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Pisa University Press S.R.L.

LUCILIO, "SAT." XX: IPOTESI PER UNA RICOSTRUZIONE DELLA "CENA" DI GRANIO
Author(s): Andrea Aragosti
Source: Studi Classici e Orientali, Vol. 35 (Febbraio 1986), pp. 99-130
Published by: Pisa University Press S.R.L.
Stable URL: https://www.jstor.org/stable/24182908
Accessed: 20-11-2022 18:30 UTC

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Andrea Aragosti

LUCILIO, S AT. XX:


IPOTESI PER UNA RICOSTRUZIONE
DELLA CENA DI GRANIO

Der Mensch ist, was er ifit


(Feuerbach)

I frammenti contenuti nel libro XX di Lucilio riguardano


notoriamente la descrizione di una cena, che è con forte
probabilità quella offerta dal banditore Granio a L. Licinio
Crasso, eletto tribuno della plebe nel 107a.C.' L'ordinamento
dei versi e la loro esegesi non può tuttora prescindere dalla
fondamentale edizione di F.Marx2, per quanto rimangano
irrisolti - come è ovvio, trattandosi di un materiale spesso
difficile da interpretare - numerosi problemi che rendono ardua
una sistemazione omogenea dei frammenti. Ciò nonostante, è
possibile forse focalizzare gli errori più vistosi prodotti nel
tempo dalle avventurose impressioni di lettura e tentare di

*. Ringrazio il prof. Vincenzo Tandoi per aver rivisto il dattiloscritto di


questo mio lavoro fornendomi utilissimi consigli.
1. La notizia è di Cic. Brut. 160 il quale, parlando dell'oratore L. Licinio
Crasso, dice: multae deinde causae: sed ita tacitus trìbunatus ut rósi in eo magistratu
cenavisset apud praeconem Granium idque nobis bis narravisset Lucilius, tribunum plebis
nesciremus fuisse.
Molti problemi ha suscitato, nel testo ciceroniano, la precisazione bis, che
porterebbe ad ammettere una duplice narrazione luciliana di questa cena;
Marx, che ritiene la notizia ciceroniana in riferimento al libro XX delle Satire,
composto certamente in un periodo assai vicino a quello della cena ivi
descritta, sospetta che il doppione si trovasse nel libro XXI, di cui non
abbiamo frammenti. Altri studiosi però, sulla scia di Leo, «Gott. gel.
Anzeiger» 1906, p. 858, negano veridicità a questa notizia, sostenendo che bis
è una diplografia sviluppatasi da nobis. L'espunzione di bis risale al Lambinus,
che si basava probabilmente sull'assenza dell'avverbio numerale nel testo
dato da
Ο (l'Ottobonianus 2057).
Laquestione è assai intricata e difficile da dirimere: gli argomenti migliori
in favore dell'espunzione di bis sono, a mio giudizio, in L.R. Shero, The cena in
Roman Satire, CPh XVIII (1923), p. 128, ma non va dimenticata, ai fini
dell'eventuale conservazione dell'avverbio nel l.c. del Brutus, la tendenza di
Lucilio a ritornare volentieri
sugli argomenti già trattati (cfr. e.g. gli attacchi a
Cornelio Lentulo Lupo, l'accenno a Granio anche nel libro XI, il tema

polemico del Tafelluxus che ritorna più volte nelle Satire etc.).

2. C. Lucilii Carminum Reliquiae, ree. enarr. Frìdericus Marx, vol. I, Lipsiae 1904 e
vol. II (comm.), Lipsiae 1905.

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IOO ANDREA ARAGOSTI

correggerli, proponendo a questo scopo un'ipotesi di successio


ne relativa (cioè non rigida, suscettibile di qualche variazione,
seppur non grande, all'interno del posto tradizionalmente loro
assegnato) dei frammenti traditi dalle fonti come appartenenti
al XX, nonché di quelli che, pur citati senza numero di libro
ovvero adespoti, a tale libro vanno a mio avviso ricondotti. Do
qui di seguito, per maggior chiarezza, il prospetto dei
frammenti secondo l'edizione Marx:
ine. 1180? (cfr. Cic. Brut. 160)
568 purpureo tersit tunc latas gausape mensas
inc.w.1174- fingere praeterea, adferri quod quisque volebatJillum sumina
1176? ducebant atque altilium Ιαηχ,/hunc pontes Tiberinus duo inter

captus catillo
569 ittipraeciso atque epulis capiunturopimis
570-572 tempestate sua atque eodem uno tempore et horae/dimidio et
tribus confectis dumtaxat - eandem/ad
quartam
573-574 Calpurni saeva lege in Pisonis reprendi/eduxique
animam in
primorì.<s fauc> ibus naris
575-576 iam disrumpetur, medius iam, ut Marsus colubras/disrumpit
cantu, venas cum extenderit omnis
inc.w.l 181- Granius autem/non contemnere se et reges odisse superbos
1182?
577 nugator, cui dem, ac nebulo sii maximus multo
578 proras despoliate et detundete gubema

Il fr. 1181-2 M Granius autem/non contemnere se et reges odisse


superbos, citato da Cicerone senza nominarne l'autore in due
luoghi delle lettere ad Attico (nella forma più estesa in VI 3.7 e
in una più concisa — l'emistichio finale reges odisse superbos — in II
8.1), fu attribuito a Lucilio dal Bosius e quindi assegnato dagli
editori successivi al libro XI, in forza del riferimento, ivi
presente, a Granio3. Marx invece, sulla base di una convincente
argomentazione cronologica4, lo collocò nel XX, anche se la sua

3. Cfr. il fr. 411-2 M conicere in versus dictum praeconis volebamJGrani, citato da


Gellio IV 17.1 come appartenente al libro XI. A tale libro il fr. 1181-2 M fu
ricondotto perché, prima di Marx, si pensava che in esso, e non nel XX, fosse
descritta la cena che il banditore offrì a Crasso (così, per es. L Mueller, C.
Lucilii Saturarum reliquiae,
Lipsiae 1872). Ma il libro XI fu con ogni probabilità
scritto in un periodo
compreso tra il 116 e il 110 a.C. (cfr. al proposito, la

dettagliata argomentazione a p. XLVIII dei Prolegomena all'edizione di Marx)


e dunque prima del tribunato di Crasso (107 a.C.).
4. Cfr. Proleg. p. XLIX, dove è detto che i libri XX e XXI, gli ultimi
composti da Lucilio prima della cessazione della sua attività satirica e prima
del ritiro napoletano (106 e 105 a.C.) riguardavano gli avvenimenti

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LUCILIO, SAT. XX: LA CENA DI GRANIO IOI

dubitativa proposta di inserimento dopo il 575-6M, non


essendo argomentata, risulta, più ancora che discutibile,
arcana. L'esegesi più corretta di questi versi, proposta da Marx,
riferisce il valore negativo di non al solo contemnere (da collegarsi
ovviamente col riflessivo se) che, come il successivo odisse, è
infinito descrittivo5, recuperando nel complesso un'allusione
diretta al carattere di Granio, alla consapevolezza orgogliosa
del proprio valore, non disgiunta dal disprezzo per i potenti6.
Tale interpretazione è in linea perfetta con le notizie che,
sull'atteggiamento di Granio nei confronti delle personalità
politiche più rilevanti, dà, non senza una punta di risentimento
antipopolare, Cicerone {Piane. 33) che, enumerate le arroganti
risposte del banditore a Scipione Nasica, Livio Druso e Marco
Antonio (l'oratore), allude alle sue asperiores facetiae contro
Crasso e lo stesso Antonio. Il frammento ha dunque una
marcata coloritura etopeica poiché presenta Granio, padrone di
casa e organizzatore della cena, come persona abituata a trattare
coi personaggi di riguardo e di un certo rilievo politico. Non
manca ovviamente la pungente sottolineatura ironica, facilmen

contemporanei, contenendo perciò anche la descrizione della cena di Granio,


avvenuta, come sappiamo, nel 107 a.C.
5. L'interpretazione sintattica di contemnere e odisse come infiniti descrittivi è
da ritenersi sicura, anche in quanto suffragata dalla contestualizzazione
dell'emistichio luciliano reges odisse superbos in Cic. ad Att. 118.1 Ipse (se. Curio)
vero mirandum in modum 'reges odisse superbos'.
6. Marx sostiene, con buone esemplificazioni, la plausibilità linguistica del
nesso contemnere se in forza di passi plautini (Trin. 322 e Mil. 1236) ai quali si
può aggiungere, tra l'altro, Cic. Ph.il. 13.15 (senatus se ipse non contemnit)·, ciò
rende improbabile considerare se soggetto dell'oggettiva in cui contemnere
sarebbe in dipendenza da un sottinteso verbum dicendi. Così invece
interpreta Terzaghi (Lucilio, Torino 1934, p.327) che traduce: «Granio poi
(affermava) di non disprezzare e non odiare i superbi re»; ma una simile
interpretazione viene ad oscurare un sintagma abbastanza comune come
contemnere se e, estendendo il valore negativo di non a odisse, va contro, nel suo
significato complessivo, la descrizione dell'etopea di Granio, caratterizzata
dall'outrance verbale contro i potenti (come si evince da Cic. Piane. 33,
riassunto nel testo, infra). Al solo contemnere se è riferito non da Warmington
(Remains of old Latin III, Lucilius, Cambridge Mass. 1967), che però fa
dipendere gli infiniti da un verbum dicendi, e da Krenkel (Lucilius Satiren, erst.
t., Leiden 1970) che fornisce invece l'interpretazione di contemnere e odisse come
descrittivi. Si noti infine come Γ et, che lega non contemnere con reges odisse supebos,
non abbia un valore meramente coordinativo ma epesegetico - in
equivale
modo ad ideoque (per valore di et cfr. Th. l.L. s.v. col. 892,70) -
qualche questo
ribadendo ntWodium di Granio contro i reges superbi la sua personale
ipervalutazione, espressa in forma litotica (non contemnere se).

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102 ANDREA ARAGOSTI

te riconoscibile corne luciliana, contro il banditore parvenu,


messo iperbolicamente a confronto con i reges superbi1, coi quali
era improbabile che Granio fosse in relazione strettamente
personale, seppur d'odio. Secondo Terzaghi8 il frammento
appartiene ad uno dei movimenti iniziali della satira, nel quale
doveva venir delineato il carattere dell'ospite: ritengo che
quest'ipotesi sia, nella sostanza, giusta perché la presentazione
iniziale del personaggio presso cui avviene la cena è tratto
ricorrente della satira gastronomica. L'analisi del Nachleben
luciliano infatti, per quanto ad esso non possa limitarsi lo sforzo
di comprendere l'autore e il genere letterario da lui praticato,
conferma peraltro la plausibilità di una posizione iniziale per il
fr. 1181-2 M. Si possono, infatti, in uno stesso ambito di satira
gastronomica, confrontare le precoci, ironiche allusioni di
Orazio alla saccenteria di Nasidieno e alla sua tronfia esibizione
di ineleganza (cfr. II 8.7 e soprattutto l'esclamazione divitias
miserasi del ν. 18)9. Non molto diversamente, anche se qui il
riverbero ironico non è immediatamente percettibile, le parole
del servo di Agamennone all'inizio della cena petroniana
tracciano sinteticamente e come in prolessi il carattere della
lautitia trimalcionesca, fungendo da presentazione etopeica
dell'ospite munifico10.

7. I reges superbi sono ovviamente uomini ricchi e politicamente emergenti


(cfr. Hor. carm. I 4.18 e Cic.fam. IX 19.1) e non i reges bibuli (per cui cfr. Hor.
carm. I 4.18) come sembra sospettare Warmington, né i Gastgeber, come
intende Suess, Zu Lucilius, in «Hermes» 62, 1927, p. 353.
8. cfr. Terzaghi, cit. p. 327.
9. Cfr. in primis Lucanus aper: leni fuit Austro/captus, ut aiebat cenae pater..., in cui
l'inciso ut/pater sottolinea ironicamente l'esibizionismo di Nasidieno, che tra
l'altro fa servire con ineleganza un aper nella gustatio, contro il quale Orazio
sbotterà apertamente al v.18. Per le consonanze tra Lucilio ed Orazio,
registrate con puntiglio talora eccessivo, si veda con molta cautela Fiske,
Lucilius and Horace, Madison 1920 (= rist. an. Hildesheim 1966).
10. Cfr. 26.9, cioè il famoso incipit della cena petroniana, nel quale compare
per la prima volta nel Satyricon il termine lautissimus (Trimalchio lautissimus homo)
che come lautus e lautitia saranno le parole tematiche dell'episodio, atte a
sottolineare, in quel contesto, la munificenza esibita ed il cattivo gusto del
padrone di casa (su questo si veda M. Barchiesi, L'orologio di Trimalcione, in I
moderni alla ricerca di Enea, Roma 1981, specialmente le pp. 131 ss.).
Il motivo, topico, della ridicolizzazione del Gastgeber nella letteratura
simposiaca è individuato, con argomenti convincenti, da J. Martin nel suo
classico Symposion (Geschichte einer literarischen Form), Padeborn 1931, p. 36 ss.,
dove però non è cenno dell'altro motivo, che a me pare di poter riconoscere in
Orazio e Petronio, cioè quello della presentazione precoce del padrone di

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LUCILIO, SA T. xx: LA CENA DI GRANIO IO3

Assegnato dalla maggior parte degli editori al libro XXX, il


fr. 1076-7 M (pulmentaria, ut intubus aut aliquae idgenus herbajet ius
maenarum, bene habet se. Mictyris haec est) merita, soprattutto per
quanto concerne la sua collocazione, di essere attentamente

ridiscusso. Esso è tradito da Nonio in due luoghi, in 200.27 L


sotto il lemma mictilis (sic in Lindsay), e in 308.4 L per
esemplificare il sostantivo intiba al maschile. Nel primo caso
Nonio dice: mictilis, paupercula pulmentaria. Lucilius iib.XX:
pulmentaria/est\ nel secondo, invece, dopo un esemplificazione di
intubus dal libro V di Lucilio, si ha: idem XX (XXXcodd.):
pulmentaria/herba, con citazione del solo primo verso. Come si
vede, l'edizione noniana di Lindsay preferisce correggere in XX
il XXX tradito nella seconda citazione ed assegna quindi il
frammento al libro della cena di Granio. Ma questa, se si
eccettuano L.Mueller e Warmington, non è certo la posizione
prevalente degli esegeti. Già il Lachmann11 aveva preferito
correggere il numero del libro nel primo lemma con quello
tradito nel secondo e, in questo, ha avuto poi molte conferme
autorevoli, a cominciare da Marx. Quest'ultimo, infatti, ritenne
più probabile un errore di omissione in Lucilius lib. XX nel primo
lemma che non uno di aggiunta in idem XXX del secondo: il suo
ragionamento verteva sul fatto che siccome i lemmi desunti da
Lucilio, successivi al primo dei due citati (cioè mutuum, mordicus,
monstrifìcabile) hanno, rispettivamente, l'indicazione Lue.
XXVII, Luc. XXVI e Luc. XXVI, ne doveva conseguire che il
lemma mictilis avesse Luc. XXX (e non XX, come tradito) per
rispettare l'ordine inverso con cui notoriamente Nonio cita i
libri di Lucilio dal XXVI al XXX. L'argomentazione sembra
impeccabile, ma è purtroppo falsa. Infatti, il lemma mictilis non
fa parte di una serie luciliana, cioè non fu desunto da Nonio da
nessuna delle due liste che aveva approntato, contenenti passi
luciliani: solo nel caso che la citazione luciliana sia desunta da
una «serie» vale, come sa chiunque abbia familiarità con la
problematica delle citazioni luciliane nella Doctrina di Nonio, il
criterio dell'ordine inverso invocato da Marx per i libri dal

casa. Anche per Shero, art. cit. p. 129, la ridicolizzzione dell'ospite è motivo
luciliano (e da Lucilio si riverbera in Orazio e Petronio), ma non ha a che
vedere con Granio, caratterizzato dalle fonti come uomo indipendente ed
audace anche coi potenti.

11. C. Lachmann, C. Lucili Saturarum reliquiae, Berlin 1876.

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104 ANDREA ARAGOSTI

XXVI al XXX. Marx non pare disposto a riconoscere12


l'importanza innovatrice degli studi di Lindsay, il quale
appunto, a p.50 del suo celebre Dictionaiy13, afferma che il
lemma mictilis è tratto probabilmente da un glossario e quindi
da una fonte totalmente indipendente dalle serie luciliane: del
resto, tra il lemma mictilis in Nonio e gli altri, tratti da Lucilio
(in termini lindsayiani, tra mictilis e i lemmi della serie Lucilio
II, cioè i già ricordati mutuum, mordicus, monstrìficabile) ci sono
altri lemmi, desunti da altri autori, fatto che rende ulteriormen
te improbabile la collegabilità tra il primo e gli altri tre,
supposta da Marx. Non sussiste quindi ragionevole motivo per
correggere il numero XX nell'indicazione del libro luciliano da
cui Nonio dichiara di desumere il lemma mictilis (cfr. 200.27 L),
perché esso è del tutto indipendente dagli altri, successivi, che
contengono le altre citazioni da Lucilio. In 308.4 L l'indicazione
del numero di libro luciliano data dai codici (XXX) andrà
invece corretta in XX, come fa Lindsay. Il verso ivi citato da
Nonio appartiene infatti ad una serie luciliana, più precisamen
te alla serie Lucilio I (Cfr. Dictionary, p.61) che conteneva cioè i
libri dall'I al XXI. Va inoltre osservato che prima della
citazione di questo verso che appartiene, come abbiamo visto,
al XX Nonio, per esemplificare il sostantivo intubus, dà un passo
di Lucilio desunto dal libro V: è probabile quindi che ad una
citazione dal V seguisse una dal XX (appartenente alla stessa
serie) piuttosto che dal XXX (appartenente, come noto, alla
seconda serie luciliana, che contiene i libri dal XXVI al XXX).
Si può quindi affermare, con buon margine di probabilità, che il
fr. 1076-7 M va assegnato, come hanno fatto anche L.Mueller e
Lindsay, al libro XX14. Ora che abbiamo collocato in una
posizione presumibilmente corretta il frammento in questione,

12. Cfr. Proleg. all'edizione cit., p. LXXXIII, in cui è citato il Dictionary di


Lindsay uscito tre anni prima, senza che peraltro venga discussa la teoria sul
criterio delle citazioni noniane avanzata dal filologo inglese.

13. W.M. Lindsay, N. Marcellus' Dictionaiy of Republican Latin, Oxford 1901.


14. L.Mueller, cit., comm. a XX
p. 3, 242, discute
l'assegnazione del
frammento al XX, sostenendo che
Nonio, pur servendosi spesso del libro
XXX di Lucilio per le esemplificazioni dei lemmi, non lo cita tuttavia mai nel
De indiscretisgeneribus (cioè il III libro del De compendiosa doctrina), in cui si trova
quello dei due lemmi noniani nel quale i codici tramandano XXX; al
contrario, nel De i.g., Nonio citerebbe più volte dal XXX di Lucilio. Mueller
si basa su una prova statistica del tutto empirica che, purtroppo, è solo
ingegnosa.

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LUCILIO, SAT. XX: LA CENA DI GRANIO IO5

possiamo analizzarne il testo in maniera più approfondita.


Nell'edizione di Marx il frammento compare, come abbiamo
visto, nella forma seguente:

Pulmentarìa'5, ut intubus aut aliquae id genus herba,


et ius maenarum, bene habet se. Mictyris haec est.

L'edizione noniana di Lindsay ha invece:

200,27 Pulmentarìa ut intibus16 aut aliqua id genus herba


et ius maenarum bene habet, sed mictilis haec est.

308,4 Pulmentarìa, ut intubus aut aliqua id genus herba.

I codici nel primo caso, p.u.i.a. aliquod genus herba e nel


hanno,
secondo p.u.i.a. aliqua et id genus herba; Marx accoglie la
congettura di Onions aliquae id genus herba, mentre Lindsay, sulle
orme di L. Mueller, espunge et dal nesso tradito nella seconda
citazione noniana e stampa aliqua id genus herba. Tale scelta mi
sembra la più opportuna, in quanto la correzione aliquae id genus
herba di Onions dà un testo che inutilmente contiene una forma
alquanto rara: l'uso di aliquae come aggettivo femminile
singolare è infatti molto incerto, se si eccettua il caso di Lucr.
IV 263 (aliquae res in fine esametro: unico caso sicuro anche per
il Th.l.L.) e la testimonianza, però non molto affidabile, di Festo
p. 304.30 L (in Cic. ep. VI 20.2 e Col. II 9.9 la tradizione ms. è
troppo oscillante perché la forma aliquae, pur attestata, valga
come prova). Onions ha probabilmente sospettato il formarsi di
un esito errato a partire da una forma aliquae, poi scioltasi in
aliqua et. Ma io credo che et sia stato introdotto nella tradizione
ms. di Nonio perché non veniva compreso il nesso id genus come
accusativo di relazione; basta espungere et per ottenere un testo
assai soddisfacente, senza bisogno di ricorrere a forme rare ed
incerte17.

15. Per il termine, si vd. Varr. de l.L. V 108: edebant cum pulte, ab eo
pulmentum...hincpulmentarium dictum, che stabilisce l'etimologia da puis (secondo
alcuni falsa: vd. però la posizione, più duttile, di Ernout e Meillet nel DE); si
dovrebbe dunque trattare di un companatico a base prevalentemente
vegetale, composto di indivia ed erbe consimili.

16. L'oscillazione grafica intibus/intubus nel testo


noniano (in Col. X HO si
trova anche una terza forma, intyba) è dovuta ai codici e non è rilevante, dato
l'esito doppio di vocale indistinta i/u dell'i) greco (intibus da έντυβον).
17. Per il nesso id genus (e simili) appositivo di herba si cfr. Anth. Lat. 34
Riese: quoddam genus herba virescit.

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I o6 ANDREA ARAGOSTI

Per quanto poi concerne il secondo verso, mi pare che la


scelta di Marx, che si attiene al se dei codd., sia più opportuna
di quella di Lindsay, che accetta dopo habet il sed proposto dallo
Scaligero. Così facendo, Marx mantiene il valore tecnico del
nesso bene habet se (se. aeger), ottimamente esemplificabile in sensu
valetudinis presso Lucilio stesso ed altri autori18, mentre Lindsay
deve accontentarsi di un più pallido bene habet («va bene», in
riferimento ai pulmentaria, cioè l'indivia ο erbe consimili, ed al ius
di sardelle), espressione anch'essa bene attestata19, ma forse un
po' generica rispetto all'altra. Altrettanto ineccepibile mi
sembra la scelta di Marx per mietyris (del Leidensis e del
Guelferbitanus m.l; anche nel titolo del lemma la forma in
questione è tradita, seppur con oscillazione grafica: mietyris in
L) laddove Lindsay preferisce mictilis, pure tradita dalla
seconda mano di G2 . Il testo da accettare per questi due versi

18. Cfr. e.g. Lucilio 181M quo me habeampacto..., Cic. Att. II 8.1 bene habemus
nos, Petr. 38.11 quid ille qui libertini loco iacet, quam bene se habuit (nel senso, però,
più lato di «condurre una bella vita») e Tac. ann. XIV 51 ego me bene habeo.

19. bene habet nel senso di «va bene» in Ov. Trist. IV 1.82, Livio VI 35,8, Sen.
Oed. 998, Stazio Theb. XI 557, Giov. X 72. È forse possibile che anche il nesso
bene habet senza la specificazione del pronome personale
possa significare
«(qualcuno) sta bene»: l'esempio più antico, citato da Shackleton Bailey,
sarebbe [Quint.] deci. 377 (Ritter p. 420,18): 'Scipio' inquit 'bene habet'. Il Th.
l.L. non ha esempi con bene in questo significato, ma alcuni con belle e uno con
male.

20. Mictyris è spiegato da Marx come neoformazione a suffisso grecizzante,


foggiata su un modello del tipo άλμυρίς < άλμη etc., secondo un uso
stilistico-lessicale riconoscibile come prettamente luciliano
(il vocabolo è
catalogato tra i grecismi culti da I. Mariotti, Studi luciliani, Fi 1960, p. 81, n.
1). L'interpretazione che Marx fornisce dell'hapax così individuato (qualcosa
come la miscellanea ludi di Giov. XI 20, cioè il «polpettone dei gladiatori»,
tramite la connessione con μικτός <μίγνυμι) è insoddisfacente e va sostituita
con la corretta esegesi di Cichorius
( Untersuchungen zu Lucilius, Zurich/Berlin
1964 (=1908) p. 218) che ha visto in mictyris la radice latina di mingo, fornendo
a sostegno della sua ipotesi convincenti raffronti linguistici e soprattutto
paralleli persuasivi sulle proprietà diuretiche dell'intibus (e.g. Plinio XX 74: si
in aceto decoquatur, urìnae termina discutit ... vesicam adiuvat). La forma mictilis,
accettata da alcuni edd., è ugualmente da connettersi con mingo (così il LS e
l'OLD, il quale ultimo sembra però preferire, anche se dubitativamente, la
forma mictyris), ma con suffissazione latina in -ilis, che conferisce alla radice il
valore di «che merita di essere insozzato» e quindi anche «disprezzabile» (per
la derivazione di -ilis da -bilis < facibilis,
come cfr. LHS
facilis I, p. 347).
L'unica prova a favore di mictilis sarebbe
la lemmatizzazione noniana (m.
paupercula pulmentaria) che è però inaffidabile perché probabilmente sviluppa
tasi a partire dai cibi frugali enumerati nei versi e non dall'hapax, di cui
Nonio ignorava quasi certamente il significato. Una rassegna delle varie

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LUCILIO, SAT. XX: LA CENA DI GRANIO IO7

risulta allora il seguente:

pulmentaria, ut intubus aut aliqua id genus herba,


et ius maenarum, bene habet se. Mictyris haec21 est.

Per ciò che riguarda il loro contenuto e la situazione cui sono in


riferimento, la tendenza generale degli esegeti è quella di
rintracciare in questa enumerazione di cibi la ricetta di una
dieta per malati (così Marx) ovvero, ma è quasi lo stesso, un
antidoto alla sbornia (Cichorius, Terzaghi). Questo tipo di
interpretazione individua giustamente nei versi il motivo
dietetico (il senso sarebbe: «un companatico, come l'indivia ο
qualche verdura del genere, insieme col sugo di sardelle, fa
bene, è un diuretico (Cichorius) / un pout-pourri (Marx)) che,
accettando l'ipotesi di un loro inserimento nel libro XXX, si
ricollegherebbe strettamente al motivo dell'ubriachezza come
morbus espresso in un frammento posto da Marx a questo molto
vicino, il 1073-4 M22. Se invece inseriamo, come credo giusto, il
frammento nell'ambito della cena di Granio, tale interpretazione
dietetica, pur da accettare nella sostanza, andrà un po'
modificata. Non va dimenticato, intanto, che i cibi qui

lezioni dei codd. noniani (mictilis, mictiris, mictyris, myctirys), in A. Moscadi,


Nota a Lue. 1076-77 (= 1051-52 Krenkel), in «Studi noniani» VII: le
conclusioni di questo saggio mi lasciano però perplesso e non certo perché la
forma mictilis, che l'autore accetta, sia statisticamente meno rappresentata nei
codd. rispetto alle altre (mictilis solo in G3, G2 secondo Marx); se è degna di
fede la glossa inedita di Festo (mictilis erat locus Urbis) che l'autore del saggio
citato si appresta a pubblicare, sarà dimostrata la plausibilità della forma
mictilis (in assoluto, del resto, difendibile anche senza questo appoggio), ma
non certamente la sua pertinenza al contesto del frammento luciliano.

21. Haec è probabilmente da intendersi come femm. sing. e va dunque


collegato con mictyris, anche se il riferimento è a tutto quanto precede:
l'attrazione del dimostrativo da parte del predicato è fenomeno sintattico
comune in latino (esemplificazione e bibliografia in K.-St. I, p. 34 ss. e
Loefstedt, Syntact. II p. 113): un caso assai chiaro, tra gli altri, in Moret. 77.
Diversamente Marx, il quale, proponendo un riferimento al fr. 886M hoc est
ratio? perversa aera, summa est subducta improbe, in cui non si verifica concordanza
tra soggetto (hoc) e predicato (ratio) in frase interrogativa di senso negativo
(cfr. Draeger, Hist. Synt. der lat. Sprache I, p. 185), sembra voglia intendere haec
del v. 1077 un neutro plur. disaccordato col predicato mictyris: ma non capisco
come si possa giustificare, in questo modo, la forma est al singolare, in unione
con un neutro plur.
22. scibo <ego> enim bene longincum mortalibus morbumJ in vino esse ubi qui invitavit

dapsilius se.

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I o8 ANDREA ARAGOSTI

enumerati sono tipici della gustatio23: per quanto frugali24, essi


sono conditi con un sugo presumibilmente piccante a base di
maenae25 apposta per eccitare la sete. Si tratta quindi di un
resoconto dei cibi con cui la cena si apre, più precisamente di
una descrizione, fatta con ineleganza, dallo stesso padrone di
casa, che finisce per sottolineare le proprietà dietetiche dei cibi
fatti servire. In questo modo chi ne abbia mangiato (questo
potrebbe essere il soggetto logico sottinteso di bene habet se) si
mantiene in forma, grazie alle proprietà diuretiche del cibo di
cui si è nutrito26. È appunto il termine mictyris il tratto più
vistoso della goffa erudizione del praeco e, al contempo, in
quanto audace neologismo a suffissazione grecizzante, il veicolo
più immediato dell'ironia di Lucilio: è pur vero, infatti, che
oportet etìam inter cenandum philologiam nosse, come sentenzia
Trimalcione.
Un'esibizione di cultura medica, assai più triviale ed
insistita, quest'ultimo dimostrerà, appunto, allorché (cfr. Petr.
47.2), ritornato dalla toilette dove si era recato per disturbi
intestinali, farà una dotta disquisizione sui cibi più adatti a
prevenire tali fenomeni, consigliando i commensali di non avere
imbarazzi ed invitandoli a dire le cose come stanno per quanto
riguarda i loro bisogni corporali. Anche Trimalcione, come
Granio, alla fine del suo discorso, si avventura nei meandri
della terminologia medica e usa il termine anathymiasis ('gas
intestinale', coniazione dal greco) che suggella con una nota
esibitoria e goffa tutta la sua strampalata disquisizione.

23. h'intibus è assimilato da Col. XII 9.3 alla lactuca e ne diventa il sostituto
invernale, secondo Apicio III 18.1: la lactuca ed altre herbae consimili erano
considerati cibi da servire nella
(cfr. Hor. serm. II 8.8 rapula, lactucae,
gustatio
radices guaita lassum /pervellunt stomachum...); anche le maenae (sorta di sardelle)
erano cibo presumibilmente atto a stimolare l'appetito, così come il mitulus e le
conchae di Hor. II 4.28, le squillai e le cocleae di 57-58.
24. h'intibus è cibo rustico: cfr. Pomp. Atell. 127 rustici edunt libenter tristis atros
intibos, il fr. 193M intubus praeterea pedibus praetensus equinis, nonché, in uno
stesso ambito di cibi frugali, Moret. 84. Lo stesso dicasi per le maenae: Mart.
XII 32.15 le definisce inutiles e Pomp. com. 81 sostiene ironicamente che qui...
voluptatem ipsam contemnunt, iis licet dicere se acupenserem maenae non anteponere.
25. Cichorius ritiene, secondo me a ragione, si tratti di una sorta di insalata
condita con garum di sardelle (lo ius maenarum), portando a riprova la ricetta di
Apicio III 18.1 (intubate ex liquamine).

26. Sottolineare le proprietà dietetiche positive ο negative dei cibi descritti è


tratto comune della satira ad argomento grastronomico (Hor. serm. II 4,
22-23, 26, 27-28, 59-60) nonché ovviamente della trattatistica medica.

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LUCILIO, SAT. XX: LA CENA DI GRANIO IO9

Nessun riferimento apparente alla cena di Granio ha un


frammento di difficilissima interpretazione, che potrebbe essere
inserito, secondo me, a questo punto. Si tratta del fr. 570 M:

tempestate sua atque eodem uno tempore et horae


dimidio et tribus confectis dumtaxat - eandem

ad quartam

Il frammento è tradito da Gellio


III 14.11 il quale, sottilizzando
sull'improprietà dell'espressione hora dimidia, cui è da preferire
hora dimìdiata ο dimidia pars horae (che in Lucilio diventa dimidium
horae) perché il tutto che viene diminuito della metà è il
dimidiatum mentre il dimidium è la metà che viene sottratta dal
tutto (ragionamento chiaro in teoria, anche se la distinzione è,
nella pratica, assai sfuggente), dice: iam in vicesimo (se. Lucilius)
... 'dimidiam horam' dicere studiose fugit, sedprò dimidia dimidiumponit
in hisce versibus: tempestate/quartam.
Se, come pare indiscutibile, non c'è ragione di considerare
imprecisa la citazione di Gellio dal libro XX27 e se non si
ipotizza che il frammento in questione facesse parte di altra
satira del libro stesso, non rimane che riflettere sulla pertinenza
del fr. 570 M (che più ancora di altri è come isolato in una
monade di senso tutto proprio e refrattario ad essere scrutato, il
più «frammento» dei frammenti esaminati e da esaminare) alla
cena.
I versi descrivono, come vide giustamente Marx, un
fenomeno caratterizzato dal ricorso periodico, forse qualcosa
come una febbre intermittente28. Nell'intento di giustificare,

27. L'affidabilità delle citazioni gelliane è nota: per maggiori ragguagli si


veda L. Mercklin, Die Citiermethode und Quellenbenutzung des A.G. in den Noctes
Atticae in «Fleckseins Jahrb. f. klass. Philol.», Suppl. Ili, passim.
28. I raffronti proposti sono, come al solito, assai convincenti: cfr. Plin. Nat.
hist. VII 169 e soprattutto Celso III 3.4: aliae (febres) cotidie pares sunt, aliae
impares... aliae tempore eodem postridie revertuntur, aliae vel serìus vel celerius. Ottima
anche l'interpretazione sintatticagenerale del frammento, secondo la quale la
febbre (o il fenomeno medico alluso) ritorna a tempo debito e sempre in un
medesimo momento, passate cioè almeno tre ore e mezzo; il ductus sintattico
si interrompe quindi con eandemJad quartam (horam), che è un complemento di
tempo determinato, espresso con ad e l'accustivo anziché con l'ablativo
semplice (per Marx questo è un tratto di sermo vulgaris: vedi i paralleli nel
comm. ad /.); Charpin, Lucilius Satires livres IX-XXVIII, Paris 1979, comm. ad l.,
sostiene invece l'interpretazione di ad come termine che sottolinea il punto
finale di un'evoluzione il cui inizio è indicato da dimidio et tribus confectis (horis)
e interpreta quindi eandemJad quartam come la durata (mezzora) del fenomeno
cui Lucilio allude.

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I IO ANDREA ARAGOSTI

anche a prezzo del buon senso, questo frammento nel contesto


conviviale si muove invece l'interpretazione di Terzaghi,
secondo cui i versi alludono agli intervalli tra una mangiata e
l'altra osservati dai ghiottoni29. Ma, intanto, non è detto che la
cena di Granio fosse caratterizzata dalla crapula e dagli eccessi
alimentari (i frammenti finora esaminati persuadono semmai
del contrario, anche se certo non si tratta di una cena rustica). In
secondo luogo, l'intermittente ricorrere del fenomeno descritto
dai versi non pare adattarsi, nella sua regolarità, ai momenti di
riposo osservati dalle mandibole tra un pasto e l'altro: anche in
un contesto fortemente ironico e polemico, se questo fosse il
riferimento, l'effetto sarebbe assurdamente ridicolo. Meglio,
dunque, pensare ad un fenomeno prodotto, nella sua regolare
intermittenza, dalla natura: si potrebbe, quindi, collegare il
contenuto dei versi in questione a discorsi di tipo medico
dietetico fatti dal padrone di casa ο da qualche commensale in
vena di esibizionismi pseudoscientifici; il frammento potrà
allora essere connesso con l'argomento del fr. 1076-77, che
abbiamo analizzato precedentemente, se è plausibile l'ipotesi
che ivi il tema sia medico, ovviamente trattato in tono ironico e
scherzoso. Scherzoso sarebbe, infatti, il rapporto tra le
proprietà diuretiche dei cibi nominati in 1076-77 M da Granio e
la periodica intermittenza del fenomeno (forse diuretico) cui si
allude nel 570 M, cioè un episodio curioso di pollachiuria...Ma
questa non può essere che un'ipotesi, avvalorata solo dall'argo
mentazione che se il fr. 1076-77 M è in probabile riferimento ai
cibi serviti nella gustatio, dietro ad esso, tramite il riferimento
scherzoso contenuto in mictyrìs, potrebbe essersi sviluppata una
breve digressione descrittiva sugli effetti pratici del cibo
diuretico.
Con più sicurezza si potrà invece ipotizzare per il fr. 568 M
purpureo tersit tunc latas gausape mensas una collocazione successiva
al 1076-77 M che enumera, come si è visto, una serie di cibi
tipici della gustatio: il frammento 568 M, infatti, tradito da
Prisciano, GL II p. 485,19 K, il quale cita il verso indicandolo
desunto dal libro XX di Lucilio, è considerato concordemente
dagli esegeti in riferimento alla sparecchiatura dei resti della
gustatio: l'interpretazione è sicura perché il verso fu imitato da
Hor. serra. 118.11 (gausapepurpureo mensampertersit (se. puer)...), in

29. Cit., p. 330.

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LUCILIO, S AT. xx: LA CENA DI GRANIO I 11

un contesto in cui si allude con chiarezza alla ripulitura dei resti


della gustatio30. Il plurale mensas farebbe pensare ad una
pluralità effettiva di mense (come in Petronio, in cui pure è
descritta la scopatura dei resti della gustatio31) e non ad
un'amplificazione descrittiva, quasi una sorta di plurale
poetico. Il banchetto di Granio è, infatti, istruito con un certo
impegno organizzativo e tale da garantire ai commensali
comodità e comfort, anche se non è detto che fosse opulentum et
opiparum come, con elegante espressione, l'ha definito Marx.
Al momento culminante della cena è da assegnare il fr.
1174-76 M; esso è tradito da Macr. sai. Ili 16.17 che così lo
introduce: sed et Lucilius, acer et et violentuspoeta, ostendit scire se hunc
piscem (se. lupum) egregii saporis qui inter duos pontes captus esset,
'
eumque quasi ligurritorem 'catillonem appellai, scilicet qui proxime ripas
stercus insectaretur. Proprie autem catillones dicebantur, qui adpolluctum
Herculis ultimi cum venirent,catillones ligurribant. Lucilii versus hi sunt:

fingere praeterea, adferri quod quisque volebat.


illum sumina ducebant atque altilium lanx,
hunc pontes tiberinus duo inter captus cattilo.

Il testo di questi versi non presenta particolari difficoltà, se si


eccettua l'ovvia correzione di I.Dousa del tiberinos tradito dai
codici di Macrobio in tiberinus: la forma in -os è infatti
impossibile metricamente. L'errore si spiega con la facile
associazione a pontes che immediatamente precede e con la
difficoltà dell'ordo verborum nel verso, tutto intessuto di audaci
traiectiones32; in più la forma tiberinus (in riferimento a questo
tipo di pesce, il lupus, che Lucilio chiama scherzosamente
catillo33) è attestata da Orazio carm. II 2.31 e Giov. 5.104, in due

30. Per i rapporti tra i due poeti si veda il Fiske, cit., e in particolare per la
ripresa in Hor. serm. II 8.11 del fr. 568M la p. 410; il Fiske sostiene inoltre (p.
408) che il modello principale per la satira del Nasidieno oraziano fosse il XX
libro di Lucilio, integrato con motivi desunti da altre satire luciliane. Tale
ipotesi è indimostrabile e non vale la pena di discuterla (niente ο quasi
provano i numerosi esempi che Fiske adduce, tutti poco convincenti se non
proprio inopportuni).
31. Cfr.
34.1 gustatorìa...a choro cantante rapiuntur e 34.5 insecutus est lecticarius

argentumque inter reliqua purgamento scopis coepit everrere (cioè i resti della gustatio
calde lauta che era stata precedentemente servita: cfr. 34.1).

32. Cfr. l'anastrofe pontes., duo inter e l'iperbato tiberinus... cattilo.


33. Per la formacatillo-onis, di stampo volgare, cfr. V. Vaananen, Introduzione
al latino volgare, trad., Bo 1974, p. 169; per il lupus (Fit. lupo ο lupasso) cfr. De

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I 12 ANDREA ARAGOSTI

passi di chiara derivazione luciliana34. Anche l'esegesi dei versi


è nel complesso chiara e poco più che modesta è la difficoltà
iniziale data dall'infinito fingere, che Marx intende, corretta
mente, come descrittivo35.
Il verso iniziale è in riferimento alla velocità di preparazione
dei cibi da parte del cuoco: il verbo fingere allude infatti alla sua
capacità di plasmare, con i materiali a disposizione, i cibi
richiesti dai commensali. Quello della velocità culinaria è un
tratto che caratterizza anche la cena petroniana (cfr. Petr. 49.2):
mirari nos celeritate coepimus et turare ne gallum quidem gallinaceum tam
cito percoqui potuisse; non si può inoltre del tutto escludere che, in
Lucilio, il verbo fingere possa alludere, in forza del suo
significato di 'plasmare', cioè di creare qualcosa a partire da
una materiale originario, alla capacità del cuoco di approntare
cibi riproducenti cose diverse dalle sostanze con cui sono
composti: anche questo tratto, canonizzato poi nella formula
apiciana nemo agnoscet quod manducet (cfr. Apic. IV 2), ritorna in
Petronio, presso cui il nome del cuoco, Dedalo, è spiegato con la
sua abilità nel realizzare de vulva...piscerà, de lardo palumbum, de

Saint-Denis, Le vocabulaire des animaux marins en latin classique, Paris 1947, p. 59;
si tratta di un pesce assai vorace e di carne prelibata. La qualità migliore era
considerata quella del lupus fluviatilis che però risalisse dal mare, attraverso la
foce, il fiume. Lucilio lo chiama catillo (letteralmente «leccapiatti»: cfr. Paul.
Fest. p. 39,IL: Catillones appellabant antiquigulosos) in ovvio riferimento alla sua
voracità (Col. Vili 17 lo definisce rapax), ma, aggiungendo il particolare della
sua cattura inter duo pontes, dà ultiori informazioni sulla golosità del lupus. Uno
di questi pontes è sicuramente il Sublicio che, rispetto allo sbocco della Cloaca
Maxima, si trovava più in basso, in direzione del mare (l'altro è forse l'Emilio ο
il Fabricio ο il Cestio): dunque il lupus pescato da quelle parti doveva nutrirsi
dei rifiuti stercorosi della Cloaca·, quest'abitudine è testimoniata anche dal
passo citato da Giov. V 104, il quale definisce il lupuspinguis torrente cloaca, e in
greco da Filodemo CAF II p. 500, 18 Κ (parallelo suggerito da Marx).
34. Essi sono rispettivamente: unde datum sentis, lupus hic Tiberinus an alto/captus
hiet; pontesne inter iactatus an amnis/ostia sub Tusci e aut glacie aspersus maculis
Tiberinus et ipse/vemula riparum, pinguis torrente cloaca/et solitus mediae cryptam
penetrare Suburae.
35. Terzaghi contestualizza fingere, premettendo nella traduzione, in
parentesi, «pronto (se. il cuoco) a...»; similmente Krenkel che traduce fingere
con zuzubereiten{dove il secondo zu implica uno stesso tipo di collegamento
sintattico ipotizzato fuori dal testo del frammento); egli collega, in più, fingere
con adferri (und herbeizubringen) che è invece in realtà collegato con volebat. In

dipendenza da un ipotetico verbum iubendi intende invece Warmington, che


traduce: «besides he (se. Granius?) ordered to be dished up and brought to
the table...».

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LUCILIO, S AT. XX : LA CENA DI GRANIO I 13

perna turturem,de colaepio gallinam (cfr. Petr. 70.2). A questo verso


1174 M segue l'enumerazione di cibi che sono pertinenti alla
cena vera e propria, nominati in base al richiamo seducente da
essi esercitato sui commensali36. Da Granio vengono serviti
sumina, altilia e pis ces secondo un'associazione gastronomica che
ritroviamo in Hor. serm. II 8.27 cenamus avis, conchilia, pisces
(senza, però, i sumina), Petr. 36.2 ss.: videmus altilia et
sumina...notavimus etiam...Marsyas quattuor ex quorum utriculis garum
piperatum currebat super pisces e Mart. XI 52.13 ...pisces, conchilia,
sumen. Problemi assai complessi presenta l'ultimo dei tre versi,
che contiene l'allusione al cattilo tiberinus. Come già vide
Cichorius, esso contiene una ripresa pressoché puntuale di
un'espressione dell'oratore e tragediografo Gaio Tizio37, che
Cic. Brut. 167 indica come contemporaneo di M.Antonio e
L.Licinio Crasso (gli oratori) e che Macr. sat. Ili 16.15,
definendolo vir aetatis lucilianae, vuole fosse il promulgatore di
una suasio legis Fanniae (cioè la legge suntuaria di G.Fannio,
console nel 161 a.C.38). Il frammento di G.Tizio, conservato nel
l.c. di Macrobio, è il seguente: quid mihi negotii est cum istis
nugatoribus? quin potius potamus...edimus turdum pinguem bonumque
piscem, lupum germanum qui inter duos pontes captus fuit?. Esso
riproduce il colloquio di giudici ubriachi che al lavoro
preferiscono le disquisizioni culinarie e la pratica gastronomica;
appoggiando la lex Fannia esprime, come viene esplicitato anche
dal contesto di Macrobio, la sua condanna verso il lusso della
tavola. Il momento era del resto propizio alle polemiche sul
lusso culinario e vennero infatti promulgate molte leges
sumptuariae (contro l'uso di conchilia ed uccelli esotici fu, ad
esempio, promulgata la lex Aemilia Scaura nel 115 a.C. in anni

36. Cfr. il ν. 1175M Ulum sumina ducebant atque altilium lanx\ vd. anche Varr. de
r.r. II 9.8 James... hos (se. canes) ad quaerendum cibum ducei e ibid. II 9.10 ...canes
ducti sapore..., ma soprattutto Hor. ep. I 6.57 ...eamus/quo ducit gula....

37. Cfr. Cichorius, cit., p. 264 ss.: egli assegna il frammento al 1. IV (come
già F. Dousa), dove veniva trattato, secondo una notizia dello scoliaste a
Persio III 1, il tema polemico contro il Tafelluxus.

38. Per la lex Fannia vd. infra nel testo. L'incongruenza tra la data

presumibile di questa lex (il 161) e l'informazione di Macrobio l.c., secondo


cui G. Tizio era contemporaneo di Lucilio, è risolta dalla convincente ipotesi
di Cichorius, cit. p. 266, secondo cui la suasio di G. Tizio non fu per

l'approvazione della legge, ma contro proposte, più tarde (probabilmente tra


il 130 e il 110), di abrogazione.

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I 14 ANDREA ARAGOSTI

cioè assai vicini all'occasione di questa satira39). Lucilio,


descrivendo i cibi della cena di Granio, riprende l'espressione di
Tizio per sottolineare ironicamente non solo e non tanto il lusso
del convito, quanto il fatto che le leggi suntuarie sono state
disattese. L'ironia satirica si ferma, però, a questo punto: non è
detto che si sviluppasse da questo accenno una polemica contro
il lusso; anzi, poteva essere che il vento variabile della vena
satirica cambiasse direzione e che l'allusione a Tizio, sostenito
re di una legge disattesa, cambiasse di segno, diventando anche
polemica contro la cifra ridicolmente bassa che tale legge
stabiliva come limite di spesa per i banchetti (più ο meno 100
assi: vd. infra).
Il verso 1176M contiene dunque un riferimento mediato e
raffintissimo a Tizio e, per suo tramite, a Fannio: il movimento
polemico parte dall'uso del termine catillo, la sostituzione
scherzosa che Lucilio fa del lupus di Tizio, il pesce che si nutre
dello sterco defluente della cloaca. Lucilio lo chiama catillo (cioè
ligurritor, cioè leccatore, ghiottone e anche 'leccasterco', in
relazione alle sue abitudini alimentari): questo per sottolineare
che nella cena di Granio veniva servito pesce, cibo raffinato e
tale comunque da eccedere gli esigui limiti previsti dalla legge
Fannia, ma che si trattava pur sempre di un catillo, un
'leccasterco', un pesce cioè comune e di non alto pregio40. Ta
punta polemica indiretta che abbiamo finora individuato in
questo verso è probabile che avesse ricevuto in Lucilio una più
marcata esplicitazione e che l'autore si fosse spinto fino a citare,
nello stesso ductus tematico innescato col catillo, il promulgato
re della legge allusa. Tra i frammenti traditi come luciliani ma
arrivati a noi senza l'indicazione del numero di libro, ce n'è uno
che è forse pertinente a questo presunto movimento polemico e
che, se ne accettiamo la plausibilità in questo contesto, va per
forza collocato consecutivo al 1174-6 M: si tratta del 1172 M,
che Mueller assegnò al libro IV, contenente come noto una
polemica contro il lusso della tavola. Il frammento, che
riproduce verisimilmente l'emistichio finale del verso (...Fanni
centussis misellus), è tramandato da Gellio II 24.3, che dice: sed

39. Cfr. Plin. Nat. Hist. Vili 223 e Petr. 55.6 (nei primi otto versi un elenco
di uccelli esotici).
40. Con il termine catillo Lucilio sferra dunque una pointe che colpirebbe
due volte: da una parte l'eccessivo rigore della lex Famia, dall'altra la modestia
del pesce servito da Granio, che peraltro si dà arie da signore.

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LUCILIO, SAT. XX: LA CENA DI GRANIO 115

post id senatus consultum (cioè del 161 a.C. sotto il consolato di


G.Fannio e M.Valerio Messalla41) lex Fannia lata est, quae ludis
Romanis, item ludis plebeis et Satumalibus et aliis quibusdam diebus, in
singulos dies centenos aeris insumi concessit decemque aliis diebus in
singulis mensibus trìcenos, ceteris autem diebus omnibus denos. Hanc
Lucilius poeta legem significat, cum dicit: Fami centussis misellus. In
quo erraverunt quidam commentariorum in Lucilium scriptores, quod
putaverunt Fannia lege perpetuos in omne dierum genus centenos aeris
statutos. Centum enim aeris Fannius constituit, sicuti supra dixi, festis
quibusdam diebus eosque ipsos dies nominavit, aliorum autem dierum
omnium in singulos dies sumptum inclusit intra aeris alias tricenos, alias
denos. Da ciò si evince dunque che Gellio corregge l'errore
invalso in alcuni commentatori antichi di Lucilio, i quali
ritenevano che la legge Fannia fissasse il limite di spesa in 100
assi indifferentemente per qualsiasi giorno, mentre è evidente
che sono in essa stabilite differenze di limite a seconda del tipo
di feste e che nei giorni non festivi il limite oscilla tra i 30 e i 10
assi. A questo frammento allude anche, pur non citandolo,
Macr. sat. Ili 17.5, quando dice: Fannia...etiam sumptibus modum
'
fecit assibus centum, unde a Lucilio poeta festivitatis suae more 'centussis
vocatur, informando che Lucilio, col fine spirito che gli è
consueto, ha usato il termine centussis in allusione alla lex Fannia.
Come si deduce facilmente da queste testimonianze, il
frammento luciliano si riferisce ad una cena avvenuta in un
giorno festivo (durante il quale il limite di spesa stabilito dalla
legge Fannia era di cento assi); così il misellus centussis di Fannio
diventa il veicolo dell'ironia scoperta di Lucilio il quale, dopo
aver evocato la legge suntuaria in questione tramite l'allusione
indiretta al lupus citato da Tizio, potrebbe aver fatto progredire
il movimento polemico in modo più scoperto e diretto. A

Granio, infatti, poteva non piacere il limite stabilito dalla legge


che costringeva ad istruire un banchetto sordido (100 assi erano
una cifra assai bassa) e comunque non adatto al livello dei

41. Secondo Gellio II 24.2 tale


senatoconsulto, che doveva aver di poco
preceduto la promulgazione della
lex Fannia, limitava le spese per i banchetti
(che avvenivano durante i ludi Megalenses, in occasione della mutitatio, antico
rito che prevedeva lo scambio di banchetti tra gli aristocratici, in ricordo del

passaggio della Magna Mater dalla Frigia a Roma, cfr. CIL I, p. 235) a 120 assi
praeter olus et far et vinum, il quale ultimo doveva essere di produzione
autoctona, nonché a 100 libbre il peso dell'argenteria usata per l'apparecchia
tura. Imprecisa l'annotazione di Marx (comm. ad v. 193) che identifica tale
senatoconsulto con la lex stessa.

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I 16 ANDREA ARAGOSTI

commensali ospiti (tra i quali figurava addirittura il tribuno


L.Licinio Crasso)42: il valore dei cibi serviti (ed enumerati in
parte nel 1174-6 M), poteva aver già sorpassato il misellus
centussis di Fannio (questo anzi è il movimento sintattico che si
può ipotizzare nella ricostruzione del verso, con un oggetto in
prolessi retto dal soggetto in clausola esametrica, qualcosa
come: «il valore di questi cibi aveva già sorpassato il misellus
centussis di Fannio»). Qualunque fosse il contesto in cui questa
espressione era contenuta, mi pare importante osservare che
essa trae la propria valenza ironica dal sistema di idee di Lucilio
che, perseguendo il medium, è alieno da ogni eccesso anche in
campo gastronomico e suntuario, condannando sia il lusso che
l'eccessiva frugalità delle cenae, quando diventa sordidezza: ed è
appunto alla sordidezza che presumibilmente, a giudizio di
Lucilio, conduceva il rispetto rigoroso della lex Fannia. Per
riassumere e visualizzare il movimento polemico che doveva
svilupparsi dall'allusione a Tizio, dopo cioè il ν. 1176 M, lo
schema del ragionamento di Lucilio doveva essere: a) tutte le
leggi suntuarie sono disattese; b) anche il lupus pur comune
sebbene non sordido oltrepassa i limiti della lex Fannia; c) la lex
Fannia costringe alla sordidezza ed è dunque un eccesso43.

42. Si ricordi
che il grande oratore doveva essere stato vicino al circolo
scipionico ed in particolare a Lelio (sia Scipione Emiliano che Lelio erano, tra
l'altro, buoni oratori); tale familiarità tra Crasso, lui stesso e il circolo
scipionico può darsi che Lucilio abbia voluto sottolineare, nella sua satira,
riflettendo il buon gusto dell'ospite di riguardo e prendendo bonariamente le
distanze dalla boria di Granio. La situazione riflette un'altra analogia, forse
da non trascurare, con la satira oraziana di Nasidieno, in cui ugualmente
l'ospite di riguardo è Mecenate, amico di Orazio. Come si vede sia Lucilio che
Orazio descrivono due situazioni conviviali in cui l'ospite importante è loro
amico (nel caso di Orazio il rapporto è stretto, nel caso di Lucilio è
presumibile, per il tramite di Scipione e Lelio) ed è alle prese con un Gastgeber
arricchito.
43. Marx ritiene probabile che vada assegnato al XX anche il 1200M legem
vitemus Licini anche Warmington = emistichio citato da Gelilo II
(così 599W),
24.7, subito dopo quello relativo alla lex Fannia,
il quale, narrando l'aneddoto
riportato negli Erotopaegnia di Levio, secondo cui in ossequio alla lex Licinia fu
respinto dai commensali un haedus, dice: Lucilius quoque legis istius meminit in his
verbis: legem/Licini. Tale legge suntuaria era congegnata con lo stesso rigore
della Fannia e fu promulgata da P. Licinio Crasso Dives in un periodo che
oscilla verisimilmente tra il 129 e il 105 (vd. la dotta e per molti aspetti
convincente discussione cronologica in Marx, comm. ad υ. 193). Non ritengo
probabile la pertinenza di questo frammento al XX, perché bisognerebbe, in
tal caso, presupporre un'ampia digressione polemica sulle leges sumptuariae alla
quale la cena di Granio, inelegante ma decorosa e comunque non lauta, mal si

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LUCILIO, SAT. XX: LA CENA DI GRANIO I IJ

Assai vicino al 1174-76 M, dopo la breve digressione


costituita dal verso cui appartiene l'emistichio del fr. 1172 M,
andrà posto il 569 M: illi praeciso atque epulis capiuntur opimis. È
tradito da Nonio 221, 4L sotto il lemma 'praecisum' et 'omasum',
partes carnis et viscerum e non presenta problemi testuali di rilievo.
Si allude con esso ancora ai cibi della cena la cui appetibilità
soggioga, all'interno di una scelta da presupporre abbastanza
vasta, i commensali che sono descritti come prede dei cibi
serviti (cfr. capiuntur*4). Se è giusta la ricostruzione finora
proposta, le epulae opimae contrasterebbero singolarmente (e
l'effetto non sarebbe privo di ironia) col misellus centussis di
Fannio, conferendo nello stesso tempo alla cena la giusta
connotazione di moderata lautitia confacente al grado degli
ospiti.
Secondo Marx il rapporto tra 569 M e 1174-76 M (per lui da
leggere in questo ordine, inverso da quello che io propongo) è di
totale consecutività45: tale collegamento sarebbe provato dalla
ripresa terminologica, quasi un gioco verbale, di capiuntur detto
dei commensali, e captus riferito al catillo. Ma il ragionamento di
Marx è forse un po' troppo sottile, anche se è vero che il lessico e
la struttura dei due frammenti sono tali da argomentarne la
collegabilità. Ducebant del v. 1175 M e capiuntur del 569 M sono

prestava. È del tutto diverso, mi pare, il rapido excursus polemico che può
implicare l'accettazione, nel testo del libro XX, dell'emistichio Fanni centussis
misellus, in stretto rapporto col. ν. 1176 M che, abbiamo visto, è una ripresa
indiretta di un testo dell'oratore G. Tizio, famoso per aver sostenuto la lex
Fannia. Lo stesso dicasi per il 1353 M (inserito giustamente da Marx nei dubia)
che Warmington assegna inopinatamente al libro XX (= 600 W)
estrapolando da un lemma di Paul. Fest. p. 47, 5 L centenariae cenae dicebantur in
quas lege Licinia non plus centussis praeter terra enata impendebantur, id est...,
l'ipotetico emistichio luciliano centenariae cenae-, la proposta di attribuzione a
Lucilio risale a Marx, sulla base del fr. 776 M quidfit? ballistas iactas centenarias?
in cui, però, mi sembra che centenarias sia detto in relazione al peso delle
ballistae e non possa in alcun modo essere assimilabile al valore che ha
centenarias nel lemma di Festo.

44. Capio, nel senso


della seduzione esercitata dai cibi su persone ο animali,
è ampiamente esemplificabile: cfr. Verg. ecl. 6.59 Sen. ep. mar. 109.7 e Mart. V
44.2 ss. (captus es unctiore mensa/et maior rapuit canem culinà) e XIII 56 (te fartasse
magis capiat de virgine porca,7 me materna gravi de sue volva capit); si veda anche
Giov. V 162, Plin. ep. II 5.8, Arnob. nat. 5.2.

45. AncheWamington pone i due frammenticonsecutivi in questo stesso


ordine (= 601-3 W e 604 W); non così
Krenkel, che pone il 569 M all'inizio
del libro (= 569 K) e Charpin, che lo pone al secondo posto (=2 Ch). Per il

collegamento con il 1174-6 M cfr. anche Suess, art. cit. p. 352..

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I 18 ANDREA ARAGOSTI

connessi, oltreché da una similarità di Bildfeld, anche dalla


variatio sintattica che lega i deittici in anafora illum.../hunc di
1175-6 M e illi di 569 M, la diatesi attiva nel primo frammento e
quella passiva nel secondo. Non è certo problematica, infine,
l'alternanza impf./pres. che si viene a realizzare collegando i
due frammenti: essa concorre alla resa dell'immediatezza
espressiva e non differisce dall'alternanza pres./pf./impf./pres.
in un passo della cena petroniana analogamente descrittivo di
cibi e delle reazioni dei commensali (cfr. Petr. 36.2 ss./: videmus
infra... notavimus etiam...Marsyas quattuor, ex quorum utriculis garum
piperatum currebat superpisces qui quasi in euripo natabant. damus omnes
plausum...et res electissimas ridentes aggredimur). Presupponendo che
tra il 1174-76 M e il 569 M ci fosse il 1172 M, bisognerà allora
ipotizzare che la digressione contenente l'accenno al centussis di
Fannio avesse carattere di sviluppo parentetico, tale da non
intaccare il ductus espressivo e sintattico iniziato col verso 1175
M.
Ai discorsi di qualche impegno, intercorsi tra i convitati
durante la cena (è appena il caso di ricordare il lungo intermezzo
prodotto dalle elucubrazioni parasociologiche dei liberti nella
cena petroniana) va ricondotto con buona probabilità il fr. 573-4
M: Calpurni saeva lege in Pisonis reprendi/eduxique animam in primo
ri<s fauci>bus naris. È tradito da Nonio 691,30L il quale, per
illustrare la differenza tra priores e primores, il primo di grado
comparativo, il secondo superlativo, cita il frammento dicendo
lo desunto dal XX di Lucilio (il testo è quello dell'edizione
noniana di Lindsay e differisce molto da quello di Marx):
Calpurni saevam legem Pisoni' reprendi/'eduxique animam in primoribu'
naribus... . Il testo tradito è: Calpurni saeva lege in Pisonis
reprendi/eduxique animam in primoribus naris...46; Marx corregge
primoribus naris in primorKs fauci>bus naris, mantenendo intatto
il primo verso.
Direi che la scelta di Marx per quanto riguarda il primo verso
è corretta ed opportuna: si tratta solo di ammettere la durezza

stilistica del vistoso


iperbato (peraltro certo insolito in non
Lucilio) Calpurni...Pisonis e la forte anastrofe saeva lege in (del
resto ben esemplificabile47), ma non vi è plausibile ragione di

46. Naris è corretto dall'editio Aldina in narìbus e saeva lege in Pisonis è corretto
da Iunius in saevam legem Pisonis.
47. Cfr. gli esempi di iperbato forniti da Marx nel suo comm. ad
aggiungerei il fr. 390 M fluctibus a ventisque adversis firmiter essent, dove la
preposizione a è in anastrofe con fluctibus e regge άπό κοινού fluctibus e ventisque.

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LUCILIO, SA Γ. XX: LA CENA DI GRANIO 11 g

intervenire sul testo tradito. Più discutibili le scelte di Marx nel


secondo verso: primori<s fauci>bus naris, infatti, introduce un
elemento, le fauces, che non può indicare le cavità delle narici
perché non vi sono esempi di questo uso traslato di faux in
latino; Marx avrà dunque proposto questa congettura pensan
do al valore proprio del termine faux (cioè «gola»), intendendo
il sintagma in primoris faucibus naris composto da un ablativo di
moto da luogo (faucibus cioè «dalla gola») e da un accusativo di
moto a luogo con la preposizione in (primoris naris accusativo in
-is). Per Marx dunque l'immagine d'ira mal contenuta sarebbe
specificata dal passaggio àûYanima dalla gola alla parte più
esterna delle narici: questa almeno mi sembra la descrizione
sintattica più verisimile di una congettura che, come tale, non
viene discussa dal grande editore né in apparato né nel
commento.

Non migliore era stata la scelta di L.Mueller che stampava


nella sua edizione luciliana: Calpurni saeva lege in Pisoni'
' '
reprendi/eduxique animam primoribu partibu naris, dove è da notare
l'integrazione partibus (già nell'edizione di Lachmann) nel
secondo verso e l'espunzione di in: anzi, Mueller ritiene che
l'errata tradizione di in nel secondo verso dimostra che va
accettato nel primo, contro la congettura di Iunius saevam legem
Pisonis. Completamente diverso invece il testo di Mueller
editore di Nonio, con l'accoglimento della congettura di Iunius
nel primo verso, l'espunzione di in nel secondo verso e
l'accoglimento della correzione naribus dell'Aldina.
Suess corregge, invece, nel secondo verso: eduxique animam in
primoribus <oribus> naris48; mi pare che questa ricostruzione del
testo sia assai suggestiva, anche se non del tutto convincente.
L'integrazione <oribus>, apparentemente ineccepibile dal
punto di vista paleografico, in quanto favorita dall'omeoteleuto
con primoribus, risente a mio avviso di un pregiudizio
paleografistico e appare perciò fin troppo facile. Inoltre,
l'inserzione nel verso di un elemento come os, da connettere con

naris, non è sufficientemente esemplificabile. È pur vero che os


funge talvolta da sinonimo di foramen, ma l'unico esempio di
una qualche pertinenza al valore di os che qui Suess vorrebbe
recuperare è Cels. II 17 (os venarum) in cui è espressa
un'immagine, quella dell'imboccatura delle vene, assai più

48. Cfr. Suess, art. cit., p. 353.

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120 ANDREA ARAGOSTI

naturale di quella che si avrebbe con naris. Ovviamente, se pur


rinunciamo all'integrazione e lasciamo, con prudenza, il verso
incompleto, siamo costretti, con Lindsay, ad accogliere naribus
dell'Aldina e dunque ad intervenire comunque sul testo tradito
che ha naris. Ma questa correzione è, io credo, sospetta in
quanto probabilmente suggestionata dall'esemplificazione limi
trofa che Nonio fornisce per illustrare il lemma priores/primores,
dal quale si sviluppa anche la citazione luciliana. Nonio, infatti,
riporta anche un frammento dal Vopiscus di Afranio (v.383
Ribb.) che suona: ...animam in naribusprimoribus/vixpertuli edepol,
presentando evidenti affinità col verso di Lucilio. La correzione
dell'Aldina sembra dunque suggerita dall'esempio di Afranio,
ma non è detto che nei due scrittori il sintagma dovesse essere
identico. Non è conveniente, dunque, allontanarsi dall'ipotesi
di un'integrazione perché il verso è palesemente incompleto; si
dovrà, però, proporre una parola che si attagli al contesto
meglio del faucibus di Marx, del partibus di Lachmann e Mueller,
àtWoribus di Suess e che sia, ovviamente, plausibile dal punto di
vista lessicale. Questa parola può essere- come mi suggerisce
-
Vincenzo Tandoi cavernis, integrata in fine, a completamento
dell'esametro; un editore accorto manterrà il testo tràdito
incompleto, proponendo in apparato e forse anche exemplì grada
l'integrazione suddetta; il verso sarà allora così ricostruibile:
eduxique animam in primoribus naris <cavemis>.
A favore di questa congettura sta l'esemplificabilità del nesso
con naris, e, più in generale, il fatto che caverna può indicare la
cavità del naso: cfr. Lact. opif. 10.7 ut per nasi cavernas purgamenta
cerebri defiuant, Pomer. 3.6.4 odor per patulas narium cavernas irrepsit
e Cael. Aurei, chron. 1.1.38 suco...inflatis narium cavernis infuso. Il
senso del frammento è, nel suo complesso, abbastanza chiaro:

qualcuno di aver mosso critiche (reprendi) alla crudele


sostiene
legge di Calpurnio Pisone e di aver pertanto assunto
l'atteggiamento, tipico dell'ira, di chi allarga le narici facendovi
transitare l'aria, immessa ed emessa49. La legge alla quale si

49. Si badi che, anche


con la ricostruzione del testo qui proposta, rimane la
durezza sintatticadi eduxi, verbo di moto, costruito con in e l'ablativo: tale
difficoltà è eliminata solo dall'emendazione da Marx, che associa -
proposta
come si è visto - eduxi ad un accusativo di moto a luogo (in primoris naris). La
difficoltà non mi sembra, però, preoccupante perché è evidente che, in questo
contesto, eduxi assume una forte connotazione resultativa: l'ablativo in

primoribus... ha la funzione di sottolineare l'idea di stato già ricavabile da eduxi


così inteso, per quanto sia necessario introdurre, in ogni caso, un anello logico

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LUCILIO, SA T. xx: LA CENA DI GRANIO 121

allude è quella di Calpurnio Pisone, polemicamente definita


saeva; essa, promulgata nel 148 a.C. da Lucio Calpurnio Pisone
Frugi, aveva istituito delle commissioni senatoriali per giudica
re i delitti de repetundis; fu ripresa dalla lex Acilia del 123 a.C. che
limitò drasticamente la durata delle istruttorie (e in questo
modo la legge di Pisone fu resa davvero saeva). Nel primo verso,
dunque, qualcuno sta ricordando il proprio impegno polemico
verso la lex Calpurnia: secondo Marx il conviva in questione
potrebbe essere lo stesso Crasso, che aveva avanzato le sue

critiche severità in riferimento a qualche


di eccessiva comma
della legge stessa. L'identificazione proposta è resa plausibile
dalla chiara divergenza ideologica tra la lex Calpurnia, di
ispirazione antipopolare, e il presumibile atteggiamento politico
di Crasso in quanto tribuno della plebe; non va però
dimenticato che Cicerone {Brut. 161 ss.) informa che nel 106
(l'anno successivo al tribunato) Crasso pronunciò una suasio per
la lex Servilia, una legge giudiziaria che modificava l'ordinamen
to graccano: l'identificazione proposta da Marx è possibile
dunque solo ammettendo nel tribuno del 107 una grossa
oscillazione politica: va da sé che, durante la cena di Granio, egli
avrebbe anche potuto far riferimento ad una posizione politica
da lui condivisa nel passato e poi abbandonata50.
L'immagine espressa nel secondo verso è quasi concordemen
te riferita ad uno scoppio d'ira mal repressa, cui chi racconta si
sarebbe abbandonato. L'espressione eduxique...naris è infatti

di passaggio che, testo, rimane


nel sottinteso. Il continuum sintattico da

presupporre potrebbe allora essere: «portai fuori l'anima («sputai l'anima»)


che, quindi, venne a trovarsi etc.». D'altro canto la confusione tra l'accusativo e
l'ablativo locativo è un fenomeno della Umgangssprache (cfr. Vaananen, cit., p.
204) e, come
tale, facilmente esemplificabile a partire dalle epigrafi
pompeiane (ma vd. anche e.g. Petr. 42.2 fui hodie in funus e Apul. met. IX 39 ubi
ducis asinum istum, autori peraltro distanti cronologicamente da Lucilio).

50. La difficoltà non


è ineliminabile, perché la storia romana abbonda di
personaggi le cuiposizioni politiche sono assai sfumate e talora anche
contraddittorie nel giro breve di qualche anno. Quello che mi lascia più
perplesso è però la tenacia con cui i commentatori attribuiscono a Crasso la

paternità di questa battuta (Suess, art. cit. p. 355 sostiene perfino che
l'omeoteleuto primorìbus oribus, da lui ricostruito nell'emistichio finale del
secondo verso del frammento, si adatta alla personalità retorica di Crasso,

quale si evince da Cic. de orai. II 122), che potrebbe invece essere stata

pronunciata da un qualsiasi altro convitato: magari da Granio stesso, il cui


carattere si distingueva, come già sappiamo, per la protervia delle sue facetiae
contro i potenti.

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122 ANDREA ARAGOSTI

raffrontabile con altre, tutte pertinenti a forti sconvolgimenti


emotivi e che Marx registra con scrupolo51. Soltanto Suess, pur
rinunciando a proporre un'interpretazione precisa, considera
poco probabile che in questo verso si descriva l'ira perché i
paralleli adducibili sono, secondo lui, non decisivi. Collegando
strettamente reprendi (dall'esegesi tradizionale accostato a saeva
lege in nel senso di fare critiche) con eduxi, Suess ritiene che i due
verbi esprimano i momenti consecutivi di un grosso impegno di
fiato (prima ripreso, poi emesso): si tratterebbe, più in
particolare, dell'ansimare faticoso di un uomo che si trova in
questa situazione a causa della lex Calpurnia. Ma quest'interpre
tazione, oltre che generica, è anche improbabile perché si basa
su un significato di reprehendo pochissimo (se non per niente)
esemplificabile52. Giustamente Charpin osserva che il fram
mento in questione presenta «la reaction personelle d'un
homme public» e insieme la «reaction subjective de l'individu»
(cit. p. 262): il frammento testimonia cioè di un'osmosi tra presa
di posizione pubblica (l'intervento contro la saeva lex) e la sua
attualizzazione nella sfera privata; nell'ambito salottiero della
cena, dunque, l'uomo pubblico, sia egli Crasso ο altri, svela
l'aspetto più realistico di partecipazione emotiva ed individua
le. Si tratta dunque di un parere politico e di una reazione

51. Cfr. Pers. V 91 sed ira cadat naso rugosaque sauna e Petr. 62.5 mihi anima in
naso esse (parla Nicerote, descrivendo il suo spavento di fronte alla
metamorfosi dell'uomo-lupo), in cui però la connotazione fondamentale è
quella della paura e non dell'ira; l'espressione anima in naso è in Petronio
accostata all'idea della morte (cfr., subito dopo, stabam tamquam mortuus):
questo perché si credeva che l'anima del morente uscisse dalla bocca ο dal
naso. Discutibile, come al solito, Fiske, cit. p. 414, che connette
quest'espressione con Hor. Serm. II 8.64-5 ...Balatro suspendens omnia naso, che
ha, come noto, significato del tutto diverso.

52. Suess confronta la


propria interpretazione con il fr. 284 M si movet ac
simat nares, delphinus ut olim, in cui la causa del movimento delle narici - una
sorta di contrazione assai diversa dal «riprender fiato» che Suess invoca a
della sua interpretazione - sono i amorosi e non
riprova linguistica sospiri
l'ira. Il testo latino proposto da Suess per esemplificare reprehendo in questo
senso è una Verfluchungstafel (=CIL VI 33899) in cui viene invocato (un
demone?) contro un certo Praeseticius mugnaio, con queste parole: perturba eum
ne reprae(h)ensionem habeat, dove n.r.h. non può che significare «continuamente»,
«senza che abbia tregua». Ma non è detto che il campo semantico cui
repraehensio si riferisce sia quello del respiro ed è assolutamente indimostrabile,
infine, sulla base di esempi letterari, che reprendi del frammento luciliano
abbia il senso che Suess gli attribuisce.

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LUCILIO, SAT. XX: LA CENA DI GRANIO Ι2β

personale, che assume toni grotteschi nella dimensione del


ricordo di chi parla.
Probabilmente connesso con questo è il frammento 575 M:
iam disrumpetur, médius iam, ut Marsus colubras / disrumpit cantu,
venas cum extenderit omnis. Esso è tradito da Nonio 296,21 L che,
per esemplificare l'uso di coluber al femminile, cita questi versi,
dicendoli desunti dal XX di Lucilio. Il senso è, nel complesso,
abbastanza chiaro: si tratta di qualcuno al quale, per qualche
motivo, le vene si sono gonfiate e che sta ormai per schiattare,
così come si gonfiano fino a scoppiare i serpenti incantati dal
Marso53. Tale similitudine è però assai articolata e si basa su
una rete complessa di rapporti: il soggetto del frammento è
connesso col Marso (ut Marsus...) e col suo impegno di fiato, se
accettiamo che l'espressione venas cum extenderit omnis stia in
ambiguo από κοινού da una parte col soggetto di iam disrumpetur,
le cui vene stanno per scoppiare, e dall'altra col Marso che si
impegna a soffiare nel flauto; il collegamento fondamentale
della similitudine, assicurato dalla ripresa terminologica
disrumpetur/disrumpit, è però tra il soggetto, le cui vene sono
presumibilmente ingrossate e stanno per scoppiare, e le colubrae
avviate allo stesso epilogo sotto l'effetto dell'incantamento. Si
tratta evidentemente della descrizione di una reazione fisiologi
ca, prodotta da qualche causa: secondo Mueller l'allusione è a
un goloso che schiatta a forza di mangiare, mentre secondo
Suess, da Terzaghi, alle risate a crepapelle dei
seguito
convitati5 . Tutte queste interpretazioni sono possibili, ma
hanno il difetto di isolare il frammento in una direzione di senso
che elimina ogni eventuale connessione col frammento prece
dente. Marx invece, proponendo una serie di paralleli, tutti
convincenti, ritiene che il frammento sia in allusione ad una

53. Gli
incantamenti dei Marsi in generale sono ricordati da Hor. epod.
XVII 29, Ovid. Fast. VI 142 e ars am. II 102; in particolare, quelli esercitati
sui serpenti, da Verg. Aen. VII 750, Sii. It. Vili 496, Geli. XVI 11.1 e
soprattutto Ovid. med. fac. 39 (nec mediae Marsis finduntur cantibus angues,
immagine identica a quella luciliana).
54. Cfr. Mueller, comm. p. 243, Suess, art. cit. p. 353 e Terzaghi, cit. p. 329.
Fiske, cit. p. 414, sulla base di un confronto assai improprio con Hor. serm. II
8.93-5 (...quem (se. Nasidienum) sicfugimus ulti/ut nihil omnino gustaremus velut illis/
Canidia adflasset, peior serpentibus Afris), sostiene che il frammento luciliano
allude all'insistenza di Granio nel far rimpinzare di cibo un commensale, che
reagisce fuggendo.

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I 24 ANDREA ARAGOSTI

crisi d'ira55 e lo collega al frammento precedente in cui si parla,


come si è visto, di uno sbotto iroso. Il frammento proseguirebbe
dunque la descrizione dell'infortunio emotivo capitato al conviva
del frammento precedente, anche se è difficile pensare ad una
collocazione consecutiva del 575 M col 573 M, a causa del
cambio di persona (reprendi, eduxi contro disrumpetur).
Allacena di Granio si riconnette, con agganci più concreti di
quanto a prima vista potrebbe sembrare, il frammento 577 M
nugator, cui dem, ac nebulo sit maximus multo. Esso è tradito da
Nonio 27,3 L come una delle esemplificazioni dei lemmi
nebulones et tenebriones56; il testo dell'edizione noniana di Lindsay
è, però, un po' diverso: nugator cum idem ac nebulo sit maxima'multo.
Vi troviamo accolta la correzione di Mueller cum idem57 per il
cuidem tradito, da Lachmann e da Marx letto cui dem58. Anche in
questo caso la scelta testuale di Marx, che si limita a separare
due monosillabi associati dalla scriptio continua, mi sembra
preferibile, in quanto correggere cuidem in cum idem (collegato col
sit successivo in un nesso dichiarativo-causale) dà come
risultato un sintagma assai generico: idem presuppone, tra
l'altro, un riferimento a qualcuno già nominato, cui sono
destinati gli appellativi di nugator e nebulo al massimo grado
(:maximus multo). Accettando cui dem, dobbiamo ammettere la
relativa durezza sintattica di dare in senso assoluto, che è però
facilmente esemplificabile: esso è usato per indicare il beneficium
(cfr. Sen. de ben. Ili 11.1), ovvero nel senso tecnico di 'affidare
una lettera' (cfr. Cic. ad Att. II 19.5), ovvero infine in senso
osceno, detto di una persona che si prostituisce (cfr. Lue. fr. 865
M, Mari. IV 7.1 etc.). Basandosi su tale senso di dare assoluto,
Marx suppone che questo frammento sia la parte finale del
discorso di una faceta meretrix che, non avendo accettato le
profferte di qualcuno, giustifica il proprio rifiuto (il movimento
di pensiero entro il quale il verso va sistemato è secondo Marx il
seguente: hunc merito exclusi: nolo equidem nugator...multo). Una tale

55. I raffronti proposti da Marx sono Sen. de ira II 35.3 e II 36.4.

56. Cfr. Nonio, l.c.: nebulones et tenebrìones dicti sunt, gui mendaciis et astutiis suis
nebulam quandam et tenebras abiciant...; per tubulo cfr. anche il fr. 468 M (oltre che
Ter. Eun. 269 etc.); l'associazione nugator-nebulo ritorna anche in Liv.
XXXVIII 56.6: modo nebulonem, modo nugatorem appellas.

57. Difesa da Stowasser, WSt 27, 1905, p. 212.


58. Tra
gli editori moderni, Warmington e Krenkel leggono, con Mueller,
cum idem, mentre Terzaghi e Charpin, con Marx, cui dem.

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LUCILIO, SAT. xx: LA CENA DI GRANIO 125

ricostruzione, per quanto suffragata da un solido supporto


filologico (l'esemplificazione di cui dem in senso erotico) è però
macchinosa: essa deve infatti ipotizzare un gioco ad incastro
con una affermazione preliminare (del tipo supposto da Marx:
hunc merito exclusi), senza la quale il frammento ha un significato
del tutto opposto (e infatti Marx è costretto a premettere come
fondamento logico nella parte perduta del discorso della meretrix
un nolo). Ma anche per altri motivi mi sembra assai improbabile
che chi pronuncia questo verso sia una cortigiana: se così fosse,
infatti, si dovrebbe poter esemplificare la presenza di meretrici
a cenae romane: ma ciò non sembra possibile, se si eccettua il
caso di due donne, presumibilmente cortigiane (Lamia e Bitto)
che Lucilio descriverebbe come partecipanti alla cena militare
sca di Trogino59. Questa almeno è l'interpretazione data da
Marx al frammento 1065 M: ma non si deve dimenticare che
Lamia e Bitto parteciperebbero ad una cena molto diversa da
quella offerta da Granio, ad una riunione conviviale cioè
avvenuta in un campo di militari ubriachi, connotata dai
frammenti superstiti come particolarmente sordida e volgare.
Situazione come si vede assai diversa da quella che ha per

59. Cfr. il fr. 1065 M ilio quid fiat, Lamia et Bitto oxyodontes/ quod veniunt, illae
gumiae vetulae inprobae ineptae? I nomi delle due donne voraci e golose (oxyodontes
e gumiae) intervenute alla cena militaresca sono restituzioni di Marx che
interviene, col sostegno di paralleli convincenti, sul testo tradito (lamia et pitto
ixiodontes, dove ixiodontes è già corretto dallo Scaligero in oxyodontes). Il fatto che
qui Lucilio esprima la propria risentita meraviglia (ilio quid fiat.../quod
veniunt...) conferma l'eccezionalità della situazione prospettata. L'uso, greco,
di far partecipare scorta ai banchetti perché intrattenessero gli invitati con la
musica non è diffuso nel mondo romano, stando alle testimonianze letterarie,
da cui mi pare vadano esclusi gli esempi comici perché, ivi, gli scorta hanno
funzioni diverse, anche se talora partecipano a banchetti privati. Tracce di
questo costume si trovano però nel famoso carme catulliano dell'invito a cena
(Fabullo, infatti, oltre al cibo, dovrà portare una candida puella: cfr. 13.4), in
Hor. carm. II 11.21 (Lide), nonché Cic. ad fam. IX 26.2. Egli parla della
famosa mima Volumnia, in arte Citeride, cantata col nome di Licoride da
Gallo e intervenuta al banchetto del patronus Volumnio Eutrapelo, con tono di
risentimento quasi scandalizzato (non mehercule suspicatus sum illam ad/ore),
segno che l'opinio communis romana sentiva questa presenza come
trasgressiva rispetto all'antica
norma secondo cui la partecipazione femminile
ai banchetti era limitata alle
mogli degli invitati, le quali stavano sedute, in
basso, accanto ai propri mariti sdraiati sul triclinio (cfr. Val. Max. II 1.2).
Perfino la cena petroniana, connotata da lautitiae di ogni genere, tace
assolutamente sulla presenza di scorta, pur descrivendo donne che partecipano
al banchetto, concedendosi vistose libertà (la parresia di Fortunata e la
disinvoltura erotica di Scintilla).

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I 26 ANDREA ARAGOSTI

sfondo la cena di Granio, istruita con decoro e offerta ad un


personaggio di rilievo come Crasso; senza contare che l'ethos di
una meretrix non prevede che avvenga, da parte di lei, alcun tipo
di scelta e comunque non sulle basi perbenistiche che
informerebbero l'esclusione di nugatores e nebulones, ipotizzata da
Marx. Nessun progresso si ottiene accettando l'interpretazione
di Terzaghi, che pur ammette la sostanziale impossibilità di
spiegare con esattezza il frammento: egli suppone che ci sia
riferimento ad un qualche ghiottone, descritto da Lucilio come
nugator...ac nebulo. Mi pare che l'ostacolo maggiore a quest'inter
pretazione sia l'assoluta incomprensibilità del sintagma cui dem
in un contesto così ricostruito. Ma forse una strada per una più
soddisfacente interpretazione e contestualizzazione del fram
mento esiste, anche se il margine di certezza non è grandissimo
e poggia più che altro sulla pertinenza dei raffronti proposti,
sulla verisimiglianza della ricostruzione contestuale.
Noi sappiamo da varie testimonianze60 che vigeva, presso gli
antichi, la consuetudine di estrarre a sorte, durante i banchetti,
alcuni regali, da distribuire agli amici, ai quali venivano apposti
dei biglietti che illustravano le qualità del dono, in genere con
espressioni ambigue ed oscure ': da questa consuetudine si
sviluppò la forma letteraria testimoniata dagli Xenia e dagli
Apophoreta di Marziale.
Nell'epigramma introduttivo degli Apophoreta, anzi, il poeta,
dando una sorta di chiave strutturale di lettura della propria
opera (gli epigrammi apposti agli apophoreta sono a coppia: uno
per il dono ricco e uno per il dono povero; cfr. XIV 1.5: divitis
alternas et pauperis accipe sortes) insiste sul fatto che a ciascun
ospite sia dato il dono conveniente (cfr. il v.6: praemia convivae
dent sua quisque suo), cioè che il dono sia in qualche modo
commisurato a chi lo riceve62. Il fr. 577 M potrebbe allora

60. Cfr. Petr. 56.10 iam etiam philosophes de negotio deieciebat, cum pittacia in
scypho circumferrì coeperunt, puerque super hoc positus officium apophoreta recitavit, ma
anche Suet. Aug. 75 e Elio Lampr., Heliogab. 22.
61. Cfr. Suet. l.c.: Saturnalibus, et si quando alias libuisset, modo munere dividebat...
titulis obscuris et ambiguis; esemplare, in questo senso, anche il luogo citato di
Petronio, in cui si instaura un rapporto etimologico bizzarro tra il dono e la
didascalia di accompagnamento (cfr. e.g. canale et pedale: lepus etsolea est aliata).
62. L'alternanza di un dono ricco e di uno povero significa che nella
distribuzione saranno scelti donidi diverso valore; nel l.c. di Elio Lampridio si
dice che tale alternanza viene trasformata, nella situazione ivi descritta, in
modo che diventi una successione del tutto casuale e non priva di grosse

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LUCILIO, SA Γ. xx: LA CENA DI GRANIO 127

venire interpretato come appartenente ad una serie di versi in


cui si descriveva la distribuzione degli apophoreta agli ospiti da
parte del padrone di casa. Più precisamente, in questo verso
potrebbe essere rappresentato Granio che, nel momento in cui
sta per consegnare un dono, richiama ironicamente l'attenzione
sul rapporto tra dono stesso e persona che lo riceve con
un'espressione del tipo: «chi prende questo dono deve essere un
grandissimo nugator e un grandissimo nebulo». Se accettiamo
quest'interpretazione, il frammento luciliano sarebbe allora la
più antica testimonianza romana sull'uso di distribuire gli
apophoreta.
Il concetto del dare come termine proprio della consegna di
un apophoreton ed insieme come sottolineatura della sua
pertinenza ritorna in maniera più che evidente in un
epigramma degli Apophoreta di Marziale (cfr. XIV 170: Signum
victoriae aureum): Haec illi sine sorte datar, cui nomina Rhenus/vera
dédit. Deciens adde Falema, puer. Si tratta di un regalo ricco, il
sigillo d'oro della vittoria che viene destinato a Domiziano, cui
il Reno, dopo la campagna vittoriosa sui Catti, dette il
legittimo, pertinente cognomen di Germanico. Anche in Marziale
è sottolineata l'assoluta pertinenza del dono, che non viene
infatti estratto a sorte (per evitare eventuali assegnazioni
indebite), alla persona che lo riceve: il sigillo d'oro della vittoria
è dato ad un vittorioso. Anzi, c'è in più, in Marziale, un
probabile gioco terminologico tramite la ripresa a distanza dello
stesso verbo (datur, cui.../dedit...). Questo verbo è fondamentale
anche nel frammento luciliano: se è vero che tutto il banchetto è
un dare (e la cena di Granio in particolare, perché rivolta ad
ospiti di riguardo), il momento in cui avviene la reale
differenziazione del donum è proprio quello in cui vengono
distribuiti gli apophoreta. È appunto nel senso di questa
individualizzazione del dare in un donum che va forse
interpretato il cui dem di Granio; tale iniziativa poteva
coincidere con un momento di scherzo (come per esempio in
Petronio: cfr. 56.7 ss.) che qui si esplica con la curiosa
commisurazione del regalo ai nugatores e nebulones.
Resta da considerare il fr. 578 M proras despoliate et detundete
guberna, tradito da Nonio 788.31 L (in cui il detundite dei codd.,
impossibile metricamente, è corretto dagli editori in detundete)

sorprese, per inverare il criterio del sorteggio (ut vere sortes essent et fata
temptarentur).

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128 ANDREA ARAGOSTI

con l'indicazione Luc. satyr. lib. XX e da Mario Vittorino GL VI


p. 56,6 Κ che cita però un testo leggermente diverso: proras
detendite et spoliate guberna impossibile metricamente e corretto, a
partire dall'editio princeps, in: proras detondete et despoliate guberna
(testo accolto da Keil), con uno scambio tra verbi ed oggetti
rispetto al testo noniano. Notiamo subito la particolarità della
forma detundete, ricostruita dagli editori nel testo noniano, che
può essere sia una variante di detondete (la forma che compare in
Vittorino) sia una forma in -eo del più comune detundo63. Mi
pare che la migliore esegesi di detundete sia quella di Marx,
secondo cui detundete è lo stesso che detondete, con lo scambio
tond-/tund-6i: piuttosto che un intervento di demolizione violenta
(che si dovrebbe ipotizzare spiegando detundete come forma in -eo
di detundite, poiché detundo come contundo significa «calpesto,
demolisco»), è opportuno pensare ad uno smantellamento, uno
«smontare» (verrebbe di dire un «tosare») dei timoni {guberna è
forma sostitutiva, metri causa, del più comune gubernacula65)
che potranno poi, in un secondo tempo, essere ricollocati al
proprio posto.
Si parla dunque di una nave che deve essere smantellata, che
dovrà cioè interrompere le sue funzioni di veicolo per un certo
periodo. Prendendo alla lettera il riferimento alla nave, si può
pensare, con Warmington, che si tratti di una tempesta violenta
che ha costretto la nave al disarmo: Warmington fa infatti
rientrare questo frammento in una serie di versi, da lui
ricostruita, che alludono ad una tempesta e che formerebbero
una seconda satira del libro XX (anche se poi ammette che

potrebbe trattarsi di un racconto narrato durante la cena di

Granio). Se invece
si considera l'immagine della nave nel suo
significato simbolico, sono possibili ulteriori interpretazioni del
tutto diverse da questa. Marx cita un proverbio greco (Filostr.
Her. II p. 140, 2 Kays καί τά έκ πρώρας, φασί, καί τα έκ πρύμνης
άπολείχαι) nel quale si dice «essere perduto da prora a poppa»

63. Quest'ultima è, per esempio, la spiegazione fornita da Charpin, comm., p.


264.
64. Il raffronto proposto a riprova è tratto dal Menologium rusticum XXIII A

(in CIL I2 p. 280): oves tundunt<ur>.

65. La forma gubema per gubemacula, usata anche da Lucr. II 553 e IV 439 in
fine di verso, è foggiata sul modello apocopi delle
enniane (del tipo gau da

gaudium). Per I. Mariotti, cit. p. 58, gubema deriva da gubemare secondo lo


schema regnumJregnare e non è quindi confrontabile coi modelli enniani.

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LUCILIO, SAT. XX: LA CENA DI GRANIO 129

per significare il totale annientamento, materiale e morale.


L'espressione è ripresa da Cic. fam. XVI 24 mihi prora et puppis,
ut Graecorum proverbium est,fuit a me tui dimittendi e ad Att. IV 18.1
omnino πρφρα πρύμνα (restituzione assai probabile del Manu
tius) accusatorem incredibilis infantia, nel quale ultimo esempio
però il significato è piuttosto «in una parola», con un senso
traslato che si sviluppa facilmente dall'immagine della prora e
della poppa, dai punti cioè che delimitano l'estensione della
nave e ne sono il simbolo. Non mi pare che questa connotazione
proverbiale possa riscontrarsi chiaramente nel frammento
luciliano: esso del resto non associa prora e poppa, ma prora e
timoni66, designando un processo di smantellamento che sta per
avere inizio e che non ha molta attinenza col proverbio greco. Il
Cichorius67 ha proposto di intendere questo frammento come il
commiato di Lucilio dalla poesia, visto che probabilmente il
libro XX è l'ultimo composto, se si accetta come vera l'ipotesi
che il XXI fu aggiunto solo più tardi come supplemento. In
questo modo però Cichorius è costretto a sostenere che il libro
XXI (quello finale della seconda raccolta: Cfr. Varr. de l.L. V
17), di cui non abbiamo citazioni, non aveva argomento
satirico, ma era una raccolta di liriche dedicate a Collira. La
notizia che Lucilio avrebbe dedicato un libro delle satire
all'amante è di Porfirione, che però riferisce l'indicazione al
libro XVI e non al XXI: liber Lucila XVI Collyra inscribitur. eo
quod de Collyra amica scriptus sit, egli dice. Cichorius corregge
allora XVI in XXI sostenendo la probabilità dell'errore e
dimostrando con buone argomentazioni che i frammenti
superstiti del XVI non possono in alcun modo essere ricondotti
ad un'esperienza sentimentale del poeta. Quest'ipotesi è nella
sostanza ingegnosa, ma non affidabile: senza ricorrere alla
macchinosa ipotesi di Cichorius, direi che ci potremmo fermare
ad un'interpretazione del frammento come congedo non dalla
poesia in assoluto, bensì solo dalla satira in questione68.

66. Come osservava già Cichorius, cit., p. 95, η. 1.


67. Cit., p. 95 ss.
68. È più che nota, grazie soprattutto alla magistrale opera di E.R. Curtius
(Die europàische Literatur und das romische Mittelalter), l'incidenza che ha
negli
scrittori latini (e non solo latini) la metafora della poesia-nave, che li porta a
paragonare la redazione della loro opera ad una traversata per mare. Più in
particolare, in opere che constano di più libri, alla fine di un libro si può
trovare un accenno all'ammainamento delle vele (cfr. Verg. georg. II 117, che

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130 ANDREA ARAGOSTI

Potrebbe essere il finale della satira riguardante la cena di


Granio, una coda paludata e retorica che forse allude
ironicamente alla munificenza un po' pacchiana del banditore
parvenu.

si oppone a II 41 in cui le vele, all'inizio del viaggio poetico, sono issate); ciò
conferma l'ipotesi che il congedo di Lucilio sia solo rispetto al libro e non
all'intera opera ο alla poesia in generale, come vorrebbe Cichorius, perché
allora l'immagine più appropriata sarebbe stata quella di «entrare nel porto»
(cfr. Staz. silv. IV 89 e Theb. XII 809 etc.).

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