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Luigi Pirandello 1867-1936

Luigi Pirandello nacque il 28 giugno 1867 presso Agrigento (all'epoca chiamata Girgenti, nella
contrada di Caos) da una famiglia di agiata condizione borghese (il padre dirigeva alcune miniere
di zolfo prese in affitto). Dopi gli studi liceali si iscrisse all'Università di Palermo, poi passò alla
facoltà di Lettere dell'Università di Roma; in seguito ad un contrasto sorto con un professore si
trasferì infine all'Università di Bonn, dove si laureò nel 1891 (con una tesi sulla lingua siciliana).
Nel frattempo aveva già iniziato la produzione letteraria, scrivendo poesie e una tragedia.
L'esperienza degli studi in Germania fu importante per lo scrittore, perché lo mise in contatto con la
cultura tedesca e in particolare con gli autori romantici, che ebbero profonda influenza sulla sua
opera e sulle sue teorie riguardanti l'umorismo. Dal 1892, grazie a un assegno concessogli dal
padre, si stabilì a Roma, dedicandosi interamente alla letteratura e stringendo legami con il mondo
culturale romano. Nel 1893 scrisse il suo primo romanzo, L'esclusa (pubblicato solo più tardi, nel
1901) e nel 1894 diede alle stampe una prima raccolta di racconti, Amori senza amore. Nello
stesso anno aveva sposato ad Agrigento Maria Antonietta Portulano, tornando poi a vivere con lei a
Roma. Dal 1897 iniziò come supplente l'insegnamento di Lingua italiana presso l'Istituto
Superiore di Magistero (oggi Facoltà di Scienze della formazione) di Roma e nel 1908 divenne
docente di ruolo. Nel frattempo pubblicò articoli e saggi su varie riviste e scrisse la sua prima
commedia, Il nibbio (1896), che riprese più tardi col titolo Se non così (1915).
-il dissesto economico:
Nel 1903 un allagamento della miniera di zolfo del padre, nella quale lo scrittore aveva investito
gran parte della dote della moglie, provocò il dissesto economico della famiglia. Anche l'esistenza
di Pirandello dunque, come quella di Svevo e di altri scrittori del Novecento, fu segnata
dall'esperienza del declassamento, cioè del passaggio da una vita di agio borghese ad una
condizione piccolo borghese, a società sentita con i suoi disagi economici e le sue frustrazioni.
Questo avvenimento esercitò probabilmente una certa influenza sulle concezioni di Pirandello e sul
suo atteggiamento verso la società, fornendogli lo spunto per quella rappresentazione del grigiore
soffocante della vita piccolo borghese che ritroviamo in tante delle sue novelle. Inoltre il rancore e
l'insofferenza derivanti dalla traumatica esperienza del declassamento potrebbero aver provocato
anche il suo rifiuto irrazionalistico e "anarchico" del meccanismo sociale alienante, sentito come
una prigione da cui l'uomo cerca inutilmente di liberarsi per recuperare la spontaneità e
l'immediatezza originarie della «vita». In seguito alla notizia del disastro economico, inoltre, la
moglie, che aveva già mostrato alcuni segni di squilibrio psichico, ebbe una crisi che la fece
sprofondare irreversibilmente nella follia (periodo di fioritura della psicoanalisi + tema della
follia ricorrente nelle sue opere). La convivenza con la donna costituì per Pirandello un tormento
continuo, che anche in questo caso può forse aver influito sulla sua concezione dell'ambiente
familiare come «trappola» che imprigiona e soffoca l'uomo. Con la perdita delle rendite Pirandello
fu dunque costretto ad integrare il modesto
stipendio di professore intensificando la sua produzione di novelle e romanzi, che fra il 1904 e il
1915 si fece particolarmente fitta. Lavorò anche per l'industria cinematografica, che stava allora
muovendo i primi passi, scrivendo soggetti per film. Lo scrittore raccolse poi via via in vari volumi
le novelle pubblicate su giornali e riviste, ottenendo un buon successo di pubblico, ma suscitando
poca attenzione nella critica, che lo considerava un umorista "'minore", poco più che uno
scrittore di consumo.
-l'attività teatrale:
Dal 1910 Pirandello ebbe il primo contatto con il mondo teatrale, rappresentando a Roma due atti
unici intitolate Lùmìe di Sicilia e La morsa. Nel 1915 poi venne messa in scena a Milano la prima
commedia in tre anni, Se non così, composta intorno al 1896.
Da quel momento Pirandello divenne soprattutto scrittore per il teatro, anche se non abbandonò mai
la narrativa. Tra il 1916 e il 1918 scrisse e fece rappresentare una serie di drammi che modificarono
profondamente il linguaggio della scena del tempo e che suscitarono nel pubblico e nella critica
reazioni sconcertate. Tra i titoli più celebri ricordiamo Pensaci, Giacomino! e Liolà (1916), Così è
(se vi pare), Il berretto a sonagli, Il piacere dell'onestà (1917), Il giuoco delle parti (1918).
In quegli stessi anni esplose la Prima guerra mondiale e Pirandello si schierò a favore
dell'intervento dell'Italia, considerandolo come un'occasione per portare a compimento il processo
risorgimentale. In seguito, però, la guerra incise dolorosamente sulla vita dello scrittore: il figlio
Stefano, partito volontario, fu subito fatto prigioniero dagli austriaci, e Pirandello cercò in ogni
modo di ottenere la sua liberazione, senza riuscirci. In conseguenza del fatto la malattia mentale
della moglie si aggravò, tanto che lo scrittore fu costretto a farla ricoverare in una casa di cura, dove
la donna restò fino alla morte. Dal 1920 il teatro di Pirandello cominciò a conoscere un grande
successo di pubblico. Del 1921 sono i Sei personaggi in cerca d'autore, che portarono una
radicale innovazione
nell'ambito del linguaggio drammatico, suscitando dapprima reazioni furibonde negli spettatori, ma
riscuotendo poi consensi e apprezzamenti anche all'estero. I drammi pirandelliani nel corso degli
anni Venti e Trenta furono conosciuti e rappresentati in tutto il mondo. La condizione dello
scrittore ne fu profondamente modificata: abbandonò la vita sedentaria e piccolo borghese del
professore, lasciò nel 1922 la cattedra universitaria e si dedicò interamente al teatro, vivendo
direttamente la vita della scena e seguendo gli allestimenti dei suoi testi in giro per tutta l'Europa e
anche in America. Dal 1925 assunse la direzione del Teatro d'Arte di Roma, mettendo in scena
spettacoli tratti da opere proprie ma anche di altri autori. Si legò sentimentalmente, ma in modo
platonico, ad una giovane attrice della compagnia, Marta Abba, per la quale scrisse vari drammi.
-i rapporti con il fascismo (non ha mai preso una posizione netta):
L'esperienza del Teatro d'Arte non si sarebbe potuta realizzare senza il finanziamento
da parte dello Stato e forse fu soprattutto per questo motivo che nel 1924 Pirandello si iscrisse al
partito fascista, nella speranza di ottenere appoggi da parte del regime. La sua adesione al fascismo
ebbe però caratteri ambigui e difficilmente definibili. In un primo momento lo scrittore, che in
politica aveva idee piuttosto conservatrici e antiborghesi, sperò che il fascismo potesse garantire
un ritorno all'ordine e spazzare via le forme fasulle e soffocanti della vita sociale dell'Italia
postunitaria. Ben presto però si rese conto del carattere di vuota esteriorità del regime, della retorica
pomposa dei suoi riti ufficiali, e, pur evitando ogni forma di rottura o anche solo di dissenso,
accentuò a poco a poco il suo distacco, che celava un sottile disprezzo. Attraverso la critica
corrosiva delle istituzioni sociali e delle «maschere» da esse imposte Pirandello cominciò a
prendere di mira il regi- me, che della falsità del meccanismo sociale era diventato l'esempio più
evidente. Negli ultimi anni lo scrittore seguì particolarmente la pubblicazione complessiva delle sue
opere, in numerosi volumi: le Novelle per un anno, che raccoglievano la sua produzione
novellistica, e le Maschere nude (titolo che esprime il concetto paradossale di "maschere
smascherate"), in cui venivano sistemati i testi drammatici. Nel 1929 fu nominato Accademico
d'Italia e nel 1934 gli venne assegnato il premio Nobel per la Letteratura, a consacrazione della
sua fama mondiale. Era attento anche al cinema, pur essendo consapevole del pericolo che questa
nuova forma di spettacolo costituiva per il teatro, e seguiva da vicino gli adattamenti
cinematografici delle sue opere. Mentre negli stabilimenti di Cinecittà a Roma assisteva alle riprese
di un film tratto dal suo romanzo Il fu Mattia Pascal, sì ammalò di polmonite e morì il 10 dicembre
1936, lasciando incompiuto il suo ultimo capolavoro teatrale, I giganti della montagna.
NB: Racconto di Camilleri. Le spoglie di Pirandello vennero riportate in Sicilia, Camilleri andò da
un gerarca fascista a chiedere la traslazione delle spoglie e la risposta fu: “Pirandello, quel
fascista?”. Finita la guerra la stessa domanda fu inoltrata ad un funzionario della repubblica italiana:
“Ah Pirandello, quel comunista? Infine, le ceneri erano di più rispetto all'urna e quindi avanzavano
(senso del grottesco pirandelliano).
-il vitalismo:
Alla base della visione del mondo pirandelliana vi è una concezione vitalistica, che è
affine a quella di varie filosofie contemporanee (in particolare quella di Henry Bergson): tutta la
realtà è vita», «perpetuo movimento vitale». Anche noi, infatti, siamo una parte indistinta
nell'universale ed eterno fluire della vita», ma tendiamo a cristallizzarci (in accezione negativa
come per Dante e Ariosto) in forme individuali, a fissarci in una forma che noi stessi ci diamo, in
una personalità che vogliamo coerente e unitaria. In realtà questa personalità è un'illusione, noi
crediamo di essere uno per noi stessi e per gli altri, mentre siamo tanti individui diversi, a
seconda della visione di ci ci guarda.
Ciascuna di queste «forme» è una costruzione fittizia, una «maschera» che noi stessi ci imponiamo
e che ci impone il contesto sociale. Sotto questa maschera non c'è un volto definito, immutabile:
non c'è «nessuno», o meglio vi è un fluire indistinto e incoerente di stati in perenne trasformazione,
per cui un istante più tardi non siamo più quelli che eravamo prima. Pirandello fu influenzato dalle
teorie dello psicologo francese Alfred Binet sulle alterazioni della personalità ed era convinto che
nell'uomo coesistessero più persone, ignote a lui stesso, che possono emergere inaspettatamente;
condusse quindi una critica serrata al concetto di identità personale, di "io", su cui si era fondata una
lunga tradizione filosofica ed a cui si appellava abitualmente la coscienza comune.
NB: idea ripresa da Bergon a proposito del tempo. Bergson non concepisce il tempo come unità di
misura, ma come una vera e propria condizione dell'anima ( un tempo interiore della nostra
coscienza), legata ad un fluire incessante. Nonché stessa concezione di S. Agostino che credeva che
il tempo fosse un prolungamento dell'anima.
Inoltre le maschere pirandelliane non sono altro che delle concrezioni, forme di fissazioni naturali.
Le stesse maschere che vanno tolte (la realtà si trova per estrazione) per arrivare all'essenza in sé
(all'io), non trovando niente. Ed è qui che entra in gioco il paradosso; ovvero che alla fine un
individuo non esiste più (assurdità della vita, ipocrisia, convenzione).
-in più:
Uno, nessuno e centomila: tanti ruoli, tante maschere che uno si mette ma dietro di esse non c'è
una vera identità (riflessione profonda).
Il fu Mattia Pascal: un giorno il protagonista viene creduto morto e ne approfitta per cambiare vita,
ma nemmeno con questa nuova identità vive bene poiché non esiste presso l'anagrafe, essendo di
fatto morto. Sul finale si vede il protagonista che va al cimitero a portare i fiori alla sua tomba.
Novelle: presentano tutte personaggi con difetti che fanno ridere (umorismo grottesco).
Così è (se vi pare): L'opera è incentrata su un tema molto caro a Pirandello: l'inconoscibilità del
reale, di cui ognuno può dare una propria interpretazione che può non coincidere con quella degli
altri. Si genera così un relativismo delle forme, delle convenzioni e dell'esteriorità, un'impossibilità
di conoscere la verità assoluta che è ben rappresentata dal personaggio di Laudisi.
Sei personaggi in cerca di autore: Irrompono sei individui, un Padre, una Madre, il Figlio, la
Figliastra, il Giovinetto e la Bambina, personaggi rifiutati dallo scrittore che li ha concepiti. Essi
chiedono al Capocomico di dare loro vita artistica e di mettere in scena il loro dramma.

Pirandello non ricerca le cause storiche per cui la società è una trappola. L'unica via di relativa
salvezza che concede ai suoi eroi è la fuga nell'irrazionale: nell'immaginazione che trasporta verso
un “altrove” fantastico, oppure nella follia, che in Pirandello diventa il principale strumento di
contestazione, l'arma che fa esplodere convenzioni e rituali, riducendoli all'assurdità.
Pirandello è uno scrittore che si ferma sulla figura del paradosso (non è un filosofo, è affascinato dal
gioco, ma non dalla fine di esso, non arriva mai alle estreme conseguenze). Pirandello si avvicina al
problema ma rimane al gusto del paradosso.
Per Pirandello la follia è una delle strade per uscire da questa strettoia (una via di fuga), si usa
quindi la via della non razionalità.
L'altra strada (per affrontare la vita) è l'umorismo, su cui scrive anche un saggio nel 1908, in cui
Pirandello afferma che l'unica forma di arte in grado di mostrare la complessità e le contraddizioni
del reale è l'arte umoristica, fa anche una distinzione tra il comico (“percezione del contrario”) e
l'umoristico (“sentimento del contrario”). Per spiegare quest'ultimo concetto propone un esempio:
se vedo una vecchia signora coi capelli tinti e tutta truccata, avverto che è il contrario di ciò che una
vecchia signora dovrebbe essere (comico), ma se interviene la riflessione e suggerisce che quella
signora soffre nel conciarsi in quel modo e lo fa nell'illusione di poter trattenere l'amore del marito
più giovane, non posso più soltanto ridere (umoristico).
Letture fatte in classe:
-La carriola; la lunga novella inizia con la descrizione di un avvocato facoltoso, padre di famiglia,
che si sta recando nella propria abitazione dopo una lunga giornata di lavoro. Il protagonista sta
viaggiando in treno, e mentre attende che il viaggio si concluda, cerca di trovare una soluzione ad
una causa inoltrata da un suo cliente. La figura che viene descritta assume subito un atteggiamento
alto, da persona molto intelligente e colta, tuttavia nel profondo di sé non si sente sicura, e capisce
che la sua vita è come una messa in scena. Mentre il treno si avvicina a casa il protagonista si
assopisce e sogna una vita reale e incondizionata. Quando il viaggio termina il personaggio
principale si sveglia da questo suo sogno e si accorge di sentirsi estremamente insoddisfatto dalla
vita. Poco più tardi, mentre l’avvocato si accinge ad aprire la porta della sua abitazione, si accorge
tutto ad un tratto di un particolare indesiderato della sua vita. Il legale comprende di dover indossare
ogni volta delle maschere sempre diverse, a seconda delle persone che si trova dinnanzi. Egli vede
la sua vita dall’esterno, si vede come in una commedia in cui interpreta il ruolo principale, e
percepisce che la sua vita non gli è gradita, non lo soddisfa pienamente. In principio costui si vuole
rifugiare nella follia, ma ripensando alla moglie e ai figli che lo stanno aspettando al di là della
porta, si sente molto rincuorato, e quindi entra nel suo studio. Il protagonista si rende conto di non
potersi liberare della forma che gli altri gli hanno dato; perciò manifesta la sua ribellione compiendo
in gran segreto, tutti i giorni, un particolare atto. Prende la sua cagnetta per le zampine posteriori e
le fa compiere la carriola. Essa dopo questa "tortura" fissa il proprio padrone con paura e
rappresenta lo sguardo della società.
NB: “ogni forma è morta” → ruoli addossati e solidificati in lui.
-La patente; Il giudice D'Andrea è una persona molto ordinata e svolge con precisione e puntualità
il suo lavoro. Non lascia mai in sospeso le pratiche; però questa volta ne ha una che giace da una
settimana sulla scrivania perché si tratta di un caso che lo lascia molto perplesso.
Un uomo, di nome Chiàrchiaro, è considerato un iettatore da tutto il paese .
Un giorno, vede due giovani che, nei suoi confronti fanno, un atto osceno di scongiuro per
proteggersi dalla iella; per questo l’uomo ha sporto querela per diffamazione nei loro confronti.
Il giudice D’Andrea è convinto che non sarà possibile eliminare la superstizione che circonda
Chiàrchiaro e siccome prevede che la causa sarà persa, ritiene che sia più opportuno ritirare la
querela, anche perché il paese non aspetta altro di vedere l’uomo condannato.
Dopo una lunga riflessione, il giudice decide di far chiamare il querelante nel suo ufficio per
convincerlo a ritirare la querela, perché alla fine lo avrebbe penalizzato ancor di più, dato che il
giudice non avrebbe mai potuto incriminare i due ragazzi querelati per un fatto così banale e alla
fine la fama di iettatore di Chiàrchiaro si sarebbe ancor di più diffusa, ottenendo così l'effetto
contrario di quello desiderato. Quando arriva nell'ufficio, Chiàrchiaro si presenta con il tipico
aspetto di un iettatore e ammette addirittura di esserlo; il giudice meravigliato gli chiede perché
inizialmente abbia querelato i ragazzi che lo ritenevano un portatore di sfortuna, se poi egli si ritiene
di esserlo; nella risposta Chiàrchiaro chiarisce la sua intenzione: chiede al giudice di istruire al più
presto il processo: perdendo la causa, egli sarà considerato ufficialmente uno portatore di sfortuna e
chiederà così che gli sia rilasciata la patente di iettatore. In questo modo potrà guadagnarsi da
vivere: si metterà davanti ai negozi, nelle prossimità delle case da gioco, vicino alle industrie i cui il
proprietari lo pagheranno perché se ne vada; così, egli potrà riscattarsi anche dalla sottile malvagità
delle gente che fino ad ora lo ha sempre scansato.
NB: il significato: Il tema è quello dell’idea che gli altri si fanno di noi, cosa che ci costringe ad
assumere una determinata forma. Agli occhi di tutti, Chiàrchiaro, è etichettato come un portatore di
sfortuna. Egli diventa vittima della “forma” che gli altri gli attribuiscono e che lo porta alla rovina e
all’emarginazione (è stato licenziato per questo e per lo stesso motivo le due figlie non riescono a
trovare marito). Egli è come prigioniero di tale forma e qualsiasi lotta per uscirne sarebbe inutile.
Allora, decide di sfruttare a proprio vantaggio tale forma (o maschera) che gli altri gli impongono, e
ne accentua per questo le conseguenze. In altre parole: se gli altri ritengono che la sua presenza
porti sfortuna, allora egli sarà davvero un iettatore formalmente riconosciuto perché in possesso
della relativa patente. La novella è un chiara applicazione della poetica dell’umorismo; infatti
quando Chiàrchiaro si presenta nello studio del giudice ha la barba lunga, la faccia da vero iettatore,
un fare minaccioso, un paio di occhiali stravaganti e indossa un mantello sporco. Il suo aspetto
suscita l’ilarità e scatta l’avvertimento del contrario. Quando però si capisce il vero motivo per il
quale egli si sia conciato così, allora scatta il sentimento del contrario e il riso acquista un aspetto
amaro perché si capiscono le vere motivazioni della sofferenza che sta dietro alla forma di cui egli è
prigioniero. Dall’ilarità iniziale, si passa ad un riso amaro quindi alla compassione che si
concretizza con l’abbraccio del giudice che ha capito molto bene il dolore del cliente l’assurdità
della vita.
-Il treno ha fischiato; Il protagonista della novella Il treno ha fischiato è il ragionier Belluca.
Pirandello dice che sembrava impazzito: parlava insistentemente di un treno che fischiava. I
colleghi che andavano a fargli visita all'ospizio dei matti lo descrivevano come malato grave, affetto
da encefalite e da febbre cerebrale. Era accaduto tutto all'improvviso: l'impiegato modello, puntuale,
irreprensibile, preciso, sottomesso, ad un tratto era andato fuori di testa e si era permesso di
ribellarsi al suo capoufficio. Nessuno l'aveva mai visto così. Ma chi ci viveva vicino e conosceva le
sue abitudini, le sue condizioni di vita, non poteva meravigliarsi poi tanto, poiché ad un uomo che
viveva come Belluca anche un piccolo imprevisto poteva produrre effetti straordinari. La sua era
una vita impossibile, scandita dal lavoro in ufficio e dalla assistenza a tre donne vecchie e cieche (la
moglie, la suocera e la sorella della suocera), con cui, insieme a due sorelle vedove ed a i loro sette
figli, era costretto a dividere l'angusta casa ed i pochi soldi. La sera lavorava anche fino a notte
fonda per arrotondare le entrate, e poi esausto si coricava su un divano sgangherato. Ed era stato lì
che aveva udito una notte il fischio di un treno all'improvviso, ed aveva cominciato a pensare ad un
viaggio in luoghi lontani, esotici, o in città conosciute in gioventù. Il mondo gli era entrato nello
spirito, quel mondo che lui aveva dimenticato e che ad un tratto aveva ricominciato ad esistere per
lui. Aveva compreso che oltre quella casa orrenda c'era il mondo ed il solo pensiero l'avrebbe
consolato dalle angustie quotidiane. Questo gli bastava. Naturalmente avrebbe ripreso la sua vita,
avrebbe ripreso la sua vita, avrebbe continuato il suo lavoro di computisteria, si sarebbe scusato con
il capoufficio, il quale gli avrebbe concesso, di tanto in tanto, una fuga immaginaria in Siberia o in
Congo, su quel treno che fischiava.
In più: Il narratore è in terza persona, appare solo alla fine per dare la chiave d'interpretazione di
questa apparente follia, via di fuga dalla realtà e dalle maschere.
Senso del grottesco, riso di distacco, di difesa, una situazione umoristica (pesante in quanto ridicola
e viceversa).
Nell'ultima parte si ha una visione personale del mondo sia del personaggio, sia di Pirandello, esce
fuori dalla modalità teorica dove si deve fare una cornice ed un contorno per avvicinarsi al
sentimento del contrario (umorismo) ed avere una completa visione di una situazione. Nell'ultima
parte diviene lirico, parla della ragione di fondo per cui l'impiegato ha reagito così. Il fischio del
treno gli fa capire che esiste un mondo fuori dalla maschera che gli era stata imposta.
Confronto con la carriola: entrambi i finali sono simili (anche se il protagonista della carriola sa che
il bene esiste e già così sta bene). Anche nella carriola di ha un momento di estraniamento del
protagonista.
Nel finale della carriola il protagonista trova una via di fuga nella follia, nel treno ha fischiato il
protagonista ha la percezione che la vita vera sia altrove.
-Tu ridi; Il signor Anselmo ogni notte sveglia la propria moglie a causa delle sue grasse risate
notturne. La moglie è in collera con lui non solo perché non riesce a dormire a causa di questa sua
strana abitudine, ma anche perché sospetta che la sua incontenibile felicità notturna sia dovuta a
sogni piccanti nei quali vede altre donne. La donna è pertanto gelosa, nonostante lui non si ricordi
proprio i sogni che fa e non abbia neanche per la testa altre donne. Anzi, in quel periodo è molto
preoccupato per la loro situazione famigliare: il suo unico figlio è recentemente morto e la vedova
ha abbandonato le loro cinque figlie per scappare con un altro uomo, lasciando ad Anselmo ed alla
moglie cinque nipotine da accudire. I due coniugi consultano anche un dottore poiché il signor
Anselmo, non ricordando nulla al risveglio, sostiene di non sognare proprio nulla ed inizia quindi a
pensare che possa trattarsi di qualche strana malattia. Il dottore lo rassicura: non ha nessuna malattia
e le sue risate sono quindi realmente dovute ai sogni che fa, anche se non se li ricorda. Il signor
Anselmo ha uno spirito filosofico e formula così una propria teoria: dato che nella vita reale le
molte preoccupazioni non possono di certo renderlo felice, in quella onirica il suo cervello lo ripaga
immaginando un mondo in cui lui lo è molto. Si dispiace solamente di non ricordare cosa succeda di
tanto spiritoso da farlo ridere a crepapelle. Un giorno, infine, si ricorda del sogno che lo aveva fatto
tanto ridere ma invece di rallegrarsene rimane molto deluso: nella sua fantasia non c’è nulla di così
particolarmente bello e di alto spessore. La felicità che aveva pensato di godere nei sogni non era
dovuta ad altro che a sciocchezze di poco conto: sogna di un impiegato comicamente punzecchiato
dal suo capo. Anche in questo caso la sua natura filosofica gli viene in soccorso: era inevitabile che
ridesse di stupidaggini perché nella condizione di disagio in cui si trovava, per poter riuscire a
ridere di qualcosa era necessario diventare stupidi.
NB: Nel corso della narrazione si sviluppa il legame tra il tema del riso e la poetica dell’umorismo.
L’autore non si ferma all’aspetto comico di quelle risate notturne, ma fa emergere il loro significato
nella vita penosa del protagonista, fino al crollo dell’ultima illusione: il «sentimento del contrario»
induce nel lettore pietà e comprensione nei confronti del signor Anselmo, che in sogno ride anche se
non ne ha alcun motivo.
Particolari/dettagli → danno colore alla scena.
I romanzi
Tra il 1893 e il 1925 Pirandello si dedica alla composizione di sette romanzi.sotto l’aspetto formale
essi riflettono il percorso di maturazione della poetica dell’autore: da un’impostazione che risente
ancora della tradizione naturalistica che caratterizza i primi testi si passa infatti alla forte carica
sperimentale innovativa dei romanzi più maturi, nei quali vengono applicati sempre più
sistematicamente i principi dell’arte umoristica.
L’esclusa e il turno
Nell’estate 1893 Pirandello scrisse il suo primo romanzo, che inizialmente si intitolava Marta Ajala;
mi copro solo nel 1901 con il titolo l’esclusa. È la storia, ambientata in Sicilia, di una donna
accusata ingiustamente di adulterio, che viene cacciata di casa dal marito avviserà di ammessa solo
dopo essersi resa effettivamente colpevole. Al centro della vicenda non vi è un evento reale, ma il
semplice sospetto di una colpa che si radica nella mente del marito, della famiglia e dei cittadini, la
verità non è stabilita con certezza, poiché ogni uomo elabora un’immagine soggettiva del mondo.
Inoltre la struttura della vicenda sottolinea gli aspetti assurdi, paradossali delle azioni umane. Al
meccanismo deterministico si sostituisce il gioco imprevedibile beffardo del caso: in tal modo
Pirandello conduce un’implicita polemica nei confronti del naturalismo, che aveva appunto
impostato in maniera deterministica, rigidamente consequenziale, il rapporto tra cause ed effetti.
Nel romanzo si possono già cogliere alcune tracce dell’impostazione umoristica che sarà proprio di
quelli successivi.
Il gioco del caso è ancora ripreso nel breve romanzo successivo, il turno, dove un innamorato deve
aspettare il suo turno per sposare la donna amata, dopo la morte di altri due mariti.
I vecchi e i giovani
Uscì nel 1909. Nella sua forma esteriore è un romanzo storico, che rappresenta le vicende politiche
sociali della Sicilia e dell’Italia negli anni 1892-93, tra la rivolta dei fasci siciliani guidata dai
socialisti e lo scandalo della Banca romana, che minaccia di travolgere la classe dirigente dello
Stato unitario dopo formatosi. Al centro della vicenda, fittissima di personaggi, vi è una famiglia
nobile di Agrigento, i laurentano. L’intreccio si basa sul confronto tra due generazioni: i vecchi sono
riusciti a unificare l’Italia, ma vedono i loro ideali risorgimentali sviliti e negativi dalla corruzione
politica presenti; i giovani appaiono smarriti e incerti sulla strada da intraprendere, e la loro azione
sembra destinata al fallimento. il personaggio chiave è il vecchio Don cosmo Laurentano, che
presenta la figura del filosofo estraniato, che ha capito il gioco e guarda la vita come da un’infinita
lontananza. Egli ritiene che le passioni degli uomini, gli ideali patriottici, le conquiste del potere
economico e le ideologie politiche siano pure illusioni che ci si crea per vivere. emerge in questo
modo l’umorismo pirandelliano, che disgrega e scompone l’assurdo meccanismo della vita sociale,
con un atteggiamento di scettica irrisione insieme di pietà. gli eventi non sono rappresentati in modo
diretto nella loro oggettività, ma attraverso molteplici punti di vista.
Suo marito 1911
tratta il tema della percezione soggettiva della realtà e dell’incomunicabilità umana che ne deriva.
La vicenda si svolge negli ambienti intellettuali romani si basa sul contrasto tra la scrittrice Silvia
Roncella, che si dedica al suo mestiere per pura vocazione artistica, e il marito Giustino Boggiolo,
un uomo che, pur mostrandosi onesto e molto affezionato alla famiglia, pensa soprattutto a favorire
il successo letterario della moglie e va bene amministrarne i guadagni. L’inconciliabilità dei due
punti di vista sfocia nell’incomprensione sociale e nella rottura. anche in questo romanzo si può
riconoscere l’impianto umoristico.

Tra il 1909 e il 1925 Pirandello si dedicò infine alla stesura degli ultimi due romanzi, quaderni di
Serafino Gubbio operatore e uno, nessuno e centomila, in cui propose soluzioni narrative ancora più
originali riprendendo la narrazione in prima persona che già aveva adottato nel Fu Mattia Pascal
Il fu Mattia Pascal pag 507-510
Ormai decisamente al di là dell'ambito naturalistico è il terzo romanzo di Pirandello, Il fu Mattia
Pascal, che presenta già in forme pienamente mature i temi tipici dello scrittore e sperimenta
soluzioni narrative nuove. Fu pubblicato nel 1904 a puntate sulla rivista “La nuova Antologia” e poi
in volume.
Il libro di Pirandello racconta la storia di Mattia Pascal, che vive a Miragno, in Liguria. Mentre si
trova nella biblioteca della città, Mattia Pascal decide di raccontare la sua storia.
Il protagonista del romanzo racconta che in precedenza viveva insieme alla madre e al fratello
Roberto in condizioni agiate grazie al lavoro del padre, che investì soldi in proprietà. Dalla sua
morte, avvenuta quando Mattia aveva quattro anni e mezzo, si erano affidati a Batta Malagna, il
quale per pagare i debiti iniziò a venderle, arricchendosi sfruttando l’ignoranza della madre. Mattia
Pascal era stato perciò costretto a cercare lavoro trovandolo presso la biblioteca. L’amico Pomino è
innamorato di Romilda Pescatrice, la quale però si innamora di Mattia, che la sposa. Mattia e
Romilda vivono insieme alla suocera.
La famiglia e il lavoro rappresentano una trappola (trappola metafisica che mortifica e spegne la
mobilità della vita) per Mattia Pascal. Lui e la moglie hanno due gemelle: la prima muore subito
la seconda dopo un anno; poco dopo muore anche la madre, così Mattia decide di andare in
America. Si ferma a Montecarlo, dove gioca d’azzardo al casinò per 12 giorni, andandosene con un
bottino di 82 mila lire. Mentre in treno escogita un modo per scappare dalla sua vita, legge il suo
necrologio: la moglie e la suocera, credendolo morto, lo avevano riconosciuto in un cadavere
ritrovato in quei giorni. Mattia decide di iniziare una nuova vita e sentendo due signori discutere
sull’iconografia cristiana, ricava il nuovo nome: Adriano Meis. La nuova identità è una costruzione
fittizia. Adriano getta via la fede e si inventa un nuovo passato. Decide di operarsi l’occhio strabico
e tagliare barba e capelli. Dopodiché, da Milano si trasferisce a Roma. Qui vive in affitto in una
camera ammobiliata. Stinge amicizia con l’affittuario, la figlia Adriana e l’altra donna in affitto.
Presto si accorge che non avere un passato lo costringe alle bugie: molti iniziano a fargli domande
personali, alle quali lui risponde con storie inventate. Adriano continua a ripetere di essere libero,
ma molto spesso il ricordo va alla famiglia. Si innamora di Adriana e durante una seduta spiritica
la bacia. La vuole sposare ma non può, perché Adriano Meis non esiste ( l'identità falsa rivela in
modo traumatico a Mattia la verità sull'inconsistenza dell'io, la nuova forma che si è creato è ancora
più costrittiva e limitante). Sapendo di essere vivo per la morte ma morto per la vita, decide di
fingere un suicidio. Lascia vicino al ponte un biglietto d’addio e torna al suo paese. Qui trova la
moglie sposata con Pomino, con una figlia. Non potendo avere più alcuna identità è costretto ad
assumere l'atteggiamento di estraniato. Decide di non riprenderla in moglie ma di lasciarla
all’amico, fa due giri intorno al villaggio ma nessuno se ne accorge, poi si dirige verso la biblioteca.
Ogni tanto va al cimitero, dove lascia dei fiori per leggere la sua epigrafe.
La realtà, attraverso il gioco paradossale del caso, viene grottescamente distorta, ma aldilà del riso
vi è l’autentica sofferenza del protagonista. scatta dunque il sentimento del contrario: tragico e
comico, serio e ridicolo nella vicenda di Mattia Pascal sono indissolubilmente congiunti. Il romanzo
assume infatti la forma di un memoriale che il protagonista scrive in prima persona, si ha un punto
di vista soggettivo e mutevole che non fornisce una prospettiva certa sugli eventi e contribuisce a
dare il senso della relatività del reale.
-collegamenti:
La teoria del tempo di bergson:
Secondo Bergson, il nostro modo usuale di concepire il tempo come una successione di istanti della
stessa durata, basato sul movimento delle lancette dell’orologio, è il frutto di un’operazione
dell’intelletto, che “spazializza” il tempo, ossia lo concepisce come un corpo fisico e lo divide in
segmenti uguali. A questo tempo della fisica Bergson contrappone un tempo interiore, continuo,
indivisibile e irripetibile, che è quello della nostra coscienza, nella quale i vari momenti si
compenetrano gli uni negli altri senza soluzione di continuità. Questa durata interiore è l’autentica
temporalità, mentre il tempo della scienza è una costruzione intellettuale. Il tempo della
vita, per converso, “è come un gomitolo di filo o una valanga, che continuamente mutano e
crescono su se medesimi”. Con queste metafore Bergson ci suggerisce che il tempo della scienza
ed il tempo vissuto sono diametralmente opposti, sono agli antipodi.
Filosofo epicureo/ atarassia:
Atarassia: lo stato di indifferente serenità del saggio, che ha raggiunto il dominio delle proprie
passioni ed è imperturbabile di fronte alle vicende del mondo.
Quaderni di Serafino Gubbio operatore 1925
Nel romanzo coesistono due filoni narrativi: il primo consiste in un vero e proprio dramma
passionale che coinvolge l’attrice russa Varia Nestoroff, divoratrice di uomini, il giovane barone
Nuti, folle di un amore infelice per lei; la vicenda sfocia nel colpo di scena finale dell’uccisione
della donna fatale da parte dell’amante geloso, poi sbranato dalla tigre utilizzata nel film che si sta
girando. Il secondo filone invece riguarda Serafino Gubbio e il suo percorso interiore ed è questo il
vero soggetto del romanzo. Serafino è un emarginato, un individuo che non riesce a inserirsi nella
società. Dotato di una cultura umanistica e filosofica, al suo arrivo a Roma si trova privo di ogni
mezzo di sostentamento, e per vivere deve accettare un impiego come operatore presso una casa
cinematografica. Da una condizione intellettuale si trova così degradato ad appendice di una
macchina, la cinepresa, subordinato ad essa e trasformato in causa. Ma questa condizione negativa
di alienazione in un oggetto si rovescia in positivo: arrivo a condurre una crisi ospitata della nuova
realtà industriale meccanizzata. Egli si chiude in un’ostinata solitudine per difendersi dalla realtà
degradata del moderno, ma avverte al tempo stesso un bisogno inappagato di amare e di essere
amato. Così si innamora di Luisetta Cavalena, figlia di uno sceneggiatore della casa
cinematografica. Non è ricambiato dalla ragazza, innamorata di Nuti, ma il sentimento fa crollare la
sua estraneità impassibile. Perciò, contro ogni suo proposito, si lascia coinvolgere nelle vicende
complicate della Nestoroff, sino a diventare come un angelo custode al fianco dell’infelice Nuti. In
tal modo rischia di farsi contaminare dalla stupidità dominante nella vita del suo tempo, segnato dal
trionfo delle macchine delle merci. Serafino arriva a capire che nell’era delle macchine e
dell’industria dello svago, non è più possibile la scientificità dei sentimenti e delle azioni, tutto si
contamina, diviene vita da cinematografo. Quando la tragedia esplode sul set il giovane Nuti uccide
la donna lasciando sì poi sbranare dalla tigre, egli addirittura resta immobile e registra tutta la scena
con la sua macchina da presa. Il film riscuote in questo modo un enorme successo, ma Serafino
diventa muto a causa del trauma subito. la salvezza può avvenire solo dall’estraneità, dalla non
partecipazione. Accettazione, da parte dell’eroe, della propria trasformazione in cosa come
possibilità di salvezza e amaramente sarcastica, colma di un giudizio sprezzante sul proprio tempo,
ma è veramente l’unica via che gli si offre. Il silenzio di cose non è più solo l’inazione nella
macchina, ma liberazione dai legami di una realtà invivibile.

Le idee proposte dall'autore sono svariate; in primo luogo viene sottolineata e contestata la tendenza
all'utilizzo di "maschere" da parte degli esseri umani, e dunque la tendenza ad apparire
diversamente rispetto alla propria natura reale (un esempio ne è la Nestoroff, che maschera
insoddisfazione e disagio con una sfacciata sicurezza e arroganza nei rapporti con gli uomini).
Questo non fa altro che accentuare l'incomunicabilità dei personaggi, aumentandone la sofferenza e
il disagio che li pervade. Il contrasto fra Pirandello e i suoi personaggi nasce dalla volontà dello
scrittore di metterne a nudo l'anima nascosta; di scomporne l'apparente impassibilità e indifferenza
di fronte ai casi della vita, e di capirne l'intima composizione per metterne in mostra la loro vera
forma che si concretizzerà una volta per tutte. Si comprende inoltre una sensazione di disagio
provata dall'autore nei confronti della meccanizzazione del mondo che lo circonda: parliamo di un
processo in cui egli stesso, suo malgrado, si trova coinvolto. Non casuale è la professione di
Gubbio, né il suo continuo girare la manovella della camera da presa, obbligato a servirla per
mangiare e quindi servo di essa. Le macchine non fanno altro che accelerare e rendere più vaga la
nostra esistenza, già effimera ed alienata per se stessa; Gubbio, e di conseguenza Pirandello, sono
consci di ciò e non lo vorrebbero accettare. Tuttavia il triste epilogo vede il protagonista sconfitto,
poiché, sebbene abbia conquistato una posizione rispettabile e invidiabile nella società, diventa
muto, e solo ora veramente passivo esecutore: la crudeltà di quello che era accaduto aveva
sconvolto Gubbio ad un livello tale da non consentire al protagonista stesso di potersi riprendere.
Gubbio ormai accetta passivamente il tipo di esistenza che lo aspetta, senza più sforzarsi, come
aveva fatto in precedenza, di capire a fondo quanto stava accadendo: d'ora in poi si sarebbe limitato
ad essere il perfetto operatore, "solo, muto e impassibile": una figura perfetta nel nuovo mondo che
andava delineandosi. Questo processo di meccanizzazione, poi, sta coinvolgendo anche l'arte; il
cinema, attraverso cui gli attori possono trasmettere solo finzioni, nuova "arte" di massa, dai grandi
e facili guadagni, sta prendendo il sopravvento sul vecchio teatro, ancora in grado di trasmettere
veri sentimenti, uccidendolo.
Uno, nessuno e centomila 1926
Vitangelo Moscarda, detto Gengè, è un uomo benestante che vive nel paese di Richieri. Una
mattina sua moglie Dida gli fa un’osservazione in sé innocua, ma che lo fa sprofondare in
una profonda crisi esistenziale. La donna infatti gli fa scoprire una lieve pendenza del naso, un
piccolo difetto di cui egli non aveva coscienza. Si accorge così che lui pensava di conoscersi e di
sapere chi fosse, ma non è così: gli altri vedono in lui una moltitudine di difetti e di caratteristiche di
cui lui non è a conoscenza. Lui non è “uno”, come credeva di essere, ma è “centomila” : ogni
persona con cui entra in contatto lo vede in molto diverso. Il suo io è fratturato in un’infinità di
maschere in cui lui non si riconosce. In un primo tempo cerca di disfarsi delle immagini fittizie che
gli altri hanno di lui. Considerato da tutti un usuraio, decide di infrangere platealmente questa
maschera. Finge di sfrattare un poveraccio, Marco di Dio, quindi a sorpresa gli regala
un’abitazione molto più bella. Ma il tentativo non ha l’effetto sperato: la folla, lungi dal ricredersi
di avere una visione distorta della sua persona, lo considera matto. La “follia” di
Vitangelo (ovvero il suo sforzo di distruggere le maschere) continua: fa liquidare la banca paterna
da cui ricavava il suo benessere, maltratta la moglie. Finché gli amministratori, Dida e il suocero
non iniziano a complottare per rinchiuderlo in manicomio. Vitangelo è avvertito della
macchinazione da Anna Rosa, un’amica della moglie. Vitangelo, riconoscente, prova quindi a
renderla partecipe della sua scoperta esistenziale, ma la donna, spaventata, per lo shock gli spara.
Ora tutti sono convinti che Vitangelo abbia avuto una relazione illegittima con Anna Rosa, cosa non
vera. Ma Vitangelo decide di sopportare questa maschera, non vera, come dopotutto non sono vere
tutte le altre. Fa mostra di pentimento, come se fosse davvero colpevole, dona tutti i suoi averi e
costruisce un ospizio per i poveri, dove lui stesso va a vivere. Solo, povero, creduto pazzo da tutti,
Vitangelo in qualche modo ne esce vincitore: ora non è più costretto a essere “qualcuno”, può
essere “nessuno” , rifiutare ogni identità e rinnegare il suo stesso nome, abbandonarsi allo scorrere
puro dell’essere e disgregarsi nella natura, vivendo attimo per attimo senza cristallizzarsi in nessuna
maschera. Ora è nuvola, ora è vento, ora albero.
Gli esordi teatrali
fra il 1915 e il 1916 Pirandello scrisse anche vari testi in dialetto, destinati alla compagnia del
famoso attore siciliano Angelo Musco. Pirandello scrive anche i testi in italiano, destinati al
circuito nazionale, talora traducendo i testi originali siciliani.
-Pensaci, Giacomino!, 1916
il vecchio professor Toti, che non ho potuto farci una famiglia a causa del suo magro
stipendio statale, decide di vendicarsi sposando una donna giovanissima, in modo da
costringere lo Stato a pagarlo per molti anni la pensione. Metti anche nel conto le corna, anzi
arrivo a favorire il legame della ragazza con il giovane Giacomo, ma afferma che le corna
non andranno in testa a lui, bensì alla parte che recita, a ruolo del marito, che non la
riguarda se non nell’apparenza.
-Così è (se vi pare), 1917
il signor Ponza tieniti legata la moglie nel suo alloggio, alla periferia di una cittadina di
provincia, perché la suocera, signora Frola, non possa vederla, se non da lontano. L’uomo
afferma che si tratta in realtà della seconda moglie, essendo la prima, la figlia della signora
Frola, morta in un terremoto; l’anziana donna è pazza, sostiene sempre il genero, ed è
convinta che si tratti ancora di sua figlia. A sua volta la signora Frola afferma che è pazzo il
genero, e che la donna relegata in casa è davvero la figlia, che si finge una seconda moglie
per assecondare il marito. Il caso suscita la curiosità morbosa di tutti cittadini, che si
intromettono continuamente nella speranza di scoprire la verità. Al termine del dramma
compare in scena la signora Ponza, coperto da un velo; tutti ritengono di poter finalmente
avere la soluzione dell’enigma, di sapere se ha ragione il signor Ponza o la signora Frola,
ma la donna delude le aspettative, che non rivela la propria identità ma si limita ad
affermare: io sono colei che mi si crede.
-Piacere dell’onestà, 1917
Angelo Baldovino, un fallito, accetta di sposare, per pura formalità, Agata Renni, in modo da
dare un padre legale al figlio che costei aspetto del suo amante, ma poi pretende di
osservare fino in fondo la forma, con assoluto rigore, e così facendo smaschera l’ipocrisia
del contesto borghese che ho combinato l’intrigo.
-Giuoco delle parti, 1918
Leone Gala, che è separato dalla moglie mostra di guardare con filosofica indifferenza la
relazione di lei con Guido Venanzi, accetta di fare la sua parte di marito sfidando a duello un
gentiluomo che l’offesa, poi rifiuto di battersi, lasciando il compito all’amante.
La fase del metateatro
Nel periodo del grottesco Pirandello mantiene in apparenza le forme del dramma borghese, ma in
realtà le modifica dall’interno e le spinge all’assurdo per districarli, conducendo in questo modo una
forte critica nei confronti del teatro contemporaneo. Nel 1921, egli mette in scena a Roma i sei
personaggi in cerca d’autore. Le soluzioni del teatro nel teatro sono poi furono seguiti da Pirandello
in altri due testi, Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto. Nel dramma intitolato
ciascuno a suo modo viene affrontato il problema del conflitto tra gli attori e il pubblico mentre
questa sera si recita a soggetto è incentrato sul conflitto fra gli attori e il regista.
Sei personaggi in cerca d'autore
Su un palcoscenico una compagnia di attori prova la commedia 'Il giuoco delle parti'.
Irrompono sei individui, un Padre, una Madre, il Figlio, la Figliastra, il Giovinetto e la
Bambina, personaggi rifiutati dallo scrittore che li ha concepiti. Essi chiedono al Capocomico di
dare loro vita artistica e di mettere in scena il loro dramma. Dopo molte resistenze la compagnia
acconsente alla richiesta e i personaggi raccontano agli attori la loro storia perché possano
rappresentarla. Il Padre si è separato dalla Madre, dopo aver avuto da lei un Figlio. La Madre,
sollecitata dal Padre, si ricostruisce una famiglia con il segretario che lavorava in casa loro e ha da
lui tre figli: la Figliastra, la Bambina e il Giovinetto. Morto il segretario la famiglia cade in
miseria, tanto che la Figliastra è costretta a prostituirsi nell'atelier di Madama Pace, dove la Madre
lavora come sarta. Qui si reca abitualmente il Padre. Padre e Figliastra non si riconoscono e
l'incontro viene evitato appena in tempo dall'intervento della Madre. Tormentato dalla vergogna e
dai rimorsi, il Padre accoglie in casa la Madre e i tre figli. Ciò provoca il risentimento del Figlio e la
convivenza diventa insostenibile. Tra gli attori e i Personaggi si apre ben presto un contrasto
insanabile. Gli attori, nonostante gli sforzi, non riescono a rappresentare il dramma reale dei
Personaggi, i loro sentimenti fondamentali, il vero essere di ciascuno: il dolore della Madre, il
rimorso del Padre, la vendetta della Figliastra, lo sdegno del Figlio. Sulla scena tutto appare
falso. Questa incomunicabilità, che rende la vita autentica irrappresentabile, culmina nella scena
finale in cui la storia finisce in tragedia, senza avere la possibilità di comprendere se essa sia reale o
no: la Bambina annega nella vasca del giardino e il Giovinetto si spara.
Enrico IV
La vicenda narra di un giovane nobile che prende parte ad una cavalcata in costume nella quale
impersona l’imperatore di Germania, Enrico IV. Alla messa in scena prendono parte anche Matilde
di Spina, la donna di cui è innamorato, ed il suo rivale in amore, il barone Belcredi. Quest'ultimo
disarciona Enrico IV che nella caduta batte la testa e si convince di essere realmente il personaggio
storico che stava impersonando. La follia dell'uomo viene assecondata dai servitori che il nipote di
Nolli mette al suo servizio per alleviare le sue sofferenze; dopo 12 anni Enrico d’un tratto guarisce e
torna alla ragione. Comprende che Belcredi lo ha fatto cadere intenzionalmente per rubargli l'amore
di Matilde, che poi si è sposata con Belcredi ed è fuggita con lui. Decide così di fingere di essere
ancora pazzo, di immedesimarsi nella sua maschera per non voler vedere la realtà dolorosa e poter
osservare, dal di fuori, la vita che gli è ormai negata. Dopo 20 anni dalla caduta, Matilde, in
compagnia di Belcredi, della loro figlia e di uno psichiatra vanno a trovare Enrico IV. Lo psichiatra
è molto interessato al caso della pazzia di Enrico IV, che continua a fingersi pazzo, e dice che per
farlo guarire si potrebbe provare a ricostruire la stessa scena di 20 anni prima e di ripetere la caduta
da cavallo. La scena viene così allestita, ma al posto di Matilde recita la figlia. Enrico IV si ritrova
così di fronte la ragazza, che è esattamente uguale alla madre Matilde da giovane, la donna che
Enrico aveva amato e che ama ancora. Ha così uno slancio che lo porta ad abbracciare la ragazza,
ma Belcredi, il suo rivale, non vuole che sua figlia sia abbracciata da Enrico IV e si oppone. Enrico
IV sguaina così la spada e trafigge Belcredi ferendolo a morte: per sfuggire definitivamente alla
realtà "normale" (in cui tra l'altro sarebbe stato imprigionato e processato), decide di fingersi pazzo
per sempre.

L'Enrico IV appartiene alla terza fase del teatro pirandelliano, quella cosiddetta del teatro nel teatro.
La finzione si propone come realtà, anche se tutti sono coscienti del contrario. La pazzia come il
teatro crea una realtà diversa in un mondo alternativo che appare però altrettanto reale rispetto al
“mondo vero”. Il personaggio di Enrico IV è vittima non solo della follia, prima vera e poi
cosciente, ma dell'impossibilità di adeguarsi ad una realtà che non gli si confà più.
La follia non è vista tanto come elemento negativo, quanto come elemento fondamentale della
condizione umana con la quale fuggire la propria angoscia e il proprio dramma, come estremo
rifugio, per potersi salvare dal dramma dell'esistenza. Il tema della follia è uno dei più trattati
nel decadentismo, sia come possibilità di fuga dall'opprimente realtà, sia come totale fallimento
dell'eterno antieroe che diventa il personaggio fondamentale. Nasce il concetto di male di vivere e
il conseguente bisogno di una fuga da esso, attraverso la mente, le illusioni, le esperienze estreme di
ogni genere o appunto la pazzia.
Pirandello distruttivo
-la frammentazione dell'io in Pirandello:
Dopo Cartesio la possibilità di dire io non sembrava più possibile da mettere in discussione
“Cogito ergo sum”, io sono ma io sono il mio pensiero, ma quindi tutto quello che non è pensiero
non conta? → difficoltà del razionalismo cartesiano .
-esistenza legata ad un sistema cartesiano: res cogitans ( anima) e res extensa (spazio), l'errore sta
nel scambiarle, l'anima ha che fare con la dimensione del tempo (Bergson), l'anima è fatta di tempo.
-acquisizione cartesiana fatta a pezzi in Pirandello.

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