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Giovanni Verga

Giovanni Verga è tra i narratori italiani più noti della seconda metà dell’800. Fu autore di romanzi,
novelle e testi teatrali e il suo nome è legato indissolubilmente al movimento del Verismo italiano.
Ecco gli eventi più importanti della sua vita:

 1840 - Nasce a Catania da una famiglia nobile liberale e antiborbonica.


 1858 - Si iscrive alla Facoltà di Legge a Catania, ma presto la abbandona per dedicarsi alla
letteratura.
 1860 - Allo sbarco dei garibaldini si arruola nella Guardia Nazionale in favore dell’Unità
d’Italia.
 1869 - Si trasferisce a Firenze, allora capitale d’Italia, dove frequenta i salotti intellettuali e la
vita mondana.
 1872 - Si trasferisce a Milano, dove resterà per 20 anni. Qui ha contatti con gli scrittori della
Scapigliatura e conosce la narrativa europea. Negli stessi anni c’è a Milano anche l’amico
scrittore Capuana, che gli fa conoscere il Naturalismo francese.
 1874 - Con la pubblicazione della novella Nedda inizia il processo di conversione al Verismo.
 1881- Pubblica I Malavoglia.
 1884 - Durante un viaggio a Parigi incontra gli scrittori Emile Zola ed Edmond de Goncourt,
esponenti del Naturalismo francese.
 1890 - Torna definitivamente a Catania, dove vive nei suoi possedimenti e si allontana
sempre di più dalla scrittura.
 1920 - Viene nominato senatore a vita.
 1922 - Muore a Catania.

Prima di approdare al Verismo, Verga si dedica ad altri tipi di romanzi, più vicini alla letteratura di
moda all’epoca. Queste opere sono importanti per il successivo sviluppo della poetica dell’autore e
alcuni di essi, come la Storia di una capinera, possiedono anche un valore proprio. Verga appoggiò
attivamente l’Unità italiana, arrivando ad arruolarsi nella Guardia Nazionale. Il suo patriottismo
emerge anche attraverso i suoi primi romanzi, che si inseriscono nella corrente molto diffusa
all’epoca della letteratura patriottica. Questi romanzi sono: Amore e patria (1856), I carbonari della
montagna (1861-62), Sulle lagune (1963).

Il trasferimento a Firenze e poi a Milano determina un cambiamento nei temi trattati nei romanzi.
Verga inizia a descrivere l’ambiente mondano che egli stesso frequenta. Queste storie sono fondate
su un elemento autobiografico: si parla sempre di un giovane artista che subisce l’influsso distruttivo
della mondanità per opera di qualche donna. In questo vediamo il giovane Verga e i suoi turbolenti
rapporti con le donne che incontra nei salotti fiorentini e milanesi. I romanzi che appartengono a
questa fase sono:

 Una peccatrice (1966), storia di un giovane commediografo catanese e del suo rapporto con
una seducente contessa, che lo porta a diventare un artista fallito.
 Storia di una capinera (1970), storia di una giovane costretta a farsi monaca.
 Eva (1973), narra le vicende di un pittore siciliano trapiantato a Firenze, che perde sé stesso
per amore di una ballerina.
 Tigre reale (1975), racconta gli effetti corruttori esercitati sul protagonista da una contessa
russa
 Eros (1975), il cui protagonista si consuma progressivamente, fino al suicidio.
Il contatto con le città del nuovo stato unitario (Firenze, Milano) e la crescente sfiducia verso la vita
moderna e gli ambienti mondani determinano in Verga un ritorno alle sue radici, a quel mondo
siciliano rimasto fuori dalla storia e dominato da leggi immutabili. Nella Sicilia Verga vede le sue
origini, un mondo che conosce bene ma che al momento gli è distante, visto che si trova a vivere
lontano. La conversione al mondo siciliano e al Verismo nasce in Verga da una serie di motivi.
Elenchiamo brevemente i più importanti:

 Insoddisfazione per la frivolezza degli ambienti mondani


 Diffidenza verso il sentimentalismo romanzesco
 Scoperta del Naturalismo francese
 Nostalgia per la terra natale
 Interesse verso la questione meridionale

La prima novella in cui si assiste a questo ritorno al mondo siciliano è Nedda, del 1874, in cui Verga
narra le vicende di una raccoglitrice di olive e propone una commossa partecipazione alle sue
sventure.

Per descrivere un mondo come quello siciliano, fisso nei propri valori, Verga sceglie di adottare un
tipo di scrittura oggettiva, priva dei sentimenti e delle opinioni dell’autore. Questo tipo di scrittura
rientra all’interno della poetica dell’impersonalità, che vuole guardare il mondo dei contadini e dei
pescatori da una certa distanza, al fine di restituirne la verità, usando le parole della narrazione
popolare e mettendo al centro il fatto nudo e crudo. In questo senso si parla di regressione
dell’autore. Lo scrittore mette da parte sé stesso, le sue conoscenze, il suo mondo, e regredisce fino
a calarsi all’interno del contadino o del pescatore, parla con le sue parole e vede il mondo dai suoi
occhi. In questo modo l’autore si allontana dalla realtà oggettiva e ci presenta la realtà del mondo
che rappresenta, sottolineandone l’alterità rispetto alla vita moderna.

Centrale nella svolta verista e nella scelta del mondo da rappresentare è la visione della modernità di
Verga. Per lui il progresso e la modernità sono come un fiume in piena che scorre a grande velocità
trasportando il mondo verso nuovi traguardi ma che allo stesso tempo travolge e distrugge le vite di
coloro che non riescono ad adattarsi in tempo alle novità, alla velocità che il progresso impone, tutti
coloro che insomma non riescono a stare al passo. È così che il progresso e la modernità lasciano
dietro di sé una scia di vittime, i vinti. Di questi personaggi Verga decide di parlare nei suoi romanzi e
nelle sue novelle veriste e per ripagare in qualche modo questa loro sconfitta sul campo di battaglia
della storia decide di proporci le loro stesse parole, di darci il loro punto di vista.

Alla base del Verismo verghiano c’è il Naturalismo francese, a cui Verga si avvicinò grazie all’amico e
scrittore Capuana. I romanzi naturalisti pongono al centro della narrazione la rappresentazione della
realtà popolare. Il principale esponente del Naturalismo fu Emile Zola, autore molto letto da Verga.
Tuttavia occorre precisare che il Naturalismo non si identifica con il Verismo. Il narratore dei romanzi
di Zola riproduce il punto di vista dell’autore, del borghese colto, ed esprime giudizi sui fatti narrati.
Solo nel romanzo Assomoir (1877) Zola assume un punto di vista più impersonale, ma non si tratta di
un’operazione sistematica bensì di episodi isolati. Zola risulta insomma abbastanza estraneo alla
tecnica verghiana della regressione, per lui l’impersonalità è piuttosto il distacco dello scienziato, che
guarda l’oggetto da fuori e dall’alto. Questo si lega a due visioni del mondo diverse: Zola giudica e
commenta i fatti perché crede che la letteratura possa cambiare la realtà, mentre Verga è pessimista
e crede che la realtà sia immodificabile.
In breve:

 La sfiducia verso il mondo cittadino e mondano spinge Verga a parlare del mondo contadino
siciliano.
 Questo mondo è descritto attraverso le tecniche dell’impersonalità (l’autore non esprime
giudizi) e della regressione (l’autore parla dal punto di vista del popolo).
 Per Verga il progresso è come un fiume che travolge chi non riesce ad adattarsi, i vinti.
 Zola assume il punto di vista esterno e dall’alto, Verga adotta la regressione dell’autore.
Questo perché per Zola la letteratura può intervenire sulla realtà, mentre Verga crede che la
realtà non sia modificabile.

Verga è autore di moltissime novelle in cui si esprime la poetica del Verismo. Ricordiamo qui di
seguito le tre raccolte più importanti.

 Vita dei campi (1880), raccoglie novelle in cui è descritto il mondo della campagna siciliana e
la sua vitalità originaria. I personaggi di questi racconti sono estranei alle situazioni artificiali
della vita cittadina e risultano dominati da passioni elementari. È un mondo fuori dalla storia,
fondato sulla ripetizione di ritmi sempre uguali, fatto di lavoro, miseria, violenza, gerarchie,
egoismi e codici di comportamento immutabili. La voce popolare narrante spesso descrive i
personaggi con sarcasmo e aggressività, creando un contrasto con la tragicità delle vicende
narrate.
 Novelle rusticane (1882), ripropongono ambienti e personaggi della campagna siciliana, ma
in prospettiva più amara e pessimista, portando in primo piano la miseria e la fame. Il mondo
descritto in queste novelle si basa sul possesso della “roba”, sulla ricerca della ricchezza, di
fronte alla quale gli uomini perdono principi e valori. Il mondo rurale non è idealizzato, ma
rappresentato in tutti i suoi aspetti, sia positivi che negativi.
 Per le vie (1883), riprende i temi di Novelle rusticane, ma in un’ambientazione cittadina.
Verga torna a raccontare la città come aveva fatto nei romanzi giovanili; questa volta non
parla però dell’ambiente borghese e mondano, ma preferisce la classe povera cittadina.

I romanzi veristi di Verga ruotano intorno al progetto del Ciclo dei vinti, che si sarebbe dovuto
comporre di cinque romanzi, in cui Verga voleva rappresentare la lotta per la vita nelle diverse
classi sociali, il cammino fatale verso il progresso, quella fiumana che trascina via con sé i vinti,
coloro che non riescono a stare al passo. Nella crisi creativa che lo colpisce negli ultimi anni, lo
scrittore lascia incompiuto il progetto. Solo I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo vengono
pubblicati, mentre La duchessa di Leyra, che avrebbe dovuto rappresentare il mondo della
nobiltà travolto dalla modernità, rimane allo stato di abbozzo. Gli ultimi due romanzi non
saranno nemmeno iniziati.

 I Malavoglia (1881). Storia di una famiglia di pescatori siciliani, colpiti da una serie di
disgrazie e dalle trasformazioni della modernità, che distrugge il loro mondo e li riduce
alla rovina. La famiglia stessa si disgrega progressivamente. Stile e linguaggio si adattano,
in conformità alla poetica verista, al mondo popolare descritto.
 Mastro Don Gesualdo (1889). Racconta l’ascesa sociale di un muratore che riesce a
diventare ricco grazie alla sua intelligenza e alla sua forza di volontà. La ricchezza non
determina però la serenità dell’uomo e tantomeno garantisce il lieto fine della storia.
Mastro Don Gesualdo vede infatti disgregarsi gli affetti familiari e muore solo.
L’ambiente rappresentato è quello borghese e aristocratico e di conseguenza, secondo il
principio dell’impersonalità a della regressione, anche la cultura del narratore e la lingua
salgono rispetto alle opere precedenti.
Rosso Malpelo
La novella inizia con la presentazione del personaggio di Malpelo, un giovane che lavora in una cava
di sabbia siciliana e che è ritenuto da tutti essere malvagio a causa dei suoi capelli rossi. Per questo
motivo il giovane è malvoluto dalla sua famiglia, che si vergogna di lui, e maltrattato dai suoi
compagni di lavoro. In risposta a questo Malpelo vive completamente isolato. Nel racconto si dice
che lo tenevano a lavorare lì solo perché il padre era morto nella cava in seguito al crollo di una
parete. Viene descritta la morte del padre, a cui Malpelo è presente. Tutti gli uomini giunti in
soccorso rinunciano subito a salvarlo, giudicando l’impresa impossibile, e solo Malpelo continua a
scavare inutilmente per tirarlo fuori dalle macerie. Tornato a lavoro dopo la morte del genitore,
Malpelo è ancora più solitario e i compagni si accaniscono di più su di lui. Gli vengono affidati tutti i
lavori più duri e pericolosi e il ragazzo sfoga la sua rabbia contro un vecchio asino.

A questo punto entra in scena un altro personaggio, il giovane Ranocchio, momentaneamente zoppo
dopo un incidente. Malpelo inizia a tormentare il ragazzo, ma in questo comportamento si cela il suo
modo di essergli amico e di prepararlo per il mondo. Viene descritto anche un ritorno a casa del
protagonista, che si reca dalla madre e la sorella. Le due donne però si vergognano di lui e non
vedono l’ora che torni alla cava a lavorare. In questo momento viene ritrovato il cadavere del padre,
evento che sconvolge moltissimo Malpelo. Il ragazzo prende i vestiti del genitore e inizia a custodirli
con gelosia.

La scia di morti, però, non è finita: anche l’asino che Malpelo usava picchiare viene trovato morto e il
suo cadavere viene mangiato dalle bestie. Il protagonista porta Ranocchio a vedere la scena per
dargli una lezione sulla vita, ma il ragazzino non vivrà mai la vita a cui Malpelo lo sta preparando:
Ranocchio, infatti, si ammala e Malpelo fa appena in tempo ad andare a trovarlo prima che muoia.
Dopo la morte di Ranocchio arriva alla cava un uomo evaso di prigione che si sta rifugiando per
sfuggire alla cattura, ma che alla fine decide di andar via, preferendo il carcere alla vita sottoterra.

Nel finale Malpelo viene mandato in esplorazione in una zona pericolosa della cava e non fa più
ritorno, presumibilmente morto nel labirinto dei cunicoli.

Rosso Malpelo può essere considerata la prima novella del tutto verista di Verga. In Nedda aveva già
trattato l’argomento del mondo contadino siciliano, ma non aveva abbandonato il punto di vista
esterno, quello del narratore che descrive i fatti e li giudica. In Rosso Malpelo invece adotta la
tecnica dell’impersonalità: l'autore assume il punto di vista dell’ambiente che descrive. Il narratore
di Rosso Malpelo è un narratore popolare, che ci racconta i fatti già conclusi. Non dobbiamo però
pensare che il narratore popolare corrisponda alla voce di un solo personaggio, in quanto esso
rappresenta piuttosto la voce di tutto il popolo, un coro, il punto di vista della comunità. Questo è
evidente già nell’incipit della novella: «Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva
i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo». Appare chiaro che questo non è il punto di
vista di Verga, ma quello della gente del popolo e in particolare degli abitanti del paese in cui
Malpelo vive e lavora. Verga in quanto persona è completamente assente e l’autore regredisce
adottando un punto di vista che non è il suo.

A parlare è la voce del pregiudizio, che presenta una spiegazione irrazionale come perfettamente
logica. Bisogna sottolineare che l'utilizzo di questo punto di vista non comporta l’adesione
dell’autore a ciò che viene detto. Al contrario, il lettore va oltre ciò che il narratore popolare dice ed
è indotto a contestare il pregiudizio, a svelarne la falsità.
Ci troviamo allora di fronte a un narratore inattendibile alle cui parole non possiamo credere perché
non riporta la verità, ma un punto di vista distorto. Questo narratore non capisce le azioni di Malpelo
e le attribuisce tutte alla sua presunta malvagità derivante dai capelli rossi.

Per il lettore è chiaro che Malpelo ha dei valori autentici, come la pietà verso il padre, il senso della
giustizia, l’amicizia e la solidarietà. Il punto di vista del narratore, con i suoi pregiudizi e le sue
incomprensioni, crea su questi valori un effetto di straniamento. Questo accade perché il narratore è
portatore di un punto di vista disumano, che ignora i valori e conosce solo gli interessi privati e la
logica del più forte. Lo straniamento ha dunque l’effetto di negare che possano esistere dei valori in
un mondo dominato dalla lotta per la sopravvivenza, e in questo Verga esprime il suo pessimismo.
Dall’altra parte l’insensibilità del narratore, che dovrebbe apparire strana, appare invece normale:
abbiamo qui uno straniamento al rovescio.

Il punto di vista è popolare ma la lingua usata ha a volte ancora caratteristiche del registro alto e
letterario, o perlomeno dell’italiano grammaticale. Essa accoglie molti elementi del parlato, ma non
scende mai fino al dialetto, la vera lingua parlata dal popolo alla fine dell’800. Quello che Verga
riprende dal siciliano è piuttosto l’immediatezza e la rapidità delle formule, che vivacizzano il
discorso e modernizzano le forme dell’italiano, creando una lingua più diretta e incisiva.

Malpelo è un emarginato, rifiutato dalla famiglia e dai compagni di lavoro. La sua diversità si
riconosce in un particolare fisico, i suoi capelli rossi in cui il popolo vede un segno di malvagità. Come
altri personaggi di Verga, Malpelo è vittima di una serie di sventure. Per Malpelo la vita si configura
come un’eterna lotta per la sopravvivenza dominata dalla legge del più forte. Lo vediamo anche negli
insegnamenti che dà a Ranocchio, con il quale intrattiene un rapporto ambiguo tra l’amicizia e il
bullismo. Il fine è far capire a Ranocchio che la vita è una lotta in cui dominano il male e l’ingiustizia.
Dalla vicenda di Ranocchio, così come dal rapporto con la famiglia, emerge un contrasto forte tra
amore e violenza nel personaggio di Malpelo.

La concezione della vita di Malpelo è priva di speranza. Per questo motivo egli decide di non
ribellarsi contro le ingiustizie che subisce perché gli sembrano inevitabili. A volte sogna un destino
diverso, ma subito ne comprende l’impossibilità e torna alla realtà. È come se Malpelo si facesse
carico del male del mondo. Il suo destino è quello del padre, sia nella vita che nella morte. Nel finale
Malpelo si trasforma, per coloro che rimangono, in un fantasma che vaga nella cava, in una leggenda
paurosa.

In questo pessimismo assoluto e senza uscita, che porta Malpelo ad affermare che «se non fosse mai
nato sarebbe stato meglio», vediamo lo stesso pessimismo di Verga. L’autore, che si era eclissato dal
testo attraverso la tecnica dell’impersonalità, vi rientra in modo brusco imponendo al protagonista
della vicenda la propria concezione del mondo.

Storia di una capinera


Storia di una capinera è uno dei romanzi più famosi di Giovanni Verga, scritto in epoca giovanile. A
differenza degli altri romanzi dello scrittore risalenti allo stesso periodo, che presentano come
protagonista un giovane artista e le sue avventure sentimentali, qui Verga sceglie di raccontare la
storia e i tormenti interiori di una ragazza costretta a farsi monaca.

Il romanzo Storia di una capinera ottenne un grande successo di pubblico grazie al suo carattere
romantico e passionale, vicino al gusto del tempo, registrando delle vendite da record.
La scelta del titolo è legata a un aneddoto raccontato dallo stesso Verga nella prefazione del libro. Lo
scrittore dice di essersi ispirato a una capinera, un piccolo uccello, che una volta vide chiusa nella sua
gabbia, triste e malinconica, che guardava con invidia gli altri uccelletti liberi di volare. Non avendo la
forza di volontà di cercare di liberarsi, la capinera si lasciò infine morire di fame e di sete. Lo scrittore
associò a questa storia quella della protagonista del suo romanzo.

Maria, la protagonista di Storia di una capinera, è costretta a farsi suora a causa della povertà della
sua famiglia, che non può permettersi di pagare la dote per farla sposare né di mantenerla. Maria
viene così messa in un convento di clausura, dove è destinata a passare il resto della sua vita.
Un’epidemia di colera le permette però di vivere per un periodo con la famiglia a Monte Ilice. Qui
passa dei momenti felici, scopre le gioie del mondo ed è oppressa dal pensiero di tornare nel
convento. In quei giorni conosce Nino, verso il quale scopre di provare un sentimento del tutto
nuovo per lei, l’amore. Questo getta Maria in una profonda crisi esistenziale, dal momento che il suo
destino è sempre stato quello di essere una suora.

Nino propone alla ragazza di abbandonare il convento e di scappare con lui, ma allo stesso tempo
Maria riceve pressioni dalla famiglia affinché completi il percorso di monacazione e la matrigna le
proibisce di vedere Nino e la rispedisce in convento. Nel frattempo l’amica Marianna, la destinataria
delle lettere di Maria, decide di non tornare in convento, accrescendo ancora di più la depressione
della ragazza per quel gesto che lei, come la capinera vista da Verga, non ha il coraggio di compiere.
Oltre al suo spirito, anche il suo corpo si ammala sempre di più. Maria è divorata dai sensi di colpa
per il desiderio che prova nei confronti di Nino e teme di poter cadere preda della follia. Un ulteriore
colpo per Maria sarà la notizia del matrimonio tra Nino e la sorellastra Giuditta.

L’episodio successivo che viene narrato è la cerimonia con la quale Maria prende definitivamente i
voti, a cui è presente tutta la sua famiglia e dunque anche Nino, in qualità di marito di Giuditta. Lo
sconforto si impossessa sempre di più di Maria, che ormai passa le sue giornate sul tetto del
convento da dove si vede la casa di Nino e Giuditta. La ragazza ormai in preda alla follia tenta una
fuga disperata dal convento, ma viene ripresa dalle altre monache ed esplode in un attacco di follia.
Poco dopo Maria muore.

Storia di una capinera è un romanzo epistolare. Si tratta di un tipo di romanzo molto diffuso nel 700
e nell’800. Questa forma di narrativa presuppone una focalizzazione interna, in cui ognuno dei
personaggi che scrive lettere esprime il proprio punto di vista e le proprie conoscenze sulla vicenda.
Non c’è insomma un narratore esterno che ci racconta le cose da fuori, ma la scrittura è affidata
direttamente ai protagonisti, il cui punto di vista è espresso di volta in volta attraverso ciò che essi
scrivono. In questo modo le lettere vengono a creare una sorta di dialogo tra i personaggi.

Nel caso di Storia di una capinera ci troviamo però di fronte a un romanzo epistolare in forma di
monologo, vale a dire che tutte le lettere sono scritte dalla protagonista, che affida alla carta le
confessioni della sua anima. Altro elemento molto importante è che il narratore sia una donna,
Verga si cala dunque all’interno di un’ottica femminile.

La destinataria delle lettere è l’amica Marianna, interlocutrice muta, anche lei educanda del
convento ma che, a differenza di Maria, avrà il coraggio di scegliere la vita. Tra gli altri personaggi
menzionati in Storia di una capinera ci sono quelli della famiglia di Maria: il padre, la sua seconda
moglie (la madre era morta), la sorellastra Giuditta e il fratellastro Gigi.

Il romanzo è una descrizione dei moti dell’animo della protagonista. Il percorso di Maria parte dalla
paura del peccato, di fronte alla quale la ragazza reagisce con la repressione del desiderio. In questo
Maria si differenzia dalla monaca di Monza, che invece cede al desiderio e si abbandona al peccato.
Quella di Maria è dunque la storia di una repressione. Possiamo considerare Maria come la prima
rappresentante della categoria verghiana dei vinti, di coloro che non riescono a vivere nel mondo e
ne vengono annientati, come la capinera di cui parla Verga nella prefazione.

Centrale, in Storia di una capinera, è la componente psicanalitica nella descrizione dei conflitti
interiori di Maria. La repressione del desiderio può essere letta come storia di una nevrosi. Al tema
del peccato si affianca quello della follia, il desiderio represso viene demonizzato e si trasforma in
follia. In particolare c’è una figura nel romanzo che rappresenta la follia, quella della suora matta,
Suor Agata, nella quale Maria tende sempre più a identificarsi e della quale finirà per prendere il
posto. Una leggenda del convento narra che la cella dei folli, quella di Suor Agata, non possa mai
rimanere vuota. Alla morte di Suor Agata corrisponde l’esplosione della follia di Maria, che prima di
morire viene rinchiusa proprio nella cella di Suor Agata. Il percorso è ormai completato: Maria
autopunendosi e allontanandosi volontariamente dal mondo, dal quale si sente attratta, finisce per
demonizzare il suo desiderio. Il risultato, come detto, è la follia e la morte.

Al fine di descrivere i pensieri che tormentano la protagonista, il romanzo Storia di una capinera
ricorre spesso al discorso dubitativo, fatto di periodi ipotetici e verbi di dubbio. La forma del discorso
dominante è il flusso di pensieri, la riflessione, con frequente uso di esclamazioni e interiezioni.
Maria si abbandona ai suoi pensieri, come se stesse parlando con sé stessa, e il discorso viene a
coincidere con i suoi ragionamenti. La forma epistolare determina un uso molto forte del linguaggio
della soggettività. Dal punto di vista del linguaggio Verga usa una lingua letteraria e
fiorentineggiante.

Nedda
Nedda (1874) è una novella di Giovanni Verga. Segna la sua conversione ai modi e ai temi del
Verismo. La svolta verista di Giovanni Verga è dovuta alla scoperta dei naturalisti francesi (Flaubert,
Zola, ecc.) e all’amicizia con Luigi Capuana.

La novella ha la forma di una lunga lettera scritta da Giovanni Verga a una amica, che alcuni anni
prima aveva visitato con lui Aci-Trezza.

Verga narra che un giorno la fiamma del caminetto, davanti al quale stava seduto, gli fece ricordare,
per associazione d’idee, la fiamma che vide una volta ardere nel focolare di una fattoria alle falde
dell’Etna. Dinanzi a quel fuoco si asciugava le vesti un gruppo di raccoglitrici di olive, bagnate dalla
pioggia. Dopo essersi più o meno asciugate, tutte le ragazze, allegre, si misero a ballare al suono di
una musica leggera. Solo una di esse, Nedda (diminutivo di Sebastianedda), se ne stava triste in
disparte, perché aveva la mamma malata e la famiglia versava nell’estrema miseria. Il sabato, avuta
la paga, con la detrazione di due giornate e mezzo per la pioggia, Nedda tornò a casa e trovò che la
mamma si era aggravata. L’ultima medicina, comprata dallo zio Giovanni, un uomo buono e
caritatevole, non valse a nulla e la mamma morì. Dopo la sepoltura della mamma, lo zio Giovanni le
propose un nuovo lavoro ad Aci Catena, che le consentì di fare qualche spesa. Un giorno Janu, un
giovane del paese che da qualche tempo la corteggiava, le regalò un fazzoletto di seta, che la fece
tanto gioire. In un successivo incontro il giovane promise a lei e allo zio Giovanni che un giorno,
quando avesse avuto la possibilità di farlo, l’avrebbe sposata. Dopo qualche tempo, Nedda e Janu
andarono a lavorare insieme a Bongiardo; una domenica, durante una gita in campagna, i due si
abbandonarono l’uno nelle braccia dell’altro. Verso Pasqua, Nedda scoprì di aspettare un bambino e
ora tutti la fuggivano per il suo nuovo stato. Intanto Janu, nonostante fosse sofferente di malaria,
andava lo stesso a lavorare per mettere da parte i risparmi e potersi sposare. Ma, un giorno, mentre
potava un albero di olivo, cadde dall’albero e il giorno seguente morì.
Nedda restò sola e quando le nacque la bambina non sa come sfamarla, un giorno per la
disperazione nutrisce la bambina con il sangue tagliandosi i capezzoli, poco tempo dopo quando la
tiene in braccio la bambina fa un sussulto e muore. 
Nedda la distende nel letto dove era morta sua madre e ringrazia la vergine perché secondo lei la
bambina avrebbe avuto un futuro pessimo perché non avrebbe avuto cibo e sarebbe stata la figlia di
una donna di male affare. 

Con Nedda Verga abbandona i personaggi passionali, evoluti e raffinati dei romanzi giovanili e ritrae
la vita degli umili, che vivono rassegnati e silenziosi tra gli stenti e le fatiche. Abbandona anche le
complicate analisi psicologiche e i lirismi dei primi romanzi iniziando una narrazione più sobria,
disadorna, spersonalizzata, condotta con un linguaggio semplice e scarno. In realtà la novella
presenta ancora forme narrative in gran parte tipiche della produzione tardo-romantica, come si
deduce analizzando la sua struttura complessiva.

La storia di Nedda è infatti introdotta da un narratore esterno, onnisciente (Verga), che la presenta
come un ricordo sentimentale sorto in lui mentre osservava il fuoco del camino, anche se, con il
procedere della vicenda, il narratore tende a scomparire, lasciando in primo piano i fatti “nudi”.

È una novella pre-verista perché in questa novella si vede e evince che l’autore prova una certa
compassione per la protagonista. La letteratura naturalista prevede che bisogna essere al di fuori
della storia per questo viene definita come pre-verista.

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