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UOMINI, DONNE, GHIACCIO E LIME.

INTRODUZIONE FREDDA Le donne: chi sono le donne? Dove le ho viste per la prima volta o per lultima, in quali citt, in quante forme, avvolte in quali abiti? Che cosa so di loro oltre al fatto accettabile che io le riconosca come altro dagli uomini, altro dalle pagine scritte, dalle bugie sullamore, dalle certezze sfoderate dagli insicuri manuali sul sesso senza problemi o dagli sterili test stampati fra i gossip estivi e compilati con totale noia da sdraiati, sulle spiagge svendute ai nuovi amanti dellera della nevrosi? Non so rispondere, ma quella sera, mentre ti aggiustavi le calze prima di uscire dalla nostra casa e ridevi la risata dellamore, ho iniziato a capire qualcosa delle donne, perch cercavo grandi risposte, quando poi, nel gesto minimo di sfiorarti le cosce per sentire se le tue gambe fossero ben fasciate dai collant, sapevi perfettamente che io ti stavo osservando, in diagonale, discreto e che non farti pi uscire da quella porta, e farlo in piedi appoggiandoti alla sottile separazione blindata tra il nostro dentro e il fuori di tutti, era il risultato che volevi, che ti aspettavi da me. Ma tu eri la donna di carne e sapevi che non avevo scampo, che non avrei detto no, che ero niente di pi che un intreccio muscolare involontario e vulnerabile alla tua pelle fango, dove non mi sarei salvato, affondato nel nostro cerchio di braccia. E la casa era vuota, il giorno era uguale alla casa e la notte ci asciugava il sudore mentre io continuavo a farmi le stesse stupide domande su di te e sulle donne, forse perch
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ero sensibile allossessione o forse perch qualcosa tra di noi non poteva esistere se non mediato dai nostri corpi, un uso ed abuso continuo della nostra biologia cellulare, lanalisi sensuale della nostra fisiologia destinata al miscuglio, al disordine delle idee in cambio dellordine delle nostre cadenze ritmiche dettate dagli amplessi. E chi eravamo noi se non un gi visto patetico, una psoriasi sullepidermide della socio-cultura, un abbozzo di comprensione, un essere uniti fino allorgasmo e separati fino a quello successivo.

BRIGIDA Sdraiato dopo la notte, rivolto al sole nascente in ascesa dietro lalluminio anodizzato della finestra, ti osservavo a occhi semichiusi e appiccicati dalle poche ore di sonno, mentre ti aggiustavi piano le calze autoreggenti infilando la mano tra la fodera e lo spacco di una corta gonna blu gessata. Ti preparavi per il cda, quella specie di cerimonia massonica che prendevi terribilmente sul serio e della quale mi parlavi sempre con enfasi, come se si trattasse di un magico evento arturiano di una leggenda fantasy. Ma quella mattina mi venne lidea di misurare la forza della nostra passione. Erano trascorsi venti minuti da quando avevi iniziato a vestirti con tutta la sapienza di una donna ai vertici della sua carriera. Davanti allo specchio del bagno che mi scagliava manciate di fotoni dispettosi negli occhi, ti eri esercitata con il trucco a mutare la tua maschera di muscoli sottocutanei, intorno agli zigomi e alle tue labbra, stirando lepidermide verso la perfezione di una creazione di cera. Ti eri acconciata i capelli in modo da occultarli tra le mani in un bozzolo di seta scura dietro la nuca, sfruttando tutta la tua abilit dillusionista. Ma, quando si tratt di infilarti le scarpe, quelle nere che allacciavi alle caviglie con quel fare da ballerina di charleston che ti rendeva cos diversa dalle solite virago in cerca di prede maschie da sbranare, io ti tesi il tranello.

Le facevo dondolare dalla mia mano destra, seduto sul letto con un mezzo sorriso che mi cambiava il volto in un birbante affettuoso. Avevi portato le tue mani sui fianchi e le tue unghie smaltate di rosa antico graffiavano la camicia di seta bianca aperta sul tuo seno come una ferita di un ghiacciaio che lasciava libera una lingua calda di terra scura. Eri freneticamente bella, perch sentivo la tua fretta lottare con il tuo desiderio di giocare con me ancora cinque minuti. Ma il cda era cos inevitabile, come lo erano le sue luci artificiali sopra al lungo tavolo circondato dai cavalieri dellapocalisse finanziaria e lo era anche la mia passione per te, come lo erano le tue gambe prive di tacchi e la mia voglia di averle tra le mie in un infinito lenzuolo, in un letto senza uscite di sicurezza, senza sveglie ai suoi bordi, senza stanza intorno, solo altare bianco di un rito erotico privo di scopo. Il gioco era tutto l: dovevi prendere le tue scarpe griffate. I minuti passavano e tu eri gi colma dinsofferenza ed io accusavo un intenso colpo al cuore pensando che avrei perso la partita, perch ero un debole uomo innamorato di una forte donna fedele ad oltranza alla sua deontologia professionale. Lordine che rappresentavi con le tue mani sui fianchi e il tuo logos tra le sopracciglia minime, schiacciavano i miei tentativi di sfoderarti il mio migliore caos primordiale in agguato e nascosto tra i miei muscoli addominali, nutrito dal desiderio di rubarti tutto il tuo tempo, lintero futuro immediato che ti apprestavi a rincorrere tra i grattacieli.
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Io gettati unocchiata alla finestra aperta mentre continuavo a tenere lontane le tue mani dalle scarpe e accortomi che ormai non potevo pi resistere ai tuoi assalti, le feci volare gi dal trentesimo piano, in bocca al serpente giallo dei taxi che strisciava lento verso il centro della citt. Pensai immediatamente allo smalto delle tue unghie sulla mia faccia, chiusi gli occhi aspettando un tuono d'insulti dalla tua bocca. Mi schiacciai forte gli indici nelle orecchie e attesi in un perfetto brusio interiore la fine del nostro amore. Quando le riaprii insieme alle palpebre eri in ginocchio per terra che ridevi a crepapelle: mi avevi evidentemente perdonato. In realt mi ero illuso che la passione avesse trionfato, perch ci che ci aveva salvato da una volgare tragediucola sentimentale, erano state le tue scarpe griffate finite in testa al direttore generale al quale, quella stessa mattina, avresti dovuto esporre le tue perfette teorie di marketing. Il caso volle che passasse proprio trenta piani sotto la nostra puerile kermesse: il caso appunto, non la mia fortuna.

FLORES Sapevi sempre cosa volere e cosa no, quando ti avvicinavi e mordevi il tuo labbro inferiore ed esordivi con interrogazioni come: Se dovessi andarmene ora, qui, su due piedi, cosa faresti? e approfittavi del mio corpo finito nei tuoi occhi e del tuo nei miei. Non mi potevi certo sembrare meno bella malgrado pi crudele e i miei segni di debolezza, come linsistente cercarti con le labbra il collo, la dicevano lunga sulla mia vulnerabilit. Ma quellaltra volta, che in piedi sopra il nostro letto cinguettavi la Carmen mostrandoti indifferente alla mia eccitazione, confessandomi che te la stavi facendo con un cretino di mia illustre conoscenza, non resistei alla tentazione di schiaffeggiarti. Tu eres maldito, pero tu me gusta lo mismo. Ti eri stracciata il rossetto sul polso insultandomi in un pessimo spagnolo. Flores, cattiva attricetta over quaranta, piena di fronzoli per il cervello, discreta ballerina di flamenco imparato dopo il lavoro. Sostenevi di essere iberica fino al midollo, anche se la Spagna lavevi vista soltanto nei documentari; di positivo, giusto ricordare che non ti eri ancora data al bisturi, ma a chi del bisturi aveva fatto una professione. Facevi lassistente alla poltrona del mio dentista, quello stupido che mi aveva staccato il settimo molare superiore, quello sano, accanto al dente del giudizio che al contrario mi deformava la faccia con il suo ascesso insopportabile.
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Tu mi tenevi la garza sotto la lingua e premevi laspiratore perch non lo risputassi. Un meraviglioso incontro, con il tuo seno che mimmaginavo ben separato sulle tue costole, dietro alla divisa bianca, fino a quando non mi accorsi che il cretino mi aveva appena estratto il dente buono, perch guardava lo stesso seno che ammiravo anchio da unangolazione anestetica. Lo vidi arrossire, mandarti via con un bisbiglio, sedersi accanto a me, ma io lo interruppi immediatamente risparmiandogli le ciance giustificatrici, domandandogli se la laurea lavesse presa per corrispondenza. La cosa che mi fece pi strizzare i nervi fu quando cerc di convincermi che il dente buono presentava un inizio di carie che presto lavrebbe eroso integralmente. Vede qui la corona? e qua lo smalto? e qua sotto la radice. E giustamente, visto che io non ero altro che il paziente profano in materia, non mi rest che chiedergli se aveva un buon avvocato e unassicurazione, perch altrimenti sarei uscito fuori nella sala daspetto gremita di ignari stupidi pazienti immersi in odontofobie o magazine rivoltanti e rivoltati, urlando lincompetenza del loro dentista. La storia non fin cos, perch ci pensasti tu a metterci una pietra sopra, o meglio ti ci mettesti tutta tu sopra limbecille, estorcendogli incontro dopo incontro il mio risarcimento danni. Nel frattempo venivi a letto con me perch lui non si decideva a mollare la cornuta dottoressa, odontoiatra anche lei, praticante nello stesso studio del compiacente
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marito e quel giorno che ti schiaffeggiai cera pi di un motivo per lasciarti e non per essere lasciato da te. A parte i soldi che mi volevi dare e che eventualmente mi avrebbero ripagato limpianto, mi avevi detto che, comunque fossero finite le cose, lui non lavresti lasciato. La mia vendetta fu forse troppo dura, ma non seppi mai che espressione ti sirrigid sul volto quel giorno che dovevi farti estrarre anche tu il dente del giudizio, quel giorno che limbecille non era presente in studio per un contrattempo e che sua moglie fu pi che contenta di sostituire dopo aver saputo da me della tua tresca con lui. Anche se ti cav il dente buono non reclamasti, sapevi di aver pagato il giusto prezzo ed io avevo pareggiato i conti con te. Cincontrammo un anno dopo, tu stavi ancora con lui ed io con sua moglie: ci eravamo guadagnati entrambi due impianti gratuiti.

GODEL

Dio non morto, si solo assentato. Questo pensava lo scienziato scettico, ne era certo. Il suo ateismo professionale non era cos penetrato a fondo nel suo tessuto cerebrale da stordirlo al punto di non ammettere del tutto l esistenza del Creatore. Probabilmente, seguitava ad elucubrare con se stesso, si era appartato in qualche singolarit nuda (buco nero), in un letargo siderale, affine a quello che provoc in certi mammiferi terrestri. Chiss per quanto tempo ancora si sarebbe crogiolato in quel sonno. No, si era lasciato alle spalle il nostro cosmo, la nostra inutile esistenza tra una glaciazione e l altra, per riprovarci in un universo parallelo, giusto per tenere fede alla nuova ed eterna alleanza che gli impediva di gettarci addosso un nuovo diluvio, limitando fortemente il suo arsenale punitivo. Intanto il telecomando stava adagiato nella coppa della mano destra della sua mano e alla domanda del telequiz, chi scrisse la Summa Teologica, un gruppo di cellule neuronali del suo lobo prefrontale sinistro, formularono, connettendosi alla velocit della luce con il lobo temporale dello stesso lato, il nome di Tommaso dAquino. Fu solo una risposta mentale che lambiva il baratro del sonno che le onde lunghe dell encefalo stavano per stimolare coadiuvate da una lieve tempesta ormonale. Si alz dal divano, bianco come una nebbia umana poco consistente, finendo quel che rimaneva della sostanza alcolica stesa sul fondo di un bicchiere.
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La musica cupa che lo colp dietro le spalle, sottolineava in stile bachiano che la risposta del concorrente era clamorosamente errata. Come aveva potuto confondere Agostino con Tommaso? L uomo semiaddormentato oscill attraversando l ambiente living che lo circondava, proteggendolo dai rumori febbricitanti del sabato sera che dalla strada salivano rimbalzando istericamente e falsamente gaudiosi sulle imposte gi chiuse. Sent parlare e respirare pesantemente dalla camera da letto, percep queste parole: Voglio morire, voglio finire, ti prego fammi andare, non trattenermi pi con te. Le registr come si registra un comune vociferare in una sala d attesa di un dentista, si vers un abbondante dose di wisky nel bicchiere e si diresse in camera: pass oltre la porta nel momento in cui un ragno tesseva la sua tela bavosa. Clarissa, ma avrebbe ancora potuto chiamarla Godel, era in preda ad una forte dose di antidepressivo: il roipnol l aveva scaraventata, senza nessun rispetto per i suoi cicli circadiani, in un viaggio onirico che avrebbe dovuto, per almeno dieci ore, pacificare i suoi sensi prima del sorgere di una nuova terribile giornata, passata a contemplare l intera met inferiore del suo corpo completamente paralizzata. L aveva conosciuta in un locale di lap-dance; lei ci lavorava per pagarsi l universit, lui ci andava per non pensare e contemplare le pi belle gambe che avesse mai visto. Godel era il suo nome d arte, era la regina di quello scadente locale dal patetico nome di Cyberose, che forse
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voleva significare un armonia tutt altro che erotica tra cibernetica e botanica. La statuaria donna stava per terminare la sua tesi sulla psicologia della devianza, poi avrebbe smesso di appiccicarsi su quel palo metallico, unta di paraffina e stanca di autoerotismo e falsi ammicamenti sparpagliati negli occhi di ridicoli avventori come lui. Li fece incontrare la noia per la vita, li costrinse ad amarsi per non rischiare di odiarsi oltre, intrappolati com erano nell involucro impermeabile della loro coscienza, figlia legittima del loro assurdo tempo sociale, un tempo di discontinuit mentale e disfacimento etico adatto ad un mondo incolore privo di ogni purezza, saturo di umanit. Un ingegnere dei sistemi complessi, quale lui era, poteva deporre la ragione per scivolare tra le cosce di un aspirante psicobiologa, alle prese con lo studio della personalit criminale? Il loro amore li devi, li rese fluidi, li ricompose come se la loro consistenza non fosse altro che una gelatina o della plastilina sensibile alle alte temperature della passione. Erano entrambi atei e di questo non avevano bisogno di parlare mai, non era in discussione la loro fede nel nulla eterno, fino a quando il destino percorse la loro strada in contromano, un destino da sei cilindri e duecento cavalli motore, nero come l abito sdrucito della vecchia canaglia ossuta che aspetta ghignando dietro le spalle di tutti i mortali. Accadde un sabato sera come quello e tutto ci che rimase di Godel fu Clarissa, finita nelle secche della vita e nelle budella della sfortuna, una sagoma che tingeva di blu
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oltremare il buio della stanza e il materasso antidecubito che accoglieva la sua ombra. Uno stereo a tutto volume strillava Like a Virgin e la vita dava sempre l impressione di dover continuare all infinito; era quella la sua grande abilit. Lo scienziato scettico, il suo uomo, le sedeva accanto mezzo ubriaco, in parte confortato da uno sfondo onirico che si stava delineando sulle sue retine reticenti alla fase rem, che non tard a farsi avanti. Sogn per alcuni minuti ipnotizzato dalla voce di lei che non smetteva di chiedere al Dio nel quale non aveva mai creduto la fine del suo supplizio. Lo sfondo divent una distesa di sabbia, le onde la bagnavano e depositavano orme invece che alghe. Era sicuro che quelle impronte erano di Godel, la fantastica tentatrice, le gambe pi belle del mondo. Corse su quella spiaggia seguendo i passi di danza che la sua donna aveva seminato dietro di s. Corse l ora del fuoco e degli altri elementi fino a quando non inciamp su di un manichino che non doveva trovarsi in quel sogno, forse in un incubo, ma non l. Cadde, ma la sabbia non lo ferm; si apr un nero cerchio sotto di lui e ci precipit dentro senza peso afferrando il manichino per una mano. La sua caduta sembrava interminabile come quella che sub Lucifero all inizio dei tempi; la mano di plastica che stringeva era l unica sensazione calda in un buio algido. Poi la mano inanimata prese a muoversi e come una strana metamorfosi lui si trov a baciare il volto finto di Godel.

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Preda di una eccitazione che non aveva pi provato, l abbracci con veemenza e la tocc come un musicista insiste freneticamente su di un infinito pianoforte. Tutto avvenne nell arco di un insostenible caduta, come un miracolo inaspettato ma tanto atteso, perch le sue mani sentirono la forma degli arti inferiori di Godel riapparire da quelle sabbie mobili nelle quali erano state risucchiate. Le sue dita percepirono una pelle tesa che avvolgeva muscoli turgidi privi d imperfezione: Dio esiste!! grid nel sogno, cos forte che la caduta s interruppe e lui e Godel si ritrovarono abbracciati sulla sabbia accarezzati da una spuma calda che sfiorava le sua mano nascosta nella nuova vita tra le gambe di lei. Si svegli malgrado una parte di s tentava di non farlo, si dest perch non era ancora morto, ma avrebbe voluto esserlo quando ritrasse la sua mano dalla pozza di urina tra le esili cosce di Clarissa.

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HYPERDONNA Avevi le fattezze del cristallo, le movenze del titanio, i pensieri logici di una creatura plasmata dai test di psicanalisi avidamente compilati sulle riviste di gossip o di buona salute. Non mi vedevi se non con uno sguardo bionico, preso a prestito dalle pi forti eroine dei mondi virtuali, creati da programmatori ridotti a sfogare il proprio testosterone sui circuiti di rame di involuti nano-chip sessuali. Eppure non saltavi gi da un palazzo di vetro alto seicento metri senza romperti losso del collo, non riuscivi ad evitare di ferirti con il coltello da cucina, non riuscivi a deviare le pallottole pi veloci e devastanti, non sapevi impugnare una katana per poi rotearla con labilit di una femmina occidentale sadica e vendicativa vestita di isoprene giallo. Facevi finta di essere immortale, ma ti dimostravi un essere sgraziato, dalla taglia sentimentale ridotta quanto i tuoi fianchi e il tuo peso, ad un numero sempre pi piccolo, per riuscire nella tua trasformazione in una donna invisibile, inafferrabile, invincibile. Se avessi potuto assumere in te la forza muscolare di un titano, lo sguardo duro di un eroe olimpico, la bellezza esotica di una amazzone solitaria e votata alla guerra costante contro il maschio, lavresti fatto, avresti assunto su di te e in te, il destino di una guerriera che cavalca la storia, che cavalca un puro sangue, che crede in una crociata senza fine per rivendicare la grandezza del suo unico Dio, adulatore, buono, consolatore, Narciso.
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Cerano specchi ovunque dove poterti amare, oggetti da desiderare, luoghi che premiassero la tua infedelt allo slancio disinteressato. Cerano solo occhi e da quelli ti sentivi sempre osservata e per questo ti difendevi con le armi bizzarre dei supereroi, la bellezza ad oltranza, lo sguardo fintamente intelligente, gli occhi tristi per un occasione triste, vacui per un party alla noia, le labbra carnose, gli zigomi alti e turgidi, i denti bianchi, gli abiti di plastica attillati, il ventre esposto allo smog, le tue idee, idee prese a prestito, i tuoi pensieri, quelli di qualcun altro, il tuo disinteresse totale per le fonti, il tuo unico interesse, la forma. Recitavi bene, sentivi che essere una grande attrice senza aver frequentato accademie, era possibile in ogni ambiente, perch eri una donna camaleonte, e con le tue simili donne rettile, mostravi la lingua sibilante e guizzante per aggredire le tue tante nemiche e le tue false amiche di cui ti circondavi con la scusa di essere estremamente sociale e non destare sospetti sulla tua misoginia profonda. Non farsi scoprire era la difficolt del tuo agire. Mutare pelle, adattarsi, cambiare percorso spesso, non per volont, ma per vedere cosa succede di speciale, per non sentirsi dare della banale o della donna priva diniziativa, poco moderna, poco responsabile, poco schic, poco solare, poco vera. Io credevo di essere stato scelto e di averti scelto. Io credevo, ma in realt ho scoperto di non essere stato che un idiota, manipolato dai tuoi arcani poteri superficiali, di una superficiale technogirl dei fumetti.
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Per renderti finalmente reale e genuina mi sono finto morto, e talmente eri istupidita dal ruolo che ti eri appiccicato dalle sopracciglia alle unghie finte dei tuoi piedi, ci avevi creduto, piangendo come si deve, solo che eri in cattiva compagnia, in compagnia di te stessa, una te stessa demergenza, priva di spessore, di anima, priva di vero dolore per la mia scomparsa. Cos ti recasti in banca per esercitare e prelevare lunico interesse che avevi, addolorata pi che mai. Ti dissero che qualcosa ti avevo lasciato nella cassetta di sicurezza. Quando lapristi, sola nella stanzetta, senza occhi che guardassero quanto eri falsa, ci trovasti lunica cosa che ti rappresentava per quella che eri: uno sghembo poligono di specchio.

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UN ISTERICA CON DUE BARBONCINI

il dubbio che genera l intuito, mentre la rapidit con cui si affermano i nuovi inconsistenti miti, la cui durata pi breve dello schiudersi di un fiore notturno al plenilunio, genera stupidit infinita, vuoto mentale. possibile commettere unidiozia vantandosene per leternit? Certo che possibile, anzi auspicabile, come uccidere il vicino di casa dopo aver studiato un piano meticoloso correlato dall appendice B, nel caso qualcosa andasse storto. Non avete mai pianificato l omicidio del vostro vicino di casa? Un parricidio, un matricidio, un uxoricidio, un infanticidio? ora di pensarci seriamente, non sto affatto scherzando, ora di liberare unenergia che i modelli culturali, in un ininterrota catena di dogmi pi o meno efficaci, per troppo tempo hanno ridotto a una leggera scossa elettrica tra le scapole, sulle mani, per degenerare in astrazioni, allucinazioni, fantasie morbose, che non hanno avuto seguito, che si son lasciate plagiare da sogni irrealizzabili, a torto definiti dalla psicanalisi, istinto di morte: thanatos, per i pi colti. Male, molto male non aver realizzato simili pensieri o averli accantonati con unalzata di spalle o un sorrisetto ironico davanti a uno specchio, mentre vi contemplavate sgocciolanti d acqua gelata al risveglio da un brutto incubo che vi aveva visto protagonisti di un assassinio in piena regola.
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Morfeus vi aveva messo in una mano un grosso strumento di morte, un affilata lama dacciaio e dall altra serravate nel pugno i lunghi capelli neri di vostra moglie e appesa a quelli, la sua testa mozzata e sgocciolante di sangue scuro. Non bisogna lasciarsi andare a unira incontrollata, perch il principio della semplicit viene inesorabilmente fatto a pezzi da un sistema nervoso troppo fragile: il vostro. Non occorre essere dei mostri per uccidere, in verit, per come stanno le cose nel mondo, siamo tutti dei potenziali omicidi, abbiamo una vocazione , direi un orientamento congenito all assassinio. Prendiamo lesempio del cancro, calza a pennello. In fondo che cos una terapia, allopatica o olistica che sia, se non una guerra chimica combattuta contro le forze del male che vogliono impossessarsi dei nostri corpi? E le erbe cattive in un campo di grano o gli insetti infestanti? Il problema metterci daccordo su cos buono e degno di continuare a riprodursi e vivere e ci che non rientra in questa definizione. Non prendete alla leggera tutto questo, tremendamente serio comprendere ci che bene e ci che male e non pensiate che sia stato raggiunto un verdetto finale. Credetemi, la vulnerabilit della nostra carne ci fa terrore e se non ci intimidisce e ci votiamo alla cosdetta incoscienza, solo per dimostrare di non aver paura di perdere definitivamente le nostre spoglie mortali. un giochino che funziona bene, io non ho paura, un gioco infantile praticato alla nausea almeno da quando l uomo quasi sapiens perch integralmente non lo stato
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mai, tenta di arrivarci - un gioco che ha dei vincitori e dei vinti, coraggiosi e codardi: il resto vanagloria. Poi, i vinti, i deboli, i vigliacchi, i pusillanime, si sono inventati il coraggio al contrario, quello passivo, quello del porgi l altra guancia, della non violenza ad oltranza, alla quale pochi si conformano con vero spirito rinunciatario. Abolita la caccia, si pratica la macelleria intensiva, abolita la guerra nel primo mondo, la si pratica negli altri due e si fa fare il lavoro sporco ai professionisti, ai ministeri della difesa, nei quali sinsediano illustri personaggi, laureati in strategia militare e di negoziazione, rotti a tutto, che sanno minacciare con diplomazia, ricattare sul filo della democrazia e del politicamente corretto, ricevendo applausi dagli altri illustri attori guerrafondai del pianeta. E allora? Appunto; e allora di che cosa stiamo parlando? DI UCCIDERE CON LE PROPRIE MANI!!! Niente pi difficile della semplicit; torno a ripetere. Uccidere un esercizio che non va preso alla leggera, uccidere non come estrema ratio, ma come appagante senso della propria esistenza personale che fa acqua da tutte le parti. Il contrario immolarsi, suicidarsi, sacrificarsi, crocifiggersi, autoeliminarsi. Non sto parlando di diventare un killer: quello un lavoro a tempo pieno, un contratto con un mandante, non nobile, mercenario. Intendo uccidere come attivit extraprofessionale, quasi ludica, un hobby, un passatempo, come la caccia, solo che la caccia non conduce alle conseguenze morali dell
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omicidio e per quanto sia condannata dalla societ civile, comunque tollerata, sottoposta a leggi che ne limitano di fatto lesercizio nelle forme e nei modi prestabiliti. Se si capaci di stare al gioco delle leggi, facile dar fuoco ale polveri e far strage di quaglie, lepri e cinghiali, cercando di fare un po di attenzione alle specie in via di estinzione, e se cade un tenero orsacchiotto, si pu sempre sostenere di aver mirato fra i rami in direzione di un fruscio, senza intenzioni malvagie. A questo servirebbero le guardie forestali, a controllare quel tipo di azioni in mezzo al verde pi totale, mentre l omicidio unaltra storia, per praticarlo non occorre altro che preparazione, concentrazione, freddezza e decisione. Il campo totalmente sgombro, la pratica si pu svolgere liberamente senza impedimento alcuno, senza controllo. Il freno inibitorio soltanto dentro di noi, lo abbiamo interiorizzato e liberarcene non cos semplice come pensate. facile sostenere di essere in grado di uccidere qualcuno, ma decisamente complicato trovare la forza interiore per farlo. Uccidere un atto liberatorio, fa parte della struttura antropologica dell uomo, inevitabile come bere e mangiare. Non si pu pensare che sia sufficiente essere vegani per non essere complici di qualche orribile distruzione animale o umana. Il percorso a ritroso del riso integrale dal piatto alla risaia, dove stato coltivato, disseminato di miliardi di esseri morti, forme di vita biologica che hanno permesso il sollazzo moral-gastrico di un vegetariano.
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Se sintendeva questo per la pratica dellAhymsa, come ci fu tramandata dai saggi indiani, qualcosa non andato per il verso giusto. Che lo sappiano tutti i frugivori della terra: i due terzi dei vegetali che digerite nei vostri puri stomaci, hanno alle spalle storie di violenze inaudite, talmente orribili, che vi farebbero rigettare tutto allistante. Non volevo urtare la vostra ecologica sensibilit, non ho ancora appreso fino in fondo la teoria e la pratica del cinismo all ennesima sfrontatezza. Vi consiglio vivamente la lettura istruttiva della storia della patata, dello zucchero di canna, del tabacco o del caff e di tutte quelle spezie che in Borsa si giocano e vanno sotto il nome di Coloniali. In breve, ritornando sullargomento uccidere, occorrer fare una premessa: bisogner documentarsi e prendere ispirazione dai grandi del passato e vestire i panni degli umili e mansueti discepoli. Non saranno di certo i romanzi neri o gialli ad ispirarci, ma le biografie reali, degli assassini pi spietati, ma soprattutto pi intelligenti. Meglio abbeverarsi alla fonte di alta montagna che alle pozze fangose di pianura. Purezza, cristalline informazioni, dati chiari su cui lavorare, riflettere e condurre una meticolosa ricerca. Mio malgrado, trovandomi nella posizione di chi ha molto tempo da perdere e un odio viscerale per linquilina del piano di sopra, ho cercato di praticare l arte dell omicidio.

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Listerica donnetta, scialba alleccesso, ora concime per le piante del mio terrazzo, dopo essersi decomposto rapidamente nella mia compostiera. Il rovescio della medaglia, perch anche questa storia ha una faccia nascosta, che mi sono preso cura dei suoi odiosi cani soltanto per far sparire le sue ossa. Le rose sono rinvigorite, le ortensie gioiscono alla luce della primavera; Chen, il cuoco cinese, aspetta con ansia di cucinare i miei pelosi ospiti, spacciandoli per vitello alla piastra, ma mi sono affezionato a loro e proprio non ci riesco a farli fuori.

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KU
F. fece un ultimo tentativo prima di congedarsi definitivamente dalla societ anonima di cui faceva parte .

Voleva creare un luogo di assoluto silenzio nel suo bilocale, quel silenzio che mai era riuscito a realizzare a causa della presenza assordante di Sabrina. F. era pavido, nevrotico, suscettibile a dismisura, farcito d informazioni come un brutto tacchino d arrostire, consumato fino al midollo e quindi stanco di vivere una vita da ultimo della fila. Era sorto in lui un desiderio beckettiano di spogliarsi nudo e di legarsi su di una poltrona nel centro della cucina, con un tavolino al suo fianco sul quale avrebbe posato il telefono cellulare. Era un desiderio scaturito da troppe letture assurde, inconcludenti, che non si addicevano ad un uomo di quarant anni che gi da un pezzo avrebbe dovuto addentare la grande mela erotico-pubblicitaria che i media gli offrivano da ogni angolo della citt e che inultilmente Sabrina gli offriva imitando una Eva distorta, come unico collante per una relazione fiacca, eufemismo per disastrosa. Si risolse, dopo aver studiato a fondo le religioni orientali e i mistici cristiani, di tapparsi tra quei fatiscenti muri in affitto per sprofondare in un anodino vuoto di coscienza, molto simile a quello provato dopo gli sporadici orgasmi provati con Sabrina. Sapeva che gli ostacoli erano molti, ma tutti pi o meno sommortabili.
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Aveva passato l intero mese di agosto a insonorizzare le stanze e aveva speso di tasca sua una fortuna per i tripli vetri e le porte a tenuta stagna, a prova di qualsiasi rumore. Il risultato fu al di sopra di ogni sua aspettativa, in particolar modo, dopo aver svuotato tutti gli ambienti di tutto ci che lui considerava superfluo. Si trattenne dal vendere un misero guardaroba, sotitu il letto con un futon e si liber di ogni elettrodomestico. Pag un anno di affitto in anticipo, acquist cibo in scatola a scadenza lunghissima, acqua naturale, mille candele di cera e due sai da francescano che trov ad un mercato delle pulci di provincia. Nulla doveva entrare e nulla doveva uscire dalla sua spoglia abitazione. Si licenzi dallo schifoso posto di lavoro che lo aveva tenuto legato mani e piedi ad una orribile scrivania e ad un antiquato computer. Fu grazie ai soldi della liquidazione che prepar il luogo del silenzio che da sempre aveva cercato. Avrebbe potuto cercarlo in un eremo, in una cattedrale gotica, in vetta al K2, ma F. era ben conscio che luomo sempre in agguato e deturpa il silenzio anche solo con la sua presenza invadente, saccente e in ultima analisa cretina. Si predispose immediatamente alla meditazione, seduto con le gambe incrociate di fronte alla parete bianca sulla quale aveva tracciato una grossa O quale simbolo del ku buddhista.

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Chi lo avesse visto dal piano di sopra avrebbe notato la sua incipiente calvizie che realmente lo accumunava ad un monaco che avesse ricevuto la tonsura. Ma lui non si sottopose a nessun voto: il suo tentativo incerto di liberazione spirituale e di svuotamento del suo ego, decisamente ingombrante - fodera della sua carne che sapeva destinata alla decostruzione ontologica impossibile darrestare- non poteva che essere annoverato tra i sistemi velatamente new-age, pi affini al fai da te che ad una vera ricerca mistica. Poco importava, aveva uno scopo, finalmente qualcosa in cui credere. Si concentr sulla punta del naso socchiudendo le palpebre, incrociando gli occhi, respirando profondamente e ritmicamente, contando a ritroso attendendo la pacificazione totale dei pensieri. Quelli, al contrario, si fecero insistenti e turbinanti e in meno di una manciata di secondi lo condussero nei luoghi di distrazione che solo la mente non allenata al rigoroso silenzio o a estenuanti digiuni non pu evitare. Vide Ges Bambino che compiva miracoli con il fango e abbandonava la casa paterna per dirigersi al tempio e uno psicanalista neofreudiano che cercava di convincere la povera Maria e lo sconcertato Giuseppe, a portarglielo in studio per somministrargli un abbondante dose di ritalin. In quel preciso istante, altri genitori di altri santi della Chiesa chiedevano aiuto all occhialuto scienziato affinch aiutasse anche loro. Allora, lo scienziato, vedendo che la folla s ingrossava, sal su un monte e disse:Beati coloro che crederanno ai farmaci senza leggerne gli effetti collaterali; beati gli
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ultimi nella scala sociale e intellettuale che prenderanno alla lettera ogni fandonia che sar loro propinata, perch saranno i primi ad allungare le loro mani negli scaffali dei centri commerciali; beati i miti e i puri di cuore, perch saranno gli agnelli pasquali da sacrificare al Dio del profitto; beati tutti quelli che si rifugeranno nella psicofarmacologia perch avranno allucinazioni che la legge consentir e che saranno chiamate Regno dei Cieli. F. in preda a quelle visioni gogliardiche, non si accorse che la sua produzione di CO2, anidride carbonica, tipica dei mammiferi e pericolosa nel caso di luoghi ermeticamente chiusi, gli stava procurando aritmie cardiache e respirazione affannata. Erano trascorse molte ore da quando aveva spiegato le ali della sua anima sulla via imperscrutabile del ku. Convinto che gli sarebbero occorsi solamente tre giorni e tre notti, al fine di illuminarsi integralmente, trascur bellamente tutte le nozioni di chimica elementare che aveva appreso nei suoi pochi e infruttuosi anni di liceo ad esempio che la CO2, oltre una certa soglia, un veleno mortale che pu portare alla perdita totale dei sensi, cosa che avvenne all inizio della seconda notte di profonda samadhi. Gli sembr di fluttuare in spazi non euclidei, di ascendere e inabissarsi in strani imbuti rotanti, che gli ricordavano le rappresentazioni a scopo divulgativo dei buchi neri. Ebbe la netta sensazione che qualcuno lo stesse spiando al di l dei fenomeni entottici e degli strani animali semiumani che gli si appressavano sulle retine. In bilico tra il mondo dei vivi e quello dei morti, emerse dalla sua affievolita capacit cognitiva un nocciolo solido
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di coscienza ben radicata nel pragmatismo moderno di cui non si era ancora totalmente liberato: aveva dimenticato di staccare i fili del campanello dell abitazione. Probabilmente fu una infelice premonizione, perch il campanello strill in quell esatto momento, ridestandolo dal sonno al biosssido di carbonio che lo aveva rintronato come una campana di bronzo suonata da uno sdrucito lama tibetano. Si alz barcollando, invaso da un formicolio che s impossess dei suoi piedi, strisciando fastidiosamente fino al centro dei suoi quadricipiti sofferenti. Riusc, in qualche maniera ridicola, a trovare le chiavi che si era trattenuto dal buttare dentro il water e ad aprire la porta. Un vento impetuoso lo spinse all indietro inchiodandogli la schiena sul tatami che ricopriva il pavimento del minuscolo ingresso. Una strana luce da lunapark trafiggeva il cielo; un arpione scintill e si ficc sulla soglia, ancorandosi nel cemento sotto il tappeto di steli di riso. F. si mise a carponi come un bambino che gioca a nascondino, muovendosi cautamente verso la porta spalancata. L arpione era legato ad una fune tesa: F. sbirci oltre la soglia. Una luce dalla forma umana stava lentamente arrampicandosi sul pendio ripidissimo di una montagna della quale non si poteva intravvedere la base e sulla cui sommit si trovava il minimale mondo di F. F. era sconcertato, si sedette a due metri dallarpione e attese che quell essere entrasse nella sua casa.
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Quando vide la mano lucente attaccarsi al pavimento, sussult: poteva anche trattarsi della sua fine. Un gran bel modo di morire pens, mentre nervosamente si mordeva le unghie. Quando la figura si fu completamente eretta sulla soglia, F. cap di trovarsi all inizio del tempo e senza via di scampo. La figura di luce trasse da un ampia manica del suo abito una bianchissima scatola, non pi larga di venti centimetri, ficcandogliela proprio sotto il naso; poi estrasse una volgarissima biro bic e fu in quell istante che F. si sent chiedere:Una firma qui, grazie! Il resto, inutile dirlo, fu soltanto la squallida consapevolezza della richiesta di divorzio di Sabrina.

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LA METAMORFOSI DI LOLA Cera ancora la guerra fredda quando ci baciavamo; i russi e gli americani si odiavano attraverso la cortina di ferro e il muro di Berlino segnava il confine tra lamore narcisistico per l individuo e labnegazione per una instupidita collettivit: cos almeno si diceva o ci veniva raccontato. In fondo, si trattava ancora di un epoca di grandi narrazioni e del numero infinito di creduloni ai quali raccontarle. Ma andava bene cos: si lottava per un credo, per la liberazione o per lavvenire. Nessuno alla lunga aveva ragione, come fu dimostrato un ventennio pi tardi: la gente impazz del tutto e le teorie socio-psicologiche pi moderne avvanzavano ipotesi sul futuro delle masse, senza nessuna certezza sulla loro bont. Ma tu ed io di questo non avevamo sentore e facevamo quello che i ragazzi fanno quando si specchiano addosso il mondo: cercano di nutrirsene con la vana speranza di non saziarsi mai. Indossavamo jeans, indossavamo t-shirt, stavamo dalla parte di chi era contro, contro le centrali nucleari, contro gli armamenti, armati di pace e contestazione. Eravamo convinti, presuntuosi, usavamo espressioni che si chiudevano con un mai o un per sempre: ci amavamo di un amore tutto verde ed ecologico. Tu eri semplicemente Lola, Lola da guardare, Lola sulla spiaggia, Lola all universit, Lola alle riunioni sindacali, Lola l impegnata
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con i libri sotto il seno e la fronte alta. Alle feste si ballava I will survive, si muovevano i piedi e le spalle, ad un ritmo che nel tempo sarebbe divenuto irrefrenabile, mentre da qualche parte nel mondo si continuava a morire per infiniti motivi. Poi arriv uno strano tiranno che si pubblicizzava come buono e giusto e ci proponeva la fine di un era: il consumo di massa. Io e te opponemmo resistenza per un anno, due, tre, ma poi iniziammo a cedere e ci ritrovammo ben presto a canticchiare i Led Zeppelin solo in occasioni ormai neanche pi speciali: eravamo noi due a non essere pi originali, a non essere pi individui, disciolti tra gente che non credeva pi nel radicale cambiamento, ma si attrezzava a divenire una schiatta di volgari mammiferi dadattamento. Ci portavamo dentro gli slogan che non rappresentavano pi nulla se non vecchi graffiti metropolitani, graffi policromi su nuovi muri, su nuove difese, su di una terra sempre pi fredda, incapace di nutrire sogni e aspettative. Il tiranno si faceva forte a dismisura e ci sottraeva il tempo della pace, il tempo della contestazione, il tempo per l incontro, il tempo per parlare, il tempo per pensare. Imparasti come me un nuovo linguaggio, diventavi pi donna, ma un tipo di donna pi affine alla cibernetica, una donna che pensava pensieri spezzettati, che soffriva e gioiva solo in determinate occasioni, anche quelle per niente speciali. Il tiranno ci offriva la finzione, ci offriva il sacro veleno che ci toglieva la vista, che ci rendeva sordi.
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Eppure il mondo era dominio dei nostri sensi: com era possibile? E il muro croll e la tecno imperversava nelle nostre macchine, l alcolismo pure e nel mondo si continuava a morire per i soliti motivi. Noi non ci amavamo pi di un amore ecologico, ma di un surrogato sentimento economico, perch non ci mancasse nulla di quello che il tiranno ci proponeva. A mano mano la tua metamorfosi si fece come incandescente, al punto che tu brillasti di luce riflessa ogni volta che ti specchiavi nelle vetrine del centro e ne coglievi il perfetto taglio dei tuoi nuovi abiti di direttrice di banca. Il telefono che squillava tra noi divenne un prodotto portatile e miniaturizzato, scomparve l ansia di sentirci; il nostro interrogarci si limitava all elenco di numeri sempre pi lunghi e difficili da memorizzare: Amore dettami il codice Iban perch ho i minuti contati e devo firmare un contratto. IT...........25 cifre.Stairway to Heaven.

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MONDO DRINK Amico mio, se ti volevi scolare il mondo come fosse un drink, solo perch Eva ti ha mollato nel bel mezzo della tua alcolica esistenza, potevi evitare di accomodarti al bancone dei perdenti. E non dire che non ti avevo avvertito che avresti dovuto offrire da bere a tutti, per poter poi fare serenamente lo scemo senza nessuna contestazione. Ma quella sera eri particolarmente fortunato, perch un uomo, in un improvviso stato di libert da una donna, in debito dossigeno, boccheggia e quasi non riesce a gestire lo spazio aperto formatosi davanti ai suoi occhi e le opportunit che ne derivano. D' altronde, il blues suonava senza ritegno, le gambe delle donne erano molto interessanti e ti ricordavano l' ultima storia indecente che avevi avuto con la cassiera della pizzeria e per la quale Eva ti aveva rotto il naso. Forse avresti dovuto portarti dietro un sax tenore, per quella sera, avresti evitato il flash della lampada stroboscopica e un giro di wisky per tutti. Lo so che eri al verde ed era per quel dannato motivo che ti dovevi portare dietro un sax e lasciare perdere la bottiglia e la pattuglia che ti avrebbe fermato di certo per vagabondaggio molesto ed ubriaco. Certo che era una notte blues: una notte come quella pu verificarsi solo ogni cento anni o alla congiunzione di Venere con Giove nel segno dell' Acquario. Per fortuna, al bancone avevi incontrato un giornalista fallito, un avvocato e la sua segretaria, e l' ultima faccia intelligente che circolava a piede libero per la citt, una
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faccia nera, lievemente malinconica, con pochissima voglia di fare battute spiritose, una faccia nera di un essere che non c' entrava un bel niente con quella sera, una specie di convitato di pietra afroamericano che avrebbe potuto benissimo essere un fantasma, se, ogni tanto, non avesse scricchiolato sotto l' avorio della sua smisurata dentatura una patatina fritta. Anche se continuavi a ripetergli che suonavi il sax, non ci credevano per via del tuo alito cattivo. Volevi dimostrarglielo andando a prenderlo; continuavi a sostenere, senza prova alcuna, che lo strumento lo custodivi gelosamente nel baule di una vecchia Chevrolet parcheggiata alla stazione. Non ti credeva nessuno e ti ridevano in faccia. Non credevano neanche che tu gli potessi offrire un giro di invecchiato dodici anni, talmente sembravi invecchiato tu di dodici anni, in quel frangente sincopato all' etanolo. Per fortuna che, le donne, quando sono sciocche, sanno tirare su il morale a chiunque, e la segretaria dell' avvocato, avvezza a portare gonne molto corte, ti disse con tutta soavit:"Facci un pezzo jazz con la bocca". Ridere di buon gusto fa sempre molto bene al sistema cardiovascolare, a meno che tu non abbia degli orribili denti che forse sarebbe meglio non mostrare se non in presenza di un bravo odontoiatra. Ti ficcasti in bocca due dita e fischiasti con tutto il fiato alcolico che avevi: ne venne fuori una strana sonorit, vagamente Coltrane, un sibilo pernacchioso che fece girare tutte le teste, incandescenti di problemi e pensieri futili, sparse per il locale.
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Dopo il momentaneo sgomento, tutti si lasciarono prendere dallo spasso e tu ci guadagnasti una pacca sulla spalla dall' uomo dalla faccia intelligente, che ti consigli di berci ancora sopra per evitare altre imbarazzanti figure. Io ti avevo avvertito. Come poteva andare a parare una serata cos stupida? Elementare: alla ricerca della tua Chevrolet. E dove se no? In quale altro luogo saresti potuto andare con la mente ridotta ad un vuoto a perdere e lo stomaco contorto da una gastrite tutt' altro che passeggera? Fu molto paziente e comprensivo, l' uomo dalla faccia intelligente, anche quando era ormai chiaro che tu non avevi mai suonato un sassofono in vita tua e l' unico hobby che avevi, era trascinarti da un pub all' altro inventandoti una storia di musicista che non eri. Ti diede, come atto di piet, il suo biglietto da visita, forse perch gli stavi simpatico o perch era uscito dall' alcolismo anche lui, in un' altra vita. Solo la mattina seguente, svegliandoti con uno schizzo di sole sulle palpebre, accecato da una brutta emicrania, stranamente ricoperto da grandi e bianche piume di uccello , con il biglietto ancora fra le dita della mano sinistra, leggesti il nome di quella faccia intelligente che, in qualche sobria maniera, ricordavi: Charlie Parker. Forse era davvero giunto il tuo momento, il momento di non giocare pi con la tua vita, il momento di suonare per davvero e di smetterla di bere.

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INCENDIO Parlavamo troppo io e te. Non ce ne rendevamo conto. Chiedevamo che la geometria o gli algoritmi pi complessi entrassero a far parte dellequazione della nostra relazione. Eri una donna ordinata ed io ti assecondavo in certi momenti e in altri abbandonavo i miei gesti come foglie di larice rosso su di un tappeto di pietre in un giardino zen meticolosamente curato dalle tue mani. Il nostro volerci , il nostro desiderarci, seguivano regole precise dalle quali non volevamo sfuggire per timore di ritrovarci luno in faccia allaltro con pezzi di vetro nel cuore, incapaci di estrarli. Era fin troppo facile vivere cos, dividendo ortogonalmente spazi, riproponendo ad ogni nostro desiderio contrario alla nostra simbiosi, una simmetria perfetta. Cos presi ad abbandonare in quegli spazi oggetti strappati alla mia vita, pensieri erotici, sogni assurdi, parole tinte di viola, cerimonie funebri in onore del gi visto e del gi vissuto, gusti mai assaggiati, voli mai azzardati. Tu inciampasti in quei solidi dispersi non pi riconducibili a geometrie euclidee calcolabili, ti facesti male e pretendesti il mio soccorso e improvvisamente mi venne il malsano desiderio di abbandonarti alla possibilit di un tuo nuovo adattamento, di una nostra nuova relazione che non ci coniugava con nessun predicato assoluto.

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Ero sicuro che rifiutando ogni regola tra noi, avremmo sottratto la nostra passione ad ogni scientismo presunto o presumibile. Avremmo potuto schiaffeggiare le teorie sullamore, la psicanalisi delle incertezze, la psichiatria della chimica in compresse, per riconfermare il primato del cuore e del sesso, della terra e delle stelle. Una chimica siderale ci avrebbe forse sanato dal meccanicistico sforzo di stare insieme secondo i canoni della civilt che ci denaturava e sezionava ogni nostro agire, volere e sentire in comode formulette da pseudo alchimisti arroganti convinti dellinopinabilit delle loro ricette? Io odiavo lamore in pillole, odiavo ogni carezza che non fosse emanazione di un flotto di sangue nel cuore, di un segno dallo sguardo, di una tenera vibrazione, di un ritmo non ancora trascritto in toni e note musicali tra le pieghe del tuo corpo ricurvo dentro il mio. Cos decisi di devastare ogni angolo che avevamo sapientemente progettato e realizzato, sfidai il nostro appartenerci perch non ero un eroe e non avevo altri nemici se non te, che pensavi di essere solita e prevedibile per non perdere le mie tracce ma per perdere le tue. Riuscii a farti ritrovare un esile luce di consapevolezza. Fu un momento affogato nella nostra memoria quello schiaffo che mi facesti bruciare sulla faccia e il tenerissimo bacio che ne segu e quel tuo NON SO CHI SEI , MA TI AMO, quando ti accorgesti che avevo bruciato la nostra casa con tutto quello che cera dentro di prezioso e sulla cenere di quel che restava le orchidee che
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avevo piantato ti chiedevano di ricominciare da dove avevamo smarrito la nostra strada: da noi.

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INTERROGATIVO

Strepitare alla finestra lasciando tracce di ptialina sul liquido silicio di un vetro mai pulito: questo potrebbe essere l incipit di una sinfonia quotidiana di un neuropatico alle prese con i solchi della sua vita, costantemente alla ricerca della puntina di diamante per farli suonare in maniera sensata. Il punto interrogativo scivoloso, creato dal suo indice ingiallito dalla nicotina, su quella sudicia trasparenza, al di qua del viscidume sociale strisciante tra i cubi sghembi e metafisici della metropoli aliena, soltanto un segno, un grosso segno vischioso ?, che non significa nulla, neanche un passatempo scoperto per puro caso o per puro divertimento da una mente contorta, stropicciata dalle sue nevrosi sociofobiche. Il segno di domanda cola lentamente e i minuti lo seguono, molli figli di Dal, illegittimi eredi del tempo, la pi demenziale delle invenzioni, la pi insulsa categoria, l ombra sotto l ombra: il sole si sta rodendo il suo cuore infernale e tutto gira e rigira, come un tic satellitare, in orbite sempre pi complesse, in circonvoluzioni affini alla materia cerebrale che scopre se stessa dopo una vivisezione umana. Urlare un re bemolle e spaccare il vetro stirando l ugola come un castrato, dopo che Clotilde ha diffuso i suoi afrori salmastri per la geometria spaziale della mia solitudine folle, usurpatrice della nostra compagnia amorlasciva. Ma che razza di uomo sono o che bestia di donna sei, pelle bianca sopra ossa invisibili, sterminatrice, amazzone
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dedita allo shopping, avanzo femmineo di slogan pubblicitari, dea storpia, figlia stordita dall utopia del Mercato? Il nuovo ciclo delle macchie sul disco d oro di Ra, foriero di sventure bioritmiche e di messaggi cronodendrometrici sottocutanei, mi sputa negli occhi semi d idrogeno carbonizzato. Ci mi rende eliotropico, per cui m incollo con la fronte sulla mia saliva sforzandomi di essere normale, imperituro, presente a me stesso, vigile, risvegliato da una magia erotica penetratami tra le costole, sedimentata come uno strato scuro di carbone sentimentale che mi ha striato in quantit le valvole cardiache. Clotilde, ottusa scimmietta da circo, tette sane, mani come un libro sacro, annunciate dal pentateuco di unghie dalla cheratina sfregiata di corniola, rettile freddo: perch ti ho posseduta arrampicandomi sulla tua inconsistenza, scambiandoti per una cura vegetale o una qualsiasi sostanza dotata di forma propria? La mia fronte ha la consistenza delle sue pieghe, un contatto gelato e appiccicoso con la mia domanda salivare colata sul vetro. Intanto, il postino infila un chilo di stupidit cartacee tra le feritoie delle cassette di metallo;lo guardo sentendomi in equilibrio precario dentro le mie mutande, noncurante del peggio che mi capitato, insensibile, all inizio della primavera, cercando d insultarti con tutti i muscoli, perch no! facendolo in maniera vivaldiana. EQUINOOOZIOOOO!!!

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Un altra invenzione astronomica di dubbia origine,forse sumera, egizia, financo atlantidea, ma che bella idea, far ripartire tutto in beata monotonia. Non ne avevo bisogno, non in quel momento, non il 21 marzo. CLOTILDEEEE!!! Sono sceso in muntande con la fronte sporca, le mani gialle di nicotina, piantandomi pezzi di catrame tra i piedi. Il postino non la smetteva d infilare merda burocratica tra le fessure e io non la smettevo di pensare a quella scema che mi aveva mollato come un nido di sterco e di fango abbandonato da un uccello qualunque nel bel mezzo di un bruttissimo solstizio d inverno. lei S.M.? mi chiese quel coso a strisce fosforescenti. Non che la situazione m imbarazzasse - io in mutande e lui in divisa - anche perch non vedevo la differenza. In fondo lo ammiravo, quel piccolo omuncolo schiavo del sistema, l avrei abbracciato, se solo mi fossi sentito un po pi missionario. Gli avrei potuto confessare, con l ingenuit che contraddistingue un folle o un drogato di ansiolitici, che potevo benissimo non essere io S.M., ma una comparsa di un film di Tarantino, che da un momento all altro sarebbe saltata in aria in uno schizzo di poltiglia sanguinolenta per l intera durata di 240 fotogrammi. Come da copione non dissi nulla e abbassai lo sguardo sul mio ombelico lievemente villoso, scrutando la lettera che faceva da collante tra la mia identit e quella dell omino odioso e falsamente servizievole. Mi presi la missiva e me la ficcai tra lo scroto e l inguine, superai il postino variopinto e mi diressi oltre,
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camminando per due ore, senza che nessuno mi notasse: mi venne il dubbio di essere ancora vivo. In un vasto prato, a volte trafitto da minuscoli fiorellini azzurri, mi sdraiai. Guardai il primo sole di primavera, gli spalancai le pupille ficcandomelo tutto dentro alle retine. Clotilde era un buco nero, io un indeterminata matematica, una specie di foruncolo impreciso in un campo di equazioni che non dicono nulla, che non risolvono un bel niente. S.M. non ero io, era il nostro commercialista, quello del piano di sotto. Frugai tra i testicoli ed estrassi i trenta grammi di carta a lui indirizzati. La busta conteneva un foglio di carta sul quale spiccava un grosso e nero ?. Avevo sbagliato set: il Jocker mi spediva uno stupido indovinello. Pi sotto, con enorme stupore, riconobbi la grafia di Clotilde che scriveva una frase sibillina allo psicocontabile, una frase insulsa, una di quelle che da una donna come lei non mi sarei mai aspettato. Eppure era precisa come un crucco, impeccabile nel vestire, un figurino, un insieme di carne e fandonie ben miscelate, un erotica frigida statua manageriale, una donna di pietra o forse di saggina, buona per scopare, amara nevrotica arrampicatrice sociale. Dovevo capirlo subito che dietro al cascame dei suoi abiti griffati si celava un idiota. Potevo forse seguitare a soffrire e a vagare in mutande dopo aver letto: Come sia che un gallo solo basti a fottere
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cento galline, ma non bastino cento uomini per una donna?

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IL SACCO Vi sono porzioni di cielo che merita osservare, luoghi azzurri, grigi, giallognoli, da dove potrebbe sbucare improvvisamente un oggetto, una coppia dali selvaggia, il ritratto della Madonna o un dirigibile sfuggito alle spire del tempo degli anni 40 del secolo scorso. Una di quelle aree aeree marca langolo a destra in alto dello specchio che mi duplica e ripete meccanicamente ogni mio gesto insistente sulla mia faccia. Sto pensando ai peli che irrompono dai pori della mia pelle, alla loro caparbiet, al fatto naturale che li spinge a voler uscire dall epidermide pur avendo subito per migliaia di volte la sorte del rasoio. Medito sulla mia entrata nella scena del mondo e sulla stupidit dalla quale sono afflitto, perch non ho ancora appreso le conseguenze delle relazioni sociali sul mio organismo e sulla mia mente. Se non fossi un imbecille, non avrei perseguito il desiderio di invischiarmi con la gente, non avrei illuso a tal punto me stesso da considerarmi un banale animale sociale. C erano reti e trappole ovunque, segni inequivocabili di un safari mortale ed io ero una delle prede pi appetibili. Credevo di essere libero di scegliere mentre la mia sagoma di mammifero era sotto tiro. Nel mirino si potevano osservare i miei occhi velati dincoscienza: per il cacciatore, l insensibile carnefice, ero gi carne da macello, trofeo dell inutilit. Sento la ruvidit dell asciugamano strofinare le mie guance glabre, rinfrescate dall acqua fredda e vagamente elettrica.
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Ho bisogno di aria vera da respirare, di un itinerario alla scoperta della solidit del niente oltre il senso civile dei luoghi che mi appaiono sempre pi estranei e ai quali ho dato nome di vie, case, angoli scalcinati, porte automatiche, uffici di rappresentanza, banche, balconi, cassonetti dei rifiuti, turpiloqui e musiche da parrucchieri. Voglio trascinarmi fino allalto ponte e da l sporgermi sull infinito, questa volta stringendo con forza la vita che ho trascorso e lanciarla oltre. Una colonna di formiche lambisce il vetro inerpicandosi sul muro per poi scomparire in una crepa del soffitto: immagino, termini sotto il lavandino di un altro bagno, dove un altro uomo si rade, intento a svelare i misteri della follia animale da cui tutti siamo inconsapevolmente affetti. Continuo a pensare a quel filo di esseri laboriosi e per niente felici della loro entomologica condizione, salire e insinuarsi in un altra fessura di uno sbiadito soffitto afflitto dall umidit, per poi rovesciarsi sotto un ennesimo lavandino, originando una situazione identica a quella che sto vivendo, simile in tutto e per tutto a un mondo frattalico senza conclusione. Abbandono asciugamano, crema al mentolo, certezze e assiomi; mi vesto alla luce della sera, sotto i riflettori di una striscia di sangue che sgorga da una lunga ferita dell orizzonte. Mi affaccio dal dodicesimo e ultimo piano della bara in cemento nella quale passo le mie indolenti giornate: il ponte e l sotto, stirato dal passaggio monotono dei carri funebri e dei pedoni saturi di esigenze, famelici di materia, privi di spirito.
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Dopo dieci minuti di deambulazione ipnotica, sono sul suo dorso a contemplare l acqua grigia cresciuta dopo sei giorni di pioggia che scorre in direzione del mare. Desidero saltare, desidero il dono del coraggio e invoco un dio che me lo porga dal cielo che trascolora in notte. Sopra l altro parapetto dietro le mie spalle scorgo un sacco di pelle nera. un oggetto inquietante che attira tutta la mia attenzione e m impedisce di portare a termine ci per cui mi trovo l. Sono inghiottito dalla sua immobilit e lascio che le pi inopportune domande sul suo conto m invadano la coscienza. Forse un segno, probabilmente un mistero di cui non ho tenuto conto nell inventario dei motivi che mi stanno spingendo sul confine tra la vita e la morte. Decido di attraversare la strada per sbirciarci dentro. Un taxi quasi m investe; faccio appena in tempo a salire sul marciapiede e ad abbracciare lo scuro involucro sopra il muretto, per difendermi dal suo muso metallico. Una voce di donna mi chiama, una voce calda come una precipitazione tropicale. Mi volto allo sbattere della portiera del taxi, la donna mi corre incontro sorridendomi: le mie mani afferrano il sacco. Quel sacco mio mi dice. Io la guardo e stringo pi forte la massa contenuta al suo interno. Provo a sollevarlo e sento che il peso sarebbe perfetto per garantire il successo della mia ultima impresa. Sono tentato, ma dall Olimpo ricevo una solenne negazione.
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Porgo il sacco alla donna e le chiedo, prima di lasciarlo nelle sue mani, che cosa contiene. Non mi risponde, lo mette a terra, lo apre e ne estrae una scultura. Una testa con due volti mi guarda: da un lato il Cristo, dall altro Socrate.

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7 COLPI Quel gran bastardo di Felipe?! Sei proprio tu, brutta canaglia, con venti chili di idiozia in pi sul tuo culo portoricano? S, sono proprio io quel chiattone di portoricano ! Ma che ci fai da queste parti, in questi luoghi depressi, tu che dovevi sfondare le chiappe agli yankee, farti un milione di dollari in un anno, la grande mela, le belle ciche bianche in carrieraeh! Che pasa amico, che ti riporta nel fango messicano? Non voglio pi trabajare Ramon, non ne voglio pi sapere! Guarda tu stesso, qui nella mano destra mi mancano tre dita e qua sul braccio ho trentadue punti e qui sotto al ginocchio ho tre ferri e qualche altro arnese che mi hanno lasciato dentro in una merdosissima sala chirurgica di uno schifoso ospedale per immigrati non assicurati! Ma che dici amico, non ci credo a tutta questa sfortuna. Avanti, cerca di raccontarmene una giusta, una bella giornata oggi e ho una decina di birre nel frigo da scolarci in santa pace seduti col culo per terra. Ok Ramon, ma credimi, son diventato una merda e ho il cervello in pappae sai di chi stata la colpa di tutto questo, ci tieni a saperlo? E si, dai, che aspetti, che si riscaldino le birre?! Del mattatoio ,Ramon, stata quella maledetta catena di smontaggio. Ma ho fatto strada saigli ho saliti tutti i gradini del successo tra le carcasse di quegli stupidi manzi. E Rosamaria, Felipe, ancora con te?
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Ah, Rosamaria lei non ha retto e che Dio mi rintroni di calci nel culo, non poteva reggere. Che vita credi che facesse con me che uscivo alle quattro del mattino impasticcato di anfetamine e rientravo con lo stomaco nella bocca alle otto di sera con la faccia pi ridicola e triste di un vitello scuoiato. Il mio cervello era un unico film sulle budella, sul fetore degli escrementi e del sangue che si alzava da un torrente alto mezzo metro sulle mie galoche. Cazzo Felipe, questa lAmerica? Non so se sia tutta cos, la mia di certo s ed era la merda pi sporca e rivoltante chio abbia mai visto e respirato! A quellAmerica ho iniziato a sparare in fronte, tra le corna, quattrocento venti bang , sette colpi al minuto. Li stordivo, mica gli uccidevo; a quello ci pensava la motosega frrrrrrrr e stack e schizzi di materia molle ovunque sul mio corpo inguainato di gomma dalla testa ai piedi, come gli altri che stavano l, attenti a non perdere il ritmo, perch erano sette colpi al minuto, Cristo di un Dio e ci dovevo stare dietro per sei merdosi dollari allora. Niente sindacato, niente casini, sempre sette colpi. Poi ho preso il largo, la cadenza mi entrata nelle ossa e non la finivo pi. Cominciavo ad odiarli quei quadrupedi imbecilli che mi venivano addosso, che venivano a morire, che venivano dal loro boia, che ero io, Ramon, un vero boia armato di pistola: che guerra, Ramon!! Ehi, Felipe, una brutta storia questa, sono felice che ora sei qui. Io, invece, non riesco pi a dormire, anche se sono qui sento quegli zoccoli, li vedo che mi fissano negli occhi come se sapessero che sono io quel bastardo che li
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spinger sulla catena. Infatti avevo detto basta, non riuscivo proprio a continuare con quella colt in mano. Sono andato dal capo e lui mi ha riso in faccia chiedendomi se ero un sentimentalee io ho fatto il duro e gli ho detto di no e lui mi ha ficcato la motosega in braccio e mi ha alleggerito la mansione: preparare i quarti, ventotto al minuto, sette per quattro, perch il manzo ne ha quattro di quarti, come unora del giorno, pi una testa. Sparargli non era niente in confronto a tagliarli la testa! Io non ce lavrei fatta Felipe, non lavrei mai fatto! Ma io lho fatto e segavo ossa e mi rompevo le mie, e pensavo a Rosamaria che ficcava in lavatrice la tuta insanguinata che nascondeva alle sue amiche, perch si vergognava del mio lavoro, perch si lamentava con loro mentre teneva sulle gambe Miguela, la nostra ninia Ramon, bellissima! E dov adesso, Felipe, con lei? Si, con lei, ma non so dove. Forse al nord. Una mattina se ne andata Rosamaria, che io ero al mattatoio. Poi niente, Ramon, niente di niente. Hai pensato a cercarla Felipe? No, Ramon, non posso, non voglio, ho avuto altre donne, quelle della catena di smontaggio. Due o tre, non ricordo nemmeno, ce lo succhiavano per avere i posti pi leggeri, ce la davano per smontare qualche ora prima. Una di quelle stronze conosceva Rosamaria e le ha spifferato tutto, per dispetto, perch non ero riuscito a procurarle un cambio turno quando anchio ero ormai diventato un capetto per cercare di non maneggiare pi quelle lame senza filo che ti usuravano i tendini del braccio; sette tagli al minuto per lungo e poi sette disossature e la mia schiena
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se ne andava in malora con il mio fegato intossicato di pasticche per il dolore. Poi qualcuno ha fatto passare del crack e la musica cambiata: cos che ho perso le dita senza accorgermi di niente, talmente mi facevo di quella merda. Ma ci ho guadagnato il paradiso;sono finito alle impacchettatrici di hamburger. Al diavolo, Felipe, almeno non rimanevi a pancia vuota. Cazzo Ramon, non avrei pi mangiato quella merda tritata neanche se me lavessero regalata! Una volta ci siamo intossicati tutti di escherichia qualcosa e lavoravamo ugualmente, cera chi vomitava sulla catena, chi non aveva il tempo di raggiungere lunico cesso e se la faceva addosso. Un inferno, credimi sulla parola: tutta roba che prima o poi finisce nei fast-food. Ok, Felipe, cosa intendi fare adesso? Trecento dollari al mese di sussidio statale, cento dollari a dito che mi manca: mi dovevo mozzare le mani se ne volevo mille. Ma ora sono felice perch non lavoro pi. Ho comprato una casa mobile e una vacca da latte. Ho anche una pistola scarica e quando non riesco a dormire la punto sulla testa di Rosamaria, la mia vacca e clickclickclickclick clickclickclick fino a quando non mi addormento. Tu sei pazzo Felipe! Beviamoci su .W la libert, W il Messico!

CRASH
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Avevo appena insultato il direttore della banca e il mio promotore finanziario, ma non avevo ottenuto nulla. Mi avevano risposto all unisono di rivolgermi a un sindacato dei consumatori e tentare una class action che, tradotto, significava trovarsi i risparmi bruciati e nell impossibilit di recuperarli integralmente in un tempo breve, anzi di non recuperarli affatto. Ora comprendevo un po pi distintamente la mia posizione di appartenente alla classe media: un piccolo limone spremuto, ammuffito e gettato in un cassonetto di rifiuti non riciclabili. Tutti i miei sogni di emanciparmi dai fastidi tecnoburocratici si smaterializzarono, perch essenzialmente fatti di nulla ovvero d immaginazione. Non c era proprio pi niente in cui credere e questo mi faceva incazzare oltre misura. Greta mi acontinuava a cercare sul cellulare e io non avevo nessuna intenzione di risponderle. Mi ero messo a camminare senza badare al rumore stonato della citt, con le mani in tasca, con un vento autunnale che mi raffreddava il naso e mi costringeva ad annusare le molecole pesanti, responsabili dell odore nauseabondo che avvolgeva ogni essere che incontravo per la strada . Passarono certamente due ore e neanche la fame si feceva sentire. Dietro quello che sembrava un vecchio muro sfregiato di graffiti anarchici e inutili contro il potere della pubblicit, che qualcuno pi illuso di me si ostinava ancora a spruzzare pensando di essere un autentico rivoluzionario,
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spunt una specie di broker cinese, un uomo di ordinaria follia che non aveva resistito ai suoi bisogni corporali. Mi guard sorridendo, serafico, portava un cartello di identificazione sul risvolto della giacca , sul quale si scorgevano la sua faccia immortalata da una fotocamera digitale e il nome Chen Pao Lin. S inchin tre volte giungendo le sue mani al petto in segno di preghiera: mi venne da ridergli in faccia sguaiatamente, ma decisi di trattenere il mio cinismo per un occasione migliore, ad esempio per le dovute spiegazioni sul mio tonfo sotto la soglia di povert alla donna che sosteneva di amarmi e che alla notizia dell azzeramento delle mie sostanze avrebbe buttato nel cesso la fede nuziale, dopo avermi confessato teneramente: Credimi amore, non per te, ma proprio non posso rinunciare a questo tenore di vita. Mi ero semplicemente spostato dalla corsia di sorpasso a quella lenta, tutto qua. Ma spiegarlo a Greta sarebbe stato impossibile, come confidare i pi oscuri segreti della propria vita a un pezzo di granito, sperando di vedere spuntare dai suoi chiaroscuri minerali, lacrime di comprensione. Chen Pao Lin, dotato probabilmente di mistica compassione e alleggerito nel ventre del suo prodotto interno lordo, si risolse di lanciarmi una massima filosofica che suonava adatta al momento:La vita si manifesta con cicli a volte intelleggibili, altle volte inesplicabili che solo la via di mezzo pu svelale. S inchin altre tre volte e mi lasci l, come uno stupido uomo in preda ad una massima di Adam Smith irrisolvibile: la mano invisibile del Mercato aveva alzato il
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dito medio insultamdomi e decretando la mia fine di allegro e ebete consumatore. Forse sarebbe stato meglio ridergli in faccia senza nessun ritegno. Alzai le spalle e continuai per la mia via laterale al mondo che mi aveva appena rigettato. Ma di quali cicli andava cianciando testa rasata? In che pianeta pensava di vivere? Io conoscevo la fregatura, qualcosa con una smisurata F, che si appostava dietro ad ogni azione, nelle viscere di ogni attore sociale, la vera anima dei ruoli e delle relazioni, che ti mostra la verit, l unica sacrosanta verit: TU NON HAI IL CONTROLLO DELLA TUA VITA. Mi misi a urlare forte quella verit, sempre pi forte, iniziando ad attirare l attenzione su di me di una pattuglia di poliziotti stanchi di fare la ronda per un misero stipendio. Un chilometro dopo, passato in religioso silenzio ad ascoltare la nausea per la vita che premeva nell esofago, mi accasciai sul ciglio della strada. Vidi altre volanti passare, a tutta velocit e a sirene spiegate, poi, ambulanze seguite da mezzi dell esercito che ad ogni passaggio diventavano pi massicci, costringendo l asfalto a vibrare violentemente per rispondere alle loro sollecitazioni dinamiche. Nessuno faceva caso a me. Poi, come in una mimica comica dei fratelli Marx, il calvo broker mi venne incontro correndo e sbracciando un messaggio che non avevo nessuna voglia d interpretare. Il mio cellulare riprese a vibrarmi addosso: mi decisi a rispondere, ma per l ultima volta.
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Amore dove sei, perch non mi rispondi, sono due ore che cerco di raggiungerti!. Greta mi disse, tra un singhiozzo e l altro, di guardare in alto: lo feci proprio quando il piazzista cinese inciampava e si fracassava il ginocchio sotto un enorme cartellone pubblicitario della Mastercard. Appeso al blu elettrico del cielo, un altro piccolo sole luccicava: l impatto di Apophis - un meteorite che secondo i calcoli della Nasa non doveva assolutamente schiantarsi sul nostro grumo terracqueo, almeno non nel XXI secolo - era previsto per le ore 15:08 di quel giorno a circa 100 chilometri in direzione Nord dalla metropoli. Durante la rivelazione un po stentata di Greta comprensibile, dato il profilarsi dell evento astrale - notai come un fiume di persone urlanti stava maciullando il corpo del povero broker: l istinto di soppravvivenza era veramente bestiale e pu darsi che in me non ne fosse rimasta traccia alcuna. Io mi ero arrampicato su di una collinetta di risulta mettendomi in tasca il cellulare, lasciando blaterare mia moglie che in qualche misura cercava di trovare una maniera per raggiungermi, anche se la logica imponeva il silenzio, visto che le 15:08 sarebbero scattate venti minuti dopo la nostra inutile conversazione telefonica. Greta, mi ami? le chiesi interrompendo i suoi piani di fuga sterili, una volta sedutomi sul grosso cumulo di detriti. Si, certo che ti amo, ma... Attaccai e scagliai il telefono a trenta metri da me. Fissai a lungo uno slogan che mi chiedeva, da un grande foglio bianco incollato sul muro di uno schifoso
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casamento di periferia dall altra parte della strada:COME T IMMAGINI TRA DIECI ANNI?. In realt, l unica cosa che avrei immaginato in quel preciso istante era una sdraio, un tavolino, un mojito ghiacciato, un paio di occhiali da sole e un ombrellone, per godermi la fine del mondo in prima fila. Pensai al presidente americano che decollava sull Air-one e ne fui invidioso: lui s che aveva una visione privilegiata, ma quel biglietto costava troppo ed io avevo perduto tutto il mio denaro. Era evidente che io e lui non saremmo morti allo stesso modo: il presidente si godeva la sua fine in diretta, io mi dovevo accontentare della differita. Ergo, come mi dovevo immaginare tra dieci anni? Un reperto archeologico per il prossimo homo sapiens sapiens sapiens...CRAAASSSHHHH!!

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COSTANZA Me lo ripetevi spesso che ero uno squattrinato ma che amavi il mio essere diverso, meno ovvio degli altri australourbaniti che ti attraversavano la vita come inutili stelle di testosterone cadente. Avevi posato nuda per me, avevi ascoltato le mie strampalate e strimpellate sonate per piano in sol minore, ti solleticava quellidea di essermi musa, mentre le spese domestiche lievitavano senza sosta e il nostro sentimento si andava sgonfiando come una panna che impazzita si rifiuta di montare. Non eri daccordo che mi buttassi in qualche umile professione, non era degna di una mente come la mia. Minvestivi di quellintelligenza creativa che iniziavo a detestare perch non mi garantiva la giusta met dintroiti di cui il nostro menage aveva assolutamente bisogno. Come ne avevano bisogno le tue mani che avrei voluto ornare di preziosit, cos il tuo collo, le tue morbidezze al caramello che desideravo fasciare con quella corsetteria intima datata anni 30, che avrebbe decretato la vittoria della tua sensualit sui miei occhi sempre alla ricerca di fatti nuovi sulla tua schiena, tra le tue gambe accavallate, mentre discorrevi di futuro con me, sorseggiando raffinati t cinesi da una tazza di limoge. I nostri pomeriggi sentimentali di amor borghese erano contro il mondo delle macchine, erano contro il produrre di ogni specie e il vagarti accanto agitato alla ricerca di una decisione in bilico tra il vivere come tutti e la nostra
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unit utopica, mi faceva disperare di non trovare una soluzione eroica. Ma tu insistevi che timportava solo del nostro amore, anche se in qualche maniera sottolineavi che una donna come te meritava qualcosa di pi, visto che altre femmine decisamente inferiori a te in stile ed intelletto, godevano di certe libert semplici ma pur sempre libert. Non mi porti pi a cena fuori, non andiamo pi a teatro, avrei bisogno di sole, di mare, di riposo; dimmi se capisci tutto questo e se ne sei dispiaciuto. Costanza , lo sai che io ti amo e che per te farei qualunque cosa. Vuoi che rinunci a te per lasciarti ad un uomo pi ricco? Vuoi che la strada diventi la mia casa? Chiedimi quello che desideri, ma non chiedermi di non amarti pi perch non ne sarei capace. Davvero non puoi vivere senza di me? Davvero E allora come puoi pensare che io possa amare un altro uomo solo per denaro. Io non ne sarei capace e in fondo questa la mia rovina, perch ho compreso che, se lamore non pu essere avulso dal denaro, il denaro ad un certo punto esige un tributo troppo alto, che lamore non riesce a sostenere. Lamore si ritrae ferito e non trova altra realizzazione se non nellaltruismo cieco dellunione con Dio o per gli uomini bisognosi che non chiedono, in preda alla loro totale disperazione, ma si affidano alla clemenza e alla compassione. Forse la compassione alla fine pi forte dellamore. O forse lillusione di farcela lo stesso con poco in cambio di speranza, di attesa, di parole dolci, di coccole, di una sana voglia di non aprire mai gli occhi
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sul deserto sentimentale che ci circonda, loppiaceo desiderio di non trovarsi mai soli. Belle le tue parole di conforto, alle quali non sapevo ribattere. Pensai per giorni ad un rimedio, ma fu la polizia che ci pens per me, quando ti venne a prendere un pomeriggio e ti colsero mentre sfogliavi con un gesto candido e disilluso certe pagine di teatro beckettiano. Perch larrestate? Gestione di una casa dappuntamento e istigazione alla prostituzione . Per tutto il tempo che rimase in carcere non feci altro che aspettare Godot.

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UN TANGO SOLO PER ME La donna che sto osservando un prodotto dingegneria sociale di nuova invenzione casualmente appoggiata su un bancone da bar minimalista. Porta negli occhi vacui come molte giovani donne della sua generazione portano quattro, sei o forse dieci ore di attivit multimediale che hanno incastrato il suo viso tutto crema anti-age per unintera giornata inutile tra un monitor ed un auricolare. Canticchia a labbra semichiuse il brano hip-hop che scricchiola sulla sua testa, girando tra le mani, lentamente, un mojito. Ha un brillante incastonato nel nasino, risultato di una rinoplastica da urlo, uno sfiato di carne artificiale che riflette una luce artificiale ad ogni ondeggiare dei suoi fianchi. Le si avvicina un homo sapiens con cravatta a nodo largo e una banale camicia a losanghe orribili; una geometria tessile da aspirante dirigente. Si scambiano paroline, sorrisini, cose piccoline, forse sono amanti o forse fanno finta di essere semplicemente normali, ma non gli riesce molto bene. Forse si sono incontrati ad un master di comunicazione creativa, penso, mentre sbrandello un toast poco magro e trangugio una bionda in beata solitudine dicendomi nella testa un sacco di frasi senza senso per far finta anchio di essere normale.

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Il ragazzo dietro il banco nuovo e ci prova con tutte quelle con il ventre scoperto e il tatoo intorno allombelico. Ride in maniera appiccicosa, non lo sopporto. Gli sto puntando gli occhi dietro la schiena come se dovessi prendere la mira per gettargli due amigdale taglienti. Gli comunico con tutta calma che non ho i soldi per saldargli la cena attirando lattenzione dei due mammiferi quasi innamorati. Mi risponde con altrettanta calma che non gliene frega niente, perch nuovo e non vuole grane. Tanto meglio, prendo ancora qualcosa di salato dallespositore di plastica e mi risiedo ascetico a godermi le effusioni fuori luogo di Paolo e Francesca. Ma proprio quando mi sto abituando alla scenetta, i due attori sinvolano per la porta, lei tenendo una borsetta kitsch sotto un braccio, camminando rapida su due piccoli piedi sostenuti da tacchi generosi, lui avvinghiato ai suoi fianchi continuando a guardarla, mostrandole insistentemente la sua risata al xilitolo. Decido di seguirli. Ci muoviamo tutti e tre in un soliloquio settembrino tra i viali e le auto parcheggiate. Dopo un tempo impreciso di pedinamento, vedo i due che si voltano verso di me facendomi segno di avvicinarmi a loro. Dieci passi pi tardi, stringo la mano dellincravattato e mi becco il bel viso di lei come un diritto allultimo round.

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Non mi danno il tempo di riprendermi dagli stupidi convenevoli, perch sono costretto a seguirli da qualche parte. Camminiamo seguendo una virtuale linea orizzontale, ortogonale allorizzonte di quellevento socio-urbano che noi recitiamo a dovere, da consapevoli e maturi cittadini, fino a quando, giunti al centro di unimmensa rotonda stradale di nuova concezione, luomo balza da super eroe dei comics su di un tombino nascosto da una finta zolla erbosa, lo apre e ci sinfila dentro facendoci cenno di continuare a seguirlo. Non ero pi lunico pazzo, ero in buona compagnia. Strisciamo per alcuni cunicoli fino allingresso di una parete di ferro indefinibile. Luomo si ferma ed emette una cantilena, un mantra pagano in re minore, la stessa tonalit della nostra strana fuga per il cemento. Io resto dietro allacciato dal profumo della donna, da uninesauribile corrente gravitazionale al bergamotto. Uno sportellino si apre suonando di ruggine, dal confessionale metallico scorgo qualcuno dindefinito che instaura una conversazione strutturata in monosillabi dalloscura sintassi. Mi sto annoiando, cerco la mano della donna pensando di farle cosa gradita, ma i battenti si spalancano. Entriamo, io per ultimo insieme allumidit e al denso odore di buio dietro la mia schiena. Non vedo nulla, luomo e la donna mi prendono per le braccia e mi siedono su qualcosa di morbido e io ci sprofondo dentro senza opporre nessuna resistenza.
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Davanti a me, nel centro di qualcosa, appaiono due ballerini braccati da una luce discoidale. Attendono immobili una pioggia di tango a rovesci sparsi per tutto quel luogo invisibile. Cominciano a muoversi come lupa e leone, rannicchiandosi in una struttura chiusa sfrondata di essenza e di coerenza. Improvvisamente vedo in loro originali contenuti corporei a volte alleggeriti altre volte appesantiti dal respiro comune. Gli occhi chiusi della tanghera evocano il tremore di ogni particella aerea, lui insiste con la sua mascolinit liberata a offrirle il suo petto ponendo fine a tutti i supplizi del cuore. Lei suscita i miei ricordi e tutti i corpi che ho amato, sento di avere mille anni e non so che farmene, mentre m immergo con gli occhi in quelle asane liquide. Il tango muore in un vapore rosso e strali blu dentro un esofago nero. Una mano di donna prende la mia conducendomi fuori da quellutero musicale: resto solo. Trovo una via duscita, minerpico sulla prima scaletta che il buio mi offre, spingo un coperchio di ghisa algida e riemergo sulla strada. Stranamente mi ritrovo in faccia al locale che ho lasciato e dalle vetrate vedo il barman spaccone. Spingo la porta a vetri e ritrovo la donna e il suo uomo affaccendati in qualcosa di dolce, ma nessuno mi guarda. Mi avvicino al bancone e ordino qualcosa di forte. Il ragazzo mi saluta come se non mi avesse mai visto prima.
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Su di un tavolino riconosco pezzi di toast e una birra abbandonata. Mi specchio dietro i liquori, incredulo ho ventanni di meno.

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L OSSESSIONE PER LE TUE MANI Parlavamo di sciocchezze, parlavamo di maschere di giada ed io ero ossessionato dalle tue mani. Eri unaristocratica terribilmente attratta dalla mediocrit del pret porter, un avanzo di nobilt, unipocrita visione del mondo, una stanca riduzione dellarte di s ridotta a banale maquillage. Parlavamo e ricordavamo di quella notte che scegliesti per iniziarmi a qualcosa che abitava in te e che da te non si sarebbe mai staccato: letere oscuro dellanima liberata dalla coercizione morale. Quella notte fu anticipata da una sera che ritornai pi tardi del solito, non perch tu mi aspettassi con ansia, ma per un motivo che ricordava un urgenza, un impellenza della quale mi sentivo preda: la sensazione spiacevole di non essere pi atteso da te. Non era la nostra casa, non erano le nostre stanze quelle nelle quali consumavamo la insana tragicomica di una relazione isterica, per niente sensibile, tuttaltro che emotiva. Eravamo preparati ad odiarci oltre ogni ragionevole limite, un compito difficile ma sostenibile; per questo dovevamo varcare la soglia dellimmaginazione e sprofondare nella realizzazione del meschino senza esclusione di colpi o di tremende evocazioni di malvagi spiriti. Entrai come si entra in un museo abbandonato da torme di bipedi curiosi e sazi di essere informati di passato e antiche usanze. Mi sentii finalmente pronto ad affrontare il duplice ruolo di espiatore e accusatore, che sapevo mi volevi ostinatamente offrire.
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Oltrepassai zone dombra e affreschi di luce, e ti trovai in piedi a gambe divaricate, sulla porta della stanza da letto simile ad un tempio rosso, ad un mistero di architettura del piacere, ma per raggiungerlo avrei dovuto attraversarti come un mare di umori violacei e dimenticarmi, almeno per un secolo, di essere io e te o qualcosaltro. Scelsi di arrestarmi davanti a quellisoscele di muscoli aperti, equilibrati sulla plastica lucida e sadica avvinghiata ai tuoi piedi. Gli strani colori che ingoiavano i miei occhi, lodore dincenso che rimandava ad un sacrificio agli dei, mi esaltarono lo spirito, mi sciolsero le reni impastate di rigidit. Cercai la tua coscia e la sentii fredda, deformata, la percorsi con il tatto e ne ammirai nella mia mente la sua spiralit animale. Il panico mi scaten una reazione gelida e il sibilo che mi frust ludito sbriciol tutto il sangue in movimento nei tragitti blu delle mie vene, spingendolo verso il centro buio del mio addome impietrito. Era un enorme serpente quello che si arrotolava sulla tua gamba, la tua risposta pi inumana, ma sensata, alla mia fobia per gli ofidi. Mi smarrii, ma non per molto, perch lipnosi che il tuo demone a scaglie mi aveva provocato, non bast a mettermi fuori gioco. Non ero ritornato l, in quella terra sensuale di cui eri sciamana, per essere la tua esclusiva vittima. Continuai ad accarezzare la bestia che si mosse sotto le mie dita andando rapidamente e spiralmente ad
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abbracciare il tuo collo, ponendo la sua lingua vibrante tra la mia e la tua bocca. Tutto il colore rosso della stanza, che ti rendeva completamente ombra, mimpediva di capire dove realmente si trovassero le tue labbra. Decisi ugualmente di baciarti, di darti un bacio mortale e quando le nostre bocche sincontrarono, feci scivolare in te quel gusto che in nessun frutto di nessuna terra rintracciabile. A quel punto le tue mani si liberarono del serpente e mi legarono ai tuoi fianchi mentre dalla mia schiena, in un nascondiglio tra le mie scapole, uno scorpione percorse la via pi breve per raggiungere il tuo seno, prima che il tuo demone mi mordesse il cuore. Ci avvelenammo entrambi e invece di morire ci soccorremmo. Io ricordo ancora le tue dita sul mio petto, lossessione per le tue mani che dalle mie costole estraevano la droga mortale dopo averti salvato la vita.

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APOCALISSE

Ci saranno segni nel sole e un terzo del cielo e delle stelle cadr sulla Terra. E noi tutti saremo indaffarati a fare qualche stupida cosa. Ci sar chi si sveglier in quel momento pronto a farsi carne da macello per qualche nuovo padrone, chi fornicher alla grande, chi si rivolger al suo Dio chiedendo grazie e miracoli impossibili, chi innafier fiori, chi distrugger e devaster luoghi e vite, chi contrabbander sesso, droga, illusioni, voti elettorali, libri stupidi, armi di distruzione e distrazione di massa. Chi guarder uno schermo ultrapiatto seduto sul cesso, chi si far massaggiare gli attributi da una bambina di otto anni, chi scambier organi vitali per potere, chi controller chi, chi eseguir ordini, chi disobbedir, chi creder agli alieni buoni e a quelli cattivi, chi si legher a una setta segreta, chi ruber, chi morir dinfarto, chi, malgrado sopravviver a un cancro, sar pi boia di prima, chi sar vittima e chi carnefice, chi creder nella bont innata dell uomo e chi nella sua congenita assenza, chi rider per niente, chi amer ancora per un attimo, chi si getter da un ponte per gioco, chi per disperazione, chi suoner un flauto, chi si vestir da poliziotto, chi da prostituta, chi da banchiere, chi da politico, chi disegner un nuovo logo, chi scoprir lovvio, chi finir i suoi giorni in galera, chi spender in un giorno il pil di una nazione, chi manger il fango per nutrirsi e chi getter le reti in mare e pescher radioattivit.
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La birra scendeva bene e delicatamente nella mia gola, talmente bene, che minduceva a pensare, che sarebbe stato lultimo atto sensato che avrei eseguito come un rituale, il giorno dellapocalisse. Il sottotetto era rovente, perci avevo una plausibile scusa per sbronzarmi gi di mattina. Dalia aveva appena lasciato il mio buco, avevo visto le sue gambe attraversare i miei abiti sparsi sul palchetto privo di lucidit, specchio vegetale e opaco dove si rifletteva la mia sconfitta. Mi aveva lasciato un numero di telefono di un tizio che mi avrebbe dovuto offrire un lavoro e n lei n io sapevamo di che lavoro si trattasse. Glielo avevo detto un milione di volte di lasciarmi in pace, ma lei niente, non ne voleva sapere di vedermi ridotto in quella condizione. Avevo solo quarantanni, questo era il motivo: per questo Dalia voleva che mi trovassi un occupazione. Lavorare? semplicemente non volevo fare il servo di nessuno. Bisogna esserci tagliati alla sottomissione, allumiliazione, al ruffianismo e alle peggiori viscide esibizioni di cui uno schiavetto postmoderno capace, in cambio di pochi spiccioli e di una videosopravvivenza. Roy era il tizio che dovevo incontrare al terminal dellaeroporto. Si present alle tre di un caldissimo pomeriggio, di sabato, forse, ma non ha nessuna importanza, sicuramente era estate, visti i quaranta gradi allombra e il vestito bianco che indossava, di un candore allucinante che minfastidiva le retine ancora molli di sonno.
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Rideva sempre, non era un granch originale, fumava un cubano e agitava le mani quando apriva le gengive, per dirmi tutte le cazzate di cui avevo bisogno per capire che si trattava di recuperare soldi da gente sfigata e abbindolata dalla sua agenzia di prestiti. Si sforzava di convincermi che stavo per intraprendere il lavoro che mi avrebbe cambiato la vita per sempre; lo doveva fare, lo doveva a se stesso per un tempo limitato, evidentemente, ma non poteva rinunciare a quella stupida recita, patetica, unta e irritante. Non mi ero fatto nessun problema e gli avevo chiesto di offrirmi una birra, per sopportare meglio il suo monologo. Ci eravamo fissati per un po; a volte ci guardavamo intorno, lasciando saltellare le pupille di qua e di l. Ci lasciammo con una viscida stretta di mano e ci accordammo: 10% su ogni recupero, rigorosamente in contanti. Dalia era al settimo cielo, talmente entusiasta da far scattare in lei quella irrefrenabile voglia di shopping che ogni donna porta cucita sul culo, sul seno, sulle unghie laccate di fresco, sui capelli appena tinti, sul mascara degli occhi, sui tacchi e sui tatuaggi inneggianti sesso con un tocco di zen. Sapevo perfettamente che non sarei riuscito a resistere pi di un giorno a fare il tira piedi di quel Roy, ma non volevo deluderla, anche perch, in quei momenti, un moto addominale freme nelle femmine di tutto il globo e Dalia non ne era esente: si stava dando da fare a muovere i fianchi su una odiosa salsa, ripetendo... te quiero... alla nausea, sorseggiando vino bianco, dopo aver spezzato con
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i denti le reni a un gamberetto decongelato e sporco di maionese. Appoggiandomi ai suoi reni pensavo: Ecco sopraggiungere i quattro cavalieri dellapocalisse, eccoli pronti a scatenare sullumanit ogni genere di sofferenza. Non ricordo neintaltro, vagamente un orgasmo e uno strano luned mattina, dove mi ero alzato sudato, nudo e nauseato. Era il corpo di Dalia che guardavo, affascinato da un livido sulla sua coscia e dalla sua mano caduta oltre il bordo del letto della quale indovinavo ancora le unghie smaltate di rosso sangue. Mi rigirai tra le mani una lista di nomi, il primo della lista che dovevo pizzicare era Martin Lobowsky. Sentivo distintamente gli zoccoli dei quattro equini apocalittici scalpitarmi nei timpani. Dietro le lenti scure sopportavo la Terra e i suoi esseri striscianti. Prima che riuscissi a raggiungere labitazione di Martin Lobowsky, in una puzzolente strada a me del tutto sconosciuta, fui fermato da un predicatore, un Avventista dell ultima ora, con il libro dei libri aperto tra le mani. E il numero degli eletti sar 144000..., ripeteva incessantemente. Dove stai andando fratello? , mi chiese. Da Martin Lobowsky. Mi guard con unespressione che poteva significare anche, adesso ti sparo in testa. Sono io quello che cerchi. Chiuse il libro dei libri facendo risuonare l aria umida con uno SBAAMMM! Ne cadde una foto di una donna nuda
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in posa, con un paio di tette enormi: forse era la Grande Meretrice. Sei armato? Negai, candidamente . Il mio lavoro per Roy termin l, a dieci metri dalla casa di Martin Lobowsky, che mi aveva steso con un diritto in piena faccia, che suon come lo SBAAMMM della Bibbia. Quando mi rialzai erano le tre del pomeriggio, con un pezzo di lente che mi si era conficcato sul sopracciglio destro e un grumo di sangue che mi otturava entrambe le narici. Martin mi aveva adagiato la testa sulla Bibbia, in un certo senso si era preso cura di me. Avevo la foto della Grande Meretrice sul petto, puntata con uno spillone. Ricambiai la cortesia, scrissi dietro alla femmina il mio indirizzo, invitandolo a bere un paio di birre gelate, ma cambiai idea, gli scrissi il numero di targa della jeep di Roy, che chiss perch mi era rimasto impresso: ROY144-OOO.

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MAGDALENA

Io non sono un credente, non minteressa la catechesi, non voglio sapere niente di dogmi, di agiografie sensazionali, ma amo lodore dellincenso. Nelle chiese dove entro approfittando della calca della gente che non conosco, mi piace prendere la comunione senza essermi confessato, perch da bambino rubavo le ostie dalla sacrestia, cibo per lo spirito che appiccicavo al mio palato godendone il gusto di niente, saziandomi di Cristo quando non riuscivo a rifocillarmi di pane vero. Ma erano altri tempi e di quei tempi non mi rimasta che la povert del portafoglio e non dello spirito. Non conosco la fede, questo vero, ma conosco Magdalena, perch abito dietro una porta in mezzo a quattro scalcinate mura di un seminterrato, in un rettangolare edificio sgangherato dove abita anche lei; un favo urbano i cui muri di mattoni anni 60 sono sporchi danarchia indelebile dalmeno dieci anni. Magdalena prega, si chiude nella chiesa del quartiere al mattino e ne riesce la sera dopo lultima funzione. Io la seguo spesso, la osservo mentre si genuflette sui tacchi bassi e consumati dalle lunghe camminate in mezzo ai banchi della chiesa e a quelli del mercato. Ho fatto in modo che si accorgesse di me, quel giorno che ho deciso di radermi decentemente quellicona di faccia che mi ritrovo appesa al collo, indossando sotto il mento, tra le orecchie, una passabile acqua di colonia, peggiore certo dellacqua santa che le ho visto gocciolare tra i piedi dopo il segno della croce.
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Pensavo che Magdalena pregasse anche in casa, almeno ne ero sicuro, fino a quando non lho sentita ridere nervosamente da dietro unaltra porta al piano sopra la mia testa. Diceva a qualcuno o a se stessa che era bella, piena di desiderio, di voglia di libert e di brama damore e continuava a ridere mentre un rumore di bicchieri di vetro sbattuti in terra, anticipavano i suoi pater, ave e gloria. Forse aveva semplicemente bisogno di un uomo, di me per esempio o di prendere a vetri in faccia il Tentatore che le stava offrendo una via di fuga dalle sue incessanti litanie. Ma io non credevo n a Dio n a Satana, sentivo solamente un irrefrenabile desiderio dincontrarla. Cosa che feci, per lirresistibile curiosit di un uomo che spera di vedere la donna che ha sempre osservato di nascosto , aprirgli la porta indossando una vestaglia corta e trasparente. Dopo aver affondato il mio dito nel campanello, le risate cessarono improvvisamente, il tac tac di scarpe sicuramente molto alte, si avvicin dietro quella divisione di legno. Sentivo uno strano formicolio percorrermi la schiena e scendere per le braccia, come unacqua elettrica sfuggita dalle mie scapole, sensazione che mindusse a farmi il segno della croce. Attesi, forse un po troppo, ma non cedetti allidea di far finta di nulla e ridiscendere le due rampe che avevo salito. La porta si apr quel tanto da lasciar sfuggire in direzione della mie labbra una mano bianca infilata tra la luce del pianerottolo e lombra viola dalla quale era comparsa; perdeva sangue da un buco nel polso, teneva unostia tra
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le dita, Magdalena diceva da dentro la stanzail corpo di Cristoma io non ebbi il coraggio di dire amen e di aprire la bocca.

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MACCHIE DI TE

Versavo da una pregiata teiera di porcellana un t aromatizzato alla pesca e ai fiori di ciliegio e, per un istante, mi era parso di trovarmi immerso in un autunno giapponese del quattordicesimo secolo, mentre tu, in ginocchio davanti al tavolino quadrato in bamb scuro, mi osservavi mentre portavo a termine la cerimonia. Lessi i tuoi ideogrammi tatuati sulla caviglia che il kimono non occultava interamente alla mia vista e tradussi nella mia mente, prossima al silenzio interiore causato dai gesti lenti che continuavo ad esibirti per ottenerne unatmosfera ipnotica: cadere, ancora cadere. Trovai strano che ti fossi lasciata sedurre dalloriente, quando pi volte mi avevi ripetuto che detestavi le mode e che non eri cos sicura che anchio non mi fossi lasciato irretire da spezie e aromi mentali, quando, in realt, anchio, come tanti romantici sognatori, non ero che un frutto sorto dallalbero della conoscenza del bene e del bene, le cui radici affondavano nella civilt di un occidente che si era irrimediabilmente allontanato da ogni arcadico mistero, per vivere secondo i sobri dettami del materialismo scientifico. Io continuai a praticare i miei misteri, proprio come un monaco samurai e non sarei mai andato contro la mia natura sensuale che ti voleva fortemente, che non ti poteva lasciare libera dai miei occhi, dalle mie braccia abituate alla lotta dellacciaio, contro i fantasmi che abitavano i
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recessi del mio sangue che si raccoglieva dentro il respiro trattenuto ogni volta che le nostre labbra si mischiavano. Poi qualcosa mut, lipnosi non si realizz, laria entr nella stanza e come una mano furtiva ci rap lattenzione, svanirono i miei pensieri mentre cercavo di risolvere il tuo Koan sulla cavigliacadere, ancora cadere, risoluzione che mi avrebbe forse portato al limite del risveglio interiore o allapertura di un occhio mentale da tempo affetto da uno strabismo divino ogni volta che meditavo su di te, raccolta in te e nel mio corpo nudo sul nero futon che sosteneva le nostre ombre rese immobili dal piacere. Il mio gesto pi importante, mescere e offrirti quella fragranza liquida del sol levante, per dimostrarti che ero un vero sensei, si sciolse in un cedimento inaspettato, in una caduta che sembr ad entrambi lentissima: la conseguente punizione del monaco arrogante che si credeva un grande guerriero dellignoto. Non ti ritrassi e lunica goccia che oltrepass il bordo di cobalto blu della tazzina, scese per un tragitto erotico sulla tua sottile caviglia, deformando il tatuaggio, bagnando altri segni che la confusione del mio imperdonabile errore non mi permetteva di tradurre, dei nei linguistici ormai inutili alla comprensione della pazzia degli amanti che sfida la razionalit del mondo. Volevo portare il tempio tra noi, in noi e la forza del ferro piegato innumerevoli volte per tagliare ogni legame con lumanit, lasciando vivo quello con il cielo e la terra. Volevo sfidare la gravit e riportare lequilibrio nellamore tra un uomo e una donna, soffocati dai flutti inconsistenti e insidiosi dellindifferenza sentimentale che
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ci circondava. come quelli che assediavano da migliaia di anni la terra degli jomon che io amavo Ma dopo il furto delle dita daria che ci rap gli sguardi, non rimasero che macchie di te sulla mia mano tatuata che recitava:ricordare, ancora ricordare.

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AMORE FREE

Amore free, bambolina, posso offrirti solo amore free, ti dicevo. Poi riprendevo a suonar la mia tromba spingendo i pistoni alla ricerca di un bebop assoluto. Linferno si era parcheggiato nella rimessa da dove avevo spinto fuori la mia jeep di quindici anni, alla quale ero attaccato come carne allosso, per provare e riprovare quel fraseggio di Miles Davis che non cera verso di sputare fuori dalla campana dargento. Tu, semisvestita per il caldo, ti era appena rinfrescata con la pompa del giardino e davanti alle mie note storpiate dal mio dilettantismo dirompente, sgocciolavi suppliche femminili. Mi bastonavi le orecchie insistendo a penetrarmi nella mente con i tuoi vocalizzi piagnucolosi sulla domenica che volevi trascorrere a trastullarti con me. Io reagivo soffiando pi forte, salendo unottava sopra alla vibrazione stridula delle tue corde vocali incastrate oltre i tuoi denti. Fa diesis, urlavo staccando il bocchino dalle labbra doloranti. Riprendevo la scala da dove lavevo lasciata, risalivo, discendevo, incespicavo e tu continuavi a dire tutto quello che mi conduceva al devastante errore tonale. Poi mi sollazzavo in un nanosecondo in mezzo al caos sonoro e vocale, meditando sul colore della mia musica e la musica di colore, consapevole del grigio della prima e del profondo nero della seconda.
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Posavo, a quel punto, lo strumento nella custodia, prima che tu iniziassi a piangere con le mani sugli occhi. Mi sfilavo lentamente i guanti di cotone bianco come un ladro dopo il suo colpo migliore. Facevo ogni movimento con studiata precisione, mentre osservavo da sotto a sopra la tua presenza che mi ricordava le forme anni 30 di una b-girl del Vanity Fair della Chicago dei gangsters e dei jazzisti alcolizzati. Preso da incontrollata tenerezza, ti accarezzavo le gambe, ti prendevo la mano e ti trascinavo con cortesia fuori dalla mia sala prove, dimenticando volutamente il lettore cd acceso, lasciando che il quintetto negro alle mie spalle strizzasse fuori dalle casse tutto il succo jazz di cui era capace, cacciandomi a calci dal suo olimpo afroamericano, verso la liberazione di una domenica pomeriggio, a spasso con la mia donna, su una cadente jeep decappottabile. Hai ragione tu, parlavo, guardando la strada da dietro il parabrezza chiazzato di colla dinsetti ammazzati, mentre ti tenevo la mano, lasciando che la strada si srotolasse rovente in bocca allorizzonte:Non sar mai un grande musicista. I tralicci dellalta tensione che ci passavano di lato, mutavano il suono dellaria in maniera del tutto metronomica, seguendo il ritmo che i tuoi capelli rossi avevano preso, scossi da ottanta miglia allora senza destinazione. Anche il tuo vestitino leggerissimo seguiva la stessa cadenza, sincronizzato sulla scia rumorosa che i cavalli
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stanchi del motore perdevano dietro di noi sulla linea gialla in mezzo allasfalto. Poi cominciasti a ridere di gusto ed io con te, entrambi premendo la testa contro i sedili, con il sole del West sulla faccia, mentre tu continuavi a ripetermi che odiavi il jazz e mi chiedevi di prometterti di non rovinarti mai pi una domenica destate. Dopo unora di strada giungemmo ad un grande incrocio coperto di polvere dellArizona. Una figura nera, alta almeno due metri, chiedeva un passaggio. Rallentai, mi accostai e riconobbi qualcosa di molto famigliare in quella grossa faccia nera. Dove vai amico? gli chiesi. Vado a ovest Anche noi, gli dicesti invitandolo a salire dietro. Vi dispiace se prendo mio fratello? Ma non c nessuno oltre te, qui! gli dissi. Intendevo dire questo fratello. Tir fuori, da dietro un grosso roveto, unenorme custodia da contrabbasso e stendendoci lenorme mano nera allargando la sue smisurate labbra in un sorriso tutto africano, ci disse il suo nome: Mi chiamo Charles, Charles Mingus.

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DANNAZIONE

Se dovessi scrivere tutto quello che so sulla tristezza, non ci sarebbe spazio sulla carta dell' intero pianeta. Se dovessi riportare a caratteri cubitali la parola felicit su di un lunghissimo muro bianco e se questa enorme parola veramente rappresentasse il mio stato d' animo, lascerei cadere dalle mie mani il grande pennello intriso di nero che mi accingevo ad usare, staccherei entrambe le braccia dai miei fianchi e mi strapperei i capelli per la disperazione. Mentre dico a me stesso queste cose, un presagio: un corvo nero urla nel cielo della sera senza farmi rabbrividire la schiena, anzi, m' invita a chiudere gli occhi per addormentarmi nei ricordi di un fruscio d' erba alta, nei campi dove io ed Eva facevamo l' amore. Poi stavamo supini, abbracciati a sbirciare il cielo come si faceva da bambini, esausti dopo una capriola senza fine gi per un pendio, cosparsi dell' odore delle margherite giganti, dei fiori di montagna bruciati dal sole estivo, a volte inclemente con la nostra pelle, ma pur sempre calore, pur sempre vita. Ricordo quel meraviglioso momento, come si ricorda dell' acqua fresca tracannata in una sola lunga sorsata, dopo aver sudato il sale di un equinozio, in giugno, in preda ad una sete infinita. Ricordo che ci alzammo nudi, mano nella mano, abbandonando i nostri vestiti intrisi di civilt, per cominciare a correre senza sosta verso un vecchio muro di pietra ormai diroccato, incastrato perfettamente tra un maestoso fico ed un antico melo selvatico, ai cui piedi
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avevo nascosto, a dodici anni, una spada di rame che, Ciprus, il lattoniere ignorante del paese montano non lontano da l, aveva forgiato per me in un momento di generosit quasi adolescenziale. Scavai sotto il segno sbiadito di una croce uncinata mentre lei mi faceva ombra sulla schiena. Ogni tanto mi voltavo sorridendole e lei ricambiava con risatine da ragazzina curiosa in preda al desiderio di compiere una trasgressione del tutto innocente. Voltandomi, vedevo il paese attraverso il triangolo tra le sue gambe e udivo i rintocchi delle quattro del pomeriggio spediti nel cielo da vecchie campane di bronzo. Scavai per dieci minuti, fino a quando le mie unghie sporche di terra non incontrarono una scatola di legno intarsiata di modeste dimensioni: ovviamente la spada non c' era pi. Sul coperchio della scatola era stata incisa a mano questa sibillina frase:" Tutto ci che si prende senza chiedere deve essere ricambiato." Aprimmo insieme lo scrinio e vi trovammo "Aspettando Godot" di Samuel Beckett. Proprio in quel momento sentimmo alle nostre spalle dei colpi di tosse. Ci spaventammo e ci accorgemmo all' improvviso di esser nudi; con la coda dell' occhio vidi un vecchio robusto con una lunga barba bianca che mi ricordava Ciprus. Facemmo appena in tempo a strappare due foglie di fico per coprirci le vergogne e a nasconderci dietro il muro. Lei si sedette su di me, con il libro aperto sulle sue cosce, mordicchiando una succosa mela che aveva staccato dai rami su di noi e che mi offriva maliziosamente.
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Aspettammo in silenzio che il vecchio se ne andasse, soffocando la nostra ilarit tra le nostre labbra sporche del carnoso frutto. Quel giorno non si ripresent mai pi nella nostra vita: la nostra storia di l a poco sarebbe terminata, come i fiumi si seccano, come gli insetti spariscono sotto la terra in inverno. Ci scacciammo da quel pomeriggio d' estate e dopo la mela, ci fu la caduta del nostro amore, ci fu la distruzione sistematica della nostra innocenza sentimentale a vantaggio di una nervosa capacit di adattamento alla follia civile, una pazzia che ci accolse in seno al suo vibrante elettromagnetismo, che ci don il mondo del dio serpente, il dio che, in cambio di quel pomeriggio d' estate, ci offr la dannazione.

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ARTEMIDE

Il sole ha un cuore di ghiaccio e nessuno lo sa. Artemide, donna dal nome classico, si pettina i capelli e li lascia cadere per gravit sul capezzolo destro, mentre io, alle sue spalle, losservo impietrito dai suoi movimenti magici che lucidano la sua chioma scura. Ho scritto parole per lei, ma a nulla servito. Cercavo di spiegarle che le galassie si allontanano le une dalle altre, che le stelle possono a loro discrezione generare la vita nel centro esatto del freddo cosmico, che il mio sentimento per lei e simile alle propriet dellelio fuso delle reazioni termonucleari, ma niente, niente di niente, freddo gelido e cosmico tra le sue braccia , tra le sue mani avvinghiate alla spazzola, ogni notte passata e ripassata sulla sua scivolosa cheratina corvina e bluastra, prima di coricarsi accanto al mio corpo gi bara di graffite inutile e cibo per gli arcani misteri del sonno. Tu vivrai oltre la mia corruttibilit di carne sfatta, mia amata mortale. Tu non rispondevi alle mie provocazioni lugubri. Vedevo il futuro, perch uccisi Cassandra e me la divorai in un sogno greco in preda ad un cannibalismo intellettuale e dialettico, acquisendone i pi oscuri e temuti poteri di preveggenza. Tu guidavi la spazzola dallalto verso il basso, maliarda improbabile, sfacciata con la tua psiche che avevi plagiato perch non ti mostrasse il tuo vero ego palindromo.Vorrei essere uno spregiudicato trampoliere che ti cammini sulle scapole. Hai sentito strega dai capelli
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lunghi, hai udito mentre ti levi i serpenti che hai strappato da una Gorgone svampita? Nulla poteva distoglierti dal tuo fare dallalto verso il basso. Che io vedessi chiaramente che sarei morto prima di te, non timportava minimamente. Accavallavi le cosce come fosse un attimo di distrazione, anche se ero fermamente convinto che lo facevi come uno sforzo atletico e non erotico, tale era la tua freddezza ginnica ben incastrata tra ginocchio e ginocchio. Hai sentito? Morir prima io di te. Povero sciocchino. Quelle due paroline ti uscivano dalla bocca come due fragole aggrinzite da una canicola estiva. Non volevi saperne di perdere la tua vittima, di non poter pi esercitare la tua violenta arte di carnefice con una scheggia di veleno tra le unghie e tra le labbra, la prima per trapassarmi i timpani di umiliazioni, la seconda il petto e la schiena, durante i nostri amplessi ferini che tu giocavi come un monsone che si divide in milioni di stracci daria rovente tra lombra e lesotico esistere di forme di vita verde. Sar io a decidere quando finir il nostro possederci distorto. dicevi. Regina di carne contro il tuo suddito di paglia: vincevi sempre e comunque, vista la nostra asimmetria sentimentale. Il giorno che decisi di farlo, il giorno sacro della mia liberazione, eri sotto la doccia, dietro il vetro che ti sbriciolava in segni opachi vagamente rosa.
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Il nero che ti scivolava sulla schiena suscitava nei miei occhi fiamme di pece spenta e scosse nervose dalla mia spalla al coltello che afferravo come ramo di una rupe, unico sostegno in quellattimo di sospensione di ogni mio elucubrare sensato. Lacqua che ti tingeva di vetro liquido i fianchi filtrava da sotto il box, io ero a piedi nudi e sentivo bagnarsi le mie dita di un bacio tiepido, di un aroma al sandalo. Ho aspettato che si fermasse quella minima cascata sopra la tua esistenza, che tu aprissi il velo rigido e trasparente che ci separava per affondare lacciaio nel tuo petto, tra le tue ossa. Ma il campanello alla porta mi fredd e lautoma che in me non muore mai, era gi allingresso ad aprire senza il mio consenso. Un monaco dotato di tonsura e di un saio tinto di terra bruna mi sorrideva e si presentava come Pang-lo, ma non era asiatico. Come mai porti un coltello per ricevermi? Volevo uccidere la mia donna. Oh, pensavo tu volessi uccidere te stesso. Estrasse da sotto la tunica un libro e me lo diede, salutandomi con qualche inchino, borbottando qualcosa di ritmico nella bocca. Aprii il libro ancora in mezzo alla porta: sintitolava memorie di Pang-lo. Uscii lasciandomi la porta aperta dietro le spalle e tu sciolta sotto i vapori di sandalo. Lessi, lessi e le pagine non terminavano mai, pass un tempo infinito fino a quando non arrivai ad un punto della storia dove lui vuole uccidere lei, un altra Artemide, come te, e come te stava sotto la doccia, ma alla porta
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qualcuno suonava e lui lapriva, con il coltello ancora nella sua destra e, dietro la porta, un monaco come quello che mi aveva dato il libro. Poi, mi svegliai dopo aver letto un milione di pagine, mi svegliai nel mio cenobio e riconobbi il mio piccolo altare dedicato al buddha, e appoggiato ai suoi piedi un coltello arrugginito dal tempo e la mia lettera che non ebbi mai il coraggio di spedirti, per spiegarti che mi ero fatto monaco per non ucciderti.

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CON IL SUO NOME

Tu non conoscevi la mia insofferenza, ma in certe vie tranquille dove mi conducevi per cedere al nostro coito disordinato, sentivi quella inquietudine crepuscolare che avanzava, montava come acqua nervosa, sovrastava le percezioni dei nostri veri noi, tutto sommato ingannati da una teoria sullamore e non dalla sua esperienza. Ti concessi la ragione e mi presi il torto di non averti creduto, mentre ti rassettavi quello straccio di gonna plissettata e ripassavi a memoria la smagliatura verticale della calza aderente alla tua coscia, slacciandomi il tuo sorriso di lupa soddisfatta, caduto oltre il limite della mia passivit damante. In un accenno di caldo estivo, mi svelasti la tua infedelt ed io mi ritrassi sotto lombra fresca e opportuna di un portone, in assenza di una spelonca, e i tuoi occhi non sapevano se guardarmi soffrire o graffiarsi di una cecit indifferente che lestenuante tempo trascorso insieme aveva saputo alimentare. Inutile fu chiederti un nome, pensavi fosse banale, se non puerile, ogni indagine in merito. Ma ci che mi sconcertava, era quel tuo sottile gioco malizioso che ogni volta inscenavi senza precise regole, cos, tanto per stuzzicarmi una qual ansia, attinente alla desolazione impotente di chi perde ci che ama, senza poter ancorarsi ad un qualcosa di certo. Ricordo tutta la sequenza; noi nascosti dietro a quel portone, le tue labbra piantate sulle mie come una crocifissione inesorabile, i miei tentativi inutili di sfogarti
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un endecasillabo damore che per una miserabile volta non fosse solo carnale. Ero debole, di quella debolezza tra i tendini, flaccidamente avvinghiata alla tua schiena palindroma, una mappa di cuoio daccoltellare a tua insaputa ne fossi stato in grado per vederla sgorgare miele insistente e amaro, un agro succo intentato, lassenzio tra le costole, tutta la conservazione del tuo istinto primordiale che pretendeva la mia virilit. Cos mi concessi ancora e ancora esigei il tuo piacere, perch non conoscevo lodio o la vendetta, quando giunta in quella terra, in ascesa tra la frigidit e lorgasmo, rovinasti sottomessa alle mie percussioni renali, urlasti la tragedia delladdio, perch era lultima volta che mi amasti. Poi, per pareggiare i conti, ti lasciasti andare ad un atto sacrilego, godendo nellaver provocato il mio sguardo incendiario e lebollizione dei miei frattali muscolari che strizzavano il mantice cardiaco dietro al mio torace chiamandomi con il suo nome. Compresi che era finita la nostra monotona relazione ed era iniziata una storia di amanti coscienti della ritrovata estraneit, preludio di una scelta consapevole: la libert da noi.

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CECILE

C aria questa notte, aria che odora di vento, aria di niente e di nessuno, che non potrebbe buttare gi un cipresso in mezzo a un cimitero o un traliccio elettrico sulle teste del formicaio urbano, silenzioso ad oltranza tra un mattino e laltro. Sfottimento daria che tranquillamente zigzaga tra le gambe di Cecile, che mi offre rhum con moderazione e con moderazione mi butta fuori dal suo letto e mi chiede di andarle a prendere qualcosa da tritare tra i molari, qualcosa di meglio di una pizza di plastica surgelata sforacchiata da un microonde, del buon chianti dannata per accompagnare tuberi bruciati alla margarina e della vera carne di buon macello, che non trover e lei lo sa bene, troppo bene, abituata a ricevere in cambio panini imbottiti al maiale. Sono gi in macchina. Un soffio caldo che mi fascia questa roba ovale che tengo in equilibrio precario sopra il gozzo, minfila, tra i finestrini scesi, schegge di frasi dure di rare corde vocali usate a sproposito. Lo sciabordio del rhum nella bottiglia ipnotico quanto il tic-tac del giallo che mi fucila le retine dai quattro angoli dellincrocio. La notte come la fine di un mito navaho, dove le strade come questa non portano in nessun luogo e ai bordi non raccolgono altro che immondizie, sorci e i loro predatori. Il rhum sgocciola la sua fine sulla mia lingua, ne ho ancora voglia, ho ancora voglia di Cecile, se non fosse per la sua stramaledetta fame notturna che cinterrompe ogni
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volta e non mi fa combinare niente, proprio quando iniziamo a scaldarci in qualche modo. Cerco Castiglio Romero e il suo furgone dispensa nel solito spiazzo, ma non c, forse ha scelto un altro buco dove mettersi: non mi agito, continuo a girare nei dintorni, senza fretta, sotto questo straccio nero sporco di stelle. Lo scovo parcheggiato dietro al deposito dei tram che si lavora al Kechup due sbirri in pausa di servizio: mi fermo e aspetto che i tre si stanchino delle loro facce e di quello che si stanno raccontando. Qualche sintagma volatile mi arriva sottoforma di sonore cazzate e quindi non presto attenzione, godo del mio motore appena spento e dei suoi click e clak da raffreddamento, del mio cervellino e dei suoi pensierini fuori onda che non controllo, folgorati con insistenza dagli schizzi blu e intermittenti della volante che si allontana con calma in direzione X. Fa pi caldo di ieri notte due tizi hanno fatto a botte e tieni qua, per Cecile..Mi affetta queste frasi, Romero, cuoco senza cucina, da piastra rovente, porgendomi un sacchetto di plastica caldo E allora ci rivediamo, faccia da cane randagio ma come pretendi che quella donna ci sta, con te?.. non sono fatti miei, hai ragione ma la prigione e ancora gli sbirri e quella battona ubriaca che non paga una birra dio sa da chiss quantocercatene unaltra dammi retta, non mi dire che lami, vecchia carcassahai cinquantanni suonati! Ed io mimo una paresi con la bocca per non sorridere e non ricambiare nessuna delle sue piacevoli idiozie. Tastando il calore della plastica oleosa, intuisco una bottiglia fredda: penso ai gradi alcolici assunti come spazzini della mia memoria del tutto inefficaci! Sono ancora in macchina,
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mi sento scivoloso, tengo rigorosamente la destra, incrocio la pattuglia e le bocche dei due sbirri intasate di tomato, Che ci faccio da queste parti? Niente, quello che ci facevo ieri, quello che ci far domani. Tra dieci minuti Cecile e i suoi ventanni. Sono gi in casa, c una luce accesa in cucina, sopra il tavolo due piatti, qualche avanzo di arrosto, due bicchieri svuotati accostati a un buon chiantidentro al letto due amantiTi presento Max, lavora al self-service, stato carino con me ed io con lui, non ti dispiace vero? Ritorno in cucina, non ho sentito niente. Apro il sacchettoper la mia Ccile, arrosto e patate e una bottiglia di Chianti.. qualcosa mi dice che sono arrivato in ritardo. CERCATE DI NON FARE TROPPO CASINO!!urlo. Di l, risatine smorzate.

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TACCHI ROSSI

Tacchi rossi sbriciolano una striscia terrena di vernice blu, blu elettrico. Quando ero bambino vivevo per volont di un padre desposta al di sotto della strada. Godevo del mondo attraverso una feritoia che lambiva il marciapiede e tutto ci che mi era dato di vedere erano scarpe e piedi che le indossavano. Mi ipnotizzavano i passi ciclici e metronomici, jazzati, sincopati come una sinfonia battuta sull' asfalto da un batterista impazzito. Non mi chiedevo se era giusto essere rinchiuso come un criceto nella sua gabbia rotante, perch quei pezzi di gamba mi bastavano ad immaginare il mondo. Le stagioni mi rendevano il paesaggio di caviglie mutevole e interessante: detestavo la neve che nascondeva tutto e m' impediva di sentire i tacchi sbattere e creare il loro suono circolare e secco dall' accento e dal tono cangiante. Il mio era il delirio acustico di un prigioniero troppo piccolo per godere appieno di quel nascondiglio. Ma crebbi, oh s, quanto crebbi in statura e in fantasia. Ti scelsi per quel colore della pelle che solo tu avevi. Ti scelsi in memoria delle scarpe rosse dai tacchi svettanti che i miei occhi di ragazzino, avvolto nei suoi pensieri infantili, ma gi sufficientemente pericolosi, veneravano. Li aspettavo famelico, ansioso, tutto teso e deliziosamente eccitato come solo un adolescente pu esserlo. Sudavo, tremavo e provai quella gioia erotica che una stupida scienza avrebbe chiamato retifismo.
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Cercai sempre e ovunque scarpe di pelle rossa, il pi possibile aperte, che mi permettessero senza scorgere le dita , d' indovinare la forma dei piedi che le calzavano. Mi bastava immaginare lasciandomi rapire dal movimento rouge e poi... E poi ti trovai tra gli scaffali di un ipermarket di periferia e non staccai mai gli occhi dalle tue tibie. Ti pedinai col tentativo sublime di conoscerti al di l del carrello ricolmo di inutili cibi surgelati. Riuscivi con maestria a calpestare la linea blu che separava la corsia dai banchi frigo, come un' equilibrista tutta tesa alla ricerca della stabilit. I tuoi polpacci vibravano ad ogni tac tac che inchiodavi sul linoleum: ti guardavo nascosto da dietro una piramide di mangime in scatola per canarini. Le casse ti attendevano ed io sentivo di non avere molto tempo a disposizione per conoscerti. Feci cadere la piramide di proposito perch le scatole t' inondassero i piedi. Ti arrabbiasti ed io mi affrettai a chinarmi per raccogliere le macerie che t' impedivano di muoverti liberamente. A pochi centimetri dal collo del tuo piede destro non resistetti e lo baciai con tutta la dolcezza che le mie labbra potevano esprimere. Continuai a baciare i tuoi piedi senza fermarmi aspettandomi un calcio o una scatola di mangime sulla nuca. Ma niente di tutto ci accadde e non mi fermai neanche alla presenza dell' addetto al reparto.

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Alla sua domanda:" Ma che sta facendo l per terra?" tu gli rispondesti :"Lo lasci stare; nessuno mi aveva mai trattato come una dea".

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PERSUASIONE

La persuasione di Colette si manifestava ad ogni suo transitare davanti a me, ad ogni suo frusciare sul mio petto, senza rispetto, senza ritegno, sfruttando le sue doti di mesmerizzatrice. Non conosceva che larte della seduzione, priva com era di cultura, priva di sogni grandi, priva di educazione, una vera famelica divoratrice di stupidi imbecilli come me. Non possedeva che carne, occhi di cristallo grigio-azzurro, vertigini di cosce mostrate ad ogni occasione, labbra liquefatte in luccichii burrosi destinati ad infilarsi in ogni ruga del mio collo. Era la giovinezza che desiderava, il mio potere di uomo d affari, la mia ricchezza sudata, guadagnata con l inganno del venditore, di cui ero maestro indiscusso. Ma non ero stato con lei un compratore sufficientemente scaltro, perch m invaghii di una statua di marmo perfettamente scolpita, una venere, una dea algida in grado di soffiarmi nelle narici polvere del demonio, trasformandomi in un morto vivente, vivo solamente perch lei lo riteneva ancora curioso, ogni marted sera, quelle maledette sere infrasettimanali che mi dedicava, riducendomi ad una essenza di uomo, ad un microesssere di paraffina, buona tuttalpi per essere bruciata. Io perdevo carne, sangue, vita e lei diventava smisuratamente bella , fulgida, stupefacente. Io perdevo sul suo ventre come ad un tavolo da gioco tutto quello che pensavo di possedere, di amare, quelle cose che mi ostinavo a chiamare figli, moglie, famiglia.
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Io mi indebitavo tra le sue gambe, io le urlavo in preda ad un amplesso di strozzarmi con la mia cravatta di seta azzurra, spingendola a ridere di gusto di me, aspettandomi un rien ne va plus, immaginando il mio capo reclinato sul suo stomaco e il mio ultimo respiro sul suo ombelico. Era odiosa e non mi graffiava mai abbastanza la schiena per farmi scordare le lacerazioni del cuore. Sapeva che da qualche parte, nelle mie valvole cardiache, riposava uno strumento romantico pronto a tramutarsi in un tamburo infernale, capace di battere ed erompere dalle costole con il fragore di un tuono ancestrale. Voleva che mi tradissi. Il suo scopo era che chiudessi con la persona che ero stato: se le fosse stato possibile, se solo le sue arti magiche avessero potuto arrivare a tanto, avrebbe compiuto un miracolo sotto i miei occhi, mi avrebbe rapito o mi avrebbe fatto investire da una pioggia di piccoli crocifissi doro o di enormi ofidi costrittori, che lei avrebbe ammaestrato dinanzi a me senza nessuna difficolt. Ma era comunque mortale, anche se non banale. Io volevo ridurla ad una femminile normalit per avere su di lei un sopravvento virile, violento, rapace, perch non reggevo il confronto selvaggio e la forza che si sprigionava ai nostri contatti epidermici. Non volevo mutare, volevo radicarmi in quell uomo che pensavo di essere, lo volevo tenacemente. Non mi sarei dato per spacciato, anche dopo aver incollato i miei capelli sul suo pube, stremato dopo un infiammata danza erotica con lei. Ma, senza che potessi rendermi conto di quanto stava accadendo, sudato dell umore sensuale, semi
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addormentato, sentii ronzarmi nelle orecchie la sua voce che declamava con sintassi moderata il Vangelo secondo Matteo. Mi giungevano le beatitudini come schiaffi morali... beati i poveri in spirito...beati i miti di cuori..., maledetto me che non avevo compreso che stavi per scagliarmi addosso tutta la potenza divina, che mi stavi tatuando con un ferro rovente il nome di Dio dietro il collo...JAAAVHEEE!!!!". Quella era Colette, una matta che mi accoglieva dentro di s come il mare trattiene il sale, come il sole l energia della sua prossima esplosione. Questo sono io, adesso, all ora del vespro, in ginocchio dentro una cella vuota dopo aver lasciato il mondo per la via che conduce dallinferno alla sacra montagna dove il Maestro parl per chi lo voleva ascoltare.

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LA FEMMINA DI STOFFA

In un certo qual senso hai ragione tu, ci sentiamo o meglio, ci percepiamo strutturati in carne ed ossa, siamo una viandre rouge parlante e rivestita di similpelle. Discorsi da menomato mentale? Tu pensi questo di me? E sia: raccolgo! Ti ricordi di quella giornata che abbiamo trascorso in montagna? Ho portato le foto che scattammo. Da un po di giorni le sto osservando: ma una in particolare ha destato i miei sensi e mi ha fatto rizzare i peli sulla nuca. Guarda qui la cascata! Ci sei tu che mi sorridi e dietro ci sono io che mi arrampico sullacqua ghiacciata. Cosa c di strano? Eravamo soli a duemila metri di altitudine ed io ti ho scattato quellistantanea. Si, guardala bene e poi dammi una spiegazione sensata: attendo con ansia il risultato della tua riflessione in proposito. Ah! Sono felice di averti causato questa temporanea afasia; decisamente soddisfatto. Me lo aspettavo che dicevi questo. Sul negativo vedrai la stessa scena. Tieni, osserva con comodo; come vedi, nessun trucco. Si, anche qui convengo con te che non possibile, ci deve essere una spiegazione razionale che ci acquieti lansia dellillogico , del non scientifico. Oppure no! sarebbe pi simpatico che tu ci ridessi sopra e mi chiedessi come mi sentivo sdoppiato e quale dei due io era pi a suo agio, quello avvinghiato alla parete di cristallo o laltro dietro allobiettivo.
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Ti chiedo forse troppo? Sono eccessivamente esigente, petulante? Mi correggo: sono un questore indelicato che non rispetta la tua concezione del mondo. Io soffro di personalit multiple, ma non lo confido a nessuno. Ne sono affetto da parecchio tempo e se devo essere sincero, non mi sento per niente a disagio. Vuoi sapere con chi stai conferendo adesso; con chi hai fatto lamore poco fa, chi ti ha invitato a cena laltra sera? Ero io e non lo ero. Chi ti ama? Chi sta mentendo? Sbaglio o nel giro di pochi secondi sei passata amenamente dalla psicopatologia allantropologia criminale? Credo che ti affiderai presto alla frenologia di stampo lombrosiano e la mia trasformazione in schizoide sar compiuta. Per, se guardassi meglio nellimmobile cascata, vedresti qualcosa. Ma, solo se non metti a fuoco nulla, se non ti sforzi di trovare nellinsieme, il particolare che generalmente sfugge anche alla pi pervicace attenzione, riuscirai a cogliere il segno, linformazione che balzer evidente e non potr che sorprenderti. Esatto! E proprio quellombra rossa alla quale alludevo e se adesso non ti dice nulla, tra non molto ti ricrederai. In quel tubo di plastica che ho portato con me e del quale non ho voluto svelarti subito il contenuto, c lingrandimento di quella singolare ombra rossa che hai scorto nella cascata; una sfumatura che ora ti appare sulla superficie del ghiaccio, ma che in realt giace sotto la sua morsa rigida e algida: vieni a scoprirlo da te. No, non sembra una donna: una donna!
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Lo so, anche a me sulle prime mi ha trasmesso la sensazione che fosse fatta di stoffa, come una vecchia bambola di pezza e forse proprio cos. Ma ci che mi ha lasciato interdetto, sono le sue mani che stringono qualcosa dentro quel sarcofago freddissimo, tradendo il suo aspetto inanimato. Ho dovuto fare una leggera riduzione dellimmagine che stai contemplando; eccola, ora ti risulter tutto pi chiaro. Gi, sono le mani del mio doppio intrecciate nelle sue; tutto questo cambia decisamente la prospettiva della foto che ti scattai quel giorno dinverno. Non trovi? Pensi che siano solo giochi dombra nella mia pazzia latente improvvisamente manifesta? La tua affermazione sarebbe sicuramente vera, ma forse di quelle mani di stoffa ti sfuggito un particolare: ti appartengono. Come possibile? Fai un piccolo sforzo e osserva con pi scrupolosit questa mano;vedi quel luccichio? Non il ghiaccio,anchio credevo lo fosse, ma non cos. Ecco che cos! Guarda questo ingrandimento: non ti ricorda nulla? Allora? Perch te ne vuoi andare proprio adesso? Non un gioco sadico il mio, solo una scoperta su di noi che avrei dovuto fare a suo tempo: ma chiss, non era il momento e poi non ci vedo nulla di cos strano o raccapricciante in un solitario gettato da una funivia in un momento di rabbia, rientra perfettamente nella mia idea di normalit.

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CORINE E il paesaggio che muta o sono i miei occhi che cambiano con il trascorrere del tempo? Ci che definisco Il Tutto - generalizzando o banalizzando concetti filosofici che non conosco e che francamente non mi competono - mi appare cos indecifrabile nel momento esatto in cui penso di averne afferrato l essenza. Sento di essere in balia della solita riflessione sull essere dentro o fuori dal sistema, una elucubrazione ormai stanca che non si addice a un uomo sulla quarantina che dovrebbe essere maggiormente attratto dai vantaggi dell inclusione sociale. Continuo a rifiutare l idea di essere preda del mondo, eppure, a volte mi succede d immedesimarmi con la strana fauna che mi passa accanto, che mi spintona, che mi fa cadere e che non mi aiuta mai a rialzarmi, spingendomi inesorabilmente nel baratro del solipsismo o prendendomi a calci come un inutile lattina bevuta e stritolata. Le foglie si staccano dalla linfa che le ha allattate, io mi stacco dal seno di Corine e rifletto con la fronte attaccata al vetro della finestra della nostra stanza, del nostro pianeta trincerato in pochi metri quadrati in uno storico edificio del centro asfittico di una citt sepolta dalla propria decadenza. Gi in basso due bipedi si massacrano di botte per un parcheggio e per il tempo che non possiedono pi, che non controllano, come i loro nervi saltati, in perenne cortocircuito sottoepidermico.
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Un gruppo di ridanciani adolescenti commenta, urlando blasfemi gorgoglii in direzione della rissa. Non interviene nessuno: filmano, fotografano ghignando e godendosi lo spettacolo di due pugili amatoriali e miserevolmente falliti, che potrebbero fruttare denaro in caso di scommesse. Mi volto schifato perch non sono ancora completamente anestetizzato dalla violenza che mi trapassa gli occhi durante tutte le mie ore di veglia. Ritorno al caldo seno di Corine che si muove come una sinusoide, sospinto dal suo respiro regolare, calmato dal sonno, ancora pieno di giovinezza. Mi affligge l idea chirurgica di un bisturi che trafigge quella morbidezza chiara sotto la mia mano destra e che lei, un domani, potrebbe desiderare quale soluzione estetica alle sue nevrosi femminili che non si placheranno mai, vista l impossibilit di noi mammiferi razionali, di ritornare nel paradiso pre-evolutivo, fatto di nicchie ecologiche ad uso di poche centinaia di ominidi dediti alla raccolta di frutta esotica sugli alberi delle foreste equatoriali e al soddisfacimento di semplicissimi bisogni primari . Il telefono della doccia perde gocce d acqua al cloro, il soffitto si sta sbriciolando in grossi pezzi d intonaco, il televisore non regge i suoi vent anni ed prossimo all estinzione del tubo catodico, le pareti, tremando ad ogni passaggio dei bus sull asfalto del corso, si crepano senza rimedio, secernendo calce che si mischia con i grumi di polvere arricchita di pm10 che s insinua in ogni piega del nostro spazio privato.
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Accosto il mio orecchio sul suo cuore e la mia pelle si appiccica a Corine cementata dalla stanchezza: solo trenta minuti prima facevamo l amore credendo alla libert di espressione, all illusione di non essere controllati da nessuno. Il nostro amplesso si era consumato e concluso mentre le immagini in bianco e nero della tv, privata di colori e audio, si riflettevano come ombre cinesi sui muri, spargendo i semi dell informazione e della pubblicit che dovevano creare e allo stesso tempo soddisfare ogni nostro desiderio. Stesi, supini e appaiati come triglie appena pescate, guardavamo entrambi in direzione dei ventidue pollici dello schermo, senza dirci nulla, assorbiti dalla naturale sensazione di torpore che miliardi di endorfine avevano creato in noi. Il suv percorreva, senza lasciare nell ambiente la bench minima sostanza inquinante, una splendida strada di campagna in qualche localit tra le colline scozzesi punteggiate qua e l da fantastici castelli medievali. Nella parte bassa dello schermo appariva la scritta Messaggio pubblicitario, perch il sogno che si vendeva non doveva trarre in inganno o illudere il medio consumatore di trovarsi di fronte a qualcosa di veramente reale e alla sua portata. Io e Corine eravamo come ipnotizzati da quelle quattro ruote che alzavano polvere e che rapidamente si avviavano in direzione del sole morente, abbandonandoci alle nostre fantasie di un luogo al di l di quel tramonto artificiale, al di l della nostra stessa immaginazione.
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Le nostre mani erano intrecciate, le lenzuola scivolate sul pavimento insieme ai vestiti: la notte imprigionava la nostra vita e noi cercavamo di aiutarla a fuggire per una via secondaria. Questo accadeva mezz ora fa. Spengo la televisione, mi alzo dal corpo di Corine e le dico con tutta la delicatezza che ancora mi rimasta: Dormi Corine, dormi. Entro nel bagno e riprendo a pensare ai miei pensieri a strisce, a brandelli, sfilacciati, ma pur sempre atti che mi appartengono e che per ora nessuno pu ancora scrutare con qualche diavoleria tecnologica. Sento grattare da dietro il muro della doccia; da giorni che lo avverto quel sfregare incessante, sempre alla stessa ora, alle due del mattino. Accosto l orecchio alla parete, la gocce mi cadono sulla fronte, m immagino che dall altra parte ci sia qualche topo risalito dalle fogne, intento a costruirsi una tana per poi addentrarsi nel nostro miniappartamento alla ricerca di cibo. Ogni volta che il suono mi sembra pi decifrabile s interrompe. A questo punto busso su una piastrella due volte, ricevo un uguale munero di battiti. Lo rifaccio: stessa risposta. Batto tre volte: ricevo tre colpi. Continuo per un po il giochino, ormai penso che ci sia qualche forma intelligente dietro alle piastrelle o un gande roditore dotato di enormi lobi prefrontali. Do un ultimo pugno; quattro piastrelle se ne vengono gi facendo un rumore infernale.
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Mi aspetto che Corine si svegli da un momento all altro. Guardo il muro nudo e bagnato, lo tocco, sembra di creta, inizio a grattarne via la calce marcia. Continuo accelerando il movimento, sono spinto da un desiderio incontenibile di creare un buco e vedere chi o cosa si nasconde dietro. Scavo sempre pi rapidamente come un carcerato che scopre un condotto d aerazione attraversando il quale potr riavere la sua aria, la sua luce. Ormai il mio braccio interamente inghiottito dal foro che ho praticato sul muro; manca poco, lo sento...la parete cede. Dalla piccola galleria esce un aria tiepida che non mi aspettavo e un odore di terra umida che ricorda la campagna appena inzuppata di pioggia. Mi abbasso per guardare e come da una smisurata serratura scorgo un pezzo di mondo colorato, una primavera impressionista, un prato, una vecchia strada che lo attraversa e ...la portiera di un fuoristrada che si apre seguita da un paio di belle gambe che scendono fino a toccare la terra chiara e mi vengono incontro oscurando passo dopo passo il paesaggio. Rialzo in fretta la testa, sono spaventato, non credo di essere sveglio, anzi, penso di riposare ancora con il viso sul seno caldo di Corine. Per convincermi che si tratta solo di un allucinazione rimetto il braccio nel buco. La mia mano cerca nel vuoto ma trova un altra mano, l afferro, la tiro verso di me con forza: una mano di donna, la mano di Corine.

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ESILIO PERPETUO Perch farsi una ragione della morte di un amore. Perch mentire a se stessi e non lasciare libero sfogo alla malinconia. Tutti i falsi maestri hanno cercato di convincermi che ogni sofferenza un momentaneo intoppo, un torrente irritato, da guadare con forza e determinazione. Volevano insegnarmi come e quando piangere sulle mie sfortune, giudicandole, senza provarle, additandomi come un credulone qualunque, poich le pensavo frutto della mia puerile superstizione. Ma io credo nella sfortuna, ci credo ciecamente e nulla mi potr convincere del contrario, neanche una ben congegnata teoria karmica. Hanno mentito quei maestri, non conoscendo lamore, hanno cercato di stroncare quel che mi restava dentro, quello che mi distingueva ancora da un frammento di asfalto, da un oggetto inutile perso a causa della distrazione di un tragico uomo della strada. La mia tragedia non scritta da nessuna parte, se non nella mia mente. La mia tragedia analfabeta, priva di vette linguistiche, umile bassofondo di sentimenti fatti a brandelli da una vuota quotidianit, da un rapporto nascosto e invariabile con la mancanza di serenit. La mia tragedia muta, sorda, non indossa abiti di scena, spunta qua e l sulle mie guance e ha il colore del mattino livido dopo una notte insonne passata a pensare alla morte di un amore.
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Se avessi saputo invocarti, se avessi dato ascolto alle note stonate del nostro assolo lieve e breve nel frastuono impazzito della citt, non sarei in esilio. Questa citt continua a vivere al margine della mia coscienza, al punto che ormai posso farne a meno; ma non di te e del tuo nome: Gilda. Potessi afferrare un lembo del cielo notturno e soffocarci dentro ogni magnetico influsso urbano, immaginandomi un dove nuovo, dove ricominciare insieme a te il gioco del paradiso perduto. Addio incredula creatura di plastica, tu che hai tramato alle mie spalle, tu che mi hai tradito con un essere dedito a mercanteggiare con le anime, privo di spirito anch egli, cinico muscoloso mammifero, che ora ti afferra per i fianchi svuotandoti di ogni dono ogni volta che ti possiede. Lo ucciderei, mi vendicherei, ma non ne sono capace, non sono in grado di togliere la vita ad un uomo senzanima. Mi tengo in disparte, dallaltra parte della strada, da dove vi vedo indossare maschere di cera davanti a due calici di vino rosso, sostenuto da un muro viscido che potrei incendiare solo se avessi un granello di senape di fede nel buon Dio. Quel che accadr dopo, potrebbe benissimo essere gi stato scritto in una sceneggiatura di un film drammatico di terz ordine: io che mi paro di fronte a voi con una bottiglia di wisky, indossando il soprabito del tenente Colombo, con uno yo-yo che sale e scende dalla mia mano destra, con un sorrisetto da ubriaco sulla faccia a spaccarmi il viso in una smorfia clownesca, che ti faccio i complimenti per la grossa bestia che ti porta al guinzaglio.
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E invece me ne vado pisciando lacrime dagli occhi sugli angoli delle vie storte che non riusciranno pi a raddrizzarmi la schiena, a verticalizzare la mia vita in esilio perpetuo da te. Bugiarda sensuale, perenne sciarada femminile che hai scelto la tignola e la ruggine dei tesori terreni, rifiutando quelli del cuore che non interessano pi a nessuno. Smetto di piangere proprio davanti a un portone, al numero civico 666...che combinazione! Dovevo forse mandarti all inferno?

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ESPIAZIONE

Occorre pensare al vuoto, ogni tanto, occorre guardare fissi davanti a s il vai e vieni della citt e aspettare di sentirsi scuotere il ventre da un' irrefrenabile risata. Occorre ridere dell' impegno, della volont di esistere, del potere, delle menzogne e poi bisognerebbe scrivere le proprie riflessioni sul soffitto della camera dove si dorme, scrivere frasi come moniti speciali che consiglino atti estremi, estreme decisioni. Questo sarebbe opportuno fare, ascoltando l' Adagio di Albinoni o una struggente lamentazione della fisarmonica di Piazzolla, senza smettere pi, anche se il soffitto risulta troppo stretto, non sufficiente per contenere tutto il pensiero che scaturisce da una mattina passata a rimirare il vai e vieni, buffo, quanto tragico, della gente in preda al panico della sopravvivenza. Apettarsi dunque di non avere pi calce su cui scrivere e scendere gi per i quattro muri, contornando l' unica finestra che si affaccia sulla via impolverata dai pneumatici o la porta che separa la propria esistenza privata dal comico esibirsi in pubblico o il quadro dietro al letto con il suo insopportabile romanticismo che poco si adatta alle fredde leggi del mercato delle anime, sottolineato dai clacson stonati che cercano di ragliare fin sopra i coppi chiazzati di sterco dei piccioni, oltre il soffitto completamente ricoperto di segni di disperazione dialettica.
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E dopo aver usato i muri come carta, si potrebbe passare al pavimento, spostando la mobilia l dove impedisce alla mano di protendersi in altre affermazioni scomode e ribelli sull' andazzo quotidiano. E se non bastasse il pavimento, si potrebbe scrivere sul letto, sulle maniglie, sull' odioso quadro, sullo specchio, sulla porta, sui vetri della finestra, sui propri abiti, su se stessi completamente nudi e fare di quello spasmodico scrivere un cilicio di lettere tinta ocra. Tutto si compirebbe, tutto in una stanza, in un pomeriggio usato per dare libert alla silente e strisciante follia del vivere, quella biscia sibilante che non mette mai il capo fuori dalla sua tana sotto la pelle, dentro il nostro torace, intrappolata con la scusa del respiro o dello scorrere del sangue. Tutto avrebbe il senso tridimensionale di una scatola abitata da un essere in preda all' esasperazione, da un uomo in cerca di una parola che lo salvi da quel vai e vieni incessante, portato avanti senza sosta, con lo scopo impreciso di aggiungere un' altra alba al crepuscolo degli uomini che non vogliono convincersi di essere gi spettri e per niente pentiti o toccati dalla compassione, dei fantasmi egoisti attaccati ai loro ectoplasmi come quando erano avvinghiati stupidamente alla loro carne destinata alla sicura decomposizione. Ma nulla ha un senso e sarebbe meglio per quell' uomo ridere, far finta che nulla sia accaduto, che il vai e vieni rutilante, sotto, nella strada, sia solo l' ennesima profezia della fine, l' ultimo rifugio dei disperati imbecilli che si sfiorano senza pi guardarsi negli occhi, senza pi abbracciarsi.
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Ecco cosa cambierebbe quel senso tridimensionale e soffocante: un incontro. Occorre stare molto attenti a trascorrere un intero pomeriggio a scrivere in rosso, dentro a una stanza, tutte le proprie fantasie; si potrebbe, con meraviglia, scoprire di aver ripetuto all' infinito il nome di una donna, soltanto per espiazione, soltanto perch, a causa di una serie sfortunata di eventi e di errori inevitabili, non la si rivedr mai pi: Virginia.

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QUALCOSA CHE VALE LA PENA VEDERE Avevo una donna che rideva sempre. Avevo una casa sempre invasa dalla luce del mattino e da quella della sera. Avevo un fiume che non scorreva troppo lontano. Avevo sentito che al di l del fiume cera qualcosa che valeva la pena vedere e ci andai con la mia donna. Non sapevamo che cosa dovevamo cercare, ma eravamo spinti dalla curiosit. La mia donna rideva, come sempre aveva fatto, ed io ero contento per noi. Iniziammo a chiedere a chi incrociava la nostra strada che cosa cera di cos interessante che valeva la pena vedere. Nessuno ne sapeva niente, mentre gi si faceva sera. Avevamo voglia di riposarci io e la mia donna e cos cercammo un luogo dove sostare. Trovammo quel luogo, dove chiedemmo cibo, alloggio e di quella cosa che valeva la pena vedere. Ci disse un uomo che quella cosa sarebbe comparsa quella notte e che tutti lo sapevano ma nessuno ne voleva parlare con gli stranieri. Noi eravamo stranieri, ma lui fu con noi generoso indicandoci il luogo dove levento si sarebbe verificato. Ogni notte accade quella cosa ci aveva poi assicurato. Quella notte non uscimmo dal nostro albergo perch eravamo troppo stanchi. La mia donna rideva mentre si pettinava allo specchio prima di coricarsi al mio fianco.

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Al buio, nella stanza, ci parve di sentire una musica provenire dalle strade del paese e insieme a quella un ridere di donne. Poi la musica cess insieme alle risa e noi ci addormentammo risvegliandoci quando il sole era gi alto. Passeggiammo tutto il giorno in quel paese e notammo tanti uomini tristi e nessuna donna che li accompagnasse. Che strano pensavamo, cos diversa era la vita in quel posto al di l del fiume? La mia donna si sentiva a disagio e non rideva pi, non lo aveva mai fatto e io ne rimasi turbato. Non rise pi per il resto del giorno e cos la sera pensando di farla felice decidemmo di andare nel luogo dove cera quel qualcosa che valeva la pena vedere. Cincamminammo dopo la cena e la musica che avevamo sentito la notte precedente ci guid magica. Da ogni angolo di strada comparirono donne che ridevano e scherzavano tra loro. Presero per mano la mia donna che non rideva pi e la fecero danzare, ruotare, poi la portarono via da me senza che io potessi opporre resistenza. Seguii quel fiume di risa fino a quando non giungemmo ad un cerchio di alberi secolari. Tutte le donne si misero in cerchio guardando gli alberi, dai cui tronchi si aprirono delle porte di luce. Tutte le donne attraversarono ridendo le porte, poi tutte le porte si chiusero ed era gi mattina ed io ero solo senza la mia donna che rideva sempre. Il sole saliva dietro il cerchio di tronchi, andai verso quello che ti aveva rapito.
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Ai suoi piedi trovai, tra le sue enormi radici, qualcosa che valeva la pena vedere: i cristalli di sale delle tue lacrime.

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SCULTURA Luna piena. Il personaggio triste, perch uomo, tritura una radice amarognola sotto i molari e pensa alla sua fuga. Guarda Shamana nel vuoto e scheggia un ricordo da una vibrazione del passato che stramazza esangue sotto il suo continuo masticare. Shamana ha fatto a pezzi la sua storia di quarti di luna, macellati dal suo odore di femmina artemisia; uno stornarsi di cosce dalla sua ombra che sotto i suoi minerali, il suo sudario di sale, soffocava nella esausta sconfitta dellimmobilit delle carni. Shamana una lingua dacciaio che disossa la sua elettricit dalla sua schiena e se ne nutre con la sua rosa canina tra le gambe, la riduce in un liofilizzato di coscienza posticcia di maschio fisico reso sterile da un feticcio linguistico. sesso, alabastro screziato, sbalzato dallinterno di un fondo innaturale, privo di terra, privato di follicoli, di sostanze chimiche, di respiro, di sole fagocitato, di ritmo, di un lastricato biologico di attrazioni e repulsioni, di un contorcimento ellittico di braccia intagliate su torsi mossi da rettiliani stimoli striscianti e per questo simili agli ofidi e dissimili da ogni romantico assassinio del principio animale che quegli esseri plastici fonde in un segmento intricato, scomposto e ricomposto dalla tensione che anticipa la soddisfazione. Il personaggio triste gusta la sua condizione di animale libero, di preda sfuggita alla tagliola. rientrato nel suo s stracciandosi laltro dalle sue sensazioni tattili ed per
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questo che conosce il freddo dopo luomo e la donna, distruttori delle parole, costruttori di materia morbida esaustiva, stanca, che segue il calore prodotto dal loro scontro reattivo alla norma, alla morale astratta che non si pu imporre al patimento viscerale, agli addomi sedotti e strofinati fino alla follia rituale. Poi fu il martellare singhiozzato, la polvere, le briciole, la frammentazione dellintegrit, e i due non-nati dal loro stesso piacere inutile, si accoppiarono granitici per il successivo personaggio triste, che transitava per caso e li scovava in una galleria darte asettica quanto un ambulatorio. Luna vuota.

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L ' AVVOLTOIO Si poteva volare quel giorno, si poteva rischiare di essere felici. La vita era sempre stata cos tremendamente seria che sarebbe bastata l' intenzione del volo per farci sentire pi vivi. Stavamo con la schiena sdraiata sulle nostre ombre a strapazzare il vapore acqueo e lattiginoso delle nuvole, finito a danzare sulle nostre retine infastidite dalla copiosa luce, quando un' enorme paio di ali ci scmbi per due vittime. Forse lo eravamo davvero. Ci eravamo persi nel deserto messicano: la nostra jeep non partiva pi, si era inceppata con un sordo colpo metallico sotto il cofano del motore. La strada si srotolova sotto il fuoco che il mezzogiorno ci faceva incendiare sulla testa e la polvere si depositava ad ogni bava di vento sui nostri abiti d' archeologi, simili a uose depositate su mobili da conservare per altri fasti. Ci eravamo appropriati a colpi di vanga e di pennelli di ossa di bisonti, di scheletri di sciamani sfrattati dal progresso scientifico, di frammenti di glifi intraducibili strappati da antiche pietre, sporcate dalle piogge acide, cariche di veleni urbani in giro per la troposfera. La jeep si era stancata dei suoi passeggeri e dei loro attaccamenti a storie di civilt morte e sepolte. L' avvoltoio roteava eseguendo perfetti ellissi ubriachi ascendenti e discendenti: desiderava soltanto le nostre carcasse.
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Noi ridevamo e pensavamo all' ultimo numero di telefono che avevamo digitato sul nostro cellulare. Il progresso che aveva battuto lo sciamano, ci sarebbe venuto incontro entro due ore, con un mezzo di soccorso. Eravamo tranquilli, avevamo acqua, t, panini imbottiti, saponetta e spazzolino da denti. L' avvoltoio non lo sapeva, non se ne curava, aspettava la nostra fine mortale. La sua pazienza volatile portava con s, ad ogni evoluzione aerea, una traccia di sacro, una sfida predatrice, una rapace curva geometrica capace di carpirci gli occhi e i sensi, anche se ci sentivamo sicuri di sfuggirgli per superiorit tecnica. Quando trascorsero due ore e tre quarti e ci eravamo gi versato tutto il t negli stomaci, la nostra sicurezza ebbe un sussulto. Quell' aiuto tardava a venirci incontro dall' orizzonte infuocato, mentre le spire del grosso uccello si facevano pi ampie, pi rapide e pi vicine alla terra incandescente. Avevamo un fucile da caccia e quattro munizioni, ma la batteria del cellulare ci aveva abbandonato da mezz'ora. Niente paura, le coperte termiche ci avrebbero protetto da un eventuale notte all ' addiaccio. Tra noi e il becco adunco dell' avvoltoio c'erano 50 metri d'altezza; tra noi e il ritorno alla civilt un tempo indefinito. Dopo sei ore, con il crepuscolo alle calcagna, pensavamo al fuoco, alla terribile idea di essere stati abbandonati su di una strada che non percorreva pi nessuno da almeno dieci anni.
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Presi dalla sacca quei frammenti di glifi che avevo avvolto in un panno di cotone e preso da una stupida e incontrollabile fobia, cercai di capirne il significato, sperando di trovare una qualche formula magica che ci potesse trarre fuori dal surreale evento che ci stava per risucchiare in un mondo che pensavamo sepolto per sempre dalla fisica e dalla meccanica razionale. Guardavo i segni insieme a te: l' avvoltoio voleva attaccare perch era sicuro di vincere sulla nostra effimera civilt. Provai a sparargli una, due, tre, quattro volte ma senza successo: le ellissi si piegavano per poi ridistendersi armoniose sulle nostre paure. Ma ti sentii cantare, cantare a bassa voce, rivolta verso una saetta rossa che il sole ci lanciava addosso un attimo prima di precipitarsi nel mondo sotto la terra, nel mondo ai piedi della luna. Cantavi sillabe monotone, ripetitive, mentre io cercavo freneticamente di dare fuoco ai rovi che avevo raccolto un' ora prima dal ciglio della strada, incalzato da un freddo vento che spirava da nord. Solo dopo che il fuoco era divampato e la tua canzone era risuonata per il deserto, l'avvoltoio plan nobile sul tettuccio della jeep, quando noi non ne avevamo pi terrore. Non se ne sarebbe andato se non la mattina seguente, disturbato da un motore che giungeva da ovest, pienamente soddisfatto dopo aver protetto, per un' intera notte, la nostra fragile esistenza notturna rimasta insonne a fissarlo.

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UNIMPROVVISA VOGLIA DI DISTRUZIONE PLANETARIA Si possono trascorrere lunghissime ore pensando di farla finita o pensando di vendicarsi di un torto subito, immaginando azioni violente che sfocino in sangue, in brandelli di pelle staccati da ossa luccicanti. Si possono trascorrere momenti dintensa infelicit, inorriditi dal fatto che il dolore ha stuprato la nostra vita e rilevando con impotenza che noi eravamo da qualche altra parte quando tutto quel fango ci cadeva addosso. probabile che in unaltra stanza del pianeta qualcuno sia assalito dallo stesso genere di pensieri, un qualcuno che non incontreremo mai, per una serie di motivi imbrigliati dalla matematica del caso. possibile uscire fuori da quella stanza dellorrore, in un brutto pomeriggio invernale, nel cuore di una metropoli insensata, con lidea ossessiva di comprarsi unarma e di farsi giustizia da soli. Con le mani in tasca, con lo sguardo incollato sullasfalto, decisi a trafiggere il cuore meccanico della citt. Si potrebbe scegliere un luogo affollato e sparare alle gambe di chiunque ti cada a tiro. Capisco, comprendo leccitazione malvagia e indiscutibilmente potente di un terrorista che si fa saltare in mezzo a un mercato. Ma non ha senso prendersela con le vittime, anzi con gli zombie che si aggirano tra gli scaffali dei centri commerciali. E nemmeno ha senso far saltare il loro cimitero-store al neon, il loro rifugio macabro, dove i teschi sorridono da ogni angolo di plastica. Che fare? Leninista domanda.

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Pensavo a un blob mortale, a un fluido che uccide, ma continuavo a non considerare i mammiferi consumatori gi cadaveri ambulanti. Ci voleva un semplicissimo rituale. Ci voleva un holliwoodiana soluzione, un azione piena di effetti speciali. Mi aggiravo tra le scatolette di tonno, sushi e cibo liofilizzato, storpiandomi il cervello con pensieri simili, fantasie insensate di assoluta disintegrazione del genere umano, quando una vocetta rinsecchita mi chiese educatamente di porgerle una bottiglia di olio che spuntava da uno scaffale sopra la mia testa, situata troppo in alto per la sua piccola statura. L educazione di quella donnetta, che poteva avere un secolo sulla gobba, sfatta di fatica e unica nel suo genere, mi rese innocuo: fu come ricevere una overdose di morfina per placare un dolore insopportabile. Se io fossi stato veramente matto, un bastardo perverso esaurito di nervi, avrei potuto dar sfogo alla mia rabbia spaccandole la bottiglia in testa. Ma non lho fatto e ben presto mi sono trovato a spingere il suo carrello fino alla cassa, a mettere la sua misera spesa in due piccole buste di plastica, osservando senza reazione alcuna le quattro scatolette di mangime per gatti che mi passavano tra le mani. Sono finito fin dentro il suo appartamento, uno scalcinato bilocale, pi freddo di una tomba, il luogo adatto per una fotofobica di ottantanni o un sociopatico come me. Tutto per un litro dolio. Finii anche per accettare una tazza di t e due biscotti un po vecchi e senza pi sapore, mentre il suo gatto splelacchiato mi faceva le fusa tra i piedi. Anche il suo nome suonava vecchio e senza amore: Clelia.

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Saturo delle sue buone vecchie maniere, che erano riuscite a placare per un po la mia frustrazione, me ne andai e varcando il portone d ingresso lo sguardo mi cadde sul drappo funebre che distrattamente non avevo notato al mio arrivo: la povera vecchia era morta il giorno prima e la mia improvvisa voglia di distruzione planetaria in quel preciso istante.

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LUOMO A UNA DIMENSIONE Luniverso potrebbe avere undici dimensioni. Le donne potrebbero evitare per sempre la chirurgia plastica e gli uomini di ammazzarsi di noia e di alcolici davanti ai playoff. I ragazzini potrebbero smetterla di dire cose delle quali non si pentiranno mai e il senso di colpa ritornare a buon diritto a sdraiarsi sulle lunghe sedie degli studi di psicoanalisi. Tutto questo sarebbe possibile, se io fossi in grado di aggiustare il mondo. Il problema insolubile, non legato al fatto che io non sappia riparare nulla con le mie mani, unabilit che non serve, considerato il fatto che il mondo non un motore o un ascensore o un tubo di scarico. Forse pi simile a un enorme cesso e l umanit a un esagerata accoppiata di chiappe pronta a sedercisi sopra con noncuranza. A parte queste puerili divagazioni, Sabrina non sostava pi nellanticamera del mio cervello da circa due anni, l undicesima dimensione se lera inghiottita, dimostrando, se mai ce ne fosse stata la matematica necessit, che le donne posseggono una trasparenza transgeometrica, difficilmente districabile dalla solidit della loro carne. Ma, come ogni storia che si rispetti, anche la nostra aveva lasciato uno strascico, un segno che non avevo avuto il coraggio o semplicemente la forza di cancellare. Si trattava di una lima per unghie, un oggetto dal quale non mi volevo separare. Lo tenevo su un piatto giapponese laccato di rosso. Quel pezzo di metallo non aveva certo un valore sentimentale, agganciava la mia attenzione, trascinandola in luoghi mentali, dove Sabrina, dopo aver esercitato lerotica arte 126

dellannientamento della mia coscienza, seduta con le gambe accavallate in fondo al letto, si graffiava le unghie guardando la magnolia in fiore che occupava il centro di un perfetto quadrato di abitazioni; alveari di cemento incollati luno allaltro da una simmetria nervosa. Se pioveva, e questo avveniva spesso, il ritmo delle gocce, incanalate come una corda dacqua nelle grondaie di rame, si armonizzava con impeccabile precisione con il cicaleccio che emergeva dallo sfregamento delicato della lima che forgiava la dura cheratina di lei in artigli affilati, equivalenti a pericolosi e graffianti strumenti di possesso. Poteva accadere che passasse unora, prima che il suo rituale terminasse e i suoi occhi si staccassero dalla magnolia, per osservare il lavoro di cesello compiuto a memoria, completato con un soffio dalito. In quei sessanta minuti, sarebbe potuto accadere di tutto, ma non succedeva mai niente di cos interessante. Lassurdit del vivere insieme si espletava in tutta la sua chiarezza, in tutta la sua interezza. Ci sarebbe voluto uno sforzo titanico, per riuscire con successo a far deragliare la monotonia della nostra simbiosi, dalle rotaie della prevedibilit. Solo una miserabile volta, nello spazio temporale di unaltra manciata di minuti, riuscii ad immaginarmi una vita diversa, in un posto antitetico al dove prismatico, sulle cui lucide facce si riflettevano senza fine i nostri corpi privi di ombra. A causa della discesa elettrica di uno schizzo di luce, che anticipava una martellata, sferrata da un Dio arrabbiato, sulla crosta del pianeta, Sabrina emise un urlo, lasciando cadere la lima, spezzandosi un unghia, buttandosi accanto a me, cingendomi con forza la schiena nuda, mentre la finestra si spalanc andando in frantumi, permettendo alla pioggia di scagliarsi liquida e isterica sul pavimento. 127

Cera un senso in tutto quel turbinio di gocce gettate dal vento in fondo al letto: le cose del mondo ripresero per sessanta minuti il loro ordine naturale, perch io e Sabrina non potevamo fare a meno di restare abbracciati, lasciando che i grossi fiori di magnolia invadessero la stanza oltrepassando quel rettangolo aperto nel muro. Quando la tempesta si calm, il pomeriggio aveva spodestato il mattino, il sole le nuvole, il vuoto dietro la mia schiena le sue braccia. Come se non fosse accaduto niente, Sabrina ritorn ad assumere la posizione di una qualunque odalisca storpiata dalla sua stessa avvenenza, cerc tra i fiori di magnolia, sul pavimento allagato, la sua lima; la raccolse con una certa delicatezza, lasciug sfregandola con disattenzione sul lenzuolo e ricominci a muoversi con ritmo preciso sulle sue dita. Quando la sera spinse quello strano pomeriggio gi, oltre lorlo curvo del mondo, capii che non avrei voluto aggiustare i vetri della finestra e nemmeno spazzato via i fiori bianchi che schiacciavo con piacere sotto i piedi. Lei se nera andata abbandonando con uguale delicatezza la lima sul letto e qualcosaltro di trasparente, forse una delle undici dimensioni dell amore che violano allegramente le leggi del caso o, semplicemente, aveva lasciato la schiena nuda di un uomo a una dimensione.

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L ESPRESSIONE SERENA DI ANGELA Nell infierire, la vita ci oltraggia, ma giusto che sia cos, perch non c altro insegnamento che il dolore per comprendere l inconoscibile. Semmai avessimo legato le nostre mani e i nostri piedi rifiutandoci di proseguire nellassurdo cammino, delegando allimmobilit il destino della creazione, non avremmo forse ottenuto di pi? Noi siamo i perdenti e maggiore la nostra sconfitta pi largo e sguaiato si fa il ridere dellumanit, uno sghignazzare che adombra quellespressione uguale e contraria che l urlo, non pi silenzioso, non patetico, semplicemente cristallizzato in unimpressione fotografica sulla lastra del tempo, ingordo di inutili e scombinate reazioni che chiamiamo sentimenti, proprio quando la loro struttura elementare, viscerale, si fatta gelo siderale, zero assoluto. Ho visto l ombra del cipresso cadermi in faccia, ieri mattina, mentre camminavo tra le tombe cercando un volto incastrato sul marmo nero: l espressione serena di Angela. Avevo scelto le parole con cura, la frase per suggellare la tua partenza definitiva dal mondo fluttuante, l ukiyo-e dei pittori giapponesi che tanto ti affascinavano, quando la tua mano delicata e nervosa s incollava alla tela nel tentativo sacro e disperato di cogliere nei vuoti bianchi e neri lascati dall inchiostro, l infinito. Ieri mattina pensavo ai nostri corpi, pensavo al calore della vita che si inerpicava per i nostri muscoli, affiorando in guizzi vermigli sulle tue guance, sulle tue labbra, materia di baci, ornamento di respiri, incantesimi morbidi che trionfavano sulla notte. Ieri mattina cercavo la tua lapide scura, il tuo nome di bronzo, lasciandomi scuotere dal magnetismo informe e doloroso dei 129

ricordi, schiacciando la ghiaia sotto i piedi, sentendo tutta la durezza della terra conficcarsi in me. Sotto la terra si muovevano creature immortali, ne ero cosciente, sopra i cieli altre forme di vita, le sentivo; ero andato oltre un atto di fede, perch avevo attraversato la speranza ed ero approdato alla certezza: e allora, per quale dannato motivo mi mancavi? Si trattava di debolezza, di malattia, di codardia? No, era semplicemente tristezza, una malinconia incoerente, inframmezzata da suoni, melodie che avevamo ascoltato insieme. Ieri mattina camminavo in mezzo alle tombe e canticchiavo piangendo...Vorrei che fosse amore...ma proprio amore, amore...la cosa che io sento per te..., poi, sulla eterea tavolozza del cielo si andavano formando segni inconfondibili della tua presenza: voli pindarici di ali scure tra zone sfillacciate di nubi abbracciate d azzurro e ferite di grigio, fatte a brandelli dalla prima brezza d autunno e dalla storia del nostro amore. Mi sarebbe piaciuto vivere con te in un altro luogo, circondati da altra gente, da altre parole, mi sarebbe piaciuto pensare a noi come a viandanti, a nomadi romantici senza fissa dimora, solo radicati in noi e nella nostra illusione sentimentale. Ma il Re del Mondo l ha saputo, prima che potessimo veramente dire che ci amavamo, prima che si compisse il miracolo del cuore, l impossibile vita nascosta, protetta da ogni dolore, da ogni fatica, da ogni delusione, da ogni distorsione, da ogni ritorsione. Ma il Re del Mondo non poteva conoscere le parole che avrei inciso sull ultimo rifugio che ti avrebbe ospitato, parole di ferro e di fuoco, non una poesia, ma un grido, un invocazione: SE PENSI CHE IO SONO QUI TU NON MI AMI.

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Ieri mattina ho visto il cielo cambiare colore e come in una tela di Hokusai, mi sembrato di cogliere la sua anima oltrepassare un ponte, un anima avvolta in un kimono di seta: lei s girata e mi ha guardato e tutto quello che ho trattenuto era l espressione serena di Angela.

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INDICE

Introduzione fredda Brigida Flores Godel Hyperdonna Un isterica con due barboncini Ku La metamorfosi di Lola Mondo drink Incendio Interrogativo Il sacco 7 colpi Crash Costanza Un tango solo per me Lossessione per le tue mani Apocalisse Magdalena Macchie di te Amore free Dannazione Artemide Con il suo nome Cecile Tacchi rossi Persuasione La femmina di stoffa Corine 132

Esilio perpetuo Espiazione Avevo una donna che rideva sempre Scultura Lavvoltoio Unimprovvisa voglia di distruzione Planetaria Luomo a una dimensione Lespressione serena di angela

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