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GABRIELE D’ANNUNZIO VITA E OPERE

Gabriele d’Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863. Compiuti gli studi liceali a Prato si
trasferisce nel 1881 a Roma, dove si iscrive alla Facoltà di Lettere. A Roma diventa collaboratore di
alcuni periodici in veste di giornalista letterario e di cronista mondano di quell’aristocrazia della
quale, conducendo una vita sontuosa e sempre pronta allo scandalo, entra rapidamente a far parte.
Nel 1887 si delinea il nuovo amore per Elvira Fraternali Leoni, cantata come Barbara. L’esordio
poetico risale però alla raccolta Primo vere del 1879. Dal 1891 al 1893 vive per due anni a Napoli
insieme a Maria Gravina, subendo una condanna per adulterio a causa della denuncia del marito di
lei. Il 1894 è un anno di svolta: il rapporto con la Gravina, ormai in crisi, si appresta a essere
rimpiazzato da quello con la grande attrice Eleonora Duse, incontrata a Venezia nel settembre di
quell’anno: il dissesto finanziario e i debiti ereditati dal padre, morto l’anno precedente, lo
incalzano, come altre volte, costringendolo a fughe precipitose e a impegni editoriali gravosi. Infine
si trasferisce con la Duse a Settignano, vicino a Firenze; qui compone i primi tre libri delle Laudi
del cielo della terra del mare e degli eroi, il romanzo Il fuoco e una tra le sue opere più fortunate per
il teatro, La figlia di Iorio. Nel 1897 si è intanto fatto eleggere deputato, presentandosi con la
Destra, salvo passare clamorosamente nelle file della Sinistra tre anni dopo per protesta contro la
repressione del reazionario governo Pelloux. Nel 1910, costretto dai debiti contratti per mantenere
la villa, va in Francia, dove compone Merope, quarto libro delle Laudi, e dove rimane in «esilio
volontario» fino al 1915, circondato da numerosi ammiratori e attore di nuove avventure erotiche: il
contatto con l’Italia è intanto assicurato da un’assidua collaborazione al «Corriere della Sera», i
pezzi per il quale confluiranno in gran parte nei volumi delle Faville del maglio, pubblicati nel 1924
e nel 1928. Nel 1915, scoppiata la guerra, torna in Italia, schierandosi tra gli interventisti e
partecipando ad ardite imprese terrestri, navali e aeree. Perso l’occhio destro in un incidente aereo,
compone nel periodo d’infermità le prose del Notturno. Animato da fiero spirito nazionalistico,
d’Annunzio ritiene la vittoria italiana mortificata dalla mancata annessione all’Italia della città
croata di Fiume, e perciò la occupa di forza nel 1919, istituendovi un governo militare; ma dopo
pochi mesi è costretto dalle truppe governative ad abbandonarla. Si ritira allora, nel 1921, a
Gardone Riviera in una villa detta «Il Vittoriale degli Italiani» – una sorta di museo dedicato a se
stesso – nella quale vive in disparte, curando l’edizione nazionale delle proprie opere, fino alla
morte, avvenuta il 1° marzo 1938.

L’ideologia e la poetica. Il panismo estetizzante del superuomo


Oltre che scrittore, d’Annunzio volle essere anche ideologo e politico, intervenendo in numerose
occasioni su questioni “strategiche” della vita civile nazionale e impegnandosi negli schieramenti
parlamentari. Al di là dei molti cambiamenti intervenuti nel tempo, resiste la costante dell’ideologia
nazionalistica, che si esprime nell’adesione all’aggressività coloniale di Crispi,
nell’interventismo durante la Prima guerra mondiale, con l’appendice dell’impresa di Fiume, nel
favore concesso alla guerra fascista in Etiopia. L’impegno con la Destra nel 1897, il passaggio poi
clamoroso alla Sinistra tre anni dopo, il nazionalismo aggressivo e perfino volgare nel 1915,
l’impresa di Fiume, l’appoggio al fascismo sono tutti episodi gestiti all’interno di un progetto di vita
in cui conta innanzitutto la sensibilità ai processi in atto, ovvero la capacità di stare dalla parte
ritenuta “giusta” (cioè quella vincente, oppure quella più appariscente e scandalosa). L’ideologia
rintracciabile in d’Annunzio è da questo punto di vista “postpolitica”: scavalca cioè le differenze
ideologiche, le inconciliabilità tra gruppi e partiti, perseguendo una logica che non risponde tanto a
criteri oggettivi, ai vincoli di “ideali” o di progetti organici e coerenti, quanto al bisogno soggettivo
di ricavare il massimo utile dai meccanismi culturali della civiltà di massa. Per un altro verso, la
posizione dannunziana è invece “prepolitica”: vi è cioè una riduzione dell’io a puro istinto, a
sensazione naturale. L’affermazione del soggetto coincide con la sua fusione panica nell’elemento
naturale. L’identificazione con il superuomo, avviene al di fuori dei conflitti storici e anzi al di
fuori e al di là della storia. La sfida lanciata da d’Annunzio sceglie di ignorare le reali condizioni
sociali entro cui egli si trova a esprimersi. Il protagonismo esibizionistico nasconde una sostanziale
passività nei confronti del presente, del-le sue strutture sociali e culturali, dei meccanismi di potere.
Ciò si rivela per esempio nella subalternità agli interessi economici e all’ideologia delle classi
dominanti. D’Annunzio non rinuncia a esaltare l’aggressività imperialistica della nuova borghesia
industriale, capace di far avanza-re il progresso tecnico della moderna industria ma anche di
imporre l’ordine sociale, minacciato dal «tumulto» della «plebe» e della «canaglia», dalla «cieca
demenza» delle masse popolari. L’arte è concepita da d’Annunzio come Bellezza, sia nel senso
classicistico ereditato da Carducci, sia nel nuovo senso dell’estetismo decadente. Da una parte,
dunque, d’Annunzio può proclamarsi l’ultimo umanista, dall’altra proporsi quale moderno esteta al
cospetto della società di massa. Questo atteggiamento complesso implica un rapporto di tensione
con la nuova condizione dell’arte, ormai scaricata da-gli altari e gettata nel mercato, che la gestisce
come un prodotto qualsiasi. Per un verso d’Annunzio reagisce a questa “degradazione” negandola:
la Bellezza è per lui al di sopra di tutto, è un valore assoluto; ma per un altro verso egli è il primo a
sfruttare con consapevole abilità i meccanismi complessi dell’industria culturale, del mercato
librario, delle mode. Il paradosso messo in scena da d’Annunzio è infine quello di offrirsi quale
mito di massa nel momento stesso in cui costruisce una figura di genio solitario e superiore, che
disprezza aristocraticamente la massa e si circonda di esperienze “esclusive” e raffinate. La poetica
dannunziana si affida, nelle frequenti dichiarazioni esplicite, a un’esaltazione del valore e del potere
della parola: la «scienza delle parole» è la scienza «suprema»: «chi conosce questa, conosce
tutto>>.

Le poesie. Da Primo vere al Poema paradisiaco


L’esordio di d’Annunzio avviene, giovanissimo, con una raccolta di poesie, Primo vere, pubblicata
a Chieti a spese del padre nel 1879, a sedici anni. Si tratta di una trentina di testi di forte impronta
carducciana ma già segnati dalla personale tendenza a una musicalità più avvolgente e sensuale,
espressione di una sensibilità decadente calata dentro un impianto stilistico e dentro una serie di
riferimenti di tipo classico. Dopo Primo vere si apre il cosiddetto “periodo romano”, che occupa
circa un decennio (dal 1881 al 1891) e che vede la pubblicazione di diverse opere importanti: le
raccolte poetiche Canto novo, Intermezzo di rime, L’Isotteo, La Chimera, Elegie romane, le Novelle
della Pescara e il romanzo Il piacere.
Il secondo libro di versi, Canto novo, esce nel 1882 in concomitanza con le novelle di Terra
vergine, con le quali condivide la piena scoperta della vitalità panica. Dominano i temi naturali,
annuncio dello scenario tipico di molta successiva poesia dannunziana: nel paesaggio naturale il
soggetto vive la propria presenza corporea come una riconquista di autenticità capace di prescindere
dalla civiltà e dalla storia; l’amore stesso è rappresentato quale forza animalesca e primitiva, non
senza note di violenza sadica.
Due anni dopo Canto novo d’Annunzio pubblica Intermezzo di rime, che avrà a sua volta, a
distanza di un decennio, una riedizione profondamente rielaborata. D’Annunzio abbandona qui i
metri barbari e si esercita su forme metriche chiuse e tradizionali, rovesciando il tema vitalistico e
l’entusiasmo di Canto novo in un dominio di atmosfere decadenti di disfacimento e di corruzione;
mascherando così, fra l’altro, un’autentica crisi d’ispirazione e forse d’identità.
Non cambia molto lo scenario nella raccolta successiva, Isaotta Guttadàuro ed altre poesie, rifatta
poi in due libri distinti (L’Isotteo e La Chimera), usciti insieme nel 1890. Vi si avverte, semmai, una
scommessa tutta letteraria di gareggiare con i grandi modelli passati e contemporanei,
riprendendone i metri, lo stile, il lessico, i temi, con una capacità di adatta-mento a modi di scrittura
diversi e altrui che ha del portentoso. Nell’Isotteo si riversa il tema erotico dominante
nell’Intermezzo, ambientato nella realtà cortigiana della nobiltà tra Tre o Quattrocento; nella
Chimera s’incontra invece una raccolta interminabile di oggetti e di situazioni trattate come oggetti,
descritte come se la realtà circostante avesse smesso di esistere nella sua interezza e nella sua
organicità, come in un incubo o in un’allucinazione.
Nella fase conclusiva del “periodo romano”, d’Annunzio sembra abbandonare il classicismo
erotico-mondano e l’estetismo delle raccolte precedenti, aprendosi alle nuove tematiche della bontà
e delle aspirazioni evangeliche, diffuse in quegli anni soprattutto per influenza del grande narratore
russo Tolstoj. Questa svolta coincide d’altra parte anche con un bisogno interiore di rinnovamento,
di nuova sperimentazione artistica. A questa fase, che si apre alla fine del “periodo romano” e
riguarda il biennio napoletano, appartengono i romanzi Giovanni Episcopo e L’innocente, nonché la
più significativa raccolta poetica prima delle Laudi: il Poema paradisiaco. Il Poema paradisiaco
vede la luce, nel 1893, in un’edizione che contiene anche le Odi navali, quasi a esprimere
fisicamente la compresenza dei vari registri espressivi e delle diverse opzioni tematiche ed
esistenziali. Esso è un poema unitario che, nel suo disegno complessivo, narra il distacco dalla
sensualità e dall’erotismo e il riavvicinamento, anche attraverso il ricordo del passato, alla famiglia
e ai sentimenti puri dell’infanzia. Nel Poema paradisiaco viene ripreso e approfondito il tema del
ricordo, già anticipato nelle Elegie romane e inconsueto nella poesia dannunziana. Sono accolti
inoltre riferimenti quotidiani e dimessi, particolari realistici e concreti, che rimandano al vissuto,
con l’adeguato accompagnamento di un lessico meno prezioso ed eletto, più diretto e tuttavia non
meno raffinato e letterario. Anche la metrica abbandona le forme iperletterarie delle raccolte
precedenti, ricorrendo perlopiù agli endecasillabi sciolti.

Le poesie. Il grande progetto delle Laudi e la produzione


tarda
Le Laudi del Cielo, del Mare, della Terra e degli Eroi sono le raccolte poetiche della maturità di
D’Annunzio e furono progettate, in seguito al viaggio in Grecia del poeta nel 1895, nel 1899.
Secondo il progetto iniziale dello scrittore le liriche dovevano essere divise in sette libri, quante
sono le Pleiadi (Maia, Elettra, Alcione, Merope, Asterope, Taigete e Celeno), ma D'Annunzio riuscì
a comporne solo cinque: Maia, Elettra, Alcione, Merope e i Canti della guerra latina. Il tono epico-
celebrativo delle liriche appare come la trasfigurazione in poesia del mito della "Rinascenza latina"
e del nuovo Rinascimento propri di quell’epoca. Premessa ideale e introduzione delle Laudi, Maia è
composto nel 1903, dopo Elettra e Alcyone, ma viene posto nel disegno conclusivo del poeta
all’inizio. Questo libro comprende ventuno canti di diversa lunghezza, con i primi due
componimenti che aprono il ciclo delle Laudi: Alle Pleiadi e ai Fati e L’Annunzio, canto sulla
resurrezione del dio pagano Pan, simbolo della bellezza e la gioia del mondo e della comunione con
la natura. Ed è questo uno dei temi centrali del libro, ovvero la possibile comunione con la natura e
la sua forza vitale, che permette di raggiungere la felicità. Maia si presenta quindi come
un’esaltazione alla vita - il sottotitolo stesso Laus vitae indica questo intento celebrativo -, una vita
nuova di cui sono degni sono alcuni essere umani, gli eroi o i superuomini. In questo libro emerge
quindi la rielaborazione dannunziana del vitalismo nietzschiano: il superuomo è colui che, dotato di
una vitalità e di una comunione maggiore rispetto agli altri, realizza se stesso e i suoi istinti. Viene
espresso quindi il nuovo modello superomistico che deve basarsi su nuovi valori come Volontà e
Orgoglio. Maia si chiude con la Preghiera alla madre immortale, poesia dedicata al poeta Giosué
Carducci, maestro spirituale e modello dei primi componimenti di D’Annunzio.
Elettra è il secondo libro delle Laudi e si presenta come raccolta di liriche di esaltazione e
celebrazione dell’eroismo e del mito del superuomo. Sono presenti liriche che celebrano gli eroi
guerrieri del passato e del presente, come La notte di Caprera, in cui viene esaltata la storia recente
dei garibaldini, ma anche liriche che tessono le lodi di intellettuali e artisti, eroi del pensiero, come
Nietzsche, Victor Hugo, Dante e Verdi. Dopo i canti eroici, seguono i Canti della ricordanza e
dell’aspettazione, in cui vengono celebrate un gruppo di città italiana dal passato glorioso, ancora
presente in loro ma ormai dimenticato dai loro abitanti. Qui si trova il trittico cittadino Ferrara, Pisa
e Ravenna, momento più alto di questi canti, in cui vengono celebrate le cosiddette città del
silenzio. In Ravenna viene espresso il tema centrale delle liriche successive il destino dell’Italia e
dell’impero. L’Italia viene infatti celebrata nel Canto augurale per la nazione eletta, in cui il
sentimento patriottico di D’Annunzio diventa sempre più forte fino a giungere a concezioni
nazionalistiche e imperialistiche. Posizioni politiche che porteranno il poeta ad essere un fervente
interventista nella Prima guerra mondiale.

ALCYONE
Alcione è il terzo dei sette libri delle “Laudi del cielo della terra del mare e degli eroi” e viene
pubblicato nel 1903. È diviso in 5 sezioni per un totale di 88 testi. Le 5 sezioni sono distinte da
specifiche tematiche e ogni sezione è caratterizzata da un momento stagionale, da un ambiente
naturale-paesaggistico nonché da un corrispondente stato d'animo. Il libro è aperto dal testo La
tregua e costituisce una vera e propria “tregua” del superuomo, ovvero un momento di abbandono
alla dimensione della natura e del mito.
La prima sezione è ambientata in uno scenario contadino tra Fiesole e Firenze nel mese di giugno.
I 7 testi che la compongono costituiscono lodi di vari luoghi e piante e l’arrivo dell’estate
La seconda sezione sposta l'ambientazione in Versilia una regione della Toscana che si affaccia
sul mare. È esplosa l'estate ed è formata da 19 testi in cui il soggetto tende a identificarsi con l'intero
paesaggio circostante. Di questa sezione fa parte la poesia “La pioggia nel Pineto”.
La terza sezione è formata da 16 testi segnati dall'estate piena.
La quarta sezione conta 26 testi dedicati all'estate culminante e ai primi presagi autunnali
La quinta sezione comprende 17 testi. È settembre e l’estate sta finendo e si abbandona il
paesaggio versiliese. Fa parte di questa sezione la poesia “I pastori”.
Il commiato chiude il libro rievocando i luoghi versiliesi che hanno ospitato il ciclo stagionale
dell'estate. Il testo contiene anche un saluto e una dedica a Pascoli.
In "Alcyone" si esprime un forte legame con la natura, dove l'individuo si identifica sensualmente
con il mondo vegetale e animale. L'io personale svanisce, il soggetto si perde nella natura,
trasformandosi in un mito o in un paesaggio, o in entrambi.
I temi principali sono:
- Lo scambio tra naturale e umano, infatti Alcyone rappresenta una capacità di entrare in
contatto diretto con la natura;
- La riattualizzazione della natura, infatti c’è il recupero del mito, come i grandi miti naturali
della classicità, rappresentando la propria natura individuale;
- L’esaltazione della parola, dell’arte e della figura del poeta.
Lo stile di scrittura utilizzato in questo libro è caratterizzato da un linguaggio ricercato e poetico,
con un uso ampio di immagini suggestive e descrizioni dettagliate. Per quanto riguarda la metrica,
d'Annunzio ricerca la sonorità musicale e sensuale, impiegando il verso libero

LA PIOGGIA NEL PINETO


L a lirica, pubblicata nel 1903, appartiene alla sezione centrale di Alcyone, dedicata all’estate. Il
poeta, insieme a una donna chiamata Ermione, è sorpreso dalla pioggia mentre passeggia nella
pineta di Marina di Pisa. Metricamente la canzone è formata da quattro strofe di 32 versi liberi
(ternari, quinari, senari, settenari, ottonari, novenari) ciascuna. L’ultimo verso di ogni strofa è
costituito dal nome di Ermione. Nella lirica si intrecciano i temi della metamorfosi (l’uomo e la
donna si fondono gradualmente con lo spirito stesso del bosco) e della musicalità, grazie alla forza
evocatrice della parola poetica. La prima trasfigurazione è già nel nome Ermione, con cui il poeta
chiama la donna amata, che innesta un rimando al mito da cui poi mutua il repertorio figurativo
della metamorfosi. Il poeta invita Ermione a tacere e ad ascoltare le varie modulazioni che le gocce
di pioggia producono sulle piante del bosco, cui si unisce il verso della cicala e della rana. La
sinfonia dei suoni li conduce gradualmente in una dimensione di sogno, entro la quale avvengono i
riti metamorfici: entrambi si fondono nella rigogliosa vita vegetale, che avviluppa i loro corpi e il
loro essere. La lirica si chiude con la ripresa del tema della pioggia, quasi a prolungare quello stato
di estasi cui il poeta e la compagna sono pervenuti. La lirica è un esempio, tra i più celebri, della
parola che diventa musica. La corrispondenza tra parole, gocciole e foglie fa che le prime parlino le
seconde, così le parole «non umane» e «più nuove» della natura creano mediante suoni e sensazioni
l’atmosfera emozionante della metamorfosi. Il lessico è semplice, ma costellato qua e là di termini
ricercati e di registro alto (tamerici, mirti), anche per l’uso particolare degli aggettivi (salmastre ed
arse, scagliosi e irti, divini, fulgenti di fiori accolti, folti di coccole aulenti, solitaria verdura). Le
rime sono libere, la parola è usata più per la sua musicalità che per il significato, e la corrispondenza
parola-natura è realizzata in un accordo di suoni, di rime interne, consonanze, allitterazioni che
privilegiano il suono sul senso. La struttura è basata sul fluire impressionistico di immagini e di
sensazioni. Ogni strofa comprende più periodi e la sintassi, con proposizioni coordinate brevi, è
spezzata dagli enjambement, che contemporaneamente dilatano il verso. La ripetizione della parola-
chiave piove costruisce una simmetria sintattica, esprime fonicamente il battere ritmico della
pioggia e si arricchisce di immagini nuove, che comunicano la partecipazione alla vita della natura.

Il piacere, ovvero l’estetizzazione della vita e l’aridità


Il piacere è il primo romanzo di d’Annunzio. Con esso penetra per la prima volta in Italia la nuova
cultura decadente, inaugurata nella narrativa dal modello di Controcorrente di Huysmans,
pubblicato nel 1884. Il piacere fu scritto tra l’estate e l’autunno del 1888. La pubblicazione fu
realizzata nel 1889 dall’editore Treves di Milano, destinato a essere quasi l’editore “ufficiale” di
d’Annunzio per molti anni. Protagonista assoluto del romanzo è Andrea Sperelli, alter ego
dell’autore ed eroe dell’estetismo. Per Andrea l’arte è il valore assoluto: la vita stessa viene
concepita come arte, e “l’arte per l’arte” non è solo un programma estetico ma anche uno stile di
vita. D’altra parte la confusione tra arte e vita e la sovrapposizione tra i due piani caratterizza gran
parte della cultura decadente. Anche d’Annunzio si propone una «vita inimitabile», fatta come
un’opera d’arte. Andrea, dei conti Fieschi d’Ugenta, fa di Roma il teatro della propria affermazione
sociale e della propria ricerca di raffinatezza. La Roma alla quale egli guarda non è quella classica
cantata da Carducci, ma la Roma barocca dei papi e della nobiltà, segnata dal piacere di vivere e da
una corruzione spirituale che coincide con la facoltà stessa di vivere la vita secondo parametri
estetici. Andrea vive nel palazzo Zuccari a Trinità dei Monti e passa da un’avventura galante a
un’altra, immerso nella vita frivola della mondanità. La capacità di gestire questo copione con
perfetto equilibrio e superiore distacco è però incrinata dal rimpianto per Elena Muti, un’amante la
cui bellezza e la cui forte personalità hanno eccezionalmente turbato Andrea. Interrotta la relazione
con lei per un’improvvisa fuga della donna da Roma, Andrea tenta invano di ristabilire i contatti in
occasione del ritorno della donna, due anni dopo, sposata a un ricco e perverso marchese.
Minacciato da un’inquietudine interiore che lo porta a una sgradita consapevolezza della propria
aridità esistenziale, Andrea cerca scampo nella consueta vita frenetica e dissoluta, finché resta ferito
in un duello provocato dalla reazione gelosa di un marito offeso dalla sua intraprendenza. Si apre
quindi una parentesi di convalescenza nella villa di campagna (chiamata Schifanoja) presso la
cugina di Andrea, marchesa d’Ateleta. Qui il protagonista recupera una serenità interiore,
riavvicinandosi ai propri interessi di scrittore e di artista. La pace è turbata dall’arrivo di un’amica
della cugina, Maria Ferres, caratterizzata da una femminilità ben diversa da quella di Elena:
delicata, spirituale, sensibile. A poco a poco Andrea stabilisce con Maria un’intimità affettuosa, che
diviene vero e proprio rapporto d’amore dopo il ritorno dei due a Roma. Qui l’attrazione per Elena,
che di tanto in tanto continua a rivedere, si mescola all’orrore per la vita torbida di lei, e alla gelosia
per una nuova relazione della donna; mentre il rapporto con Maria deve subire il peso di questa
tensione erotica che nell’animo di Andrea non riesce a chiudersi. La struttura del romanzo risente
della tradizione del Naturalismo, rispetto alla quale tuttavia d’Annunzio opera significative
trasformazioni. In particolare è lasciato molto più spazio alla libera manifestazione della
soggettività di Andrea, cui si adattano anche i ritmi narrativi e l’intreccio. La relazione con Elena è
raccontata a partire dal momento in cui Andrea sta per rivedere la donna dopo i due anni di
distacco, introducendo dunque la rievocazione del precedente rapporto per mezzo della tecnica del
flash-back. Nel Piacere si mescolano e si intrecciano, dunque, la tradizione naturalistica del
romanzo d’ambiente e la nuova tendenza decadente della narrativa lirico-evocativa. Lontano dal
Naturalismo è anche lo stile, che registra in presa diretta il punto di vista del protagonista o di altri
personaggi. Domina dunque la paratassi: i singoli episodi e i diversi particolari della
rappresentazione sono come giustapposti, con una tendenza al descrittivismo impressionistico.

ANDREA SPERELLI BRANO


Il brano, che costituisce la presentazione di Andrea Sperelli, è incentrato sull’educazione del
protagonista, ricevuta grazie ai numerosi viaggi in compagnia del padre. Andrea si forma attraverso
le «realtà umane», cioè tramite l’esperienza concreta. Il padre, inoltre, gli suggerisce una «massima
fondamentale»: la vita deve essere vissuta come «un’opera d’arte>>. Andrea Sperelli concentra su
di sé tutte le caratteristiche dell’esteta, costituendo un’incarnazione dell’autore (ovvero un suo alter
ego). Egli in più è dotato di una «forza sensitiva», cioè di una sensibilità eccezionale, che lo rende
particolarmente incline alla bellezza e ai piaceri. Tuttavia questa sensibilità straordinaria comporta
anche, da un altro punto di vista, una “corruzione”, dovuta all’«alta cultura» e all’esperienza
edonistica della vita. D’altra parte, la stessa corruzione rientra nelle necessità ideologiche
dell’esteta, del dandy, secondo i precetti del Decadentismo europeo. In Andrea Sperelli, però, la
corruzione non è vissuta senza un’intima sofferenza, dovuta alla ricchezza stessa della sua
personalità. Infatti le massime paterne presuppongono uno spirito forte, capace di dominare la
propria esistenza e le sue necessarie debolezze; laddove quello di Andrea è un carattere debole, tale
da divenire vittima della propria stessa recita sociale: il «seme del sofisma» agisce innanzitutto
contro lo stesso protagonista, ritorcendogli contro la legge secondo cui «la scienza della vita sta
nell’oscurare la verità». Perdendo la sincerità, però, Andrea perde anche il «libero dominio» su di
sé, cioè perde, insieme, l’autenticità e la capacità di agire senza ambivalenze, cioè di godere
pienamente i piaceri inseguiti. Egli diviene così una figura a mezza via tra il superuomo e l’inetto,
anticipando altre figure dei romanzi di d’Annunzio, nonché una tematica che diverrà centra-le, ma
con ben altra profondità e consapevolezza, nella narrativa novecentesca. L’esaltazione dei valori
aristocratici sui quali si fonda la formazione culturale e umana del protagonista è fin dal principio
legata strettamente alla discendenza da una famiglia nobile, di antica origine. Gli strumenti per
costruire la raffinatezza di Andrea esibiscono il segno del privilegio economico e sociale: la
possibilità di compiere buone letture con la sola guida dell’ambiente famigliare, i viaggi
interminabili per l’Europa ecc. D’altra parte l’ideologia antidemocratica che è alla base di questa
raffigurazione emerge esplicitamente nelle righe iniziali del brano, dove il «grigio diluvio
democratico» è indicato quale causa di una degradazione generale che, tra le altre cose, rischia di
colpire anche la persistenza di famiglie come quella del protagonista.

I PASTORI BRANO
La struttura ritmico-sintattica presenta due momenti distinti: il primo relativo alla descrizione della
partenza e del viaggio dei pastori dai monti verso la pianura, il secondo relativo all’arrivo sul mare.
Il primo momento è caratterizzato da un andamento lento e ampio, con periodi che si stendono su
due versi o su tre o perfino su quattro. Il secondo momento è invece scandito da periodi brevi. In
questo modo si esprime, a livello formale, lo stacco tra due situazioni di paesaggio diverse,
corrispondenti a due atteggiamenti psicologici, di familiarità l’uno, di estraneità l’altro. Si tratta di
un salto solamente implicito, suggerito, a livello semantico, dall’aggettivo «esuli». In questo
passaggio da una natura familiare a una condizione di esilio e di distacco si riconosce infine il
destino stesso del poeta, nel momento in cui, volgendo l’avventura alcionia al suo termine, il
recupero del mito panico si è rivelato impossibile. Posto nella zona conclusiva del libro, questo
testo è il primo dei sette Sogni di terre lontane. Essi rappresentano il tentativo di evadere dal
malinconico declinare dell’estate versiliese spostandosi con la fantasia in luoghi dove settembre sia
piacevole. Si tratta di luoghi, come qui l’Abruzzo, irraggiungibili per il poeta: il quale può così
disegnare su di essi il proprio bisogno di pace, caricandoli della propria nostalgia del mito. La
descrizione della transumanza provoca nel poeta nostalgia e rimpianto, espliciti nell’interrogazione
dell’ultimo verso, impliciti nel tono ispirato e malinconico della lirica.

IL TRIONFO DELLA MORTE


Nel Trionfo della morte (1894) si nota una consapevolezza della crisi, accompagnata da momenti di
autoanalisi con spirito autocritico. La vicenda: Il protagonista è un fratello ideale dell'Andrea
Sperelli del “Piacere”. Giorgio Aurispa, discendente da antica famiglia abruzzese, è da due anni
l'amante di Ippolita Sanzio. La vicenda si apre con il racconto di una passeggiata dei due al Pincio,
a Roma, che viene oscurata dal suicidio di un passante che si getta nel vuoto. Durante una breve
separazione dei due amanti, Giorgio torna nel paese natale e riprende i contatti con la famiglia. A
questo punto emerge il lato oscuro della sua famiglia: il padre tradisce la moglie e sperpera i propri
averi con le amanti, con la complicità dell'altro figlio; uno zio, di cui Giorgio è stato l'erede, si è
ucciso. Questa figura ossessiona la psicologia sensibile di Giorgio, che riprende sempre più
insoddisfatto la relazione con Ippolita. L'idea della morte lo perseguita, finché decide di lasciare che
la tragica eredità familiare faccia il suo inesorabile corso, e si getta da una scogliera tenendo stretta
tra le braccia la riluttante ma impotente Ippolita. Anche in questo romanzo non manca l'influenza
del modello naturalistico, ma il protagonista ha anche caratteristiche raffinate ed estetiche, simili a
quelle di Andrea Sperelli, che rappresentano la cultura del Decadentismo. Si avverte inoltre
l'influsso della lettura di Nietzsche. Tuttavia, l'identificazione nel superuomo di Nietzsche non basta
a Giorgio Aurispa per sottrarsi al proprio destino di fallimento, che è segnato dalla sua eredità
genetica e riflette la crisi degli intellettuali di fine Ottocento. Proprio in questo fallimento, però,
consiste l'interesse del romanzo: il contrasto fra affermazione dell'io e sua incapacità preannuncia
uno dei temi fondamentali del Novecento.

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