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LUIGI PIRANDELLO

Luigi Pirandello nacque il 28 giugno 1867 presso Girgenti


(ribattezzata poi Agrigento sotto il fascismo), da una
famiglia di agiata condizione borghese.
Dopo gli studi liceali si iscrisse all’Università di Palermo,
poi alla facoltà di Lettere dell’Università di Roma. In
seguito ad un contrasto con un professore si trasferì
all’Università di Bonn, dove si laureò in Filologia romanza.
Nel frattempo aveva già iniziato la produzione letteraria,
scrivendo una poesia e una tragedia.
L’esperienza degli studi in Germania fu importante per lo
scrittore, perchè lo mise a contatto con la cultura tedesca
e in particolare con gli autori romantici, che ebbero
profonda influenza sulla sua opera e sulle sue teorie riguardanti l’umorismo.
Dal 1892, grazie ad un assegno concessogli dal padre, si stabilì a Roma dedicandosi
ineteramente alla letteratura. A Roma strinse legami con autori importanti come Ugo Fleres
e Luigi Capuana. Nel 1893 scrisse il suo primo romanzo, L’esclusa e nel 1894 diede alle
stampe una prima raccolta di racconti, Amori senza amare. Nello stesso anno aveva
sposato a Girgenti Maria Antonietta Portulano, tornando a vivere con la propria moglie a
Roma.
Dal 1897 iniziò come supplente l’insegnamento di Lingua italiana presso l’Istituto Superiore
di Magistero di Roma, dove poi divenne docente di ruolo. Nel frattempo pubblicò articoli e
saggi su varie riviste, tra cui il prestigioso “Marzocco”, che aveva tra i collaboratori anche
Pascoli e d’Annunzio, e scrisse la sua prima commedia Il nibbio, che riprese più tardi col
titolo Se non così.

IL DISSESTO ECONOMICO
Nel 1903 un allagamento della miniera di zolfo in cui il padre aveva investito tutto il suo
patrimonio e la dote* stessa della nuora provocò il dissesto economico della famiglia.
Il fatto ebbe conseguenze drammatiche nella vita dello scrittore: alla notizia del disastro la
moglie, il cui equilibrio psichico era già fragile, ebbe una crisi che sfociò nella follia. La
convivenza con la donna costituì per Pirandello un tormento continuo, che può essere visto
come l’inizio della sua concezione dell’istituto familiare come “trappola” che imprigiona e
soffoca l’uomo.
Con la perdita delle rendite mutò anche la condizione sociale di Pirandello, che fu costretto
ad intregrare il non abbondante stipendio di professore intensificando la sua produzione di
novelle e romanzi, che fra il 1904 e il 1915 si fece particolarmente fitta. Lavorò anche per
l’industria cinematografica scrivendo soggetti per film. Anche l’esistenza di Pirandello, come
quella di Svevo, fu segnata dall’esperienza della declassificazione, del passaggio da una
vita di agio borghese ad una conzione di piccolo borghese, con i suoi disagi economici e le
sue frustrazioni.
Anche questo fatto non fu senza influenze sulle concezioni di Pirandello e sul suo
atteggiamento nei riguardi della società: gli fornì lo spunto per la rappresentazione del
grigiore soffocante della vita piccolo borghese, ma soprattutto il rancore e l’insofferenza che
ne derivano, aumentarono sicuramente il suo rifiuto irrazionalistico e anarchico del
meccanismo sociale alienante, sentito come “trappola” metafisica in cui l’uomo si dibatte
invano.
Lo scrittore raccolse poi via via in vari volumi le novelle pubblicate su giornali e riviste,
ottenendo un buon successo di pubblico, ma suscitando poca attenzione nella critica che lo
considerava poco più che uno scrittore di consumo.

*Dote: Si intende per dote un bene o un complesso di beni che, al momento delle nozze, la
donna apportava al marito per contribuire alle spese ed agli oneri patrimoniali derivanti dal
matrimonio.

L’ATTIVITA’ TEATRALE
Dal 1910 Pirandello ebbe il primo contatto con il mondo teatrale, con la rappresentazione di
due atti unici, da parte della compagnia di Nino Martoglio a Roma. Dal 1915 la sua
produzione teatrale si intensificò. In quell’anno venne messa in scena a Milano, dalla
compagnia di Marco Praga, la prima commedia in tre atti, Se non così.
Da quel momento Pirandello divenne soprattutto scrittore per il teatro. Tra il 1916 e il 1918
scrisse e fece rappresentare una serie di drammi che modificavano profondamente il
linguaggio della scena del tempo, e che psuscitarono nel pubblico e nella critica reazioni
sconcertate.
Erano anche gli anni della guerra e Pirandello aveva visto con favore gli interventisti,
considerandoli una sorta di compiacimento del processo risorgimentale ma la guerra incise
dolorosamente nella sua vita: il figlio Stefano,partito volontario, fu subito fatto prigioniero
dagli Austriaci, e il padre si adoperò con ogni mezzo, ma invano, per la sua liberazione. In
conseguenza la malattia mentale della moglie si aggravò, tanto che lo scrittore fu costretto a
farla ricoverare in una casa di cura, dove la donna restò fino alla morte.
Dal 1920 il teatro di Pirandello cominciò a conoscere il successo di pubblico. Del 1921 sono i
Sei personaggi in cerca d’autore , che rivoluzionarono radicalmente il linguaggio
drammatico, suscitando dapprima reazioni furibonde negli spettatori, ma andando poi
incontro ad un successo trionfale.
La condizione delloscrittorene fu profondamente modificata: abbandonò la vita sedentaria e
piccolo borghese del professore, lasciò la cattedra universitaria e si dedicò interamente al
teatro, seguendo le compagne nelle varie tournees in Eurora e in America.
Dal 1925 assunse la direzione del Teatro d’arte a Roma, mettendo in scena spettacoli tratti
da opere proprie ma anche di altri autori. Si legò sentimentalmente ad una giovane attrice
della compagnia, Maria Abba, per la quale scrisse vari drammi.

I RAPPORTI CON IL FASCISMO


L’esperienza del Teatro d’Arte fu resa possibile anche grazie ai finanziamenti dello Stato.
Pirandello, dopo il 1924, subito dopo l’omicidio Matteotti, si era iscritto al partito fascista, e
questo gli servì per ottenere appoggi da parte del regime. Il suo rapporto con il fascismo fu
abbastanza ambiguo: da un lato Pirandello vedeva nel fascismo una garanzia d’ordine.,
dall’altro lato lui era antiborghese e vedeva nel fascismo una genuina energia vitale.
Pirandello si rese conto poi della vuota esteriorità del regime e ciò lo distaccò dal partito, con
sottile disprezzo. Vedeva nel fascismo un regime che escludeva l’uomo e lo faceva sentire
solo, provocando distanza tra l’uomo e se stesso.
LA VISIONE DEL MONDO- IL VITALISMO
Alla base della visione di Pirandello vi è una concezione vitalistica, secondo cui la realtà è
tutta vita, ovvero è data da un flusso continuo e inarrestabile.
Anche l’uomo è parte di questo flusso, eppure egli cerca di fissarsi nella realtà che lo
circonda, fissandosi in una “forma”, ovvero assegnandosi una personalità che crediamo
nostra. Anche gli altri individui, anch’essi forme, ci percepiscono secondo la loro visione.
Come conseguenza otteniamo che crediamo di essere Uno, ma in realtà siamo tanti
individui a seconda di chi ci osserva.
E’ quindi chiaro che queste forme sono delle costruzioni, degli artefici che l’uomo attua per
potersi sentire più sicfuro si sé e per mettere ordine nella vita; ma altro non sono che delle
maschere, al di sotto delle cui vi è appunto un fluire indistinto e in perenne
mutazione/trasformazione.

LA CRITICA DELL’IDENTITA’ INDIVIDUALE


La conseguenza principale di questo pensiero è la frammentazione del’io, che diventa
“nessuno”. A tal proposito è necessario considerare il periodo storico in cui Pirandello vive,
quello di inizio 900: si ha una forte crisi dell’identità, data da una serie di fattori e nuove
scoperte, come la diffusione dell’uso delle macchine ,che alienano e privano di personalità
l’individuo, il formarsi delle metropoli moderne anonime. L’avvetire di non essere nessuno,
l’impossibilità di consistere in una identità provoca angoscia e dolore, genera quindi un
senso di solitudine.

LA TRAPPOLA DELLA VITA SOCIALE


Queste “forme” sono sentite come una trappola, come un carcere in cui l’individuo si dibatte,
lottando invano per liberarsi. Pirandello ha un senso acutissimo della crudeltà che domina i
rapporti sociali.
La società gli appare come una costruzione artificiosa e fittizia, che isola l’uomo dalla vita, lo
impoverisce e lo irrigidisce, lo conduce alla morte anche se egli apparentemente continua a
vivere.
Alla base di tutta l’opera pirandelliana si può scorgere un rifiuto delle forme della vita sociale,
dei suoi istituti, dei ruoli che essa impone, e un bisogno disperato di autenticità, di
immediatezza, di spontaneità vitale .
Il campione di società su cui l’opera distruttiva di Pirandello si esercita è la coalizione sociale
dell’italia giolittiana e postbellica: in particolare, nelle novelle e nei romanzi la critica di
Pirandello si appunta sulla condizione piccolo borghese e sulla sua ristrettezza soffocante,
mentre il teatro predilige ambienti alto borghesi.
L’stituto in cui si manifesta per eccelenza la trappola di cui parla Pirandello è la famiglia.
Pirandello è acutissimo ad accogliere il carattere opprimente dell’ambiente familiare, le
tensioni segrete, gli odi, i racori, le ipocrisie si mescolano torbidamente alla vita degli affetti
viscerali ed oscuri.
L’altra trappola è quella economica , costituita dalla condizione sociale e dal lavoro, almeno
a livello piccolo-borghese: i suoi eroi sono prigionieri di una condizione misera e stentata, di
lavori monotoni e frustranti, di un’organizzazione gerarchica oppressiva. Da questa trappola
non vi è una via d’uscita storica: il suo pessimismo è totale, non gli consente di vedere altre
forme di società diverse.
La sua critica feroce delle istituzioni borghesi rimane, quindi, puramente negativa e non
propone alternativa.
IL RIFIUTO DELLA SOCIETA’
L’unica via di relativa salvezza è la fuga nell’irrazionalità e pertanto: nell’immaginazione
che traporta verso un “altrove”fantastico, come per l’impiegato Belluca di Il treno ha fischiato
che sogna paesi lontani e attraverso questa evansione può sopportare l’oppressione del suo
lavoro di contabile e della famiglia; oppure nella follia, che è lo strumento di opposizione per
eccellenza in Pirandello che, la percepisce come l’arma che fa esplodere convenzioni e
rituali, riconducendo all'assurdo e rilevandone l’inconsistenza (ricordiamo Enrico IV e
Uno,nessuno e centomila).
Il rifiuto della vita sociale crea il concetto di filosofia del lontano: essa consiste nel
contemplare la realtà come da un’infinita distanza, in modo da vedere in una prospettiva
straniata tutto ciò che l’abitudine ci fa considerare “normale”, e in modo quindi da coglierne
l’inconsistenza, l’assurdità, la mancanza totale di un senso.

IL RELATIVISMO CONOSCITIVO
Se la realtà è caotica e in perpetuo divenire, essa non si può fissare in schemi e moduli
d’ordine totalizzanti. Ogni immagine globale che pretenda di sistemarla organicamente non
è che una proiezione soggettiva. Il reale è multiforme, polivalente, non esiste una prospettiva
privileggiata da cui osservalo; al contrario, le prospettive sono infinite e tutte equivalenti.
Caratteristico della visione pirandelliana è un radicale relativismo conoscitivo: non si dà una
verità oggettiva fissata a priori, una volta per tutte. Ognuno ha la sua verità, che nasce dal
suo modo soggettivo di vedere le cose. Ne deriva un’inevitabile incomunicabilità fra gli
uomini: essi non si possono intendere, perchè ciescuno fa riferimento alla propria realtà che
proietta nelle parole.
La realtà si sfalda in una pluralità di frammenti che non hanno un senso complessivo.
POETICA:

NOVELLE PER UN ANNO


Nel progetto originale le novelle dovevano essere 365, quanti sono i giorni di un anno (da cui
il titolo della raccolta). Il lavoro tuttavia si interruppe a causa della morte di Pirandello. Molti
dei personaggi e dei temi qui raccontati verranno poi ripresi dall’autore nei suoi romanzi e
nelle sue opere teatrali.
Si possono identificare tre filoni principali: quello delle novelle siciliane, quello delle novelle
romane e quello delle novelle surreali degli anni ‘30.

LE NOVELLE SICILIANE
Nelle novelle siciliane non vi è, come poteva essere per il verismo, un’attenzione verso
l’indagine scientifica del mondo contadino. Pirandello mostra invece una particolare
attenzione per il sostrato mitico e folkloristico della terra siciliana, e per questo si dimostra
più vicino alle tendenze decadenti. In queste novelle le figure contadine vengono deformate:
diventano caricature di se stesse, diventano grottesche, bizzarre, allucinanti, paradossali.
Tra queste possiamo sicuramente inserire le novelle “la balia”, “zia michelina” e “Una voce”.

LE NOVELLE ROMANE
Nelle novelle romane, invece, Pirandello descrive la condizione meschina del mondo
piccolo- borghese. Neanche in queste novelle vi è un’intenzione di studio sociologico: esse
sono metafora di una condizione esistenziale assoluta. Il tema principale è quello della
“trappola ” che imprigiona l’uomo in un mondo di monotonia. Vi è un rifiuto anarchico d’ogni
forma di società che spegne la spontaneità della vita. Pirandello usa l’atteggiamento
umoristico che ben ha descritto teoricamente nel suo saggio sull’umorismo: dalle
deformazioni, dalle caricature, nasce il sentimento del contrario, dal quale capiamo che non
è possibile ravvisare nella vita alcun disegno coerente.

LE NOVELLE SURREALI
Tra queste novelle “La balia “, “Quando ero matto “, “Il treno ha fischiato ” “Pena di vivere
così”
Con le novelle surreali degli anni trenta vi è un emergere della psiche, delle angosce, degli
impulsi. Pirandello scava nella dimensione dell’inconscio e sopperisce al proprio bisogno di
autenticità, di vitalità di ritorno alla natura, creando dei climi fantastici, surreali, allucinati. Tra
queste novelle ricordiamo “I piedi nell’erba”, “C’è qualcuno che ride”, “Il soffio “.

Leggendo alcune delle sue novelle, che hanno delle protagoniste femminili, possiamo
ritrovare i molteplici aspetti della donna della tradizione e della donna moderna. Pirandello
pur non avendo avuto modo di vedere durante la usa vita, i fenomeni di reale emancipazione
della donna, è un attento osservatore della donna “in movimento “, della donna nel suo
percorso verso l’autonomia intellettuale e materiale. Egli ha un occhio moderno verso le
possibilità di emancipazione della donna, la quale si muoverebbe con più agilità se non
fosse per gli ostacoli che le pone di fronte l’uomo. Egli non fa distinzione tra il destino
dell’uomo e quello della donna, li tratta alla pari, benché l’epoca e i luoghi in cui ha vissuto
gli avrebbero permesso di fare il contrario.
La novella “Zia Michelina“, per esempio, è una novelle in cui Pirandello denuncia la
situazione di una donna che è costretta dalle regole dell’economia borghese. La modernità
di Zia Michelina, sta proprio nell’aver accettato di sposare quello che lei considera suo figlio
senza sospettare nulla del reale amore che lui ha per lei. Per Zia Michelina questo
matrimonio non è altro che una convenienza per entrambi, lei potrà prendersi cura del ” suo
bambino ” e lui potrà avere la sicurezza economica che si merita: il matrimonio è l’unico
metodo sicuro per garantire a Marucchino il proprio patrimonio. La modernità sta
nell’accettazione di questa situazione e alla fine con il proprio suicidio, che non è altro che
un’estrema difesa del proprio pensiero.

IL FU MATTIA PASCAL

Il romanzo Il fu Mattia Pascal è una delle opere di Luigi Pirandello più conosciute e amate
dal pubblico, ed una delle più rilevanti dell'intera produzione dello scrittore siciliano. Scritto
nel 1903, sovvenzionato dalla rivista Nuova Antologia, sulle cui pagine venne pubblicato a
puntate l’anno successivo, il romanzo, come ci anticipa già il titolo stesso, ruota interamente
attorno al tema, fondamentale in Pirandello, dell'identità individuale: quella di Mattia Pascal e
del suo alter ego, Adriano Meis. Il romanzo, scritto in prima persona, è infatti il racconto da
parte del protagonista della propria vita e delle vicende che l'hanno portato ad essere il "fu"
di se stesso.

Dopo la morte del padre, che aveva fatto fortuna al gioco, la madre di Mattia, il protagonista,
il quale ha pure un fratello di nome Roberto, sceglie di dare in gestione l’eredità del marito a
Batta Malagna, amministratore poco onesto che deruba giorno per giorno la famiglia Pascal.
I due giovani eredi, dal canto loro, sono troppo impegnati a divertirsi per occuparsi della
gestione del patrimonio famigliare. Mattia, inoltre, mette incinta la nipote del Malagna, e
viene da questi obbligato a sposarla per rimediare all’offesa provocata. Impoverito dalla
mala gestione dell'eredità paterna, il protagonista deve impiegarsi come bibliotecario e
vivere con la moglie a casa della suocera, donna arcigna e che lo disistima profondamente.
Non passa molto tempo che la vita matrimoniale diventa insopportabile e, dopo la perdita di
entrambe le figlie che amplifica la frustrazione dei coniugi, Mattia decide di partire in
direzione Montecarlo, per tentare di arricchirsi al gioco. Le sue speranze vengono esaudite:
il protagonista vince una somma considerevole alla roulette. Si rimette così in viaggio verso
il paese natio, tronfio della vittoria e deciso a riscattarsi. Durante il viaggio in treno, però,
accade l’imprevedibile: Mattia legge sul giornale la cronaca di un suicidio avvenuto a
Miragno, e scopre con enorme stupore di essere stato identificato nel cadavere dello
sventurato, già in stato di putrefazione e quindi poco riconoscibile. Dopo un primo momento
di totale smarrimento, Mattia decide di cogliere l’occasione per fuggire da quella vita poco
entusiasmante che lo attende a casa.

Abbandonata l'identità di Mattia Pascal, cui si associa l'idea di fallimento esistenziale, il


protagonista adotta il nuovo nome di Adriano Meis, convincendosi che liberarsi dalla figura
sociale di Mattia (il nome, la fimiglia, la vita usuale di tutti i giorni) sia il primo passo di una
nuova vita. Dopo un periodo trascorso a vagare tra Italia e Germania, Adriano si stabilizza a
Roma, dove prende in affitto una stanza dal signor Paleari. Qui però il protagonista si
scontra coi limiti intrinseci di un’esistenza al di fuori delle convenzioni sociali: non
possedendo documenti né un’identità riconosciuta, non può denunciare un torto che gli
viene fatto - nello specifico, un furto - e, cosa ben più grave, non può sposare la figlia del
padrone di casa, Adriana, di cui è nel frattempo s'è innamorato. Frustrato dalla sua
condizione, decide di rinunciare anche all'identità di Adriano Meis, di cui inscena il suicidio (a
pensarci bene, un altro atto di mistificazione e di mascheramento da parte del protagonista),
e di riprendere la vecchia identità, facendo "risorgere" - per così dire - Mattia Pascal. Tornato
a Miragno, Mattia trova però una situazione ben diversa da quella che aveva lasciato: sua
moglie ha sposato un amico di vecchia data, Pomino: inoltre, i due hanno pure avuto una
figlia. Mattia è dunque escluso anche da ciò che inizialmente, con l'episodio fortunato della
roulette, aveva provato a fuggire e che ora vorrebbe recuperare in extremis. L'ordine sociale
(rappresentato dalla famiglia e dal matrimonio, oltre che dal nome e dal cognome che ci
identifica di fronte agli altri) isola definitivamente Mattia, che può solo riprendere il suo
precedente impiego di bibliotecario, ritirandosi in una vita condannata al senso di estraneità
dal mondo, la cui unica distrazione è la visita saltuaria alla propria tomba.

UNO, NESSUNO E CENTOMILA

Vitangelo Moscarda, detto Gengè, è un uomo benestante che vive nel paese di Richieri.
Una mattina sua moglie Dida gli fa un’osservazione in sé innocua, ma che lo fa sprofondare
in una profonda crisi esistenziale. La donna infatti gli fa scoprire una lieve pendenza del
naso, un piccolo difetto di cui egli non aveva coscienza. Si accorge così che lui pensava di
conoscersi e di sapere chi fosse, ma non è così: gli altri vedono in lui una moltitudine di
difetti e di caratteristiche di cui lui non è a conoscenza. Lui non è “uno”, come credeva di
essere, ma è “centomila” : ogni persona con cui entra in contatto lo vede in modo molto
diverso. Il suo io è fratturato in un’infinità di maschere in cui lui non si riconosce.
In un primo tempo cerca di disfarsi delle immagini fittizie che gli altri hanno di lui.
Considerato da tutti un usuraio, decide di infrangere platealmente questa maschera. Finge
di sfrattare un poveraccio, Marco di Dio, quindi a sorpresa gli regala un’abitazione molto
più bella. Ma il tentativo non ha l’effetto sperato: la folla, lungi dal ricredersi di avere una
visione distorta della sua persona, lo considera matto. La “follia” di Vitangelo (ovvero il
suo sforzo di distruggere le maschere) continua: fa liquidare la banca paterna da cui
ricavava il suo benessere, maltratta la moglie… Finché gli amministratori, Dida e il suocero
non iniziano a complottare per rinchiuderlo in manicomio. Vitangelo è avvertito della
macchinazione da Anna Rosa, un’amica della moglie. Vitangelo, riconoscente, prova
quindi a renderla partecipe della sua scoperta esistenziale, ma la donna, spaventata, per lo
shock gli spara. Ora tutti sono convinti che Vitangelo abbia avuto una relazione illegittima
con Anna Rosa, cosa non vera. Ma Vitangelo decide di sopportare questa maschera, non
vera, come dopotutto non sono vere tutte le altre. Fa mostra di pentimento, come se fosse
davvero colpevole, dona tutti i suoi averi e costruisce un ospizio per i poveri, dove lui
stesso va a vivere. Solo, povero,
creduto pazzo da tutti, Vitangelo in qualche modo ne esce vincitore: ora non è più costretto
a essere “qualcuno”, può essere “nessuno” , rifiutare ogni identità e rinnegare il suo
stesso nome, abbandonarsi allo scorrere puro dell’essere e disgregarsi nella natura, vivendo
attimo per attimo senza cristallizzarsi in nessuna maschera.

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