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DI ROMA ANTICA
Volume VI
I TE STI: 1. LA P OE S IA
Direttore
PIERGIORGIO PARRONI
A cura di
ALESSANDRO FUSI, ANGELO LUCERI,
PIERGIORGIO PARRONI, GIORGIO PIRAS
S
SALERNO EDITRIC E
ROMA
In redazione:
CARLO FRANCO
Inserti iconografici:
EUGENIO POLITO
Traduzioni:
Carlo Franco e Giusto Traina
ISBN 978-88-8402-678-1
Tutti i diritti riservati - All rights reserved
Copyright © 2009 by Salerno Editrice S.r.l., Roma. Sono rigorosamente vietati la riproduzione,
la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi
mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica,
ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Salerno Editrice S.r.l. Ogni abuso sarà
perseguito a norma di legge.
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L’EPICA IN TRASFORMAZIONE
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che quella di ‘filare la lana rendendola sottile e raffinandola’, che i poeti romani
prediligono come metafora per lo stile “tenue” di ascendenza callimachea (gr. lep-
toöw e leptaleöow).
Il poema si compone di quindici libri ed è, se si eccettuano i Punica di Silio Itali-
co, il piú lungo epos latino (consta di circa dodicimila versi, per una lunghezza me-
dia di libro di circa 800 versi). Contiene circa duecentocinquanta storie, di respiro
diseguale (si va dalla breve menzione ad alcune centinaia di versi), disposte all’in-
terno dell’opera in modo estremamente flessibile, senza che nessuna risulti privile-
giata rispetto alle altre: la narrazione prende le mosse dall’origine del mondo a par-
tire dal caos primigenio e procede con la creazione dell’uomo, il diluvio universa-
le, la rigenerazione del genere umano grazie a Pirra e Deucalione; giunge infine,
articolandosi in molteplici vicende, fino ai tempi del poeta con il catasterismo di
Cesare e l’esaltazione di Augusto, ormai dominatore del mondo. Questa struttura
cronologica consente a Ovidio di incorniciare l’opera con la celebrazione del prin-
cipato, anche se, come si ricava pure dalle altre opere ovidiane, l’adesione all’ideo-
logia augustea non appare (ma il tema è discusso) particolarmente sentita dal poe-
ta, come invece era stato per Virgilio e Orazio. La sostanziale distanza che separa
Ovidio da Virgilio è ben visibile anche nella cosiddetta Eneide delle Metamorfosi, ov-
vero quella sezione del libro xiv dedicata alla narrazione di alcuni episodi della sa-
ga eneadica.
Il filo cronologico proposto nel proemio è però in alcuni punti tanto sottile da
divenire impercettibile e prevalgono, di volta in volta, criteri diversi: in alcuni casi
le storie sono accomunate dalla contiguità geografica (ad es. con il libro iii prendo-
no inizio le saghe tebane), in altri da un criterio genealogico; talvolta l’accostamen-
to è suggerito da analogie tematiche o di metamorfosi, talaltra è dettato dalla con-
trapposizione. In diversi casi Ovidio suggerisce, tramite analogie nella dizione
poetica, parallelismi e consonanze tra vicende distanti nel poema.
Nessun personaggio, come è facile capire, può assumere lo statuto di protagoni-
sta, neanche Giove, che pure compare sia all’inizio che alla fine del poema; alla cen-
tralità dell’eroe epico, dotato di virtú eccezionali, succede, nelle Metamorfosi, la pre-
senza di una folla di personaggi, privi di valori eroici; la loro azione tende a manca-
re di un fine, quanto mai distanti in questo da Achille, Odisseo ed Enea. Di conse-
guenza l’opera è priva di un centro narrativo; la sua funzione è rivestita unicamen-
te dalla metamorfosi.
Il poema si configura in certa misura come una sorta di raccolta di epilli di ascen-
denza alessandrina e neoterica (e con l’epillio latino condivide alcuni miti narrati:
Io, Mirra, Europa, Scilla); garanzia dell’unità dell’opera, insieme al motivo centrale
del mutamento, è la continuità dei temi: le vicende trapassano le une nelle altre, in-
frangendo talvolta i confini dei libri, quando non sono inserite, attraverso la raffi-
nata tecnica della mise en abîme (‘racconto a cornice’), all’interno della cornice di
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un’altra storia. Anche la narrazione, con le sue trasformazioni continue, sottostà al-
la legge della metamorfosi di cui è veicolo. Il solo criterio ordinatore è la scelta sog-
gettiva dell’autore, che può cosí mettere all’opera la propria fantasia creativa. A ta-
le soggettività è sotteso un profondo relativismo, nel quale l’unico valore stabile è
assegnato proprio all’illusionismo della poesia (f i p. 121). La metamorfosi stessa è
del resto metafora dell’atto poetico, la cui suprema realizzazione consiste nel ren-
dere credibile e realistico l’inverosimile. Il lungo discorso di Pitagora contenuto nel
xv libro (vv. 75-478), incentrato sulla teoria della metempsicosi e sul mutamento di
tutte le cose, fornisce una base filosofica al tema metamorfico, a cui molti studiosi
hanno voluto dare enfasi, ma l’interesse principale di Ovidio, piú che per l’aspetto
teorico, sembra essere per la descrizione del sorprendente e del miracoloso. In es-
sa il poeta impegna tutte le risorse del suo stile, caratterizzato da una straordinaria
padronanza dei mezzi espressivi, da ironica levità e raffinatezza, che lo rendono il
piú callimacheo tra i poeti romani. Ed è proprio nella descrizione del processo di
metamorfosi, condotta con sensibilità visiva e cura del dettaglio, che Ovidio rag-
giunge vette non toccate in precedenza nella poesia classica (non a caso con lui, ol-
tre che con Lucano, scenderà in aperta competizione Dante in Inf., xxv 94-99); nel-
la trasformazione Ovidio sottolinea, insieme ai caratteri oppositivi tra le due for-
me, anche gli elementi di continuità: l’antica natura non si perde completamente
nella nuova, ma permane e anzi, attraverso la metamorfosi, trova il suo esito natu-
rale. Il linguaggio si adegua al processo e sfrutta la metafora, corrispettivo linguisti-
co della metamorfosi, per illustrare le analogie con la forma precedente.
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M ETAMORPHOSES
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Metamorphoses. Si propongono due brani significativi di un poema per la sua natura molteplice e
polimorfa difficilmente antologizzabile: il primo contiene uno tra gli episodi piú fortunati del
poema, non solo sul versante artistico (sia letterario che figurativo), ma anche su quello psicoana-
litico (Freud e Lacan): la vicenda di Eco e Narciso e il successivo innamoramento del giovane per
la propria immagine riflessa in una fonte. Ovidio unisce, in modo per quanto ne sappiamo origi-
nale (ma la cautela è d’obbligo), due distinte vicende mitiche: l’amore infelice della ninfa Eco per
il bellissimo fanciullo Narciso, concluso con la metamorfosi della ninfa in puro suono, e l’autoin-
namoramento di Narciso alla fonte, che lo conduce alla morte per consunzione e alla metamor-
fosi nell’omonimo fiore. Le due storie sono accomunate dall’inganno originato dal riflesso (della
voce nella storia di Eco, visivo in quella di Narciso). Motivo centrale dell’episodio è dunque l’illu-
sione, realizzata sapientemente da Ovidio in versi che si presentano tra i piú eleganti e polisemici
di un autore comunque mai “piano”. Il secondo episodio riguarda il primo amore completamen-
te umano descritto nel poema: quello infelice e tragico tra Piramo e Tisbe, una vicenda di amore
e morte che ha goduto di grandissima fortuna nel Medioevo ed è a noi familiare come modello
per la trama del Romeo e Giulietta di Shakespeare (che già l’aveva inserita nel Sogno di una notte di
mezza estate). Il testo seguito è quello della recentissima edizione oxoniense curata da R.J. Tarrant,
Oxford, Univ. Press, 2004 con alcune modifiche nel testo e nella punteggiatura. Di alcuni casi di
dissenso significativi si dà conto nelle note.
iii 339-512. Eco e Narciso. Narciso s’innamora di Narciso. Il bellissimo giovane Narciso, figlio del fiu-
me Cefiso e della ninfa Liriope, è desiderato da ragazzi e fanciulle, ma sdegna tutte le profferte
amorose, preferendo dedicarsi alla caccia. Vedendolo proprio durante una battuta di caccia, la nin-
fa Eco, condannata da Giunone a non potere parlare, se non ripetendo le parole degli altri, se ne
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innamora. Respinta come gli altri, si consuma per la passione, assottigliandosi nel corpo fino a ri-
dursi a pura voce (l’eco). Successivamente, in seguito alla maledizione di un amante respinto, Nar-
ciso si specchia a una fonte pura, innamorandosi perdutamente di sé. Incapace di separarsi dalla vi-
sione dell’irraggiungibile amato, si consumerà, come prima era accaduto a Eco, fino a scomparire.
Al suo posto le Naiadi, sue sorelle, troveranno un fiore di colore tra il bianco e il rosso, cinto di pe-
tali bianchi.
339. Ille: l’indovino Tiresia, di cui Ovidio ha raccontato la vicenda nei versi precedenti (316-38):
Giunone, oltremodo adirata per il suo responso favorevole a Giove su una questione giocosa po-
stagli dai due dei, lo accecò; Giove in compenso lo forní di doti profetiche. – per Aonias . . . urbes:
l’Aonia, antico nome della Beozia, è teatro della vicenda di Eco e Narciso. c 341. fide vocisque ratae:
endiadi. Fide è genitivo arcaico (cfr. Prisciano, GL, ii 366 9 sgg.); in Ovidio ancora in Met., vi 506; vii
728, 737. c 342. caerula Liriope: il nome di Liriope, ninfa di una fonte, non ricorre prima di Ovidio; in
Vibio Sequestre (2 14 Parroni = 176 Gelsomino) è la fonte specchiandosi nella quale Narciso si in-
namorerà di sé. L’epiteto caerulus (come caeruleus) è legato al mare e alle divinità marine o acquati-
che. c 343. Cephisos: il fiume, che scorreva tra Focide e Beozia, sfociando nel lago Kopais, è rappre-
sentato, come spesso accade nei racconti mitici, con tratti antropomorfici. c 345. iam tunc qui posset
amari: il verso pone in risalto l’elemento chiave della vicenda: la bellezza di Narciso e la sua capa-
cità di suscitare amore. c 348. « Si se non noverit »: il responso di Tiresia rovescia in modo paradossa-
le la massima delfica gnvüui seaztoön, ‘conosci te stesso’ (tradotta in latino con nosce te ipsum). Per
Narciso conoscere se stesso sarà rovinoso! c 350. furoris: il termine definisce il carattere insano e ro-
vinoso della passione amorosa a partire da Catullo (68 129) e Lucrezio (iv 1069). In Narciso il furor
assume i tratti patologici della vera follia (cfr. v. 479).
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353, 355. Multi . . . puellae . . . nulli . . . puellae: i versi alludono a Catullo, 62 39-47, che istituisce una simi-
litudine tra la vergine e un fiore ambito finché intatto, che però sfiorisce e cessa di destare deside-
rio una volta còlto: Ut flos in saeptis secretus nascitur hortis, / ignotus pecori: nullo convolsus aratro, / quem
mulcent aurae, firmat sol, educat imber; / multi illum pueri, multae optavere puellae: / idem cum tenui carptus
defloruit ungui, / nulli illum pueri, nullae optavere puellae: / sic virgo, dum intacta manet, dum cara suis est; /
cum castum amisit polluto corpore florem, / nec pueris iucunda manet, nec cara puellis (‘Come il fiore nasce
nascosto in giardini cintati, sconosciuto al gregge, non estirpato da aratro e le brezze lo accarezza-
no, il sole lo fortifica, la pioggia lo fa sbocciare; molti ragazzi lo desiderano, molte ragazze: una
volta che, spiccato con sottile unghia, sfiorisce, nessun ragazzo lo desidera, nessuna ragazza, cosí la
vergine, finché rimane intatta, è cara ai suoi; una volta che, violato il corpo, ha perso il casto fiore,
non rimane gradita ai ragazzi, né cara alle ragazze’). – tetigere: il verbo qui nell’accezione erotica (fa
da pendant a cupiere), piuttosto che in quella di movere, ‘commuovere’ (Bömer). c 357-58. I versi pre-
sentano le peculiarità di Eco: la vox e la facoltà di parlare solo per riflesso (resonabilis, agg. di conio
ovidiano), realizzata in modo mimetico da Ovidio attraverso l’uso insistito per tutto l’episodio del
prefisso re- (cfr. vv. 358, 361, 369, 378, 380, 387, 392, 496, 498, 500). Vocalis significa ‘dalla bella voce, ar-
moniosa’ (cfr., ad es., Orazio, Carm., i 12 7 sg.: vocalem . . . / Orphea; Properzio, ii 34 37: vocalis Arion [=
Ovidio, Fast., ii 91]), ma prefigura la metamorfosi di Eco in pura voce. c 359-60. Il mito si configu-
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ra anche come ai,tion del fenomeno acustico dell’eco. c 361. verba novissima: il superlativo, spesso
usato da Ovidio per indicare quanto precede la morte (cfr., ad es., Her., 9 167; Met., i 772; ii 363; iv
156, 544), anticipa il destino di Eco, che ripeterà anche le ultime parole di Narciso morente. c 361-
62. posset . . . posset: la ripetizione è apparsa non motivata e al v. 362 Housman congetturava vellet
(presente peraltro in alcuni codici usati da Tarrant). Tuttavia la ripetizione non appare fuori luogo
nell’episodio che narra la vicenda di Eco (cfr. anche 371 sg.: sequitur . . . sequitur, e 377: sinit . . . sinit; per
la virtuosistica mimesi degli effetti dell’eco si vedano in particolare i vv. 379-92) e potrebbe anzi
trattarsi di intenzionale effetto ecoico proprio nel verso in cui viene presentata la caratteristica di
Eco. c 363. sub Iove . . . suo . . . iacentes: il verbo è usato qui in modo eufemistico nell’accezione erotica.
c 371. vidit et incaluit: la formula dell’amore a prima vista (in Ovidio ancora in Fast., ii 307; Met., ii 574)
ricalca modelli come Virgilio, Buc., 8 41: ut vidi, ut perii, ut me malus abstulit error! (basato sulla tradi-
zione greca: Omero, Il., xiv 293-94 e Teocrito, Id., 3 42; su questo stilema vd. Timpanaro, Contribu-
ti, pp. 219-87). c 372. flamma propiore calescit: la tradizionale metafora della « fiamma d’amore » è svi-
luppata in termini simili in Ovidio, Her., 17 177: quo propius nunc es, flamma propiore calesco.
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379-92. Ovidio offre qui una perfetta mimesi dell’effetto dell’eco, prodotto tra i piú riusciti della
sua arte poetica. c 387. « Coeamus »: il verbo ha anche accezione erotica (cfr. coitus). Le parole di Nar-
ciso consentono a Eco una risposta maliziosa. c 393-94. pudibundaque . . . protegit: l’espressione è usa-
ta da Ovidio anche a proposito della vergogna di Mirra, innamorata del padre: Met., x 421 sg.: saepe
tenet vocem pudibundaque vestibus ora / texit. c 396-401. Viene descritta la metamorfosi di Eco, che da
essere umano si riduce prima a voce e ossa, quindi soltanto a voce, mentre le ossa si pietrificano.
L’espunzione dei vv. 400 sg. di Tarrant (ma già di Heinsius) appare condivisibile: essi ripetono ele-
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menti già anticipati nella narrazione: cfr. vv. 400: Inde latet silvis con 393: Spreta latet silvis (nella stes-
sa posizione di verso); 401: sonus est qui vivit in illa con 398: Vox tantum atque ossa supersunt; presenta-
no durezze linguistiche (401 in illa = de illa); sembrano infine vòlti a rendere piú esplicita la spiega-
zione dell’origine del fenomeno acustico dell’eco (401: omnibus auditur). c 404. aliquis despectus: l’au-
tore della maledizione è uno dei maschi sdegnati da Narciso. Il suo nome, Ameinias, è menziona-
to nel compendio mitologico di Conone (Diegeseis, 24). c 405. Sic . . . sic: qui con funzione ottativa. La
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presenza di licet non è esente da dubbi, ma non sono state proposte correzioni persuasive (precor
ipotizzato da Tarrant in apparato non rende minimamente ragione della corruttela). c 406. Rham-
nusia: Nèmesi, dea della vendetta, oggetto nell’antichità di un importante culto presso il demo at-
tico di Ramnunte. L’epiteto ricorre nella poesia latina a partire da Catullo (66 71; 68 77). c 407-36.
Narciso si specchia nella fonte, innamorandosi della propria immagine riflessa. La pericope è in-
trodotta da un’ekphrasis (‘descrizione’) della fonte e del luogo che la circonda (407-12), che presen-
ta i tratti caratteristici del locus amoenus (acqua limpida, erba umida, ombra dalla calura): per un ce-
lebre esempio cfr. l’ode di Orazio dedicata alla fonte Bandusia (Carm., iii 13). c 407. inlimis: lett. ‘pri-
va di fango’ (limus). L’uso dell’aggettivo, qui per la prima volta nella letteratura latina (poi in Auso-
nio, Ordo urb. nob., 158, p. 175 Green e Sidonio Apollinare, Epist., i 5 6), concorre alla descrizione di
un luogo fuori dal comune. c 413. studio venandi: la caccia, indicata da Ovidio stesso quale possibile
antidoto all’amore (Rem. am., 199 sg.: vel tu venandi studium cole: saepe recessit / turpiter a Phoebi victa so-
rore Venus, ‘oppure dedicati alla caccia: spesso Venere ha battuto vergognosamente la ritirata vinta
dalla sorella di Febo’), è invece causa dell’innamoramento esiziale di Narciso. c 415, 417. Tarrant,
sulla scia di Merkel (1855, 18752), espunge i versi, probabilmente con ragione: entrambi, pur ele-
ganti e “ovidiani” dal punto di vista stilistico, anticipano in modo brusco la descrizione della pas-
sione amorosa, realizzata da Ovidio con una climax piú sfumata (si noti l’insistenza dapprima sui
verba videndi e sul senso di incertezza e stupore: 418 adstupet, 419 haeret, 420 spectat; solo piú avanti
compaiono i segni evidenti della passione: 425 se cupit, 426 ardet); in 415, se anche si considera degno
del manierismo ovidiano il gioco tra il senso proprio e quello traslato di sitis (‘sete d’amore’), l’e-
spressione sitis . . . crevit non offre altre attestazioni in latino (a rigore poi la « sete d’amore » di Nar-
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ciso qui nasce e non cresce); l’anafora dumque . . . dumque in due versi consecutivi non presenta
paralleli calzanti; a v. 417 spem . . . amat è piuttosto duro, soprattutto se si confronta con l’uso di spes
al v. 457: Spem mihi nescio quam vultu promittis amico. c 416. visae . . . formae: il segmento di verso ricorre
identico in Met., iv 675-77 (Perseo si innamora a prima vista di Andromeda): trahit inscius ignes / et
stupet et visae correptus imagine formae / paene suas quatere est oblitus in aere pennas (‘inconsapevole assor-
be la fiamma e sbalordisce e, rapito dall’immagine della bellezza che ha visto, quasi si dimenticò di
scuotere in aria le penne’). Il contesto del brano può forse avvalorare in qualche misura l’ipotesi
che questo verso sia seguito da 418 (per l’espunzione di 417 vd. sopra, n. a vv. 415, 417): all’espres-
sione che definisce il “rapimento” dell’amore (676) segue il disorientamento (677), cosí come in iii
416 e 418 (visae correptus imagine formae / adstupet . . . sibi). c 419. e Pario . . . signum: il marmo dell’isola di
Paro, rinomato nell’antichità e molto usato per le statue, è spesso menzionato nelle similitudini
poetiche, in genere per indicare il candore lucente della pelle (Pindaro, Nem., 4 81; Teocrito, Id., 6
37 sg.; Anth. Pal., v 13 3; 194 3 sg.; Orazio, Carm., i 19 5 sg.; Seneca, Phaedr., 797); qui evidenzia so-
prattutto, con effetto ironico, il “rimanere pietrificato” di Narciso. c 420. geminum, sua lumina, sidus:
il verso risente della tradizione elegiaca, dove gli occhi dell’amata sono spesso definiti astri e luci:
cfr., ad es., Properzio, ii 3 14: oculi, geminae, sidera nostra, faces (vicino a Ovidio nella formulazione); i
18 15 sg.: ut tibi sim merito semper furor et tua flendo / lumina deiectis turpia sint lacrimis, ‘che io a ragione di-
venti per sempre la causa della tua rabbia e i tuoi occhi, piangendo, divengano brutti per le lacri-
me versate’; ma sua lumina evidenzia anche l’aspetto morboso della vicenda di Narciso, per il qua-
le le luci sono realmente le proprie. c 421. dignos . . . crines: le chiome fluenti, simbolo di eterna gio-
vinezza, sono frequente caratteristica iconografica dei due dei.
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432-36. L’apostrofe dell’autore al personaggio, comune in contesti patetici, assume qui sfumatura
ironica. Il vocativo credule ricorre nel latino classico, oltre che qui, solo in Properzio, ii 25 21 sg.: tu
quoque, qui pleno fastus assumis amore, / credule, nulla diu femina pondus habet, ‘anche tu, che ti dai arie per
l’amore appagato, sappi, credulone, che nessuna femmina è stabile a lungo’, anch’esso volto a di-
silludere un innamorato. c 437-38. Una patologia amorosa simile a quella di Narciso (cfr. anche vv.
491-93) si ritrova nella Fedra senecana, cfr. vv. 373 sgg.: Nulla iam cereris subit / cura aut salutis; vadit in-
certo pede, / iam viribus defecta: non idem vigor, / non ora tinguens nitida purpureus rubor; / [populatur artus cu-
ra, iam gressus tremunt / tenerque nitidi corporis cecidit decor.] / et qui ferebant signa Phoebeae facis / oculi nihil
gentile nec patrium micant (‘Non le viene piú preoccupazione per il cibo o per la salute, si muove con
piede vacillante, ormai fiaccata nelle forze: non c’è piú lo stesso vigore, non il purpureo rossore che
le tingeva il volto luminoso; [l’affanno devasta gli arti, ormai tremano i passi e la delicata bellezza
del corpo splendente è venuta meno] e gli occhi che recavano i segni della luce di Febo non hanno
lo scintillio degno della sua famiglia e del padre’). – Cereris: Cerere, dea dell’agricoltura, indica tal-
volta in poesia, con metonimia mitologica, il cibo o il grano. – cura quietis: la clausola richiama la Di-
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done di Virgilio, Aen., iv 5: nec placidam membris dat cura quietem (dove cura indica ‘l’affanno d’amore’).
Ovidio istituisce un esplicito collegamento tra Narciso e l’eroina (cfr. anche vv. 473, 474, 490). c 445.
qui sic tabuerit: il verbo indica in senso traslato la consunzione per amore: cfr. sotto, vv. 487-90. c 447.
tantus . . . amantem!: Tarrant segue qui un’ingegnosa ipotesi di E.J. Kenney (In Parenthesis, in « CR », a.
lxxxiv 1970, p. 291) e attribuisce queste parole al narratore Ovidio, che interromperebbe cosí il
monologo di Narciso, in base alla considerazione che l’uso di error presumerebbe una coscienza
della propria insania che solo piú avanti affiora in Narciso (cfr. v. 463: Iste ego sum!). Ma si tratterebbe
di un commento ben poco arguto da parte dell’autore, soprattutto dopo l’apostrofe diretta al per-
sonaggio dei vv. 432-36. Meglio dunque conservare l’attribuzione tradizionale a Narciso, dando a
error il significato, comune nel lessico elegiaco, di ‘follia d’amore’ (Rosati), che consente di evitare
l’anticipazione della presa di coscienza di Narciso (per questa accezione di error cfr., ad es., Ovidio,
Am., i 2 35-38). In tal modo le parole di Narciso si caricano di ironia tragica: il lettore può scorgere
in error un significato drammatico ben diverso da quello che gli attribuisce il personaggio.
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454. Quid me . . . fallis: dal verso traspare l’ironia di Ovidio: l’attributo unicus ha, nelle parole di Nar-
ciso, il senso traslato di ‘straordinario’, ma il lettore vi può cogliere quello reale di ‘uno solo’; l’e-
spressione me . . . fallis significa per Narciso ‘mi sfuggi’, per il lettore, come è in realtà, ‘mi inganni’. c
456. et amarunt . . . nymphae: piuttosto che pensare che quoque sia anteposto al termine a cui si riferi-
sce (‘anche le ninfe mi hanno amato’), appare preferibile, secondo l’interpretazione di M. Labate
(in « MD », nn. x-xi 1983, pp. 305-18), intendere l’espressione come un’affermazione orgogliosa
delle proprie qualità, che ha come modello il lamento del Coridone virgiliano (Buc., 2 19-27), sde-
gnato dal bel giovinetto Alessi (a sua volta esemplato sul canto di Polifemo in Teocrito, Id., 11). Per
la coloritura virgiliana dell’espressione cfr. Buc., 5 52: amavit nos quoque Daphnis. c 458-60. L’immagi-
ne di Narciso sembra tener conto delle prescrizioni per conquistare una donna date da Ovidio in
Ars am., ii 201 sg.: riserit: adride! Si flebit, flere memento; / imponat leges vultibus illa tuis (‘riderà: tu ricam-
biale il sorriso! Se piangerà, ricordati di piangere; sia lei a dettar legge alle espressioni del tuo vol-
to’). c 463. Iste ego sum!: il raggiungimento della consapevolezza della propria follia da parte di Nar-
ciso è reso da Ovidio con espressione singolare: iste non è mai, eccetto che qui, legato al pronome
di prima persona. – nec me mea fallit imago: allusione a Virgilio, Buc., 2 25-27: Nec sum adeo informis: nu-
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per me in litore vidi, / cum placidum ventis staret mare. Non ego Daphnin / iudice te metuam, si numquam fal-
lit imago (‘Né sono tanto sgraziato: or ora mi specchiai sul lido, quando il mare era immobile per
l’assenza dei venti; con te giudice non avrò paura nemmeno di Dafni, se l’immagine non inganna
mai’), su cui vd. Traina, Poeti latini, i pp. 163-74; cfr. anche Fast., ii 397 sg.: si genus arguitur voltu, nisi fal-
lit imago, / nescioquem in vobis suspicor esse deum, ‘se dal volto si riconosce la stirpe, se l’immagine non
inganna, sospetto che non so quale dio sia in voi’. c 466. La vicenda di Narciso arricchisce di nuove
sfumature la sentenza di Publilio Siro: mala est inopia, ex copia quae nascitur (M 69). c 467. a nostro . . .
corpore: l’alternanza della prima persona singolare con la prima plurale (cfr. anche 468 amamus e so-
prattutto 473) esprime con finezza la perdurante confusione psichica di Narciso. c 472. diligitur: cfr.
v. 500: dilecte. c 473. duo concordes anima moriemur in una: Ovidio gioca con i topoi dell’amore coniuga-
le: concors e unanimus sono spesso usati in poesia, specialmente epigrafica, per indicare la sintonia
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i · l’epos
completa di coniugi, amanti e consanguinei (per concors cfr., ad es., Ovidio, Met., viii 708; CLE, 461
3; 1563 4; per unanimus: Catullo, 66 80; Virgilio, Aen., iv 8; CLE, 1306 4; 2080 5; 2099 22); nel caso di
Narciso, con ironia, concordia e unanimitas sono letterali. La clausola del verso inoltre richiama allu-
sivamente le parole di Didone che precedono il suicidio in Virgilio, Aen., iv 659: moriemur inultae.
Per la patetica espressione cfr. Met., ii 608: duo nunc moriemur in una. c 474. male sanus: corrisponde a
insanus; l’espressione allude alla follia amorosa di Didone (per il parallelo cfr. anche vv. 437, 473,
490): cfr. Virgilio, Aen., iv 8: cum sic unanimam adloquitur male sana sororem. c 479. L’idea è espressa in
termini analoghi da Properzio, iii 21 3 sg.: crescit enim assidue spectando cura puellae: / ipse alimenta sibi
maxima praebet Amor (‘infatti guardandola cresce continuamente l’affanno d’amore per la ragazza:
Amore stesso si procura il piú grande alimento’). Per l’amore come furor cfr. sopra, n. a v. 350. c 481.
percussit pectora palmis: l’allitterazione della labiale produce uno tra i piú ricercati effetti fonosimbo-
lici per il gesto del battere: cfr. Ennio, Ann., 311 Vahlen2 (= 310 Skutsch): perculsi pectora Poeni; Ca-
tullo, 64 351: putrida . . . pectora palmis; Virgilio, Aen., xi 614 sg.: dant sonitum ingenti perfractaque quadru-
pedantum / pectora pectoribus rumpunt. La medesima pericope ricorre ancora in Met., v 473, x 723; cfr.
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iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione
anche ii 584: plangere nuda meis conabar pectora palmis. c 482. roseum . . . ruborem: l’aggettivo attenua il va-
lore del sostantivo. Il rossore del petto contrasta il candore delle mani (481: marmoreis . . . palmis). La
iunctura ricorre anche in un virtuosistico mosaico cromatico in Am., iii 3 5 sg. (Corinna): candida
candorem roseo suffusa rubore / ante fuit: niveo lucet in ore rubor; quindi in Apuleio, Met., ii 8; xi 3; Arno-
bio Iuniore, Ad Greg., 4. L’insistenza sui colori è funzionale alla metamorfosi nel fiore, che li con-
serverà (cfr. vv. 509 sg.). c 490. tecto . . . carpitur igni: l’espressione richiama la nascosta passione della
Didone virgiliana (cfr. vv. 437, 473, 474): Aen., iv 1 sg.: At regina gravi iamdudum saucia cura / volnus alit
venis et caeco carpitur igni, ‘Ma la regina, già da tempo ferita dal penoso affanno, nutre la ferita nelle
vene ed è consumata da oscuro fuoco’; Ovidio vi allude anche in relazione all’amore incestuoso di
Mirra in Met., x 369 sg.: at virgo Cinyreia pervigil igni / carpitur indomito, ‘ma la giovane figlia di Cinira,
insonne, è consumata da un fuoco indomabile’. c 493. nec corpus remanet: Narciso subisce una sorte
speculare a quella di Eco (vv. 396-99 e si confronti specialmente 489: attenuatus amore, con 396: atte-
nuant . . . corpus).
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i · l’epos
iv 53-166
501. dictoque . . . Echo: il verso echeggia due luoghi virgiliani: Buc., 3 78 sg.: Phyllida amo ante alias; nam
me discedere flevit / et longum « formose, vale, vale » inquit « Iolla », ‘Fillide amo piú d’ogni altra; pianse in-
fatti che io partissi, e a lungo « addio, addio, mio bel Iolla » disse’ (dove, come qui, il secondo vale
ha la seconda sillaba abbreviata in iato prosodico, davanti a inquit), e 6 44: ut litus « Hyla, Hyla » omne
sonaret (dove il nome proprio, per due volte in iato, subisce lo stesso abbreviamento ‘Hyla6, Hyla* ’),
che riproduce l’eco delle grida degli Argonauti in cerca del bel fanciullo Ila, rapito dalle ninfe di
una fonte (un mito che Ovidio ha ben presente per l’episodio di Narciso). c 503. domini: nel termi-
ne sono presenti, con ambiguità, sia la valenza erotica (per cui cfr. Am., iii 7 11; Ars am., i 314; Met.,
ix 466), sia quella di ‘padrone del corpo’ (per cui cfr. Am., iii 7 71; Marziale, xii 59 8). c 505. in Stygia
spectabat aqua: Narciso continua anche nell’oltretomba la folle contemplazione di sé. c 511. vati: Ti-
resia (cfr. sopra, v. 339).
iv 53-166. Il tragico amore di Piramo e Tisbe. Piramo e Tisbe, bellissimi giovani babilonesi, abitano
case contigue. La vicinanza ne favorisce l’innamoramento, ma i genitori di entrambi si oppongo-
no. I due comunicano soltanto attraverso una fessura nella parete che separa le due abitazioni,
scambiandosi parole d’amore e lamenti per la loro triste situazione. Una notte decidono di incon-
trarsi sfuggendo al controllo dei genitori. Si danno appuntamento presso un gelso bianco vicino il
sepolcro del re Nino. Tisbe giunge per prima, ma vede da lontano una leonessa con le fauci insan-
guinate e fugge, perdendo però il velo, che la fiera lacera lordandolo di sangue. Piramo arriva sul
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iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione
iv 53-166
Questa vicenda incontra il suo favore; a essa, poiché non è storia comune,
dà inizio in questo modo, mentre la lana asseconda il formarsi dei suoi fili:
« Piramo e Tisbe, il piú bello tra i giovani l’uno, 55
l’altra considerata superiore alle fanciulle che ebbe l’Oriente,
luogo, vede il velo insanguinato di Tisbe e lo considera una prova certa della morte dell’amata. Ac-
cusandosi per l’accaduto, si uccide trafiggendosi con la sua spada; il suo sangue zampillante mac-
chia di rosso i fiori bianchi del gelso. Dopo poco ritorna, ancora impaurita, Tisbe; vede l’amato
moribondo in terra e comprende l’equivoco di cui è caduto vittima; si dispera; alla sua invocazio-
ne Piramo riesce appena a sollevare gli occhi verso di lei e muore; la fanciulla decide di seguire l’a-
mante nella morte. Dopo aver invocato i genitori, perché seppelliscano insieme i due amanti, e il
gelso, perché conservi sempre i fiori scuri in segno di lutto, si trafigge con la spada di Piramo ac-
canto all’amato.
53-54. La storia è raccontata da una delle tre figlie di Minia, re di Orcomeno, le quali si oppon-
gono al culto di Bacco e verranno per questo punite. Mentre tutta la popolazione partecipa ai riti
del dio, le tre si dedicano alla filatura della lana, decidendo di raccontarsi storie per alleviare il la-
voro e far passare il tempo. Fa qui la prima apparizione nel poema il procedimento stilistico della
mise en abîme (‘racconto a cornice’), che moltiplica le voci narranti. Nella preferenza accordata a
una storia poco nota (quoniam vulgaris fabula non est; cfr. anche 276 sgg.) è possibile vedere l’adesio-
ne ai principi della poetica callimachea.
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i · l’epos
57-58. La costruzione delle mura di mattoni cotti di Babilonia, considerate nell’antichità una delle
sette meraviglie del mondo, è attribuita da Ovidio a Semiramide, moglie del re assiro Nino (cfr. v.
88), in accordo con una tradizione diffusa nel mondo latino: cfr. Properzio, iii 11 21-24, da cui forse
Ovidio dipende (la clausola Semiramis urbem ricorre identica in Ovidio, Met., iv 58 e Properzio, iii
11 21); Vitruvio, viii 3 8; Curzio Rufo, v 1 24-26; Marziale, ix 75 2 sg.; Igino, Fab., 223 6; Orosio, ii 6
7-10 (a Nino vel Semiramide reparatam); Erodoto (i 178-200) invece la attribuisce a Nitocride. c 60. tem-
pore crevit amor: la stessa espressione in Fast., i 195 e Pont., iv 6 24. c 63. nutu signisque loquuntur: la stes-
sa modalità di comunicazione di Narciso con la sua immagine riflessa: cfr. iii 460: nutu quoque signa
remittis. c 65. tenui rima: una sottile fessura nella porta chiusa perché le sue parole giungano all’ama-
ta è quanto auspicato dall’exclusus amator in Properzio, i 16 27 sg.: o utinam traiecta cava mea vocula rima
/ percussas dominae vertat in auriculas! c 69. vocis . . . iter: non è necessario correggere in voci con Bar-
chiesi-Rosati (lezione scarsamente attestata, anche se accreditata da N. Heinsius e guardata con fa-
vore anche da Tarrant): facere iter non è qui nel senso di ‘aprire una via, un passaggio’, che richiede-
rebbe il dat., ma sottintende vitium (67), nella costruzione di facio con doppio acc.: ‘lo rendeste il ca-
nale di passaggio della voce’. Per la iunctura cfr. Met., ii 829 sg.: nec conata loqui est nec, si conata fuisset, /
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iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione
vocis habebat iter; ix 369 sg.: dum licet oraque praestant / vocis iter. c 70. murmure . . . minimo: vd. anche 83:
murmure parvo. Murmur, che nel lessico erotico indica i gemiti d’amore (cfr. Ars am., ii 723: accedent
questus, accedet amabile murmur; iii 795: blandae voces iucundaque murmura), designa qui, con arguto ro-
vesciamento, i sussurri dell’amore vietato (cfr. anche v. 72). c 71-77. L’apostrofe alla parete sfrutta al-
cuni elementi caratteristici del paraklazsiöuzron (il lamento dell’amante escluso davanti alla por-
ta chiusa dell’amata), un motivo topico dell’elegia, quali le imprecazioni contro la barriera che se-
para gli amanti e la preghiera di consentire l’incontro. c 72. anhelitus oris: ironico riuso dell’espres-
sione che in Ars am., iii 803, indica i sospiri durante l’amore (cfr. anche v. 70): quid iuvet et voces et an-
helitus arguat oris. c 73. quid amantibus obstas?: l’espressione contiene un’allusione alla sorte di Narci-
so, separato dal suo “amato” da una barriera minima (iii 453: minimum est, quod amantibus obstat) e
accomuna i due amori infelici. c 80. oscula . . . non pervenientia contra: la singolare espressione pone in
risalto l’impossibilità del contatto tra i due amanti. Significativa l’autoallusione ovidiana alla co-
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i · l’epos
municazione impossibile di Narciso con il suo amato nella fonte: iii 462: verba refers aures non perve-
nientia nostras. c 83. coiere: il verbo, caratteristico dell’amplesso sessuale (cfr. coitus) e usato al v. 60 per
indicare l’unione matrimoniale (taedae . . . iure coissent), è qui venato di « amara ironia » (Rosati). c 88.
ad busta Nini: Nino, sovrano assiro e marito di Semiramide (vd. vv. 57 sg.). La scelta del sepolcro
quale luogo dell’incontro proietta un cupo presagio sulla vicenda. c 103. sine ipsa: Ovidio puntua-
lizza il dettaglio che sarà decisivo per innescare il tragico fraintendimento da parte di Piramo. c
108. una duos . . . nox perdet amantes: il motivo della iuncta mors degli innamorati è comune nella poe-
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iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione
sia erotica; il gioco numerico (una duos) ne è spesso parte (cfr. anche iii 473 [Narciso]: Nunc duo con-
cordes anima moriemur in una; viii 709 [Filemone e Bauci]: auferat hora duos eadem). c 110. nostra nocens
anima est: l’essere in vita (anima) mentre Tisbe è morta viene sentito come una colpa da Piramo,
che se ne ritiene responsabile. – Ego te . . . peremi: alla patetica espressione, con cui Piramo si attri-
buisce la responsabilità della morte di Tisbe, alludono Seneca, Phaedr., 1249-52 (Teseo di fronte al
cadavere di Ippolito): Hippolytus hic est? Crimen agnosco meum: / ego te peremi; neu nocens tantum semel /
solusve fierem, facinus ausurus parens / patrem advocavi (‘Questo è Ippolito? Riconosco la mia colpa: io
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ti ho ucciso; e perché non fossi colpevole una sola volta o solo, io padre, prossimo a osare un delit-
to, invocai il padre’; vd. sotto, pp. 402-3), e Lucano, viii 639 (Cornelia a Pompeo): o coniunx, ego te
scelerata peremi (‘oh marito, io, scellerata, ti ho ucciso’). c 111. loca plena metus: l’espressione, che tra-
sferisce sul piano oggettivo un risvolto psicologico soggettivo (il metus), sarà usata ancora dall’Ovi-
dio dell’esilio per indicare i luoghi angosciosi del Ponto in Trist., iii 11 9 sg.: nulla mihi cum gente fera
commercia linguae; / omnia solliciti sunt loca plena metus; cfr. anche Met., x 29 (gli Inferi): loca plena timo-
ris. c 121. et iacuit: non appare condivisibile la preferenza accordata da Tarrant a ut, ‘quando’ (con
punto fermo dopo traxit), lezione di due soli codici, motivata forse dalla considerazione che iaceo è
verbo di stato e non può designare la caduta di Piramo. c 122-24. non aliter. . . rumpit: la similitudine
con i tubi di piombo dell’acquedotto, familiare al lettore romano, costituisce un vistoso anacroni-
smo, se si tiene conto che la narrazione è condotta da una cittadina della Beozia del mito. c 128. ne
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iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione
fallat amantem: nell’espressione è condensato l’elemento dominante della vicenda: l’inganno; Ti-
sbe non vuole “deludere” l’amante (mancando all’appuntamento), ma non sa di essere già stata in-
volontaria artefice dell’inganno di Piramo. Fallere ricorre significativamente piú volte nella narra-
zione: cfr. vv. 85: fallere custodes; 94: fallit . . . suos. c 135-36. aequoris instar. . . aura: la similitudine ricorre
quasi identica in Her., 11 75-77: ut mare fit tremulum, tenui cum stringitur aura / . . . / sic mea vibrari pallen-
tia membra videres (‘come il mare diviene increspato, quando è sfiorato da una lieve brezza [ . . . ] co-
sí avresti potuto veder vibrare le mie pallide membra’) e tremulum offre una conferma della bontà
della lezione tremit rispetto a fremit della maggior parte della tradizione; cfr. anche Am., i 7 53 sgg.
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i · l’epos
145-46. Ad nomen . . . illa: l’immagine di Piramo morente sarà ripresa da Dante in Purg., xxvii 37-42, al-
l’interno di una similitudine che descrive la condizione del poeta al sentire che Beatrice è separata
da lui ormai soltanto da una barriera di fuoco (si noti ai vv. 35 sg. l’allusione al paries, elemento cen-
trale nella vicenda di Piramo e Tisbe: « Or vedi, figlio: / tra Beatrice e te è questo muro »): « Come
al nome di Tisbe aperse il ciglio / Piramo in su la morte, e riguardolla, / allor che ’l gelso diventò
vermiglio; / cosí, la mia durezza fatta solla, / mi volsi al savio duca, udendo il nome / che ne la men-
te sempre mi rampolla ». c 152-53. quique . . . revelli: le parole di Tisbe prefigurano il superamento del-
la morte da parte dei due amanti; i due versi sono costruiti con raffinata struttura: entrambi sono
chiusi dalla medesima clausola (morte revelli), ma il secondo, attraverso la negativa e l’uso del futuro
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iii · le metamorfosi di ovidio: l’epica in trasformazione
(poteris), sapientemente giustapposto al passato (poteras), realizza nel futuro l’auspicio di unità nega-
ta in vita ai due amanti. Al contesto ovidiano e all’inseparabilità degli amanti dopo la morte allude,
attraverso il riuso della clausola, un carme epigrafico dedicato da un marito alla defunta sposa
(CLE, 1532 11 sg.): ut thalami tumulique comes nec morte revellar / et socios vitae nectat uterque cinis, ‘perché,
compagno del talamo e del tumulo, neanche dalla morte le sia strappato e le ceneri di entrambi le-
ghino i compagni di vita’. c 161. gemini monimenta cruoris: modellato su Virgilio, Aen., xii 945: saevi mo-
nimenta doloris (il balteo di Pallante indosso a Turno, visione che spingerà Enea a ucciderlo).
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