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LO SPAZIO LETTERARIO

DI ROMA ANTICA
Volume VI
I TE STI: 1. LA P OE S IA

Direttore
PIERGIORGIO PARRONI

A cura di
ALESSANDRO FUSI, ANGELO LUCERI,
PIERGIORGIO PARRONI, GIORGIO PIRAS

S
SALERNO EDITRIC E
ROMA
In redazione:
CARLO FRANCO

Inserti iconografici:
EUGENIO POLITO

Traduzioni:
Carlo Franco e Giusto Traina

ISBN 978-88-8402-678-1
Tutti i diritti riservati - All rights reserved
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perseguito a norma di legge.
III
LE M ETAMORFOSI DI OVIDIO:
L’EPICA IN TRASFORMAZIONE

Con la composizione delle Metamorfosi Ovidio compie il progetto piú ambizio-


so di una carriera brillante e feconda di innovazioni (basti pensare, ad es., alla crea-
zione del genere dell’epistola poetica attribuita a personaggi del mito con le Heroi-
des o alla giocosa poesia didascalica di argomento erotico). Dopo che Virgilio aveva
realizzato con l’Eneide un monumentale epos nazionale, in rapporto di aemulatio con
entrambi i poemi omerici, ma anche un’opera « curiosamente intransitiva » (Bar-
chiesi f i p. 120), Ovidio sceglie di impegnarsi nella composizione di un’imponen-
te epica mitologica, caratterizzata come quella eroica e storica dall’uso dell’esame-
tro: una storia del mondo, dal caos originario fino alla contemporaneità, realizzata
attraverso una narrazione continua condotta dal punto di vista del cambiamento.
La metamorfosi è infatti il filo conduttore che unisce tutte le vicende narrate, che
appartengono, salvo pochissime eccezioni, al mito greco: semidei, eroi, uomini co-
muni (ma alla trasformazione può essere soggetta anche una statua che diviene
umana, come nell’episodio di Pigmalione in x 243-97) sono mutati in animali, albe-
ri, fiori, minerali, fonti d’acqua (oppure in puro suono, come nel caso della ninfa
Eco nel brano proposto di iii 339-512). La componente eziologica, tipica dell’ales-
sandrinismo, riveste un ruolo significativo nell’opera.
Ovidio dunque rinuncia all’epica guerresca, ormai largamente dominante a Ro-
ma: per il suo tema l’opera rivela l’ascendenza, piú che dei poemi omerici e dell’E-
neide (che pure rimangono modelli ineludibili per il poeta), della Teogonia di Esio-
do, una raccolta di storie sull’origine e la genealogia degli dei, ma anche dello pseu-
do-esiodeo Catalogo delle donne, incentrato sulle genealogie degli eroi e sulla loro
origine da incontri tra dei e donne. Modelli privilegiati per questo genere di narra-
zione poetica erano presenti nella letteratura ellenistica, che non a caso aveva scel-
to Esiodo come capostipite letterario: soprattutto gli Aitia di Callimaco, la raccolta
di elegie eziologiche divenuta simbolo della raffinatezza alessandrina, e gli †Ete-
roiozömena (lett. ‘Corpi mutati’), un poema in esametri, per noi perduto, di Nican-
dro di Colofone (II sec. a.C.), costituito da storie di metamorfosi; delle Metamorfosi
attribuite a Partenio di Nicea, che operò a Roma e influenzò la poesia di Catullo e
Virgilio, troppo poco ci è noto (e la stessa attribuzione a Partenio di un frammento
elegiaco di recente pubblicazione è congetturale), come dell’Ornithogonia attribui-
ta a Boios e ripresa da Emilio Macro. Ma anche tra i Romani aveva trovato spazio il
gusto per la narrazione di metamorfosi, che aveva caratterizzato la produzione
neoterica di epilli (la Zmyrna di Cinna, l’Io di Calvo, il Glauco di Cornificio); lo stes-
so Virgilio nella materia del canto di Sileno dell’ecloga sesta (influenzata dagli Ero-

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iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione

tikà pathémata di Partenio) aveva sperimentato un’epica mitologica di matrice non


dissimile da quella che darà vita al poema ovidiano.
Alla sua stesura il poeta lavorò, pressappoco in contemporanea con quella dei
Fasti, tra il 2 e l’8 d.C., anno nel quale lo colpí l’editto di relegazione a Tomi e data
che segna uno spartiacque nella vita e nella carriera poetica di Ovidio, all’epoca
cinquantenne. E proprio al trauma dell’esilio, considerato dal poeta alla stregua
della morte, egli attribuirà in seguito la mancata revisione e levigatura finale dell’o-
pera (Trist., i 7 13-40; iii 14 19-24), anche se in questa affermazione è da vedere, con
ogni probabilità, una finzione letteraria, esemplata sul modello di Virgilio che, co-
me è noto, in punto di morte chiese che venisse bruciata l’Eneide, cui non aveva po-
tuto dare l’ultima mano. L’incompiutezza sembra divenire, a partire da Virgilio,
una sorta di destino del poeta epico e riguarderà anche Lucano (f i pp. 116 sg.).
L’ampiezza e la complessità del disegno sono esposte nel breve ma denso proe-
mio (Met., i 1-4): In nova fert animus mutatas dicere formas / corpora: di, coeptis (nam vos mu-
tastis et illa) / adspirate meis primaque ab origine mundi / ad mea perpetuum deducite tempo-
ra carmen, ‘L’animo mi spinge a dire le forme mutate in nuovi corpi: o dei, spirate
propizi ai miei progetti (infatti voi avete mutato anche quelli) e dalla prima origine
del mondo svolgete un canto continuo fino ai miei tempi’. Il nesso in nova, che apre
il poema ed è completato, in enjambement, da corpora al v. 2, introduce il tema fonda-
mentale dell’opera, il mutamento, ma suggerisce anche, a livello poetico, una con-
sapevole ricerca di originalità da parte di Ovidio. E originale appare anche la rinun-
cia all’invocazione alle Muse (o a una Musa), topica dei proemi epici, per quella a
tutti gli dei, che in ogni caso è posposta all’ispirazione interiore (fert animus). L’e-
spressione mutatae . . . formae fornisce una sorta di titolo latino dell’opera (forma è cor-
rispettivo del gr. morfhö), che Ovidio stesso utilizzerà per indicare il poema nelle
elegie dell’esilio (Trist., i 1 117; 7 11; iii 14 19), e la centralità del tema della metamor-
fosi è posta in risalto dall’anafora del verbo (mutatas . . . mutastis). L’inciso parentetico
(nam vos mutastis et illa, scil. coepta) intende probabilmente sottolineare il ruolo divi-
no nella metamorfosi dello stesso Ovidio da poeta elegiaco a epico e suggerire nel-
l’interferenza tra elegia ed epica una chiave di lettura del proprio programma lette-
rario (già in Am., i 1 1 sgg. Ovidio aveva giocosamente attribuito al dio Cupido la
trasformazione in elegia dell’opera epica che egli andava componendo, attraverso
la sottrazione di un piede dal secondo verso). L’immenso arco cronologico del poe-
ma è abbracciato dall’espressione prima . . . ab origine mundi / ad mea . . . tempora (richia-
mata in Trist., ii 559 sg.), mentre perpetuum deducite . . . carmen è espressione ricca di
connotazioni metapoetiche: l’aggettivo significherà ‘continuo, ininterrotto’ (cfr.
Orazio, Carm., i 7 5 sg.), ma anche ‘eterno’, in relazione alle aspirazioni di immor-
talità poetica; deducere è verbo tecnico nelle dichiarazioni di poetica (cfr. Virgilio,
Georg., iii 10 sg.; Orazio, Carm., iii 30 13 sg.) e, tra le diverse sfumature di significato
(‘trasferire’, ‘portare sul carro del trionfatore’, ‘fondare una colonia’), presenta an-

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i · l’epos

che quella di ‘filare la lana rendendola sottile e raffinandola’, che i poeti romani
prediligono come metafora per lo stile “tenue” di ascendenza callimachea (gr. lep-
toöw e leptaleöow).
Il poema si compone di quindici libri ed è, se si eccettuano i Punica di Silio Itali-
co, il piú lungo epos latino (consta di circa dodicimila versi, per una lunghezza me-
dia di libro di circa 800 versi). Contiene circa duecentocinquanta storie, di respiro
diseguale (si va dalla breve menzione ad alcune centinaia di versi), disposte all’in-
terno dell’opera in modo estremamente flessibile, senza che nessuna risulti privile-
giata rispetto alle altre: la narrazione prende le mosse dall’origine del mondo a par-
tire dal caos primigenio e procede con la creazione dell’uomo, il diluvio universa-
le, la rigenerazione del genere umano grazie a Pirra e Deucalione; giunge infine,
articolandosi in molteplici vicende, fino ai tempi del poeta con il catasterismo di
Cesare e l’esaltazione di Augusto, ormai dominatore del mondo. Questa struttura
cronologica consente a Ovidio di incorniciare l’opera con la celebrazione del prin-
cipato, anche se, come si ricava pure dalle altre opere ovidiane, l’adesione all’ideo-
logia augustea non appare (ma il tema è discusso) particolarmente sentita dal poe-
ta, come invece era stato per Virgilio e Orazio. La sostanziale distanza che separa
Ovidio da Virgilio è ben visibile anche nella cosiddetta Eneide delle Metamorfosi, ov-
vero quella sezione del libro xiv dedicata alla narrazione di alcuni episodi della sa-
ga eneadica.
Il filo cronologico proposto nel proemio è però in alcuni punti tanto sottile da
divenire impercettibile e prevalgono, di volta in volta, criteri diversi: in alcuni casi
le storie sono accomunate dalla contiguità geografica (ad es. con il libro iii prendo-
no inizio le saghe tebane), in altri da un criterio genealogico; talvolta l’accostamen-
to è suggerito da analogie tematiche o di metamorfosi, talaltra è dettato dalla con-
trapposizione. In diversi casi Ovidio suggerisce, tramite analogie nella dizione
poetica, parallelismi e consonanze tra vicende distanti nel poema.
Nessun personaggio, come è facile capire, può assumere lo statuto di protagoni-
sta, neanche Giove, che pure compare sia all’inizio che alla fine del poema; alla cen-
tralità dell’eroe epico, dotato di virtú eccezionali, succede, nelle Metamorfosi, la pre-
senza di una folla di personaggi, privi di valori eroici; la loro azione tende a manca-
re di un fine, quanto mai distanti in questo da Achille, Odisseo ed Enea. Di conse-
guenza l’opera è priva di un centro narrativo; la sua funzione è rivestita unicamen-
te dalla metamorfosi.
Il poema si configura in certa misura come una sorta di raccolta di epilli di ascen-
denza alessandrina e neoterica (e con l’epillio latino condivide alcuni miti narrati:
Io, Mirra, Europa, Scilla); garanzia dell’unità dell’opera, insieme al motivo centrale
del mutamento, è la continuità dei temi: le vicende trapassano le une nelle altre, in-
frangendo talvolta i confini dei libri, quando non sono inserite, attraverso la raffi-
nata tecnica della mise en abîme (‘racconto a cornice’), all’interno della cornice di

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iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione

un’altra storia. Anche la narrazione, con le sue trasformazioni continue, sottostà al-
la legge della metamorfosi di cui è veicolo. Il solo criterio ordinatore è la scelta sog-
gettiva dell’autore, che può cosí mettere all’opera la propria fantasia creativa. A ta-
le soggettività è sotteso un profondo relativismo, nel quale l’unico valore stabile è
assegnato proprio all’illusionismo della poesia (f i p. 121). La metamorfosi stessa è
del resto metafora dell’atto poetico, la cui suprema realizzazione consiste nel ren-
dere credibile e realistico l’inverosimile. Il lungo discorso di Pitagora contenuto nel
xv libro (vv. 75-478), incentrato sulla teoria della metempsicosi e sul mutamento di
tutte le cose, fornisce una base filosofica al tema metamorfico, a cui molti studiosi
hanno voluto dare enfasi, ma l’interesse principale di Ovidio, piú che per l’aspetto
teorico, sembra essere per la descrizione del sorprendente e del miracoloso. In es-
sa il poeta impegna tutte le risorse del suo stile, caratterizzato da una straordinaria
padronanza dei mezzi espressivi, da ironica levità e raffinatezza, che lo rendono il
piú callimacheo tra i poeti romani. Ed è proprio nella descrizione del processo di
metamorfosi, condotta con sensibilità visiva e cura del dettaglio, che Ovidio rag-
giunge vette non toccate in precedenza nella poesia classica (non a caso con lui, ol-
tre che con Lucano, scenderà in aperta competizione Dante in Inf., xxv 94-99); nel-
la trasformazione Ovidio sottolinea, insieme ai caratteri oppositivi tra le due for-
me, anche gli elementi di continuità: l’antica natura non si perde completamente
nella nuova, ma permane e anzi, attraverso la metamorfosi, trova il suo esito natu-
rale. Il linguaggio si adegua al processo e sfrutta la metafora, corrispettivo linguisti-
co della metamorfosi, per illustrare le analogie con la forma precedente.

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i · l’epos

M ETAMORPHOSES

iii 339-512

Ille per Aonias fama celeberrimus urbes


inreprehensa dabat populo responsa petenti; 340
prima fide vocisque ratae temptamina sumpsit
caerula Liriope, quam quondam flumine curvo
implicuit clausaeque suis Cephisos in undis
vim tulit. Enixa est utero pulcherrima pleno
infantem nymphe, iam tunc qui posset amari, 345
Narcissumque vocat. De quo consultus, an esset
tempora maturae visurus longa senectae,
fatidicus vates « Si se non noverit » inquit.
Vana diu visa est vox auguris; exitus illam
resque probat letique genus novitasque furoris. 350
Namque ter ad quinos unum Cephisius annum
addiderat poteratque puer iuvenisque videri.

Metamorphoses. Si propongono due brani significativi di un poema per la sua natura molteplice e
polimorfa difficilmente antologizzabile: il primo contiene uno tra gli episodi piú fortunati del
poema, non solo sul versante artistico (sia letterario che figurativo), ma anche su quello psicoana-
litico (Freud e Lacan): la vicenda di Eco e Narciso e il successivo innamoramento del giovane per
la propria immagine riflessa in una fonte. Ovidio unisce, in modo per quanto ne sappiamo origi-
nale (ma la cautela è d’obbligo), due distinte vicende mitiche: l’amore infelice della ninfa Eco per
il bellissimo fanciullo Narciso, concluso con la metamorfosi della ninfa in puro suono, e l’autoin-
namoramento di Narciso alla fonte, che lo conduce alla morte per consunzione e alla metamor-
fosi nell’omonimo fiore. Le due storie sono accomunate dall’inganno originato dal riflesso (della
voce nella storia di Eco, visivo in quella di Narciso). Motivo centrale dell’episodio è dunque l’illu-
sione, realizzata sapientemente da Ovidio in versi che si presentano tra i piú eleganti e polisemici
di un autore comunque mai “piano”. Il secondo episodio riguarda il primo amore completamen-
te umano descritto nel poema: quello infelice e tragico tra Piramo e Tisbe, una vicenda di amore
e morte che ha goduto di grandissima fortuna nel Medioevo ed è a noi familiare come modello
per la trama del Romeo e Giulietta di Shakespeare (che già l’aveva inserita nel Sogno di una notte di
mezza estate). Il testo seguito è quello della recentissima edizione oxoniense curata da R.J. Tarrant,
Oxford, Univ. Press, 2004 con alcune modifiche nel testo e nella punteggiatura. Di alcuni casi di
dissenso significativi si dà conto nelle note.
iii 339-512. Eco e Narciso. Narciso s’innamora di Narciso. Il bellissimo giovane Narciso, figlio del fiu-
me Cefiso e della ninfa Liriope, è desiderato da ragazzi e fanciulle, ma sdegna tutte le profferte
amorose, preferendo dedicarsi alla caccia. Vedendolo proprio durante una battuta di caccia, la nin-
fa Eco, condannata da Giunone a non potere parlare, se non ripetendo le parole degli altri, se ne

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iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione

LE M ETAMORFOSI

iii 339-512

Egli, celeberrimo per fama fra le città aonie,


dava responsi infallibili al popolo che li chiedeva; 340
per prima saggiò la veridicità e l’efficacia delle sue parole
la cerulea Liriope, che un tempo con la sua sinuosa corrente
avviluppò Cefiso e a lei imprigionata tra le sue onde
fece violenza. Rimasta incinta, la bellissima ninfa mise alla luce
un bambino, che già allora poteva essere amato, 345
e lo chiamò Narciso. Interrogato su di lui, se avrebbe visto
i tempi lunghi di una vecchiaia avanzata,
il profetico indovino: « Se non si conoscerà » disse.
A lungo il responso dell’augure sembrò vano; la vicenda e la sua fine,
il tipo di morte e la novità della follia l’hanno confermato. 350
Ora, il figlio di Cefiso aveva aggiunto un anno a
quindici e poteva sembrare sia fanciullo che ragazzo.

innamora. Respinta come gli altri, si consuma per la passione, assottigliandosi nel corpo fino a ri-
dursi a pura voce (l’eco). Successivamente, in seguito alla maledizione di un amante respinto, Nar-
ciso si specchia a una fonte pura, innamorandosi perdutamente di sé. Incapace di separarsi dalla vi-
sione dell’irraggiungibile amato, si consumerà, come prima era accaduto a Eco, fino a scomparire.
Al suo posto le Naiadi, sue sorelle, troveranno un fiore di colore tra il bianco e il rosso, cinto di pe-
tali bianchi.
339. Ille: l’indovino Tiresia, di cui Ovidio ha raccontato la vicenda nei versi precedenti (316-38):
Giunone, oltremodo adirata per il suo responso favorevole a Giove su una questione giocosa po-
stagli dai due dei, lo accecò; Giove in compenso lo forní di doti profetiche. – per Aonias . . . urbes:
l’Aonia, antico nome della Beozia, è teatro della vicenda di Eco e Narciso. c 341. fide vocisque ratae:
endiadi. Fide è genitivo arcaico (cfr. Prisciano, GL, ii 366 9 sgg.); in Ovidio ancora in Met., vi 506; vii
728, 737. c 342. caerula Liriope: il nome di Liriope, ninfa di una fonte, non ricorre prima di Ovidio; in
Vibio Sequestre (2 14 Parroni = 176 Gelsomino) è la fonte specchiandosi nella quale Narciso si in-
namorerà di sé. L’epiteto caerulus (come caeruleus) è legato al mare e alle divinità marine o acquati-
che. c 343. Cephisos: il fiume, che scorreva tra Focide e Beozia, sfociando nel lago Kopais, è rappre-
sentato, come spesso accade nei racconti mitici, con tratti antropomorfici. c 345. iam tunc qui posset
amari: il verso pone in risalto l’elemento chiave della vicenda: la bellezza di Narciso e la sua capa-
cità di suscitare amore. c 348. « Si se non noverit »: il responso di Tiresia rovescia in modo paradossa-
le la massima delfica gnvüui seaztoön, ‘conosci te stesso’ (tradotta in latino con nosce te ipsum). Per
Narciso conoscere se stesso sarà rovinoso! c 350. furoris: il termine definisce il carattere insano e ro-
vinoso della passione amorosa a partire da Catullo (68 129) e Lucrezio (iv 1069). In Narciso il furor
assume i tratti patologici della vera follia (cfr. v. 479).

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i · l’epos

Multi illum iuvenes, multae cupiere puellae;


sed (fuit in tenera tam dura superbia forma)
nulli illum iuvenes, nullae tetigere puellae. 355
Aspicit hunc trepidos agitantem in retia cervos
vocalis nymphe, quae nec reticere loquenti
nec prior ipsa loqui didicit, resonabilis Echo.
Corpus adhuc Echo, non vox erat, et tamen usum
garrula non alium quam nunc habet oris habebat, 360
reddere de multis ut verba novissima posset.
Fecerat hoc Iuno quia cum deprendere posset
sub Iove saepe suo nymphas in monte iacentes,
illa deam longo prudens sermone tenebat
dum fugerent nymphae. Postquam hoc Saturnia sensit, 365
« Huius » ait « linguae, qua sum delusa, potestas
parva tibi dabitur vocisque brevissimus usus »,
reque minas firmat; tantum haec in fine loquendi
ingeminat voces auditaque verba reportat.
Ergo ubi Narcissum per devia rura vagantem 370
vidit et incaluit, sequitur vestigia furtim
quoque magis sequitur, flamma propiore calescit,
non aliter quam cum summis circumlita taedis
admotas rapiunt vivacia sulphura flammas.
O quotiens voluit blandis accedere dictis 375

353, 355. Multi . . . puellae . . . nulli . . . puellae: i versi alludono a Catullo, 62 39-47, che istituisce una simi-
litudine tra la vergine e un fiore ambito finché intatto, che però sfiorisce e cessa di destare deside-
rio una volta còlto: Ut flos in saeptis secretus nascitur hortis, / ignotus pecori: nullo convolsus aratro, / quem
mulcent aurae, firmat sol, educat imber; / multi illum pueri, multae optavere puellae: / idem cum tenui carptus
defloruit ungui, / nulli illum pueri, nullae optavere puellae: / sic virgo, dum intacta manet, dum cara suis est; /
cum castum amisit polluto corpore florem, / nec pueris iucunda manet, nec cara puellis (‘Come il fiore nasce
nascosto in giardini cintati, sconosciuto al gregge, non estirpato da aratro e le brezze lo accarezza-
no, il sole lo fortifica, la pioggia lo fa sbocciare; molti ragazzi lo desiderano, molte ragazze: una
volta che, spiccato con sottile unghia, sfiorisce, nessun ragazzo lo desidera, nessuna ragazza, cosí la
vergine, finché rimane intatta, è cara ai suoi; una volta che, violato il corpo, ha perso il casto fiore,
non rimane gradita ai ragazzi, né cara alle ragazze’). – tetigere: il verbo qui nell’accezione erotica (fa
da pendant a cupiere), piuttosto che in quella di movere, ‘commuovere’ (Bömer). c 357-58. I versi pre-
sentano le peculiarità di Eco: la vox e la facoltà di parlare solo per riflesso (resonabilis, agg. di conio
ovidiano), realizzata in modo mimetico da Ovidio attraverso l’uso insistito per tutto l’episodio del
prefisso re- (cfr. vv. 358, 361, 369, 378, 380, 387, 392, 496, 498, 500). Vocalis significa ‘dalla bella voce, ar-
moniosa’ (cfr., ad es., Orazio, Carm., i 12 7 sg.: vocalem . . . / Orphea; Properzio, ii 34 37: vocalis Arion [=
Ovidio, Fast., ii 91]), ma prefigura la metamorfosi di Eco in pura voce. c 359-60. Il mito si configu-

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iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione

Molti giovani lo desiderarono, molte ragazze;


ma (vi era una superbia tanto dura nella delicata bellezza)
nessun giovane riuscí a toccarlo, nessuna ragazza. 355
Lo guarda mentre sospinge nelle reti i cervi tremanti
una ninfa dalla bella voce, che non sa tacere con chi parla
né parlare lei stessa per prima, Eco che può solo riecheggiare i suoni.
Ancora un corpo era Eco, non una voce, e tuttavia, loquace,
possedeva un uso della parola non diverso da quello che ha ora: 360
poter ripetere le ultime parole di molte.
Ne era stata artefice Giunone, poiché quando poteva cogliere in flagrante
le ninfe spesso distese sotto il suo Giove sul monte,
quella di proposito tratteneva la dea con lunghi discorsi,
fin tanto che le ninfe fuggissero. Dopo che se ne accorse la figlia di
[Saturno: 365
« Di questa lingua » disse « da cui sono stata ingannata, ti sarà data
una facoltà limitata e della voce un uso brevissimo »,
e con i fatti confermò le minacce; soltanto alla fine di un discorso
questa raddoppia le voci e rinvia le parole ascoltate.
Cosí non appena vide Narciso che vagava per campi solitari 370
e arse di passione, ne seguí furtivamente i passi
e quanto piú da vicino lo segue, tanto piú è vicina la fiamma che la arde,
in modo non diverso da quando lo zolfo vivo, spalmato in cima alle torce,
ghermisce le fiamme che gli sono avvicinate.
Oh, quante volte desiderò avvicinarsi con dolci parole 375

ra anche come ai,tion del fenomeno acustico dell’eco. c 361. verba novissima: il superlativo, spesso
usato da Ovidio per indicare quanto precede la morte (cfr., ad es., Her., 9 167; Met., i 772; ii 363; iv
156, 544), anticipa il destino di Eco, che ripeterà anche le ultime parole di Narciso morente. c 361-
62. posset . . . posset: la ripetizione è apparsa non motivata e al v. 362 Housman congetturava vellet
(presente peraltro in alcuni codici usati da Tarrant). Tuttavia la ripetizione non appare fuori luogo
nell’episodio che narra la vicenda di Eco (cfr. anche 371 sg.: sequitur . . . sequitur, e 377: sinit . . . sinit; per
la virtuosistica mimesi degli effetti dell’eco si vedano in particolare i vv. 379-92) e potrebbe anzi
trattarsi di intenzionale effetto ecoico proprio nel verso in cui viene presentata la caratteristica di
Eco. c 363. sub Iove . . . suo . . . iacentes: il verbo è usato qui in modo eufemistico nell’accezione erotica.
c 371. vidit et incaluit: la formula dell’amore a prima vista (in Ovidio ancora in Fast., ii 307; Met., ii 574)
ricalca modelli come Virgilio, Buc., 8 41: ut vidi, ut perii, ut me malus abstulit error! (basato sulla tradi-
zione greca: Omero, Il., xiv 293-94 e Teocrito, Id., 3 42; su questo stilema vd. Timpanaro, Contribu-
ti, pp. 219-87). c 372. flamma propiore calescit: la tradizionale metafora della « fiamma d’amore » è svi-
luppata in termini simili in Ovidio, Her., 17 177: quo propius nunc es, flamma propiore calesco.

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i · l’epos

et molles adhibere preces! Natura repugnat


nec sinit incipiat; sed, quod sinit, illa parata est
exspectare sonos, ad quos sua verba remittat.
Forte puer comitum seductus ab agmine fido
dixerat « Ecquis adest? » et « Adest » responderat Echo. 380
Hic stupet, utque aciem partes dimittit in omnes,
voce « Veni » magna clamat; vocat illa vocantem.
Respicit et rursus nullo veniente « Quid » inquit
« me fugis? » et totidem quot dixit verba recepit.
Perstat et alternae deceptus imagine vocis 385
« Huc coeamus » ait, nullique libentius umquam
responsura sono « Coeamus » rettulit Echo
et verbis favet ipsa suis egressaque silva
ibat ut iniceret sperato bracchia collo.
Ille fugit fugiensque « Manus complexibus aufer; 390
ante » ait « emoriar, quam sit tibi copia nostri ».
Rettulit illa nihil nisi « Sit tibi copia nostri ».
Spreta latet silvis pudibundaque frondibus ora
protegit et solis ex illo vivit in antris.
Sed tamen haeret amor crescitque dolore repulsae; 395
attenuant vigiles corpus miserabile curae
adducitque cutem macies et in aera sucus
corporis omnis abit. Vox tantum atque ossa supersunt:
vox manet; ossa ferunt lapidis traxisse figuram.
[Inde latet silvis nulloque in monte videtur, 400
omnibus auditur; sonus est qui vivit in illa. ]
Sic hanc, sic alias undis aut montibus ortas
luserat hic nymphas, sic coetus ante viriles.
Inde manus aliquis despectus ad aethera tollens
« Sic amet ipse licet, sic non potiatur amato! » 405

379-92. Ovidio offre qui una perfetta mimesi dell’effetto dell’eco, prodotto tra i piú riusciti della
sua arte poetica. c 387. « Coeamus »: il verbo ha anche accezione erotica (cfr. coitus). Le parole di Nar-
ciso consentono a Eco una risposta maliziosa. c 393-94. pudibundaque . . . protegit: l’espressione è usa-
ta da Ovidio anche a proposito della vergogna di Mirra, innamorata del padre: Met., x 421 sg.: saepe
tenet vocem pudibundaque vestibus ora / texit. c 396-401. Viene descritta la metamorfosi di Eco, che da
essere umano si riduce prima a voce e ossa, quindi soltanto a voce, mentre le ossa si pietrificano.
L’espunzione dei vv. 400 sg. di Tarrant (ma già di Heinsius) appare condivisibile: essi ripetono ele-

78
iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione

e rivolgergli delicate preghiere! La natura si oppone


e non permette che inizi; ma, ciò che le permette, è pronta
ad attendere i suoni ai quali rinviare le sue parole.
Un giorno il fanciullo, staccatosi dalla fida schiera dei compagni,
aveva detto « Forse qualcuno è presente? » e « Presente » gli aveva
[risposto Eco. 380
Questi si stupisce, e come ha rivolto lo sguardo da tutte le parti,
a gran voce grida « Vieni »; lei chiama chi la chiama.
Si guarda indietro e di nuovo, non venendo nessuno, « Perché » dice
« mi fuggi? » e tante parole quante disse ricevette indietro.
Rimane immobile e, ingannato dal riflesso della voce che si alterna, 385
« Qui riuniamoci » dice, e Eco, che non avrebbe mai potuto
rispondere ad alcun suono piú volentieri, replicò « Uniamoci »;
asseconda le sue parole e, uscita dalla selva,
procedeva per gettare le braccia intorno al bramato collo.
Quegli fugge e fuggendo dice « Tieni lontane le mani dall’abbraccio; 390
che io possa morire prima che tu disponga di me ».
Ella non rispose nulla, se non « Che tu disponga di me ».
Rifiutata si nasconde nelle selve e copre di fronde il volto
vergognoso e da allora vive in antri solitari.
Ma l’amore l’avvince e cresce per il dolore del rifiuto; 395
gli affanni che non consentono sonno rendono emaciato il misero corpo,
la magrezza le raggrinzisce la pelle e ogni linfa del corpo
svanisce nell’aria. Soltanto la voce e le ossa sopravvivono:
rimane la voce; dicono che le ossa abbiano assunto l’aspetto della pietra.
[Quindi si nasconde nelle selve e non è vista su nessun monte, 400
da tutti è udita; è il suono che vive in lei. ]
Cosí di lei, cosí di altre ninfe nate nelle onde o sui monti
egli si era preso gioco, cosí prima di schiere di uomini.
Per cui uno, spregiato, levando le mani al cielo
« Che possa anch’egli amare, che possa non far suo l’amato » 405

menti già anticipati nella narrazione: cfr. vv. 400: Inde latet silvis con 393: Spreta latet silvis (nella stes-
sa posizione di verso); 401: sonus est qui vivit in illa con 398: Vox tantum atque ossa supersunt; presenta-
no durezze linguistiche (401 in illa = de illa); sembrano infine vòlti a rendere piú esplicita la spiega-
zione dell’origine del fenomeno acustico dell’eco (401: omnibus auditur). c 404. aliquis despectus: l’au-
tore della maledizione è uno dei maschi sdegnati da Narciso. Il suo nome, Ameinias, è menziona-
to nel compendio mitologico di Conone (Diegeseis, 24). c 405. Sic . . . sic: qui con funzione ottativa. La

79
i · l’epos

dixerat: adsensit precibus Rhamnusia iustis.


Fons erat inlimis, nitidis argenteus undis,
quem neque pastores neque pastae monte capellae
contigerant aliudve pecus, quem nulla volucris
nec fera turbarat nec lapsus ab arbore ramus; 410
gramen erat circa quod proximus umor alebat,
silvaque sole locum passura tepescere nullo.
Hic puer et studio venandi lassus et aestu
procubuit faciemque loci fontemque secutus;
[dumque sitim sedare cupit, sitis altera crevit,] 415
dumque bibit, visae correptus imagine formae
[spem sine corpore amat, corpus putat esse quod unda est. ]
Adstupet ipse sibi vultuque immotus eodem
haeret, ut e Pario formatum marmore signum.
Spectat humi positus geminum, sua lumina, sidus 420
et dignos Baccho, dignos et Apolline crines
impubesque genas et eburnea colla decusque
oris et in niveo mixtum candore ruborem,
cunctaque miratur, quibus est mirabilis ipse.

presenza di licet non è esente da dubbi, ma non sono state proposte correzioni persuasive (precor
ipotizzato da Tarrant in apparato non rende minimamente ragione della corruttela). c 406. Rham-
nusia: Nèmesi, dea della vendetta, oggetto nell’antichità di un importante culto presso il demo at-
tico di Ramnunte. L’epiteto ricorre nella poesia latina a partire da Catullo (66 71; 68 77). c 407-36.
Narciso si specchia nella fonte, innamorandosi della propria immagine riflessa. La pericope è in-
trodotta da un’ekphrasis (‘descrizione’) della fonte e del luogo che la circonda (407-12), che presen-
ta i tratti caratteristici del locus amoenus (acqua limpida, erba umida, ombra dalla calura): per un ce-
lebre esempio cfr. l’ode di Orazio dedicata alla fonte Bandusia (Carm., iii 13). c 407. inlimis: lett. ‘pri-
va di fango’ (limus). L’uso dell’aggettivo, qui per la prima volta nella letteratura latina (poi in Auso-
nio, Ordo urb. nob., 158, p. 175 Green e Sidonio Apollinare, Epist., i 5 6), concorre alla descrizione di
un luogo fuori dal comune. c 413. studio venandi: la caccia, indicata da Ovidio stesso quale possibile
antidoto all’amore (Rem. am., 199 sg.: vel tu venandi studium cole: saepe recessit / turpiter a Phoebi victa so-
rore Venus, ‘oppure dedicati alla caccia: spesso Venere ha battuto vergognosamente la ritirata vinta
dalla sorella di Febo’), è invece causa dell’innamoramento esiziale di Narciso. c 415, 417. Tarrant,
sulla scia di Merkel (1855, 18752), espunge i versi, probabilmente con ragione: entrambi, pur ele-
ganti e “ovidiani” dal punto di vista stilistico, anticipano in modo brusco la descrizione della pas-
sione amorosa, realizzata da Ovidio con una climax piú sfumata (si noti l’insistenza dapprima sui
verba videndi e sul senso di incertezza e stupore: 418 adstupet, 419 haeret, 420 spectat; solo piú avanti
compaiono i segni evidenti della passione: 425 se cupit, 426 ardet); in 415, se anche si considera degno
del manierismo ovidiano il gioco tra il senso proprio e quello traslato di sitis (‘sete d’amore’), l’e-
spressione sitis . . . crevit non offre altre attestazioni in latino (a rigore poi la « sete d’amore » di Nar-

80
iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione

aveva detto: Ramnusia acconsentí alle giuste preghiere.


C’era una limpida fonte, argentea per le acque lucenti,
che né pastori, né caprette al pascolo sui monti
o altro gregge avevano toccato, che nessun uccello
né fiera aveva intorbidato, né ramo caduto da albero; 410
intorno vi era erba cui la prossimità dell’acqua dava linfa,
e una selva che non permetteva che il luogo si riscaldasse mai al sole.
Qui il fanciullo, sfinito dalla caccia e dalla calura,
cadde bocconi, attratto dall’aspetto del luogo e dalla fonte;
[e mentre tenta di sedare la sete, gli cresce un’altra sete,] 415
e mentre beve, rapito dall’immagine della bellezza che ha visto,
[ama una speranza senza corpo, ritiene che sia corpo ciò che è onda]
è còlto da meraviglia per se stesso e rimane immobile con la stessa
espressione del viso, come una statua scolpita di marmo di Paro.
Steso in terra guarda due astri, la luce dei suoi occhi, 420
e capelli degni di Bacco, degni di Apollo,
le guance imberbi e il collo d’avorio, la grazia della bocca
e il rossore che si mescola col candore della neve,
e ammira tutte le qualità per le quali egli è degno d’ammirazione.

ciso qui nasce e non cresce); l’anafora dumque . . . dumque in due versi consecutivi non presenta
paralleli calzanti; a v. 417 spem . . . amat è piuttosto duro, soprattutto se si confronta con l’uso di spes
al v. 457: Spem mihi nescio quam vultu promittis amico. c 416. visae . . . formae: il segmento di verso ricorre
identico in Met., iv 675-77 (Perseo si innamora a prima vista di Andromeda): trahit inscius ignes / et
stupet et visae correptus imagine formae / paene suas quatere est oblitus in aere pennas (‘inconsapevole assor-
be la fiamma e sbalordisce e, rapito dall’immagine della bellezza che ha visto, quasi si dimenticò di
scuotere in aria le penne’). Il contesto del brano può forse avvalorare in qualche misura l’ipotesi
che questo verso sia seguito da 418 (per l’espunzione di 417 vd. sopra, n. a vv. 415, 417): all’espres-
sione che definisce il “rapimento” dell’amore (676) segue il disorientamento (677), cosí come in iii
416 e 418 (visae correptus imagine formae / adstupet . . . sibi). c 419. e Pario . . . signum: il marmo dell’isola di
Paro, rinomato nell’antichità e molto usato per le statue, è spesso menzionato nelle similitudini
poetiche, in genere per indicare il candore lucente della pelle (Pindaro, Nem., 4 81; Teocrito, Id., 6
37 sg.; Anth. Pal., v 13 3; 194 3 sg.; Orazio, Carm., i 19 5 sg.; Seneca, Phaedr., 797); qui evidenzia so-
prattutto, con effetto ironico, il “rimanere pietrificato” di Narciso. c 420. geminum, sua lumina, sidus:
il verso risente della tradizione elegiaca, dove gli occhi dell’amata sono spesso definiti astri e luci:
cfr., ad es., Properzio, ii 3 14: oculi, geminae, sidera nostra, faces (vicino a Ovidio nella formulazione); i
18 15 sg.: ut tibi sim merito semper furor et tua flendo / lumina deiectis turpia sint lacrimis, ‘che io a ragione di-
venti per sempre la causa della tua rabbia e i tuoi occhi, piangendo, divengano brutti per le lacri-
me versate’; ma sua lumina evidenzia anche l’aspetto morboso della vicenda di Narciso, per il qua-
le le luci sono realmente le proprie. c 421. dignos . . . crines: le chiome fluenti, simbolo di eterna gio-
vinezza, sono frequente caratteristica iconografica dei due dei.

81
i · l’epos

Se cupit imprudens et qui probat ipse probatur, 425


dumque petit petitur, pariterque accendit et ardet.
Inrita fallaci quotiens dedit oscula fonti!
In mediis quotiens visum captantia collum
bracchia mersit aquis nec se deprendit in illis!
Quid videat, nescit, sed quod videt uritur illo 430
atque oculos idem qui decipit incitat error.
Credule, quid frustra simulacra fugacia captas?
Quod petis est nusquam; quod amas, avertere, perdes.
Ista repercussae quam cernis imaginis umbra est.
Nil habet ista sui; tecum venitque manetque, 435
tecum discedet – si tu discedere possis.
Non illum Cereris, non illum cura quietis
abstrahere inde potest, sed opaca fusus in herba
spectat inexpleto mendacem lumine formam
perque oculos perit ipse suos; paulumque levatus, 440
ad circumstantes tendens sua bracchia silvas:
« Ecquis, io silvae, crudelius » inquit « amavit?
Scitis enim et multis latebra opportuna fuistis.
Ecquem, cum vestrae tot agantur saecula vitae,
qui sic tabuerit, longo meministis in aevo? 445
Et placet et video, sed quod videoque placetque
non tamen invenio: tantus tenet error amantem!
Quoque magis doleam, nec nos mare separat ingens
nec via nec montes nec clausis moenia portis;

432-36. L’apostrofe dell’autore al personaggio, comune in contesti patetici, assume qui sfumatura
ironica. Il vocativo credule ricorre nel latino classico, oltre che qui, solo in Properzio, ii 25 21 sg.: tu
quoque, qui pleno fastus assumis amore, / credule, nulla diu femina pondus habet, ‘anche tu, che ti dai arie per
l’amore appagato, sappi, credulone, che nessuna femmina è stabile a lungo’, anch’esso volto a di-
silludere un innamorato. c 437-38. Una patologia amorosa simile a quella di Narciso (cfr. anche vv.
491-93) si ritrova nella Fedra senecana, cfr. vv. 373 sgg.: Nulla iam cereris subit / cura aut salutis; vadit in-
certo pede, / iam viribus defecta: non idem vigor, / non ora tinguens nitida purpureus rubor; / [populatur artus cu-
ra, iam gressus tremunt / tenerque nitidi corporis cecidit decor.] / et qui ferebant signa Phoebeae facis / oculi nihil
gentile nec patrium micant (‘Non le viene piú preoccupazione per il cibo o per la salute, si muove con
piede vacillante, ormai fiaccata nelle forze: non c’è piú lo stesso vigore, non il purpureo rossore che
le tingeva il volto luminoso; [l’affanno devasta gli arti, ormai tremano i passi e la delicata bellezza
del corpo splendente è venuta meno] e gli occhi che recavano i segni della luce di Febo non hanno
lo scintillio degno della sua famiglia e del padre’). – Cereris: Cerere, dea dell’agricoltura, indica tal-
volta in poesia, con metonimia mitologica, il cibo o il grano. – cura quietis: la clausola richiama la Di-

82
iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione

Se stesso brama, sconsiderato, e lo stesso che apprezza è apprezzato, 425


e mentre desidera è desiderato, insieme accende la passione e ne brucia.
Quante volte diede vani baci all’ingannevole fonte!
Quante volte immerse nelle acque le braccia per tentare di afferrare
il collo veduto e in esse non riuscí a trovare se stesso!
Non sa cosa vede, ma per ciò che vede arde di passione 430
ed eccita gli occhi lo stesso errore che li inganna.
Ingenuo, perché tenti invano di afferrare un’immagine sfuggente?
Ciò che desideri, non è in nessun luogo; ciò che ami, girati, lo farai
[svanire.
Quella che vedi è l’ombra di un’immagine riflessa.
Non ha nulla di suo; con te viene e rimane, 435
con te si allontanerà – se tu riesci ad allontanarti.
Né la preoccupazione per il cibo, né quella per il riposo
possono trascinarlo via di lí, ma steso sull’erba ombreggiata
guarda l’ingannevole bellezza con sguardo insaziato
e muore attraverso i suoi stessi occhi; e sollevatosi un poco, 440
tendendo le braccia alle selve circostanti, disse:
« C’è forse qualcuno, o selve, che ha amato piú crudelmente?
Voi lo sapete infatti e per molti foste opportuno nascondiglio.
Ricordate forse nella vostra lunga esistenza, visto che sono trascorse tante
generazioni della vostra vita, qualcuno che si sia consumato cosí? 445
Mi piace e lo vedo, ma ciò che vedo e mi piace
non riesco tuttavia a trovare: un tale accecamento possiede l’innamorato!
E, perché io mi debba ancor piú dolere, non ci separa un vasto mare,
né cammino, né monti, né mura con le porte sbarrate;

done di Virgilio, Aen., iv 5: nec placidam membris dat cura quietem (dove cura indica ‘l’affanno d’amore’).
Ovidio istituisce un esplicito collegamento tra Narciso e l’eroina (cfr. anche vv. 473, 474, 490). c 445.
qui sic tabuerit: il verbo indica in senso traslato la consunzione per amore: cfr. sotto, vv. 487-90. c 447.
tantus . . . amantem!: Tarrant segue qui un’ingegnosa ipotesi di E.J. Kenney (In Parenthesis, in « CR », a.
lxxxiv 1970, p. 291) e attribuisce queste parole al narratore Ovidio, che interromperebbe cosí il
monologo di Narciso, in base alla considerazione che l’uso di error presumerebbe una coscienza
della propria insania che solo piú avanti affiora in Narciso (cfr. v. 463: Iste ego sum!). Ma si tratterebbe
di un commento ben poco arguto da parte dell’autore, soprattutto dopo l’apostrofe diretta al per-
sonaggio dei vv. 432-36. Meglio dunque conservare l’attribuzione tradizionale a Narciso, dando a
error il significato, comune nel lessico elegiaco, di ‘follia d’amore’ (Rosati), che consente di evitare
l’anticipazione della presa di coscienza di Narciso (per questa accezione di error cfr., ad es., Ovidio,
Am., i 2 35-38). In tal modo le parole di Narciso si caricano di ironia tragica: il lettore può scorgere
in error un significato drammatico ben diverso da quello che gli attribuisce il personaggio.

83
i · l’epos

exigua prohibemur aqua. Cupit ipse teneri; 450


nam quotiens liquidis porreximus oscula lymphis,
hic totiens ad me resupino nititur ore.
Posse putes tangi; minimum est quod amantibus obstat.
Quisquis es, huc exi! Quid me, puer unice, fallis
quove petitus abis? Certe nec forma nec aetas 455
est mea, quam fugias; et amarunt me quoque nymphae.
Spem mihi nescio quam vultu promittis amico,
cumque ego porrexi tibi bracchia, porrigis ultro;
cum risi, adrides; lacrimas quoque saepe notavi
me lacrimante tuas; nutu quoque signa remittis 460
et, quantum motu formosi suspicor oris,
verba refers aures non pervenientia nostras.
Iste ego sum! Sensi, nec me mea fallit imago.
Uror amore mei, flammas moveoque feroque.
Quid faciam? Roger anne rogem? Quid deinde rogabo? 465
Quod cupio mecum est; inopem me copia fecit.
O utinam a nostro secedere corpore possem!
Votum in amante novum: vellem quod amamus abesset.
Iamque dolor vires adimit nec tempora vitae
longa meae superant primoque extinguor in aevo. 470
Nec mihi mors gravis est posituro morte dolores;
hic qui diligitur vellem diuturnior esset.
Nunc duo concordes anima moriemur in una ».

454. Quid me . . . fallis: dal verso traspare l’ironia di Ovidio: l’attributo unicus ha, nelle parole di Nar-
ciso, il senso traslato di ‘straordinario’, ma il lettore vi può cogliere quello reale di ‘uno solo’; l’e-
spressione me . . . fallis significa per Narciso ‘mi sfuggi’, per il lettore, come è in realtà, ‘mi inganni’. c
456. et amarunt . . . nymphae: piuttosto che pensare che quoque sia anteposto al termine a cui si riferi-
sce (‘anche le ninfe mi hanno amato’), appare preferibile, secondo l’interpretazione di M. Labate
(in « MD », nn. x-xi 1983, pp. 305-18), intendere l’espressione come un’affermazione orgogliosa
delle proprie qualità, che ha come modello il lamento del Coridone virgiliano (Buc., 2 19-27), sde-
gnato dal bel giovinetto Alessi (a sua volta esemplato sul canto di Polifemo in Teocrito, Id., 11). Per
la coloritura virgiliana dell’espressione cfr. Buc., 5 52: amavit nos quoque Daphnis. c 458-60. L’immagi-
ne di Narciso sembra tener conto delle prescrizioni per conquistare una donna date da Ovidio in
Ars am., ii 201 sg.: riserit: adride! Si flebit, flere memento; / imponat leges vultibus illa tuis (‘riderà: tu ricam-
biale il sorriso! Se piangerà, ricordati di piangere; sia lei a dettar legge alle espressioni del tuo vol-
to’). c 463. Iste ego sum!: il raggiungimento della consapevolezza della propria follia da parte di Nar-
ciso è reso da Ovidio con espressione singolare: iste non è mai, eccetto che qui, legato al pronome
di prima persona. – nec me mea fallit imago: allusione a Virgilio, Buc., 2 25-27: Nec sum adeo informis: nu-

84
iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione

da una sottile lingua d’acqua siamo tenuti lontani. Anch’egli desidera


[essere abbracciato; 450
infatti ogni qualvolta mi protendo a baciare le limpide acque,
anch’egli si protende verso di me con la bocca all’insú.
Penseresti che si possa toccare; è un nonnulla che ostacola gli amanti.
Chiunque tu sia, vieni qui fuori! Perché, fanciullo unico, mi sfuggi?
O dove te ne vai, desiderato? Di certo non è né il mio aspetto 455
né la mia età che devi fuggire; e anche me amarono le ninfe.
Mi fai balenare non so quale speranza con il tuo volto disponibile,
e quando io ti protendo le braccia, le protendi a tua volta;
quando ti sorrido, mi rispondi con un sorriso; anche le tue lacrime ho
[còlto spesso
mentre io lacrimavo; anche con il cenno del capo mi mandi segnali 460
e, per quanto arguisco dal movimento della bella bocca,
mi rispondi parole che non giungono alle mie orecchie.
Costui . . . sono io! L’ho capito, né mi inganna la mia immagine.
Ardo d’amore per me, suscito fiamme e le subisco.
Che dovrei fare? Essere richiesto o chiedere? E poi cosa chiederò? 465
Ciò che desidero è in me; la ricchezza mi ha reso indigente.
Oh, potessi separarmi dal mio corpo!
Un desiderio senza precedenti in un amante: vorrei che fosse lontano
[ciò che amiamo.
E ormai il dolore mi priva delle forze né rimane alla mia vita
un lungo tempo; mi spengo nella prima giovinezza. 470
Né la morte mi è sgradita, poiché con la morte mi libererò dei dolori;
vorrei che potesse vivere piú a lungo colui che è oggetto del mio amore.
Ora in due concordi moriremo in una sola anima ».

per me in litore vidi, / cum placidum ventis staret mare. Non ego Daphnin / iudice te metuam, si numquam fal-
lit imago (‘Né sono tanto sgraziato: or ora mi specchiai sul lido, quando il mare era immobile per
l’assenza dei venti; con te giudice non avrò paura nemmeno di Dafni, se l’immagine non inganna
mai’), su cui vd. Traina, Poeti latini, i pp. 163-74; cfr. anche Fast., ii 397 sg.: si genus arguitur voltu, nisi fal-
lit imago, / nescioquem in vobis suspicor esse deum, ‘se dal volto si riconosce la stirpe, se l’immagine non
inganna, sospetto che non so quale dio sia in voi’. c 466. La vicenda di Narciso arricchisce di nuove
sfumature la sentenza di Publilio Siro: mala est inopia, ex copia quae nascitur (M 69). c 467. a nostro . . .
corpore: l’alternanza della prima persona singolare con la prima plurale (cfr. anche 468 amamus e so-
prattutto 473) esprime con finezza la perdurante confusione psichica di Narciso. c 472. diligitur: cfr.
v. 500: dilecte. c 473. duo concordes anima moriemur in una: Ovidio gioca con i topoi dell’amore coniuga-
le: concors e unanimus sono spesso usati in poesia, specialmente epigrafica, per indicare la sintonia

85
i · l’epos

Dixit et ad faciem rediit male sanus eandem


et lacrimis turbavit aquas, obscuraque moto 475
reddita forma lacu est. Quam cum vidisset abire,
« Quo refugis? Remane nec me, crudelis, amantem
desere », clamavit; « liceat quod tangere non est
aspicere et misero praebere alimenta furori ».
Dumque dolet, summa vestem deduxit ab ora 480
nudaque marmoreis percussit pectora palmis.
Pectora traxerunt roseum percussa ruborem,
non aliter quam poma solent, quae candida parte,
parte rubent, aut ut variis solet uva racemis
ducere purpureum nondum matura colorem. 485
Quae simul aspexit liquefacta rursus in unda,
non tulit ulterius sed, ut intabescere flavae
igne levi cerae matutinaeque pruinae
sole tepente solent, sic attenuatus amore
liquitur et tecto paulatim carpitur igni. 490
Et neque iam color est mixto candore rubori
nec vigor et vires et quae modo visa placebant,
nec corpus remanet, quondam quod amaverat Echo.
Quae tamen ut vidit, quamvis irata memorque
indoluit, quotiensque puer miserabilis « Eheu! » 495
dixerat, haec resonis iterabat vocibus « Eheu! »
cumque suos manibus percusserat ille lacertos,
haec quoque reddebat sonitum plangoris eundem.

completa di coniugi, amanti e consanguinei (per concors cfr., ad es., Ovidio, Met., viii 708; CLE, 461
3; 1563 4; per unanimus: Catullo, 66 80; Virgilio, Aen., iv 8; CLE, 1306 4; 2080 5; 2099 22); nel caso di
Narciso, con ironia, concordia e unanimitas sono letterali. La clausola del verso inoltre richiama allu-
sivamente le parole di Didone che precedono il suicidio in Virgilio, Aen., iv 659: moriemur inultae.
Per la patetica espressione cfr. Met., ii 608: duo nunc moriemur in una. c 474. male sanus: corrisponde a
insanus; l’espressione allude alla follia amorosa di Didone (per il parallelo cfr. anche vv. 437, 473,
490): cfr. Virgilio, Aen., iv 8: cum sic unanimam adloquitur male sana sororem. c 479. L’idea è espressa in
termini analoghi da Properzio, iii 21 3 sg.: crescit enim assidue spectando cura puellae: / ipse alimenta sibi
maxima praebet Amor (‘infatti guardandola cresce continuamente l’affanno d’amore per la ragazza:
Amore stesso si procura il piú grande alimento’). Per l’amore come furor cfr. sopra, n. a v. 350. c 481.
percussit pectora palmis: l’allitterazione della labiale produce uno tra i piú ricercati effetti fonosimbo-
lici per il gesto del battere: cfr. Ennio, Ann., 311 Vahlen2 (= 310 Skutsch): perculsi pectora Poeni; Ca-
tullo, 64 351: putrida . . . pectora palmis; Virgilio, Aen., xi 614 sg.: dant sonitum ingenti perfractaque quadru-
pedantum / pectora pectoribus rumpunt. La medesima pericope ricorre ancora in Met., v 473, x 723; cfr.

86
iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione

Disse e folle ritornò allo stesso volto,


e con le lacrime increspò le acque e, agitata la polla, 475
la bellezza fu oscurata. Come la vide svanire:
« Dove scappi? Resta e non abbandonare, crudele, me
che t’amo » gridò; « mi sia concesso, ciò che non è possibile toccare,
guardare e fornire alimento alla mia penosa follia ».
E mentre si duole, si sfila la veste dall’orlo superiore 480
e percuote il petto nudo con le palme marmoree.
Il petto percosso tirò fuori un roseo rossore,
non altrimenti da come sono soliti i frutti, che candidi in parte,
in parte rosseggiano, o come l’uva, non ancora matura, è solita
acquistare il colore purpureo nei grappoli screziati. 485
Non appena lo vide nell’acqua di nuovo tornata limpida,
non lo sopportò oltre ma, come la bionda cera
per una fiamma sottile e come la brina del mattino
al tepore del sole sono solite liquefarsi, cosí, assottigliato dall’amore,
si scioglie e a poco a poco è consumato da un fuoco occulto. 490
E non c’è piú il bell’incarnato di rossore mescolato nel candore
né rimangono il vigore e le forze e tutto ciò che poco prima piaceva
[alla vista,
né rimane il corpo che un tempo aveva amato Eco.
Questa tuttavia, non appena lo vide, sebbene irata e memore,
provò dolore, e ogni qualvolta l’infelice fanciullo diceva: « Ahi! », 495
essa ripeteva con la voce che echeggia: « Ahi! ».
E quando lui percuoteva le sue braccia con le mani,
anche lei ripeteva lo stesso suono del colpo.

anche ii 584: plangere nuda meis conabar pectora palmis. c 482. roseum . . . ruborem: l’aggettivo attenua il va-
lore del sostantivo. Il rossore del petto contrasta il candore delle mani (481: marmoreis . . . palmis). La
iunctura ricorre anche in un virtuosistico mosaico cromatico in Am., iii 3 5 sg. (Corinna): candida
candorem roseo suffusa rubore / ante fuit: niveo lucet in ore rubor; quindi in Apuleio, Met., ii 8; xi 3; Arno-
bio Iuniore, Ad Greg., 4. L’insistenza sui colori è funzionale alla metamorfosi nel fiore, che li con-
serverà (cfr. vv. 509 sg.). c 490. tecto . . . carpitur igni: l’espressione richiama la nascosta passione della
Didone virgiliana (cfr. vv. 437, 473, 474): Aen., iv 1 sg.: At regina gravi iamdudum saucia cura / volnus alit
venis et caeco carpitur igni, ‘Ma la regina, già da tempo ferita dal penoso affanno, nutre la ferita nelle
vene ed è consumata da oscuro fuoco’; Ovidio vi allude anche in relazione all’amore incestuoso di
Mirra in Met., x 369 sg.: at virgo Cinyreia pervigil igni / carpitur indomito, ‘ma la giovane figlia di Cinira,
insonne, è consumata da un fuoco indomabile’. c 493. nec corpus remanet: Narciso subisce una sorte
speculare a quella di Eco (vv. 396-99 e si confronti specialmente 489: attenuatus amore, con 396: atte-
nuant . . . corpus).

87
i · l’epos

Ultima vox solitam fuit haec spectantis in undam:


« Heu frustra dilecte puer! », totidemque remisit 500
verba locus, dictoque « Vale » « Vale » inquit et Echo.
Ille caput viridi fessum submisit in herba;
lumina mors clausit domini mirantia formam.
(Tum quoque se, postquam est inferna sede receptus,
in Stygia spectabat aqua). Planxere sorores 505
Naides et sectos fratri posuere capillos,
planxerunt Dryades; plangentibus adsonat Echo.
Iamque rogum quassasque faces feretrumque parabant:
nusquam corpus erat; croceum pro corpore florem
inveniunt foliis medium cingentibus albis. 510
Cognita res meritam vati per Achaidas urbes
attulerat famam, nomenque erat auguris ingens.

iv 53-166

Hoc placet; hanc, quoniam vulgaris fabula non est,


talibus orsa modis lana sua fila sequente:
« Pyramus et Thisbe, iuvenum pulcherrimus alter, 55
altera, quas Oriens habuit, praelata puellis,

501. dictoque . . . Echo: il verso echeggia due luoghi virgiliani: Buc., 3 78 sg.: Phyllida amo ante alias; nam
me discedere flevit / et longum « formose, vale, vale » inquit « Iolla », ‘Fillide amo piú d’ogni altra; pianse in-
fatti che io partissi, e a lungo « addio, addio, mio bel Iolla » disse’ (dove, come qui, il secondo vale
ha la seconda sillaba abbreviata in iato prosodico, davanti a inquit), e 6 44: ut litus « Hyla, Hyla » omne
sonaret (dove il nome proprio, per due volte in iato, subisce lo stesso abbreviamento ‘Hyla6, Hyla* ’),
che riproduce l’eco delle grida degli Argonauti in cerca del bel fanciullo Ila, rapito dalle ninfe di
una fonte (un mito che Ovidio ha ben presente per l’episodio di Narciso). c 503. domini: nel termi-
ne sono presenti, con ambiguità, sia la valenza erotica (per cui cfr. Am., iii 7 11; Ars am., i 314; Met.,
ix 466), sia quella di ‘padrone del corpo’ (per cui cfr. Am., iii 7 71; Marziale, xii 59 8). c 505. in Stygia
spectabat aqua: Narciso continua anche nell’oltretomba la folle contemplazione di sé. c 511. vati: Ti-
resia (cfr. sopra, v. 339).
iv 53-166. Il tragico amore di Piramo e Tisbe. Piramo e Tisbe, bellissimi giovani babilonesi, abitano
case contigue. La vicinanza ne favorisce l’innamoramento, ma i genitori di entrambi si oppongo-
no. I due comunicano soltanto attraverso una fessura nella parete che separa le due abitazioni,
scambiandosi parole d’amore e lamenti per la loro triste situazione. Una notte decidono di incon-
trarsi sfuggendo al controllo dei genitori. Si danno appuntamento presso un gelso bianco vicino il
sepolcro del re Nino. Tisbe giunge per prima, ma vede da lontano una leonessa con le fauci insan-
guinate e fugge, perdendo però il velo, che la fiera lacera lordandolo di sangue. Piramo arriva sul

88
iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione

Le sue ultime parole, mentre guardava nel solito specchio d’acqua,


[furono queste:
« Ahi, fanciullo amato invano! », e altrettante parole 500
rinviò il luogo e, come egli ebbe detto « Addio », disse « Addio » anche
[Eco.
Quello posò il capo stanco sull’erba verde,
la morte chiuse gli occhi che ammiravano la bellezza del loro signore.
(Anche allora, dopo che fu accolto nella sede degli inferi,
si specchiava nell’acqua stigia). Si percossero il petto le Naiadi, sue sorelle, 505
e offrirono al fratello i capelli tagliati,
si percossero il petto le Driadi: al suono dei loro colpi Eco risuona.
E ormai preparavano il rogo, le fiaccole da scuotere e il feretro:
il corpo non c’era da nessuna parte; al posto del corpo
trovano un fiore color di croco cinto da petali bianchi. 510
La notizia dell’accaduto aveva procurato al vate una fama
meritata per le città della Grecia e grande era il nome dell’indovino.

iv 53-166

Questa vicenda incontra il suo favore; a essa, poiché non è storia comune,
dà inizio in questo modo, mentre la lana asseconda il formarsi dei suoi fili:
« Piramo e Tisbe, il piú bello tra i giovani l’uno, 55
l’altra considerata superiore alle fanciulle che ebbe l’Oriente,

luogo, vede il velo insanguinato di Tisbe e lo considera una prova certa della morte dell’amata. Ac-
cusandosi per l’accaduto, si uccide trafiggendosi con la sua spada; il suo sangue zampillante mac-
chia di rosso i fiori bianchi del gelso. Dopo poco ritorna, ancora impaurita, Tisbe; vede l’amato
moribondo in terra e comprende l’equivoco di cui è caduto vittima; si dispera; alla sua invocazio-
ne Piramo riesce appena a sollevare gli occhi verso di lei e muore; la fanciulla decide di seguire l’a-
mante nella morte. Dopo aver invocato i genitori, perché seppelliscano insieme i due amanti, e il
gelso, perché conservi sempre i fiori scuri in segno di lutto, si trafigge con la spada di Piramo ac-
canto all’amato.
53-54. La storia è raccontata da una delle tre figlie di Minia, re di Orcomeno, le quali si oppon-
gono al culto di Bacco e verranno per questo punite. Mentre tutta la popolazione partecipa ai riti
del dio, le tre si dedicano alla filatura della lana, decidendo di raccontarsi storie per alleviare il la-
voro e far passare il tempo. Fa qui la prima apparizione nel poema il procedimento stilistico della
mise en abîme (‘racconto a cornice’), che moltiplica le voci narranti. Nella preferenza accordata a
una storia poco nota (quoniam vulgaris fabula non est; cfr. anche 276 sgg.) è possibile vedere l’adesio-
ne ai principi della poetica callimachea.

89
i · l’epos

contiguas tenuere domos, ubi dicitur altam


coctilibus muris cinxisse Semiramis urbem.
Notitiam primosque gradus vicinia fecit;
tempore crevit amor. Taedae quoque iure coissent, 60
sed vetuere patres; quod non potuere vetare,
ex aequo captis ardebant mentibus ambo.
Conscius omnis abest; nutu signisque loquuntur,
quoque magis tegitur, tectus magis aestuat ignis.
Fissus erat tenui rima, quam duxerat olim, 65
cum fieret, paries domui communis utrique.
Id vitium nulli per saecula longa notatum
(quid non sentit amor?) primi vidistis amantes
et vocis fecistis iter; tutaeque per illud
murmure blanditiae minimo transire solebant. 70
Saepe, ubi constiterant hinc Thisbe, Pyramus illinc,
inque vices fuerat captatus anhelitus oris,
“invide” dicebant “paries, quid amantibus obstas?
Quantum erat, ut sineres toto nos corpore iungi,
aut, hoc si nimium est, vel ad oscula danda pateres? 75
Nec sumus ingrati; tibi nos debere fatemur
quod datus est verbis ad amicas transitus aures”.
Talia diversa nequiquam sede locuti
sub noctem dixere “vale” partique dedere
oscula quisque suae non pervenientia contra. 80

57-58. La costruzione delle mura di mattoni cotti di Babilonia, considerate nell’antichità una delle
sette meraviglie del mondo, è attribuita da Ovidio a Semiramide, moglie del re assiro Nino (cfr. v.
88), in accordo con una tradizione diffusa nel mondo latino: cfr. Properzio, iii 11 21-24, da cui forse
Ovidio dipende (la clausola Semiramis urbem ricorre identica in Ovidio, Met., iv 58 e Properzio, iii
11 21); Vitruvio, viii 3 8; Curzio Rufo, v 1 24-26; Marziale, ix 75 2 sg.; Igino, Fab., 223 6; Orosio, ii 6
7-10 (a Nino vel Semiramide reparatam); Erodoto (i 178-200) invece la attribuisce a Nitocride. c 60. tem-
pore crevit amor: la stessa espressione in Fast., i 195 e Pont., iv 6 24. c 63. nutu signisque loquuntur: la stes-
sa modalità di comunicazione di Narciso con la sua immagine riflessa: cfr. iii 460: nutu quoque signa
remittis. c 65. tenui rima: una sottile fessura nella porta chiusa perché le sue parole giungano all’ama-
ta è quanto auspicato dall’exclusus amator in Properzio, i 16 27 sg.: o utinam traiecta cava mea vocula rima
/ percussas dominae vertat in auriculas! c 69. vocis . . . iter: non è necessario correggere in voci con Bar-
chiesi-Rosati (lezione scarsamente attestata, anche se accreditata da N. Heinsius e guardata con fa-
vore anche da Tarrant): facere iter non è qui nel senso di ‘aprire una via, un passaggio’, che richiede-
rebbe il dat., ma sottintende vitium (67), nella costruzione di facio con doppio acc.: ‘lo rendeste il ca-
nale di passaggio della voce’. Per la iunctura cfr. Met., ii 829 sg.: nec conata loqui est nec, si conata fuisset, /

90
iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione

abitavano case contigue, dove si dice che Semiramide


avesse cinto l’alta città di mura di mattoni cotti.
Il vicinato fu causa della conoscenza e dei primi passi;
col tempo crebbe l’amore. Si sarebbero anche uniti secondo la legge
[della fiaccola nuziale, 60
ma lo vietarono i padri; ciò che non poterono vietare,
entrambi ardevano in ugual misura negli animi presi.
Non c’è nessun complice; parlano con cenni e segni,
e quanto piú è nascosto, tanto piú divampa il fuoco celato.
La parete comune a entrambe le case era incrinata da una sottile fessura, 65
che si era aperta al tempo in cui veniva innalzata.
Questo difetto, non notato da nessuno per lungo tempo
(di cosa non si accorge l’amore?), per primi vedeste voi amanti
e ne faceste il passaggio per la voce; attraverso questo sicure
le vostre dolcezze con lievissimo sussurro solevano giungere dall’altro
[lato. 70
Spesso, quando si trovavano da una parte Tisbe, Piramo dall’altra,
e i loro sospiri erano stati vicendevolmente captati:
“Parete gelosa”, dicevano “perché sei d’ostacolo a noi che ci amiamo?
Quanto ti sarebbe costato concedere che ci unissimo con tutto il corpo?
O, se questo è troppo, essere aperta almeno per farci dare baci? 75
Non siamo ingrati; riconosciamo di esserti debitori
perché è concesso alle nostre parole il passaggio verso le amate orecchie”.
Una notte, dopo aver detto invano tali parole dalle parti opposte,
si dissero “addio” e diedero ciascuno alla sua parte
baci che non sarebbero giunti al di là. 80

vocis habebat iter; ix 369 sg.: dum licet oraque praestant / vocis iter. c 70. murmure . . . minimo: vd. anche 83:
murmure parvo. Murmur, che nel lessico erotico indica i gemiti d’amore (cfr. Ars am., ii 723: accedent
questus, accedet amabile murmur; iii 795: blandae voces iucundaque murmura), designa qui, con arguto ro-
vesciamento, i sussurri dell’amore vietato (cfr. anche v. 72). c 71-77. L’apostrofe alla parete sfrutta al-
cuni elementi caratteristici del paraklazsiöuzron (il lamento dell’amante escluso davanti alla por-
ta chiusa dell’amata), un motivo topico dell’elegia, quali le imprecazioni contro la barriera che se-
para gli amanti e la preghiera di consentire l’incontro. c 72. anhelitus oris: ironico riuso dell’espres-
sione che in Ars am., iii 803, indica i sospiri durante l’amore (cfr. anche v. 70): quid iuvet et voces et an-
helitus arguat oris. c 73. quid amantibus obstas?: l’espressione contiene un’allusione alla sorte di Narci-
so, separato dal suo “amato” da una barriera minima (iii 453: minimum est, quod amantibus obstat) e
accomuna i due amori infelici. c 80. oscula . . . non pervenientia contra: la singolare espressione pone in
risalto l’impossibilità del contatto tra i due amanti. Significativa l’autoallusione ovidiana alla co-

91
i · l’epos

Postera nocturnos Aurora removerat ignes,


solque pruinosas radiis siccaverat herbas:
ad solitum coiere locum. Tum murmure parvo
multa prius questi statuunt ut nocte silenti
fallere custodes foribusque excedere temptent, 85
cumque domo exierint, urbis quoque tecta relinquant.
Neve sit errandum lato spatiantibus arvo,
conveniant ad busta Nini lateantque sub umbra
arboris; arbor ibi niveis uberrima pomis,
ardua morus, erat, gelido contermina fonti. 90
Pacta placent; et lux tarde discedere visa
praecipitatur aquis, et aquis nox exit ab isdem.
Callida per tenebras versato cardine Thisbe
egreditur fallitque suos adopertaque vultum
pervenit ad tumulum dictaque sub arbore sedit; 95
audacem faciebat amor. Venit ecce recenti
caede leaena boum spumantes oblita rictus,
depositura sitim vicini fontis in unda;
quam procul ad lunae radios Babylonia Thisbe
vidit et obscurum timido pede fugit in antrum, 100
dumque fugit, tergo velamina lapsa reliquit.
Ut lea saeva sitim multa compescuit unda,
dum redit in silvas, inventos forte sine ipsa
ore cruentato tenues laniavit amictus.
Serius egressus vestigia vidit in alto 105
pulvere certa ferae totoque expalluit ore
Pyramus; ut vero vestem quoque sanguine tinctam
repperit, “una duos” inquit “nox perdet amantes,
e quibus illa fuit longa dignissima vita,
nostra nocens anima est. Ego te, miseranda, peremi, 110

municazione impossibile di Narciso con il suo amato nella fonte: iii 462: verba refers aures non perve-
nientia nostras. c 83. coiere: il verbo, caratteristico dell’amplesso sessuale (cfr. coitus) e usato al v. 60 per
indicare l’unione matrimoniale (taedae . . . iure coissent), è qui venato di « amara ironia » (Rosati). c 88.
ad busta Nini: Nino, sovrano assiro e marito di Semiramide (vd. vv. 57 sg.). La scelta del sepolcro
quale luogo dell’incontro proietta un cupo presagio sulla vicenda. c 103. sine ipsa: Ovidio puntua-
lizza il dettaglio che sarà decisivo per innescare il tragico fraintendimento da parte di Piramo. c
108. una duos . . . nox perdet amantes: il motivo della iuncta mors degli innamorati è comune nella poe-

92
iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione

L’Aurora del giorno dopo aveva scacciato gli astri notturni


e il sole con i suoi raggi aveva asciugato l’erba umida di brina:
si ritrovarono al luogo consueto. Allora, prima lamentatisi molto
con lievi sussurri, stabiliscono di tentare, nella notte silenziosa,
di sfuggire ai custodi, di uscire dalla porta, 85
e, una volta usciti di casa, di lasciare anche gli edifici della città.
E, per non perdersi vagando per l’ampia campagna,
di incontrarsi alla tomba di Nino e di nascondersi all’ombra
di un albero; lí c’era un alto gelso, albero ricchissimo
di frutti bianchi come la neve, a fianco d’una gelida fonte. 90
L’accordo piace; il sole, che sembrò ritirarsi lentamente,
si tuffa nelle acque, e dalle stesse acque emerge la notte.
Con scaltrezza Tisbe nell’oscurità, ruotato il cardine della porta,
esce e sfugge al controllo dei suoi; con il volto coperto,
giunge al sepolcro e si siede sotto l’albero stabilito; 95
l’amore la rendeva audace. Ma ecco che giunge una leonessa,
imbrattata nelle fauci schiumanti del fresco sangue di buoi,
bramosa di spegnere la sete nell’acqua della vicina fonte;
di lontano la vide ai raggi di luna la babilonese Tisbe
e con passo timoroso fuggí in un oscuro antro, 100
e mentre fuggiva si lasciò alle spalle il mantello scivolatole.
Come la feroce leonessa ebbe placato la sete con abbondante acqua,
mentre ritornava nel bosco, trovato per caso il sottile mantello,
senza di lei, lo fece a brandelli con le fauci insanguinate.
Uscito piú tardi, Piramo vide chiaramente nella polvere profonda 105
le orme di una fiera e impallidí completamente in viso;
e come trovò anche il mantello macchiato di sangue:
“Una sola notte” disse “porterà alla morte due amanti,
dei quali lei sarebbe stata assolutamente degna di una lunga vita,
è colpevole il mio respiro. Io ti ho ucciso, sventurata, 110

sia erotica; il gioco numerico (una duos) ne è spesso parte (cfr. anche iii 473 [Narciso]: Nunc duo con-
cordes anima moriemur in una; viii 709 [Filemone e Bauci]: auferat hora duos eadem). c 110. nostra nocens
anima est: l’essere in vita (anima) mentre Tisbe è morta viene sentito come una colpa da Piramo,
che se ne ritiene responsabile. – Ego te . . . peremi: alla patetica espressione, con cui Piramo si attri-
buisce la responsabilità della morte di Tisbe, alludono Seneca, Phaedr., 1249-52 (Teseo di fronte al
cadavere di Ippolito): Hippolytus hic est? Crimen agnosco meum: / ego te peremi; neu nocens tantum semel /
solusve fierem, facinus ausurus parens / patrem advocavi (‘Questo è Ippolito? Riconosco la mia colpa: io

93
i · l’epos

in loca plena metus qui iussi nocte venires


nec prior huc veni. Nostrum divellite corpus
et scelerata fero consumite viscera morsu,
o quicumque sub hac habitatis rupe, leones!
Sed timidi est optare necem”. Velamina Thisbes 115
tollit et ad pactae secum fert arboris umbram,
utque dedit notae lacrimas, dedit oscula vesti,
“accipe nunc” inquit “nostri quoque sanguinis haustus”,
quoque erat accinctus, demisit in ilia ferrum.
Nec mora, ferventi moriens e vulnere traxit 120
et iacuit resupinus humo: cruor emicat alte,
non aliter, quam cum vitiato fistula plumbo
scinditur et tenues stridente foramine longe
eiaculatur aquas atque ictibus aera rumpit.
Arborei fetus aspergine caedis in atram 125
vertuntur faciem, madefactaque sanguine radix
purpureo tinguit pendentia mora colore.
Ecce metu nondum posito, ne fallat amantem,
illa redit iuvenemque oculis animoque requirit,
quantaque vitarit narrare pericula gestit. 130
Utque locum et visa cognoscit in arbore formam,
sic facit incertam pomi color; haeret, an haec sit.
Dum dubitat, tremebunda videt pulsare cruentum
membra solum retroque pedem tulit oraque buxo
pallidiora gerens exhorruit aequoris instar, 135
quod tremit, exigua cum summum stringitur aura.
Sed postquam remorata suos cognovit amores,

ti ho ucciso; e perché non fossi colpevole una sola volta o solo, io padre, prossimo a osare un delit-
to, invocai il padre’; vd. sotto, pp. 402-3), e Lucano, viii 639 (Cornelia a Pompeo): o coniunx, ego te
scelerata peremi (‘oh marito, io, scellerata, ti ho ucciso’). c 111. loca plena metus: l’espressione, che tra-
sferisce sul piano oggettivo un risvolto psicologico soggettivo (il metus), sarà usata ancora dall’Ovi-
dio dell’esilio per indicare i luoghi angosciosi del Ponto in Trist., iii 11 9 sg.: nulla mihi cum gente fera
commercia linguae; / omnia solliciti sunt loca plena metus; cfr. anche Met., x 29 (gli Inferi): loca plena timo-
ris. c 121. et iacuit: non appare condivisibile la preferenza accordata da Tarrant a ut, ‘quando’ (con
punto fermo dopo traxit), lezione di due soli codici, motivata forse dalla considerazione che iaceo è
verbo di stato e non può designare la caduta di Piramo. c 122-24. non aliter. . . rumpit: la similitudine
con i tubi di piombo dell’acquedotto, familiare al lettore romano, costituisce un vistoso anacroni-
smo, se si tiene conto che la narrazione è condotta da una cittadina della Beozia del mito. c 128. ne

94
iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione

che ti ho spinto a venire di notte in luoghi pieni di paura,


e non sono venuto qui per primo. Lacerate il mio corpo
e divorate le mie colpevoli viscere con morso feroce,
o leoni tutti che abitate sotto questa rupe!
Ma è da pavido desiderare la morte”. Raccoglie il velo di Tisbe 115
e lo porta con sé all’ombra dell’albero stabilito,
e come ebbe coperto di lacrime e baci il noto mantello:
“Ora bevi” disse “anche il mio sangue”,
e immerse nel ventre la spada con cui era cinto.
Senza indugio la ritrasse morendo dalla ferita infuocata 120
e si accasciò in terra supino: il sangue zampilla alto,
non diversamente da quando un condotto, una volta danneggiato il
[piombo,
si spacca e getta fuori lontano dal foro fischiante
sottili fiotti d’acqua e squarcia l’aria con i getti.
I frutti dell’albero, per gli spruzzi di sangue, 125
si mutano in scuri, e la radice, impregnata di sangue,
tinge le more pendenti di color porpora.
Ed ecco che, non ancora scrollatasi di dosso la paura, per non deludere
[l’amante,
quella ritorna e cerca il giovane con gli occhi e con la mente,
e non vede l’ora di raccontargli che grande pericolo abbia evitato. 130
E come riconosce il luogo e l’aspetto dell’albero visto,
cosí la rende incerta il colore dei frutti; è indecisa se sia questo.
Mentre dubita, vede palpitare sul suolo insanguinato
le membra vibranti; trasse indietro il piede e, con il
viso piú pallido del bosso, rabbrividí come la distesa del mare, 135
che s’increspa, quando in superficie è sfiorata da lieve brezza.
Ma dopo che avendo indugiato riconobbe il suo amore,

fallat amantem: nell’espressione è condensato l’elemento dominante della vicenda: l’inganno; Ti-
sbe non vuole “deludere” l’amante (mancando all’appuntamento), ma non sa di essere già stata in-
volontaria artefice dell’inganno di Piramo. Fallere ricorre significativamente piú volte nella narra-
zione: cfr. vv. 85: fallere custodes; 94: fallit . . . suos. c 135-36. aequoris instar. . . aura: la similitudine ricorre
quasi identica in Her., 11 75-77: ut mare fit tremulum, tenui cum stringitur aura / . . . / sic mea vibrari pallen-
tia membra videres (‘come il mare diviene increspato, quando è sfiorato da una lieve brezza [ . . . ] co-
sí avresti potuto veder vibrare le mie pallide membra’) e tremulum offre una conferma della bontà
della lezione tremit rispetto a fremit della maggior parte della tradizione; cfr. anche Am., i 7 53 sgg.

95
i · l’epos

percutit indignos claro plangore lacertos


et laniata comas amplexaque corpus amatum
vulnera supplevit lacrimis fletumque cruori 140
miscuit et gelidis in vultibus oscula figens
“Pyrame” clamavit “quis te mihi casus ademit?
Pyrame, responde! Tua te, carissime, Thisbe
nominat; exaudi vultusque attolle iacentes”.
Ad nomen Thisbes oculos iam morte gravatos 145
Pyramus erexit visaque recondidit illa.
Quae postquam vestemque suam cognovit et ense
vidit ebur vacuum, “tua te manus” inquit “amorque
perdidit, infelix. Est et mihi fortis in unum
hoc manus, est et amor; dabit hic in vulnera vires. 150
Persequar extinctum letique miserrima dicar
causa comesque tui, quique a me morte revelli
heu sola poteras, poteris nec morte revelli.
Hoc tamen amborum verbis estote rogati,
o multum miseri meus illiusque parentes, 155
ut quos certus amor, quos hora novissima iunxit,
componi tumulo non invideatis eodem.
At tu, quae ramis arbor miserabile corpus
nunc tegis unius, mox es tectura duorum,
signa tene caedis pullosque et luctibus aptos 160
semper habe fetus, gemini monimenta cruoris”.
Dixit et aptato pectus mucrone sub imum
incubuit ferro, quod adhuc a caede tepebat.
Vota tamen tetigere deos, tetigere parentes;
nam color in pomo est, ubi permaturuit, ater, 165
quodque rogis superest, una requiescit in urna ».

145-46. Ad nomen . . . illa: l’immagine di Piramo morente sarà ripresa da Dante in Purg., xxvii 37-42, al-
l’interno di una similitudine che descrive la condizione del poeta al sentire che Beatrice è separata
da lui ormai soltanto da una barriera di fuoco (si noti ai vv. 35 sg. l’allusione al paries, elemento cen-
trale nella vicenda di Piramo e Tisbe: « Or vedi, figlio: / tra Beatrice e te è questo muro »): « Come
al nome di Tisbe aperse il ciglio / Piramo in su la morte, e riguardolla, / allor che ’l gelso diventò
vermiglio; / cosí, la mia durezza fatta solla, / mi volsi al savio duca, udendo il nome / che ne la men-
te sempre mi rampolla ». c 152-53. quique . . . revelli: le parole di Tisbe prefigurano il superamento del-
la morte da parte dei due amanti; i due versi sono costruiti con raffinata struttura: entrambi sono
chiusi dalla medesima clausola (morte revelli), ma il secondo, attraverso la negativa e l’uso del futuro

96
iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione

percosse le braccia che non lo meritano con colpi risonanti


e, strappandosi i capelli e abbracciando il corpo amato,
colmò la ferita di lacrime e mescolò il pianto 140
al sangue e imprimendo baci sul gelido volto,
“Piramo”, gridò “quale sciagura ti ha sottratto a me?
Piramo, rispondi! La tua Tisbe, mio diletto,
pronuncia il tuo nome; ascoltami e solleva il capo disteso”.
Al nome di Tisbe Piramo levò gli occhi 145
ormai gravati dalla morte e dopo averla vista li richiuse.
Lei, dopo che riconobbe il suo mantello e vide la guaina
d’avorio priva della spada, “La tua mano” disse “e l’amore
ti hanno perduto, sventurato. Anch’io ho mano forte per questo
soltanto, anch’io ho amore; sarà lui a darmi le forze per la ferita. 150
Ti seguirò nella morte e sarò detta sventuratissima causa
e compagna della tua morte, e tu che, ahi, solo dalla morte avresti
potuto essermi strappato, non potrai essermi strappato neanche dalla
[morte.
Di questo tuttavia, con parole di entrambi, sentitevi pregati,
o molto infelici genitori mio e suo: 155
non vogliate negare a noi, che un amore sicuro e l’ultima ora
ha unito, di essere seppelliti nello stesso sepolcro.
Tu invece, albero che ora copri con i tuoi rami il povero corpo
di uno solo e che presto coprirai quelli di due,
conserva i segni della strage e reca sempre frutti scuri 160
e adatti al lutto, testimonianza del duplice sangue”.
Disse e, applicata la punta alla base del petto,
si lasciò cadere sulla spada, che era ancora tiepida di sangue.
La preghiera però commosse gli dei, commosse i genitori;
infatti il frutto ha colore scuro, quando giunge a completa maturazione, 165
e ciò che rimane dal rogo riposa in una sola urna ».

(poteris), sapientemente giustapposto al passato (poteras), realizza nel futuro l’auspicio di unità nega-
ta in vita ai due amanti. Al contesto ovidiano e all’inseparabilità degli amanti dopo la morte allude,
attraverso il riuso della clausola, un carme epigrafico dedicato da un marito alla defunta sposa
(CLE, 1532 11 sg.): ut thalami tumulique comes nec morte revellar / et socios vitae nectat uterque cinis, ‘perché,
compagno del talamo e del tumulo, neanche dalla morte le sia strappato e le ceneri di entrambi le-
ghino i compagni di vita’. c 161. gemini monimenta cruoris: modellato su Virgilio, Aen., xii 945: saevi mo-
nimenta doloris (il balteo di Pallante indosso a Turno, visione che spingerà Enea a ucciderlo).

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