso
Malpelo e nei Malavoglia;
4) Il motivo della esclusione sociale e della vittima si congiunge a quello economico: a
prevalere, come poi nei romanzi veristi, è sempre la legge della roba e del denaro, mentre i
sentimenti risultano impotenti.
È importante notare però che il romanticismo di Verga è ancora ben vivo: anche qui, co-me in
Una peccatrice, la donna rappresenta l’ideale romantico dell’amore-passione come for-za
inarrestabile e invincibile contrapposta alla società.

EVA
Elaborato in buona misura a Firenze, è il successivo romanzo Eva, uscito a Milano, nel 1873. Esso
risente fortemente dell’ambiente milanese, dell’impatto con la realtà sociale ed economica più
avanzata del paese e con la cultura europea che vi circolava. Un giovane siciliano, Enrico Lanti, è
andato a Firenze a cercare fortuna come artista e qui conosce una ballerina di varietà, Eva, e se ne
innamora. Eva, ragazza sincera e matura, sa bene che il suo fascino è legato alla seduzione del
palcoscenico, agli artifici dello sfarzo e dello spettacolo teatrale e vorrebbe intrecciare con lui solo
una storia breve e senza impegni. Ma Lanti crede ancora all’ideale romantico dell’amore eterno e la
convince a lasciare il teatro e a vivere con lui in miseria in una soffitta. A poco a poco, i bisogni
materiali della vita quotidiana sopraffanno l’amore, rivelando la vanità dell’idealismo romantico.
Eva lascia Enrico, il quale raggiunge il successo artistico solo adeguandosi al gusto falso e volgare
del pubblico. Quando Enrico incontra nuovamente Eva, vorrebbe indurla a riprendere la relazione
d’a-more, ma ella si rifiuta. Allora sfida e uccide l’amante di lei. Poi, ammalato di tisi, torna a
morire in Sicilia, dove l’attendono i genitori e la sorella. La sconfitta del protagonista è duplice:
riguarda sia l’amore sia l’arte. Non solo infatti fallisce la sua storia d’amore con Eva, ma finisce
frustrato anche il suo tentativo di restare fedele agli ideali artistici della giovinezza. Il romanzo si
fonda sull’intreccio di quattro temi:
1) lo studio del rapporto fra arte e modernità, fra sentimenti e artificio, fra valori romantici e
trionfo dell’inautenticità prodotta dallo sviluppo economico e dalla alienante vita cittadina;
2) l’esame di coscienza dell’artista in crisi che, nella realtà moderna, vede irrealizzabili gli ideali
romantici e deve aderire a un mondo dove dominano solo gli interessi materiali;
3) la storia d’amore di un giovane romantico costretto a verificare il fallimento dei propri ideali e
alla fine a tornare sconfitto e morente alla famiglia siciliana;
4) il contrasto fra modernità, rappresentata dalla metropoli e dalla prevalente «atmosfera di Banche
e di Imprese industriali», e il mondo premoderno, rappresentato invece dal paese siciliano e dai
valori della famiglia.
In Eva compare inoltre il tema della ballerina. Esso, come quello della prostituta e del saltimbanco,
è un topos della letteratura e della pittura moderna. La ballerina è, anch’essa, un’artista ma dipende
completamente dai gusti e dal denaro del pubblico. Il suo destino è dunque analogo a quello dello
scrittore e del pittore. In Eva il romanticismo giovanile di Verga appare ormai in crisi ma non
ancora del tutto superato. Il mondo arcaico-rurale della Sicilia si presenta infatti come un’alternativa
alla modernità: in esso i valori dell’idealismo romantico, i sentimenti, l’autenticità sembrano ancora
possibili. Alla ballerina, che incarna la civiltà moderna e i compromessi a cui deve giungere
l’artista per affermarvisi, si contrappongono la famiglia e la Sicilia. Si ha una contraddizione: da
un lato egli percepisce che il destino dell’artista può realizzarsi solo nella modernità, e avverte il
mondo idealistico-romantico come un residuo del passato; dall’altro rimpiange però la realtà
autentica dei valori del passato, proiettandoli nella Sicilia rurale e pre-moderna.

TIGRE REALE
Questa tematica torna nel successivo romanzo, Tigre reale (scritto fra il 1873 e il 1874 e pubblicato
nel 1875), dove la figura femminile è ancora contrapposta alla realtà della famiglia e della
campagna siciliana. Nata è una nobile russa, divorata dalla tisi e dalla passione erotica, che incarna
ancora l’ideale romantico dell’amore assoluto identificato con la morte. Impersona invece gli
autentici valori familiari la moglie del protagonista, la dolce Erminia, che, per senso del dovere,
rinuncia all’amore del cugino Carlo.

EROS
SE in Tigre reale, sia in Eva la narrazione è affidata a un narratore testimone delle vicende e
confidente del protagonista, questo tipo di struttura narrativa viene abbandonato a partire dall’opera
successiva, Eros, ambientata nella nobiltà e nell’alta società e scritta subito dopo Tigre reale, ma
uscita qualche mese prima, nel dicembre 1874. La lettura Flaubert, induce infatti Verga a un
cambiamento di impostazione, e cioè a una narrazione tutta oggettiva e impassibile, condotta da una
voce narrante estranea al narrato, superiore e giudicante. Protagonista di Eros è il marchese Alberti,
un personaggio del tutto cinico e disincantato. Solo alla fine della propria vita si rende conto che
avrebbe potuto salvarsi dall’aridità e dalla disperazione se fosse riuscito a restare fedele all’amore
della moglie; ma è troppo tardi: la donna muore per i dolori che egli le ha procurato e lui stesso,
allora, decide di suicidarsi. Con Eros la parabola della delusione romantica è completata. Verga è
ormai approdato a un realismo freddamente oggettivo. Solo conquistando l’impersonalità del
Verismo poteva fare un ulteriore passo in avanti.

Primavera e altri racconti e Nedda, «bozzetto siciliano»


Vittimismo tardoromantico e analisi scapigliata della condizione dell’artista da giovane ritornano in
Primavera, il racconto principale della raccolta Primavera e altri racconti. Protagonista è una
povera ragazza che a Milano s’innamora di un giovane artista e che viene abbandonata non appena
a lui si offre una possibilità di successo altrove. La ragazza non ha qui la forza dell’amore-passione
che portava alla follia Maria in Storia di una capinera. Le si contrappone il protagonista, che, dietro
i propri sogni romantici, cela solo l’egoismo dell’ambizione, e che quindi non esita a preferire
all’amore il successo. Primavera rappresenta dunque un’altra tappa nel graduale abbandono delle
posizioni romantiche dell’autore: di nuovo, come in Eva, i sogni sono sconfitti dalle leggi materiali
della vita. Di questo periodo è anche una novella di ambiente rusticano e siciliano, Nedda (1874).
Per la prima volta Verga sceglie come protagonisti umili personaggi della sua terra collocati in un
ambiente contadino e arretrato, descritto realisticamente: qui la storia che viene narrata è quella di
una povera raccoglitrice di olive, Nedda, costretta fin dall’infanzia a lavorare in un podere alle falde
dell’Etna. Nedda non è una novella verista, perché in essa manca del tutto l’impersonalità: anzi,
l’autore, presente sin dall’inizio, interviene di continuo a difendere il proprio personaggio, con un
atteggiamento costantemente moralistico. Nel corso della novella l’autore-narratore, oltre a dare le
spiegazioni causali, interviene direttamente a ristabilire la verità difendendo la ragazza dalle accuse
delle comari e attestandone la bontà d’animo. Anche dal punto di vista stilistico e linguistico, il
narratore non assume affatto l’ottica e il linguaggio del personaggio: il linguaggio è ancora quello di
un fiorentinismo di maniera, mentre le espressioni locali sono introdotte attraverso la sottolineatura
del corsivo.
Nedda è un’orfana, lavora come raccoglitrice di olive ed è trattata peggio delle sue compagne in
quanto più povera e indifesa. Dopo la morte della madre, s’innamora di un contadino, Janu. Questi
va a lavorare nella piana di Catania e si ammala di malaria. Nedda intanto sta aspettando un figlio.
Le nasce una figlioletta che ella si rifiuta di portare alla Ruota del convento, dove in genere
venivano abbandonati i figli illegittimi; ed è per questo condannata dal prete e criticata dalle comari.
Anche Nedda sperimenta dunque la situazione della estraneità. Alla fine la figlioletta muore di
stenti e Nedda resta da sola, con il suo dolore e la sua miseria. Nel racconto si mescolano toni
patetici tipici della letteratura tardoromantica e filantropico-sociale a primi accenni a una
disponibilità lirico-simbolica.

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