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Letteratura dialettale: Carlo Porta e Giuseppe Gioacchino Belli

Carlo Porta e Giuseppe Gioacchino Belli sono due autori essenziali del Romanticismo
italiano e, in particolare, della produzione poetica in dialetto. Il romanticismo aveva
esaltato il valore irrazionale e ingenuo della poesia e quindi anche l’ammirazione per
la poesia popolare. I classicisti come Pietro Giordani ritenevano che il dialetto
determinasse una chiusura regionalistica e ostacolasse il sorgere di una cultura
nazionale. In un certo senso il ragionamento era corretto, ma i dialetti, in un
contesto in cui l’unità italiana era ancora un miraggio, rappresentavano
l’espressione più autentica dei gruppi sociali meno colti e, soprattutto, il quotidiano
sistema di comunicazione. La letteratura dialettale permetteva quindi di rispondere
in modo efficace all’esigenza di rappresentazione realistica del mondo popolare.
Questo è il senso del ricorso al dialetto da parte di Carlo Porta (1775-1821) che cerca
di dar voce a quella moltitudine di uomini che passa sulla sua terra senza lasciarci
traccia o da parte di Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) che desidera non solo
ritrarre il popolo di Roma ma ritrarlo mentre parla la sua lingua.
CARLO PORTA: Nacque a Milano nel 1775. Il padre svolgeva mansioni di
amministratore per il governo asburgico (giova ricordare che Milano era dominio
austriaco). Studiò prima dai Barnabiti a Monza, poi nel seminario di Milano
(esperienze a contatto con il mondo ecclesiastico, uno dei temi dominanti della sua
poesia). Seguì poi le orme del padre lavorando nell’amministrazione, prima a Milano
poi a Venezia. Si interessò di teatro (anche come attore), partecipò alle polemiche
anticlassicistiche del suo tempo e frequentò diversi letterati a lui contemporanei (tra
cui Manzoni). Il suo primo esperimento poetico di rilievo è rappresentato dalla
traduzione in dialetto milanese dell’Inferno di Dante. Buona parte della produzione
poetica del Porta fu indirizzata:
 alla satira anticlericale, tesa a svelare una certa ipocrisia diffusa e motivata dalla
ricerca di una più autentica religiosità;
 al tentativo di portare alla luce il mondo degli umili, dei poveri e degli sfruttati,
poveri di beni ma ricchi di affetti e sentimenti;
 all’esame di personaggi ai margini della società e del mondo di violenza in cui si
trovano a vivere;
 al biasimo dell’arroganza e del vuoto morale del mondo falso e corrotto
dell’aristocrazia. Tra le sue opere ricordiamo il poemetto Desgrazzi de Giovannin
Bongee, ovvero Disgrazie di Giovannino Bongeri, la storia di uomo vittima di mille
soprusi, in bilico tra la volontà di reagire e la lunga abitudine a sopportare e La
Ninetta del Verzee, ovvero La Ninetta del giardino, storia di una prostituta che si
racconta ad un cliente-amico.
Giuseppe Gioacchino Belli: nasce a Roma nel 1791 da una famiglia benestante, ma il
padre muore nel 1802 lasciando la famiglia in serie difficoltà economiche. Cinque
anni dopo muore anche la madre e del Belli e dei fratelli si occuperanno gli zii
paterni. Belli, che aveva cominciato ad interessarsi alla letteratura, è costretto ad
abbandonare gli studi e a lavorare. Per circa due anni sarà segretario di Stanislao
Poniatowsky, un principe polacco residente a Roma. Nel 1816 si sposa con Maria
Conti, una ricca vedova, che gli consentì una vita agiata. A Milano conobbe le poesie
di Porta, che gli diedero l’impulso per la composizione dei suoi sonetti romaneschi, a
cui lavorò intensamente, soprattutto tra il 1830 e il 1837, ma non li pubblicò mai,
diffondendoli solo oralmente tra gli amici. Dopo la morte della moglie e la caduta
della Repubblica Romana, con il ritorno del Papa rivestì la carica di censore e la
esercitò con rigidezza. Il tratto più caratteristico di Belli è la sua personalità che
appare come sdoppiata: da un lato emerge un’indole conservatrice della produzione
poetica in lingua e un atteggiamento reazionario; dall’altro i sonetti dialettali, plebei,
beffardi, rivelano una forte carica di ribellione anarchica. Belli vuole limitarsi a dar
voce alla plebe con assoluta oggettività. Ricostruisce semplicemente un modo di
vedere il mondo che non è il suo e a questo punto di vista lascia la responsabilità
della carica dissacratoria e anarchica. Tuttavia, è possibile ipotizzare che tale scelta
permetta a Belli di far emergere l’altra faccia della sua personalità.

Ippolito Nievo e le "Confessioni d'un italiano"


Ippolito Nievo nasce nel 1831 a Padova da una famiglia nobile: il padre, di origine
mantovana, è magistrato mentre la madre è figlia di una contessa friulana. Figura di
riferimento per Ippolito in questo periodo è il nonno, Carlo Marin, patrizio
veneziano che ha partecipato agli eventi tumultuosi di Campoformio e
delle campagne napoleoniche in Italia: a lui Ippolito dedica le sue prime poesie
scolastiche, raccolte in Poetici componimenti fatti l'anno 1846-1847. Nel frattempo,
continua gli studi liceali a Mantova, agitata nel 1848 dai moti insurrezionali e dove
Ippolito conosce Attilio Magri e Matilde Ferrari, di cui si innamora. La donna, dopo la
fine della relazione con lo scrittore, sarà protagonista del suo primo
romanzo, Antiafrodiasiaco per l’amor platonico (1851, ma pubblicato solo nel
1956), con il nome di Morosina. Si tratta di un romanzo umoristico-satirico, in cui il
narratore si prende gioco della donna amata, ma traditrice. Trasferitosi a Pisa nel
1849, Nievo entra in contatto con il pensiero mazziniano e partecipa
all’insurrezione di Mantova, che fallisce e costringe l’autore a trasferirsi a Cremona,
dove prosegue e conclude gli studi liceali. Nel 1850 si iscrive alla facoltà di legge di
Pavia, ma si laurea nel 1855 a Padova, terminando così gli studi nella città natale.
Nel 1853 collabora con il giornale bresciano La Sferza e con la rivista  L’Alchimista
Friulano, su sui pubblica alcune poesie, dalla spiccata componente romantica e
popolare, raccolte e pubblicate nel 1854 con il titolo Versi. Nello stesso anno,
mentre Nievo è attivo anche come autore teatrale, esce il suo saggio Studi sulla
poesia popolare e civile massimamente in Italia, dove polemizza con la letteratura
contemporanea e teorizza una poesia interessata al mondo popolare e contadino,
rifacendosi alla tradizione letteraria italiana da Dante fino a Manzoni.
Tra 1855 e 1856 Nievo si dedica al filone della narrativa campagnuola (che descrive
la vita rurale e delle classi popolari abbondando in toni patetici e paternalistici),
prima con l'Angelo di bontà, poi con una serie di racconti (La Santa di Arra, La pazza
del Segrino, Il Varmo, Il milione del bifolco, L'avvocatino, La viola di San Sebastiano)
che l'autore vorrebbe raccogliere senza successo nel Novelliere campagnuolo  (anzi,
per L'avvocatino Nievo subisce un processo per vilipendio nei confronti delle
guardie imperiali austriache). Spostatosi a Milano, entra in contatto con l’ambiente
letterario e politico della città ed inizia una relazione con Bice Melzi, donna sposata,
a cui rimarrà legato per tutta la vita.
Intanto nel 1857 Nievo ha cominciato la sua opera maggiore, Le Confessioni d'un
italiano, portate a termine con rapidità sorprendente (data la mole e l'impegno del
romanzo) nell'agosto dell'anno successivo. Protagonista di questo romanzo
storico ambientato nella contemporaneità è Carlino Altoviti, che redige, ormai
anziano, le memorie della sua vita.
Così recita la frase d'esordio:
Io nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell'evangelista san Luca; e morrò
per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa
misteriosamente il mondo.
Ecco la morale della mia vita. E siccome questa morale non fui io ma i tempi che
l'hanno fatta, così mi venne in mente che descrivere ingenuamente quest'azione dei
tempi sopra la vita d'un uomo potesse recare qualche utilità a coloro, che da altri
tempi son destinati a sentire le conseguenze meno imperfette di quei primi influssi
attuati.
Carlino è allora l'esempio del patriota risorgimentale, che attraversa decenni
decisivi per le sorti della nazione in via di formazione. 
Dall'infanzia e dall'adolescenza presso il castello di Fratta alle vicende politiche della
Repubblica veneziana e all'arrivo in Italia di Napoleone, dall'amore per
la "Pisana" (che tra addii e riconciliazioni è colei che resta al fianco del protagonista
per tutta la sua vita) alle vicende insurrezionali e all'esistenza da esule di Carlino, il
romanzo ripercorre attraverso gli occhi del protagonista le vicende salienti della
costituzione dell'Italia unita.
Nel 1859, lo stesso Nievo partecipa alla Seconda guerra d’indipendenza e continua la
sua attività politica e giornalistica; in quegli anni pubblica saggi e opuscoli politici,
come Venezia e la libertà d’Italia e Frammento sulla rivoluzione nazionale. Nel 1860
partecipa alla Spedizione dei Mille con Garibaldi, e gli vengono affidati diversi
incarichi amministrativi. Nievo muore nel 1861, quando il traghetto Ercole, che lo
stava riportando verso casa, naufraga nella notte tra il 4 e il 5 marzo, durante il
viaggio da Palermo a Napoli.
Le confessioni di un italiano
La stesura delle Confessioni di un italiano avviene in circa 9 mesi, tra il 1857 e il
1858, un periodo ridottissimo se si considera la mole del romanzo e la quantità di
elementi e di questioni presenti.
La narrazione è molto più rapida nella parte conclusiva, in una sorta di dissolvenza
che lascia nell’ombra i moti italiani degli ultimi anni, tale scelta però non basta ad
evitare i problemi del romanzo, la cui pubblicazione verrà ostacolata dalla censura.
L’opera infatti verrà pubblicata postuma, nel 1867, con il titolo Le confessioni di un
ottuagenario, da Erminia Fuà Fusinato, moglie di un caro amico di Nievo.
Trama: Il protagonista, Carlo Altoviti, narra in prima persona la sua lunga vita, dal
1775 al 1859. Alle sue vicende biografiche si intrecciano tutti gli eventi principali
della storia italiana. La prima parte del racconto rievoca il mondo feudale e
patriarcale del Friuli prima della Rivoluzione Francese, attraverso il quadro della vita
nel castello di Fratta. In questa parte spicca soprattutto l’amore di Carlino per la
Pisana, che durerà per tutta la vita.
Seguono poi l’irruzione delle armate napoleoniche in Italia, il trattato di
Campoformio, la Restaurazione e i moti del 20-21, a cui Carlino partecipa e viene
condannato a Napoli ai lavori forzati. Carlino però perde la vista e la pena gli viene
commutata in esilio, giunge quindi a Londra, cieco e povero, e sopravvive grazie alla
Pisana che giunge a chiedere l’elemosina per lui. Carlino riacquista la vita grazie ad
un’operazione, ma Pisana muore per le privazioni subite per assisterlo. Alla fine
Carlino torna in Italia e trascorre gli ultimi anni tra le memorie del passato.
Le Confessioni seguono, quasi per interno, il legame che stringe Carlino Altoviti,
narratore ottuagenario che rievoca la sua esistenza, alla Pisana, contessina di Fratta.
Carlino è un figlio illegittimo della sorella della contessa di Fratta, e ha una posizione
marginale nel castello: è impegnato in una mansione umile, come quella di girare lo
spiedo nella cucina, ambiente da cui prende avvio la narrazione nel primo capitolo.
Mentre Carlino è una figura mediana, la Pisana invece viene presentata con un
carattere tumultuoso, e, come una sorta di rovescio della Lucia manzoniana, andrà a
rappresentare uno dei personaggi femminili più interessanti dell’Ottocento. Carlino
vive tutte le tappe fondamentali del suo percorso al cospetto della Pisana, e mentre
il Carlino personaggio osserva tutte le evoluzioni della donna, il Carlino narratore
elabora a distanza di anni una riflessione sulla sua indole. È proprio in questi
passaggi che si misura in modo nitido la distinzione tra il narratore e l’eroe: nella
narrazione si alternano liberamente i pensieri e le emozioni di Carlino giovane e i
giudizi e le riflessioni dell’ottuagenario. Con questa tecnica Carlino osserva anche
tutti gli altri personaggi, commentandone l’evoluzione e la scomparsa.

Modelli: le Confessioni di Carlino si ricollegano al romanzo autobiografico


settecentesco, e in particolare alle Confessioni di Rousseau, ma è evidente anche un
certo legame con altre tradizioni: innanzi tutto con quella del romanzo di
formazione (nell’evoluzione di Carlino), e con quella del romanzo storico (implicita
nel racconto del mondo di Fratta, e degli ultimi anni del 700). Man mano che le
memorie di Carlino si avvicinano al presente, il romanzo storico cede il passo al
romanzo contemporaneo, e nell’ultimo capitolo, assume la forma di romanzo
epistolare (con le lettere ricevute dal figlio impegnato nelle lotte di liberazione in
Sudamerica). Su tutti questi elementi domina il registro umoristico, con il quale
Carlino guarda con distanza le vicende narrate.
Lingua: la voce di Carlino si muove senza ostacoli tra il tono retorico e scorci
colloquiali, su un orizzonte antimanzoniano, opponendo al monolinguismo di
Manzoni un plurilinguismo che intreccia forme dialettali e forme derivanti dalla
tradizione.

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