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Luigi Pirandello

LA VITA

Nacque il 28 giugno 1867 presso Girgenti (ribattezzata Agrigento sotto il fascismo), da una famiglia di agiata
condizione borghese. Dopo gli studi liceali si iscrisse all’università di Palermo, poi alla facoltà di lettere all’università
di Roma. In seguito ad un contrasto con un professore si trasferì all’università di Bonn, dove si laureò nel 1891 in
Filologia romanza. Dal 1892, grazie ad un assegno concessogli dal padre, si stabilì a Roma, dedicandosi interamente
alla letteratura. Nel 1893 scrisse il suo primo romanzo, L’Esclusa e nel 1894 diede alle stampe la prima raccolta di
racconti, Amori senza amore. Nello stesso anno aveva sposato Maria Antonietta Portulano. Dal 1897 iniziò come
supplente l’insegnamento di lingua italiana presso l’Istituto Superiore di Magistero di Roma. Nel 1903 un
allagamento della miniera di zolfo in cui il padre aveva investito tutto il suo patrimonio e la dote stessa della nuora
provocò il dissesto economico della famiglia. Il fatto ebbe conseguenze drammatiche nella vita dello scrittore: alla
notizia del disastro la moglie, il cui equilibrio psichico era già fragile, ebbe una crisi che la sprofondò nella follia. La
convivenza con la donna costituì per Pirandello un tormento continuo, che può essere visto come il germe della sua
concezione dell’istituto familiare come “trappola” che imprigiona e soffoca l’uomo. Con la perdita delle rendite mutò
anche la condizione sociale di Pirandello, fu quindi costretto ad intensificare la sua produzione di novelle e romanzi.
Lavorò anche per l’industria cinematografica scrivendo soggetto per film. Anche l’esistenza di Pirandello dunque fu
segnata dall’esperienza della declassazione, del passaggio da una vita di agio borghese ad una condizione piccolo
borghese. Anche questo fatto gli fornì lo spunto per la rappresentazione del grigiore soffocante dalla vita piccolo
borghese, ma soprattutto il rancore e l’insofferenza che ne derivano acuirono il suo rifiuto irrazionalistico del
meccanismo sociale alienante.
Dal 1910 Pirandello ebbe il primo contratto con il mondo teatrale. Dal 1915 la sua produzione teatrale si intensificò e
da quel momento Pirandello divenne soprattutto scrittore per il teatro. questi erano anche gli anni della guerra. Egli,
in nome delle sue posizioni patriottiche, aveva visto con favore l’intervento, considerandolo come una sorta di
compimento del processo risorgimentale, ma la guerra incise dolorosamente sulla sua vita: il figlio Stefano, partito
volontario, fu subito fatto prigioniero dagli Austriaci. La malattia mentale della moglie si aggravò, tanto che lo
scrittore fu costretta a farla ricoverare in una casa di cura, dove vi rimase fino alla morte. Dal 1920 il teatro di
Pirandello cominciò a conoscere il successo di pubblico. La condizione dello scrittore ne fu profondamente
modificata: lasciò la cattedra universitaria e si dedico interamente al teatro. nel mondo del teatro si legò
sentimentalmente, ma in modo platonico, ad una giovane attrice della compagnia, Marta Abba per la quale scrisse
vari drammi.
Pirandello, nel 1924, subito dopo il delitto Matteotti, si era iscritto al partito fascista, e questo gli servì per ottenere
appoggi da parte del regime. Ben presto però dovette rendersi conto del carattere di vuota esteriorità del regime,
allora si accentuò il suo distacco che celava anche un sottile disprezzo. Nel 1934 gli venne assegnato il premio Nobel
per la Letteratura. Mentre negli stabilimenti di Cinecittà a Roma assisteva alle riprese di un film tratto dal suo
romanzo Il fu Mattia Pascal, si ammalò di polmonite e morì il 10 dicembre 1936.

LA VISIONE DEL MONDO


I testi narrativi e drammatici di Pirandello insistono continuamente su alcuni nodi concettuali. Alla base della visione
del mondo pirandelliana vi è una concezione vitalistica, che è affine a quella di varie filosofie contemporanee: la
realtà è tutta vita, inteso come eterno divenire. Tutto ciò che si stacca da questo flusso si irrigidisce, comincia a
morire. Così avviene dell’identità personale dell’uomo. In realtà non siamo che parte indistinta nell’eterno fluire, ma
tendiamo a cristallizzarci in forme individuali, a fissarci in una realtà che noi stessi ci diamo, in una personalità che
vogliamo coerente e unitaria. In realtà questa personalità è un’illusione e scaturisce solo dal sentimento soggettivo
che noi abbiamo del mondo. Non solo noi stessi però ci fissiamo in una forma; anche gli altri, con cui viviamo in
società, vedendoci ciascuno secondo la sua prospettiva particolare ci danno determinate forme. Noi crediamo di
essere “uno” per noi stessi e per gli altri, mentre siamo tanti individui diversi, a seconda della visione di chi ci guarda.
Ciascuna di queste “forme” è una maschera che noi stessi ci imponiamo e che ci impone il contesto sociale. Sotto
questa maschera non c’è un volto definito, vi è un fluire indistinto e incoerente di stati in perenne trasformazione.
Pirandello, allora, condusse una critica serrata al concetto di identità personale, dell’io.
Questa teoria della frantumazione dell’io è un dato storicamente significativo: nella società novecentesca entra in
crisi sia l’dea una realtà oggettiva sia di un oggetto unitario. L’io, perciò, si perde. La crisi dell’idea di identità e di
persona risente dei grandi processi in atto nella realtà contemporanea, dove si muovono forze che tendono proprio
alla negazione e alla frantumazione dell’individuo. È questo il periodo in cui si instaura il capitale monopolistico, che
annulla l’iniziativa individuale e nega la persona; in cui si diffonde la grande industria e l’uso delle macchine e in cui si
formano le grandi metropoli moderne, nelle quali l’uomo smarrisce il legame personale con gli altri e diviene una
particella isolata e alienata nella folla anonima. La presa di coscienza di quest’inconsistenza dell’io suscita nei
personaggi pirandelliani smarrimento e dolore. L’avvertire di non essere “nessuno” genera un senso di solitudine
tremenda. L’individuo soffre anche di essere fissato dagli altri in “forme” in cui non può riconoscersi. L’uomo si vede
vivere e si esamina dall’esterno nel compiere gli atti abituali che gli impone la sua maschera.

Queste “forme” sono sentite come una “trappola” in cui l’individuo si dibatte, lottando invano per liberarsi.
Pirandello ha un senso acutissimo della crudeltà che domina i rapporti sociali; la società gli appare come un’enorme
pupazzata, una costruzione artificiosa e fittizia, che isola l’uomo dalla vita e lo conduce alla morte anche se
apparentemente continua a vivere. Alla base di tutta l’opera pirandelliana si può scorgere un rifiuto delle forme della
vita sociale, e un bisogno disperato di autenticità, di spontaneità vitale. Il campione di società su cui l’opera
distruttiva di Pirandello si esercita è l’Italia giolittiana e postbellica: in particolare Pirandello si appunta sulla
condizione piccolo borghese e sulla sua angustia soffocante, mentre il teatro predilige ambienti alto borghesi.
L’istituto per eccellenza che imprigiona l’uomo è la famiglia. Pirandello è acutissimo nel cogliere il carattere
opprimente dell’ambiente familiare. L’altra trappola è quella economica, costituita dalla condizione sociale e dal
lavoro: i suoi eroi sono prigionieri di una condizione misera e stentata, di lavori monotoni e frustranti. Da questa
trappola per Pirandello non si dà una via di uscita storica; la sua critica feroce delle istituzioni borghesi reta perciò
puramente negativa, non propone alternative, anzi, ideologicamente si accompagna a posizioni fortemente
conservatrici.

Pirandello non ricerca le cause storiche per cui la società è una “trappola”: la società borghese del suo tempo è una
manifestazione particolare di una condizione universale. L’unica via di relativa salvezza che si dà ai suoi eroi è la fuga
nell’irrazionale: nell’immaginazione, come per l’impiegato Belluca, o nella follia, che è lo strumento di contestazione
per eccellenza. Il rifiuto della vita sociale dà luogo nell’opera pirandelliana ad una figura ricorrente: il “forestiere
della vita”, colui che ha preso coscienza e si esclude, guardando vivere gli altri dall’esterno della vita. Ciò consiste
nella filosofia del lontano che consiste nel contemplare la realtà come da un’infinita distanza, in modo da vedere in
una prospettiva straniata ciò che l’abitudine ci fa considerare normale. In questa figura di eroe estraniato dalla realtà
si proietta la condizione stessa di Pirandello come intellettuale, e nel suo pessimismo radicale, si riserva solo un ruolo
di lucida coscienza critica del reale.

Se la realtà è in continuo divenire, essa non si può fissare in schemi e moduli d’ordine totalizzanti. Ogni immagine
globale che pretenda di sistemarla organicamente non è che una proiezione soggettiva. Il reale è multiforme, non
esiste una prospettiva privilegiata da cui osservarlo. Caratteristico della visione pirandelliana è dunque un radicale
relativismo conoscitivo: ognuna ha la sua verità. Ne deriva un’inevitabile incomunicabilità fra gli uomini: essi non
possono intendersi. Tutto ciò ricollega Pirandello al clima culturale europeo del primo Novecento in cui si consuma la
crisi delle certezze positivistiche. La posizione di Pirandello viene quindi fatta rientrare nell’ambito del Decadentismo.
Si possono ravvisare nell’opera di Pirandello tendenze di questo genere, tuttavia, esse entrano in conflitto con
tendenze di segno opposto: nella visione umoristica di Pirandello la realtà si sfalda in una pluralità di frammenti che
non hanno un senso complessivo. A questo punto non resta che prendere atto dell’incoerenza e della mancanza di
senso del reale. Il Decadentismo che portava alla chiusura gelosa nella soggettività, poneva l’io al centro del mondo;
per Pirandello questa assolutizzazione del soggetto è impossibile; l’io si annulla anch’esso in una serie di frammenti
incoerenti: il soggetto da identità assoluta diventa “nessuno”.

LA POETICA
Dalla visione complessiva del mondo scaturiscono anche la concezione dell’arte e la poetica di Pirandello. L’opera
d’arte, secondo Pirandello, nasce dal libero movimento della vita interiore; la riflessione al momento della
concezione resta invisibile. Nell’opera umoristica invece la riflessione non si nasconde, non è una forma del
sentimento, ma si pone dinanzi ad esso come un giudice. Di qui nasce il sentimento del contrario. Lo scrittore
propone un esempio: se vedo una vecchia signora coi capelli tinti e tutta imbellettata, avverto che è il contrario di ciò
che una vecchia signora dovrebbe essere. Questo avvertimento del contrario è il comico. Ma se interviene la
riflessione e suggerisce che quella signora soffre a pararsi così e lo fa solo nell’illusione di poter trattenere l’amore
del marito più giovane, non posso più solo ridere: dal comico passo all’atteggiamento umoristico. La riflessione
nell’arte umoristica coglie così il carattere molteplice e contraddittorio della realtà; tragico e comico vanno sempre
insieme.
Pirandello afferma che l’umorismo si trova nella letteratura di tutti i tempi, ma in realtà la definizione che egli ne
propone si attaglia perfettamente all’arte contemporanea. Si tratta di un’arte riflessa, sempre accompagnata da una
lucida consapevolezza di sé stessa, che deve sempre vedere l’oggetto anche dal punto di vista opposto. È un’arte
disarmonica e piena di continue dissonanze, in cui ogni pensiero genera sempre contemporaneamente il suo
opposto. È un’arte che tende a scomporre, a disgregare, a fare emergere contrasti. È l’arte moderna per eccellenza,
perché riflette la coscienza di un mondo non più ordinato ma frantumato, in cui non vi sono più prospettive
privilegiate e punti di riferimento fissi, ma solo ambiguità e contraddizioni laceranti.

LE NOVELLE
Pirandello scrisse novelle per tutto l’arco della sua attività creativa. Si tratta di una produzione copiosissima che lo
scrittore raccolse in volumi. Nel 1922 progettò ina sistemazione globale in ventiquattro volumi, con titolo
complessivo di Novelle per un anno. A differenza delle raccolte classiche non si riesce ad individuare un ordine
determinato. Il corpus sembra quindi riflettere la visione globale del mondo che è propria di Pirandello, un mondo
non ordinato e armonico, ma disgregato in una miriade di aspetti frantumati, il cui senso complessivo sembra
irraggiungibile.
All’interno della raccolta è possibile distinguere le novelle collocate in una Sicilia contadina da quelle focalizzate su
ambienti piccolo borghesi continentali, spesso sul ceto impiegatizio della capitale. Le novelle siciliane possono a
prima vista ricordare il clima verista, ma in realtà, non vi si riscontra per nulla l’attenzione ai dati documentari né
l’indagine scientifica sui meccanismi della società e della lotta per la vita. Pirandello diverge dal verismo in due
direzioni: da un lato riscopre il sostrato mitico della terra siciliana, ed in questo si rivela più vicino al clima decadente;
dall’altro lato quelle figure di un arcaico mondo contadino sono deformate fino al prossimo da una carica grottesca,
che le trasforma in immagini bizzarre, e le vicende prive di un ogni riferimento diretto ad un contesto sociale,
divengono casi paradossali, estremizzati sino all’assurdo. Pirandello anche nella Sicilia contadina coglie il grottesco
della vita, la causalità che fa saltare l’idea di mondo ordinato.

Su una linea affine si collocano le novelle “romane”, che rappresentano la condizione piccolo borghese, una
condizione meschina. Queste figure avvilite e dolenti non sono che la metafora di una condizione esistenziale
assoluta: il rapprendersi del movimento vitale in forme che lo irrigidiscono. La trappola in cui questi esseri sono
prigionieri è costituita da una famiglia oppressiva e soffocante o da un lavoro monotono e meccanico. L’analisi di
Pirandello si appunta con feroce lucidità sulle convenzioni sociali che impongono all’uomo maschere fittizie e ruoli
fissi, rivelando così il suo rifiuto anarchico e irrazionalistico di ogni forma di società organizzata. Ai miseri esseri
prigionieri del meccanismo sociale non si propone alcuna vera via d’uscita: la loro insofferenza a lungo covata può
esplodere in gesti inaspettati e folli; poiché il personaggio non vive ma si vede vivere.

Nel tratteggiare questo variegato campionario di umanità Pirandello mette in opera il suo tipico atteggiamento
umoristico. Lo scrittore si accanisce nel deformare espressionisticamente i tratti fisici, trasformando le figure in
gesticolanti marionette; per dimostrare che la legge che li governa non è il deterministico rapporto di causa ed
effetto postulato dal Naturalismo, ma la casualità più bizzarra, in cui non è possibile ravvisare alcun senso. Da tutto
questo meccanismo assurdo scaturisce il riso, ma è un riso sempre accompagnato, in nome del sentimento del
contrario, da una pietà dolente per un’umanità così avvilita, per la sua sofferenza senza riscatto. Caricando
espressionisticamente la maschera che ognuno porta sul volto, Pirandello distrugge l’idea stessa di personalità
coerente, rivela le varie persone che si annidano nell’individuo, a lui stesso ignote, che possono erompere
all’improvviso, per motivi più causali e futili.

L’ESCLUSA E IL TURNO
Nell’estate nel 1893, a ventisei anni, Pirandello scrisse il suo primo romanzo, Marta Ajala; lo pubblicò però solo nel
1901 col titolo L’esclusa. È la storia, ambientata in Sicilia, di una donna accusata ingiustamente di adulterio, che
viene cacciata di casa dal marito e vi verrà riammessa solo dopo essersi resa effettivamente colpevole. Il romanzo ha
ancora legami con il naturalismo, sia nella materia, sia nell’impianto narrativo (narrazione in terza persona). Al
centro, come nella narrativa verista, vi è ancora un fatto dal forte potere condizionante, l’adulterio; ma il fatto non
ha vera consistenza oggettiva, Marta di fatto non è colpevole. La fatalità deterministica scaturisce non da un evento
reale, ma da una realtà solo soggettiva, il convincimento della colpa di Marta quale si afferma nella mente del
marito, della famiglia e dei concittadini. La struttura della vicenda sottolinea glia spetti assurdi, paradossali delle
azioni umane, che possono provocare conseguenze totalmente diverse da quelle previste. Al meccanismo
deterministico si sostituisce il gioco imprevedibile e beffardo del caso: Pirandello così facendo, conduce un’implicita
polemica nei confronti del naturalismo. Nel romanzo si può anche scorgere l’impostazione umoristica, da un lato si
ha la vicenda seria e drammatica di Marta, dall’altro ad essa si contrappone una folta galleria di figure grottesche, il
cui aspetto fisico è ritratto con esasperata deformazione espressionistica. Questa singolare struttura frammenta
risponde all’idea pirandelliana dell’arte umoristica.
Il gioco del caso è ancora ripreso nel breve romanzo successivo, Il Turno, dove un innamorato deve aspettare il suo
turno per sposare la donna amata, dopo la morte di altri due mariti. Il tema però è impostato a livello di minore
responsabilità concettuale, come divertimento comico, dai risvolti bizzarri, quasi marionettistici.

IL FU MATTIA PASCAL (memoriale)


Il terzo romanzo di Pirandello è Il fu Mattia Pascal. Mattia Pascal, che vive in un immaginario paese della Liguria,
Miragno, ha ereditato dal padre una grossa fortuna, ma è ridotto in miseria da un avido e disonesto amministratore,
Batta Malagna, che si impossessa a poco a poco del patrimonio, approfittando dell’inettitudine del giovane. Mattia si
vendica seducendo la nipote di Malagna, Romilda, e mettendola incinta. Viene costretto a sposarla, ma il matrimonio
per lui si rivela un inferno, a causa della moglie e della suocera. Anche alla misera condizione sociale pesa su di lui:
dopo una giovinezza agiata, si deve adattare ad un impiego squallido e mortificante, quello di bibliotecario nella
biblioteca del paese. Mattia Pascal quindi ripropone inizialmente la fisionomia di tanti altri eroi della narrativa
pirandelliana, specie delle novelle: il piccolo borghese prigioniero di una trappola sociale, costituita dalla famiglia
oppressiva e da un lavoro frustante, che divengono metafora di una condizione esistenziale assoluta, di una trappola
che mortifica e spegne la mobilità della vita. Come altri personaggi vittime, anche Mattia cerca di rompere con la
fuga il meccanismo che lo imprigiona: lascia il paese di nascosto, per cercare fortuna in America. Ma due fatti fortuiti
intervengono a modificare la sua condizione: una clamorosa vincita alla roulette di Montecarlo, che gli assicura un
notevole patrimonio, poi la notizia della propria morte; la moglie e la suocera l’hanno infatti riconosciuto nel
cadavere annegato di uno stagno. Mattia si trova così di colpo, libero dalla duplice trappola che lo imprigionava: la
misera condizione di piccolo borghese e la famiglia. Ma commette un errore: uscito dalla “forma”, non si accontenta
di vivere libero da ogni forma limitante, vuole invece forgiarsi una nuova identità. Per questo Mattia comincia
radicalmente a mutare il suo aspetto fisico, si taglia la barba, si fa crescere i capelli, maschera l’occhio strabico con
lenti scure, poi si trova un nuovo nome, Adriano Meis. Andriano Meis, assaporando la sua nuova libertà, si dà a
viaggiare per l’Italia e per l’Europa, ma ben presto prova un senso di vuoto e di solitudine. Soffre ad essere escluso
dalla vita degli altri. La nuova identità è una costruzione fittizia, ma è ben peggiore della prima, poiché non presenta i
vantaggi connessi con l’identità normale: la possibilità di stabilire legami con gli altri, crearsi una famiglia, lavorare.
L’errore dell’eroe non consiste dunque nell’aver scelto la libertà assoluta da ogni forma, ma, al contrario, nel non
essere stato capace di vivere davvero la sua libertà, rifiutando definitivamente ogni libertà individuale, e nell’essersi
costruito una nuova forma, per di più falsa, quindi ancora più costruttiva e limitante. Adriano Meis, non resistendo
più alla sua condizione di forestiere della vita, decide di reimmergersi nel flusso vitale. Si trasferisce a Roma,
prendendo in affitto una stanza presso una famiglia piccolo borghese, quella di Anselmo Paleari. Adriano si innamora
della giovane figlia di questi, Adriana. Pur amandola, non può sposarla perché socialmente non esiste. Così, derubato
dal cognato disonesto della fanciulla, Papiano, non può denunciarlo alla polizia. Adriano scopre in tutta la sua
chiarezza la sua reale condizione, di essere escluso irreparabilmente da quella vita sociale a cui è rimasto
strettamente legato. Di libera quindi della falsa identità, simulando un suicidio, e riprende la vecchia identità di
Mattia Pascal. Egli decide anche di ritornare nella vecchia trappola della famiglia. Ma, ripresentandosi a casa, scopre
di non poter rientrare nella vecchia forma: la moglie si è risposata con il suo migliore amico, e ne ha avuta una figlia.
Ora veramente l’eroe non può più avere nessuna identità. Per necessità, allora, assume allora quell’atteggiamento
di forestiere della vita, che prima non aveva saputo sopportare; riprende il suo posto nella biblioteca dedicandosi a
scrivere la sua singolare esperienza. Questo memoriale steso dal protagonista al termine della vicenda costituisce
appunto il romanzo.
I temi più rilevanti sono: la trappola delle istituzioni sociali che impongono il flusso vitale; la critica dell’identità
individuale; l’estraniarsi dal meccanismo sociale da parte di chi ha capito il gioco. Nel Fu Mattia Pascal si assiste
anche ad una prima prova altamente significativa della poetica dell’umorismo. La realtà, attraverso il gioco
paradossale del caso, viene distorta, ridotta all’assurdo; ma al di là del riso che questa suscita vi è l’autentica
sofferenza del protagonista, sia quando è imprigionato nella trappola, sia quando ne è escluso. Scatta dunque il
sentimento del contrario: tragico e comico nella vicenda di Mattia Pascal sono indissolubilmente congiunti. La novità
investe anche l’impianto narrativo. Non troviamo più la narrazione in terza persona da parte di un narratore
eterodiegetico, esterno e superiore al piano del narrato e quindi perfettamente attendibile: il romanzo è raccontato
dal protagonista stesso in forma retrospettiva. Inoltre il racconto non è focalizzato sull’io narratore, che ha già
vissuto i fatti, ma sull’io narrato, sul personaggio mentre vive i fatti. Al punto di vista soggettivo della narrazione
naturalistica si sostituisce quindi un punto di vista soggettivo, mutevole e inaffidabile. Per quanto riguarda le
tecniche espressive, predilige il soliloquio, rifiutando la tecnica del flusso di coscienza; adotta tante verità in relazione
ai punti di vista che esaminano la vicenda. Lo scrittore è consapevole di non poter scrivere un romanzo tradizionale
in un’età che ha visto crollare le certezze, per cui alla narrazione unisce la riflessione.

I QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE (diario)


Qui Pirandello torna alla narrazione autodiegetica, soggettiva: il romanzo è costituito dal diario del protagonista,
operatore cinematografico. Anche Serafino è il tipico eroe filosofico, estraniato dalla vita. La sua professione, il suo
stare dietro la macchina da presa, diviene la metafora di questo distacco contemplativo. Pirandello, nel romanzo,
affronta uno dei nodi della realtà contemporanea: il trionfo della macchina. È una realtà di fronte alla quale gli
intellettuali del tempo avevano avuto atteggiamenti problematici: Pascoli, nella sua nostalgia per un mondo rurale e
arcaico, guardava con paura e orrore alle macchine che minacciavano di distruggerlo; D’Annunzio, per esorcizzare il
sentimento d’orrore che negava la bellezza, aveva scelto di offrirsi come celebratore della nuova realtà levando inni
alla macchina; i futuristi celebravano entusiasticamente la macchina, nata dal dinamismo e dalla velocità. Pirandello
dinanzi alla macchina, che soffoca la spontaneità della vita, è diffidente e ostile, non può non provare repulsione per
la macchina che contribuisce ulteriormente a rendere meccanico il vivere degli uomini. Alla critica della
meccanizzazione si unisce quella della mercificazione: la realtà industriale trasforma tutto in merce, negando la
spontaneità dei sentimenti. Il cinema fissa la vita in moduli convenzionali e stereotipati. La vicenda che sta al centro
del romanzo sembra uno dei soggetti prediletti dal cinema di consumo del tempo, una tempestosa storia d’amore,
che ha al centro una donna fatale, l’attrice russa Varia Nestoroff, e si conclude son un finale tragico.
Nel romanzo coesistono due filoni narrativi: il drammone passionale che coinvolge l’attrice Nestoroff, divoratrice di
uomini, il barone Nuti, folle di un amore infelice per lei, e la giovane, innocente Luisetta Cavalena innamorata di Nuti.
Il secondo filone riguarda Serafino Gubbio e il suo percorso interiore: è questo il vero soggetto del romanzo. Serafino
è un emarginato, dotato di una cultura umanistica e filosofica da autodidatta, al suo arrivo a Roma si trova privo di
ogni mezzo di sostentamento, e per vivere deve accettare un impiego come operatore presso un a casa
cinematografica. Da una condizione intellettuale si trova così degradato ad appendice di una macchina, la cinepresa,
trasformato in cosa. Ma quella condizione negativa di alienazione in un oggetto si trasforma in positivo: l’attività di
operatore alla macchina da presa diviene per lui l’occasione di adottare uno sguardo estraniato su tutto ciò che lo
circonda. La sue è la condizione di “forestiere della vita” che osserva con occhio acuto e crudele la fantocciata
assurda della società umana, in tal modo arriva a condurre una critica della nuova realtà industriale e meccanizzata.
La vicenda della Nestoroff e del Nuti sembra proprio ricalcare gli stereotipi di quelle trame da film di consumo. Non
stupisce allora che di fronte ad una simile vicenda Serafino si proponga di mantenere il distacco dell’osservatore
impassibile, che non si fa coinvolgere emotivamente. ma nella sua solitudine vi è un punto debole. Un bisogno
inappagato di amare e di essere amato. Così si innamora di Luisetta; non è ricambiato dalla ragazza, che è
innamorata del Nuti, ma il sentimento fa crollare la sua estraneità impassibile. In tal modo rischia di farsi
contaminare dalla stupidità dominante nella vita del suo tempo, la vita segnata dal trionfo delle macchine e delle
merci. L’eroe, tuttavia, è destinato a prendere coscienza del pericolo che corre. Recatosi a casa della Nestoroff, resta
folgorato dinanzi una serie di suoi ritratti, dipinti da un giovane pittore poi suicidatosi per lei: nell’arte la figura della
donna è assunta a una vita prodigiosa, quasi divina, che stride clamorosamente con la figura della donna in carne ed
ossa, caduta in una realtà squallida e miserabile. Lo choc fa assumere a Serafino consapevolezza della volgare
meschinità dei casi in cui si è mescolato e della gente con cui si è ridotto a trattare. Arriva a capire che nell’era delle
macchine e dell’industria, non è più possibile l’autenticità dei sentimenti e delle azioni. Si capisce allora perché nel
romanzo dedichi tanto spazio ad una vicenda come quella della donna fatale: in tal modo vuole mettere in chiaro
come, nella modernità industriale, la vita sia talmente involgarita da non potersi più sottrarre agli schemi del cinema
commerciale. Serafino resta nauseato dalla sua scoperta e da questo momento rifiuta il ruolo di fraterno
consolatore, tornando all’atteggiamento di distacco impassibile. Grazie a questa consapevolezza, può salvarsi dalla
contaminazione di quella realtà meschina e squallida. La presa di coscienza prepara la conclusione del romanzo. Il
dramma della Nestoroff uccisa dal Nuti e del giovane sbranato dalla tigre è atroce, ma non ha più la tragica
autenticità che dovrebbe essergli propria, perché è stato fissato dalla macchina da presa e finirà nel film, suscitando
la curiosità morbosa degli spettatori e fruttando incassi favolosi. Non solo, ma la vita reale data in pasto alla
cinepresa era contrassegnata dal marchio della stupidità e della volgarità. Dinanzi a quello scioglimento Serafino, per
il trauma, è diventato muto, raggiungendo così il “silenzio di cosa” che simboleggia la liberazione dai legami di una
realtà invivibile. La riduzione definitiva di mano che gira la manovella è la perfetta realizzazione dell’atteggiamento di
distacco che occorre per non farsi inghiottire da un tempo come questo.

UNO, NESSUNO E CENTOMILA


Dopo i Quaderni, Pirandello si dedica prevalentemente al teatro. tuttavia lavora ancora ad un romanzo, Uno,
nessuno e centomila pubblicato nel 1926. Anche qui si colloca il problema dell’identità. Il racconto è retrospettivo: il
protagonista, Vitangelo Moscarda, conclusosi un ciclo della sua vita, si volge indietro a rievocarlo. La vicenda prende
le mosse da un fatto apparentemente insignificante: la moglie fa osservare a Moscarda che il naso gli pende un po'
da una parte. Egli scopre così che l’immagine che si è creato di sé non corrisponde a quella che gli altri hanno di lui. Il
fatto lo colpisce profondamente e sconvolge la sua vita. Si rende conto del fatto che esistono infiniti “Moscarda”,
l’uno diverso dall’altro, a seconda della visione delle tante persone che lo conoscono, in primo luogo la moglie. In lui
nasce pertanto un vero orrore per la prigione delle “forme” in cui gli altri lo costringono; ma scopre anche di non
essere nessuno per sé stesso, e questo genera in lui un senso angoscioso di assoluta solitudine. La forma impostagli
che egli non riesce a tollerare è quella dell’usuraio. Egli è effettivamente il figlio di un usuraio che ha fatto fortuna
sfruttando cinicamente gli altri. Ora invece si propone il programma di distruggere tutte le immagini che gli altri si
sono costruite di lui, attraverso una serie di gesti bizzarri, di vere e proprie pazzie. Anche Moscarda, come Mattia
Pascal, si scopre dunque prigioniero nella trappola dell’identità individuale. Ma mentre Pascal voleva costruirsi una
nuova identità, Moscarda vuole solo distruggere le identità impostegli. Comincia così la serie delle sue pazzie: prima
sfratta un povero squilibrato, Marco di Dio, dalla catapecchia che persino il padre usuraio, per pietà, gli aveva
concesso gratuitamente. In seguito impone agli amministratori di liquidare la banca paterna, maltratta la moglie Dida
(che per ama) e la induce a lasciarlo. A questo punto i due amministratori, la moglie e il suocero congiurano per farlo
interdire. è avvertito da Anna Rosa, un’amica di Dida, ed egli, rivelandole tutte le sue considerazioni
sull’inconsistenza della persona, sulle forme che gli altri ci impongono, ma fa anche saltare il suo equilibrio psichico,
e la donna, con gesto improvviso gli spara, ferendolo gravemente. Ne nasce uno scandalo enorme: tutta la città è
convinta che tra lui e Anna Rosa ci sia una relazione. A Moscarda non resta che riconoscere tutte le colpe attribuitegli
e dimostrare un eroico ravvedimento. Dona tutti i suoi averi per fondare un ospizio di mendicità, ed egli stesso vi
viene ricoverato, vivendo insieme con tutti gli altri mendicanti, vestendo la divisa della comunità e mangiando nella
ciotola di legno. Moscarda ha cercato, con le sue follie, di ribellarsi al sistema delle convenzioni sociali, ma è rimasto
sconfitto. Lui che voleva distruggere tutte le forme impostegli, deve accettare l’ennesima forma attribuitagli dalla
comunità, quella dell’adultero, e scontare per essa una dura pena, del tutto immeritata. Se prima la consapevolezza
di non essere “nessuno” gli dava un senso di solitudine tremenda, ora accetta di buon grado di alienarsi totalmente
da sé stesso, rifiuta definitivamente ogni identità personale.
Il romanzo porta alle estreme conseguenze la critica all’identità: l’eroe non si limita più ad una condizione negativa,
sospesa ma trasforma la mancanza di identità in una condizione positiva, gioiosa, in liberazione completa della vita.
In questo abbandonarsi al fluire della vita, in questo perdersi smemorato nella natura, si possono scorgere i segni di
quell’irrazionalismo misticheggiante che prende il sopravvento sull’umorismo critico e negativo dello scrittore. Uno,
nessuno e centomila porta anche all’estremo la disgregazione della forma romanzesca. Si tratta anche qui di una
narrazione retrospettiva da parte del protagonista, ma essa non si concreta più nella forma organica del memoriale
scritto o del diario come nei precedenti romanzi, bensì si presenta esclusivamente come un monologo interrotto. La
voce narrante dissolve la narrazione dei fatti. Solo nella seconda parte il filo dell’intreccio comincia a dipanarsi, ma
anche qui la concatenazione logica degli eventi salta: i gesti del protagonista sono la negazione di ogni logica
comune, coerenti solo all’interno della sua follia, e così pure il gesto di Anna Rosa resta del tutto gratuito,
inspiegabile.

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