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00195 Roma
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ISBN 9788866327493
Simona Lo Iacono
LE STREGHE DI
LENZAVACCHE
A Nanni, nato il 17 dicembre
e quindi figlio delle streghe
«Dichiaro che tra le molte donne che
io condussi al rogo per presunta
stregoneria, non ve ne era una sola
della quale avrei potuto dire con
sicurezza che fosse una strega.
Trattate i superiori ecclesiastici, i
giudici e me stesso come quelle
povere infelici, sottoponeteci agli
stessi martiri e scoprirete in noi
tutti dei maghi».
F RIEDRICH SPEE, confessore delle
streghe condannate al rogo in
Würzburg, 1631.
PARTE PRIMA
C APITOLO PRIMO
Cara zia,
sono arrivato questa mattina col treno
delle cinque. Ad attendermi, come previsto,
c’erano i proprietari della pensione, che mi
hanno scortato fino in paese. Un piccolo
centro, che gravita intorno a una chiesa e a
una piazza. In apparenza nessuno ha
badato a me. Ho saputo dopo, invece, che al
mio passaggio i vecchi che dondolavano
sulle sedie hanno alzato la testa, e che
improvvisamente, come se un ordine
invisibile fosse volato di bocca in bocca, la
notizia che il nuovo maestro era arrivato a
Lenzavacche non era sfuggita a nessuno.
Prima ancora di registrare il mio nome in
pensione, tutti sapevano che Alfredo
Mancuso era lì, e che il giorno dopo avrebbe
preso servizio presso l’istituto Maria
Montessori.
Ti abbraccio, cara zia, e aspetto di
ambientarmi per farti avere altre notizie.
Da Lenzavacche, 3 settembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO SECONDO
Cara zia,
il direttore della scuola Maria Montessori
mi ha accolto col saluto fascista, mi ha
consigliato di vestire in nero e mi ha
consegnato il programma per l’anno
scolastico 1938-1939 emesso dal Ministero
dell’educazione nazionale.
L’ho aperto lentamente e ho letto:
“In ogni ordine di scuole e per
qualunque disciplina gli insegnanti
mirino sempre al conseguimento della
necessaria unità dell’insegnamento. Il
collegamento fra le varie discipline e
fra le varie parti di uno stesso
programma deve condurre al
raggiungimento di quello che è lo
scopo dell’insegnamento: l’acquisto da
parte dei giovani di una cultura
unitaria e viva, della cultura
fascista”.
Ho guardato fuori dalla finestra. È un
settembre che spacca le pietre. Gli allievi
sudano nei grembiuli abbottonati e nel
fiocco legato al collo, sghembo e irrisolto.
Ogni tanto qualcuno rompe le fila, soffoca
un sorriso, sfalda il muco del naso con un
gesto veloce del gomito. Inneggiano canti al
duce senza sapere davvero chi sia, un mago
dicono alcuni, sua maestà il re o forse tutte
queste cose insieme, uno smembrato ricordo
di supremazia al quale è bene obbedire, più
o meno come a casa si obbedisce al padre,
pena le cinghiate al culo e andare a letto
senza cena. Oggi mi hanno assegnato la
seconda C. Ventisei maschi scuri e
irrequieti, tra cui spiccano un paio di teste
rapate per i pidocchi. Mi hanno sorriso solo
con gli sguardi, per il resto sono rimasti al
loro posto, grattandosi le nuche spellate, le
croste che giacciono in testa come resti
della tosatura. Sono allineati come un
esercito maleodorante, arrangiato, che
tiene le fila solo per non andare incontro a
peggior sorte.
Domani ti saprò dire ancora meglio, cara
zia.
Da Lenzavacche, 5 settembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO TERZO
Cara zia,
oggi il direttore mi ha detto come
comportarmi riguardo all’insegnamento
della storia. Quando ha concluso il suo
discorso mi ha messo in mano un foglio del
programma del Ministero dell’educazione
nazionale, pag 2.
“L’insegnamento della storia deve
essere fatto in modo da interessare gli
alunni mediante opportuni
riferimenti e raffronti alla vita
presente, mirando a mettere in chiara
luce la continuità dello sviluppo
storico, le figure significative, i valori
essenziali della civiltà e delle armi,
l’apporto fondamentale recato in ogni
tempo e in ogni campo dal nostro
Paese. Il massimo rilievo deve essere
dato in ogni ordine di scuola al
processo formativo dello Stato
unitario italiano che confluisce nel
Fascismo”.
La classe, frattanto, rumoreggiava. Il
direttore l’ha azzittita con un colpo di
bacchetta sulla cattedra, ha pescato a caso
due allievi e ha bastonato loro le dita con
forza.
Sono rimasti dritti al loro posto senza
emettere suono, ma il più basso aveva le
orecchie paonazze e il collo sudato.
Poi il direttore mi ha messo la bacchetta
in mano e mi ha sorriso da sotto i baffi
puntuti, ingialliti di tabacco.
Dall’esterno entrava frattanto un odore
acido di passata di pomodoro, mosto
fermentato, piedi macerati nell’uva. È
tempo di vendemmia e nell’aria volano i
resti della pigiatura. L’aria di Sicilia è un
misto di umori disordinati e aggressivi,
effluvi innominabili che parlano come voci
e ti trascinano con la potenza di un istinto
che qui si risveglia e si scopre eccitato da
una foresta di voglie indecenti.
Respirai, e il direttore lo prese per un
assenso.
Bene, bene, maestro Mancuso, disse
soddisfatto. E uscì chiudendosi la porta alle
spalle.
Ora avevo i loro occhi addosso a scrutare
ogni mia mossa. Occhi a mezz’asta per il
sonno, gialli di febbre, sporchi della notte.
Occhi che battevano impazziti in attesa di
risposta e mi bucavano con una
rassegnazione silenziosa, millenaria, di
animali domati a forza dal padrone.
Lasciai che i passi del direttore si
allontanassero, risuonando nel corridoio.
Poi spezzai in due la bacchetta e riposi i
pezzi nell’armadio. D’improvviso, mille
bocche sdentate si aprirono per la
meraviglia.
Ti bacio cara zia.
Da Lenzavacche, 10 settembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO QUARTO
Cara zia,
il direttore non tollera che la classe
ascolti racconti non autorizzati, né che per
interpretare le voci dei personaggi si usi il
dialetto. Il vernacolo è considerato un
detrito che ostacola i valori della nazione, la
purezza della lingua, il primato dello stato
fascista. Fango che copre la vera bellezza.
La procedura è dunque questa: scelgo il
materiale narrativo, lo sottopongo al
direttore che ne parla con il consiglio dei
docenti, i docenti rinviano la decisione al
comitato di educazione fascista che verifica
la conformità del libro e della lingua ai
canoni del regime.
Finora nessuno dei testi che ho candidato
hanno riscosso l’approvazione del fascio.
Inoltre vari genitori hanno fatto istanza
formale al signor direttore di far cambiare
sezione ai figli.
In pochi giorni sono diventato astruso e
sovversivo, e la classe si è svuotata di dieci
allievi. E altri sette sono pronti ad
andarsene.
Quelli rimasti continuano a chiedermi
altri racconti, latrano alla luna il loro
sconcerto di cani rimasti senz’osso.
Forse rientrerò presto, cara zia, e di
quella faccenda che sai non avrò neanche il
tempo di occuparmi.
Da Lenzavacche, 21 settembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO SESTO
Cara zia,
se non rimedio almeno un altro allievo la
mia classe verrà cancellata.
Lo ha decretato questa mattina il signor
direttore portandomi, trionfante, una
lettera del comitato scolastico.
“Illustrissimo maestro Mancuso” c’era
scritto, “sebbene onorati della sua
prestigiosa presenza presso il Maria
Montessori, e consapevoli altresì delle
sue molteplici conquiste accademiche,
siamo dolenti nel dover constatare che
la tipologia del suo insegnamento mal
si confà alle esigenze educative dei
nostri allievi. Dobbiamo istruire gente
semplice, maestro Mancuso, gente che
a fine licenza elementare deve giusto
saper sommare due cifre, fare
divisione e moltiplicazione, leggere il
giornale per apprendere quel poco
che serve del mondo. Non hanno
bisogno, i nostri allievi, di divagare
con la fantasia, che è una delle
nemiche principali della disciplina e
della produttività. Né devono perdere
ore di insegnamento solo per
decifrare racconti, tornando a una
lingua lurida e senza cultura. Il
comitato infatti non approva la sua
idea di insegnare i canoni e i
fondamenti della lingua attraverso
l’esempio, leggendo il testo. Né quella
di interpretare i personaggi usando il
dialetto. I libri sono una cosa, esimio
professore, e la vita un’altra. Il
comitato ha pertanto acconsentito al
mantenimento della sua classe, allo
stato formata da un residuo di nove
allievi, a patto che vi adeguiate ai
metodi di insegnamento tradizionali e
che almeno un altro studente si
inserisca, dato oltre tutto che il
regolamento prevede che le classi
siano formate come minimo da dieci
allievi. Il termine ultimo è il 17
dicembre 1938, scaduto il quale la
classe verrà assorbita nelle altre e Voi
fatto rientrare in sede”.
Da Lenzavacche, 22 settembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO SETTIMO
Cara zia,
trovare un allievo è un fatto di destino.
Se si aggiungerà alla classe resterò,
altrimenti tornerò da dove sono venuto, e
del mio passato non saprò altro. Al più,
ripensando a questo lembo di Sicilia che
s’acconca su un gomito di mare, che hanno
chiamato Lenzavacche in onore di un
barone mandriano che fece fortuna coi
bovini, mi ripiegherò in una sospirata di
nostalgia.
Oggi è una giornata di fine settembre che
non ha nulla di autunnale. Qui le stagioni
ragionano a modo loro, invertono il senso
del tempo e dei ricordi. Questo caldo denso,
per esempio, che a respirarlo tracanni
anche una manciata di sabbia del deserto.
Pare tutto meno che un anticipo di inverno.
Non ho molto da fare, quando suona la
campana.
I pochi allievi rimasti escono senza
rumore, riordinando gli oggetti scolastici, i
pennini dalle punte storte, i quaderni
arricciati agli angoli, che leccano con le
dita per evitare che si arrotolino. A me
invece piacciono quelle carte con le
orecchie, imperfette e putride dei segni di
penna. Non levigo mai la pagina, non la
voglio né liscia né pulita, soprattutto se è di
un libro. Lascio segnali, sottolineo parole,
prendo appunti a margine e odoro la
stampa fino a inalarne un gusto polposo,
aspro. I miei libri sono creature vive,
sporche e sobbalzanti come un gatto di
strada, o come un merlo caduto da un nido
che sussulta sulle ali troppo deboli.
Preferisco così, che le tracce di questa mia
vita storta e negligente, che non vuole mai
raddrizzarsi e darsi un contegno, restino
appese alle copertine, ai titoli, alle storie
millenarie di altri uomini come me, poeti
senza giudizio che alleviano la fatica
d’esistere con una parola o con un verso.
Da Lenzavacche, 25 settembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO OTTAVO
Cara zia,
trascino questi giorni in attesa che un
allievo voglia unirsi a me. Dove trovarlo?
Perché mai uno scolaro di un’altra classe
dovrebbe lasciare i propri compagni e
scegliere il maestro Mancuso?
Nella mia sezione sono rimasti i più
poveri, figli di contadini scotennati dalla
fatica che si addormentano sul banco e per i
quali non fa differenza che ’u maestru sia
sano o malato, saggio o pazzo, taciturno o
rumoroso. Hanno bisogno di imparare come
si fa a leggere qualche riga, perché i loro
padri temono che possano essere beffati dai
più astuti, quelli che sanno scrivere, e che
con contratti pomposi o quattro frasi a
effetto potrebbero irretire la loro fiducia,
facendogli firmare atti svantaggiosi.
Per questo vengono a scuola. Per
imparare quel poco che li salvi
dall’inganno, per tirare di conto in bottega e
capire il denaro, scansare le truffe, battere i
furbi sul loro stesso terreno.
Le altre classi sono invece piene di figli di
professionisti affermati, un avvocato, un
notaro, proprietari terrieri e famiglie di
buon censo che si sono volentieri allineate
al regime.
Li vestono con le divise nere dei lupetti e
li allevano come una brigata di soldatini di
piombo, sono appagati e soddisfatti, mai
sfiorati dal dubbio, carichi di certezze.
Somigliano a quelle statue di imperatori
romani che il marmo rende levigate, il capo
cinto d’alloro, l’indice puntato, le labbra
crude e maschie, una toga buttata di sbieco
sulla spalla e il codice di Giustiniano tra le
mani, pronto a sbriciolarsi al primo
scossone.
Ti abbraccio, cara zia.
Da Lenzavacche, 30 settembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO NONO
Cara zia,
a Lenzavacche circola ogni genere di
venditore ambulante. Venditori di aghi e
spille, di legna per il fuoco, di berrette e
panni. Venditori di crivelle e ceste, ’u
scacciapitrali, ’u luppinaru, il lustrascarpe,
i venditori di coppole e persino di sogni, di
presagi e malattie.
Lenzavacche si affolla tutti i giorni di un
grumo imprecisato di vecchi che fanno
sfoggio dell’arte sopraffina del commercio,
s’ingegnano a tirare sul prezzo per tornare
poi al valore iniziale. O che in mancanza di
denaro inventano baratti fantasiosi,
facendoti siglare carte stracolme di
promesse, papelli che non sanno neanche
leggere, a cui affidano il valore
inappellabile della parola scritta: io vi do un
ombrello sano, voscienza, ma voi domani
andate da mia cugina e la convincete a
sposare don Paolino Squassapagghiaro,
oppure vendo tabacco a vossignoria ma voi
in cambio mi leggete la lettera di quella
gran cosa sporca di mia nipote Nunziata, o
io vi vengo a pulire la biancheria ma voi vi
fate tagliare i baffi in tre ciuffi, ché per
levarmi la fattura ho bisogno dei peli
squadrati di uno straniero.
Lenzavacche smercia ogni genere di
oggetto, si affolla intorno alle giocatrici
d’azzardo che sorridono dalle fessure buie
della bocca sputando sulle carte della
fortuna. Ciò che la scandalizza nella vita –
peccati, impurità, passioni – reputa lecito al
mercato, e vende senza vergogna pillole per
l’amore, mentucce per accendere i sensi,
glutei discinti da far palpare ad adolescenti
fervorosi, pronti a rubare monete dai
cassetti dei padri pur di sfiorare una donna.
Nessuno si stupirà dunque se vado in
cerca di allievi.
Un maestro ambulante non sarà usuale,
ma non vedo rimedi, cara zia, entro
dicembre devo ripopolare la classe almeno
di un elemento, e voi sapete che non posso
permettermi di rientrare.
E poi. In passato i maestri sono sempre
stati maghi e girovaghi, insegnavano nelle
piazze, piangevano con gli allievi, li
allevavano come discepoli ardimentosi.
Mi farò quindi musico, corsaro,
mendicante e pazzo, ma busserò fino a
trovare qualcuno disposto a seguire il
maestro Mancuso, dritto o storto, non
importa.
In fin dei conti, cerco solo uno studente
disposto ad ascoltare le mie storie.
Da Lenzavacche, 3 ottobre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO DECIMO
Cara zia,
mi sono installato a un angolo del
mercato, tra Ciccina la pilucchera e
Santocono Ignazio, venditore di
sanguisughe, non ho merce da esporre, né
banchi o attrazioni, solo un cartello con su
scritto: “Maestro Mancuso” che però non
attira l’attenzione di nessuno.
La mia vicina invece non fa che ricevere
clienti tutto il giorno, arrotolando le chiome
in trecce, ungendo i capelli di olio,
insaponando le teste con radici. Quando le
passo davanti, se la ride sotto due labbra
secche, poi torna a pettinare una donna
stempiata, a cui appiccica con saliva una
vecchia parrucca per dissimulare la
calvizie.
Datemi un inizio, imploro, porgetemi una
sillaba, regalatemi una parola, una sola
parola, signore e signori, bambine e
bambini, venite ad ascoltare il maestro
Mancuso.
Nessuno si ferma se non qualche cane
imbambolato dal caldo, a cui la mia ombra
senza pace regala un minuto di ristoro.
Ma resisto. All’afa, all’indifferenza, ai
sorrisi sbruffoni degli altri mercanti. Me ne
vado solo quando il tramonto smuore sulle
strade più anguste e malinconiche, dove
sembra restìo a regalarmi un ultimo raggio
incantatore.
Domani tenterò ancora, cara zia. E presto
avrai mie notizie.
Da Lenzavacche, 15 ottobre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO UNDICESIMO
Cara zia,
oggi al mercato un paio di allievi si sono
fermati incuriositi. «Che fa, ’u maestru
Mancusu, cchì vende, patate arrustute,
sparagi, tenerumi?».
Sulle prime hanno pensato che fossi lì a
proporre verdure, o a smerciare qualche
conserva preparata per l’autunno. È tempo
di estratto di pomodoro, questo, di olive e
mandorle, è tempo di miele e biscotti secchi,
da contenere nei vasi di vetro per tutta la
stagione.
Quando hanno capito che ero lì per
raccontare storie si sono guardati di sbieco,
hanno controllato che nessuno dei genitori
fosse nei paraggi.
Infine mi hanno bisbigliato all’orecchio:
«Che, ce la dice quella di Giufà?».
E cominciai a raccontare. Di Giufà, di
come fu che scambiò lucciole per lanterne e
si fece rubare una pentola, un maiale e un
pollo. Ridevano, si sganasciavano, e
aumentavano, zia, aumentavano. Fino a
che ebbi innanzi un gruppetto folto e
irriverente, che esultava e nitriva come in
un raduno di puledri imbizziti, ma pure si
commuoveva se dicevo che Giufà la notte
cercava una mano, che dal letto in cui
stava, alto su quello degli altri fratelli,
volavano goccioloni di lacrime, e che la
mattina lo trovavano incastrato tra le
lenzuola, sudato e triste, come se tutta la
spensierata e apparente stupidità che
ostentava gli pesasse sul cuore con
amarezza.
Il più piccolo, Nitto, mi si avvicinò
impensierito, si scaccolò e faticò non poco a
disincagliare i pantaloni dalla fenditura del
sedere. Con la stessa mano si asciugò gli
occhi, il moccio e la bocca. Infine me la
porse con un gesto cerimonioso.
La strinsi senza indugio, cara zia.
Forse è un inizio.
Nei prossimi giorni ti saprò dire.
Da Lenzavacche, 27 ottobre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO DODICESIMO
Cara zia,
è avvenuto di nuovo.
Li ho trovati al mercato già pronti,
riuniti in crocchio, come un drappello di
reduci bisognosi di cure.
Ho iniziato a raccontare un’altra storia, e
un’altra e un’altra ancora. E tutti mi
chiedevano la stessa cosa, ma com’è,
maestru, com’è che la vita pare un’altra se
viene raccontata. Com’è che pure la morte
non ci fa scantu, maestru, com’è che ci
viene coraggio.
Ho sorriso.
Non ho risposte da dare a questo
manipolo di anime senza progenitori
letterati, senza scaramucce poetiche e
senza altari al Dio di tutti i narratori. Le
poche storie che hanno sentito sono
memorie familiari, mormorate dalle donne
in cucina, sempre svelte e intrafficate, i
grembiuli con le tasche gonfie di avanzi,
erbe e bucce di patate. Qualcuna racconta
di quella e di quell’altra, di una zia martire
che riposa in una cripta, o di stalle dove
un’antenata maledetta lasciò l’onestà e fu
perduta per sempre.
I bambini non capiscono, hanno tratto le
somme e hanno semplicemente concluso
che se entri in una stalla diventi disonesto,
e quando hanno chiesto un’altra storia alle
madri quelle si sono fatte leste un segno sul
cuore, li hanno storditi con benedizioni,
hanno pensato che la curiosità è l’arma del
demonio e dei fannulloni. Zitti, zitti, hanno
intimato, e i bambini si sono atterriti,
pensando che una sfoglia di calore stesse
per inghiottirli, una lama come quella
dell’inferno, mostru creatu e mostru
chiamatu, Dio ci liberi, Padre, figlio e Spirito
Santo.
Perciò delle storie hanno questa idea
confusa e colpevole, che nessuno ha pensato
di sfatare.
Dunque mi guardo bene dal dir loro che
le storie sono un mistero, e taccio come un
re pensatore o come uno di quei buoi ciechi
che i padri conducono al mercato, le soghe
pendenti dalla schiena, l’aria bastonata, il
morso ruminante. Sembrano indifferenti
alla fatica e al sudore, al caldo che ristagna,
alla malaria sonnacchiosa che le zanzare
spandono succhiando sangue, ma aspettano
comunque la notte, il sollievo, l’ora in cui
tutto accade.
Ti bacio cara zia, e presto ti saprò dire.
Da Lenzavacche, 8 novembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO TREDICESIMO
Cara zia,
oggi ho ricevuto di nuovo la visita del
signor direttore.
Ha aperto la porta senza bussare, ha
fatto irruzione in aula col petto in avanti, la
voce grossa, il piglio di un poliziotto che
scovi qualcuno con le mani in pasta.
Gli allievi sono scattati ritti sull’attenti,
hanno rumoreggiato per le sedie che
cadevano, mentre le boccette d’inchiostro
rovesciavano in terra tutto il liquido, e il
bidello Pippinu ’u stolitu si precipitava ad
asciugarlo con la carta assorbente.
Il signor direttore ha ruggito alcuni
dettami dell’insegnamento fascista. In
grammatica l’analisi logica avvenga
scomponendo frasi come: “Io ho lavorato
con piacere tutto il giorno” o: “I nemici si
affrontano con coraggio”. Le letture trattino
svariati temi d’attualità, come “La razza
latina”, “Parla il Duce” o “L’emigrazione”.
Siano scopo precipuo della lingua creare
l’“italiano nuovo”, sia poi compito della
poesia instillare il vigor militare.
Ben accetto sia ogni ritornello come
questo: “Pelle dura animo schietto siam
legati a una sorte, con il libro e col
moschetto lotterem fino alla morte”.
Se poi si ha da fare esercizio di scrittura
avvenga in pro delle genti conquistate in
terra d’Africa, ove è sommamente
consigliabile che gli allievi spediscano
lettere ai figli dei coloni, i “tripolini”. Tutto
sia ispirato ai valori sacri del “credere,
obbedire, combattere” e ai tre santi ordini
di impegno: “patria, lealtà, disciplina”.
Capito?
Gli allievi rotolarono tra le lingue un sììì
lunghissimo, un coro ipnotizzato e servile,
che si sciolse nello sguardo del direttore e lo
portò d’impeto a salutarli con un’alzata del
bicipite destro.
Uscì pettuto mentre lo seguiva una scia
di “eia eia alalà”.
Quando si chiuse la porta alle spalle e
tutti ripiombarono sulle sedie, però, la
stanza prese forma di un refettorio o di un
parlatorio, uno di quegli spazi su cui ogni
ora è scandita da uno scampanio
dondolante, e le finestre hanno reticoli da
cui non deve entrare né uscire un filo di
luce.
Nugoli di penitenti coi candelabri in
mano mi sembrarono in procinto di gettarsi
in una bocca di fumo, e ciò che più mi
inquietò non fu che fossero morti, ma che
fossero finiti senza narrare la propria storia,
senza parole di preghiera o d’ira sibilate tra
le pentole e le fiscelle, tra le zappe e le
vanghe, o tra le viti e le botti. Erano una
frotta d’anime senza possibilità di
confessarsi nemmeno in punto di morte.
Decisi che avevano bisogno del mio aiuto,
cara zia.
Da Lenzavacche, 15 novembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO QUATTORDICESIMO
Cara zia,
nonostante al mercato i bambini si
riuniscano numerosi ad ascoltare le mie
storie, nessuno si aggrega alla mia classe.
Non gliene faccio una colpa. I mondi
proibiti devono restare tali, nessun uomo è
tanto coraggioso da schierarsi dalla parte
dell’ignoto, figurarsi un bambino.
E io propongo loro un mistero.
Ma un mistero da arginare di barricate e
steccati, da concedersi come il frutto del
peccato, da rosicare e poi fingere di aver
dimenticato.
Le colpe più grandi giacciono
accumulate sotto giustificazioni e paure,
sono il nostro segreto ancestrale, ma
nessuno di noi è così scellerato da
denudarsi e farsi vedere per quello che è.
I bambini imparano presto questa
lezione.
Non appena provano a dire quello che
pensano sono sommersi da un groviglio
aspro di recriminazioni, questo non si dice,
questo non si fa… comprendono subito che
vivere è un complicato sistema di equilibri,
di complicità, velature.
E si adattano.
Non vogliono sentirsi esclusi, e la verità
resta una dea negletta e senza ossa, da far
dormire sotto cumuli di ex voto.
Ho capito che se voglio trovare un allievo
devo scovarlo tra chi non ha ancora fatto
esperienza del mondo, o che di esso conservi
una visione senza cadaveri e morti.
Ci vorrebbe un angelo, cara zia. Non sarà
facile trovarlo.
Da Lenzavacche, 20 novembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO QUINDICESIMO
Cara zia,
il tempo sta per scadere. Tra poco sarà
dicembre e la mia classe è rimasta così,
nove allievi svogliati e mezzi assopiti, che
aiutano i genitori nel lavoro dei campi e
arrivano in classe senza forze.
Ho inventato di tutto per tenerli svegli.
Insegno la matematica cantando i numeri,
metto la storia e la geografia in versi per
allettarli con la rima, dipingo le lettere
dell’alfabeto con i colori per associare a
ognuna di esse una sensazione.
So che non faranno i compiti a casa per
mancanza di tempo, e ho insegnato loro le
poesie ritmandole sulle ruote dei carri o
sulle vangate alla terra.
In questo modo ricordano tutto, non
hanno mai un’incertezza, anche se
canticchiano invece di parlare.
L’unico problema è stata l’ispezione
ministeriale.
Gli ispettori hanno fatto ingresso austeri,
i baffi gonfi che nascondevano le labbra, gli
occhi spannati e rigidi. Gli allievi
dell’istituto si sono disposti su dieci file e
parevano un drappello di soldati impauriti,
le gambe unite, tremolanti, qualcuna
gocciolante di piscio.
Gli ispettori passeggiavano avanti e
indietro, i lucidi stivaloni fino alle
ginocchia. Al braccio destro una striscia di
panno rosso su cui spiccava una croce
uncinata. Muovendo la testa a scatti, si
aggiravano come carcerieri che scrutino le
mosse dei condannati a morte.
Un silenzio ovattato e irreale circondava
la grande palestra dove ci hanno riuniti.
«Vincenzino Caracò» ha intimato il
direttore. «La poesia». E Vincenzino Caracò
ha singhiozzato la poesia di saluto,
saltellando nascostamente sulle gambe per
trattenere i bisogni.
«Gerlando Mandalà, la tabellina del
sette».
Ai miei è toccata La spigolatrice di
Sapri, che hanno recitato correttamente
ma con troppo ritmo e una pagina dei
Promessi Sposi. Il guaio è cominciato
quando l’ispettore ha chiesto a Nitto le sole
consonanti senza le vocali e il bambino ha
sciorinato sicuro la sfilza di lettere fino alla
“s”, ma si è fermato per chiedere
all’ispettore che colore venisse dopo.
Abbiamo superato la prova ma la mia
classe è stata definita originale e
sovversiva, niente affatto in sintonia con i
metodi del regime.
Naturalmente, mi aspettavo che il
direttore subito dopo mi chiamasse e mi
ricordasse la scadenza imminente.
Ti saluto, cara zia.
Da Lenzavacche, 2 dicembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO SEDICESIMO
Cara zia,
da quando il duce ha inaugurato l’asse
Roma-Berlino, capitano cose strane. Questa
follia del riarmo, ad esempio.
E la stranezza maggiore è che tutti si
adeguano, indolenti, senza domande e
dubbi. Addormentati.
È un secolo nato sotto una stella di lutti,
cigola e mastica sempre gli stessi errori.
Non sono neanche vent’anni che ci siamo
lasciati alle spalle i nostri morti. A cosa ci
prepariamo, quale altro cimitero
comporremo con le nostre mani?
Oggi ho raccontato ai miei nove allievi
cos’è una guerra, ho portato le foto del
nonno morto al fronte, berretti a punta e
sguardo dritto tra gli altri commilitoni.
Ho detto loro di sfiorare col dito le
immagini, i contorni, gli occhi che parevano
concentrati verso il futuro.
Non riuscivano a credere che nessuno di
loro fosse ancora in vita.
Ma come, hanno detto, la guerra è cosa
breve, e pum pum, spari come alle beccacce,
un colpo e sei generale, maestru, ti danno
pure la divisa, ma perché non è questa la
guerra?
Non so rispondere, cara zia, una
definizione della guerra non ce l’ho, ma ho
cominciato a raccontare una storia.
Coltivo questa idea oltraggiosa che la
letteratura possa fungere da corazza, che
sia la coltre dei cento nodi, il manto del re
nudo.
Almeno fino a quando questa classe
esisterà, fingeremo che possa salvarci.
Ti abbraccio cara zia.
Da Lenzavacche, 8 dicembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO DICIASSETTESIMO
Cara zia,
non parlo volentieri del passato. Non è
che ne abbia molto, poi, alle spalle.
Ma quel poco che ho sono venuto a
cercarlo qui.
Lo so, non ho molte tracce da seguire, e
inoltre conservo pochissimi ricordi.
Ho una memoria dilettante e
selezionatrice che mi rigetta contro solo
pochi istanti. Un volto. Un gesto. Una
manciata di spiccioli.
Mai ciò che davvero vorrei ricordare.
Così procedo a tentoni. Sono un cieco con
le mani avanti e il bastone puntato a nord,
tasto e schivo, schivo e tasto, un sasso
inopportuno che mi farà inciampare, un
gradino, una pozza nella quale scivolerò.
Metto avanti solo il mio buon senso e
qualche preveggenza. Ho viaggiato tanto,
cara zia, su treni imbastarditi dal freddo,
tagliando l’Italia. Ho letto per ore infinite,
ho sobbalzato sugli scossoni dei binari che
tremavano durante le frenate, ho sfiorato
dal finestrino città e paesi inauditi, le lande
delle risaie, i puzzi dei cantieri, le rade
macchie di blu tra le rovinose cadute delle
montagne calabresi. E poi il vulcano di tutte
le morti che galleggiava sul porto della mia
Napoli, i vicoli sudditi della strada mastra e
i portuali, gli elemosinanti, i pulcinella
vestiti con un sacco e una maschera che
tendevano la mano e pizzicavano un
mandolino senza corde. La musica gli
usciva dalle labbra, e davvero sembrava
quella dello strumento, un clangore
lamentoso e vibrante, uno spasmo di fame. E
poi giù verso la Sicilia, dove forse chiuderò
quest’andare senza tappe e senza luoghi, in
cui annuso tracce e lascio debiti di
riconoscenza alla natura.
Solo questo mi ha fatto sentire a casa.
Non gli uomini. Non le scuole. Non i riti
di uscita e accesso, le regole e le baionette
del regime, le stelle uncinate e radiose, le
divise inappuntabili, cariche di orpelli.
Ho letto e scritto nei viaggi infiniti da
nord a sud, ho fatto l’unica cosa che so fare,
ho raccontato storie, ho raccolto voci, ho
costellato di tracce e orme il mio passaggio.
E l’ho fatto perché solo raccontandomi
esisto veramente, solo scrivendo mi vedo e
mi raccolgo, un atto pietoso il mio, di
reduce, di condannato, di imputato e
vittima.
Tutto sono e in tutto mi scopro, ma solo
se mi scrivo e mi rivelo, solo se lascio che
questa umanità ingenerosa e affaticata
affiori come il sangue. Poi poso la penna e
contemplo le tracce che l’inchiostro ha
lasciato sulle dita.
Ferite sembrano, cara zia, come quelle di
Giona.
Da Lenzavacche, 10 dicembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO DICIOTTESIMO
Cara zia,
oggi ho portato i bambini a giocare in
campagna.
Una campagna allampanata, quella di
Lenzavacche, con filari di muri a secco che
intagliano la terra dura. Servono a segnare
confini silenziosi tra famiglie e stati sociali,
a perpetuare lasciti e testamenti che non
hanno solo valore di carta bollata, ma di
sangue. I bambini saltellano sui rivoli
salmastri che venano le zolle, giocano e si
azzuffano, volano a braccia aperte come
gabbiani.
Io li guardo confondersi con i miraggi
misteriosi della fata Morgana, con le rocche
arroventate, con le faglie secche di
antichissimi fiumi.
E penso che ignorano tutto, ancora, che
non sanno che la vita verrà a sceglierli, che
li fiuterà e li saccheggerà.
Ho quasi perso la speranza che questa
classe possa salvarsi.
Non mancano che pochi giorni, ormai, e
non so più dove cercare qualcuno che
voglia unirsi a noi. D’altra parte cosa potrei
offrirgli? Nient’altro che questi
insegnamenti balordi che lo metterebbero
nei guai col regime e lo siglerebbero come
un diverso.
Se pure si aggregasse a me, sarei in
dovere di dirgli: togli la catena del
battesimo dal collo, lascia il letto del padre,
le sue benedizioni. Sei escluso come l’erba
amara, come la sorte lanciata di traverso
dal dado, come la sposa vedova prima del
tempo.
Da Lenzavacche, 12 dicembre 1938
Tuo, Alfredo
*
Dai Salmi.
C APITOLO DICIANNOVESIMO
Cara zia,
è quasi il 17 dicembre.
Un numero astruso, il 17, che per alcuni
porta fortuna e per altri disgrazia. In paese
si va dicendo che i nomi degli angeli sono
17, così come il numero dei demoni. E d’altra
parte la stella a 8 punte posta sul capo della
Vergine Maria ha 16 lati più 1 al centro, che
sommati fanno 17.
Racconto tutte queste cose ai miei allievi,
e li vedo perplessi come sono stato io questa
mattina, tra le tre e le cinque, quando ho
colto l’aspetto sinistro che a quell’ora hanno
le cose, la mia giacca posata sulla
stampella, le scarpe appaiate sotto il letto,
la camicia bianca ripiegata, come un corpo
che smetta l’anima e la lasci abbandonata
in un angolo.
Cose che mi appartengono, che al
mattino sono gonfie della mia forma, e che
all’alba hanno preso a mettersi contro di
me, guardandomi di traverso, rizzandosi
come un personaggio cattivo. Ecco, una
sagoma d’uomo che si muove dal nulla, che
non ha volto, che mi indica e mi costringe a
mettermi allo specchio.
Sono io quel fantasma, fatto di niente,
giunto fin qui senza risultato.
L’ultima possibilità di scoprire il mio
passato è stata messa in fuga da quest’alba,
dal dormiveglia malato in cui sono caduto
quando era ormai ora di svegliarsi, e tutto il
paese si destava iniziando a produrre i
primi rumori, i primi odori, i soliti segnali
che accompagnano il nascere di ogni
giorno.
Eccola, la vita che riprende ferocemente
tutti i suoi riti.
Ma io non ne faccio parte, cara zia. Tra
poco, anzi, ne sarò definitivamente fuori.
Da Lenzavacche, 13 dicembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO VENTESIMO
Cara zia,
i bambini provavano i canti alla Vergine.
La scuola era quasi vuota, già pronta alla
pausa natalizia.
Solo il bidello Pippinu ’o stolitu raschiava
il pavimento, e si affannava a renderlo
lucido, come vuole il signor direttore.
«Specchiarmici, devo, su questo pavimento,
Peppino, vedere il nero della divisa che
cammina anche per terra».
Il vento si divertiva a fare i fatti suoi. Le
vedevo, le signore agghindate che si
tenevano il cappello per non farselo
mangiare da un gorgo più cattivo degli
altri, e i baroncelli chiudersi il bavero e
intascare le mani infreddolite,
proteggendosi come da un attacco nemico. E
ne ridevo. Che umanità fragile, dopo tutto, a
dispetto di tanti abbagli. Basta un poco di
aria di traverso per farci sbandare, per farci
rintanare come bestie braccate. Quanto
siamo paurosi, in fondo. Quanto siamo
vigliacchi, cara zia.
Questo pensavo, e già contabilizzavo i
bagagli, rimuginavo che un baule avrei
dovuto spedirlo, che gli altri li avrei tenuti a
mano. Mi ero portato dietro un guardaroba
intero, pensando di dover restare qui a
lungo, per scovare almeno un lembo del mio
passato, un poco del mio baratro.
E invece ero già in partenza, una delle
valigie non era nemmeno stata aperta,
aveva i sigilli e le sbeccature di tutti i
luoghi attraversati, le chiose di una mano
trepidante, incise tra una fermata e l’altra.
E dunque mi dicevo che prima di
rientrare mi sarei concesso una sosta a
Taormina, tra i dirupi e il cielo, avrei fatto
come uno di quei viaggiatori antichi che si
lasciano andare al flusso delle strade e dei
luoghi. Sarò un piccione viaggiatore,
almeno, una bestia attratta da un
nascondiglio o da un anfratto. Mi fermerò
dove capiterà, scriverò storie, leggerò,
guarderò ancora questa vita e i suoi uomini
affaccendarsi e stravolgersi, per una guerra
o per un atto d’amore, questo farò. Dopo
tutto, sono solo uno tra tanti, in fuga e in
bilico, che importa.
Poi però il signor direttore mi ha
chiamato.
Vorrà darmi il benservito, ho pensato, mi
rantolerà in faccia la sua soddisfazione. Ma
sì, andiamo, affrontiamolo, questo generale
senza fantasia.
E ho imboccato l’uscio della direzione con
una nuova baldanza, quella di chi non ha
più nulla da perdere.
La stanza era in penombra. Gli scuri
erano chiusi, per evitare che il vento li
facesse battere di continuo. La luce elettrica
spandeva un bagliore deviante, e balzava
sugli oggetti da scrivania tenuti in ordine
perfetto, sui mobili scuri di ebano, sulle
nicchie e gli armadi pesanti, chiusi da
tendine rosse.
Ogni tanto ondulava, la luce,
assecondando le balze di un intarsio rococò.
Poi tornava a recitare sulla scena
rilasciando un’atmosfera greve, senza
cuore.
La donna era al centro. Non aveva
copricapi a tenerla ordinata, né pareva
agghindata come le altre. I capelli infilzati
da forcine lasciavano scivolare qualche
ciocca. Gli occhi febbricitanti ballavano nel
buio. Stava eretta come a sfidare il mondo
intero, stringendo in mano una serie di fogli
stampati, una vecchia gazzetta, sembrava.
Era bella.
Ma di una bellezza senza nessuna
imbalsamatura, selvatica e del tutto
inconsapevole.
Sembrava una di quelle male erbe che si
estirpano dagli orti, che però fanno fiori
profumatissimi e si confondono tra i cavoli e
le verze. Inopportuna era, ma al tempo
stesso naturale.
Il signor direttore non mi recitò nessuna
delle sue litanie, non sfoderò le parole
patria, duce, guerra, non si impettò e
ricadde, anzi, ingobbito non appena salutai.
Abbiamo un problema, mi disse.
Da Lenzavacche, il 17 dicembre 1938
Tuo, Alfredo
C APITOLO VENTIDUESIMO
Cara zia,
davvero è tempo di miracoli.
Il signor direttore mi ha fatto
accomodare, ha incespicato nelle frasi, ha
rigirato a lungo un tagliacarte tra le dita.
Ci giochicchiava osservandolo con fissità
ipnotizzata, palpandone la lama,
solleticandola con l’indice. Poi,
improvvisamente, l’ha girata sulla punta
infiggendola nel legno del tavolo.
Il colpo ha squassato il silenzio, fendendo
di taglio le orecchie con un rumore simile
all’affondo nella carne.
Io e la donna trasalimmo.
«Maestro Mancuso» disse infine.
«Sembrerebbe che un allievo possa unirsi
alla vostra classe. Il figlio della signorina
qui presente parrebbe aver bisogno di voi».
Rimasi colpito dalla parola “signorina”,
pensai a un errore, ma poi compresi che non
si trattava di una svista.
«La signorina ha oggi prodotto una
normativa che ci impone di valutare
l’ammissione del figlio in questa scuola»
continuò infatti il direttore. «Tuttavia, dato
che si tratta di un invalido, dice la legge
che la classe dev’essere differenziata, ossia
adatta, per numero, alle esigenze di
quest’allievo. Ora. La vostra classe è l’unica
che abbia un numero così esiguo da potersi
dire differenziata. Ma abbiamo bisogno
della vostra adesione e io so bene che voi
siete in procinto di partire, non è vero?».
L’ultima parola sibilò a lungo nella
stanza.
«No, signor direttore. Avevo già deciso di
rinviare la partenza dopo il Natale e di
fermarmi, comunque, in Sicilia. Quindi,
sono disponibile».
«Ma non volete pensarci, maestro
Mancuso?».
«Non ne ho bisogno, credetemi».
«Ma io vi consiglio di pensarci».
«E io vi ribadisco di essere pronto ad
accogliere il nuovo allievo, oggi stesso».
«Oggi?».
«Oggi».
«E voi che dite, signorina?» ruggì il
direttore.
La donna mi guardò.
E io guardai lei, scivolando in una gola
incendiata da boscaglie, in cui madri
spettinate e scomposte recitavano litanie,
cullavano figli, ergevano altari.
Una frotta di donne sole, rese audaci
dalla povertà e dalla sfortuna, su cui
svolavano tordi che starnazzavano
riempiendo l’aria di richieste, un urlo senza
nome, a cui nessuno prestava orecchio.
In quella donna mille altre donne
dormivano e si flettevano, ridevano e
piangevano, nascevano e morivano.
Poi abbassò gli occhi, e anche le altre
donne che erano in lei li abbassarono. Ed
emise un sospiro, e così pure le donne
sospirarono, fino a unire il proprio fiato a
quel vento che dall’alba aveva preso a
confondere le cose.
E infine parlò.
E con lei le altre, un coro di supplici e
poetesse: «Oggi» rispose.
Da Lenzavacche, ancora il 17 dicembre
Tuo, Alfredo
C APITOLO VENTITREESIMO
Cara zia,
erano in quattro. La donna, sua madre, il
vecchio farmacista e il bambino.
La donna spingeva una sedia alla cui
base cigolavano le ruote di un carretto. Sua
madre si ergeva maestosa senza parlare,
osservando le classi e sferragliando per il
rumore di numerose collane. Il farmacista
respirava rumorosamente, sbarbato e
pettinatissimo. Sul suo viso si leggeva una
grande stanchezza da sonno mancato.
E poi lui.
Felice.
Davvero non posso pensare a un nome
più adatto, perché sotto le storture di un
corpo improvvisato, metà funzionante e
metà no, stava nascosta la creatura più
allegra che abbia mai visto.
Felice non tergiversa sulla sua
condizione ma non la considera un
impiccio: se sbava, abbozza una scusa, se
inciampa nei gesti, si autoinfligge un
rimbrotto, se la testa prende a ciondolare la
raddrizza con uno scatto fiero e risoluto, nel
quale indirizza tutta la sua volontà.
Pur così stentato, il suo portamento ha
qualcosa di regale, e guardandolo per il
verso giusto puoi vedere chiaramente che
nei suoi occhi brilla un mistero di
insostenibile pace.
Gli altri tre gli si aggirano intorno come
parti del corpo, quasi insospettabili
prolungamenti della sua esistenza incerta.
Mussumeli lo punge per stimolarlo, la
nonna olia ruote e marchingegni, la madre
lo precede in ogni movimento, intuendo al
volo le sue necessità.
Li ho condotti in classe assegnando il
banco più facile da raggiungere e
precisando che mancano pochi giorni alla
pausa natalizia. Dopo le vacanze, ho
spiegato, sistemeremo tutto in modo da
consentire a Felice spostamenti più agevoli.
Credevo che non mi avesse capito, che
non sapesse cosa stessi dicendo, che la
comprensione della lingua fosse uno degli
obiettivi di quell’inusuale percorso
scolastico.
Ma Felice blaterò una sillaba
incomprensibile e la madre estrasse con
sicurezza da una borsa una specie di
trottola carica di ciondoli. Alla base accese
una candela.
«Vossia il maestro permette che chiuda
gli scuri?» chiese. «Felice vorrebbe dirvi
qualcosa».
Creai la penombra, mentre gli altri
allievi, come me, restavano imbavagliati
dal silenzio.
Ma Felice iniziò a sputare sulla sua
giostra, e ogni ciondolo prese a baluginare
come una lacrima di cristallo purissimo,
mentre una specie di coro, mi parve, quasi il
muggito sentenzioso di un gruppo di
streghe, ronzava nelle mie orecchie.
Forse non è stata che suggestione, cara
zia, o la spossatezza di tante notti perse a
invocare un rimedio.
So solo che sulla parete buia alle spalle
della cattedra Felice fece volare consonanti
fluorescenti che tremavano e spandevano
raggi.
Azzittiti dallo stupore e dalla paura
vedemmo formarsi le parole “Grazie,
maestro”.
Fu un attimo.
Poi le sillabe si spensero a una a una, la
luce tornò a invadere la stanza, la giostra
smise di girare.
Felice sorrideva mettendo in mostra una
dentatura assennata, le sue lettere
oscillavano nel vuoto e mi sembrò che le
streghe sospirassero all’unisono.
Finalmente liberate.
Da Lenzavacche, sempre il 17 dicembre
1938
Tuo, Alfredo
PARTE SECONDA
Apertura delle volontà
testamentarie della signora Corrada
Assennato, lette oggi, addì 17
dicembre 1950 dal sottoscritto Santo
di Liberato Massimo Calanna, notaro
in Lenzavacche.
Il sottoscritto, riuniti gli eredi
ultimi di Corrada Assennato di fu
Rinauro Astolfo vedovo Rosalba dei
Tramerzi, dà lettura della presente
scheda testamentaria, redatta in
Lenzavacche nell’anno di Dio 1699.
Folius primus di folii dieci.
Come sarìa che Corrada
Assennato decise di farsi letterata
C ara zia,
oggi io e Felice abbiamo letto il
tuo testamento.
Finalmente tutto si è dipanato ai
nostri occhi, e tutto – anche scrivere
lettere a una zia morta alla fine del
Seicento come mio padre mi aveva
detto di fare – ha trovato significato.
Questa è l’ultima lettera, come già
sai, perché ogni storia ha bisogno di
una conclusione, anche se i finali
servono solo agli uomini, mentre la
verità non ha alcuna necessità di
mettere la parola fine.
Perché la verità si cerca sempre, e
sempre rinasce da dove è morta.
Da quando ho ritrovato mio fratello
Felice, non ho più lasciato
Lenzavacche.
Mi sono unito a quella strana
famiglia composta da Tilde, Rosalba e
il dottore Mussumeli come se ci fosse
sempre stato un posto riservato a me.
Insieme abbiamo letto storie la
sera, abbiamo riso, pianto, sepolto i
nostri morti. Abbiamo vissuto nella
pace e nella guerra, nella carestia e
nell’abbondanza.
Il primo ad andarsene è stato
Mussumeli, che presagendo la fine ha
deciso di sorprendere persino Nostro
Signore col quale si era finalmente
riconciliato. E ha organizzato una
festa con tanto di fuochi artificiali a
cui hanno partecipato tutti coloro ai
quali ha fatto del bene.
Una frotta di mendici, bambini,
animali senza coda, donne dalla
reputazione perduta e vecchi
scapestrati. Ridevano mettendo in
mostra le gengive più che i denti, e
masticando con metà della bocca la
torta che lui aveva fatto preparare a
Tilde. Ma quando è spirato, hanno
levato un urlo di lode che ha tuonato
per molti giorni.
Dopo la sua morte, Rosalba lo ha
sostituito ed è diventata la farmacista
più nota della Sicilia. Attingendo
all’esperienza e al buon umore di
Tilde ha iniziato a inventare medicine
miracolose, che le vengono richieste
da tutto il mondo.
Non si è mai sposata né, dopo papà,
ha mai voluto altro uomo. Quando
chiude la farmacia sparisce nel
retrobottega a leggere libri. E lì, nel
suo mondo di mezzo, continua a
parlare e a vivere con il santo.
Tilde se n’è andata dopo Mussumeli.
Ha stabilito con energia e senza
velo di incertezza il momento esatto in
cui Felice sarebbe stato del tutto
indipendente ed è morta il giorno
dopo, non prima di avere assestato
l’ultimo colpo di uncinetto alla sua
coperta di morte.
Ai suoi funerali, l’aria fibrillava, la
memoria e la dimenticanza ballavano,
stranissime presenze stazionavano sui
tetti delle case. Dalla cantina e dalle
viscere della terra, le streghe
ululavano e ridevano di soddisfazione.
Quanto a Felice, è una meraviglia,
cara zia. Dovresti vederlo, che
scorrazza per Lenzavacche con la sua
sedia dotata delle migliori ruote che
Mussumeli sia riuscito a trovare.
È del tutto indipendente. Si muove,
comunica con la sua giostrina, ride e
sputa sapientemente.
Resta fedele a quell’insegnamento
di Mussumeli che – in effetti – ha dato
buoni risultati: sette sputi a destra e
sette a sinistra, per cacciare i
malocchiosi e la cattiva fortuna.
Io mi sono sposato.
L’ho riconosciuta per quel suo stare
china sui libri, per quella sua
familiarità con le visioni.
Tutto mi spingeva a viverle dentro,
a inurbarmi nella sua anima come un
cittadino ostinato.
Non ho più avuto dubbi quando le
ho chiesto il nome e lei ha risposto,
semplicemente: Deodata.
Al che ho capito che ogni volta che
una donna sarà madre a dispetto del
mondo, e racconterà storie vincendo
la morte, le streghe torneranno, cara
zia, ancora e ancora, con tenacia e
compassione. E che anche tu,
sferruzzando coperte e scrivendo
testamenti, continuerai ad assisterle
con la tua benevolenza.
Perciò, adesso che tutto è avvenuto
come tu avevi predetto, chiudi questo
libro, accarezza la strega che lo ha
scritto, e torna dalle affratellate tue.
Ma soprattutto, riposa in pace,
Corrada Assennato.
Da Lenzavacche, 17 dicembre 1950
Tuo, Alfredo
N OTA SULL’A UTRICE