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I fatti e i personaggi rappresentati nella seguente


opera e i nomi e i dialoghi ivi contenuti sono
unicamente frutto dell'immaginazione e della
libera espressione artistica dell'autrice. Ogni
similitudine, riferimento o identificazione con
fatti, persone, nomi o luoghi reali è puramente
casuale e non intenzionale.
Grafica/Emanuele Ragnisco
www.mekkanografici.com
Foto in copertina © InnaFelker/Shutterstock

ISBN 9788866327493
Simona Lo Iacono

LE STREGHE DI
LENZAVACCHE
A Nanni, nato il 17 dicembre
e quindi figlio delle streghe
«Dichiaro che tra le molte donne che
io condussi al rogo per presunta
stregoneria, non ve ne era una sola
della quale avrei potuto dire con
sicurezza che fosse una strega.
Trattate i superiori ecclesiastici, i
giudici e me stesso come quelle
povere infelici, sottoponeteci agli
stessi martiri e scoprirete in noi
tutti dei maghi».
F RIEDRICH SPEE, confessore delle
streghe condannate al rogo in
Würzburg, 1631.
PARTE PRIMA
C APITOLO PRIMO

L a prima volta in cui ti vidi eri


talmente imperfetto che pensai
che nonna Tilde avesse ragione. Avrei
dovuto mettere sotto la tua culla otto
pugni di sale, bere acqua di pozzo e
invocare le anime del purgatorio. Poi
dire tre volte: «Maria Santissima abbi
pietà di lui», affidarti alle mani del
primo angelo in volo e assicurarti al
collo una catena della buona morte.
Non lo avevo fatto.
D’altra parte eri un imprevisto, e
con gli imprevisti non si allestiscono
scongiuri e preparativi.
Al più qualche rimedio per i tuoi
occhi allungati, la fronte bitorzoluta,
il broncio spellato dalle troppe spinte.
Nonna Tilde ti ha guardato scettica ed
è corsa a chiamare un sacerdote
pontificando che solo gli esorcismi ti
avrebbero salvato dalla malasorte. Poi
ti ha sciacquato dal sangue del parto,
ti ha sistemato sul mio seno ed è
sparita per andare a seppellire la
placenta sotto il vecchio noce.
In silenzio, ha invocato i nomi degli
antenati.
Ma la luna calava invece che
alzarsi, non era tempo di marea né di
santi, i fantasmi tacevano e non una
stella brillava nella notte.
Tutti cattivi presagi, figlio mio, ma
tu eri nato, e pur squadernato da un
vento di sfortuna, ti chiamai Felice, e
decretai che quello era il primo passo
per ribaltare il destino.

Infatti si comincia sempre col


nome. Poi si passa al resto, alle
discendenze e ai ricordi di chi ci ha
preceduto, reliquie che adesso
raccolgo per spiegarti il tuo passato.
La casa in cui sei nato, per esempio.
Appartiene alla mia famiglia da molte
generazioni. Una villino della caccia
in cui campeggia lo stemma nobiliare,
sormontato dal nome: Rinauro Astolfo.
All’interno si susseguono saloni
lastricati da ceramiche, soffitti a
volta, quadri da cui occhieggiano i
bisavoli. È un casaleno bucato da
cunicoli e porte girevoli, cucine di
maiolica, refettori in legno. Ogni sedia
ha un segnale diverso, e una
numerazione al femminile su cui puoi
leggere in successione: prima,
secunda, tertia.
Nei primi mesi di vita sbirciavi i
gradoni dipinti con fronte aggrottata,
spiavi la piramide di riccioli sotto cui
gli antenati lanciavano occhiate,
cercavi una somiglianza lontana con
il tuo sangue.
Ma non c’era, figlio mio. Nessuno
somigliava a te, agli zigomi
montagnosi, alla testa ciondolante che
i medici non riuscivano a raddrizzare.
Ne avevo consultati a decine fin
dall’inizio, ignorando nonna Tilde che
preparava estratti di finocchio e
pensava che ai difetti fisici si
rimediasse con le erbe. Vi trovavo in
cucina tra fumi di decotti, con te
legato a un palo per tenere la rotta e
la nonna che armeggiava trascurando
ogni diagnosi. Era convinta che le tue
mancanze fossero in fondo benefici e
che a non camminare ti saresti
risparmiato i calli che affliggevano il
trisavolo Ferdinando, a non parlare
correttamente avresti guadagnato
pace e salute. Quanto al fatto che non
avresti compreso il mondo, trovava
che fosse un sollievo e non faceva che
blaterarti in faccia: ti invidio, Felice,
nipote sciancato e senza angeli.

Cara zia,
sono arrivato questa mattina col treno
delle cinque. Ad attendermi, come previsto,
c’erano i proprietari della pensione, che mi
hanno scortato fino in paese. Un piccolo
centro, che gravita intorno a una chiesa e a
una piazza. In apparenza nessuno ha
badato a me. Ho saputo dopo, invece, che al
mio passaggio i vecchi che dondolavano
sulle sedie hanno alzato la testa, e che
improvvisamente, come se un ordine
invisibile fosse volato di bocca in bocca, la
notizia che il nuovo maestro era arrivato a
Lenzavacche non era sfuggita a nessuno.
Prima ancora di registrare il mio nome in
pensione, tutti sapevano che Alfredo
Mancuso era lì, e che il giorno dopo avrebbe
preso servizio presso l’istituto Maria
Montessori.
Ti abbraccio, cara zia, e aspetto di
ambientarmi per farti avere altre notizie.
Da Lenzavacche, 3 settembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO SECONDO

N ei primi due anni di vita ti ho


portato legato alla schiena con
fasce e scialli stracolmi di sonagli. Mi
bardavo di lenzuoli e ti serravo in
modo tale che la tua testa sbucasse
fuori, risuonando a ogni movimento di
uno scampanìo.
In paese sapevano del tuo arrivo
per quello sferragliare, come se una
mandria distratta si fosse
pericolosamente spinta all’interno e
fosse necessario accorrere per
cacciarla oltre i confini.
Ma non ci badavo.
Sentivo il respiro che mi soffiavi
nelle orecchie, l’aria che ribolliva
dalle narici, il galoppo disordinato del
cuore. Anche senza guardarti sapevo
se dormivi o eri sveglio, se avresti
rigurgitato o se, al contrario,
sorridevi.
Era accaduto quasi subito.
Non c’era disagio capace di farti
arrabbiare, ti abitava anzi una
benevolenza assoluta verso chiunque
ti avvicinasse. Piangevi solo per
comunicare qualcosa, come se, per il
resto, quell’isolamento che la natura
aveva decretato fosse in realtà l’esilio
di un sovrano svagato ma molto
sapiente, una torre d’avorio da cui
calare lunghissimi ciuffi di capelli
trezzuti.
Le vicine blateravano di non farmi
illusioni, che le tue risate erano
movimenti inconsulti, scatti senza
memoria, straniamenti del corpo che
non dominava le smorfie. «Muoiono
presto i figli accussì» sentenziavano,
«hanno gli anni contati».
Era allora che nonna Tilde le
congedava senza riguardi e ti
rimproverava di aver riservato agli
estranei tanta allegria.
«Felice» ti diceva indispettita,
«impara a non sorridere a tutti,
nipote sciagurato».
Ma tu ignoravi bellamente ogni
ramanzina, sospiravi soddisfatto, e
all’occasione successiva sembrava
godessi a sfoderare quella tua
apertura di bocca senza guerra, senza
armi e senza richieste, figlio mio.
Se non quella di essere amato.

Da tuo padre non hai ereditato


quasi niente, non i capelli neri e folti,
le iridi di scoglio, le spalle squadrate.
Quando sei nato una striscia ovattosa
ti cerchiava la testa, facendoti simile
a quegli uccelli che bucano l’uovo, e
ne escono bagnati e disorientati. La
forma del viso, poi, è di Tilde, motivo
per il quale tua nonna ha
immediatamente deciso con orgoglio
che, perfetto o imperfetto, le
somigliavi, e che questo era un motivo
sufficiente per proteggerti dal male
del mondo.
Per il resto non hai la mia
malinconia né la mia paura del
futuro. Pur così inadatto a vivere, sei
come certi nostromi coraggiosi che
impugnano il timone e vanno contro
le onde guardando dritto. Non hai
titubanze e non interpreti il destino,
stai semplicemente a guardare che
piega prenda e adatti la tua barca, sia
che tiri maestrale sia che l’acqua si
appiattisca in bonaccia.
Tutto sommato, pur con le fragilità
della tua condizione, sei impiantato e
forte, quasi quanto quel noce secolare
sotto il quale tua nonna ha sepolto i
resti del parto.
È un luogo senza tempo, intorno al
quale le donne antiche benedicevano
le anime dei morti e inscenavano
strane danze.
Furono tutte bruciate sotto cataste
di legna e le loro ceneri vagano
ancora nell’aria. Le streghe di
Lenzavacche, le chiamavano, ma Tilde
– la cui famiglia fece la stessa fine –
tutt’ora conserva le loro ricette e
cucina le loro radici, invocando una
tale Deodata che si ostina a
immaginare a braccetto con un angelo
delle erbe.
D’altra parte persino il mio nome,
Rosalba seconda dei Tramerzi, pare
sia legato a una delle sue antenate
senza disciplina.
Tu sei il degno erede di questa
stirpe di martiri e sante, dice, e
pronostica che farai cose grandi,
figlio mio.

Cara zia,
il direttore della scuola Maria Montessori
mi ha accolto col saluto fascista, mi ha
consigliato di vestire in nero e mi ha
consegnato il programma per l’anno
scolastico 1938-1939 emesso dal Ministero
dell’educazione nazionale.
L’ho aperto lentamente e ho letto:
“In ogni ordine di scuole e per
qualunque disciplina gli insegnanti
mirino sempre al conseguimento della
necessaria unità dell’insegnamento. Il
collegamento fra le varie discipline e
fra le varie parti di uno stesso
programma deve condurre al
raggiungimento di quello che è lo
scopo dell’insegnamento: l’acquisto da
parte dei giovani di una cultura
unitaria e viva, della cultura
fascista”.
Ho guardato fuori dalla finestra. È un
settembre che spacca le pietre. Gli allievi
sudano nei grembiuli abbottonati e nel
fiocco legato al collo, sghembo e irrisolto.
Ogni tanto qualcuno rompe le fila, soffoca
un sorriso, sfalda il muco del naso con un
gesto veloce del gomito. Inneggiano canti al
duce senza sapere davvero chi sia, un mago
dicono alcuni, sua maestà il re o forse tutte
queste cose insieme, uno smembrato ricordo
di supremazia al quale è bene obbedire, più
o meno come a casa si obbedisce al padre,
pena le cinghiate al culo e andare a letto
senza cena. Oggi mi hanno assegnato la
seconda C. Ventisei maschi scuri e
irrequieti, tra cui spiccano un paio di teste
rapate per i pidocchi. Mi hanno sorriso solo
con gli sguardi, per il resto sono rimasti al
loro posto, grattandosi le nuche spellate, le
croste che giacciono in testa come resti
della tosatura. Sono allineati come un
esercito maleodorante, arrangiato, che
tiene le fila solo per non andare incontro a
peggior sorte.
Domani ti saprò dire ancora meglio, cara
zia.
Da Lenzavacche, 5 settembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO TERZO

I libri si impilano ai miei fianchi


quasi senza chiedere permesso,
sono fantasmi taciturni e audaci.
Anche tu sei così, Felice. Ne avverti
subito la presenza.
Non so come sia accaduto, ma sin
dalla prima volta ho capito che se c’è
un mondo del quale sei cittadino
indiscusso, è quello delle storie.
Che destino altezzoso ti sei scelto,
Felice, nipote sognatore e
sconclusionato, ti dice nonna Tilde. E
aggiunge: vivere tra le pagine e non
nel mondo, ne avrai solo guai, ma che
posso dirti, ti aiuterò a sentirti
cittadino di questa dimensione.
D’altra parte se non è la realtà a
volerti, sarà almeno l’irrealtà,
sebbene chi lo sappia, Felice, quale
delle due sia vera, impara a dubitare
delle apparenze, nipote smidollato e
senza saggezza.
Fatto sta. Era accaduto a pochi mesi
di vita. Piangevi senza che potessi
consolarti, mentre tua nonna
preparava tisane per regalarti un po’
di pace. Camomilla e cardamomo, per
il sonno. Aloe e valeriana, per la
fantasia. Poi basilico, fiori di ibiscus,
inflorescenze di cotone, per la buona
coscienza. Tilde ciabattava concitata
in cucina, mesceva aromi e polveri,
pareva in tutto simile a una di quelle
sue sante streghe che avevano
meritato il rogo. Sbraitava nomi
astrusi – escolzia californica,
passiflora incarnata, melissa
officinalis – per concludere infine che
eri refrattario alla natura,
all’insalata e alla magia, e che ci
sarebbe voluta una di quelle antenate
impiccate da un inquisitore severo
per salvarti dal demonio del sonno
mancante.
Fino a che non mi venne l’idea di
leggerti un libro. A voce alta,
congestionata dalla notte perduta,
scandii le parole, i nomi, i luoghi. Mi
feci cavernosa, dolcissima, lontana.
Inscenai per te tutto quello che può
dare la vita: amore, dolore, mistero.
E finalmente il pianto cessò. In un
solo attimo ti facesti attento, e persino
la fronte deformata dalla veglia,
persino gli occhi sbilenchi, e la bocca
gloglottante saliva si acquietarono in
una piega.
Ascoltavi.
Ascoltavi della sorte, del cielo che
annottava, dei giorni che si
susseguivano lenti e traditori. Storie
di brigate, di sirene, di demoni, di
sotterfugi, di finzioni e disperazione.
Di una certa Sherazade che ingannava
il tempo, e di un tale Chisciotte che si
destreggiava in monta a un ronzino.
Della vita che condannava e
assolveva, che piegava gli uomini e le
messi, che celebrava le nozze di Cana
e i lutti della Pasqua. Tutto ti
ammaliava e ti dava un’aria da
silenzioso intenditore.
Non eri forse del regno dei vivi,
figlio mio, ma di certo eri un
indiscusso abitante di quello dei
morti.

Cara zia,
oggi il direttore mi ha detto come
comportarmi riguardo all’insegnamento
della storia. Quando ha concluso il suo
discorso mi ha messo in mano un foglio del
programma del Ministero dell’educazione
nazionale, pag 2.
“L’insegnamento della storia deve
essere fatto in modo da interessare gli
alunni mediante opportuni
riferimenti e raffronti alla vita
presente, mirando a mettere in chiara
luce la continuità dello sviluppo
storico, le figure significative, i valori
essenziali della civiltà e delle armi,
l’apporto fondamentale recato in ogni
tempo e in ogni campo dal nostro
Paese. Il massimo rilievo deve essere
dato in ogni ordine di scuola al
processo formativo dello Stato
unitario italiano che confluisce nel
Fascismo”.
La classe, frattanto, rumoreggiava. Il
direttore l’ha azzittita con un colpo di
bacchetta sulla cattedra, ha pescato a caso
due allievi e ha bastonato loro le dita con
forza.
Sono rimasti dritti al loro posto senza
emettere suono, ma il più basso aveva le
orecchie paonazze e il collo sudato.
Poi il direttore mi ha messo la bacchetta
in mano e mi ha sorriso da sotto i baffi
puntuti, ingialliti di tabacco.
Dall’esterno entrava frattanto un odore
acido di passata di pomodoro, mosto
fermentato, piedi macerati nell’uva. È
tempo di vendemmia e nell’aria volano i
resti della pigiatura. L’aria di Sicilia è un
misto di umori disordinati e aggressivi,
effluvi innominabili che parlano come voci
e ti trascinano con la potenza di un istinto
che qui si risveglia e si scopre eccitato da
una foresta di voglie indecenti.
Respirai, e il direttore lo prese per un
assenso.
Bene, bene, maestro Mancuso, disse
soddisfatto. E uscì chiudendosi la porta alle
spalle.
Ora avevo i loro occhi addosso a scrutare
ogni mia mossa. Occhi a mezz’asta per il
sonno, gialli di febbre, sporchi della notte.
Occhi che battevano impazziti in attesa di
risposta e mi bucavano con una
rassegnazione silenziosa, millenaria, di
animali domati a forza dal padrone.
Lasciai che i passi del direttore si
allontanassero, risuonando nel corridoio.
Poi spezzai in due la bacchetta e riposi i
pezzi nell’armadio. D’improvviso, mille
bocche sdentate si aprirono per la
meraviglia.
Ti bacio cara zia.
Da Lenzavacche, 10 settembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO QUARTO

F in dall’inizio ti ho portato tra la


gente. Non volevo che fossi un
solitario e mi ero messa in testa di
assecondare la tua tendenza
all’immaginazione. A parte l’amore
per la lettura avevo notato che
assumevi un’aria trasognata se si
parlava di donne, o che eri pronto a
illanguidirti al loro passaggio.
È una cosa inaudita, Felice, nipote
misteriusu, ti rimbrottava Tilde.
Avrai preso da tuo padre, quello
smidollato e femminaro, Dio ci liberi.
Possibile che se vedi un busto steso ad
asciugare, un reggicalze o una sottana
sembri Santa Venera prima
dell’estasi?
Per questa tua predisposizione
all’amore facile Tilde fece i dovuti
scongiuri, recitò decine di rosari e
asperse acqua benedetta,
dimenticando che neanche volendo
avresti potuto usare le armi seduttive
di tuo padre, dato che non camminavi
né parlavi, e per interpretare ogni
tuo gesto ci voleva tutta la mia
arguzia. Ciò nonostante vegliava e
digiunava, diceva che tra qualche
anno una donnina pronta ad
approfittarsi della tua aria sciroccata
ti avrebbe sedotto, che ci vuole a
conquistarlo, sbuffava, basta sbattere
le ciglia e calargli i calzoni.
Per questo ostacolava ogni mio
tentativo di inserirti nella vita del
paese: ti portavo in piazza o davanti
ai cortili, ti spingevo tra i monelli che
tiravano calci ai secchi, tra i vecchi
che giocavano a dadi, tra le donne che
spettegolavano sugli usci, nelle
botteghe, nelle strade e sulla soglia
dei bordelli. All’alba, al tramonto, con
le ventate arraggiate di maestrale e
nelle sere placide d’estate. Ti portai
ovunque a respirare la vita, Felice,
perché non volevo che per te restasse
una cosa d’altri, una di quelle vetrine
allestite per le feste, con manichini
bardati, cilindri lucidi e manicotti
alla francese, una baldoria di colori e
luci, figlio mio, che tu potevi solo
guardare da fuori.

Ma l’idea non piacque a nessuno.


Esibire un figlio accussì, col respiro
mancante, gli occhi che sbocciavano
come sassi da un fiume, l’aria svagata
e oppressa. Che indecenza, che
mancanza di rispetto, Felice, era
giudicato portarti a passeggio, sostare
sotto un fiotto di luce calda, davanti a
certi baratri sdirrupati, un abisso
come dev’essere l’inferno, e il
paradiso, e ogni precipizio che ci
tragga a sé con ebbrezza.
I figli mongoli si tengono a casa, mi
disse ’u zu’ Rapisarda, si allevano
come piante in un vaso, gli dai l’acqua
e le lasci lì, in attesa che compiano
silenziose il loro ciclo segreto. Vita,
morte, sonno, veglia, che ne sai di
quello che succede in una pianta,
figlia mia.
E cominciarono le bisbigliate
all’angolo, i segnali da sempre
decifrabili dell’emarginazione, gli
stessi da secoli, ora qui ora lì, che si
tratti di streghe, di adùlteri, di
peccaminosi, il vocio è uguale: arriva ’u
mongulu cu sa matri, itavinni, arriva ’u
mostru*.
Ovunque si faceva il vuoto, Felice. A
qualsiasi orario rincorrevo per te la
vita, e la vita fuggiva, si scansava
lesta al tuo passaggio, era intuitiva e
feroce, la vita, ti fiutava come una
bestia pericolosa e inesorabilmente ti
lasciava indietro. E dire che tu
l’amavi pazzamente, che eri come un
predestinato a goderla nel suo senso
più profondo, nascosto, e senza dolore.
Perché mentre loro – i ben accetti alla
vita – macchinavano, e si
impossessavano, e dominavano, e
armeggiavano per tutto il giorno in
preda a voglie arcane, misteriose, a
equilibri sani o malati, a desideri
disperati, maliziosi o innocenti, tu
stavi lì quieto e concentrato nello
sforzo di un respiro. Ingoiavi il tuo
filo d’aria soddisfatto d’aver portato a
termine una simile impresa: cibarti di
quel poco che ti ci voleva per stare al
mondo, e ti costava sforzo, ma lo
sforzo ti immetteva anche in quel
cerchio respingente e tuttavia
inatteso, al quale continuavi a
sorridere indomito, come un eroe
negletto, come un trampoliere senza
assi, come un innamorato respinto
che non intende rinunciare
all’amante.
Cara zia,
il rito è sempre lo stesso. Entro, poso
delicatamente la borsa in pelle sulla
cattedra ed estraggo un libro.
C’è chi ridacchia, nascondendosi sotto il
banco, chi sputa da una cerbottana di
carta, chi bisbiglia all’orecchio del
compagno: «Ma che minchia fa ’stu
maestru, pare mutu».
Poi inizio a leggere.
Con una voce mai udita, che rapisco ai
tetti delle case, alle scie lattiginose delle
tende, alle sagome che si disegnano dalle
finestre schiuse, una voce che faccio
perfida, struggente e poetica a seconda
della pagina, mi trasformo sotto i loro occhi.
Un oste, un orco, un capitano di ventura
indiavolato, un mercante di razza incerta,
con occhi sbiechi e pelle marrone, una
ballerina che non lesina smancerie, un re
vecchio e senza regno, tutto sono, cara zia,
tranne il maestro, e loro infatti non mi
vedono più. Se ne stanno imbambolati a
udire quello squasso di tromba che somiglia
a un richiamo, il cuore che strepita, la
mente annebbiata, e credono allora che stia
capitando loro una di quelle malie che le
vecchie streghe usavano per incantare i
rospi e i dannati. E invece è il libro, il suo
ventre pietoso e affollato che spinge fino a
strariparli. E mi chiedono ancora, maestru,
ancora e ancora, sulla campana che
rintrona, sui passi del bidello, sulla porta
che raglia e si apre per consentire alle
classi di uscire incolonnate. Si allineano
riottosi, brontolanti, per metà con la testa
ancora all’altro mondo.
Chiudo il libro mentre li vedo sfilare
come soldati, le gambe a ritmo, i calzettoni
al ginocchio, il grembiule nerissimo, sotto
cui palpitano malati, guariti. Senza saperlo,
innamorati.
Ti abbraccio cara zia.
Da Lenzavacche, 20 settembre 1938
Tuo, Alfredo

* Arriva il mongoloide con sua madre,


andatevene, arriva il mostro.
C APITOLO QUINTO

L a prima sosta della nostra


passeggiata è il farmacista,
dutturi Mussumeli, amico leggendario
di Tilde ed erborista attempato,
convinto che più che la scienza
possano le piante e la fantasia. Dietro
il banco affollato di boccette,
canestrini, ampolle a pancia larga,
vasi canopi e anfore in coccio, tiene
libri smangiati dall’umido e dal giallo,
rilegati con fili ciondolanti, che
volano nell’aria simili a ragnatele.
La farmacia tutta, d’altra parte,
non ha scaffali ma nicchie scavate
nella pietra, assi impalandranate da
stoffe, scenari di teatro, grammofoni
da cui gracchia un disco della Ricordi
e in cui il braccio inciampa come su
un sasso, ripetendo mille volte lo
stesso solco.
E lui non se ne accorge, contempla
beato i suoi arnesi, scava sul naso un
occhialetto senza lenti, dimentico
persino della sua mezza cecità.
È stato l’unico a dirmi che eri un
bel bambino quando sei nato e a
concordare con Tilde sui vantaggi
della tua condizione. D’altra parte, va
ripetendo, non è questo un mondo di
fantasmi addomesticati, di
dissolvenze, di stravaganze? Non
siamo forse disonorati e tentatori,
senza pace, forcuti come tante
maligne presenze dell’oltremondo? A
guardarci gli uni con gli altri in una
notte qualsiasi, le nostre ombre
proietterebbero gobbe sul dorso,
indecenze, malattie medievali, code
acuminate e speroni sulla zucca.
La stessa ombra di Felice.
Alla fine, ci somigliamo tutti.
E, detto questo, spariva dietro le
quinte, rovistava rumorosamente, tra
cigolii e lamentazioni, per riemergere
con una specie di pupo tenuto da
un’asta che si muoveva, che aveva
vesti di seta e indorature, pennacchi
spigati e una spada di incerta
consistenza.
Lo faceva muovere sotto i tuoi occhi
strabiliati, che si accendevano di una
felicità primitiva, disperata,
incomunicabile al resto del mondo,
una specie di ruggito finale, come se
in quel pupo che si dimenava senza
grazia stesse il segreto dell’universo.

Cara zia,
il direttore non tollera che la classe
ascolti racconti non autorizzati, né che per
interpretare le voci dei personaggi si usi il
dialetto. Il vernacolo è considerato un
detrito che ostacola i valori della nazione, la
purezza della lingua, il primato dello stato
fascista. Fango che copre la vera bellezza.
La procedura è dunque questa: scelgo il
materiale narrativo, lo sottopongo al
direttore che ne parla con il consiglio dei
docenti, i docenti rinviano la decisione al
comitato di educazione fascista che verifica
la conformità del libro e della lingua ai
canoni del regime.
Finora nessuno dei testi che ho candidato
hanno riscosso l’approvazione del fascio.
Inoltre vari genitori hanno fatto istanza
formale al signor direttore di far cambiare
sezione ai figli.
In pochi giorni sono diventato astruso e
sovversivo, e la classe si è svuotata di dieci
allievi. E altri sette sono pronti ad
andarsene.
Quelli rimasti continuano a chiedermi
altri racconti, latrano alla luna il loro
sconcerto di cani rimasti senz’osso.
Forse rientrerò presto, cara zia, e di
quella faccenda che sai non avrò neanche il
tempo di occuparmi.
Da Lenzavacche, 21 settembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO SESTO

I l dottore Mussumeli chiude la sua


sceneggiata scoprendosi il ventre
immenso, facendolo sussultare e
strappandoti borbottii di
approvazione. Anche adesso che per
metà non vede, che ha il fiato grosso
ed emette rantoli tabaccosi, pregni
delle sigarette che asciuga con un
succhio, è tutto un inno alla vita che
se ne va, e che lui trattiene toccandosi
debitamente. Ne ho per poco, Felice,
spiega serio piantando la sua mole
davanti ai tuoi occhi. E ti ride quasi in
bocca, prima di posarti uno schiocco
di bacio sulla testa.
Sentimi Felice, ti sussurra
all’orecchio, futtatinni, futtatinni e
futtatinni, pensa a mangiare, pensa al
groviglio fantastico di gambe che si
muovono sotto le mutande, pensa
sempre alle donne, a quel loro regno
sconosciuto di calze e bottoni che si
slacciano, pensa alla notte che scende
sui loro capelli accunzati, giuraddio
che quando me ne vado al Creatore
non ti dimentichi cosa ti ho insegnato.
L’amore, Felice, l’amore protervo e
affamato, quello che deve farti
arrivare in cima da lontanissime
profondità, e risvegliarti di purezza,
anche se lo subisci, Felice, ma lo
restituisci accussì bisognoso, e
strafottente ed elemosinante, che per
forza deve essere puro l’amore che
cerchi alla donna, puro e senza altro
scopo che esistere. Sentimi, Felice,
anche quando ti dicono è peccato, non
ci credere, cercalo, l’amore,
attraversalo, pianta questi tuoi occhi
che vedono storto, e le mani sghembe,
le gambe al contrario. Pianta tutto
dentro di lei, tocca quello che puoi,
coppe, ricami e rossori.
Ama, e se puoi fumati pure una
sigaretta.

Non so cosa capissi di tutti questi


discorsi, i miei, quelli di Tilde o del
dottore Mussumeli, so però che sei
cresciuto senza preconcetti, Felice,
che non hai mai avuto un momento di
malinconia, e sei arrivato a oggi con
una tua fierezza, il portamento
inclinato ma dignitoso, lo sguardo
bruciante e appassionato, e quel
sorriso, un abisso, una strada, un
viatico.
A volte, quando mi scruti
strizzandomi le gengive a mo’ di
segnale, penso che la normalità è solo
questione di postazione, e che varia a
seconda della trincea dietro la quale
ci acquattiamo, dei sacchi di sabbia
sotto i quali abbassiamo la testa, di
dove miriamo quando sbuchiamo un
attimo allo scoperto, il cielo a
lacrimarci addosso una luce a picco,
rapace, concubina.
E allora penso che dobbiamo
sembrarti tanti mostri, Felice, con le
nostre apparenze, con quell’arroganza
che ignora la fine, con quell’illusione
di eternità che ci rende futili e senza
pace, o con quella pretesa di sapere
cosa accadrà domani.
Persino io che non ho fatto che
leggere libri, chiusa nei lucernai e
nelle stanze segrete di questa casa,
facendo aprire porte girevoli,
accedendo alle cantine, ai pozzi senza
luce, alle caverne dove dormivano
botti di vino, bauli colmi di anime
salve o dannate. Persino io che dai
libri ho imparato la compassione,
quanto devo sembrarti cattiva, Felice,
quando dimentico la sanità di questa
mia bocca che parla, di questo corpo
che si muove, di queste ossa senza
incrinature o sbecchi.
Quando dimentico che tu sei lì a
guardarmi.

Cara zia,
se non rimedio almeno un altro allievo la
mia classe verrà cancellata.
Lo ha decretato questa mattina il signor
direttore portandomi, trionfante, una
lettera del comitato scolastico.
“Illustrissimo maestro Mancuso” c’era
scritto, “sebbene onorati della sua
prestigiosa presenza presso il Maria
Montessori, e consapevoli altresì delle
sue molteplici conquiste accademiche,
siamo dolenti nel dover constatare che
la tipologia del suo insegnamento mal
si confà alle esigenze educative dei
nostri allievi. Dobbiamo istruire gente
semplice, maestro Mancuso, gente che
a fine licenza elementare deve giusto
saper sommare due cifre, fare
divisione e moltiplicazione, leggere il
giornale per apprendere quel poco
che serve del mondo. Non hanno
bisogno, i nostri allievi, di divagare
con la fantasia, che è una delle
nemiche principali della disciplina e
della produttività. Né devono perdere
ore di insegnamento solo per
decifrare racconti, tornando a una
lingua lurida e senza cultura. Il
comitato infatti non approva la sua
idea di insegnare i canoni e i
fondamenti della lingua attraverso
l’esempio, leggendo il testo. Né quella
di interpretare i personaggi usando il
dialetto. I libri sono una cosa, esimio
professore, e la vita un’altra. Il
comitato ha pertanto acconsentito al
mantenimento della sua classe, allo
stato formata da un residuo di nove
allievi, a patto che vi adeguiate ai
metodi di insegnamento tradizionali e
che almeno un altro studente si
inserisca, dato oltre tutto che il
regolamento prevede che le classi
siano formate come minimo da dieci
allievi. Il termine ultimo è il 17
dicembre 1938, scaduto il quale la
classe verrà assorbita nelle altre e Voi
fatto rientrare in sede”.
Da Lenzavacche, 22 settembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO SETTIMO

D i tuo padre non è mai ora di


parlare, è una di quelle cose che
nella vita si portano dentro come un
voto, un tabernacolo da non aprire
che in punto di morte. Sarà per
questo, Felice, che non indugiai a
chiedere parentele, non presi appunti
sulle sue origini, sulle ascendenze o
sugli astri, come Tilde mi
raccomandava sempre di fare. Non
badai a Venere in crescenza e a
Mercurio che profetava sventure, non
calcolai se la luna avesse completato
il suo viaggio e se la costellazione del
cancro fosse in ascesa.
Era a Lenzavacche per caso.
Vendeva arnesi da cucina, arrotava
coltelli, spuntava vecchi ferri da
calza. Spassava dagli usci come
un’ombra penitente, raccoglieva e
riparava, non scambiava che poche
parole, «Sua signoria ha punte da
arrotare, ha spiedi, ha lame che non
tagliano più?», questo chiedeva, e
questo mi chiese, una mattina tra
tante, che Tilde invocava fantasmi e
io avevo appena smesso di leggere.
Non notai subito le ciglia affannose,
increspate. Non notai la bocca che
smorfiava come una vela storta, le
mani che già supplicavano, il petto
rapace e grosso, punteggiato d’un pelo
aspro. No. Notai solo l’inflessione colta
tra le poche parole che diceva, vidi
che dalla sacca di coltelli e punte
emergeva la copertina di un libro, che
le mani erano ombreggiate di
inchiostro.
E invece di rispondere, feci una
domanda: ma Vossia ama i libri?
Come ha fatto a capirlo, sembrò
dire, svacantando le pupille e
sentendosi scrutato fin dentro il
cuore.
E io: lo capii, sorrisi, e farlo entrare
fu semplice e necessario.

Entrò, dunque. In cucina,


sistemandosi accanto alla piattaia in
cui nonna Tilde accumulava pezzi di
cantri sbeccati, frammenti di
porcellane, biscuit fuori moda, resti –
Felice mio – cui dava significati
nascosti per la forma, il colore, la
data in cui si erano rotti.
Quella mattina era toccato a una
quartara di creta dove conservava
l’aceto. Un urto improvviso l’aveva
spaccata facendo versare all’esterno
tutto il rosso. «Sangue di parto» aveva
detto sicura, lambendo il ventre
aperto, da cui zampillava un liquido
acre, simile a un fiotto.
Quando tuo padre entrò, l’aria era
ancora pregna di un gusto acido, e
Tilde aveva ammucchiato i cocci rotti
in un angolo, per esaminarli dopo con
attenzione.
Tuo padre invece non fece caso ai
mobili di ebano scuro, da cui
trasudavano vecchi codici e ampolle
di erbe. Né alla tavola su cui
torreggiava un bollitore, alla tovaglia
ricamata con fili diversi, alle piume
di struzzo che un antenato distratto
aveva portato in Sicilia da un viaggio
meraviglioso. Si fermò al centro della
stanza e obbedì all’unico richiamo che
volle sentire.
I libri, Felice, e con essi io che li
leggevo.

Cara zia,
trovare un allievo è un fatto di destino.
Se si aggiungerà alla classe resterò,
altrimenti tornerò da dove sono venuto, e
del mio passato non saprò altro. Al più,
ripensando a questo lembo di Sicilia che
s’acconca su un gomito di mare, che hanno
chiamato Lenzavacche in onore di un
barone mandriano che fece fortuna coi
bovini, mi ripiegherò in una sospirata di
nostalgia.
Oggi è una giornata di fine settembre che
non ha nulla di autunnale. Qui le stagioni
ragionano a modo loro, invertono il senso
del tempo e dei ricordi. Questo caldo denso,
per esempio, che a respirarlo tracanni
anche una manciata di sabbia del deserto.
Pare tutto meno che un anticipo di inverno.
Non ho molto da fare, quando suona la
campana.
I pochi allievi rimasti escono senza
rumore, riordinando gli oggetti scolastici, i
pennini dalle punte storte, i quaderni
arricciati agli angoli, che leccano con le
dita per evitare che si arrotolino. A me
invece piacciono quelle carte con le
orecchie, imperfette e putride dei segni di
penna. Non levigo mai la pagina, non la
voglio né liscia né pulita, soprattutto se è di
un libro. Lascio segnali, sottolineo parole,
prendo appunti a margine e odoro la
stampa fino a inalarne un gusto polposo,
aspro. I miei libri sono creature vive,
sporche e sobbalzanti come un gatto di
strada, o come un merlo caduto da un nido
che sussulta sulle ali troppo deboli.
Preferisco così, che le tracce di questa mia
vita storta e negligente, che non vuole mai
raddrizzarsi e darsi un contegno, restino
appese alle copertine, ai titoli, alle storie
millenarie di altri uomini come me, poeti
senza giudizio che alleviano la fatica
d’esistere con una parola o con un verso.
Da Lenzavacche, 25 settembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO OTTAVO

Q ualche giorno dopo raccontai a


Tilde che avevo fatto entrare tuo
padre, che lo avevo amato di slancio,
che non sapevo nulla di lui se non che
lo chiamavano “il santo” e che mi
apparteneva.
Mi aspettavo un manrovescio, una
ramanzina, un richiamo alla decenza.
Ma Tilde sospirò, sorrise, disse solo
che Dio ci aiuti, adesso, figlia mia. E
corse in cantina a prelevare la
vecchia culla di famiglia carica di
incisioni, perché a ogni figlio le
streghe aggiungevano l’iniziale di un
nome.
Io la presi per una delle sue solite
trovate, Felice, sospirai di sollievo e
mi predisposi ad attendere
nuovamente tuo padre.
Raccolsi i capelli, indossai una
veste in broccato, scelsi dai cassetti di
Tilde collane ramate, ciondolanti,
chiassose di sonagli dalle forme più
strane. Amuleti, croci, conchiglie,
resti di sassi, nodi della fortuna,
piume di colombe morte d’amore. Mi
affacciai alla finestra non appena
sentii il suo grido: Arrotinooo… e vidi
che lui pure avanzava senza chiedersi
altro, pronto a inabissarsi nel nostro
mistero, quel mondo che creavamo
stando l’uno nell’altra, un mondo
senza spettatori, Felice, tranne te che
già ci osservavi, acquattato, dal fondo
del mio corpo.

Non mi chiesi mai che fine facesse


Tilde quando tuo padre veniva a
trovarmi. Semplicemente spariva
un’ora prima che il suo grido, quasi
un urlo garrito da un becco di gallo,
ne preannunciasse l’arrivo. Né so
come facesse a intuire che lui era lì,
perché tuo padre, tranne per quella
voce, non faceva rumore.
Caricava il mulo di pitali, vasi in
ferro e rame, ruote affilacoltelli,
manici rotti, chiodi per appuntare
piatti. La merce ballava con
l’ondeggio del mulo, arrancava nelle
salite, scivolava nelle discese. La creta
dei vasi ammolliva sotto il sole, le
lame rosolavano al fuoco dei raggi, i
sacchi di tela raccoglievano ragni
inebetiti dal calore e ratti in cerca di
ristoro. Ma tutto avveniva senza alcun
suono che non fosse il suo respiro
ansante, caldo, in procinto di
mescolarsi col mio.
Gli lasciavo la porta socchiusa e un
filo di luce che si appiattiva sotto la
fessura dell’ingresso. Lui la spingeva
lentamente, e si dirigeva sicuro su di
me, sollevato come un malato a cui sia
dato un boccone di miele, istallandosi
nella mia carne, restando ad abitarvi
fino a che il sole scoloriva, l’afa
scendeva, il mondo resuscitava dalla
maledetta ferita in cui l’estate lo
sprofondava.
Lasciava la camera da letto quando
il paese si ripopolava lentamente, e le
donne uscivano intronate, confuse
dall’afa, gli occhi a mezz’asta per la
luce che ancora tagliava i capelli
appiccicati di sudore.
Gli uomini ricomparivano più tardi,
dissennati, infedeli, con le braghe
calate, le cosce pelose, la camicia
spiegazzata di chi ha consumato le ore
più calde tra le lenzuola.
Era dopo i pomeriggi più ardenti
che Lenzavacche si popolava di
fantasmi carnali e viziosi, pronti a
scomparire col buio, sullo scampanìo
di colpi che padre Maimone faceva
schioccare inutilmente per indurre al
pentimento e ristabilire l’ordine.

Cara zia,
trascino questi giorni in attesa che un
allievo voglia unirsi a me. Dove trovarlo?
Perché mai uno scolaro di un’altra classe
dovrebbe lasciare i propri compagni e
scegliere il maestro Mancuso?
Nella mia sezione sono rimasti i più
poveri, figli di contadini scotennati dalla
fatica che si addormentano sul banco e per i
quali non fa differenza che ’u maestru sia
sano o malato, saggio o pazzo, taciturno o
rumoroso. Hanno bisogno di imparare come
si fa a leggere qualche riga, perché i loro
padri temono che possano essere beffati dai
più astuti, quelli che sanno scrivere, e che
con contratti pomposi o quattro frasi a
effetto potrebbero irretire la loro fiducia,
facendogli firmare atti svantaggiosi.
Per questo vengono a scuola. Per
imparare quel poco che li salvi
dall’inganno, per tirare di conto in bottega e
capire il denaro, scansare le truffe, battere i
furbi sul loro stesso terreno.
Le altre classi sono invece piene di figli di
professionisti affermati, un avvocato, un
notaro, proprietari terrieri e famiglie di
buon censo che si sono volentieri allineate
al regime.
Li vestono con le divise nere dei lupetti e
li allevano come una brigata di soldatini di
piombo, sono appagati e soddisfatti, mai
sfiorati dal dubbio, carichi di certezze.
Somigliano a quelle statue di imperatori
romani che il marmo rende levigate, il capo
cinto d’alloro, l’indice puntato, le labbra
crude e maschie, una toga buttata di sbieco
sulla spalla e il codice di Giustiniano tra le
mani, pronto a sbriciolarsi al primo
scossone.
Ti abbraccio, cara zia.
Da Lenzavacche, 30 settembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO NONO

P assò così quell’estate. Aspettando


il grido dell’arrotino, un urlo che
Tilde presentiva almeno un’ora
prima, giusto il tempo di lasciarci
soli, allacciati, corpo su corpo come a
consolarci di una fine imminente.
La casa, frattanto, cambiava, si
adattava all’inaspettata frequenza di
un uomo, si allargava per accoglierlo,
si vestiva di lenzuola merlate, di
spugne soffici, di vasi di fiori.
Erano anni che non ospitava un
marito, un padre, un amante. E le
pareti scolorirono, l’aria si fece
evanescente e profumata, la ghiaia
del vialetto prese a risuonare di colpi
secchi, ritmati, quasi a imitare la
sincope del cuore.
La mia camera da letto rimase
oscura per gran parte del giorno,
ombrata per preservare il letto
dall’afa e consentire a tuo padre di
amarmi tra il cotone fresco dei
cuscini, il baldacchino di veli, i libri
che crescevano intorno a noi come
fusti d’albero secolari. Leggevamo tra
un amplesso e un altro, ci ridevamo
addosso, piangevamo, e
ricominciavamo quella danza
inesausta di ondeggi: tuo padre mi
accarezzava il viso, i seni abbondanti,
il ventre scarnificato dai digiuni che
Tilde mi imponeva per lavare la colpa
di un amore senza regole. Ma era
l’unico rito a cui mi sottoponeva tua
nonna, Felice. Per il resto leggeva
trasognata il suo quaderno di
famiglia, annuiva a un destino che
pareva già scritto, sospirava con
rassegnazione e scompariva un’ora
prima che tuo padre gridasse:
Arrotinoooo.
Quello era il momento in cui mi
predisponevo ad aspettarlo sull’uscio,
a mostrarmi a lui con aria molle e
sognante, una mora formosa, dal
temperamento svampito e fiducioso,
che si era data a lui senza
corteggiamento, senza anticipi e
segnali.
Senza neanche domandargli il
nome.

Le venute di tuo padre a casa non


passarono inosservate. Qualcuno si
prese la briga di seguirlo, di
verificare a che ora entrava e a che
ora usciva, di segnare la sua
permanenza su un documento. La
notte potevo sentire le ruote di carri
che sostavano davanti alle finestre
per sorprenderlo, il crepitio delle
fiaccole pronte ad ardere un ceppo
della vergogna, le risate delle donne
maritate, del notabile don Tuccio
Barrafranca, vice del Podestà
Moncalieri.
L’ultima legge del regime voleva
famiglie numerose, legali, con una
discendenza certa e rispettabile,
meglio se ancorata a salde tradizioni
agrarie, a possedimenti terrieri e
generazioni ben messe.
Io e Tilde eravamo invece le eredi di
una stirpe di indovine, avevamo una
casa di memoria incerta, dominata da
dicerie e misteri, non vantavamo
mariti a darci nome o famiglia, né
mostravamo di regolarizzare l’amore
che era venuto a visitarci con una
celebrazione o un rito.
Eravamo disordinate e campestri,
ma non per spregio all’armonia, solo
per un eccesso di immaginazione.
Preferivamo affidare l’amore alle
evenienze della sorte, ci arrendevamo
docilmente ai suoi momenti,
credevamo con fermezza che l’unione
tra un uomo e una donna fosse da
ricercare in una profezia secolare,
alla quale era impossibile sfuggire.
Era accaduto anche a Tilde con mio
padre Pietro, a cui aveva regalato il
corpo e l’anima senza rimpianti,
restando poi fedele alla sua memoria.
Quando morì, lo lavò come un
neonato, lo insaporì di un velo di
zucchero e lo pianse senza smettere di
pronunciare il suo nome. Fu una
veglia che durò diversi anni, dalla
quale si riebbe solo quando lesse nel
cielo l’arrivo di uno straniero.
Allora si scosse e cominciò ad
adattarsi alla sua vita di vedova,
sebbene non si fosse mai sposata,
Felice, ma non perché deplorasse il
matrimonio, semplicemente perché
nei lunghi anni d’amore con tuo
nonno entrambi lo avevano
dimenticato.

Non ci volle molto perché a


Lenzavacche si spargesse la voce che
avevo un amante. «E certo»
spettegolarono le vicine sugli usci, «e
certo… che cosa potevamo aspettarci
dalla figlia di quella madre, e certo»
proseguirono le nubili, con la veletta
della domenica calata sulle fronti
aggrottate, gli anelli alla mano
destra, i guantini stretti nella sinistra
a coprire quell’anulare che non si
cingeva mai di una vera d’oro. «E
certo» mormorarono tutti all’unisono,
quando la luce s’ammansiva, il giorno
squagliava, la notte dava a ciascuno
una casa in cui tornare, un letto, un
nome, un passato. «E certo, è
generazione di scellerate e senza Dio,
di concubine e mezze buttane».
Ma tutto fu bisbigliato agli angoli,
lontano dalla camera in cui io e tuo
padre sperimentavamo un’unione
sotterranea ed eterna, in cui
aspiravamo l’anima dell’altro con i
baci, e trafugavamo, sequestravamo,
inveivamo contro i limiti della carne,
che per quanto anelasse a fondersi
restava confinata nei propri spazi.
Tuttavia, fossimo stati meno rapiti,
Felice, meno insani, meno ammalati
l’uno dell’altra, avremmo capito. E
saremmo stati più prudenti.
Ma la prudenza non si addice
all’amore, è una nemica
dell’improvvisazione, guasta lo
slancio, la fantasia, la felicità.
In casi come il nostro le streghe non
parlavano mai di amanti o di coniugi,
ma di fiamme gemelle, un ceppo
antico e rarissimo di coppie che
vivono naufraghe sulla terra, e
sbandano fino a che non abbiano la
ventura di ricongiungersi.
Allora passato e futuro tornano a
combinarsi, la nostalgia ha ristoro, la
mancanza si colma, e tutto anticipa il
significato potente e grandioso di un
solo destino.
Il verdetto di Tilde fu chiaro fin
dall’inizio: io e tuo padre facevamo
parte di quella sparuta schiera di
uomini e donne che si trovano dopo un
esilio, un nodo che neanche la morte
annichilisce, che si ostina a
rinnovarsi nelle intemperie, a
resistere alle guerre, alle carestie, ai
riflessi dei diavoli nello specchio.
Forse per questo, mentre ci
amavamo ciecamente, il paese
congiurava.
Tilde sapeva che sarebbe avvenuto,
le foglie di lavanda lo proclamavano,
e così certi fumi di novembre che dai
letti dei morti affaticavano l’aria:
«Scappa, figlia mia, scappa, vi
prenderanno, condanneranno te e lui,
vi denunceranno per concubinato e
adulterio».
«Adulterio?» dissi trasognata.
«Adulterio» confermò mia madre,
che si diceva certa di un altro legame
nella vita dell’arrotino, un voto
nuziale ancora vivo, incombente e
pronto a manifestarsi.
Non le credetti. L’unione con
l’arrotino non lasciava dubbi.
Era mio.
Era mio nel prima e nel dopo, nel
tutto e nel niente, nella cattiva e nella
buona memoria. Era mio quando si
lavava il petto rapace, piantato, con
le mani su cui io sola potevo posare le
labbra, perché se altre lo avessero
fatto avrei percepito l’alterazione
dell’aria e l’incombenza del
temporale. Era mio nelle passeggiate
notturne, in cui vagavamo allacciati e
senza vestiti, evitando le poste che
tentavano di sorprenderci,
trascinando i drappi delle lenzuola e
scansando orde di antenati che ci
ululavano di essere vigili. Era mio in
quel matrimonio celebrato in segreto
e senza testimoni, un rito sacro,
incensato da un ministro invisibile e
misericordioso che non ci aveva
neanche chiesto di dire sì, perché non
assisteva a un’unione, ma
semplicemente confermava che
separazione non vi era mai stata,
neanche quando ignoravamo
l’esistenza l’uno dell’altra, e neanche
se qualcuno, in futuro, ci avesse
diviso.

Cara zia,
a Lenzavacche circola ogni genere di
venditore ambulante. Venditori di aghi e
spille, di legna per il fuoco, di berrette e
panni. Venditori di crivelle e ceste, ’u
scacciapitrali, ’u luppinaru, il lustrascarpe,
i venditori di coppole e persino di sogni, di
presagi e malattie.
Lenzavacche si affolla tutti i giorni di un
grumo imprecisato di vecchi che fanno
sfoggio dell’arte sopraffina del commercio,
s’ingegnano a tirare sul prezzo per tornare
poi al valore iniziale. O che in mancanza di
denaro inventano baratti fantasiosi,
facendoti siglare carte stracolme di
promesse, papelli che non sanno neanche
leggere, a cui affidano il valore
inappellabile della parola scritta: io vi do un
ombrello sano, voscienza, ma voi domani
andate da mia cugina e la convincete a
sposare don Paolino Squassapagghiaro,
oppure vendo tabacco a vossignoria ma voi
in cambio mi leggete la lettera di quella
gran cosa sporca di mia nipote Nunziata, o
io vi vengo a pulire la biancheria ma voi vi
fate tagliare i baffi in tre ciuffi, ché per
levarmi la fattura ho bisogno dei peli
squadrati di uno straniero.
Lenzavacche smercia ogni genere di
oggetto, si affolla intorno alle giocatrici
d’azzardo che sorridono dalle fessure buie
della bocca sputando sulle carte della
fortuna. Ciò che la scandalizza nella vita –
peccati, impurità, passioni – reputa lecito al
mercato, e vende senza vergogna pillole per
l’amore, mentucce per accendere i sensi,
glutei discinti da far palpare ad adolescenti
fervorosi, pronti a rubare monete dai
cassetti dei padri pur di sfiorare una donna.
Nessuno si stupirà dunque se vado in
cerca di allievi.
Un maestro ambulante non sarà usuale,
ma non vedo rimedi, cara zia, entro
dicembre devo ripopolare la classe almeno
di un elemento, e voi sapete che non posso
permettermi di rientrare.
E poi. In passato i maestri sono sempre
stati maghi e girovaghi, insegnavano nelle
piazze, piangevano con gli allievi, li
allevavano come discepoli ardimentosi.
Mi farò quindi musico, corsaro,
mendicante e pazzo, ma busserò fino a
trovare qualcuno disposto a seguire il
maestro Mancuso, dritto o storto, non
importa.
In fin dei conti, cerco solo uno studente
disposto ad ascoltare le mie storie.
Da Lenzavacche, 3 ottobre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO DECIMO

N ei primi mesi di vita, la


comunicazione con te è stata una
strada per veggenti, per lunatici e
artisti, Felice, ma le madri sono
abituate a leggere i misteri, a sondare
i limiti tra il reale e l’irreale, a
raccogliere segnali.
Fin dalla nascita sanno di essere un
guscio che deve avere pazienza, un
santuario dentro il quale bisbigliare
invocazioni.
Per questo i tuoi borbottii non mi
hanno mai scoraggiata, né i
movimenti a scatti, i gesti balordi che
sin dall’inizio mi hai riservato.
Lo so, ad altri potevano sembrare
solo un sintomo di quel male che ti
possiede, ma io continuo a portarti nel
mio corpo, Felice, anche se ti ho
partorito mentre tua nonna levava al
cielo ogni genere di preghiera, e posso
vivere per due, se tu non puoi, posso
essere i tuoi occhi, le tue gambe, le
tue mani, posso afferrare per te i
pensieri, farti gorgogliare tra le
acque del mare, e poi inabissarti con
me accanto, e volare, e correre, Felice,
fino a farti annaspare per il fiato che
manca, le vene che pungono, le risate
che dal cuore ti affiorano alle labbra,
da cui sputi sempre un po’ di saliva.
La mattina ti sveglio con un soffio
leggero sugli occhi. Arricci il naso e
mi guardi mentre ti metto su, passo
un panno bagnato sulla fronte,
asciugo il sudore e le lacrime della
notte.
Poi ti bacio i piedi goffi, le dita
simili a formiche dispettose. E ti dico,
sei bello, Felice, sei bello, figlio mio,
figlio di padre conquistatore, fiato,
ferita aperta.
Tu al solo sentire la mia voce mordi
l’aria con un urlo stonato, fai bella
mostra dei tuoi pochi denti, rovesci le
orbite, inciampi sulla risata che ti
illumina quel viso su cui si è posato
ogni uccello di passaggio, e che pur
così maldestro, è il riflesso di una
innocenza antica, traballante e
stupefatta.
Nonostante tutto, perfetta.

Cara zia,
mi sono installato a un angolo del
mercato, tra Ciccina la pilucchera e
Santocono Ignazio, venditore di
sanguisughe, non ho merce da esporre, né
banchi o attrazioni, solo un cartello con su
scritto: “Maestro Mancuso” che però non
attira l’attenzione di nessuno.
La mia vicina invece non fa che ricevere
clienti tutto il giorno, arrotolando le chiome
in trecce, ungendo i capelli di olio,
insaponando le teste con radici. Quando le
passo davanti, se la ride sotto due labbra
secche, poi torna a pettinare una donna
stempiata, a cui appiccica con saliva una
vecchia parrucca per dissimulare la
calvizie.
Datemi un inizio, imploro, porgetemi una
sillaba, regalatemi una parola, una sola
parola, signore e signori, bambine e
bambini, venite ad ascoltare il maestro
Mancuso.
Nessuno si ferma se non qualche cane
imbambolato dal caldo, a cui la mia ombra
senza pace regala un minuto di ristoro.
Ma resisto. All’afa, all’indifferenza, ai
sorrisi sbruffoni degli altri mercanti. Me ne
vado solo quando il tramonto smuore sulle
strade più anguste e malinconiche, dove
sembra restìo a regalarmi un ultimo raggio
incantatore.
Domani tenterò ancora, cara zia. E presto
avrai mie notizie.
Da Lenzavacche, 15 ottobre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO UNDICESIMO

L a prima volta in cui ho sentito che


c’eri, la luna fermentava sul
mare. Lo conosci, Felice, il mare di
Lenzavacche. Coi suoi risucchi,
gorgoso, sfibrato dal riflesso delle
stelle. Disteso senza dolore,
sull’argento delle pinne dei pesci o
sulle ali di polpi giganti.
Hai picchiato piano un colpo, uno
spasmo che mi avvertiva e mi
implorava.
Non mi lasciare.
La voce mi arrivò da una direzione
inafferrabile, e mi voltai per capire
chi l’avesse pronunciata.
Tuo padre giaceva riverso. La
schiena arcuata. I glutei arroccati, le
cosce forti e intrecciate di peluria.
Dormiva.
Osservai gli occhi serrati. La bocca
schiusa. Il respiro che gloglottava
dopo i baci. E l’amore mi prese di
spalle. Mi morsicò. Una tensione
intima e dolorante di tutto l’essere, un
taglio di netto, affilato e preciso che
mi trascinava dentro, e fuori, nel
passato, nel futuro, prima di lui, dopo
di lui. Vidi tutto chiaramente in un
momento solo, completo e
abbacinante, i cui tratti mi si fecero
innanzi chiarissimi, creando
un’immagine perfetta, che potevo
quasi toccare.
E così lessi nel tempo: io e te, Felice.
Senza tuo padre.
Non ti lascio, risposi.

Fu in quel momento. La luna si


oscurò di colpo. Vaghi latrati di cani
in sottofondo. I passi si fecero sempre
più vicini, e furono una corsa, e una
marcia e un assedio. Le grida vennero
dopo. Guaiti osceni che rompevano
l’immobilità della notte, l’attesa di te,
quel rollio nel mio cuore che già ti
preannunciava.
Tilde non c’era. La casa giaceva
indifesa, aperta, pronta a farsi
saccheggiare. Si udivano parole
strane, frammenti di una lingua
scabra e inospitale. Per chi era
quell’accusa che volava sul tetto, ed
entrava nella stanza, e sulle lenzuola,
sulle rupi che scoscendevano dal
corpo di tuo padre?
I tamburi presero a furoreggiare.
Colpi secchi, ritmati, di una marcia
lenta e funebre. Dalla tenda della
camera da letto iniziammo a
intravedere fiamme lunghe, portate
da uomini incappucciati, le mani
chiuse nel saio, l’andatura oscillante,
le labbra in preghiera a borbottare
una strana litania: «Peccato suo è
stato credere alli sogni et alli incanti,
alli indovini et alle stregherie».
E ridevano, e piangevano, e
ruminavano un mugghio sinistro, di
capre mannare.
Non capimmo che erano venuti a
prenderlo. Quando irruppero in casa
era già troppo tardi. L’arrotino fu
issato a forza su una lettiga,
imbavagliato, cinto alle caviglie e ai
polsi.
Era nudo.
Sul pube gocciarono le aspersioni di
acqua benedetta, le particule di olio
santo e pane, il sangue sciolto di un
martire contenuto in una polla d’oro.
Io implorai, trattenni, urlai al
punto che ti feci trasalire di terrore.
Non ci fu il tempo di un addio, di un
ultimo bacio da imbavagliare fino alla
vecchiaia, non ci furono le parole con
cui ci lasciavamo tutti i giorni –
anima, cuore mio – né le carezze
interminabili di ogni saluto, e non
diedero alcun modo alla carne di
decifrare quella separazione, o alla
famiglia che già eravamo di unirsi a
piangere il morto.
Riuscii soltanto a mettere la sua
mano sul mio ventre prima che lo
portassero via. Sotto il suo tocco,
guizzasti come un pesce impazzito.
Capì. Sorrise.
Di te ha fatto in tempo a sapere solo
l’essenziale, Felice.
Che esistevi.

Cara zia,
oggi al mercato un paio di allievi si sono
fermati incuriositi. «Che fa, ’u maestru
Mancusu, cchì vende, patate arrustute,
sparagi, tenerumi?».
Sulle prime hanno pensato che fossi lì a
proporre verdure, o a smerciare qualche
conserva preparata per l’autunno. È tempo
di estratto di pomodoro, questo, di olive e
mandorle, è tempo di miele e biscotti secchi,
da contenere nei vasi di vetro per tutta la
stagione.
Quando hanno capito che ero lì per
raccontare storie si sono guardati di sbieco,
hanno controllato che nessuno dei genitori
fosse nei paraggi.
Infine mi hanno bisbigliato all’orecchio:
«Che, ce la dice quella di Giufà?».
E cominciai a raccontare. Di Giufà, di
come fu che scambiò lucciole per lanterne e
si fece rubare una pentola, un maiale e un
pollo. Ridevano, si sganasciavano, e
aumentavano, zia, aumentavano. Fino a
che ebbi innanzi un gruppetto folto e
irriverente, che esultava e nitriva come in
un raduno di puledri imbizziti, ma pure si
commuoveva se dicevo che Giufà la notte
cercava una mano, che dal letto in cui
stava, alto su quello degli altri fratelli,
volavano goccioloni di lacrime, e che la
mattina lo trovavano incastrato tra le
lenzuola, sudato e triste, come se tutta la
spensierata e apparente stupidità che
ostentava gli pesasse sul cuore con
amarezza.
Il più piccolo, Nitto, mi si avvicinò
impensierito, si scaccolò e faticò non poco a
disincagliare i pantaloni dalla fenditura del
sedere. Con la stessa mano si asciugò gli
occhi, il moccio e la bocca. Infine me la
porse con un gesto cerimonioso.
La strinsi senza indugio, cara zia.
Forse è un inizio.
Nei prossimi giorni ti saprò dire.
Da Lenzavacche, 27 ottobre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO DODICESIMO

Q uando Tilde rientrò, dopo che lo


avevano portato via, la casa era
sottosopra, i cimeli degli avi
trafugati, le erbe sparse sui
pavimenti. La vecchia credenza era
stata capovolta e sulle pareti una
croce nera, uncinata, brillava e
lasciava colare residui di pittura.
Sul balcone ancora aperto
sventagliavano i lembi del
baldacchino dove io e tuo padre ci
eravamo amati.
Il cuscino, acconcato, era inciso dal
segno della sua testa.
Ora so, Felice, che a ogni amore è
concesso un tempo, e che non sempre
questo spazio breve, miracoloso,
colma le nostre attese. Anzi.
E tuttavia quel tempo è l’unica
eredità che posso consegnarti, l’unico
destino a cui annodare uno scocco di
campana che ti avverta: questo è tuo
padre, questa è la tua discendenza.
Non voglio che ti senta trascurato
dai fantasmi, Felice, dalla schiera di
anime che in fila doppia – i manti
filettati di rosso – incede tra il cielo e
la terra. Voglio che tu possa vederli
che spassano tra i canti di morte e di
gloria, il vecchio zio arciprete in
testa, la Madonna in cima col suo capo
cinto di stelle, e i santi arrugginiti
che sorridono dalle nicchie. Voglio che
tu sappia che sei stato il benvenuto
tra i vivi e tra i morti, e che gli uni e
gli altri al tuo arrivo hanno acceso
candele.
Ma per adesso conosci solo nonna
Tilde, e devi sapere che tra tutti
coloro che ti hanno preceduto è stata
la tua più grande benefattrice.
Dopo la razzia non disse una parola.
Si chinò sulle ampolle spezzate, sul
letto disfatto, sulle briciole di vetro.
Ripulì, cancellò i segni della
barbarie, il trambusto della cucina, le
scie di resti che quell’invasione lasciò
per casa. Poi mi sollevò con lentezza,
mi fece adagiare sul letto e si occupò
solo del mio ventre.
Senza sapere che già c’eri, lo
massaggiò, lo asperse di olio, disse
parole d’amore.
Rotolai in un buio ossuto, senza
abbagli.
Prima di scivolare nel sonno, feci in
tempo a vedere Tilde che indossava il
vecchio abito nuziale mai usato,
invocava tuo nonno, mesceva pozioni
liberatorie che avevano il compito di
richiamare dall’ombra l’intera
famiglia delle streghe.

Mi svegliai dopo molti giorni.


La stanza era stata riordinata, le
pareti imbiancate, il disordine
rimosso. Quando riuscii ad aprire gli
occhi Tilde era accanto al mio letto,
addormentata, con l’uncinetto lasciato
penzolare nel vuoto, e metà della
coperta che stava confezionando
raccolta ai suoi piedi. Era la coperta
di morte, quella che avevo
l’indiscutibile ordine di sfoggiare alla
sua veglia. Il lavoro era a metà e non
dubitava che gli ultimi punti
avrebbero di poco preceduto la sua
fine.
Era sempre stato così per le
streghe.
Ricamavano scene d’amore perché
si avverassero, allestivano corredi per
neonati che non erano ancora
concepiti, anticipavano tutto con
accondiscendenza assoluta. C’era un
ordine nella natura e nel creato al
quale collaboravano pacificamente,
seguendo la rotta delle stelle cadenti,
inginocchiandosi alla luna pellegrina,
sbraitando preghiere propiziatorie.
Non erano nobili, non erano popolane,
non erano serve né padrone.
Erano una specie venuta su da uno
scarto, e avevano imparato ad abitare
qualunque ambientazione: case e
sagrestie, stalle e conventi, palazzi e
casaleni. Non importava. Si
adattavano al dolore, alla gioia, alla
carestia e all’abbondanza.
Erano abituate a uomini randagi, a
figli senza antenati, a sposalizi
dell’anima che nessun registro
ecclesiastico avrebbe mai segnato.
Festeggiavano i propri momenti
accendendo lumi, accalcando nei vasi
fusti di serpillo, coprendo gli specchi
con panni.
Nessun riflesso, infatti, era
ammesso, nessun atto di vanità. Gli
anniversari delle streghe erano intimi
e solitari, rievocavano dolori e marce
nuziali senza riso.
Adesso che anche tu hai l’età
giusta, ti coinvolge nei suoi riti e nelle
sue celebrazioni.
Ti insegna a soffiare sulle creste dei
veli da sposa, ti culla senza badare al
fatto che sei diventato alto e
magrissimo, un uncino regolato solo
dal vento, dalla fortuna e dal
coraggio.
Ti raddrizza senza tante cerimonie
quando stai per barcollare e ti ricorda
che sei l’unico erede maschio di una
frotta di ave instupidite, Felice,
ragione per la quale non puoi
permetterti il lusso né di cadere per
terra né di piangerti addosso.
Tuo padre non lo vidi mai più.
Chiesi ovunque, fermai gli ambulanti,
scrissi lettere al Podestà, interrogai i
paesani.
Nessuno aveva visto, nessuno aveva
sentito… Una notte di spasimi e
rivoluzione, e che voleva mai dire? Me
l’ero di certo sognata, donne come me
chissà che erbe raccoglievano, arbusti
intaccati dal maligno, radici sabbiose
e ravani della follia. Si diceva che
inducessero sonno e cattiva
digestione, e forse non era che questo
l’arrotino: un vagheggiamento. Quella
notte tutti avevano dormito come
angeli, non un disordine, non un
rumore, non un fiotto d’aria storto.
Le cicale russavano la loro melodia,
le civette uggiolavano senza odio, e il
buio copriva ogni cosa, placido e senza
risentimento.
Non c’erano dubbi, rise il Podestà. O
ero pazza, o ero una strega.
Non mi rassegnai, Felice. Ogni notte
indossai la veste del nostro amore,
scelsi i libri prediletti, cominciai a
leggere ad alta voce le storie con cui
interrompevamo gli amplessi.
E tuo padre riappariva.
Era lì, in quella terra di mezzo,
salvato miracolosamente dagli
attacchi cattivi della vita e della
morte.
Non c’erano barriere in quella
striscia sottile tra realtà e irrealtà in
cui andavo a trovarlo. In essa
albergavano tutti i residui del tempo,
ogni cosa che gli esseri umani
trascurano o allontanano, gli esclusi, i
dimenticati.
Era un mondo di avanzi, quello delle
storie, di esiliati e di liberati.
E anche io imparai a farne parte.

Cara zia,
è avvenuto di nuovo.
Li ho trovati al mercato già pronti,
riuniti in crocchio, come un drappello di
reduci bisognosi di cure.
Ho iniziato a raccontare un’altra storia, e
un’altra e un’altra ancora. E tutti mi
chiedevano la stessa cosa, ma com’è,
maestru, com’è che la vita pare un’altra se
viene raccontata. Com’è che pure la morte
non ci fa scantu, maestru, com’è che ci
viene coraggio.
Ho sorriso.
Non ho risposte da dare a questo
manipolo di anime senza progenitori
letterati, senza scaramucce poetiche e
senza altari al Dio di tutti i narratori. Le
poche storie che hanno sentito sono
memorie familiari, mormorate dalle donne
in cucina, sempre svelte e intrafficate, i
grembiuli con le tasche gonfie di avanzi,
erbe e bucce di patate. Qualcuna racconta
di quella e di quell’altra, di una zia martire
che riposa in una cripta, o di stalle dove
un’antenata maledetta lasciò l’onestà e fu
perduta per sempre.
I bambini non capiscono, hanno tratto le
somme e hanno semplicemente concluso
che se entri in una stalla diventi disonesto,
e quando hanno chiesto un’altra storia alle
madri quelle si sono fatte leste un segno sul
cuore, li hanno storditi con benedizioni,
hanno pensato che la curiosità è l’arma del
demonio e dei fannulloni. Zitti, zitti, hanno
intimato, e i bambini si sono atterriti,
pensando che una sfoglia di calore stesse
per inghiottirli, una lama come quella
dell’inferno, mostru creatu e mostru
chiamatu, Dio ci liberi, Padre, figlio e Spirito
Santo.
Perciò delle storie hanno questa idea
confusa e colpevole, che nessuno ha pensato
di sfatare.
Dunque mi guardo bene dal dir loro che
le storie sono un mistero, e taccio come un
re pensatore o come uno di quei buoi ciechi
che i padri conducono al mercato, le soghe
pendenti dalla schiena, l’aria bastonata, il
morso ruminante. Sembrano indifferenti
alla fatica e al sudore, al caldo che ristagna,
alla malaria sonnacchiosa che le zanzare
spandono succhiando sangue, ma aspettano
comunque la notte, il sollievo, l’ora in cui
tutto accade.
Ti bacio cara zia, e presto ti saprò dire.
Da Lenzavacche, 8 novembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO TREDICESIMO

D opo la tua nascita io e Tilde


riorganizzammo la casa.
Abitavamo in un casolare alle porte di
Lenzavacche, poco distante dalla
strada mastra.
Era stata una villa di caccia, con
tanto di statue e arricciamenti, pietra
bianca a tondeggiare sulle navate,
fiori di pietra che sbocciavano dai
muri. Si diceva che nel Seicento
avesse ospitato una famiglia di donne
di dottrina, perché c’era una sala
delle scienze colma di animali
impagliati, aironi, cicogne, corvi,
gazze. Non mancavano neanche i
rettili, e animali sotto spirito che non
riuscivamo a codificare.
Tu eri affascinato da quel mondo,
Felice. Credo che fosse perché lì non
avvertivi alcuna differenza, dato che
molte di quelle creature ti
somigliavano.
D’altra parte non ho mai evitato
che prendessi atto delle tue forme o
che ignorassi le tue imperfezioni, e fin
da piccolo ti ho messo davanti allo
specchio. Non fuggire quello che sei,
figlio sbalestrato e sognatore, ti
dicevo, avessi anche otto zampe e
cento lingue, guardati Felice,
guardati.
E tu guardavi, gli occhi spaesati, le
orbite rotolanti, la bocca arrugginita.
Tentavi di allungare la mano verso lo
specchio, sfioravi la superficie e
borbottavi.
Io appoggiavo la mia guancia alla
tua, e il riflesso ci catturava
appiccicati e senza continuità, un
mostro a due teste, quattro braccia e
molti denti, quanti ne riuscivamo a
mostrare ridendo davanti alla nostra
immagine allacciata, senza ordine né
controllo, quasi il frutto di un mago
indisciplinato, privo di buona creanza
e succube della fantasia.

Tilde non si diede pace finché la


casa non si adattò a te. Abbatté
scalini, lisciò spigoli, allargò entrate e
macchinò per uno strumento
ingegnoso che con un sistema di traini
ti sollevava fino al primo piano.
Con l’aiuto del farmacista
Mussumeli ti costruì un portentoso
palo che ti teneva dritto, ti disse che
stavi di vedetta su una nave e per
questo dovevi rimanere ben saldo, non
fu patetica né tenera, e a ogni
incertezza ti rimbrottò come il
peggiore dei comandanti con la sua
flotta.
Ti insegnò a guardare le stelle, a
distinguere Venere da Mercurio, ti
fece fiutare l’odore salmastro della
marea e ci confuse al punto che la
mattina calavamo le reti dal balcone e
lanciavamo le lenze dal terrazzo.
Fu una custode, una dea
capricciosa, un santa benigna e
incantatrice. E fu madre due volte,
una per te che nascevi, e una per me
che morivo, e a entrambi prodigò vita
e morte, perché sapeva che per
l’arrivo nel mondo è necessaria
organizzazione e vista acuta, per
l’abbandono da esso pietà umana e
senso del mistero.
I paesani che capitavano da quelle
parti sentivano le ruote cigolanti dei
marchingegni di Tilde che si
sollevavano per metterti in piedi,
osservavano l’ombra delle gru che
svettavano come mostri marini e
fuggivano impauriti.
Da lontano la casa pareva l’ombra
di un gigante disteso e con mille
protuberanze, zampe artigliate e
lingue bifide.
C’era infatti l’argano che ti
sollevava, il braccio che ti voltava, un
vecchio grammofono che stonava
ninne nanne e una vasca con
seggiolino in cui sguazzavi come un
paguro dispettoso.
Per questo motivo hai sempre avuto
una postura da principe, un
planetario completo che ti
torreggiava sulla testa e persino una
vecchia poltrona con freni e ruote che
ti avrebbe portato per le strade del
mondo.
Con un pizzico di immaginazione ti
saresti potuto ritenere il bambino più
industrializzato di quei tempi, se non
fosse che dell’evoluzione tecnica a
Lenzavacche avevano tutti un’idea
spaesata e incerta.
«D’altra parte» declamava con
enfasi Tilde, «la modernità è parente
stretta della poesia, è dunque cosa per
artisti e visionari, o al più per un ben
nutrito nugolo di streghe».

Cara zia,
oggi ho ricevuto di nuovo la visita del
signor direttore.
Ha aperto la porta senza bussare, ha
fatto irruzione in aula col petto in avanti, la
voce grossa, il piglio di un poliziotto che
scovi qualcuno con le mani in pasta.
Gli allievi sono scattati ritti sull’attenti,
hanno rumoreggiato per le sedie che
cadevano, mentre le boccette d’inchiostro
rovesciavano in terra tutto il liquido, e il
bidello Pippinu ’u stolitu si precipitava ad
asciugarlo con la carta assorbente.
Il signor direttore ha ruggito alcuni
dettami dell’insegnamento fascista. In
grammatica l’analisi logica avvenga
scomponendo frasi come: “Io ho lavorato
con piacere tutto il giorno” o: “I nemici si
affrontano con coraggio”. Le letture trattino
svariati temi d’attualità, come “La razza
latina”, “Parla il Duce” o “L’emigrazione”.
Siano scopo precipuo della lingua creare
l’“italiano nuovo”, sia poi compito della
poesia instillare il vigor militare.
Ben accetto sia ogni ritornello come
questo: “Pelle dura animo schietto siam
legati a una sorte, con il libro e col
moschetto lotterem fino alla morte”.
Se poi si ha da fare esercizio di scrittura
avvenga in pro delle genti conquistate in
terra d’Africa, ove è sommamente
consigliabile che gli allievi spediscano
lettere ai figli dei coloni, i “tripolini”. Tutto
sia ispirato ai valori sacri del “credere,
obbedire, combattere” e ai tre santi ordini
di impegno: “patria, lealtà, disciplina”.
Capito?
Gli allievi rotolarono tra le lingue un sììì
lunghissimo, un coro ipnotizzato e servile,
che si sciolse nello sguardo del direttore e lo
portò d’impeto a salutarli con un’alzata del
bicipite destro.
Uscì pettuto mentre lo seguiva una scia
di “eia eia alalà”.
Quando si chiuse la porta alle spalle e
tutti ripiombarono sulle sedie, però, la
stanza prese forma di un refettorio o di un
parlatorio, uno di quegli spazi su cui ogni
ora è scandita da uno scampanio
dondolante, e le finestre hanno reticoli da
cui non deve entrare né uscire un filo di
luce.
Nugoli di penitenti coi candelabri in
mano mi sembrarono in procinto di gettarsi
in una bocca di fumo, e ciò che più mi
inquietò non fu che fossero morti, ma che
fossero finiti senza narrare la propria storia,
senza parole di preghiera o d’ira sibilate tra
le pentole e le fiscelle, tra le zappe e le
vanghe, o tra le viti e le botti. Erano una
frotta d’anime senza possibilità di
confessarsi nemmeno in punto di morte.
Decisi che avevano bisogno del mio aiuto,
cara zia.
Da Lenzavacche, 15 novembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO QUATTORDICESIMO

asse che ti tiene in piedi ha una


L’ base di pietra lavica, ma può
roteare su se stesso e consentirti
di cambiare direzione. Tilde ha fatto
installare dal farmacista Mussumeli
un sedile in pelle, su cui ti appoggi
quel che basta per non stancarti. Per
il resto sei tenuto su da cinghie e
fiocchi, cosa che stupisce tutti meno
Tilde, abituata a marchingegni
secolari.
Visto da una certa distanza potresti
somigliare a una vedetta che non
abbandona la torre di guardia, o a una
di quelle sentinelle decise a vegliare
un re indolente e vizioso. Quando stai
impalato così, il tuo sguardo cessa di
vagare e si installa con tenacia e una
certa ilarità, così da farti apparire
sornione.
Ma non lo sei, Felice, piuttosto ti
domina una curiosità famelica per
tutto ciò che ti circonda, lo capisco da
alcune mosse sconclusionate con cui
cerchi di afferrare gli insetti in volo,
o dai movimenti della lingua con cui
blateri frammenti e sillabe.
L’intero paese viene a guardarti,
ma nessuno entra in casa o si
approssima al cortile.
Restano lontani e indagatori, come
se quella rete di meccanismi creata
per stimolarti fosse una calamità da
tenere a bada.
Una volta ho cercato di inserirti
nella vita attiva del paese, ma non è
stata una buona trovata, ancora
adesso si mormora di catastrofi legate
a quel giorno e agli influssi malevoli
che quell’idea ebbe sul destino di
molti.
Ti slego le cinghie, ti metto a sedere
sulle mie gambe e ti racconto, figlio
mio, vieni qui, fatti baciare, so che le
storie ti piacciono e allora ascolta
questa. La intitoleremo: “Quella volta
che pensai che Felice potesse fare il
chierichetto”.

Mi era sembrata una buona idea.


La chiesa ha bisogno di questuanti,
sacristi, campanari, perpetue.
La domenica è affollata e festosa, si
riempie di fedeli arrossati dalla
vergogna del peccato, di madri che
escono dal confessionale con gli occhi
umidi e le mani in tasca, di uomini
che si piegano facendo scricchiolare
l’inginocchiatoio sotto il peso delle
grosse gambe.
È un luogo vivo che risuona di note
d’organo e sonagli, che si profuma di
incenso a ogni celebrazione, che
raccoglie il brusìo, il lamento, la
preghiera, le litanie del lutto e i canti
di lode.
Durante il Sabato Santo, poi, il
vescovo incede pigro con la corte dei
canonici bardati, le scarpette in
velluto a punta, le mantiglie
infiocchettate. Si trascina dietro una
coda tenuta da diaconi
indaffaratissimi, mentre
dall’episcopio scoccano fuochi e
tocchi, e il cielo si incendia di una
bruma mista, fatta di fumo e
coriandoli.
Ecco. In una simile confusione, mi
dicevo, chi baderà al fatto che Felice
sta in piedi con un’asta, chi potrà
distinguere il vero dal falso, e il sano
dal malato.
In fin dei conti non deve fare altro
che presenziare, perdersi dietro il
coro che fuoriesce dalle grate della
clausura, farsi avvolgere dalla nuvola
che verrà dispensata da un’ampolla.
E così ti installai alle spalle
dell’altare, il vestito gonfio che
copriva la sedia con le ruote, la testa
ritta, tenuta su da uno dei congegni di
nonna Tilde. La funzione cominciò
solenne, e tu stavi alla destra del
sacerdote, senza dare a vedere
mancanze e menomazioni, annuendo
anzi a ogni preghiera con un
tempismo perfetto. Sembravi uno dei
tanti bambini che affollavano l’altare
con le sottane rosse, le grandi
maniche a sbuffo, le cottine ricamate.
Poi però, nel silenzio generale,
mentre il Corpo Santo di Gesù veniva
sollevato al cielo e tutti trattenevano
il respiro, uno starnuto ti scosse la
testa, il palo che ti teneva dritto si
spezzò, il collo scivolò all’indietro e tu
restasti così, arcuato e impotente,
soffocando per la saliva che ti
graffiava la gola.
Mentre io e Tilde ci precipitavamo
a raddrizzarti, le comari della prima
fila si allontanavano per lo scandalo, i
fedeli urlavano dallo sconcerto, una
frotta di cantori intonava un
esorcismo ardito come un urlo di
battaglia.
Il giorno dopo tutti dicevano che il
figlio del disonore era anche figlio del
demonio, e che la menomazione del
tuo corpo era il segno evidente di una
colpa antica e mai espiata, che nessun
abitante di Lenzavacche voleva
condividere.

Cara zia,
nonostante al mercato i bambini si
riuniscano numerosi ad ascoltare le mie
storie, nessuno si aggrega alla mia classe.
Non gliene faccio una colpa. I mondi
proibiti devono restare tali, nessun uomo è
tanto coraggioso da schierarsi dalla parte
dell’ignoto, figurarsi un bambino.
E io propongo loro un mistero.
Ma un mistero da arginare di barricate e
steccati, da concedersi come il frutto del
peccato, da rosicare e poi fingere di aver
dimenticato.
Le colpe più grandi giacciono
accumulate sotto giustificazioni e paure,
sono il nostro segreto ancestrale, ma
nessuno di noi è così scellerato da
denudarsi e farsi vedere per quello che è.
I bambini imparano presto questa
lezione.
Non appena provano a dire quello che
pensano sono sommersi da un groviglio
aspro di recriminazioni, questo non si dice,
questo non si fa… comprendono subito che
vivere è un complicato sistema di equilibri,
di complicità, velature.
E si adattano.
Non vogliono sentirsi esclusi, e la verità
resta una dea negletta e senza ossa, da far
dormire sotto cumuli di ex voto.
Ho capito che se voglio trovare un allievo
devo scovarlo tra chi non ha ancora fatto
esperienza del mondo, o che di esso conservi
una visione senza cadaveri e morti.
Ci vorrebbe un angelo, cara zia. Non sarà
facile trovarlo.
Da Lenzavacche, 20 novembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO QUINDICESIMO

U no dei congegni più riusciti di


Tilde è stato il
abbecedario. Senza incertezze ha
grande

compreso che avevi l’animo del


narratore e ha deciso che era
necessario che imparassi a scrivere.
Poiché la testa va a scatti, le gambe
ondeggiano, e delle tue mani non c’è
da fidarsi, ha decretato che l’unico
mezzo sfruttabile era il respiro.
Con l’aiuto del farmacista
Mussumeli ha costruito una
minuscola giostra carica di
consonanti e vocali.
Per farla girare basta soffiarci
sopra e, a seconda della forza del
soffio, si ferma sulla lettera
desiderata. Con il tempo ha
perfezionato il meccanismo, ha
aggiunto una candela che spande un
bagliore opaco e lettere forate che
riflettono le ombre.
La scrittura si rifrange sui muri
vorticosa, ti danza intorno
prendendoti per mano, assimilandoti
a un mondo senza limiti.
Tu segui quei segnali ballerini e i
tuoi occhi vanno in tutte le direzioni,
sembri ardere di un tremolìo senza
pace, mugolando di piacere, formando
parole dal senso nascosto e
sotterraneo, sbavando come un cane
troppo innamorato che voglia
dichiarare al mondo il suo spasmo e il
suo dolore.
Fin dall’inizio hai capito al volo il
meccanismo, e sembrava davvero che
– muto alle parole del mondo – ne
conservassi una memoria colma di
anfratti, perché i segni erano per te
semplicissimi strumenti da associare
alle idee, e quanto più queste
restavano inabissate, tanto più
l’alfabeto ti aiutava a pescarle.
Soffiavi giorni interi sulla tua giostra,
e magicamente vedevamo le lettere
fluttuare come farfalle.
In principio erano sempre
consonanti, preferivi la “c” di “casa”
e la “f” di “famiglia”. Amavi tutte le
lettere che parlavano di te, e la “f”
aveva il pregio di interpretare il
farmacista Mussumeli, che ti si
aggirava intorno auscultandoti,
baciandoti, sventolandoti sul naso un
reggipetto o una giarrettiera.
Era un sostenitore indefesso della
“d” di “donna” e della “g” di
“gambe”, non sopportava quella tua
predilezione per l’intimità degli
affetti.
Quando ti accanivi con la “m” di
“mamma” o con la “t” di “Tilde”,
afferrava la giostra e te la
nascondeva per qualche giorno, ti
portava fuori e ti scarrozzava per il
paese.
Se i paesani si scostavano
allucinati, temendo il malaugurio o
un’infamia da contagio, rientrava
precipitosamente, rimetteva in
funzione la giostra e la focalizzava
sulla lettera “i”.
«“I” come “invidiosi”» ti diceva,
riferendosi agli abitanti di
Lenzavacche, e aggiungeva: «Non
sopportano un bambino tanto evoluto
in un mondo di ciechi».
Poi virava sulla “s” di “sputo” e
approfittava della tua salivazione in
eccesso per insegnarti a sputare sette
volte a destra e sette volte a sinistra.
Quanto bastava per cacciare con
decisione i malevoli e far
comprendere al mondo di non
sottovalutarti perché anche tu
possedevi armi da difesa.

Cara zia,
il tempo sta per scadere. Tra poco sarà
dicembre e la mia classe è rimasta così,
nove allievi svogliati e mezzi assopiti, che
aiutano i genitori nel lavoro dei campi e
arrivano in classe senza forze.
Ho inventato di tutto per tenerli svegli.
Insegno la matematica cantando i numeri,
metto la storia e la geografia in versi per
allettarli con la rima, dipingo le lettere
dell’alfabeto con i colori per associare a
ognuna di esse una sensazione.
So che non faranno i compiti a casa per
mancanza di tempo, e ho insegnato loro le
poesie ritmandole sulle ruote dei carri o
sulle vangate alla terra.
In questo modo ricordano tutto, non
hanno mai un’incertezza, anche se
canticchiano invece di parlare.
L’unico problema è stata l’ispezione
ministeriale.
Gli ispettori hanno fatto ingresso austeri,
i baffi gonfi che nascondevano le labbra, gli
occhi spannati e rigidi. Gli allievi
dell’istituto si sono disposti su dieci file e
parevano un drappello di soldati impauriti,
le gambe unite, tremolanti, qualcuna
gocciolante di piscio.
Gli ispettori passeggiavano avanti e
indietro, i lucidi stivaloni fino alle
ginocchia. Al braccio destro una striscia di
panno rosso su cui spiccava una croce
uncinata. Muovendo la testa a scatti, si
aggiravano come carcerieri che scrutino le
mosse dei condannati a morte.
Un silenzio ovattato e irreale circondava
la grande palestra dove ci hanno riuniti.
«Vincenzino Caracò» ha intimato il
direttore. «La poesia». E Vincenzino Caracò
ha singhiozzato la poesia di saluto,
saltellando nascostamente sulle gambe per
trattenere i bisogni.
«Gerlando Mandalà, la tabellina del
sette».
Ai miei è toccata La spigolatrice di
Sapri, che hanno recitato correttamente
ma con troppo ritmo e una pagina dei
Promessi Sposi. Il guaio è cominciato
quando l’ispettore ha chiesto a Nitto le sole
consonanti senza le vocali e il bambino ha
sciorinato sicuro la sfilza di lettere fino alla
“s”, ma si è fermato per chiedere
all’ispettore che colore venisse dopo.
Abbiamo superato la prova ma la mia
classe è stata definita originale e
sovversiva, niente affatto in sintonia con i
metodi del regime.
Naturalmente, mi aspettavo che il
direttore subito dopo mi chiamasse e mi
ricordasse la scadenza imminente.
Ti saluto, cara zia.
Da Lenzavacche, 2 dicembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO SEDICESIMO

C omporre piccole frasi è la cosa


che ti riesce meglio, anche se
ognuna di esse desta congetture e
ipotesi.
Come quella volta che con il tuo
abbecedario hai fatto volare sulla
parete la parola “pad”.
Tilde ha stabilito con sicurezza che
volevi dire “padella” (e avevi fame), il
farmacista Mussumeli ha decretato
che “pad” è un termine straniero (e
un nome di donna), mentre io ho avuto
una fitta al cuore e ho capito che
cercavi di scrivere “padre”.
Dovevo aspettarmelo, Felice, arriva
sempre il momento in cui i figli senza
avi chiedono da quale strada siano
arrivati, e io avrei desiderato essere
pronta, mostrarti foto, ritratti,
qualcosa che te lo rendesse familiare,
uno specchio, insomma, in cui trovare
te stesso o i suoi occhi, le sue forme, il
suo passato.
Non ho niente di tutto ciò, solo la
mia memoria, perdonami figlio mio.
Non ho lettere d’amanti né
promesse, non ho anelli e regali, né
porto al collo medaglie con una sua
incisione.
Non conosco niente della sua
famiglia e non posseggo neanche un
nome da consegnarti.
Ho dimenticato di chiedergli le
coordinate anagrafiche, e non ho mai
indagato su registri o documenti.
Del suo ricordo restano solo
stimmate nel mio corpo.

Tilde naturalmente non concorda


con me e nega che tu abbia mai
chiesto di tuo padre.
I figli delle streghe appartengono
alle donne, ha sbraitato, si arrangiano
con quel poco di destino che possono
gestire. Per secoli si sono
accontentati, e questa è stata la loro
forza. Adattarsi, resistere, prendere i
regali della sorte.
Tilde non fa sofismi, non cerca ciò
che non può avere, si arrabatta a far
quadrare i conti con le sue due grandi
maestre: la necessità e la
provvidenza.
Ti spiega con semplicità e logica
che l’una crea l’altra, perché la
provvidenza soccorre il bisogno, e il
bisogno chiama la provvidenza.
Ti dice risoluta: «È andata così per
millenni e non c’è ragione di
cambiare, Felice, l’uomo deve
semplicemente affidarsi al potere
benevolo dell’una e dell’altra».
Le streghe insomma si distinguono
dal resto del mondo per questo, e
sbaglia chi pensa che siano indecenti
e misteriuse.
A Lenzavacche sono state
ingiustamente perseguitate per secoli,
e quel poco che resta del loro ceppo è
guardato con circospezione e paura.
Le credono disonorate e senza Dio, una
stirpe maligna, su cui far sgrondare
aspersori e cera di candele.
Non sanno invece che vegliano sul
sonno, proteggono i deboli, non
giudicano il prossimo.
Sono stravaganti, disordinate e
vedove, Felice.
Ma sono le madri.

Cara zia,
da quando il duce ha inaugurato l’asse
Roma-Berlino, capitano cose strane. Questa
follia del riarmo, ad esempio.
E la stranezza maggiore è che tutti si
adeguano, indolenti, senza domande e
dubbi. Addormentati.
È un secolo nato sotto una stella di lutti,
cigola e mastica sempre gli stessi errori.
Non sono neanche vent’anni che ci siamo
lasciati alle spalle i nostri morti. A cosa ci
prepariamo, quale altro cimitero
comporremo con le nostre mani?
Oggi ho raccontato ai miei nove allievi
cos’è una guerra, ho portato le foto del
nonno morto al fronte, berretti a punta e
sguardo dritto tra gli altri commilitoni.
Ho detto loro di sfiorare col dito le
immagini, i contorni, gli occhi che parevano
concentrati verso il futuro.
Non riuscivano a credere che nessuno di
loro fosse ancora in vita.
Ma come, hanno detto, la guerra è cosa
breve, e pum pum, spari come alle beccacce,
un colpo e sei generale, maestru, ti danno
pure la divisa, ma perché non è questa la
guerra?
Non so rispondere, cara zia, una
definizione della guerra non ce l’ho, ma ho
cominciato a raccontare una storia.
Coltivo questa idea oltraggiosa che la
letteratura possa fungere da corazza, che
sia la coltre dei cento nodi, il manto del re
nudo.
Almeno fino a quando questa classe
esisterà, fingeremo che possa salvarci.
Ti abbraccio cara zia.
Da Lenzavacche, 8 dicembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO DICIASSETTESIMO

D ato che per un certo tempo ti sei


arenato nella conversazione e
lasciavi le frasi a metà (come quel
“pad” che ha continuato a generare
ogni tipo di ipotesi) ’u farmacista
Mussumeli si è spazientito.
Basta, Felice, è sbottato, ’sta cosa
che lanci ’ste minchia di frasi deve
finire. Adesso facciamo un patto, e
non credere a chi ti mette in guardia
dagli accordi. Metà degli uomini vive
dei propri compromessi, l’altra metà
si adatta a quelli degli altri, io un
poco faccio compromessi miei, un
poco mi prendo quelli che trovo. Tu
non puoi permetterti di farne a meno,
e quindi è arrivato il momento. Se
vuoi una cosa, o me la scrivi chiaro e
tondo su quella parete, e ci fai volare
sopra le tue dannate parole, o non
l’avrai. Manco da mangiare ti do se
non mi dici punto per punto che vuoi
per pranzo e che vuoi per cena.
Quanto è vero Iddio o ti faccio uscire
da qui che comunichi come un
cristiano, o non ne esci affatto.
E si è sprangato la porta alle spalle,
ha fatto girare tre volte la chiave e ti
si è piazzato innanzi.
Ha mani enormi, il farmacista
Mussumeli, denti a scacchiera, pochi
capelli ravviati in continuazione da
un pettine che tiene nel taschino.
Profuma di tabacco e bergamotto,
filosofeggia con classe e cede a tutte le
tentazioni. Beve, fuma, sbraita
parolacce, non si lascia sfuggire
l’occasione di fare il cascamorto con
le donne, le ama e le lascia, ma poi le
assiste fino all’ultima ora della morte.
Non dice di no a un randagio né a un
povero e la sua farmacia floflotta di
pennuti salvati dalle trappole, cani,
gatti e mendicanti. È orgoglioso,
scettico, prepotente e umilissimo, e
non c’è verso di farlo scandalizzare
per nessuna bassezza umana. Se gli
racconti una mascalzonata se la ride e
anticipa il finale, sciorina con
sicurezza i particolari e ti stupisce
con la sua saggezza.
Se poi gli chiedi perché mai coltivi
una così cattiva opinione sul genere
umano, ti guarda e si sciacqua la
bocca con uno sputo, si pettina
velocemente i capelli e sorride.
«Perché mi conosco» risponde.

Fatto sta. Io e Tilde restammo


sconcertate e battemmo coi pugni
sulla porta per implorarlo di lasciarci
entrare.
Non ci fu verso.
Allora poggiammo l’orecchio per
ascoltare quello che ti diceva.
Lezione numero uno. Felice, tu un
uomo sei. E un uomo, correggimi se
sbaglio, ha bisogno di essere chiaro.
Un uomo non può aspettare la
mamma che interpreta e fa illazioni:
tu scrivi “me” e c’è chi ti porta una
mela, chi pensa alla merda e ti
pulisce il culo, chi arguisce che hai
indicato te stesso e ti mette davanti
allo specchio. Né un uomo vero può
farsi trasportare dal primo all’ultimo
piano solo perché abbozzi “ste” e tutti
corrono a farti vedere le stelle. Non ci
siamo, Felice. Qua usciamo tutti pazzi
se tu non cerchi di farti capire.
Lezione numero due. Prima o poi ti
verrà voglia di una donna, e su questo
nessuno è più informato del
sottoscritto. Quindi non chiedere
notizie né a tua madre né a tua nonna.
Io ti dico che quando ti piacerà
qualcuna, lo capirai perché
cominceranno a tirarti i calzoni. E
perché se ti verrà accanto cercherai
di guardarle il petto e il sedere. Non
so che altri termini poetici usare, ma
di questo si tratta, Felice, e le parole
ti serviranno. Allora ti dannerai per
non sapere usare altro che sillabe e ti
pentirai di non avermi ascoltato.
Lezione numero tre. Tu ’sta
giostrina che proietta lettere non la
sai usare. E non la sai usare perché ci
soffi su come una ragazzina e non
becchi mai la vocale o la consonante
giusta. E allora sputaci, Felice, ti ho
già detto come si fa, esercitati a
prendere di mira un oggetto e a
buttarlo giù con un colpo solo. Ecco:
qua ci sono dei barattoli e voglio che
ci sputi sopra. Se hai capito quello che
ho detto, buttami giù il numero tre e
se pensi di voler continuare buttami
giù il cinque e il sette.
Dopo di che io e Tilde sentimmo un
rumore ferroso di barattoli che
cadevano, la chiave che girava nella
toppa e il farmacista che usciva
tenendo in mano le lattine che tu
avevi fatto cadere con lo sputo.
Erano la tre, la cinque e la sette.

Cara zia,
non parlo volentieri del passato. Non è
che ne abbia molto, poi, alle spalle.
Ma quel poco che ho sono venuto a
cercarlo qui.
Lo so, non ho molte tracce da seguire, e
inoltre conservo pochissimi ricordi.
Ho una memoria dilettante e
selezionatrice che mi rigetta contro solo
pochi istanti. Un volto. Un gesto. Una
manciata di spiccioli.
Mai ciò che davvero vorrei ricordare.
Così procedo a tentoni. Sono un cieco con
le mani avanti e il bastone puntato a nord,
tasto e schivo, schivo e tasto, un sasso
inopportuno che mi farà inciampare, un
gradino, una pozza nella quale scivolerò.
Metto avanti solo il mio buon senso e
qualche preveggenza. Ho viaggiato tanto,
cara zia, su treni imbastarditi dal freddo,
tagliando l’Italia. Ho letto per ore infinite,
ho sobbalzato sugli scossoni dei binari che
tremavano durante le frenate, ho sfiorato
dal finestrino città e paesi inauditi, le lande
delle risaie, i puzzi dei cantieri, le rade
macchie di blu tra le rovinose cadute delle
montagne calabresi. E poi il vulcano di tutte
le morti che galleggiava sul porto della mia
Napoli, i vicoli sudditi della strada mastra e
i portuali, gli elemosinanti, i pulcinella
vestiti con un sacco e una maschera che
tendevano la mano e pizzicavano un
mandolino senza corde. La musica gli
usciva dalle labbra, e davvero sembrava
quella dello strumento, un clangore
lamentoso e vibrante, uno spasmo di fame. E
poi giù verso la Sicilia, dove forse chiuderò
quest’andare senza tappe e senza luoghi, in
cui annuso tracce e lascio debiti di
riconoscenza alla natura.
Solo questo mi ha fatto sentire a casa.
Non gli uomini. Non le scuole. Non i riti
di uscita e accesso, le regole e le baionette
del regime, le stelle uncinate e radiose, le
divise inappuntabili, cariche di orpelli.
Ho letto e scritto nei viaggi infiniti da
nord a sud, ho fatto l’unica cosa che so fare,
ho raccontato storie, ho raccolto voci, ho
costellato di tracce e orme il mio passaggio.
E l’ho fatto perché solo raccontandomi
esisto veramente, solo scrivendo mi vedo e
mi raccolgo, un atto pietoso il mio, di
reduce, di condannato, di imputato e
vittima.
Tutto sono e in tutto mi scopro, ma solo
se mi scrivo e mi rivelo, solo se lascio che
questa umanità ingenerosa e affaticata
affiori come il sangue. Poi poso la penna e
contemplo le tracce che l’inchiostro ha
lasciato sulle dita.
Ferite sembrano, cara zia, come quelle di
Giona.
Da Lenzavacche, 10 dicembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO DICIOTTESIMO

L a prima volta in cui hai scritto


un’intera frase di senso compiuto
avevi quasi nove anni. Il farmacista
Mussumeli ti aveva sottoposto al suo
programma intensivo, come lo
chiamava, che consisteva nel non
darti mai ciò che chiedevi finché non
ti fossi fatto comprendere bene.
Blaterava col suo sigaro mezzo rotto
che la nostra era una casa di fimmine
svenevoli, e che per un maschio ci
voleva un maschio.
Adesso penso che avesse ragione
lui.
Ma allora mi aggiravo senza pace,
sostavo dietro la porta chiusa,
origliavo.
Ogni tuo insuccesso mi incideva
come una lama.
E lo odiavo.
Odiavo la sua arroganza, la
sicurezza nel definirci sentimentali, le
bretelle che reggevano a stento lo
stomaco prominente e che ti
strappavano risate appassionate.
Odiavo le mani ingiallite dal tabacco, i
denti macchiati di fumo, la voce
catarrosa su cui scioglieva mentucce
secche.
E anche, lo amavo. Amavo l’aria
trasognata, le mani trafitte dal blu
delle vene, la camminata sofferente
sotto il peso del corpo e degli anni.
Amavo gli eccessi e i difetti, le
abbondanze e le carestie, e quel suo
armeggiare in bottega per costruirti
macchine sorprendenti. Amavo quel
suo farti da padre, da zio, da nonno,
consegnandoti la sua imperfezione e il
suo arsenale di arrangiamenti e
trovate.
Frattanto a Lenzavacche era
tornato l’autunno, i muri gettavano il
caldo accumulato, il mare tremolava
sfaldandosi in scaglie. Ogni tanto un
piovasco, ma colmo di cenere di
vulcano che imbrattava la terra, poi
di nuovo il cielo ad agonizzare, a
lasciare che dal suolo affiorasse una
specie di sale, che attirava cimici e
insetti.
L’unico tempo che il farmacista mi
lasciava condividere era quello del
mattino, quando ti lavavo e ti
pettinavo, sceglievo per te camicie
morbide, pantaloncini che
combattessero l’afa e da cui le tue
gambe sbucavano cigolanti, senza una
direzione precisa. Eppure avevi piedi
enormi, Felice, si sarebbe detto che
avrebbero potuto sorreggere una
cattedrale, e invece al di sopra c’eri
tu, con la tua fibra storta, il viso
perplesso, gli occhiali portentosi che
Tilde aveva rimediato da un baule.
Erano appartenuti a un avo
sconosciuto, ma ti stavano a
meraviglia e ti consentivano di
mettere a fuoco.
D’altra parte i fantasmi sarebbero
comunque venuti a ghermirti –
declamava – e tanto valeva
inquadrarli a dovere.
I fantasmi erano per Tilde gli
appuntamenti col passato, e
costituivano uno dei nodi cruciali
della vita di ognuno.
Io avevo orde di fantasmi ad
attendermi, diceva, ma anche tu,
Felice, eri in attesa.
Solo il farmacista non ne aveva più,
perché il suo passato era talmente
affollato che aveva rinunciato a
manifestarsi.
A noi non restava invece che
accoglierli, ed era per questo che
sopportavo il supplizio che Mussumeli
mi infliggeva.
Perché anche tu fossi pronto.

La prima parola compiuta fu


“scuola”.
Strabiliammo.
Come, “scuola”.
Io mi sarei aspettata “mamma”,
Tilde “nonna”, e il farmacista
Mussumeli “donna”.
E invece, tu continuavi a scrivere
“scuola”, “scuola”, “scuola”. E
ancora: “Per favore, scuola”.
Ci accertammo che sapessi di cosa
parlavi. Volevamo capire se
comprendessi davvero il significato
della parola.
Ma tu continuavi imperterrito, e
più lo scrivevi più ti facevi ridente,
scuola, scuola, e una volta aggiungesti
“voglio scuola”.
Era un problema.
Quale scuola avrebbe mai potuto
accoglierti? Le tue poche uscite in
pubblico somigliavano ai flagelli che
si abbatterono in Egitto quando Mosè
convocò gli anziani di Israele e disse
loro: andatevi a prendere un animale
del bestiame minuto secondo le
necessità delle vostre famiglie e
scannate la bestia come sacrificio
pasquale.
Infatti, era accaduto di tutto.
Paesani che facevano scongiuri, donne
che correvano sui tetti spargendo
chicchi d’incenso e foglie d’ulivo,
magare che farfugliavano: Domini,
Patri e Figghju.
E poi: bambini che ti canzonavano,
bottegai che chiudevano gli usci e si
serravano dentro, carnezzieri che
esibivano corna di bue per mettere in
fuga il maligno.
Eppure, decisi d’un tratto.
Ti porterò fuori come dall’Egitto,
Felice, troveremo una scuola, seguirò
i riti del digiuno, leverò il canto del
Salmo.
Dirò: custodiscilo come pupilla
degli occhi, Signore, all’ombra delle
tue ali nascondilo*.

Cara zia,
oggi ho portato i bambini a giocare in
campagna.
Una campagna allampanata, quella di
Lenzavacche, con filari di muri a secco che
intagliano la terra dura. Servono a segnare
confini silenziosi tra famiglie e stati sociali,
a perpetuare lasciti e testamenti che non
hanno solo valore di carta bollata, ma di
sangue. I bambini saltellano sui rivoli
salmastri che venano le zolle, giocano e si
azzuffano, volano a braccia aperte come
gabbiani.
Io li guardo confondersi con i miraggi
misteriosi della fata Morgana, con le rocche
arroventate, con le faglie secche di
antichissimi fiumi.
E penso che ignorano tutto, ancora, che
non sanno che la vita verrà a sceglierli, che
li fiuterà e li saccheggerà.
Ho quasi perso la speranza che questa
classe possa salvarsi.
Non mancano che pochi giorni, ormai, e
non so più dove cercare qualcuno che
voglia unirsi a noi. D’altra parte cosa potrei
offrirgli? Nient’altro che questi
insegnamenti balordi che lo metterebbero
nei guai col regime e lo siglerebbero come
un diverso.
Se pure si aggregasse a me, sarei in
dovere di dirgli: togli la catena del
battesimo dal collo, lascia il letto del padre,
le sue benedizioni. Sei escluso come l’erba
amara, come la sorte lanciata di traverso
dal dado, come la sposa vedova prima del
tempo.
Da Lenzavacche, 12 dicembre 1938
Tuo, Alfredo

*
Dai Salmi.
C APITOLO DICIANNOVESIMO

unica scuola di Lenzavacche è la


L’ Maria Montessori, un edificio
squadrato, i cui finestroni si
aprono sulla campagna.
Da lontano pare una pietra caduta
dal cielo, mentre all’interno si
muovono passi ritmati, fanfare e
altoparlanti che scandiscono orari e
dettano regole. Gli allievi escono di
tanto in tanto incolonnati, i grembiuli
stretti al collo e le cartelle di pelle
appartenute ai fratelli più grandi. Se
le trascinano ingobbendosi
leggermente, cercando di stare al
passo e dando la mano al compagno di
fila. Sputacchiano tra le fessure dei
denti, ciondolano per la stanchezza e
piangiucchiano trattenendo le
lacrime.
Ma tutti ostentano ordine e
controllo, anche se i calzini si
arricciano alle caviglie e non stanno
mai su come dovrebbero.
All’uscita le madri li aspettano
compunte, le mani nei grembiuli, le
chiome spettinate. Sono donne di casa
e signore di buona famiglia, gente di
paese che all’istruzione guarda con
sospetto, e che reputa più opportuno
allevare i figli nei campi. Si distingue
qualche nobilotto più severo, che
arriva con bastone e cappello, i baffi
filettati dal barbiere, mustacchi
allisciati con crema alla menta e una
passata di colonia che si avverte a
distanza.
Nessuno è come te.
Sono entrata con circospezione,
forando il lungo corridoio di passi.
Ai lati, le porte erano sbarrate e
solo di tanto in tanto si udiva un coro
recitare una poesia, o un maestro
scandire la lezione.
Non sembrava un luogo per
bambini, Felice, ma per soldati, un
incolonnamento che preludeva a una
guerra, a una battaglia, a un ordine
severo che di lì a poco avrebbe
squassato la normalità.
Il signor direttore mi ha ricevuta
con imbarazzo, ha guardato l’anulare
senza fede, i tuoi documenti dove
campeggia il mio cognome.
Un figlio di sola madre, senza
equilibri o salute, di incerta stazza e
retto da un palo. «Signora…
signorina…» mi ha sibilato con un
mezzo sorriso, «vuole scherzare?».
Dall’esterno, frattanto, arrivava
un’eco lontana di gazzarra, un
tramestio di agitazione.
Era un fotografo che metteva in
posa una prima classe, scartonava tra
le lastre ingiallite, si infervorava a
disporre i bambini per altezza.
Quando scattò, vidi la foto come già
nata, col suo grumo di sguardi
imbalsamati dalla posa,
quell’immobilità da salme rivestite
provvisoriamente di luce, pronte a
parlare ai superstiti.
«Ora potete muovervi» disse il
fotografo, e le fila si sciolsero
all’istante.
Con uno di quei presentimenti che
spesso mi annodano al futuro, vidi la
foto, Felice, e seppi con certezza.
Fu un attimo. Ma bastò a rendermi
chiaro che tra nove maschi
indispettiti e rabbiosi, tu c’eri, cinto
di fiocco e grembiule.
Accanto, un maestro giovanissimo
ti teneva la mano.

Cara zia,
è quasi il 17 dicembre.
Un numero astruso, il 17, che per alcuni
porta fortuna e per altri disgrazia. In paese
si va dicendo che i nomi degli angeli sono
17, così come il numero dei demoni. E d’altra
parte la stella a 8 punte posta sul capo della
Vergine Maria ha 16 lati più 1 al centro, che
sommati fanno 17.
Racconto tutte queste cose ai miei allievi,
e li vedo perplessi come sono stato io questa
mattina, tra le tre e le cinque, quando ho
colto l’aspetto sinistro che a quell’ora hanno
le cose, la mia giacca posata sulla
stampella, le scarpe appaiate sotto il letto,
la camicia bianca ripiegata, come un corpo
che smetta l’anima e la lasci abbandonata
in un angolo.
Cose che mi appartengono, che al
mattino sono gonfie della mia forma, e che
all’alba hanno preso a mettersi contro di
me, guardandomi di traverso, rizzandosi
come un personaggio cattivo. Ecco, una
sagoma d’uomo che si muove dal nulla, che
non ha volto, che mi indica e mi costringe a
mettermi allo specchio.
Sono io quel fantasma, fatto di niente,
giunto fin qui senza risultato.
L’ultima possibilità di scoprire il mio
passato è stata messa in fuga da quest’alba,
dal dormiveglia malato in cui sono caduto
quando era ormai ora di svegliarsi, e tutto il
paese si destava iniziando a produrre i
primi rumori, i primi odori, i soliti segnali
che accompagnano il nascere di ogni
giorno.
Eccola, la vita che riprende ferocemente
tutti i suoi riti.
Ma io non ne faccio parte, cara zia. Tra
poco, anzi, ne sarò definitivamente fuori.
Da Lenzavacche, 13 dicembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO VENTESIMO

O ggi sono tornata a scuola.


All’entrata un bidello in divisa
nera rammendava i cancellini della
lavagna, mentre una classe usciva in
cortile cantando: «Viva il duce, Dio ti
manda all’Italia come manda la luce».
Era l’ora di educazione fisica.
Il signor direttore mi ha fatto
notare che sulla ginnastica si basa la
disciplina, e che la disciplina è
l’anima del regime fascista. «Rigore,
ci vuole, signora… signorina, rispetto
sommo della legge e delle regole,
fedeltà al re, ai suoi reali successori e
al regime fascista».
In sottofondo, gazze nere beccavano
pochi semi, una bandiera coi segni del
fascio navigava nel vento, colonne di
allievi ritmavano braccia, aprivano e
chiudevano gambe, saltellavano e
gesticolavano con sincronismo e noia.
«Tornando a noi, signora…
signorina… come pensa che suo figlio
potrebbe mai affrontare l’ora di
educazione fisica?».
Non avevo risposte.
La mia mente volava lucidissima
tentando di trovare un appiglio,
invocando le sante streghe,
armeggiando tra le orde barbariche di
mille madri in difficoltà, antenate che
come me avevano avuto la complicità
della sola fantasia, e che si erano
dovute appellare a una strana forma
di coraggio, fatta di improvvisazione e
adattamento.
Poi pensai: le regole, le leggi. Ma
certo, ci saranno pure delle regole.
E improvvisai: «Lei di certo conosce
la legislazione in materia, signor
direttore».
Mi guardò allibito, annaspò una
risposta, si ricordò confusamente di
un impegno improvviso, un impiccio
che – «Mi scusi, signora…signorina…»
– doveva sbrigare proprio in quel
momento.
Bene, pensai trionfante, non
conosce la legislazione.
E mi sentii avvampare, Felice, uscii
a testa alta, canticchiai con le allodole
e non diedi alcun peso al fatto che la
legislazione non la conoscevo
nemmeno io.

Alle norme si rimedia facilmente,


mi disse Tilde sicura del fatto suo,
mentre sferruzzava la coperta di
morte, una legge ci sarà, c’è sempre, è
questione di trovarla.
Sebbene fosse sempre stata
contraria a una tua immersione nel
mondo, badò al solo fatto che andare a
scuola era un tuo desiderio, vale a
dire l’unico padrone a cui si
sottometteva docilmente.
E scomodò subito Mussumeli alla
ricerca di una regola miracolosa, un
imbroglio da avvocati e notabili,
trovalo Mussumeli, gli disse, cerca tra
quei codici ammuffiti che conservi
nella tua farmacia.
Delle regole Tilde aveva un’idea
tutta sua, anzi un vero metodo che
applicava coscienziosamente da
quando stava al mondo e che a suo
dire dava ottimi risultati.
E cioè, le norme esistono per
aiutare gli uomini e non gli uomini
per aiutare le norme, ragione per la
quale la validità di una legge si
misura dal livello di pietà che riesce a
manifestare verso le disgrazie, tutto il
resto è eccessivo e fuorviante, quindi
semplicemente non va applicato.
«Tilde» la rimbrottava Mussumeli,
«ti sei mangiata in due parole secoli
di diritto romano».
Ma Tilde lo congedava
sbrigativamente, elencava tutte le
streghe incuranti della realtà,
Sfasciasquasso Concetta che affittava
posti in Paradiso, Capranica
Salvinella che curava il mal d’umore,
Ferlita Carmela che raccoglieva
orfani e li nominava con i titoli dei
nobili per confondere le acque. E
Deodata, naturalmente, che seguiva i
consigli di un angelo delle erbe.
Erano tutte anime sante,
murmuriava indefessamente a
Mussumeli, ignorando a bella posta
che erano state processate come
eretiche, arse sul rogo o appese alla
forca.
Perciò cominciò a pregarle che
venissero in tuo soccorso, che
aiutassero Mussumeli a trovare una
legge che facesse al caso nostro o, se
proprio non era possibile, che lo
spingessero a inventarsene una.
Cara zia,
oggi è il 14 dicembre, giorno di candelore
da ardere sui davanzali, un altro numero da
sottrarre alle settimane dell’Avvento.
Credo che rientrerò subito dopo Natale, ci
saranno pratiche da sbrigare, programmi
da chiudere, firme da lasciare. I miei allievi
saranno assorbiti nelle altre classi, e la mia
venuta qui sarà presto dimenticata come
uno di quegli incidenti di cui è piena la vita.
Presto, presto, sussurrano già dalle aule
della direzione. Ristabiliamo l’ordine, le
regole del gioco, una manciata di giorni
rassicuranti. Presto, fate presto, rassettate,
pulite, spazzate.
Chissà, forse è meglio così.
Io squasso le certezze di questi bambini,
insinuo il dubbio che la realtà vada
lacerata dalla fantasia, scombino i luoghi
comuni, dico loro di cercare in ogni uomo
un mistero.
Non gli ho insegnato a scrivere, ma a
credere che in quei segni si celasse la
verità, e non gli ho spiegato la geografia,
ma ho voluto che facessero un viaggio
senza muoversi dal banco.
Né ho preteso che imparassero ad amare
le date gloriose dei regimi e del potere, i
segnali regi dell’impero romano o le aquile
dorate del fascio. Della storia ho voluto solo
che contemplassero i morti, i perseguitati
da un destino scritto da altri, i tralasciati,
gli invasi, i dimenticati.
I miei allievi non conoscono le battaglie
vinte, ma quelle perse, e non ricordano i
nomi dei sette re ma quelli degli schiavi, e
non ho voluto che recitassero a memoria le
filastrocche del regime, ma alcune ballate
che i pescatori borbottano calando le reti,
sfidando il malaugurio, uscendo all’alba e
aspettando dietro le grotte che il pesce
azzurro si svegli.
Il direttore mi ha rimproverato di averne
fatto dei codardi, di non averne esaltato la
forza, il coraggio, le virtù militari.
È vero. Come dargli torto.
Non ho mai pensato che la cultura
servisse alla forza, ma alla compassione, e
non ho cercato nei libri il coraggio, ma la
fragilità umana. Quanto alle virtù militari,
ho detto loro che l’unica guerra che valga la
pena vincere è quella contro se stessi.
A modo mio, ho insegnato loro quello che
credevo dovesse dare la scuola, e cioè
un’anima e una vocazione, e gli ho messo in
mano parole e libri, le sole armi che abbia
mai imbracciato.
Non mi resta che andare, dunque, cara
zia. D’altra parte, è questione di ore.
Da Lenzavacche, 14 dicembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO VENTUNESIMO

M ussumeli si mise subito alla


ricerca.
Entrammo in farmacia all’alba di un
14 dicembre che balbettava le sue
preghiere, decisi a non uscirne fino a
che non fosse saltata fuori una legge
che facesse al caso nostro.
Eravamo pronti a tutto: a smuovere
scaffali, a consultare tomi, a scendere
e salire scale. Tu vai a destra e io a
sinistra, mi ordinò imperioso
spaccando a metà il nostro campo di
battaglia, succhiando un bastoncino di
liquirizia e tirandosi i calzoni.
E così facemmo.
Mussumeli chiuse la farmacia,
impedì a chiunque di disturbare,
s’immerse con me tra le polveri di
agnocastio, partenio, camomilla.
Scartabellò e lesse, cercò e imprecò,
mise a soqquadro una libreria
immensa, dove giacevano libelli di
anatomia e raccolte di proverbi,
riviste scientifiche e versi erotici.
Ogni tanto lo sentivo ridere con la sua
raucedine da fumatore accanito, altre
volte piangeva invece
rumorosamente, piantando il naso in
un fazzoletto ricamato da Tilde.
Frattanto, fuori, il sole nasceva e
moriva, le stelle naufragavano, la
luna indicava con certezza l’arrivo
della bassa marea.
Io e Mussumeli eravamo sfiniti e
impolverati, reduci da un corpo a
corpo con centinaia di tomi tra i quali
avevamo passato in rassegna leggi
antiche e nuove, norme vere e false,
decreti e costituzioni di ogni paese e
lingua.
Ma per quanto cercassimo, Felice,
sembrava che non esistesse una sola
legge, in tutto il creato, che ti
consentisse di andare a scuola.
Poi, proprio quando eravamo quasi
certi della sconfitta, il farmacista
lanciò un urlo sgarrito, prese a
ballare, si prostrò a terra e ringraziò
il Dio di tutti i bambini.
Che ci fosse un simile Dio era
infatti fuor di dubbio, disse
trionfante, baciandomi i capelli e
sventolando una pagina ingiallita.
Tra una polla di purganti e un vaso
di sonniferi aveva infatti trovato: una
gazzetta ufficiale di una quindicina
d’anni prima, tra le cui righe si era
materializzata una legge adattissima
all’occasione.
E si riconciliò col Padre Eterno, si
pentì dei suoi peccati, promise che
non avrebbe più imprecato né
trascurato i Sacramenti o rubato le
tonache a padre Maimone per
dispetto.
Quanto alle donne, era un altro
affare, ma era certo che nessun Dio
dotato di un minimo di strategia
potesse chiedere tanto a un neo
convertito, perciò non scese a patti,
ribadì la sua devozione ma escluse
immediatamente di poter rinunciare
ad amare.

Era un regio decreto del 1925, il


numero 653. Non concedeva molto in
verità, prevedeva solo l’inserimento
degli invalidi in classi differenziate,
ma bastava.
Pareva che nessuno lo avesse mai
invocato, e per questo, credo, il
regime dimenticò di abrogarlo,
lasciando in vita una norma che
faceva a pugni con l’idea della
perfezione fisica tanto sbandierata
dal fascio.
Era strano, il mondo delle norme.
Vivevano se non applicate, morivano
se applicate troppo e non più adatte
ai tempi. Leggi inutili o leggi
sovrabbondanti, capricciose e
ruffiane, leggi con padroni e senza
padroni, nate per piacere o per creare
scompiglio.
Immergendomi in quella ricerca mi
pareva di cogliere una strana e
accorata richiesta dell’umanità tutta,
inascoltata e mai veramente tradotta,
un singhiozzo funereo e bruciante che
si levava da pire altissime,
accatastate per il lutto.
Giustizia.
Una giustizia diseredata e tradita, e
che rendevamo orfana ogni volta che
travisavamo anche noi stessi.
Capivo allora perché Tilde la
invocasse tra le misture delle sue
sante streghe, perché Mussumeli
avesse fatto a pugni con il Dio dei
bambini, e perché avessimo un
bisogno così disperato di rendercela
viva nelle storie.
Perché nel mondo non la
trovavamo.
L’unica giustizia invocabile era
alata e senza appigli, un tordo
migratore dalle piume favolose, che
incendiava il cielo al suo passaggio.
Noi uomini alzavamo la testa per
guardarlo sfrecciare e farci
abbagliare da colori iridescenti,
inverosimili, inadatti alla vita reale.
Poi si allontanava lasciandoci
quello struggimento, un’amarezza
destinata a comporsi solo nel sonno o
tra le pagine di un libro.

In ogni caso, era una fortuna.


Era già giorno. Nasceva su
Lenzavacche un 17 dicembre rauco e
indeciso, che stentava a prendere
corpo.
Ero ancora impolverata, spettinata,
arsa da una febbre colma di mestizia.
Fuori, la vita riprendeva la sua
marcia, si spegnevano le torce della
notte, si pulivano le strade e le corti.
E su tutto, mulinellava un vento
scompiglioso e audace, che mescolava
i preparativi dell’imminente Natale
scoperchiando i pastori del berretto,
le capre della lana, la Madonna dal
manto, gli angeli dalle ali.
Il soffio portava tutto con sé,
sbandierando cose sacre e profane,
unendo le aureole dei santi alle
mutande stese ad asciugare,
appiccicando i bioccoli di polvere alle
sagome di cartone delle stelle.
Mi rassettai, mi sciacquai il viso,
uscii in direzione della scuola
stringendo tra le mani il decreto che
Mussumeli aveva scovato.
Le aule erano quasi deserte. «I
bambini provano i canti alla Vergine»
mi disse il bidello. «Chi cerca?».
«Cerco il signor direttore» feci
risoluta, infilandomi nel suo ufficio
senza chiedere permesso e impedendo
così che quello mi liquidasse con una
scusa.
Per nulla al mondo mi sarei fatta
congedare senza essere ascoltata e
senza poter spendere quella legge
incauta e sopravvissuta per sbaglio,
che il tordo alato della giustizia
teneva stretta nel becco.

Cara zia,
i bambini provavano i canti alla Vergine.
La scuola era quasi vuota, già pronta alla
pausa natalizia.
Solo il bidello Pippinu ’o stolitu raschiava
il pavimento, e si affannava a renderlo
lucido, come vuole il signor direttore.
«Specchiarmici, devo, su questo pavimento,
Peppino, vedere il nero della divisa che
cammina anche per terra».
Il vento si divertiva a fare i fatti suoi. Le
vedevo, le signore agghindate che si
tenevano il cappello per non farselo
mangiare da un gorgo più cattivo degli
altri, e i baroncelli chiudersi il bavero e
intascare le mani infreddolite,
proteggendosi come da un attacco nemico. E
ne ridevo. Che umanità fragile, dopo tutto, a
dispetto di tanti abbagli. Basta un poco di
aria di traverso per farci sbandare, per farci
rintanare come bestie braccate. Quanto
siamo paurosi, in fondo. Quanto siamo
vigliacchi, cara zia.
Questo pensavo, e già contabilizzavo i
bagagli, rimuginavo che un baule avrei
dovuto spedirlo, che gli altri li avrei tenuti a
mano. Mi ero portato dietro un guardaroba
intero, pensando di dover restare qui a
lungo, per scovare almeno un lembo del mio
passato, un poco del mio baratro.
E invece ero già in partenza, una delle
valigie non era nemmeno stata aperta,
aveva i sigilli e le sbeccature di tutti i
luoghi attraversati, le chiose di una mano
trepidante, incise tra una fermata e l’altra.
E dunque mi dicevo che prima di
rientrare mi sarei concesso una sosta a
Taormina, tra i dirupi e il cielo, avrei fatto
come uno di quei viaggiatori antichi che si
lasciano andare al flusso delle strade e dei
luoghi. Sarò un piccione viaggiatore,
almeno, una bestia attratta da un
nascondiglio o da un anfratto. Mi fermerò
dove capiterà, scriverò storie, leggerò,
guarderò ancora questa vita e i suoi uomini
affaccendarsi e stravolgersi, per una guerra
o per un atto d’amore, questo farò. Dopo
tutto, sono solo uno tra tanti, in fuga e in
bilico, che importa.
Poi però il signor direttore mi ha
chiamato.
Vorrà darmi il benservito, ho pensato, mi
rantolerà in faccia la sua soddisfazione. Ma
sì, andiamo, affrontiamolo, questo generale
senza fantasia.
E ho imboccato l’uscio della direzione con
una nuova baldanza, quella di chi non ha
più nulla da perdere.
La stanza era in penombra. Gli scuri
erano chiusi, per evitare che il vento li
facesse battere di continuo. La luce elettrica
spandeva un bagliore deviante, e balzava
sugli oggetti da scrivania tenuti in ordine
perfetto, sui mobili scuri di ebano, sulle
nicchie e gli armadi pesanti, chiusi da
tendine rosse.
Ogni tanto ondulava, la luce,
assecondando le balze di un intarsio rococò.
Poi tornava a recitare sulla scena
rilasciando un’atmosfera greve, senza
cuore.
La donna era al centro. Non aveva
copricapi a tenerla ordinata, né pareva
agghindata come le altre. I capelli infilzati
da forcine lasciavano scivolare qualche
ciocca. Gli occhi febbricitanti ballavano nel
buio. Stava eretta come a sfidare il mondo
intero, stringendo in mano una serie di fogli
stampati, una vecchia gazzetta, sembrava.
Era bella.
Ma di una bellezza senza nessuna
imbalsamatura, selvatica e del tutto
inconsapevole.
Sembrava una di quelle male erbe che si
estirpano dagli orti, che però fanno fiori
profumatissimi e si confondono tra i cavoli e
le verze. Inopportuna era, ma al tempo
stesso naturale.
Il signor direttore non mi recitò nessuna
delle sue litanie, non sfoderò le parole
patria, duce, guerra, non si impettò e
ricadde, anzi, ingobbito non appena salutai.
Abbiamo un problema, mi disse.
Da Lenzavacche, il 17 dicembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO VENTIDUESIMO

ho colto di sorpresa, non si


L’ aspettava di vedermi tornare
tanto presto.
Il bidello non ha neanche fatto in
tempo ad annunciarmi, che ero già
davanti a lui, calda per la recente
notte persa, armata di carta e di
dolore.
Stavo in allerta, Felice, la tua
nascita mi ha abituata a non cedere
mai né alla compassione né alla
durezza, ad attingere anzi a entrambe
di continuo, senza che una prenda il
sopravvento sull’altra.
La pietà mi dà coraggio e forza, la
durezza mi salva dagli errori, ma né
l’una né l’altra disarmano l’amore,
ragion per cui non sono
un’antagonista facile per nessuno,
perché mi appello a troppi alleati
invisibili per poter essere sconfitta.
Il direttore lo comprese di colpo.
Di questa non mi libero, lo sentivo
ululare tra i suoi pensieri, e avvertivo
anche la paura, il disagio per
quell’imprevisto.
Non accade sempre, come sai. Ma a
volte presagisco, alle altre interpreto,
altre ancora leggo. La realtà e gli
uomini sono come libri, e io sono
abituata a sfogliare pagine, a
prevedere finali, a seguire tracce.
Chi legge diventa indovino, affina le
emozioni, tende i sensi.
A volte mi hanno detto maliarda,
alle altre sgarrusa e strega, ma io so
che la mia capacità divinatoria non è
magia. Solo abitudine alla lettura.
Questa volta lessi in lui un flusso
angosciato di frasi, e ora che faccio,
vuoi vedere che questa ha una legge
da far valere per quel figlio? Un
mostro, un invalido, che ci fa uno così
nella mia scuola? Io che al fascio ho
dedicato la vita, io che a fine anno li
faccio sfilare inguainati e fieri, in
ordine d’altezza, io che al ministero ho
promesso nuove leve per la guerra,
dove lo metto ora? Chi se lo prende?
Vallo a trovare un maestro che
accetta un allievo accussì, un pazzo
dovrebbe essere, e io più pazzo di lui.
Ma vediamo che vuole questa, se c’è
una legge ci sarà pure un’eccezione.

Ma eccezioni non ce n’erano. Una


legge sopravvissuta per destino non
ne ammette.
Il direttore capì subito di non avere
scampo, e capì anche, dal mio
sguardo, che se non avesse applicato
la norma avrei costituito per lui un
grave problema.
Lo capì senza parole, in quel
linguaggio muto che è più esplicito di
molti discorsi. Lo capì dal mio viso
ostile e pacifico a un tempo, su cui
affiorava la serenità di chi non
retrocede, e la forza di chi è pronto a
morire sul campo.
Semplicemente non ammettevo un
diniego, e lui crollò sulla sedia
facendo traballare la bandiera appesa
alle sue spalle, i quadri con sua
maestà il re e la regina, al cui centro
la nuca pelata del duce, lucidissima,
brillava.
Quando lesse le disposizioni che gli
imponevano la tua ammissione, le
mani gli tremavano, la compostezza
della cravatta aveva lasciato il posto a
un colletto gualcito. Dalle tempie
presero a rivolare gocce di sudore.
Lo vidi leggere e rileggere il testo,
snocciolarlo con una lente
d’ingrandimento, scartabellare in
cerca di postille e commi controversi.
Resosi conto che non aveva vie
d’uscita, squassò il ripiano del tavolo
con un pugno, chiamò tra i corridoi
alterando il tono, masticò una mezza
bestemmia e mi rivolse uno sguardo
rabbioso.
«Peppino, chiamatemi il maestro
Mancuso» sibilò infine al bidello, che
si era affacciato sull’uscio,
visibilmente terrorizzato.

Cara zia,
davvero è tempo di miracoli.
Il signor direttore mi ha fatto
accomodare, ha incespicato nelle frasi, ha
rigirato a lungo un tagliacarte tra le dita.
Ci giochicchiava osservandolo con fissità
ipnotizzata, palpandone la lama,
solleticandola con l’indice. Poi,
improvvisamente, l’ha girata sulla punta
infiggendola nel legno del tavolo.
Il colpo ha squassato il silenzio, fendendo
di taglio le orecchie con un rumore simile
all’affondo nella carne.
Io e la donna trasalimmo.
«Maestro Mancuso» disse infine.
«Sembrerebbe che un allievo possa unirsi
alla vostra classe. Il figlio della signorina
qui presente parrebbe aver bisogno di voi».
Rimasi colpito dalla parola “signorina”,
pensai a un errore, ma poi compresi che non
si trattava di una svista.
«La signorina ha oggi prodotto una
normativa che ci impone di valutare
l’ammissione del figlio in questa scuola»
continuò infatti il direttore. «Tuttavia, dato
che si tratta di un invalido, dice la legge
che la classe dev’essere differenziata, ossia
adatta, per numero, alle esigenze di
quest’allievo. Ora. La vostra classe è l’unica
che abbia un numero così esiguo da potersi
dire differenziata. Ma abbiamo bisogno
della vostra adesione e io so bene che voi
siete in procinto di partire, non è vero?».
L’ultima parola sibilò a lungo nella
stanza.
«No, signor direttore. Avevo già deciso di
rinviare la partenza dopo il Natale e di
fermarmi, comunque, in Sicilia. Quindi,
sono disponibile».
«Ma non volete pensarci, maestro
Mancuso?».
«Non ne ho bisogno, credetemi».
«Ma io vi consiglio di pensarci».
«E io vi ribadisco di essere pronto ad
accogliere il nuovo allievo, oggi stesso».
«Oggi?».
«Oggi».
«E voi che dite, signorina?» ruggì il
direttore.
La donna mi guardò.
E io guardai lei, scivolando in una gola
incendiata da boscaglie, in cui madri
spettinate e scomposte recitavano litanie,
cullavano figli, ergevano altari.
Una frotta di donne sole, rese audaci
dalla povertà e dalla sfortuna, su cui
svolavano tordi che starnazzavano
riempiendo l’aria di richieste, un urlo senza
nome, a cui nessuno prestava orecchio.
In quella donna mille altre donne
dormivano e si flettevano, ridevano e
piangevano, nascevano e morivano.
Poi abbassò gli occhi, e anche le altre
donne che erano in lei li abbassarono. Ed
emise un sospiro, e così pure le donne
sospirarono, fino a unire il proprio fiato a
quel vento che dall’alba aveva preso a
confondere le cose.
E infine parlò.
E con lei le altre, un coro di supplici e
poetesse: «Oggi» rispose.
Da Lenzavacche, ancora il 17 dicembre
Tuo, Alfredo
C APITOLO VENTITREESIMO

I l maestro si chiama Alfredo, e pare


che sia un parente lontano dei
Mancuso, una famiglia napoletana
che visse per qualche tempo a
Lenzavacche.
Me lo ha riferito Mussumeli, che
appena ha sentito pronunciare il
nome è corso in farmacia a consultare
un registro scompaginato, dove da
anni cataloga luoghi e persone. È un
libro a cui aggiunge fogli e postille,
sui cui annota arrivi, partenze,
eventi, lutti e profezie. Anche Tilde,
che pure ha una memoria
formidabile, di tanto in tanto lo
consulta, nonostante sia devota al suo
quaderno di famiglia, ed è l’unica a
poter vantare un simile diritto
d’accesso.
Di questi Mancuso, però, mi dice
poco, tergiversa sulle parentele, si
mangia con fare burbero le parole.
Quando si comporta in questo modo
è meglio lasciarlo stare, Felice, anche
perché quel che non so, su questo
maestro, posso capirlo da sola.
Così ho preso quasi subito a
osservarlo. Avrà poco più di ventitré
anni, il maestro Mancuso, non indossa
le camicie nere del regime, ha le
unghie sporche di inchiostro e gli
occhi stanchi dalle veglie notturne.
Tutti segni di un lettore vorace, che
spende la notte a inseguire le storie.
Dai capelli disordinati posso
dedurre che è un sognatore, e dalle
sopracciglia arcuate intuisco che sta
cercando qualcosa. Le ombre che
saltano sul suo sorriso fanno capire
che ha perduto qualcuno, e le
fenditure sulla fronte raccontano di
un dolore.
Tutti motivi per i quali Tilde
snocciolerebbe la solita teoria e
sosterrebbe con convinzione che
anche lui è in attesa dei fantasmi.
Dopo averti accolto nella sua classe
mi si è avvicinato, mi ha messa in
guardia e mi ha detto: «Lo sapete,
vero, signora, che vostro figlio sarà
considerato un diverso, un maledetto,
un sovversivo. Lo sapete che si
scanseranno al suo passaggio, che
sarà perseguitato dal regime, che
sputeranno dietro di lui».
Non ho risposto subito, Felice.
Volevo assaporare quel “signora”
tutto accunzato e rispettoso, soffiato
con lentezza, così diverso dal
“signorina” che con compiacimento
mi affibbia il signor direttore.
Ho respirato soddisfatta e ho
sorriso: «E che problema c’è,
maestru? È così da quando è nato».

E sono iniziati i preparativi.


Pennini, quaderni, boccette di
inchiostro, tamponi per asciugare il
bagnato. Un vecchio grembiule
appartenuto al nonno, cui Tilde ha
rammendato un paio di buchi. Un
temperino a lama filettata, matite
colorate e un compasso sghembo, che
tuttavia pareva avere spuntato una
buona rivincita contro il tempo.
Vennero fuori dai bauli arnesi
appartenuti ad avi disciplinati, cui
adesso Tilde rivolgeva parole di
confidenza e compassione, carabattole
che si erano ammucchiate tra la
polvere, resti di vite precedenti,
ormai lontane e consumate senza
lasciare altra traccia che quegli
oggetti. E tutti facevano rumore,
parlottavano del loro sconcerto di
sopravvissuti, ci guardavano con la
loro austerità venata di malinconia.
Infine, si lasciavano afferrare
docilmente per essere riposti in una
cartella di cuoio dove Mussumeli
teneva una volta i suoi arnesi.
Parlavano, le cose, anzi
becchettavano come galline dal gozzo
pieno, e nessuno in casa si stupiva di
quel mormorio senza decenza, che
stava a ricordare ai vivi la loro
precarietà, e ai morti la loro eternità,
e che tutti fondeva – vivi e morti – in
un’appartenenza viscerale, indistinta,
che andava dalle culle ai camposanti.
In poco meno di un giorno quelle
cose abbandonate persero l’aria
disfatta, la crosta di stantio, l’opaco e
il giallo delle muffe. Furono lucidate,
assestate, oliate da crepe e
sbucciature. Si prepararono a
diventare l’ineccepibile corredo di un
soldato valoroso, quasi il sacco di un
tenente di ventura che dalle ridotte
della sua caserma decida d’inoltrarsi
in un terreno inospitale, dove la
gloria del sole non arriva a posarsi.
Ecco, tutto era pronto per una
prima vera marcia all’aperto, Felice.
Tutto veniva allestito con la stessa
pietà audace con cui gli antichi
sistemano il morto, confidando in
un’altra vita meno cattiva, in una
seconda possibilità di pace, in un
regno dove nessun uomo ardisca a
prendere il posto di Dio.
E ti congedammo come un’ombra
prossima a resuscitare con successo,
catalogando con un’alzata di spalle la
precedente sfortuna. La giostra con le
vocali fu il nostro ultimo lascito, e la
riponemmo nella cartella facendola
tintinnare sotto lo scroscio di vento
che aveva segnato quella giornata
memorabile.
Poi fummo distratti da un altro
suono, una voce mugghiante e segreta
che si liberava per consegnarti il
proprio messaggio di buon augurio.
Le riconoscemmo subito.
Dal fondo delle casse, svegliate dal
trambusto, ululavano le streghe.

Cara zia,
erano in quattro. La donna, sua madre, il
vecchio farmacista e il bambino.
La donna spingeva una sedia alla cui
base cigolavano le ruote di un carretto. Sua
madre si ergeva maestosa senza parlare,
osservando le classi e sferragliando per il
rumore di numerose collane. Il farmacista
respirava rumorosamente, sbarbato e
pettinatissimo. Sul suo viso si leggeva una
grande stanchezza da sonno mancato.
E poi lui.
Felice.
Davvero non posso pensare a un nome
più adatto, perché sotto le storture di un
corpo improvvisato, metà funzionante e
metà no, stava nascosta la creatura più
allegra che abbia mai visto.
Felice non tergiversa sulla sua
condizione ma non la considera un
impiccio: se sbava, abbozza una scusa, se
inciampa nei gesti, si autoinfligge un
rimbrotto, se la testa prende a ciondolare la
raddrizza con uno scatto fiero e risoluto, nel
quale indirizza tutta la sua volontà.
Pur così stentato, il suo portamento ha
qualcosa di regale, e guardandolo per il
verso giusto puoi vedere chiaramente che
nei suoi occhi brilla un mistero di
insostenibile pace.
Gli altri tre gli si aggirano intorno come
parti del corpo, quasi insospettabili
prolungamenti della sua esistenza incerta.
Mussumeli lo punge per stimolarlo, la
nonna olia ruote e marchingegni, la madre
lo precede in ogni movimento, intuendo al
volo le sue necessità.
Li ho condotti in classe assegnando il
banco più facile da raggiungere e
precisando che mancano pochi giorni alla
pausa natalizia. Dopo le vacanze, ho
spiegato, sistemeremo tutto in modo da
consentire a Felice spostamenti più agevoli.
Credevo che non mi avesse capito, che
non sapesse cosa stessi dicendo, che la
comprensione della lingua fosse uno degli
obiettivi di quell’inusuale percorso
scolastico.
Ma Felice blaterò una sillaba
incomprensibile e la madre estrasse con
sicurezza da una borsa una specie di
trottola carica di ciondoli. Alla base accese
una candela.
«Vossia il maestro permette che chiuda
gli scuri?» chiese. «Felice vorrebbe dirvi
qualcosa».
Creai la penombra, mentre gli altri
allievi, come me, restavano imbavagliati
dal silenzio.
Ma Felice iniziò a sputare sulla sua
giostra, e ogni ciondolo prese a baluginare
come una lacrima di cristallo purissimo,
mentre una specie di coro, mi parve, quasi il
muggito sentenzioso di un gruppo di
streghe, ronzava nelle mie orecchie.
Forse non è stata che suggestione, cara
zia, o la spossatezza di tante notti perse a
invocare un rimedio.
So solo che sulla parete buia alle spalle
della cattedra Felice fece volare consonanti
fluorescenti che tremavano e spandevano
raggi.
Azzittiti dallo stupore e dalla paura
vedemmo formarsi le parole “Grazie,
maestro”.
Fu un attimo.
Poi le sillabe si spensero a una a una, la
luce tornò a invadere la stanza, la giostra
smise di girare.
Felice sorrideva mettendo in mostra una
dentatura assennata, le sue lettere
oscillavano nel vuoto e mi sembrò che le
streghe sospirassero all’unisono.
Finalmente liberate.
Da Lenzavacche, sempre il 17 dicembre
1938
Tuo, Alfredo
PARTE SECONDA
Apertura delle volontà
testamentarie della signora Corrada
Assennato, lette oggi, addì 17
dicembre 1950 dal sottoscritto Santo
di Liberato Massimo Calanna, notaro
in Lenzavacche.
Il sottoscritto, riuniti gli eredi
ultimi di Corrada Assennato di fu
Rinauro Astolfo vedovo Rosalba dei
Tramerzi, dà lettura della presente
scheda testamentaria, redatta in
Lenzavacche nell’anno di Dio 1699.
Folius primus di folii dieci.
Come sarìa che Corrada
Assennato decise di farsi letterata

I o, Assennato Corrada, nel pieno


delle capacità mie di donna
maliarda, et sanzo peccato, avendo
ricevuto sacramentum
riconciliationis, et assolta di ogni
venia mortale, io – dappresso all’ora
ultima, ora de veritate – passo a
scrivere di quelli eventi, et passati, et
presenti et futuri, che i discendenti
miei leggeranno solo nell’anno di Dio
1950 del diciassettesimo dì del mese
del dicembero, mensilitate alquanto
sancta et severa et utile, poscia che
ogni calamitate sarìa passata dalla
mia stirpe.
Quelli che in tale giorno daranno
veleno, malefici, o siano incantatori,
et ogni altri malfattori, quelli tali si
possano torturare, et mettere a la
tortura. Et maggiormente se possa
procedere secondo la qualità del
delitto.
Ma quelli tra li mei discendenti che
pur dilaniati da disgrazia, et da
malanni fisici, et da infermitate
magna, sarìano fedeli alle storie et
alla fantasia et alla pietate, per elli
valga la benedizione di Corrada
Assennato, prima tra le streghe, che
passa in rassegna quanto accaduto e
quanto sarìa ad accadere….

Era, l’agro di Lenzavacche,


contrada mandriana e senza
incantamenti. Io e le mie sorelle
passavamo senza macchia alcuna se
non di peccato originale. Assai
devotamente ci prostravamo innanzi
ai tabernacoli sparsi in lungo il
cammino, assai devotamente ci
segnavamo et recitavamo Ave, Pater
et Gloria.
La discendenza nostra né era
derelitta né era ancora venuta in odio
alla sorte, di talché ci soffermavamo
volentieri in crocicchi e piazzudde, in
lavatoi e fonti, a conversare di cose
degne e piacevoli.
In tutto serbavamo, io e le mie
sorelle, contegno massimamente
onesto.
Quando che poi rincasavamo, subito
attendevamo ai doveri domestici, a
opere pie, a elemosine e arte del
ricamo. Stavamo in silenzio come si
suole fare tra le claustrali, delle quali
imitavamo la mansuetudine.
Stavamo quindi in tal guisa,
nell’anno di Dio mille e seicento e
cinquanta, e non presagivamo
carestia, avendo anzi a mente la
profeticazione dell’ava nostra
Berenice che il secolo prima aveva
predetto: «Sarete in tutto sanate».
Il casato nostro contava feudi
quarantanove e il padre mio Rinauro
Astolfo degli Assennato era padrone
solerte. Avendo gabelloti li istruiva,
avendo donne di età impubere dava
nutrimento adattissimo all’età
invereconda del mestruo, avendo
schiave istessamente provvedeva a
elargire onze sei di grani duri,
filamenti per coperta di corredo,
madia per culla, due paia di scarpe,
un corpetto della trina di cotone
spurio ma resistente al caldo, un
santo rosario benedetto nella festività
delle candelore.
Era, questo padre mio, di contegno
austero e sommamente conveniente,
studioso verace di motti dei Santi,
scritture dell’antico testamento e
manoscritti dell’anno di Dio mille e
duecento e nove che fece arrivare da
abbazia eremitica d’oriente. E dunque
meditava sulla vita e sulla morte,
stava contrito e in atteggiamento
espiante, di ogni sua parola rendeva
conto a Domine Dio.
E tuttavia, anche di tal fatta, morbo
acuto portava in pectore: orgoglio
masculo, sanza caritate, arrogantia
tale e quale a Luciferus allorché
disobbedire volle a nostro Signore.
Gli era stata data in sposa, com’era
uso nella discendenza nobile degli
Assennato, la primogenita di certi
cugini di Agira, Rosalba dei Tramerzi,
di anni dodici, cui fu impartita
severissima istituzione. Non lettere
per non turbare lo spirito, non
divagazioni mondane, non canto, né
giochi di corda o palla o pupe cum
stoffa et lana.
La madre mia verseggiava a
memoria le laudi e le compiete,
dileggiava l’ozio, stava in prosternato
silenzio e scorreva l’ora sua in arti
adatte alla vita coniugale, di tombolo,
di telaio, di ago.
E tuttavia, datosi che la madre mia
era afflitta da continuo stato
gravidico, e per causa di detto stato
avea già avuto, come si suol dire,
piede calato nella fossa e tre unzioni
estreme con confessione e remissione
delli peccati tutti, le fu fatta dispensa
di attendere al ricamo che le
procurava dolori e straniamento.
Si decise, invero, di affidarla alla
cura di tale Deodata di Linguaglossa,
che avea dimestichezza con erbe e
radici, e curava mal di parto,
salivazioni, febbri di quartana e
gravidanze senza futuro.
Tale Deodata era femmina di severo
e contrito pensare. Non praticava
magicherie, né occulto o malocchiosi
infingimenti. Ma stava tutta presa da
rapimento di cielo, e profetava di
continua e perfettissima armonia tra
natura e Domine Dio, di tal guisa che
reputava che ogni medicamento sarìa
già esistente nel creato e all’omo non
residuerebbe che trovarlo.
Usciva quindi all’alba, quando che
il sole avìa toccato la linea di
medianza tra aria e terra, e facevasi
guidare dalla voce di un angelo.
Ciò fatto si chinava, trovava erba o
radice adatta, la coglieva, la
catalogava e la immetteva in vaso o
ampolla di coccio. Indi ne faceva
estratto acquoso, e decotto fumicoso e
speziato. Se in quel giorno medesimo,
poi, veniva a lei un certo malato di
corpo o di anima, capiva che l’erba
del mattino le era stata suggerita
dall’angelo per curarlo.
Accadeva difatti puntualmente che
il malato si sanava, Deodata straniava
in ringraziamento, e tutta
Lenzavacche pellegrinava dalla chiesa
Matrice alla cisterna detta delli
guaritori, dove per la prima volta ella
avea esercitato arte medica, e dove
adesso dimoravano ex voto, gambe in
oro, braccia, occhi e orecchie. Tutti i
sensi difatti aveano goduto
dell’alchimia sua di guaritrice, anche
se nessuno ne ascriveva l’effetto
all’erba, quanto piuttosto al destino
suo di imparentata con le ombre e li
misteri.
Sta di fatto che la madre mia non
solo nella frequentatione con donna
Deodata migliorò alquanto, non
patendo più disgusto del ricamo,
dolori di nascita, fitte alla tempia, ma
mutò pure indole e aspetto. Si fece
meno vereconda e principiò a narrare
motti e historie, fu colta da famelica
voglia di libri, e cum summa
prostrazione dello padre mio, volle
farsi letterata.
Non che Rinauro Astolfo degli
Assennato avesse in odio le lettere,
avendo anzi attitudine al verseggio in
endecasillabo, e contando nella
biblioteca sua otto e mila volumi in
rigore alfabetico, e delle più svariate
dottrine e lingue.
Tuttavia reputava che l’arte della
lettura e della iscrittura non sarìa
cosa da fimmina, rendendola audace
anzitempo, malitiosa et propensa
all’infedeltate.
Delle historie, poi, temeva assai
l’ardire e la natura loro di istigatrici
alla libertà.
Altro indegno sentimento l’historia
faceva poi patire alla fimmina: esso
era la ricerca della veritate, che
nemmeno all’omo si addiceva, secundo
Rinauro Astolfo degli Assennato, ma
al Creatore ovvero alli ministri sui, li
sancti sacerdoti clericali. Giammai
alle consorelle, essendo sì
istessamente sacrate, ma comunque
mulieres, vale a dire, pur sempre
fimmine.
Ma la madre mia, per tramite di
Deodata e delle erbe sue, fece gusto
alla lectura del libro della Natura, e
da lì le venìa maxima voglia e
concupiscenza di altri libri. In essi
leggea difatti caritatevole ansia in
pro dell’homo tutto e delle sue
afflictioni.
E né Rinauro Astolfo degli
Assennato, né padre Altomore e di poi
l’arciprete, né il Vescovo fatto
giungere immantinente a
Lenzavacche per l’esorcismo de
conciliationis, poterono sgravarla da
tanta fame di historie né da tale
smania di pietate.
Di talché la si disse malata e la si
chiuse nella villa di caccia alle porte
del feudo.
Io e le sorelle mie fummo
allontanate dalla madre nostra con la
motivazione d’un morbo contagioso
come lebbra, e stavamo alla finestra
del castello versando lacrime di malo
umore.
Non ci fu detto indove starìa la
madre peraltro ingravidata, se in
stato di torpore o attesa, e se di tale
fratello o sorella di cui avea pieno il
ventre fosse stato emesso vagito.
La madre mia sanza alcuna prece,
sanza dolore di morte, sanza nostalgia
di fine, passò dalla memoria et
financo dalle parole, niuno la disse
più in vita et anzi, niuno più attestava
che era mai vissuta.
Io, che ero maggiore e avevo
memoria di lei, osteggiavo la
scomparsa sua e per tale ragione fui
detta ostinata et diabulosa, fui fatta
digiunare per nove die e tenuta in
disparte dalle sorelle mie, che per la
giovanissima aetate furono persuase
di essere orfane e non averla mai
acconosciuta.
E allora io, Corrada Assennato di fu
Rinauro Astolfo, mi finsi menzognera,
improvvisai sceneggiata come di
teatrante e dissi di avere dimenticato
la madre mia Rosalba.
Ma poi, cautamente, segretamente
et sanza pentimento alcuno, imparai
di lettere, scrissi missive et accertai il
vero: che la madre mia Rosalba,
lasciata in solitudine nell’ora dello
sgravamento, avìa dato alla luce
maschio sanza forma, inadatto al
vivere e al morire, spirato nel
momento del medesimo nascere col
nome di Felice di Rinauro Astolfo,
nato in agro Lenzavacchae il 17
dicembero del mille e seicento et
cinquanta.
Data, questa, in cui la madre mia
pure vergò testamentum di poche
littere: “Io, Rosalba dei Tramerzi,
tornerìa in prossimo futuro cum
Felice a narrare historie”.
Folius secundo di folii dieci.
Come sarìa che nacquero le
streghe

A vvenne di poi che lo cadafero di


madre et filio funno arritrovati
abbracciati et coniuncti, lei con
sporcizia di parto infino alle caviglie,
lui con corda di ombellico sanza
interruzione, viva e galoppante.
Lo padre mio tenìa nascosti li corpi
e non depose i medesimi in cappella
della famiglia Assennato, non fece le
esequie e li lasciò nella istissa casa
ove moglie e figlio morirebbero, di
talché la villa fu abbandonata nello
stato in cui trovavasi, e non fu mutato
loco alcuno, né sala della scientia, né
cantine e cunicula segreta, in tutto
attestando che lì inizio et finem
s’erano avvinte sì tenacemente che
nessuno sarìa più tale come era stato.
Io gemea per la madre mia per
quattro e cento e undici mesi, dopo
che trascorsero li quali, andai in
cerca di Deodata di Liguaglossa onde
chiedere di come fu e di come non fu
ch’ella – medicamentosa et erborista –
non avìa aiutato la madre mia
nell’ora dello sgravamento.
Ma la mischina mi narrò nel pianto
dirotto dei martiri, che poscia che
Rosalba fu chiusa nella villa, ella fu
fatta ligare di polso et di polpaccio, e
tenuta in sì barbaro supplizio da
perdere coscientia.
Quando che poi tornò alla luce, ed
essa Deodata si troverebbe liberata,
tutto erasi già compiuto: sgravamento
et morte tanto di Rosalba quanto di
Felice.
Di lì in poi nessun angelo arriprese
visita, e niuna erba fu mai più trovata
per le anime che in pellegrinaggio
passiavano dalla sua porta.
Deodata, presa da maxima
afflictione, non studiò più la magna
carta della Natura, e mai più fece
arte medica o estratti di radice.
Immalinconì in precocissima
vecchiezza, e si spense con roteamento
di pupille e questa ultima speranza:
che Rosalba arriposasse beata col filio
suo Felice.
Finita che fu la marcia funebre per
Deodata, io Assennato Corrada, del fu
Rinauro Astolfo, giurai che mai più
sarìa rientrata nella paterna casa e
che anzi sarìa per sempre rimasta
nello casolare ove la madre mia e lo
sfortunato fratello Felice
morirebbero.
Non presi corredo, né vesti, né
arnesi di belletto o pettini o gioielli, in
solitudine entrai nella villa sanza
denari, e financo sanza nome di
battesimo, datosi che il padre mio
scagliò anatema et diseredatione cum
iattura di maledizione.
Ma la sottoscritta, Assennato
Corrada, che nulla temeva se non l’ira
di Domine Dio Santissimo, dileguavasi
nella nuova dimora, ove accese
candele in ricordo delli morti e delle
anime vaganti.
Poscia la sottoscritta si denudava di
ciascuna sottana di pizzo o cantù, di
gonne e busti, di ornamenti e decori, e
stette in nuditate e pentimento simile
a quello di Chiara d’Assisi.
Rivestivasi di poi di saio monacale,
mendicando e accogliendo nella villa
madri diseredate e sanza futuro.
In poco meno che duecento e
triginta die la villa popolavasi di
ingravidate, di moribonde e
peccatrici, chi per violenza o abuso,
chi per follia d’amore.
Tutte venìano confessate e
comunicate, li nascenti battezzati e
liberati della macchia originale, di poi
lavati, forniti di corredo e cresciuti
fino a che non sarìano nella
condicione di fare vita retta.
Venivano alla villa sanza speranza
e ne uscivano in tutto risanate, di
talché niuna fu perduta et anzi fece
vita morigerata e qualcuna preferìa
financo consacratione alla vita
monastica.
Qualche altra volle invece dimorare
con me nella villa et prestare
assistenza et devotione, così che in
tutto fummo familiari et affratellate
di vero e fervido amore.
E però il padre mio non tollerò
siffatta onta. E confabulò per la
scomunica e per l’allontanamento mio
e delle affratellate dalla Sancta
Chiesa.
Ottenuto che ebbe siffatto edipto,
nessuno volle dare la Sancta
Eucarestia a Corrada Assennato e
nemmanco alle affratellate sue, anzi
fuggivano allorquando vedevano
l’ombra nostra, et minacciarono roghi
et pire et fuoco di processo ereticale.
Io che avìa lasciato la casa paterna
e ricevuto anatema fui detta prima, le
affratellate mie furono dette secunda
et tertia e così nomate, fino all’ultima
che era quarantesima, le streghe di
Lenzavacche.
Folius tertium di folii dieci.
Come sarìa che morirono le
streghe

A vvenne dunque che le streghe


furo oggetto di banno et imperio,
e Lenzavacche occluse le porte e li
archi d’ingresso alle donne
affratellate della villa.
E finì che le affratellate, dette
Streghe di Lenzavacche, in tutto
sarebbero isolate e patirono la fame.
Ne conseguì che s’ingegnarono a
trarre dalla terra frutto e
nutrimento, e vangarono istessamente
delli omini, rapirono cacciagione et
uccellame, raccolsero in recincto
coniglio, lepre et porcospino.
Di poi la sottoscritta Assennato
Corrada ricuperò le ricette della
buonanima Deodata di Linguaglossa, e
fece erigere altarino in perpetua
memoria, cum immagine di sancta
guidata dall’angelo delle erbe.
Recatasi di poi presso l’abitazione
sua, lasciata all’abbandono, prese in
custodia tomi et libri, historiole et
motti, canti di buon augurio e laudi.
Riunì i figli tutti delle donne
perdute e diede loro rudimento di
lettere, di numera et di oratoria.
Sedevasi la sottoscritta Corrada
Assennato in tavolo di pino, e davanti
stavano impuberi di varia aetate che
come discipuli apprendevano.
Di tutto erano esperti tali discipuli,
e di stelle, e di medicamenta e financo
di come fare scongiuro avverso li
vermi intestinali, ma maximamente
furo periti nell’arte della fantasia.
Volle difatti Corrada Assennato che
la sete della madre sua Rosalba,
morta sanza pietate et sanza parola –
sete di fabule, di mirabilie, di stupore
et di libri – troverebbe infine
soddisfazione.
Et istruì tali discipuli a narrationi
serali, che in tutto doveano portare
corda et anima in prossimità di
Domine Dio e a consolatione di ogni
pena.
Acciocchè avvenne che di notte in
notte le historie facevansi più belle, e
die appresso die, arricchivasi di
musica, recitatione et danze.
Risonava la villa di bagliore come
di candela, di flauti e cetre, di
ballatella cum armonica melodia.
Cantavasi l’inno dello frate
Francesco, e le giagulatorie di santa
Anastasia sul monte, et invocatione
appassionata al santo Paolo, primo
ceraldo per il sangue di Cristo.
Ma il padre mio, che versava ormai
sul finire della vita, sentendo musica
e canti, disse che in villa le
affratellate danzavano i sabba, e che
luminescenze di candela aprivano il
passo a maleficio, e che le historie et
la fantasia sarebbero come venefica
erba visionaria.
In delirante stato di prossima
morte, il padre mio si spogliò e
peregrinava nudo per le vicole di
Lenzavacche, gemendo e colpendosi,
ululando talis lupus famelicus che le
affratellate starebbero per attirare
sul feudo tutto un giudizio finale.
E mentre quello agonizzava, et
infine cadeva sulle ginocchia sanza
untione sacra, emettendo rantolo e
sospiro ultimo, li abitanti di
Lenzavacche, terrorizzati per tale
finale giudizio causato dalle streghe,
armavansi di pale, picconi e vanghe, e
bardavasi il capo di corna di vacca, e
coda di toro contro la fattuccherìa.
Giugerono alla villa come orda di
purganti o dannati, sanza
commotione, sanza lacrima di
pentimento, sanza ragione. Et
abbatterono cancello et steccato,
irruppero ghignosi, et sventrarono
donne, impuberi et gravide.
Io sola, Corrada Assennato del fu
Rinauro Astolfo, sopravvissi allo
massacro di affratellate e innocenti,
solo perché trovavami inginocchiata
appresso la cappella della santa
Deodata, fuori le mura, dove non sarìa
suono, né umano né divino, che
potrebbe raggiungermi.
Folius quattuor di folii dieci.
E come sarìa che Assennato
Corrada vide nel tempo prossimo
venturo

T ornata che fui nella villa, subito


avvertii un lezzo di carne
bruciata et sangue.
Poi che m’immisi nella corte, vidi il
massacro.
E principiai col contare membra et
particule corporis, dita cum vera
nuziale ancora infilza, et gamba cum
sandalo, braccia di neonato,
capigliatura intrezzuta di crocchia et
spilloni.
Vidi pure li cadaferi delle
affratellate con sguardo raggelato di
terrore e bocca svacantata in
disumani gemiti, di pianto et affltione
maxima.
Li corpi sarìano in ogni dove, nella
cucina ove era stata condita la
minestra di farro e frumento, nel
salone ove narravansi le historie,
nella sala della scientia, et nelle
camere di sonno, ove le madri s’erano
sgravate, et li filii accolti tra lo
giubilo mio et delle altre, perché
quando che un infante venìa al
mondo, le streghe solevano
scampanare cento et dieci sonagli.
E ancora mi portai nelle culle, ove
pinguamente ninnavamo canticule di
buon riposo, soffiando sulli occhi delli
infanti vento di bocca che era
auspicio di giustitia, misericordia et
caritate.
In ogni dove la sottoscritta
Assennato Corrada vedea la vita che
era stata, e tutta venìa presa di nuovo
dolore e maliconia, come che quando
la madre sua Rosalba erasi trovata in
solitudine.
In illo tempore avìa pensato, la
sottoscritta Assennato Corrada, che
talis destino era definitivo et andato,
che mai più sarìa possibile la morte di
una madre cum filio, foss’anche
filiatione di peccata.
E invece, nuovamente e
istessamente cento e più madri et
cento e più filii morirebbero alla villa,
che quasi come casa infestata di
malaugurio rinnovava straziante urlo
di fine, e la sottoscritta Assennato
Corrada disse basta, basta e ancora
basta, venga dal cielo angelo cinto di
spada, venga Arcangelo et Serafino,
venga corte di alatissimi figuri, o la
Santissima martire Deodata.
Venga, Signore, una mano pietosa,
mendicante et sanza crudeltate.
Venga pace, disse la sottoscritta a
Domine Dio Santissimo, arresti lo
principe delli mali di insanguinare la
terra.
Così dicea Corrada, e per molti die
volle giacere con le affratellate sue,
prona e a bocca aperta, unita alli filii
sgozzati e incancreniti, reietta come
le reiette a vivere medesimo stato et
medesima sorte.
Poi venne luna grossa, che spandea
raggio di latte in su la villa.
Li cadaferi riluceano come specchi,
e li occhi corrupti pareano sanza
corruptione, et le bocche svacantate
pareano invece il riso delli angeli, et
mani mozzate pareano giunta mano di
preghiera.
La serva di Dio Assennato Corrada
capì adunque che abbisognava dare
degna sepoltura, et accompagnamento
di pianto et saluto, cum spansione di
incensi et liturgia sancta, come si
conviene alli martiri.
E però, niuno tra li sacrati volea
dare il funereo benedicite alle
streghe, et anzi raccomandavano di
calare dette affratellate in fossa
comune, poco distante dalla villa, ove
cumulo di terra sarebbe copertura, e
ove nessun segnale ricorderebbe lo
maleficio toccato all’agro
Lenzavacchae.
Ma la sottoscritta munivasi di
piccone, e scaverebbe cento e più
fosse, quante sarìano le madri cum li
filii, e depose ciascuna madre col filio
suo stretto in seno, tenuto serrato in
gesto di protetione, in quanto che
nella aeternitate niuno supplizio più
patirebbero le streghe.
Poscia la sottoscritta incise cento e
più orationi, e le cantò una a una, e a
ogni sepulcro versò lacrime, petali di
raucaria, et pagina di Santo Evangelo.
Mise lapidi et statua di Vergine,
candele sempiterne, veracissime
lumìe della vita.
Così, nessun cadefero restò sanza li
conforti, et anzi mai si vedrebbe in
tutta la contrada simile processione di
anime gaudenti et soddisfatte, in
quanto che dopo tanta afflitione,
averìano finalmente la pace.
La sottoscritta Assennato Corrada,
cantato che fu l’ultimo vespero et
ultima nenia di morte et resurrectio,
cadde sfinita in vegetativo stato, tutta
come se sarìa già nella parte
dell’oltremondo.
Stette così, Assennato Corrada,
come stanno in sospensione li spiriti
prossimi a morire, ma non morse, né
più vivette come si conviene a donna,
perché di tutto ciò che di lì a trecento
anni sarebbe stato, ebbe certissima
visione di futuro.
Folius cinquo di folii dieci.
E come fu che Corrada Assennato
profetò li futuri die

C adde quindi, Assennato Corrada,


in speciosa visione di eventi. In
tale condicione li anni sarebbero come
giorni, et li secula come anni.
Vide lo tempo generale e lo tempo
particulare, ciò che sarìa per li popoli
e ciò che sarìa per li singuli, e vide
pure, Corrada Assennato, le familie di
Lenzavacche vivere e morire, calare
negli inferi o involare nel sancto
Paradiso, passando per la espiatione
delli purganti.
Dello padre suo vide dannazione, in
quanto che la moglie Rosalba
comparve a lui in ora mortis a udire
dalle labbra sue prece di perdono, ma
illo rifiutavasi di cedere alla pietate.
Di talché con grave dolore Domine
Dio dovette arrispettare lo libero
arbitrio et lasciare che il demonio
porterebbe seco l’anima disgraziata di
Rinauro Astolfo.
Rosalba, invece, godeva quiete dei
giusti, solo avea rimpianto di destino
mozzato che sarebbe quello di Felice.
Gemea difatti, Rosalba, in quanto
che Felice avea anima di menestrello,
e sarìa stato portatore di summo
gaudio ove la fine non avrebbe reciso
sì bella vocazione.
Fu così che, come già dixi, fece
tenstamenta, e che l’accorata sua
prece sarebbe accolta.
Decideva, difatti, Domine Dio, che
non sarìa perduta la stirpe delle
streghe, e che altro Felice troverebbe
accasamento nella villa.
Ma acciocchè avvenisse, molti altri
die, et stagiona, et secula sarìano a
passare.
E lavacri nel sangue, rivolutione,
guerra e carestia.
Dopo di che, et primanco della
magna guerra detta secunda, altro
Felice sarebbe nato istessamente in
villa, ma solo per fusione di seme et
anima, né solo seme, né sola anima, in
quanto che la fantasia mesce corpore
et spirito.
Folius sexies di folii dieci.
E come sarìa che altra strega
nascerebbe in Lenzavacche

A ndando colla visione mea nel


prossimo futuro, e portandomi
infino allo seculo viginta (che sarìa
seculo di maximo stridore di denti,
quale Geena ritratta dallo Santo
Evangelo), vidi che la villa restava in
solitudo fino all’anno mille e ottocento
e ottanta.
In tale anno, tale Deodata di Aricò,
nepote antichissima per parte di sora
della Deodata di Linguaglossa, non
avendo moneta, né familia, né dotalis
armamentum, ebbe permissione dalla
parrocchia di accasare nella villa.
E difatti, morte che furo le streghe
e passata io nello monastero
claustrale delle Immacolate (ma sanza
permissione di voti, essendo viva la
scomunica voluta dallo padre mio, e
quindi come aromataria e donna di
silentio), la Sancta Chiesa fece
esorcismo sui luoghi detti delle
possedute, liberò la villa di ricordi et
malefici e lasciò che sarìa per due
secula come loco abitabile dalli
questuanti o dalli pellegrini.
Stava difatti ancora in Lenzavacche
il pozzo detto delli guaritori ove
viandanti lasciavano ancora segnali
di devozione: immago sacra, corona di
Rosario, ex voto di pretiosa factura.
Vidi adunque in visione che
Deodata di Aricò avìa in tutto l’arte
dell’ava sua di Linguaglossa, et
mesceva erba medicamentosa,
ravanus et partenio, calendula ac
melissa officinalis.
Praticava sopraffina arte medica
delle erbe, datosi che leggeva
anch’ella in libro magno della Natura,
et sanava proprio come la prima
Deodata, poiché nella creazione tutta
ravvisava remedio et sollievo a
infermitate.
Andava predicando difatti che
niuna calamità potevasi comparare al
morbo dell’anima, che consisteva
principaliter in mancantia Cristi, in
orgoglio et in vanitate.
E, infatti, Deodata in tutto fu casta,
in intentione, in contegno, in parola.
Giammai affligevasi dato che
abbandonavasi alla Providentia che
era apparentata colla necessità, et le
due cose, providentia ac necessitate,
erano sore et maximamente
ingegnose.
Tuttavia la condicione sua di donna
sola, in periodo di brigantaggio et
desperatione, in villa isolatissima e
verdeggiante, la esposero a rapina,
furto, diaboleria.
Più volte ella chiese soccorso et
protetione alla Parrocchia, ma datosi
che non avea moneta, né amicitia tra
li potenti, o servitute e vassallaggio,
arrimase in abbandono.
E accadde perciò che brigantazzi a
vederla sanza difesa,
approfitterebbero carnalmente di lei,
violandola et percotendola, fino a che
capirebbe, la povera Deodata, che
filium attecchì nella sua viscera e che
s’era ingravidata.
E però Deodata in nulla rimase
afflicta, datosi che vivea apparentata
con la Providentia, e quando si compì
il tempo, apparecchiò il vecchio
talamo delle streghe, ove esse usavano
sgravarsi.
Appese sonagli et preci, soffiò dalla
bocca vento di iustitia, misericordia e
caritate.
Poscia distendevasi quieta e a ogni
spinta della creatura recitava Ave
Maria.
In siffatta guisa Deodata partorì
sanza afflictione, ridendo
maximamente.
Lodò Domine Dio et fece taglio alla
corda che la ligava alla creatura.
Poi vide che fimmina era, come
tutte le streghe, diede un urlo di gioia,
fece benedizione alle antenate e la
nomò Tilde, che vuol dire lieta,
generosa, ingegnosissima.
Nel giorno seguente Deodata fece
baptizzo di Tilde, principiò coperta di
morte e prese risoluzione di scrivere
un quaderno di famiglia con passato,
presente et futuro.
Poi fece profeticheria e disse che
quando che sua figlia avrebbe trovato
sposo dell’anima e del seme, essa
Deodata sarebbe felicemente spirata,
avrebbe svolato tra li angeli, abitato
dimora aeterna e cantato semper
Gloria in excelsis.
Così avvenne.
Folius septimus di folii dieci.
E come sarìa che Tilde trovò
sposo dell’anima e del seme

D ifatti non sarìano passati che


diciotto anni e due mesi da che
Tilde ricevette baptizzo, ch’ella trovò
maritaggio dell’alma e del seme.
Avvenne per essa come per tutte le
streghe, sanza sacramentum, datosi
che in villa, anche se liberata da
maleficio, alcuno potevasi maritare,
pena nuova scomunica.
Era, detto omo di Tilde, gaudente et
sancto, di umoracci e altrettanta fiera
fedeltate.
Facea arte di tagliatore di pietra, e
difatti nomavasi Pietro, mentre Tilde
in tutto era perita delle erbe come la
madre sua Deodata, et viveva in
povertate vendendo aromi e radici a
speziale sopraffino di paese, tale
Mussumeli Ernesto, doctore in
medicamenta.
Mussumeli doctore, sebbene carnale
et dedito a taluno dei vizi che
maximamente dispiacciono a Dio
(datosi che non disdegnava copulatio
et gola), tuttavia avìa infinite virtù e
cancellava li errori sui a causa di
cuore apertissimo alla pietate.
A lui dovevasi difatti applicare lo
motto dello santo Paolo che semper
dicebat che caritate copre magno
numero di peccata.
Quando che Tilde si unì a Pietro,
Deodata finì coperta di morte, si stese
in supina postura, lesse pagina del
Santo Evangelo e, come aveva
profetato, lietamente spirò.
Tilde ebbe in hereditate quaderno
di familia che svelava lo die futuro e
abito nuziale mai usato da
trasmettere a discendenza.
Conosceva che lo sposo suo sarebbe
convissuto con lei per anni viginta e
non più, e che poscia Mussumeli
facerebbe la vece di fratre.
Conosceva anche, per averlo letto
dalla madre sua Deodata, che averìa
un solo sgravamento, e che esso sarìa,
com’era uso delle streghe, di fimmina
sognatrice e letterata cui era
d’obbligo dare il nome di Rosalba
secunda.
Difatti in tutto avvenne come
profeticava lo quaderno di Deodata, e
Tilde diede alla luce Rosalba, né stupì
allorché issa, all’età di viginta
quattuor, svanì di cuore et di ragione,
fu visitata da homo errante et
misteriuso, che di officio faceva
arrotino, cui si diede sanza reticenza.
Non stranì, Tilde, né osteggiò la
profeticazione, et considerò che tale
arrotinus – che sarìa per Rosalba
come respiro – era stimabile in
quanto che conosceva dolore, amore et
persecutio.
Vide anche la fine sua, e come
Rosalba patirebbe lutto perpetuo, ma
tutto ciò avverrebbe poscia.
Prima è d’uopo narrare chi era tale
arrotinus, cui fu dato in sorte di
amare Rosalba e generare un nuovo
Felice.
Folius octavus di folii dieci.
Chi fu e chi sarìa l’arrotinus

V enìa l’arrotino da terra di


vulcano et tremore. Vulcano di
antiqua ricordanza, natum da viscera
partenopea, che nomasi Vesuvio.
Sua stirpe discendea difatti da tale
Mancuso, che era uomo di primiera
nobiltate ma tutto preso da
compassione, decaduto per eccessiva
pietà e soverchio amore per li poveri.
L’arrotino fu invece nomato
Orsario, atteso che lo padre suo
conosceva li cieli e s’incantesimava in
special modo a osservare la stella
dell’Orsa.
Ora. Tale arrotino avea tal padre di
tenerissimo core, ma la matre sua
sarìa donna di polso et di ambitione
maxima.
E difatti, anche se lo filio suo
opponevasi, intrigò acciocchè Orsario
si maritasse cum tale Vigevano
Annunziata, che godeva magno
respecto in Napoli e avea familia
plena di arrogantia al par di lei.
Era difatti tempo astruso in cui li
regni sarìano in mano a unus
tirannus.
Governavano podestà che aveano in
massimo spregio l’humiltate.
Era tutto un risuonare di fanfara,
tambureggio inverecondo di pulpiti.
La Sancta Chiesa venìa maximamente
indebolita e tale Mussolinus,
condottiero che facevasi nomare,
all’uso dei latini, duce, tanto fece che
addivenne dittatore.
Vigevano Annunziata venìa da
famiglia cara a tale duce, sottomessa
anzi a sua voluntate.
Orsario era invece di natura
arrendevole alla miseria. Come lo
padre suo facea esercizio di caritate.
All’alba immergevasi in rioni abiecti,
detti spagnoli, ove sarìa tanfo di peste
et morbus di colera.
In tutto prodigavasi per la salute
delli ultimi, tanto che non sarìa
nomato Orsario ma “lo santo”.
E però la sposa sua, Vigevano
Annunziata, ebbe in magno spregio
siffatto contegno che reputava infimo
e contra lo duce, e quando che lo
ventre le s’ingravidò di filio, impose
allo marito Orsario di non più andare
per le vie delli rioni spagnoli.
Giurò di poi che se Orsario, detto lo
santo, disobbidirebbe a tale divieto,
ella strapperebbe dal grembo di
madre la sua stessa creatura e la
getterebbe nel porto di Napoli.
Al che lo santo attese nascita di
filius, che nomò Mancuso Alfredo e
che in tutto parea cherubino, tanto
era docile e di buon temperamento.
Pregò poi che Domine Dio sarebbe
con isso debole e non forte, fantasioso
e non potente, umile e non orgoglioso,
e lasciò casa coniugalis infino alla
terra di Sicilia.
Quivi giunto si diede a mestiere di
spregio, e arrotò punte, cantri e lame,
e otteneva pagamento di poco conto,
ma quello che prendeva in moneta
dava in elemosina.
Solo per istisso teneva libri di
narratione et fantasia in quanto che
cum libro sentiva che l’anima sua
starebbe come in preghiera.
Così facea per anni, di contrada in
contrada e fino all’anno mille e
novecento e viginta octies, quando che
s’arritrovò in terra di Lenzavacche.
Di detta terra nulla sapea se non
che era di streghe, ma chi sarebbero
tali streghe e perché avrebbero
siffatto nome, ignorava.
Quando che, però, trovossi in faccia
Rosalba che aveva occhio lucido per
libro, voce di letterata, et corpore di
donna sognatrice mai presa da homo,
l’arrotino ebbe sussulto come nella
viscera sua, strabiliamento di corda et
intellecto.
Sanza nulla chiedere capì che non
giunse colà per caso ma per
profeticherìa, e che Rosalba non
dovea essere sua, perché già lo era, e
che non dovea nemmanco dire sì,
perché l’avìa già detto, in tempo che
non era tempo, e in loco che non era
loco, in quanto che se una strega
guardava un santo era come se
fiamma troverebbe fiamma.
E capì pure, l’arrotino, che tale
Rosalba non era appena acconosciuta.
Era, per voluntate di angelo,
arritrovata.
Folius nonus di folii dieci.
E come fu che l’arrotino lasciò
Rosalba secunda

A maronsi li due, per triginta die,


quanti Tilde avìa letto nel
quaderno di Deodata.
Quando che si univano, cielo, et terra,
et onda di marea consumavano
felicitate ultima, scuotente et
proxima a magna separazione.
E più quelli sentivano che sarìano
divisi immantinente, più amavansi in
furore, ignari di stelle che frattanto
cadevano e nunciavano sventura.
Fiamma su fiamma amavansi, fino ad
abbruciare in foco divoratore di
sommo bene.
Giunta che fu al trentesimo die,
Tilde arriconobbe l’arrivo della
profeticheria.
Vennero, gli homini di Vigevano
Annunziata, cinti in veste di
nerissimo panno. Scampanio dell’ora
media, et nona, et septima tuonava
come perpetuo lutto, e ruggito come
di demone luciferoso.
Cercavano il santo da almeno dieci
solstizi, ma sempre quello mutava
strada et mutava loco.
Solo per Rosalba avìa fatto sosta,
allocandosi in terra estranea.
Ma proprio quell’allocarsi presso
Rosalba, fu come fatalità sanza
perdono, in quanto che quelli, affiliati
allo duce, avìano sentinelle puranco
in Lenzavacche, e fuoro avvertiti che
l’arrotino dimorava carnalmente cum
donna di incerta reputazione.
Datosi poi che era vincolato in
maritaggio con Vigevano Annunziata,
il santo venìa rapito da letto di
Rosalba e di forza portato in Napoli,
ove la moglie sua lo attendeva per
vendetta.
Ma, invece, filius Mancuso Alfredo
– che già avìa fattezza d’omo pubere –
sperava in carezza di padre, e da anni
non attendeva che lo suo rientro.
E però.
Giunto che fu a Napoli, cadde, il
santo, in prostrazione sanza rimedio.
Niuna cura, nemmanco di
cattedratico sommo, sarìa bastevole a
sedare febbre lividosa e mortifera,
che tutta invadeva suo corpore.
Morì invocando: «Rosalba, Rosalba,
Rosalba», et solum volle benedicere
filius suo Mancuso Alfredo, cui
confidò di cercare altro frate, ma
sanza indicare indove, e sanza
suggerire nome di madre.
Solum dixit che quando che averìa
trovato lo frate suo, Mancuso Alfredo
sentirebbe come strepito di cassa,
come coro di supplici.
Come streghe di angelica forza
infine liberate.
Folius decies di folìi dieci.
Come sarìa che Mancuso Alfredo
arritroverebbe frate suo Felice

E così, invero, sarìa.


Mancuso Alfredo raccolse fiato di
morte del santo e sua ultima
voluntate: trovare frate misteriuso,
frate di incertissimo nome e di
incertissimo loco.
Disse adunque alla madre sua,
Vigevano Annunziata, che a lui
toccherebbe per destino di
peregrinare in cerca di tale frate.
E che anche lui, come il santo,
avrebbe cercato et ancora cercato,
fino a che lo frate suo non sarìa
venuto allo scoperto.
Al che Vigevano Annunziata diede
in follia che a Napoli nominano
pazziamento.
Come anco avìa fatto il padre mio
Rinauro Astolfo, scagliò maleditione e
giurò che Mancuso Alfredo sarìa per
lei come mai acconosciuto.
Mancuso Alfredo, chiuso l’animo
suo in patimento estremo, ciò
nonostante andò e vagò, e per lochi di
plaghe settentrionali e per lochi di
plaghe meridionali, e su vette e su
laghi, e su pianura e su mare, fino a
che ebbe nomina di maestro in agro di
Lenzavacche.
Quivi chiese di tale arrotino, o di
homo noto con nome di santo, o se
qualcheduno conoscerebbe Orsario.
Ma niuno conosceva né arrotini, né
santi né homini con epiteto di stella,
ché anzi Lenzavacche in quel tempo
spregiava poesia, et moti di angelo, et
fantasia.
Mancuso Alfredo, che invece da
sempre amerebbe le historie, trovossi
in solitudine magna.
Era difatti in schola sanza
immaginatione, ove discipuli averìano
forma di soldato, et maestri forma di
condottiero, e dove niuno – né infante
né adulto – arricordava dulcedine di
fabula o pietà per narratione.
Et anzi, gli fu puranco data
scadenza di suo insegnamento, il
diciassettesimo die del mese di
dicembero.
Ma avvenne che le streghe, già
morte da più e più secula et però
ancora tumultuose, turbinarono nella
mente dello frate suo Felice.
Mentre Mancuso Alfredo già
temeva scadenza prossima, le streghe
s’immetterono nelli sogni di Felice, et
nello pensiero, et nelli desideri.
Et in coro fecero come uno fiato et
unica parola: scuola, Felice, scuola,
scuola, nomina scuola, piangi scuola,
scrivi Felice: scuola, scuola, scuola.
Al che Felice principiò a gemere:
scuola, tanto che madre sua Rosalba,
et Tilde et Mussumeli doctore,
strabiliarono.
Come, scuola? Dissero in magno
stupore. E come sarìa possibile che
Felice conoscerebbe scuola?
Fatto sta. S’ingegnarono come
indovini a cercare legge che
consentirebbe a Felice di immettersi
in detta scuola.
E trovarono, difatti, legge non
asservita, libera come tordo
migratore, che infine diede permissio
a Felice d’apprendimento in scola.
Quando che poi Mancuso Alfredo
trovossi in faccia Felice per primiera
volta, i fantasmi delle vecchie
affratellate impazzirono, bussarono
alle porte di ciascuna abitatione,
soffiarono vento di bocca e di sollievo,
involaronsi siccome bestie di
piumaggio, et come arcangeli di
primissima aetate.
Tale sarìa lo frastuono
dell’arritrovamento di frate cum frate
che anco Mancuso Alfredo sentirebbe
strepito et urla di gaudio.
Ululavano, le streghe, e fecero
magno sfogo di gioia, finalmente
liberate.
Al che Mancuso Alfredo capì che
Felice, storto e di malagrazia, ma con
stelle infisse in occhi e senza niuno
patimento, era lo frate suo e che
voluntate de lo santo era infine
compiuta.
EPILOGO

C ara zia,
oggi io e Felice abbiamo letto il
tuo testamento.
Finalmente tutto si è dipanato ai
nostri occhi, e tutto – anche scrivere
lettere a una zia morta alla fine del
Seicento come mio padre mi aveva
detto di fare – ha trovato significato.
Questa è l’ultima lettera, come già
sai, perché ogni storia ha bisogno di
una conclusione, anche se i finali
servono solo agli uomini, mentre la
verità non ha alcuna necessità di
mettere la parola fine.
Perché la verità si cerca sempre, e
sempre rinasce da dove è morta.
Da quando ho ritrovato mio fratello
Felice, non ho più lasciato
Lenzavacche.
Mi sono unito a quella strana
famiglia composta da Tilde, Rosalba e
il dottore Mussumeli come se ci fosse
sempre stato un posto riservato a me.
Insieme abbiamo letto storie la
sera, abbiamo riso, pianto, sepolto i
nostri morti. Abbiamo vissuto nella
pace e nella guerra, nella carestia e
nell’abbondanza.
Il primo ad andarsene è stato
Mussumeli, che presagendo la fine ha
deciso di sorprendere persino Nostro
Signore col quale si era finalmente
riconciliato. E ha organizzato una
festa con tanto di fuochi artificiali a
cui hanno partecipato tutti coloro ai
quali ha fatto del bene.
Una frotta di mendici, bambini,
animali senza coda, donne dalla
reputazione perduta e vecchi
scapestrati. Ridevano mettendo in
mostra le gengive più che i denti, e
masticando con metà della bocca la
torta che lui aveva fatto preparare a
Tilde. Ma quando è spirato, hanno
levato un urlo di lode che ha tuonato
per molti giorni.
Dopo la sua morte, Rosalba lo ha
sostituito ed è diventata la farmacista
più nota della Sicilia. Attingendo
all’esperienza e al buon umore di
Tilde ha iniziato a inventare medicine
miracolose, che le vengono richieste
da tutto il mondo.
Non si è mai sposata né, dopo papà,
ha mai voluto altro uomo. Quando
chiude la farmacia sparisce nel
retrobottega a leggere libri. E lì, nel
suo mondo di mezzo, continua a
parlare e a vivere con il santo.
Tilde se n’è andata dopo Mussumeli.
Ha stabilito con energia e senza
velo di incertezza il momento esatto in
cui Felice sarebbe stato del tutto
indipendente ed è morta il giorno
dopo, non prima di avere assestato
l’ultimo colpo di uncinetto alla sua
coperta di morte.
Ai suoi funerali, l’aria fibrillava, la
memoria e la dimenticanza ballavano,
stranissime presenze stazionavano sui
tetti delle case. Dalla cantina e dalle
viscere della terra, le streghe
ululavano e ridevano di soddisfazione.
Quanto a Felice, è una meraviglia,
cara zia. Dovresti vederlo, che
scorrazza per Lenzavacche con la sua
sedia dotata delle migliori ruote che
Mussumeli sia riuscito a trovare.
È del tutto indipendente. Si muove,
comunica con la sua giostrina, ride e
sputa sapientemente.
Resta fedele a quell’insegnamento
di Mussumeli che – in effetti – ha dato
buoni risultati: sette sputi a destra e
sette a sinistra, per cacciare i
malocchiosi e la cattiva fortuna.
Io mi sono sposato.
L’ho riconosciuta per quel suo stare
china sui libri, per quella sua
familiarità con le visioni.
Tutto mi spingeva a viverle dentro,
a inurbarmi nella sua anima come un
cittadino ostinato.
Non ho più avuto dubbi quando le
ho chiesto il nome e lei ha risposto,
semplicemente: Deodata.
Al che ho capito che ogni volta che
una donna sarà madre a dispetto del
mondo, e racconterà storie vincendo
la morte, le streghe torneranno, cara
zia, ancora e ancora, con tenacia e
compassione. E che anche tu,
sferruzzando coperte e scrivendo
testamenti, continuerai ad assisterle
con la tua benevolenza.
Perciò, adesso che tutto è avvenuto
come tu avevi predetto, chiudi questo
libro, accarezza la strega che lo ha
scritto, e torna dalle affratellate tue.
Ma soprattutto, riposa in pace,
Corrada Assennato.
Da Lenzavacche, 17 dicembre 1950
Tuo, Alfredo
N OTA SULL’A UTRICE

Simona Lo Iacono è nata


a Siracusa nel 1970.
Magistrato, presta
servizio presso il
tribunale di Catania. Ha
pubblicato diversi
racconti e vinto
concorsi letterari di
poesia e narrativa. Sul
blog letterario
Letteratitudine di
Massimo Maugeri cura
una rubrica che
coniuga norma e
parola, letteratura e
diritto, dal nome
“Letteratura è diritto,
letteratura è vita”.
Il suo primo romanzo,
Tu non dici parole
(Perrone 2008), ha vinto
il premio Vittorini
Opera prima. Nel 2010
le sono stati conferiti il
Premio Internazionale
Sicilia “Il Paladino” per
la narrativa e il Premio
Festival del talento
città di Siracusa.
Nel 2011 ha pubblicato
il romanzo Stasera Anna
dorme presto (Cavallo di
Ferro), con cui ha vinto
il premio Ninfa Galatea
ed è stata finalista al
Premio Città di
Viagrande. Nel 2013,
sempre per Cavallo di
Ferro, ha pubblicato il
romanzo Effatà,
vincitore del Premio
Martoglio e del premio
Donna siciliana 2014
per la letteratura.
Attualmente conduce
sul digitale terrestre un
format letterario dal
nome BUC, trasmissione
che mescola al libro
varie discipline
artistiche, e cura sulla
pagina culturale della
Sicilia la rubrica
letteraria “Scrittori
allo specchio”. Presta
inoltre servizio presso il
carcere di Brucoli come
volontaria, curando
corsi di letteratura,
scrittura e teatro, tutti
mezzi artistici con i
quali intende attuare il
principio rieducativo
della pena sancito
dall’art 27 della
Costituzione.

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