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Sommario

Frontespizio
Copyright
Dedica
Esergo
Parte prima
Capitolo 1
Capitolo 2
Parte seconda
Capitolo 3
Capitolo 4
Parte terza
Capitolo 5
Capitolo 6
Parte quarta
Capitolo 7
Capitolo 8
Ringraziamenti
ISBN: 978-88-6688-342-5
Edizione ebook: marzo 2017
Titolo originale: The Torment of Others
© 2004 by Val McDermid
© 2017 by Sergio Fanucci Communications S.r.l.
Il marchio Timecrime è di proprietà
di Sergio Fanucci
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384
Indirizzo internet: www.timecrime.it
First published in Great Britain by
HarperCollins Publishers in 2004
Proprietà letteraria e artistica riservata
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
Per Leslie, Sandra, Julia, Jane, Maria, Mel, Margaret,
Nicky, Jenni,
Mary, Julie, Paula, Jai, Diana, Stella, Shelley, Daphne e
Bunty Al:
il mio personale reggimento di donne
che ha raccolto i feriti sul campo di battaglia e li ha
riportati indietro,
e che si è preso cura di me finché non sono stata
meglio.
Con amore e infinite grazie.
Ma il tormento di altri resta un’esperienza non
qualificata,
non logorata da attriti successivi.
La gente cambia, e sorride: ma l’agonia rimane.

T.S. ELIOT, I quattro quartetti


The Dry Salvages

Questa è la sede di ogni tormento, di ogni agitazione,


di ogni meraviglia e di ogni sbigottimento.
Che una celeste potenza ci guidi fuori da questo luogo
terribile.
WILLIAM SHAKESPEARE, La tempesta
Parte prima
Solo perché senti le voci, non vuol
dire che tu sia pazzo. Non bisogna
essere dei geni per capirlo. E anche se
hai davvero fatto tutte quelle cose che
hanno nauseato la giuria, almeno sei
abbastanza intelligente da capire che
questo non fa di te un pazzo. In tanti
hanno le voci nella testa, lo sanno tutti.
È come in tv. Anche se credi a quello
che vedi mentre lo vedi, si sa che non è
reale. E qualcuno deve averlo
immaginato per primo, nella sua testa,
senza finire dove sei finito tu. Ha
senso.
Perciò non sei preoccupato. Be’, non
molto preoccupato. Okay, hanno detto
che sei un malato di mente. Il giudice
ha pronunciato il tuo nome, Derek
Tyler, e ti ha bollato come pazzo. Ma,
sebbene si supponga sia un tipo
sveglio, il giudice non sapeva che stava
solo seguendo il piano. È così che si
evita l’ergastolo a cui viene
puntualmente condannato chi fa quello
che hai fatto tu. Se fai credere che eri
fuori di testa quando l’hai fatto, allora
non sei stato tu a commettere il
crimine, ma la pazzia che è dentro di
te. E se sei pazzo, non cattivo, ha senso
che tu possa essere curato. Che è la
ragione per cui ti rinchiudono in un
manicomio invece che in galera. Così i
dottori possono frugare nella tua testa
e provare a riparare ciò che è rotto.
Certo, se in realtà non c’è nulla di
rotto, la cosa migliore da fare è tenere
la bocca chiusa. Non fargli capire che
sei sano quanto loro. Poi, al momento
giusto, puoi cominciare a parlare. Puoi
far sembrare che i loro giochetti
abbiano funzionato e che ti abbiano
trasformato in una persona degna di
camminare di nuovo libera per strada.
Sembrava molto semplice mentre la
Voce lo spiegava. Sei abbastanza sicuro
di aver capito tutto per bene, perché la
Voce lo ha spiegato così tante volte che
ti sembra di risentire l’intero discorso
se solo chiudi gli occhi e mimi le
parole con le labbra: ‘Sono la Voce.
Sono la tua Voce. Qualsiasi cosa ti dico
di fare è per il tuo meglio. Sono la tua
Voce. Questo è il piano. Ascolta con
attenzione.’ È questo l’innesco. Non
serve altro. È l’introduzione che ti fa
rivivere tutto il resto dentro la tua
testa. Il messaggio è ancora lì,
innestato in profondità nel tuo cervello.
E ha ancora senso. O almeno, tu pensi
che ne abbia.
È passato tanto tempo, però. Non è
facile subire il silenzio giorno dopo
giorno, settimana dopo settimana, mese
dopo mese. Ma sei piuttosto orgoglioso
del modo in cui ti sei aggrappato a
esso. Perché ci sono così tante cose che
interferiscono con la Voce. Sedute di
terapia in cui devi isolarti dalle
chiacchiere di pazzi veri. Sessioni di
counseling in cui i dottori provano a
ingannarti e cavarti parole di bocca.
Per non parlare delle urla e degli
schiamazzi quando qualcuno perde la
testa. Poi ci sono i rumori di
sottofondo della sala comune, la tv e la
musica che ti ronzano nella testa come
interferenza statica.
Ciò che ti aiuta a resistere è la Voce e
la promessa che la sua parola tornerà
al momento giusto. E allora sarai di
nuovo lì fuori, a fare ciò in cui hai
scoperto di eccellere.
Uccidere donne.
Trovali nelle prime sei ore o dovrai
cercare un cadavere. Trovali nelle
prime sei ore o dovrai cercare un
cadavere. Il mantra dei casi di bambini
scomparsi si faceva beffe dell’ispettore
Don Merrick. L’orologio contava ormai
sedici ore. Contare era esattamente
quello che stavano facendo i genitori di
Tim Golding. Contavano i minuti che li
allontanavano dall’ultimo istante in cui
avevano visto loro figlio. L’ispettore
non aveva bisogno di immaginare cosa
stessero provando. Era padre anche lui e
conosceva il terrore viscerale pronto ad
assalire qualsiasi genitore il cui figlio,
inspiegabilmente e all’improvviso, non
si trova dove dovrebbe. Nella maggior
parte dei casi, la sventura diviene storia
nel giro di qualche minuto, quando il
bambino riappare indenne, spesso
sorridendo allegramente in barba al
panico dei genitori. Cionondimeno, è
storia che lascia segni profondi.
Ma a volte non c’è sollievo. Non c’è
alcun accesso d’ira a mascherare i danni
causati da un terrore indefinito quando il
bambino riappare. A volte il terrore si
protrae ancora e ancora. Merrick sapeva
che esso avrebbe continuato a urlare
nelle coscienze di Alastair e Shelley
Golding finché la sua squadra non
avesse trovato il loro bambino. Vivo o
morto. Lo sapeva perché aveva visto
quella stessa agonia invadere le vite di
Gerry e Pam Lefevre, il cui figlio Guy
era scomparso da poco più di quindici
mesi. Avevano dragato il canale,
setacciato i parchi e i campi
abbandonati in un raggio di tre
chilometri, ma non avevano trovato
traccia di Guy.
Merrick aveva assistito il detective
assegnato a quell’indagine, motivo per
cui gli era stato affidato il caso di Tim
Golding. Aveva le conoscenze
necessarie a notare possibili legami tra i
due casi. Ma conoscenze previe a parte,
il suo istinto gli urlava già che chiunque
avesse rapito Guy Lefevre aveva appena
reclamato la sua seconda vittima.
L’ispettore si appoggiò al tettuccio
della sua auto e scrutò con un binocolo
la lunga curva disegnata dalla
massicciata dei binari ferroviari. Ogni
agente disponibile era lì chino a
setacciare la vegetazione sporadica in
cerca della minima traccia lasciata dal
bimbo di otto anni scomparso il
pomeriggio precedente. Tim era uscito a
giocare con due amici a qualche
complicato gioco di ruolo incentrato su
un supereroe che Merrick ricordava
vagamente perché idolatrato, per un
breve periodo, dai suoi stessi figli. I due
amici erano stati richiamati dalle
rispettive madri, ma Tim aveva detto che
sarebbe sceso verso la massicciata;
voleva vedere i treni merci che
sfruttavano quella tratta ferroviaria per
trasportare il materiale stradale estratto
dalle cave in periferia fino al deposito
ferroviario.
Due donne, dirette alla fermata
dell’autobus e al bingo, credevano di
aver intravisto la maglietta giallo
canarino del Bradfield Victoria di Tim
muoversi tra gli alberi sulla sommità del
ripido pendio che portava ai binari. Era
successo intorno alle otto meno venti.
Nessun altro si era fatto avanti dicendo
di aver visto Tim.
Il suo volto era già impresso nella
testa di Merrick. La fotografia
dell’annuario scolastico somigliava a un
milione di altre, ma Merrick avrebbe
potuto riconoscere i capelli color sabbia
di Tim, il suo ampio sorriso e gli occhi
azzurri strizzati dietro gli occhiali alla
Harry Potter ovunque. Lo stesso valeva
per Guy Lefevre. Capelli ondulati
castano scuro, occhi castani, una
spruzzata di lentiggini sul naso e sulle
guance. Sette anni, alto per la sua età.
Era stato visto per l’ultima volta mentre
si dirigeva verso la boscaglia incolta sul
limitare di Downtown Park, a quasi
cinque chilometri da dove Merrick si
trovava in quel momento. Era successo
intorno alle sette, in un umido
pomeriggio estivo. Guy aveva chiesto a
sua madre il permesso di uscire per
un’altra mezz’ora di gioco. Andava in
cerca di nidi di uccelli, li mappava in
modo ossessivo su una cartina del
piccolo bosco ceduo. Avevano trovato
la mappa due giorni dopo la sua
scomparsa, dal lato opposto della
boscaglia. Il pezzo di carta ridotto a una
palla spiegazzata giaceva a poco meno
di venti metri dall’argine del canale in
disuso che una volta collegava il
deposito ferroviario alle fabbriche di
lana da tempo dismesse. Quella cartina
era stata l’ultima traccia lasciata da Guy
Lefevre.
E ora un altro bambino sembrava
essere svanito nel nulla. Merrick sospirò
e abbassò il binocolo. Avevano dovuto
aspettare la luce del giorno per
completare le ricerche. Si erano
aggrappati alla flebile speranza che Tim
si fosse infortunato, che giacesse ferito
da qualche parte, incapace di farsi
sentire. Quella speranza era svanita ora.
La frustrazione per la mancanza di piste
era profonda. Era il momento di
radunare i soliti sospetti. Merrick
sapeva per esperienza quanto si sarebbe
rivelato inutile, ma non aveva intenzione
di lasciare piste inesplorate.
Tirò fuori il cellulare e chiamò il suo
sergente, Kevin Matthews. «Kev? Sono
Don. Comincia a interrogare i pedofili.»
«Nessuna traccia quindi?»
«Niente. Ho anche mandato una
squadra a perlustrare il tunnel
ferroviario a otto chilometri da qui.
Niente. È il momento di smuovere le
acque.»
«Raggio d’azione?»
Merrick sospirò di nuovo. La
giurisdizione della polizia metropolitana
di Bradfield si estendeva per un’area di
settantamila metri quadri, in cui
ricadevano circa novecentomila
cittadini. Secondo recenti stime ufficiali,
ciò voleva dire che c’erano all’incirca
tremila pedofili attivi in quella stessa
area. Meno del dieci percento di essi
erano molestatori già schedati. Neanche
la punta dell’iceberg. Ma rimaneva
comunque l’unica strada da seguire.
«Cominciamo con un raggio di tre
chilometri» disse Merrick. «Di solito
preferiscono agire nella loro zona di
sicurezza, no?» Mentre lo diceva,
l’ispettore era spiacevolmente
consapevole che ormai, con un numero
di pendolari sempre in crescita, con così
tanti lavori che richiedevano
spostamenti continui, con i negozi locali
in via d’estinzione, la zona di sicurezza
era, per molti cittadini,
esponenzialmente più ampia di quanto
non fosse stata per la generazione dei
loro genitori. «Dobbiamo cominciare da
qualche parte» aggiunse, con una voce
incupita dal suo pessimismo.
Terminò la chiamata e abbassò lo
sguardo sulla massicciata, schermandosi
gli occhi dai raggi del sole che
concedevano all’erba e agli alberi un
bagliore innocente. La luce facilitava le
ricerche, certo. Ma sembrava
inappropriata, come se il tempo volesse
insultare l’angoscia dei Golding. Quel
caso era il primo per Merrick dopo la
promozione, e l’ispettore aveva già il
sospetto che non sarebbe riuscito a
ottenere un risultato soddisfacente. Per
nessuno, specialmente per lui.
Il dottor Tony Hill bilanciò una pila di
dossier sul braccio che reggeva la sua
ventiquattrore malconcia e aprì la porta
dell’ufficio del dipartimento. Aveva
abbastanza tempo prima del suo
seminario per prendere la posta e
sbrigare ciò che non poteva essere
ignorato. Al rumore della porta che si
chiudeva, la segretaria del dipartimento
di psicologia emerse dall’ufficio
interno. «Dottor Hill» disse, con un tono
esageratamente compiaciuto.
«Buongiorno, signora Stirrat» borbottò
Tony, facendo cadere i dossier e la
valigetta mentre si allungava ad
afferrare il contenuto della sua casella
postale. Mai donna ebbe nome più
adatto, pensò. Si chiese se era per quel
nome che aveva scelto il marito.
«Il rettore è alquanto deluso da lei»
disse Janine Stirrat, incrociando le
braccia sul décolleté generoso.
«Ah. E perché mai?» chiese Tony.
«Il cocktail party con la SJP di ieri
sera. Doveva esserci anche lei.»
Spalle alla segretaria, Tony alzò gli
occhi al cielo. «Ero preso dal lavoro.
Ho perso la cognizione del tempo.»
«Parliamo del più importante
benefattore del programma di ricerca in
psicologia comportamentale» lo
rimproverò la signora Stirrat. «Volevano
conoscerla.»
Tony ammucchiò la posta alla buona e
la stipò nella tasca anteriore della sua
valigetta. «Sono sicuro che abbiano
passato una splendida serata senza di
me» disse, afferrando i dossier e
indietreggiando verso la porta.
«Il rettore si aspetta che l’intero
personale accademico gli sia di
supporto nelle attività di raccolta fondi,
dottor Hill. Non è molto chiederle di
sacrificare un paio di ore del suo
tempo...»
«Per soddisfare la curiosità morbosa
dei dirigenti di una casa farmaceutica?»
sbottò Tony. «A essere sinceri, signora
Stirrat, preferirei darmi fuoco ai capelli
ed estinguerlo a suon di martellate.»
Abbassando la maniglia con il gomito,
fuggì nel corridoio senza aspettare lo
sguardo offeso che sapeva sarebbe
apparso sul volto della segretaria.
Temporaneamente al sicuro nel rifugio
che era il suo ufficio, Tony si lasciò
cadere sulla sedia davanti al suo
computer. Che diavolo ci faceva lì? Era
riuscito a sopprimere il suo disagio nei
confronti della vita accademica
abbastanza a lungo da accettare un posto
da docente alla St Andrews, ma fin dal
suo breve e traumatico ritorno al lavoro
sul campo in Germania, era stato
incapace di ambientarsi. La crescente
consapevolezza che l’università lo
aveva assunto principalmente perché il
suo nome faceva un figurone sull’elenco
docenti non aiutava di certo. Gli studenti
si iscrivevano solo per avvicinarsi
all’uomo i cui profili avevano incastrato
alcuni dei serial killer più noti del
Paese. I benefattori cercavano il brivido
indiretto e voyeuristico delle storie che
tentavano di strappargli di bocca a suon
di lusinghe. Se c’era una cosa che aveva
imparato dalla sua esperienza
universitaria, era la certezza di non
essere tagliato per il ruolo di foca
ammaestrata. Qualunque talento
possedesse, la diplomazia priva di
scopo non rientrava in quella lista.
L’incontro di quella mattina con Janine
Stirrat era stata l’ultima goccia. Tony
tirò a sé la tastiera e cominciò a scrivere
una lettera.
Tre ore dopo, faceva fatica a
riprendere fiato. Aveva corso troppo
velocemente e ora ne pagava il prezzo.
Si accovacciò e tastò l’erba ruvida sotto
i suoi piedi. Decise che era abbastanza
asciutta per sedersi. Si accasciò al suolo
e si distese a braccia e gambe divaricate
finché i battiti che risuonavano nel suo
petto non si placarono. Poi si tirò su a
sedere e si godette la vista. Dalla cima
del Largo Law, il Firth of Forth si
estendeva davanti ai suoi occhi,
scintillante sotto il sole della tarda
primavera. Riusciva a vedere persino il
Berwick Law, il suo cono vulcanico era
il gemello preistorico del punto di
osservazione su cui si trovava egli
stesso, ora separato da chilometri di
mare blu petrolio. Osservò i punti di
riferimento storici uno a uno: il pollice
smussato che era Bass Rock, la
megattera stesa al sole a cui
assomigliava May Island, la macchia
distante che era Edimburgo. C’era un
detto in quell’angolo del Fife: ‘Se May
Island si vede, pioverà. Se May Island
non si vede, sta già piovendo.’ Non
sembrava minacciare pioggia quel
giorno. Solo un bizzarro sbaffo di
nuvole spezzava il cielo blu, come un
soffice nastro di impasto aerato
strappato dalla mollica di un morning
roll scozzese. Gli sarebbe mancato tutto
ciò.
Ma le vedute spettacolari non
potevano bastare per voltare le spalle al
suo vero talento. Non era un
accademico. Era uno psicologo clinico
prima di tutto, poi un profiler. Le sue
dimissioni avrebbero avuto effetto a
partire dalla fine del quadrimestre, il
che gli dava ancora un paio di mesi per
capire cosa fare in seguito.
Le offerte non gli mancavano. Sebbene
i suoi exploit passati non lo facessero
rientrare nelle grazie dell’Home Office,
il caso a cui aveva lavorato di recente in
Germania e Olanda lo aveva aiutato a
scavalcare la burocrazia britannica.
Tedeschi, olandesi e austriaci lo
reclamavano come consulente. Non solo
per casi di omicidi seriali, ma anche per
altre attività criminali che superavano le
barriere internazionali come se queste
non esistessero. Era un’offerta allettante,
con un salario minimo garantito più che
sufficiente per sopravvivere. Inoltre gli
avrebbe dato la possibilità di ritornare
alla pratica clinica, anche se solo part
time.
Poi, c’era Carol Jordan da
considerare. Come succedeva sempre
quando lei invadeva i suoi pensieri, la
mente di Tony lo spingeva a evitare il
confronto diretto. Doveva trovare il
modo di fare ammenda per ciò che le era
successo senza che lei lo capisse.
Fino ad allora, non aveva avuto idee
su come raggiungere il suo obiettivo.
Giorno due. Ancora nessuna traccia di
Tim Golding. In cuor suo, Merrick era
tristemente consapevole di cercare un
cadavere. Aveva fatto visita ad Alastair
e Shelley Golding quella mattina,
distrutto dal fugace ottimismo che aveva
illuminato i loro occhi quando era
entrato nella graziosa villetta a schiera
vittoriana. Non appena avevano
compreso che l’ispettore non portava
novità, i loro occhi si erano spenti. La
paura li aveva consumati da dentro fino
a lasciare solo una sterile speranza.
Merrick aveva lasciato la villetta
sentendosi depresso e vuoto. Aveva
osservato la strada pensando che,
ironicamente, Tim Golding fosse vittima
della gentrificazione. Harriestown, dove
i Golding vivevano, era stata l’enclave
della classe operaia finché giovani
coppie intraprendenti in cerca di case a
buon mercato non avevano cominciato a
comprare proprietà decadenti e a
restaurarle, creando un nuovo sobborgo
alla moda. Quello che era andato perso
era il senso di comunità. Gli avidi
spettatori di Changing Rooms e Home
Front si interessavano solo delle
proprie vite, non di quelle dei vicini.
Dieci anni prima, Tim Golding avrebbe
conosciuto la maggior parte degli
abitanti della sua strada e loro
avrebbero conosciuto Tim. In un
pomeriggio d’estate, sarebbero stati
impegnati fuori casa a passeggiare nei
loro vialetti o a ritornare dal pub, a
godersi gli ultimi raggi di sole mentre
chiacchieravano sull’uscio di casa. La
loro mera presenza avrebbe protetto il
bambino. Tutti avrebbero notato un volto
sconosciuto, avrebbero registrato il suo
passaggio e prestato attenzione alla sua
destinazione. Ma i residenti di
Harriestown di oggi, quelli non
impegnati a sperimentare una qualche
ricetta esotica di uno chef della tv nelle
loro cucine finemente progettate,
sarebbero stati nei loro giardini privati,
separati dai vicini da muri imponenti, a
progettare i loro patio o a sistemare le
urne greche che ospitavano le loro erbe
aromatiche. Merrick aveva lanciato
sguardi contrariati alle porte anonime e
alle finestre che affacciavano su quella
strada, anelando a tempi meno
complicati. Poi era tornato in centrale,
depresso e a disagio.
La sua squadra aveva lavorato tutta la
notte, interrogando i pedofili casa per
casa. Non un solo indizio era emerso a
far progredire l’indagine. Un paio di
testimoni avevano chiamato per riferire
di aver avvistato un furgoncino bianco
aggirarsi a velocità ridotta in quelle
stradine intorno all’ora della sparizione
di Tim. Per caso, uno di loro si era
ricordato una porzione del numero di
targa sufficiente a cercare un riscontro
sul database nazionale della polizia. In
quell’area, sei veicoli erano risultati
compatibili con la ricerca, il che aveva
portato una ventata di rinnovata
determinazione nella sala operativa.
Ma la pista si era accartocciata su sé
stessa nel giro di poche ore. Il terzo
furgoncino sulla lista apparteneva a una
compagnia che consegnava ortaggi
biologici porta a porta. Il corriere aveva
rallentato perché aveva cominciato a
lavorare da poco e non conosceva bene
le strade del luogo. Questo non bastava
a eliminarlo come sospettato. Ma
bastava il fatto che fosse stato
accompagnato dalla figlia quindicenne,
che lo aiutava per appesantire il proprio
portafoglio.
Di nuovo al punto di partenza. Merrick
affondò le mani nelle tasche dei
pantaloni e guardò con rabbia la
bacheca della sala operativa. Era
penosamente spoglia. Di solito, a quello
stadio di un caso di scomparsa di
minore, le informazioni e le dritte
fioccavano. Era stato così nel caso di
Guy Lefevre, anche se alla fine si erano
rivelate tutte infruttuose. Ovviamente
non mancavano i perditempo che
chiamavano dicendo di aver visto Tim
su un Eurostar in compagnia di una
donna asiatica, o in un McDonald a
Taunton insieme a un uomo dai capelli
grigi, o ancora a Inverness a fare
shopping di giochi per computer.
Merrick sapeva che questi cosiddetti
avvistamenti erano fasulli. Chiunque
avesse preso Tim, non lo avrebbe di
certo sfoggiato per la strada davanti agli
occhi di tutti.
Merrick sospirò. Le immagini nella
sua testa non erano più quelle di un
bambino che giocava con gli amici.
Quando chiudeva gli occhi vedeva solo
una tomba in mezzo a un bosco. Una
chiazza gialla di una maglietta da calcio
tra l’erba alta sul limitare di un campo.
Un groviglio di braccia e gambe in un
canale di scarico. Cristo se si sentiva
inadeguato per quell’incarico.
Si scervellò per cercare un altro
approccio, richiamando alla mente i suoi
capi precedenti, chiedendosi cosa
avrebbero fatto di diverso. Popeye
Cross sarebbe stato convinto che il
rapitore era tra i pedofili schedati. Li
avrebbe tartassati, determinato a
ottenere una confessione. Merrick era
sicuro di aver già indagato a sufficienza
in quella direzione, sebbene la sua
squadra si fosse astenuta dall’applicare
il tipo di pressione per cui Popeye era
famoso. Erano tempi ormai in cui se ci
andavi giù pesante, lo facevi a tuo
rischio e pericolo. I giudici erano
intolleranti verso i poliziotti che
facevano i bulli con sospettati
vulnerabili.
Pensò a Carol Jordan e allungò la
mano verso le sigarette. Lei avrebbe
trovato una linea d’attacco originale,
non c’era dubbio. La sua mente lavorava
in modi che Merrick non era mai riuscito
a comprendere. Il cervello dell’ispettore
era strutturato in maniera diversa da
quello di Carol, e lui non sarebbe stato
capace di arrivare a una delle sue
brillanti intuizioni neppure in un milione
di anni. Ma c’era una cosa che Carol
avrebbe fatto e che poteva fare anche
lui.
Merrick inspirò e prese il cellulare.
«Il capo è lì?» chiese alla donna che gli
rispose. «Vorrei parlare con lui riguardo
al dottor Hill.»
John Brandon risaliva le scale della
fermata metropolitana chiamata
Barbican. I mattoncini gialli e sporchi
sembravano trasudare e anche il
pavimento in calcestruzzo dava la
sensazione di essere bollente e
appiccicoso. L’aria era satura del
miscuglio di odori pungenti
dell’umanità. Non era la preparazione
ideale per quella che sospettava sarebbe
stata una conversazione difficile.
Non importava quanto avesse cercato
di prepararsi a incontrare Carol Jordan,
sapeva di non avere la minima idea di
ciò che si sarebbe trovato di fronte. Era
sicuro solo di due cose: di non sapere
come lei si sentisse riguardo a quello
che le era successo, e che lavorare
sarebbe stata per lei una salvezza.
Era rimasto scioccato alla notizia
della disastrosa missione sotto copertura
che era terminata con un’aggressione
violenta ai danni di Carol. L’informatore
di Brandon aveva provato a sottolineare
l’importanza del risultato ottenuto da
quella missione, come se in qualche
modo potesse controbilanciare ciò che
era stato fatto a Carol. Ma Brandon
aveva ripudiato quel ragionamento con
impazienza. Comprendeva le esigenze
del comando. Aveva dedicato la sua vita
alle forze di polizia ed era arrivato in
cima alla scala gerarchica senza tradire
la maggior parte dei suoi princìpi
morali. Uno di questi era che nessun
agente doveva essere esposto a rischi
non necessari. Certamente il pericolo
faceva parte del lavoro, specialmente in
quei tempi in cui, in certe cerchie
sociali, le pistole erano ormai un
accessorio alla moda quanto gli iPod lo
erano in altre. Ma c’erano rischi
accettabili e rischi inaccettabili. Per
come la vedeva Brandon, Carol Jordan
era stata esposta a un rischio
intollerabile e inappropriato. Più
semplicemente, Brandon credeva che
nessuno scopo potesse rendere quei
mezzi giustificabili.
Ma era inutile infuriarsi per ciò che
era successo. I responsabili erano
talmente ben protetti che neanche un
commissario capo avrebbe potuto
toccarli. L’unica cosa che John Brandon
poteva fare per Carol era offrirle una
cima di salvataggio che la riportasse a
svolgere il lavoro che amava. Era forse
stata la migliore detective che avesse
mai avuto sotto il suo comando, e il suo
istinto gli diceva che Carol aveva
bisogno di ritornare in servizio.
Brandon ne aveva discusso anche con
sua moglie, Maggie, spiegandole il suo
piano. «Che ne pensi?» le aveva chiesto.
«Tu conosci Carol. Credi che
accetterà?»
Maggie aveva aggrottato la fronte,
pensierosa, mentre mescolava il suo
caffè. «Non è a me che dovresti
chiederlo, ma a Tony Hill. È lui lo
psicologo.»
Brandon aveva scosso la testa. «Tony
è l’ultima persona a cui chiedere di
Carol. E poi è un uomo, non può
comprendere le implicazioni di uno
stupro come può farlo una donna.»
La bocca di Maggie si era contratta in
segno di assenso. «La vecchia Carol
Jordan ti avrebbe staccato una mano a
morsi. Ma è difficile immaginare le
conseguenze che lo stupro avrà avuto su
di lei. Alcune donne crollano. Per
alcune, diventa il momento decisivo
della vita. Altre ne allontanano il
ricordo e fanno finta che non sia mai
successo, ritrovandosi a cullare una
bomba a orologeria che aspetta solo di
esplodere e devastare la loro vita. Altre
ancora trovano il modo di affrontare la
cosa e andare avanti. Se dovessi
scommettere, direi che Carol
scaccerebbe il ricordo oppure
affronterebbe l’accaduto, una delle due
cose. Se sta cercando di dimenticare,
allora è probabile che sarà entusiasta di
ritornare al lavoro per provare a sé
stessa e al resto del mondo che ha
superato tutto. Ma sarà una mina vagante
in quel caso, e non è l’ideale in un
lavoro come il vostro. Tuttavia...» aveva
detto, facendo una pausa «se sta
cercando un modo per superare
l’accaduto, potresti riuscire a
persuaderla.»
«Credi che sarebbe all’altezza del
compito?» Gli occhi da segugio di
Brandon erano inquieti.
«È come per i politici, no? Le persone
che si propongono volontarie per quel
ruolo sono le ultime che dovrebbero
ricoprirlo. Non lo so, John. Dovrai
decidere quando la vedrai di persona.»
Non era un pensiero rassicurante. Ma
Brandon aveva trovato supporto in
qualcuno di inaspettato. Il pomeriggio
precedente, l’ispettore Merrick si era
presentato nel suo ufficio chiedendogli il
permesso di contattare Tony Hill per
stilare un profilo sulla scomparsa di Tim
Golding. Discutendo del caso, Merrick
aveva detto in tono quasi malinconico:
«Non riesco a fare a meno di pensare
che l’indagine sarebbe a un punto
diverso se l’ispettrice capo Jordan fosse
ancora dei nostri.»
Brandon aveva inarcato le
sopracciglia. «Spero che non stia
avendo una crisi di fiducia in sé stesso,
ispettore» aveva detto.
Merrick aveva scosso la testa. «No,
signore. So che stiamo facendo tutto il
possibile. È solo che l’ispettrice capo
Jordan ragiona in modo diverso da
chiunque altro con cui abbia mai
lavorato. E in casi come questi... be’,
seguire ogni pista possibile non sembra
sufficiente.»
Brandon sapeva che Merrick aveva
ragione. Motivo in più per cui avrebbe
dovuto fare tutto ciò che era in suo
potere per riportare Carol Jordan sul
campo. Raddrizzò le spalle e si diresse
verso il cuore del labirinto di cemento
dove Carol lo stava aspettando.
John Brandon rimase scioccato dal
cambiamento subìto da Carol Jordan. La
donna sull’uscio della porta d’ingresso
che attendeva di vederlo sbucare fuori
dall’ascensore non assomigliava quasi
per niente al ricordo che Brandon aveva
di lei. Se l’avesse incrociata per strada
non l’avrebbe riconosciuta. I capelli
erano totalmente diversi, tagliati corti ai
lati, con la frangia ben evidente
sistemata su un lato a cambiare la forma
del viso. Ma la donna era diversa in
particolari molto più importanti. La
pelle sembrava essersi fusa sul volto,
ridisponendo depressioni e sporgenze.
L’espressione di perspicace interesse
che aveva sempre abitato nei suoi occhi
era stata rimpiazzata da vuota diffidenza.
Emanava tensione invece dell’usuale
fiducia in sé stessa. Nonostante la calda
giornata estiva, indossava un maglione a
collo alto privo di forma e un paio di
pantaloni larghi al posto dei completi su
misura in cui Brandon era abituato a
vederla.
Si fermò a circa un metro da lei.
«Carol» disse. «È bello vederti.»
Non ci fu alcun sorriso di benvenuto,
solo una debole contrazione dei muscoli
agli angoli della bocca. «Si accomodi,
signore» disse, facendo un passo
indietro per permettergli di entrare.
«Non c’è bisogno di essere formali»
disse Brandon, assicurandosi di tenersi
il più possibile fisicamente lontano da
lei mentre entrava nell’appartamento.
«Non sono il tuo capo da un po’ ormai.»
Carol rimase in silenzio, guidandolo
verso la coppia di divani ad angolo retto
accanto alle vetrate alte fino al soffitto
che affacciavano sull’antica chiesa nel
cuore del complesso residenziale di
Barbican. Aspettò che Brandon si
sedesse, poi gli offrì da bere. «Caffè,
tè?»
«Qualcosa di fresco. Fa caldo oggi
fuori» rispose Brandon, sbottonando la
giacca del suo completo grigio antracite.
Notando l’improvvisa immobilità di
Carol, si fermò al terzo bottone con aria
imbarazzata e si schiarì la gola.
«Acqua minerale o succo d’arancia?»
«L’acqua andrà bene.»
Quando ritornò con due bicchieri
d’acqua che ancora spruzzavano la loro
effervescenza sibilando, Carol ne
poggiò uno davanti a Brandon per poi
ritirarsi nell’angolo più lontano da lui.
«Come stai?»
Carol scrollò le spalle. «Meglio di
come stavo.»
«Sono rimasto scioccato quando ho
sentito cosa era successo. Infuriato
anche. Maggie e io... be’, so come mi
sentirei se lei o le mie figlie... Carol,
non posso neanche immaginare come si
affronti una cosa simile.»
«Non c’è nulla di simile» ribatté Carol
bruscamente, gli occhi fissi su di lui.
«Sono stata stuprata, John. Non esiste
violazione più grande eccetto la morte.
E da quella non è ancora tornato nessuno
a raccontare come sia.»
Brandon accettò il rimprovero. «Non
sarebbe mai dovuto succedere.»
Carol respirò a fondo. «Ho commesso
degli errori, è vero. Ma il vero danno è
stato fatto da chi ha messo a punto
l’operazione senza informarmi su cosa
stava davvero accadendo. Purtroppo,
non tutti sono scrupolosi come te.» Si
voltò e incrociò le gambe. «Hai detto
che volevi parlarmi riguardo a una
cosa» continuò, cambiando discorso
irrevocabilmente.
«Sì. Non so se sei al corrente dei
recenti cambiamenti che hanno coinvolto
le forze di polizia su al nord.»
Carol scosse la testa. «Mi sono
concentrata su altro.»
«Come è giusto che sia» disse
Brandon, in tono gentile. «Dall’alto
della sua saggezza, l’Home Office ha
deciso che la contea dell’East Yorkshire
è troppo piccola per avere una propria
forza di polizia e che dovrebbe essere
inglobata da un’altra. E dato che il mio
corpo di polizia è il più piccolo tra i
due coinvolti nella fusione, sono io
quello che ci ha rimesso il lavoro.»
Carol mostrò il primo segno di
trasporto. «Mi dispiace, John. Eri un
bravo commissario capo.»
«Grazie. E spero di ritornare a
esserlo. Sono tornato a giocare in casa.»
«Bradfield?»
Brandon notò che il linguaggio del
corpo di Carol era più rilassato. Pensò
di aver penetrato il duro guscio esterno.
«Esatto. Mi hanno offerto la polizia
metropolitana di Bradfield.» Il suo volto
cupo si raggrinzì in un sorriso. «E io ho
accettato.»
«Sono molto contenta per te, John.»
Carol sorseggiò il suo bicchiere
d’acqua. «Farai un ottimo lavoro lì.»
Brandon scosse la testa. «Non sono
qui in cerca di lusinghe, Carol. Sono qui
perché ho bisogno di te.»
Carol distolse lo sguardo, fissando le
pietre grigie e striate della chiesa. «Non
credo proprio, John.»
«Ascoltami. Non ti sto chiedendo di
venire a occupare una scrivania nel
dipartimento di investigazione
criminale. Voglio fare qualcosa di
diverso a Bradfield. Vorrei creare una
task force simile a quella della polizia
metropolitana per i reati gravi. Un paio
di squadre d’élite per crimini maggiori
sempre in stand-by e pronte a intervenire
nei casi più difficili. Solo indagini di un
certo calibro, solo per incastrare la
feccia peggiore. E nei periodi morti, si
lavorerebbe sui casi irrisolti.»
Carol girò la testa verso di lui,
lanciandogli uno sguardo accorto e
pensieroso. «E credi di aver bisogno di
me?»
«Ti voglio a capo della nuova unità e
voglio che tu abbia controllo completo e
diretto su di essa. È il genere di cosa
che ti riesce meglio, Carol. La
combinazione di intelligenza, istinto e
solido lavoro investigativo.»
Carol si strofinò la nuca con una mano,
il palmo fresco per il contatto col
bicchiere d’acqua. «Forse una volta»
disse. «Non credo di essere ancora
quella persona.»
Brandon scosse la testa. «Sono qualità
che non spariscono così. Sei la migliore
detective che abbia mai lavorato per me,
anche se a volte hai quasi oltrepassato i
limiti. Ma ogni volta che lo hai fatto, hai
dimostrato di avere ragione. Ed è questo
il genere di abilità e istinto di cui ho
bisogno per la mia squadra.»
Carol abbassò lo sguardo sui colori
vivaci del suo tappeto Gabbeh, come se
questo custodisse la risposta. «Non
credo proprio, John. Mi porto dietro non
pochi problemi di recente.»
«Faresti rapporto direttamente a me.
Nessun inutile burocrate di mezzo.
Lavoreresti con alcuni dei tuoi vecchi
colleghi, Carol. Persone che sanno chi
sei e quanto vali. Nessuno che salterà a
giudizi sbrigativi sul tuo conto
basandosi su dicerie e mezze verità.
Persone come Don Merrick e Kevin
Matthews. Uomini che ti rispettano.» Le
parole non dette restarono sospese a
mezz’aria. Da nessun’altra parte Carol
avrebbe potuto aspettarsi quel tipo di
accoglienza e ne erano consapevoli
entrambi.
«È un’offerta davvero generosa,
John.» Carol incrociò il suo sguardo, un
mondo di stanchezza nei suoi occhi. «Ma
credo che ti meriti una corsa più
tranquilla di quella che avresti
assumendo me.»
«Lascia che sia io a decidere» disse
Brandon, lasciando che la sua innata
aria di autorità emergesse
improvvisamente dalla mitezza che
aveva mostrato fino a quel momento.
«Carol, il tuo lavoro è sempre stato una
parte fondamentale di te. Capisco perché
non vuoi tornare all’Intelligence, al
posto tuo anche io non vorrei più
saperne di quei bastardi. Ma risolvere
casi è una cosa che hai nel sangue.
Perdonami se ti sembro presuntuoso, ma
non credo che supererai quello che è
successo finché non rimonterai in sella.»
Carol sgranò gli occhi. Brandon si
chiese se non avesse osato troppo e
aspettò quella frustata di ironia che una
volta si sarebbe beccato, nonostante il
suo grado.
«Hai parlato con Tony Hill?» chiese
Carol.
Brandon non riuscì a nascondere
un’espressione sorpresa. «Tony? No,
non lo sento da... be’, deve essere più di
un anno. Perché me lo chiedi?»
«Perché lui dice la stessa cosa» disse
lei, in tono piatto. «Mi chiedevo se vi
foste coalizzati.»
«No, quest’idea è solo mia. Ma sai,
Tony ha ragione di solito.»
«Forse. Ma nessuno di voi due può
capire cosa vuol dire essere me di
questi tempi. Non sono sicura che le
vecchie regole del gioco valgano
ancora. John, non posso prendere una
decisione ora. Ho bisogno di tempo per
pensarci.»
Brandon svuotò il suo bicchiere.
«Prenditi tutto il tempo di cui hai
bisogno.» Si alzò. «Chiamami se vuoi
discuterne più a fondo.» Prese un
biglietto da visita dalla tasca e lo poggiò
sul tavolo. Carol guardò il pezzo di
carta come se potesse prendere fuoco da
un momento all’altro. «Fammi sapere
cosa decidi.»
Carol annuì stancamente. «Lo farò. Ma
non fare programmi basandoti su di me,
John.»
Non c’è mai silenzio al Bradfield
Moor Secure Hospital. Be’, non nei
posti in cui ti hanno permesso di
andare finora. Tutti i film e le serie tv
che hai visto ti fanno pensare che forse,
da qualche parte, ci sono delle celle
con le pareti imbottite in cui nessun
suono può penetrare, ma probabilmente
dovresti dare davvero di matto per
finirci. Urlare, farti venire la schiuma
alla bocca, atterrare uno dello staff –
quel genere di cose. Sebbene l’idea di
stare in un posto silenzioso sia
invitante, credi che entrare in modalità
‘matto da legare’ solo per avere la pace
necessaria a sentire la Voce come si
deve non gioverebbe alle tue possibilità
di essere rilasciato.
Nei primi tempi al Bradfield Moor,
provavi a addormentarti non appena il
clic della serratura ti segnalava che la
porta della tua stanza sarebbe rimasta
chiusa per il resto della notte. Ma
l’unica cosa che riuscivi a sentire
erano conversazioni attutite, urla e
singhiozzi di tanto in tanto, piedi che
sbattevano nei corridoi. Ti coprivi la
testa con il cuscino e cercavi di
isolarti. Spesso non funzionava. I suoni
anonimi ti spaventavano, ti portavano
a chiederti se la porta si sarebbe
spalancata da un momento all’altro
mettendoti davanti a chissà cosa.
Invece di dormire, finivi per
innervosirti e agitarti. Al mattino eri
esausto, gli occhi secchi e doloranti, le
mani tremanti come quelle di un
ubriaco fradicio. Peggio ancora, non
riuscivi ad ascoltare la voce in quello
stato. Eri troppo nervoso per riuscire a
eliminare il sottofondo.
Ti ci sono volute diverse settimane,
infernali e terrificanti, ma alla fine il
tuo stupido cervello ha capito che forse
valeva la pena cercare di seguire il
flusso. Ora, quando le luci si spengono,
ti stendi a pancia in su, fai respiri
profondi, ti ripeti che i rumori esterni
sono un chiacchiericcio di sottofondo
insignificante a cui non devi prestare
attenzione. E prima o poi tutto svanisce
come interferenza, lasciandoti da solo
con la Voce. Le tue labbra si muovono
in silenzio mentre rivivi il messaggio, e
sei altrove. In un posto migliore.
È una cosa meravigliosa. Puoi
rivedere il lento crescendo dei tuoi
successi più grandi. È tutto lì, di fronte
a te. La scelta della vittima. La
negoziazione. Seguirla fino al luogo
che trasformerai col sangue. La
stupida fiducia che tutte loro nutrivano
per Derek il tonto. Lui non le avrebbe
mai toccate con l’intento di ferirle. Poi
lo sguardo nei loro occhi quando ti
giravi con il loro incubo più grande tra
le mani.
La replica non arriva mai al finale.
Sono gli occhi che concludono i giochi,
ogni volta. Rivivi il momento in cui il
terrore le assale, quel terrore che le fa
diventare del colore del latte, e la tua
mano si stringe attorno al tuo cazzo. La
schiena si inarca, i fianchi spingono
verso l’alto, le labbra si ritirano sui
denti mentre vieni. E poi senti la Voce,
trionfante e ricca, che ti loda per il tuo
ruolo nella purificazione.
È il momento migliore nel tuo mondo
piccolo e soffocante. Altri potrebbero
pensarla diversamente, ma tu sai
quanto sei fortunato. Tutto ciò che vuoi
ora è uscire di qui, ritornare dalla
Voce. Nient’altro.
Parte seconda
Dieci settimane dopo
Non ricorda la prima volta che ha
sentito la Voce. Oggi si vergogna di
non averla riconosciuta subito.
Pensandoci, non riesce a credere che
gli ci sia voluto tanto per capirlo.
Perché era diversa da tutte le altre voci
che sentiva ogni giorno. Non lo
prendeva in giro. Non si spazientiva
perché era un po’ lento. Non lo trattava
come uno stupido. La Voce lo
rispettava. Lui non aveva mai
conosciuto il rispetto prima di allora,
forse per questo non aveva afferrato
subito il messaggio. Gli ci era voluto
un po’ per capire cosa gli veniva
offerto.
Ora non riesce a immaginare di
restare senza. È come la cioccolata,
l’alcol, il fumo. Il mondo ne potrebbe
fare a meno, ma perché mai? Ci sono
momenti e luoghi in cui sa che la
sentirà: i messaggi sul suo cellulare, i
minidisc che appaiono senza preavviso
nella tasca della sua giacca a vento, di
notte quando è solo a letto. Ma a volte
sbuca fuori dal nulla. Un respiro
leggero sul collo ed eccola, la Voce. La
prima volta che è successo, se l’è quasi
fatta addosso. Come rovinare tutto! Ma
ha imparato da allora. Ora, nei luoghi
pubblici, sa che non deve reagire, in
modo che nessuno noti cosa sta
succedendo.
La Voce gli ha fatto anche dei regali.
Sì, anche altri in passato gli hanno
dato delle cose, stronzate senza valore
perlopiù, cose che non volevano o che
avevano già usato a sufficienza. La
Voce è diversa. La Voce gli dà cose che
sono solo per lui. Cose ancora
inscatolate e imbustate, comprate e
pagate per lui, non rubate. Il lettore
minidisc. I jeans Diesel. L’accendino
Zippo con il teschio di ottone e le ossa
incrociate che è così piacevole al tatto
quando ci strofina sopra il pollice. I
video che lo eccitano al pensiero di
cosa gli piacerebbe fare alle ragazze di
strada che vede ogni giorno.
Quando ha chiesto perché, la Voce ha
detto che lui era meritevole. Non aveva
capito. Non lo capisce tuttora, non fino
in fondo. La Voce gli aveva detto che
quei regali se li sarebbe guadagnati,
ma non aveva detto come, non
all’inizio. Forse per colpa sua. Non è
svelto di comprendonio. Gli ci vuole un
po’ a capire come funzionano certe
cose.
Ma a lui piace compiacere. È una
delle prime cose che ha imparato a fare
per quanto si ricordi. Fai sorridere le
persone, dai loro quello che vogliono e
avrai buone possibilità di evitare un
pestaggio. Perciò aveva prestato
attenzione agli insegnamenti della
Voce, perché in quel modo era più
probabile che rimanesse con lui. E lui
vuole che rimanga con lui, perché lo fa
stare bene. Poche cose lo hanno mai
fatto star bene.
Così ascolta, e prova a capire. Ora sa
del veleno che le ragazze spargono per
le strade. Sa che anche quelle che sono
state gentili con lui, vogliono solo ciò
che ha da dare. Ha senso per lui. Si
ricorda quante volte hanno cercato di
costringerlo ad accordi più vantaggiosi
con paroline dolci, e come diventano
crudeli quando dà loro ciò che deve in
cambio di banconote spiegazzate. Ora
sa che quelle sgualdrine devono essere
purificate, e che lui prenderà parte alla
loro purificazione.
Non manca molto. Ogni notte, quando
spegne le luci, la Voce gli sussurra nel
silenzio, dicendogli come sarà.
All’inizio era spaventato. Non era
sicuro di riuscire a gestire il modo in
cui le pareti sembravano parlargli. Non
credeva di poter fare ciò che gli veniva
chiesto. Ma ora, mentre ascolta in
quella terra di mezzo tra la veglia e il
sonno, crede di poterci riuscire. Un
passo alla volta, è così che si arriva
dove si vuole. È così che dice la Voce.
Se pensa al da farsi passo dopo passo,
capisce che non è poi così difficile.
Non fino alla fine.
Non ha mai fatto una cosa del genere
prima. Ma ha visto i video, ancora e
ancora. Guardarli lo fa stare bene. La
Voce dice che sarà un milione di volte
meglio farlo di persona. Ha senso
anche questo, perché ogni cosa che la
Voce gli ha detto finora si è rivelata
vera. E ora il momento è arrivato.
Stasera è la sera.
Non vede l’ora.
Carol Jordan gettò la sua
ventiquattrore sul sedile del passeggero
ed entrò nella berlina argentata di media
categoria che aveva scelto proprio per
la sua anonimità. Inserì la chiave nel
cruscotto, ma esitò ad avviare il motore.
Cristo, che stava facendo? Aveva le
mani impregnate di sudore, l’ansia le
stringeva il petto in una morsa. Come
diavolo avrebbe fatto a entrare in ufficio
e a motivare le truppe con una lingua
talmente secca che le si incollava ai
denti?
Alzò lo sguardo verso le finestre
anguste sulle pareti del parcheggio
sotterraneo. Dei piedi si muovevano
veloci verso i rispettivi uffici.
Mocassini lucidi, scarpe consumate,
tacchi a rocchetto e décolleté. Gambe
avvolte in pantaloni, jeans, collant nero
opaco e trasparenti. Passeggiatori del
centro città che afferravano la mattina a
grandi passi. Perché non riusciva a farlo
anche lei?
«Controllati, Jordan» borbottò tra sé e
sé, girando la chiave e accendendo il
motore. Non sarebbe entrata in una
stanza piena di sconosciuti. La sua
squadra era piccola, i suoi membri
selezionati personalmente da lei e
Brandon. Aveva già lavorato con la
maggior parte di loro e sapeva che la
rispettavano. Una volta, almeno.
Sperava che quel rispetto fosse
abbastanza forte da non trasformarsi in
pietà.
Carol guidò l’auto fuori dal garage.
Era tutto così familiare, eppure così
diverso. Quando in passato aveva
vissuto e lavorato a Bradfield, il loft nel
magazzino riconvertito che occupava un
intero isolato era stato casa per lei, un
nido inaccessibile come quello di un
rapace, che la faceva sentire allo stesso
tempo lontana e vicina alla città che
proteggeva. Quando si era trasferita a
Londra, aveva venduto il loft a suo
fratello e alla fidanzata. Ora era tornata
a vivere tra quelle mura, ma come un
cuculo riluttante in un nido creato da
Michael e Lucy. I due avevano cambiato
quasi tutto nel loft, e questo faceva
sentire Carol ancor più fuori luogo. Una
volta avrebbe lasciato che quella
sensazione le scivolasse addosso, sicura
di avere un luogo di lavoro in cui si
sentiva a casa. Ciò che temeva era che
quel giorno si sarebbe sentita
un’estranea anche nella sua stazione di
polizia.
La stessa Bradfield le sembrava una
sconosciuta fin troppo familiare. Quando
in passato aveva vissuto lì, si era
impegnata a conoscere la cittadina.
Aveva visitato il museo locale nel
tentativo di comprendere le forze che
avevano modellato Bradfield nel corso
dei secoli, trasformandola da un borgo
di pastori e tessitori al vitale polo
commerciale che aveva rivaleggiato con
Manchester per il titolo di capitale
settentrionale dell’impero vittoriano.
Aveva appreso del suo declino nel
dopoguerra, e della rinascita innescata
da ripetute ondate di immigrazione verso
la fine del secolo precedente. Ne aveva
studiato l’architettura, imparando ad
apprezzare le influenze italiane sugli
edifici più antichi, provando a
riconoscere come la città fosse cresciuta
in modo organico, sforzandosi di
immaginare cosa avessero rimpiazzato
gli orribili blocchi di cemento degli
uffici e del centro commerciale innalzati
negli anni Sessanta. Si era creata una
mappa mentale della città, sfruttando i
suoi giorni liberi per camminare per
strada, per girare in macchina tra i vari
quartieri, finché non aveva imparato a
capire immediatamente in che tipo di
ambiente stesse per metter piede dal
solo indirizzo di una scena del crimine.
Ma quella mattina, tutte le sue
conoscenze sembravano essere svanite.
Nuovi segnali stradali e sensi unici
erano spuntati come funghi in sua
assenza, costringendola a concentrarsi
sul suo senso dell’orientamento in modo
del tutto inatteso. Guidare fino alla
centrale di polizia avrebbe dovuto
essere un gesto automatico. Ma le ci
volle il doppio del tempo stimato e
quando finalmente entrò nel parcheggio,
una sensazione di sollievo la pervase.
Avanzò lentamente verso il posto auto
riservato, lieta di constatare che almeno
una delle promesse di John Brandon era
stata mantenuta. Uno dei posteggi vuoti
riportava una scritta nuova di zecca che
diceva ‘Ispettrice capo Jordan’.
Entrare in centrale le provocò un
fugace déjà-vu. Sembrava non fosse
cambiato nulla. Nell’entrata sul retro
aleggiava ancora un vago odore di fumo
di sigaretta e di grasso stantio
proveniente dalla mensa al piano
inferiore. Qualunque cambiamento fosse
stato imposto per le aree pubbliche, a
nessun professionista era stato chiesto di
rendere quell’entrata più gradevole. Le
pareti erano dello stesso grigio
industriale, la bacheca ancora ricoperta
con quelli che probabilmente erano gli
stessi memo ingialliti che aveva notato
anni addietro. Carol si avvicinò allo
sportello e fece un cenno col capo per
salutare l’agente dietro alla scrivania.
«Ispettrice capo Jordan, squadra crimini
maggiori.»
L’uomo di mezza età strofinò una mano
sui capelli a spazzola brizzolati e
sorrise. «Benvenuta a bordo» disse.
«Terzo piano. L’ascensore è in fondo al
corridoio. Stanza 316.»
«Grazie.» Carol abbozzò un sorriso e
si voltò per aprire la porta mentre la
serratura si sbloccava con un breve
ronzio. Raddrizzando le spalle e
sollevando il mento senza rendersene
conto, avanzò rapidamente nel
corridoio, ignorando i vari sguardi
incuriositi che le lanciavano gli agenti in
uniforme.
Il terzo piano era stato restaurato da
quando se n’era andata. Le pareti erano
color lavanda fino all’altezza della
cintola, poi bianco sporco. Le vecchie
porte di legno erano state rimpiazzate da
lastre di vetro e acciaio, le sezioni
centrali erano satinate per evitare che i
passanti occasionali vedessero cosa
succedeva all’interno degli uffici.
Sembra un’agenzia pubblicitaria più che
una stazione di polizia, pensò Carol
mentre raggiungeva la porta 316.
Carol fece un respiro profondo e la
aprì. Una manciata di volti incuriositi
alzò lo sguardo verso di lei, per poi
darle il benvenuto con un sorriso. Il
primo a scattare in piedi fu Don
Merrick, appena promosso ispettore.
Era stato il suo sergente nel suo primo
caso di omicidio, un’indagine che aveva
provato a chiunque ne dubitasse che
Carol aveva la stoffa giusta per arrivare
lontano. Sicuro, affidabile Don, pensò
Carol con gratitudine mentre l’ispettore
attraversava la stanza per stringerle la
mano.
«È un piacere riaverla con noi,
signora» disse, allungando la sua mano
libera per stringerla attorno al gomito di
Carol. Sebbene fosse notevolmente più
alto di lei, l’ispettrice fu piacevolmente
sorpresa di non trovare la sua mole
inquietante. «Non vedo l’ora di lavorare
di nuovo al suo fianco.»
Il sergente Kevin Matthews era appena
dietro Merrick. Kevin si era riscattato
dopo un errore di monumentale stupidità
che gli era quasi costato la carriera.
Sebbene fosse stata lei stessa ad aver
svelato il tradimento del sergente, Carol
fu felice di vedere che si era riscattato.
Era un detective troppo in gamba per
essere relegato alla routine sterile da
agente in uniforme. Carol sperava che
non gli pesasse il fatto che una volta
avessero avuto lo stesso grado. «Kevin»
lo salutò. «Lieta di vederti.»
La pelle pallida e lentigginosa del
sergente arrossì. «Bentornata a
Bradfield» disse.
Anche gli altri si stavano avvicinando.
«Felice di vederla, capo» disse una
voce di donna alle sue spalle. Carol si
voltò a vedere la sagoma esile della
detective Paula McIntyre che le
sorrideva. Paula aveva collaborato con
la squadra omicidi che aveva stanato lo
psicopatico colpevole di aver
massacrato quattro giovani uomini in
città. Allora era stata una semplice
agente di supporto del dipartimento di
investigazione criminale, ma Carol
ricordava la sua attenzione ai dettagli e
l’empatia di cui era capace nei confronti
dei testimoni. Stando a quanto diceva
Brandon, Paula si era ormai affermata
come una delle detective più abili negli
interrogatori all’interno del dipartimento
cittadino di investigazione criminale.
Carol sapeva bene quanto una simile
abilità potesse fare la differenza in un
caso di omicidio in cui si combatteva
contro l’orologio. Qualcuno così abile
nel persuadere i testimoni a ricordare
tutto il possibile poteva far risparmiare
tempo in momenti in cui risparmiarlo
significava salvare delle vite.
Paula diede una spintarella all’uomo
mulatto che le stava a fianco. «Questo è
il detective Evans» disse. «Sam, lei è
l’ispettrice capo Jordan.»
Carol allungò una mano. Evans sembrò
quasi restio ad afferrarla, e tenne gli
occhi bassi mentre la stringeva. Carol lo
squadrò velocemente. Non era molto più
alto di lei. Appena sopra i requisiti
minimi di altezza, pensò. I capelli ricci
erano quasi del tutto rasati, aveva
lineamenti caucasici più che africani. La
sua pelle era del colore dello zucchero
caramellato e il pizzetto crespo gli
conferiva un’aria di maturità che
cozzava con la freschezza priva di rughe
del suo volto. Carol ripescò nella
memoria gli appunti di Brandon sul
giovane detective: «Un tipo silenzioso.
Ma non ha paura di parlare se ha
qualcosa da dire. È sveglio e ha il fiuto
giusto per mettere insieme le
informazioni e trovarne il senso. Vuole
arrivare in alto, ma lo nasconde bene.
Questo vuol dire anche che ti darà il
massimo.» Sembrava che Carol avrebbe
dovuto fidarsi di Brandon al riguardo.
Una persona era rimasta ai margini del
piccolo gruppo di agenti. La detective
Stacey Chen aveva un leggero sorriso
stampato sulle labbra. Era lei
l’incognita. Ogni indagine di un certo
calibro ormai aveva bisogno di un
agente che conoscesse i sistemi
informatici e fosse capace di gestire la
quantità di dati generati. Carol aveva
chiesto a Brandon di indicarle qualcuno,
e lui le aveva suggerito Stacey nel giro
di ventiquattr’ore. «Ha un master in
informatica, sa tutto sui computer ed è
una gran lavoratrice. Se ne sta sulle sue,
ma comprende l’importanza di fare parte
della squadra» aveva detto. «Ed è
ambiziosa.»
Carol ricordava quella sensazione.
L’ambizione l’aveva abbandonata a
Berlino, insieme alla sua dignità, ma
riusciva ancora a ricordare quel
desiderio ardente di salire sul gradino
successivo della scala gerarchica. Carol
scansò Evans e tese una mano verso
Stacey. «Ciao. Tu devi essere Stacey.
Felice di averti in squadra.»
Gli occhi castani della detective
fissarono quelli di Carol. «Apprezzo
l’opportunità» disse, in un forte accento
londinese.
Carol diede un’occhiata alla stanza.
«Manca qualcuno» commentò.
«Ah, sì» disse Merrick. «Il sergente
Chris Devine. La notizia ci è arrivata
ieri: alla madre è stato diagnosticato un
cancro allo stadio terminale. La Devine
ha chiesto il permesso di restare con la
polizia metropolitana per ora. Il capo lo
ha concesso.»
Carol scosse la testa, lievemente
spazientita. «Grandioso. Siamo a ranghi
ridotti ancor prima di cominciare.» Si
guardò intorno, soffermandosi per la
prima volta sui particolari della stanza.
C’erano sei scrivanie, ognuna con un
computer. Lavagne bianche e bacheche
di sughero allineate su una parete, vicino
a un proiettore fissato al soffitto. Una
cartina di Bradfield laminata su larga
scala occupava la maggior parte dello
spazio vicino alla porta. Le finestre che
si aprivano sulla parete opposta erano
oscurate da veneziane verticali che
nascondevano le distrazioni del
paesaggio urbano. La stanza era di
dimensioni decenti: non piccola, ma
neanche tanto grande da farli sentire
isolati. Sarebbe andata bene, si convinse
Carol. «Don, dov’è il mio ufficio?»
Merrick indicò la parete opposta della
sala, dove due porte davano su un paio
di uffici. «Scelga lei. Sono vuoti
entrambi.»
E nessuno dei due offre molta privacy,
pensò Carol. Scelse quello con una
finestra che si affacciava sul mondo
esterno e si voltò verso Merrick, che
l’aveva seguita nel suo nuovo ufficio.
«Chiama chiunque si occupi di faccende
di arredamento. Voglio delle veneziane
per la finestra interna.»
Merrick abbozzò un sorrisetto. «Non
vuole farsi vedere mentre gioca a
Solitaire, vero?»
«Preferisco FreeCell, a dir la verità.
Dammi mezz’ora per sistemarmi, poi
faremo un briefing.»
«Bene.» Si defilò, lasciandola da sola.
Carol si sentì sollevata. Accese il
computer. Qualche secondo dopo, vide
Evans avvicinarsi con le braccia cariche
di dossier. Carol scattò in piedi per
aprire la porta.
«Questi cosa sono?» chiese.
«Casi aperti. I più recenti. Sono stati
consegnati ieri pomeriggio. Sono quelli
a cui dovremmo lavorare finché non si
presenta un nuovo caso.»
Carol sentì il sangue scorrere più
veloce. Finalmente qualcosa su cui
concentrarsi. Qualcosa che poteva
mettere a tacere i suoi demoni. O almeno
zittirli per un po’.
Aidan Hart osservò l’uomo sedutogli
di fronte con una certa circospezione.
Sapeva che molti dei suoi colleghi lo
ritenevano troppo giovane per essere il
direttore del Bradfield Moor Secure
Hospital a soli trentasette anni, ma Hart
aveva abbastanza fiducia nelle proprie
capacità da considerare la loro
disapprovazione come il prodotto di
delusione e invidia. Sapeva che nessuno
di loro rappresentava una minaccia
professionale per lui.
Ma il suo nuovo dipendente
apparteneva a tutt’altra classe. Il dottor
Tony Hill era noto tanto per la sua
genialità quanto per la sua atipicità. Le
uniche regole che seguiva erano quelle
che gli importavano. Non era un tipo da
gioco di squadra, a meno che il gioco di
squadra in questione non l’avesse scelto
egli stesso. Aveva conquistato rispetto e
attirato ira in egual misura tra chi aveva
lavorato con lui. Quando Tony Hill
aveva fatto richiesta per un part time al
suo ospedale, la prima reazione di
Aidan Hart era stata di rifiuto. C’era
spazio per una sola stella al Bradfield
Moor, e quella era lui.
Poi ci aveva ripensato. Se Hill avesse
lavorato solo part time, il suo operato
avrebbe potuto essere attentamente
indirizzato. I suoi successi sarebbero
stati un ulteriore vanto per lo stesso
Hart, il direttore visionario che aveva
addomesticato il cane sciolto. Era una
prospettiva accattivante. Avrebbe potuto
vantarsi di aver persuaso il famoso Tony
Hill a ritornare alla pratica clinica. Si
era convinto che, mentre i pazienti
avrebbero giovato delle famose qualità
empatiche del dottor Hill, il vero
beneficiario sarebbe stato Aidan Hart. Il
suo ripensamento aveva trovato un
riscontro positivo nel primo incontro
con Hill. Hart sapeva bene cosa voleva
dire mettersi in tiro per far colpo, e gli
ci erano voluti pochi secondi per capire
che Hill si era perso quel particolare
tutorial. L’omuncolo che gli si era seduto
di fronte con un pessimo taglio di
capelli, scarpe marroni con pantaloni
neri e una giacca in tweed verdastra dai
polsini logori, non avrebbe di certo
creato scompiglio nel genere di
ambiente a cui Hart mirava. Hill era
sembrato imbarazzato dalla fama
ottenuta dalla sua collaborazione con la
polizia e aveva sottolineato di non
volersi trovare mai più sotto i riflettori.
Qualsiasi attività futura di profilazione
l’avrebbe svolta a porte chiuse, lontano
da confini stranieri. L’impazienza di Hill
di tornare alla pratica clinica era quasi
patetica.
Dopo quel primo colloquio, Hart era
rimasto soddisfatto e compiaciuto,
sicuro che puntare su Tony Hill fosse la
migliore decisione possibile. Chissà
come, gli era sfuggito l’acume
penetrante nel suo sguardo,
l’inconfondibile carisma che il dottore
indossava come un completo cucito su
misura. Hart non capiva come potesse
essere successo. A meno che,
ovviamente, Hill non avesse
deliberatamente nascosto quelle qualità
per fare un’impressione diversa. Una
possibilità alquanto preoccupante. A
Hart piaceva ricoprire il ruolo dello
psicanalista. Lo metteva a disagio l’idea
di essere stato manipolato da un maestro
a lui superiore nell’arte della
comprensione del comportamento
umano. Non poteva fare a meno di
chiedersi se fosse egli stesso il più
recente oggetto di scrutinio di quegli
stupefacenti occhi blu che sembravano
assorbire ogni sfumatura del suo
linguaggio corporeo. Hart non gradiva il
pensiero di dover soppesare ogni parola
e movimento in presenza del suo nuovo
dipendente. Aidan Hart aveva i suoi
segreti, e non voleva che Tony Hill ci
ficcasse il naso.
Non credeva fosse inutile paranoia.
Hill era nell’edificio da solo un’ora, ma
aveva già dimostrato la sua abilità.
Aveva saputo del paziente appena
ammesso all’ospedale e ora sedeva di
fronte a Hart, con una caviglia
appoggiata con disinvoltura sul
ginocchio opposto, motivando in modo
inattaccabile la sua richiesta di
occuparsi del nuovo arrivato. Era uno di
quei casi che portavano a pubblicazioni
su riviste scientifiche rinomate, e il
dottor Hill stava già reclamando un
territorio che Hart voleva solo per sé.
«Dopotutto,» disse Hill «dato che è un
paziente appena arrivato, ha senso che
sia io a prenderlo in carico. In questo
modo non dovrò tornare su casi già in
corso e nessuno se la prenderà perché
gli ho rubato il paziente.»
«È un caso alquanto estremo da cui
partire» disse Hart, fingendosi
preoccupato. «E tu sei rimasto lontano
dal lavoro sul campo per un bel po’.»
Le labbra di Tony si contrassero in un
mezzo sorriso. «I casi estremi sono la
mia specialità, Aidan. E in verità ho
esperienze molto dirette nel trattare con
persone che uccidono per ragioni che
molti spiegano con la pazzia.»
Hart si sistemò sulla sedia e allargò le
mani, come a scaricare ogni
responsabilità. «E sia. Aspetterò con
ansia il tuo rapporto iniziale.»
Carol si appoggiò alla lavagna bianca
e aspettò che la sua nuova squadra si
sistemasse. Poi si avvicinò e si sedette
in bilico sul bordo di una scrivania.
«Prima di metterci al lavoro, ho
qualcosa da dirvi» disse, sforzandosi di
sembrare più rilassata di quanto non si
sentisse. «So che le voci si spargono in
fretta in questo lavoro e suppongo che
ognuno di voi abbia sentito una qualche
versione della mia storia più recente.»
Dal modo in cui gli uomini trovarono
all’improvviso qualcosa di più
interessante da fissare, intuì di aver
centrato il bersaglio.
Don Merrick guardava il pavimento.
«Nessuno qui è interessato al gossip»
borbottò. «Solo ai risultati. E il suo
curriculum parla da solo in questo
senso.»
L’ombra di un sorriso attraversò il
viso di Carol. «Grazie, Don. Tuttavia, se
vogliamo che questa unità funzioni,
dobbiamo creare un’atmosfera aperta e
onesta. Ciò che mi è successo è stato
causato da segreti e bugie. Non voglio
lavorare in un ambiente simile.» Si
guardò intorno, constatò di avere la loro
attenzione e continuò.
«Ero stata scelta per un’operazione
sotto copertura in cui sono stata
abbandonata a me stessa. Non ero stata
informata di tutti i dettagli da parte dei
miei capi, e per questo non sono stata in
grado di proteggermi a dovere.
Risultato, sono stata stuprata.» Sentì un
sussulto ben distinto ma non riuscì a
capire da chi provenisse. «Non mi
aspetto di essere trattata con i guanti.
Quello che mi è successo non influirà
sul modo in cui svolgerò il mio lavoro.
Se non per il fatto che l’accaduto mi ha
resa più sensibile in materia di lealtà.
Questo team può funzionare solo se il
lavoro di squadra viene per primo. Non
voglio cacciatori di gloria in questa
stanza. Perciò, se qualcuno ha problemi
al riguardo, è questo il momento di
chiedere un trasferimento.» Studiò i
volti nella sala. Stacey ed Evans
sembravano sorpresi, ma gli altri
annuivano in segno d’assenso.
Carol si alzò e prese il dossier in cima
alla pila. «Bene. Ora, finché non
abbiamo un caso nuovo, il nostro lavoro
consiste nel ritornare su quelli irrisolti.
Ci hanno dato due omicidi, uno stupro,
due rapine a mano armata, una serie di
incendi dolosi e un paio di rapimenti di
minori. Nel corso dei prossimi giorni,
voglio che ognuno di voi studi tre
dossier diversi. Don, organizza una
rotazione in modo da non tralasciare
nessun caso. Includi anche me. Dato che
siamo una squadra, anch’io farò la mia
parte. Per ogni dossier, voglio che
stiliate una lista di possibili azioni da
intraprendere per far progredire le
indagini. Poi, quando tutti sarete pronti,
ci riuniremo, valuteremo le varie idee e
decideremo quale caso offre prospettive
più promettenti per ulteriori indagini.
Domande?»
Kevin alzò una mano. «Questo è un
ufficio per non fumatori?»
Paula grugnì. «L’intero edificio è per
non fumatori, Kevin.»
«Sì, ma non vuol dire che non possano
esserci delle aree per fumatori, no?
Voglio dire, a che serve avere l’aria
condizionata se non si sfrutta?»
«È nocivo per i computer» precisò
Stacey.
«Potremmo almeno avere un angolo»
disse Evans. «Vicino al condotto di
ventilazione.»
Mentre la discussione continuava,
Carol avvertì i primi sintomi di
familiarità. L’adrenalina di lavorare a un
caso importava poco, era quello il tipo
di discussione che la faceva sentire a
casa. Battibecchi inutili per problemi
banali che rendevano la vita
sopportabile, era quello il segno
caratteristico del lavoro in polizia.
«Risolvetela tra di voi» disse, con
risolutezza. «Non mi interessa. Ho una
porta e posso chiuderla. Ah, ho un
lavoro per te, Sam.»
Il detective alzò lo sguardo,
un’espressione di sorpresa dipinta sul
volto. «Sì, capo?» Si sistemò sulla
sedia, spostandosi leggermente su un
lato. Era il movimento di un uomo che
riduce inconsciamente l’area del
bersaglio, studiando la situazione prima
di decidere se combattere o fuggire.
«Fai un salto a comprare un bollitore,
una caffettiera a pressofiltro e una
dozzina di tazze.» Lo sguardo di Evans
si indurì mentre il detective assimilava
le direttive di Carol. «Tè e un caffè
decente, latte e zucchero. Ah, anche un
po’ di biscotti. A furia di scavare nei
casi irrisolti che altri agenti considerano
fallimenti personali, non saremo di certo
ben visti in mensa. Meglio avere tutto il
necessario qui.»
«Possiamo avere dell’Earl Grey?»
L’intervento di Stacey Chen sembrava
più un ordine che una richiesta.
«Non vedo perché no» disse Carol,
voltandosi e dirigendosi verso il suo
ufficio. Aveva già imparato qualcosa.
Evans non gradiva svolgere mansioni
che riteneva umili. O le considerava più
adatte alle donne, oppure credeva
fossero al di sotto delle sue capacità.
Carol archiviò quell’informazione per
uso futuro. Aveva quasi raggiunto la
porta quando Merrick disse in tono di
protesta: «Signora, perché i dossier di
Tim Golding e Guy Lefevre sono in
questa pila?» chiese, indignato.
Carol si voltò. «Chi?» Era cosciente
dell’improvviso silenzio calato nella
stanza. Paula sembrava diffidente, gli
altri sorpresi o increduli.
I lineamenti cordiali di Merrick si
erano induriti. «Tim Golding è il
bambino di otto anni scomparso quasi
tre mesi fa. Guy Lefevre è scomparso
nel nulla quindici mesi prima. Abbiamo
rivoltato la città come un calzino per
trovarli. Abbiamo anche consultato Tony
Hill per un profilo, per quanto sia potuto
servire.»
Era il turno di Carol di restare
sorpresa. Tony non le aveva raccontato
di aver collaborato con la polizia,
tantomeno di aver stilato un profilo per
quella di Bradfield. Era pur vero che il
dottore si era chiuso in un silenzio
insolito da quando avevano valutato
insieme l’offerta di lavoro di John
Brandon. L’aveva incoraggiata ad
accettare, ma da quando Carol gli aveva
detto che lo avrebbe fatto, le email di
Tony le erano sembrate curiosamente
piatte e vaghe, come se stesse
deliberatamente cercando di farla
camminare con le proprie gambe. «Qual
è il punto, Don?» chiese.
«Tim Golding era un mio caso» disse,
stizzito. «E ho assistito il detective a
capo dell’indagine su Guy Lefevre. Non
ho lasciato nulla di intentato.»
«Ora capisci perché saremo i paria
dell’intera centrale» disse Carol, con
delicatezza. «C’è un’altra mezza dozzina
di investigatori lì fuori che smania
perché ci siamo presi i casi che loro non
sono riusciti a chiudere. Non mi
sorprenderebbe sapere che quello di
Tim Golding sia stato buttato nella
mischia per metterci alla prova. Perciò,
sebbene sia profondamente convinta che
tu abbia fatto tutto il possibile,
tratteremo questo caso esattamente come
gli altri.»
Merrick si accigliò. «Comunque,
signora...»
«Ci sono persone che forse sarebbero
felici di vederci fallire. Se lasci che
questa cosa ti disturbi così tanto, Don,
fai solo il loro gioco.» Carol gli sorrise
affettuosamente. «Mi fido di te,
altrimenti non saresti in questa stanza.
Ma a tutti noi può sfuggire qualcosa,
anche se crediamo di aver vagliato ogni
possibilità. Non voglio che i tuoi
colleghi si trattengano dall’esternare le
proprie opinioni su quest’indagine solo
per paura di offenderti. Come ho detto
prima: niente segreti o bugie.»
Carol non attese una reazione. Entrò
nel suo ufficio, lasciando la porta
aperta. Era forse il primo indizio che
qualcuno stava cercando di minare
l’operato della sua squadra e, di
riflesso, quello del nuovo commissario
capo? Sapeva di essere più diffidente
del solito negli ultimi tempi, ma
preferiva eccedere in prudenza piuttosto
che farsi cogliere alla sprovvista da
eventuali colpi bassi. Dopotutto, non era
paranoia se qualcuno ti stava davvero
addosso.
Si era appena sistemata alla sua nuova
scrivania quando Merrick comparve
sulla soglia con in mano un dossier.
«Una parola, signora?»
Carol fece un cenno col capo verso la
sedia davanti alla scrivania. «Tim
Golding» disse l’ispettore.
«Va bene, Don. Dammi il dossier.»
Merrick lo strinse a sé. «È solo che...»
«Lo so. Se qualcuno deve proprio
ficcarci il naso, preferisci che sia io a
farlo piuttosto che una delle facce
nuove.» Carol allungò una mano.
Con riluttanza, Don si fece in avanti
sulla sedia e le porse il dossier. «Non
avremmo potuto fare di più» disse.
«Continuavamo a scontrarci con vicoli
ciechi. Non siamo neanche riusciti a
dare a Hill informazioni sufficienti a
stilare un profilo utile. Lui stesso ha
detto che era uno spreco di risorse. Ma
non sapevo cos’altro inventarmi. È per
questo che il caso è finito tra gli irrisolti
così presto.»
«Mi chiedevo il perché,
effettivamente. Sembra prematuro
metterlo in secondo piano.»
Don sospirò. «Non avevamo altre
piste. Ci sono ancora un paio di
detective che ci lavorano, che tengono a
bada la stampa nel momento in cui i
giornalisti decidono di tornare alla
riscossa. Ma non abbiamo niente di
nuovo da almeno un mese.» Il tormento
di Don era stampato sul suo volto, dallo
sguardo da cane bastonato al modo in
cui teneva le spalle ricurve.
Generò un’eco di empatia in Carol.
«Lascia che gli dia uno sguardo, Don.
Ma non mi aspetto di trovare niente che
ti sia sfuggito.»
Merrick si alzò, con uno sguardo triste
negli occhi. «Il fatto è, signora, che
mentre lavoravo al caso avrei voluto
consultarla. Ha sempre avuto l’abilità di
vedere le cose da una prospettiva
diversa.»
«Com’è che si dice, Don? Attento a
ciò che desideri perché potrebbe
avverarsi.»
Tony Hill si chinò in avanti e guardò
oltre la finestra di osservazione. Un
uomo calvo e dall’aspetto curato sedeva
chino sulla sedia imbullonata al
pavimento. Sembrava sulla cinquantina,
sebbene la sua espressione placida
aiutasse a nascondere le rughe che gli
solcavano il viso. Per un momento
fugace e inspiegabile, a Tony ricordò un
lecca lecca saldamente avvolto nel
cellofan, con l’adesivo fissato attorno al
bastoncino.
L’immobilità dell’uomo era fuori dal
comune. Molti dei pazienti con cui Tony
aveva lavorato avevano difficoltà a
stare fermi, tantomeno tranquilli.
Fremevano, si agitavano, fumavano di
continuo, giocherellavano con i vestiti.
Ma quest’uomo, – Tony controllò i suoi
appunti – questo Tom Storey aveva
qualità da zenista. Tony scorse di nuovo
gli appunti letti la sera precedente,
rinfrescandosi la memoria. Scosse la
testa, frenando la rabbia che provava
per la stupidità di alcuni dei suoi
colleghi. Poi chiuse il fascicolo e si
diresse verso la stanza dei colloqui.
Notò lo slancio nei suoi stessi passi,
anche in quel tragitto così breve. Il
Bradfield Moor Secure Hospital non
ispirava di certo contentezza nella mente
della maggior parte delle persone, ma
era esattamente ciò che provava Tony
per la prima volta da mesi. Era tornato
sul campo, nel mondo delle menti
sconnesse, dove si sentiva a suo agio.
Nonostante i suoi continui tentativi di
indossare maschere che lo aiutassero a
integrarsi, Tony sapeva di essere un
outsider nel mondo che stava al di fuori
delle mura tetre del Bradfield Moor. Era
una sensazione che non gli interessava
analizzare troppo a fondo; diceva cose
sul suo conto che non trovava del tutto
rassicuranti. Ma era impossibile negare
che esercitare la sua empatia non fosse
ciò che dava un senso ai suoi giorni.
Non c’era nulla di paragonabile a quel
momento in cui riusciva a far
combaciare i tasselli di una mente altrui
e a penetrarne la logica segreta.
Assolutamente nulla.
Aprì la porta della sala colloqui e si
sedette di fronte alla sua nuova sfida.
Tom Storey rimase immobile, solo i suoi
occhi si spostarono su Tony. Nella mano
destra, reggeva il moncone bendato dove
fino a qualche giorno prima c’era stata
la sua mano sinistra. Tony si sporse in
avanti e assunse un’espressione
compassionevole. «Mi chiamo Tony
Hill. Mi dispiace per la tua perdita.»
Storey sgranò gli occhi, sorpreso. Poi
sbuffò. «Della mano o dei miei figli?»
chiese aspramente.
«Di tuo figlio e della tua bambina»
disse Tony. «Suppongo che perdere la
mano sia stata una benedizione.»
Storey tacque.
«Sindrome della mano aliena» disse
Tony. «Registrata per la prima volta nel
1908. Una manna per gli sceneggiatori
di film horror: 1924, Le mani dell’altro
– Conrad Veidt impersonava un pianista
di musica classica a cui era stata
trapiantata la mano di un assassino dopo
aver perso la propria in un incidente
ferroviario; 1946, Il mistero delle
cinque dita, un altro pianista; 1987, La
casa 2 – il protagonista usa una
motosega per liberarsi della mano
posseduta che continua ad attaccarlo.
Brividi a buon mercato ovunque. Ma non
è così eccitante quando ci sei tu
attaccato a quella mano, non è vero?
Perché quando provi a spiegarlo sembra
che nessuno ti prenda sul serio. Nessuno
ti ha preso sul serio. Non è così, Tom?»
Storey si risistemò sulla sedia, ma
rimase in silenzio e apparentemente
calmo.
«Il tuo medico generico ti ha dato dei
tranquillanti. Stress. È così che lo
spiegava, no?»
Storey inclinò leggermente la testa.
Tony sorrise, come a incoraggiarlo.
«Non hanno funzionato, vero? Ti hanno
solo reso sonnolento e assente. E con
una mano come la tua non potevi
permetterti di abbassare la guardia, non
è così? Perché poteva succedere di tutto.
Come è successo, Tom? Ti sei svegliato
nel mezzo della notte annaspando perché
la mano ti serrava la gola? Ti rompeva i
piatti in testa? Ti impediva di portare la
forchetta alla bocca?» Il tono di Hill era
comprensivo, la sua voce gentile.
Storey si schiarì la gola. «Lanciava
cose. Nel mezzo della colazione
prendevo la teiera e la lanciavo addosso
a mia moglie. Oppure se eravamo in
giardino, da un momento all’altro mi
mettevo a raccogliere pietre e le
lanciavo sui ragazzi.» Si appoggiò allo
schienale, sforzarsi di parlare sembrava
sfinirlo.
«Posso immaginare quanto sia stato
spaventoso. Come ha reagito tua
moglie?»
Storey chiuse gli occhi. «Voleva
lasciarmi. Prendersi i bambini e non
tornare mai più.»
«E tu ami i tuoi bambini. È un bel
dilemma per te. Non hai nulla con cui
reagire. Vivere senza i tuoi figli non è
vivere. Ma vivere insieme a loro li
mette in pericolo costante perché non
puoi fermare la tua mano. Non esiste una
soluzione facile.» Tony fece una pausa e
Storey aprì di nuovo gli occhi. «Sarai
stato sconvolto.»
«Perché vuole trovare delle scuse?
Sono un mostro. Ho ucciso i miei figli,
non esiste azione peggiore. Dovevano
lasciarmi morire dissanguato, non
salvarmi. Merito di morire.» Le parole
sgorgarono frettolose dalle sue labbra.
«Non sei un mostro» disse Tony.
«Credo che i tuoi figli non siano le
uniche vittime qui. Faremo qualche
esame fisico. Tom, credo che tu abbia un
tumore al cervello. Vedi, il cervello è
diviso in due metà. I messaggi passano
da una parte all’altra attraverso una
sorta di ponte chiamato corpo calloso.
Se questo subisce dei danni, la tua mano
destra non sa cosa stia facendo la
sinistra, letteralmente. Ed è una cosa
terribile con cui convivere. Non posso
incolparti per essere arrivato al punto in
cui credevi che uccidere i tuoi bambini
fosse l’unico modo per tenerli al sicuro
da ciò che avresti potuto fare.»
«Dovrebbe farlo» insistette Storey.
«Ero il loro papà. Era mio compito
proteggerli. Non ucciderli.»
«Ma non potevi fidarti di te stesso.
Perciò hai deciso di mettere fine alla
loro vita nel modo più umano possibile.
Soffocandoli nel sonno.»
Gli occhi di Storey si riempirono di
lacrime. Abbassò il capo. «Ho
sbagliato» disse, con voce spezzata.
«Ma nessuno mi ascoltava. Nessuno
voleva aiutarmi.»
Tony allungò una mano sul tavolo e la
poggiò sul moncone bendato. «Ti
aiuteremo ora, Tom. Te lo prometto. Ti
aiuteremo.»
Carol inarcò la schiena e roteò le
spalle, girandosi a guardare fuori dalla
finestra. Dall’altra parte della strada
c’era un palazzo in pietra di Portland
con un bel portico neoclassico. Era stato
una sala per il bingo l’ultima volta che
l’aveva visto. Ora era un night club. La
luce fredda dei tubi al neon formava la
scritta ‘Afrodite’ in falsi caratteri greci.
Gli autobus sfrecciavano brontolando,
sponsorizzando i film e i giochi per
console più recenti. Un vigile urbano
braccava il parcheggio a ore, brandendo
la sua obliteratrice come un manganello.
Un mondo intero andava avanti, isolato
dagli orrori del suo lavoro. Carol aveva
letto il fascicolo su Guy Levefre e aveva
quasi finito quello su Tim Golding. Le
parole cominciavano a sembrare
sfocate. Eccetto la pausa di mezz’ora
che si era presa per pranzo, aveva
trascorso l’intera giornata a leggere.
Sapeva di non essere la sola. Ogni volta
che aveva alzato lo sguardo, aveva
trovato il resto della squadra altrettanto
assorto. Era interessante notare come il
loro linguaggio corporeo rivelasse
molto di più delle loro personalità,
rispetto alla conversazione guardinga
fatta pranzando con i sandwich che
Stacey aveva comprato alla mensa.
Don sedeva curvo sulla scrivania con
un braccio attorno al suo dossier, come
un bambino che non vuole permettere ai
compagni di copiare. Non era il cervello
più svelto con cui Carol avesse
lavorato, ma compensava con la sua
imperturbabile perseveranza e una totale
devozione alla squadra. Se c’era una
persona sulla cui lealtà Carol poteva
contare senza il minimo dubbio, questa
era Don. Aveva già provato il suo valore
in passato, ma fino a quella mattina
l’ispettrice non aveva compreso quanto
quella consapevolezza significasse per
lei.
Col suo fisico asciutto, Kevin sedeva
ritto sulla sua sedia. I documenti davanti
a lui erano perfettamente allineati. Di
tanto in tanto si fermava a guardare nel
vuoto per il tempo necessario a fumare
una sigaretta. Poi scarabocchiava
qualcosa sul taccuino al suo fianco e
riprendeva a leggere. Carol ricordava
quanto fosse riservato. Le aveva reso
ancora più difficile credere al suo
temporaneo exploit. Ma come la gran
parte degli individui repressi, quando
Kevin aveva finalmente infranto le
regole, era stato più sconsiderato di un
giocatore d’azzardo incallito. Cosa che
lo aveva portato al tradimento. Carol si
disse che il sergente non avrebbe più
commesso lo stesso errore, ma aveva
ancora difficoltà a fidarsi. Sperò che
Kevin non riuscisse a leggerglielo negli
occhi.
Sam Evans sedeva con le spalle
ricurve alla scrivania di fronte a quella
di Kevin. La sua giacca era
accuratamente sistemata su una gruccia
appesa alla maniglia dello schedario. La
camicia bianca e inamidata mostrava
ancora le pieghe precise lasciate sulle
maniche dal ferro da stiro. Evans e
Kevin si erano aggiudicati l’angolo
fumatori dalla parte opposta alla
scrivania di Stacey e dei suoi computer.
Lo stile di lettura di Evans era quasi
incurante, come se stesse leggendo il
giornale della domenica. La sua
espressione non lasciava trapelare nulla.
Ma di tanto in tanto una mano scivolava
nella tasca dei pantaloni per riemergere
stringendo un lettore minidisc.
Borbottava qualche parola nel
microfono e poi lo metteva via. Carol
non lo credeva un tipo a cui potesse
sfuggire qualcosa.
Paula, al contrario, tendeva a
espandersi. Nel giro di mezz’ora, la sua
scrivania era già stata sommersa da pile
di documenti mentre lei studiava i
dossier che aveva davanti. Ma
nonostante l’apparente caos, era
evidente che la detective sapesse dove
trovare ciò che cercava.
Apparentemente indipendente dagli
occhi, la sua mano si muoveva con
sicurezza per afferrare le carte di cui
aveva bisogno. Sembrava che avesse
una mappa mentale della scrivania, un
reticolo chiaro e preciso impresso nella
testa. Carol si chiese se conducesse gli
interrogatori nello stesso modo,
inserendo ogni frammento di
informazione nel proprio scomparto
finché le connessioni non combaciavano,
illuminandosi come un circuito
completo.
Stacey non avrebbe potuto essere più
diversa. Anche il suo abbigliamento era
in contrasto con la t-shirt casual e i jeans
di Paula. Il completo di Stacey le
calzava come se fosse stato fatto su
misura e il maglioncino a collo alto che
indossava al di sotto sembrava di
cashmere agli occhi di Carol. Un look
sorprendentemente costoso per una
semplice detective, pensò l’ispettrice.
Per quanto riguardava il lavoro,
sembrava che Stacey non sopportasse la
presenza di carta. Il dossier che stava
studiando era sistemato in bilico su un
cassetto aperto, lasciando sgombra la
superficie della scrivania per interagire
con il computer. La coppia di schermi
della sua postazione reclamava gran
parte della sua attenzione. Analizzava
velocemente il dossier cartaceo, poi le
dita volavano sulla tastiera prima che la
detective inclinasse il capo da un lato, si
passasse la mano sinistra nei lucidi
capelli neri e cliccasse un tasto sul
mouse. Sembrava preferire la realtà
virtuale e manipolabile a quella fisica.
In fatto di abilità e attributi, era un
gruppo abbastanza eterogeneo da poter
ottenere buoni risultati. La domanda
fondamentale era se Carol sarebbe
riuscita a farne un’unità. Finché non si
fossero sentiti parte di un insieme,
sarebbero valsi meno della somma delle
loro parti. L’ispettrice sospirò. Nel suo
futuro prossimo, vedeva già un’uscita
serale con i suoi agenti. Potendo
scegliere, avrebbe preferito trascorrere
una giornata intera sulla poltrona di un
dentista senza il beneficio di un
anestetico. Non usciva di sera da quando
era tornata dalla Germania. Anche
cenare in ristoranti che conosceva in
compagnia di amici era stato fuori
discussione. L’idea di pub o locali
rumorosi e affollati le faceva torcere lo
stomaco. «Riprenditi» biascicò tra sé e
sé, ritornando al dossier di Tim Golding.
Rilesse la dichiarazione rilasciata dal
corriere che consegnava ortaggi
biologici. Com’era cambiata
Harriestown nei pochi anni in cui lei era
mancata. Chi abitava la zona in
precedenza sarebbe stato interessato alle
verdure biologiche solo come potenziali
proiettili. Carol era talmente assorta che
il picchiettare deciso di nocche sullo
stipite della porta la fece sobbalzare. Le
pagine che stava reggendo svolazzarono
sulla scrivania inosservate, mentre
Carol si appoggiò allo schienale col
cuore in gola, gli occhi sgranati. Questa
è nuova, pensò. La vecchia Carol Jordan
era un osso duro da spaventare.
«Mi scusi, non era mia intenzione
coglierla di sorpresa.» La donna sulla
soglia dell’ufficio sembrava divertita
piuttosto che dispiaciuta.
Era abitudine di Carol stilare delle
descrizioni mentali dei suoi incontri,
come se dovesse registrarne i dettagli
nel database dell’intelligence nazionale
anticrimine. Altezza media, fisico
asciutto come il suo. Spalle dritte,
fianchi stretti. Capelli castani ondulati,
un taglio apparentemente scompigliato
che andava di moda qualche anno prima,
mai cambiato forse perché si sposava
bene col viso incongruamente angelico. I
lineamenti la facevano sembrare
perennemente sul punto di sorridere.
Solo gli occhi la tradivano. Aveva lo
sguardo fisso e piatto di un’agente che
ne ha avuto abbastanza della varietà di
miserie e cattiverie umane. Indossava
dei jeans neri, una t-shirt nera di seta e
una giacca in pelle color crème-caramel.
Chiunque fosse, Carol era sicura di non
averla mai vista prima. «Ero su un altro
pianeta» disse, alzandosi.
«E chi non lo sarebbe potendo
scegliere.» Gli occhi della donna si
strinsero in un sorriso disteso mentre
avanzava, allungando una mano.
«Sergente Jan Shields. Lavoro su
Temple Fields.»
«Ispettrice capo Jordan» disse Carol,
accettando la stretta di mano calda e
sicura. Forzò un sorriso. «È della buon
costume, quindi?»
Jan grugnì. «Oh, per favore. Una
dannata serie tv e rieccoci etichettati
come nei tristi e vecchi tempi andati. Sì,
sono della buon costume. È per questo
che il mio ufficio è un buco sudicio e il
suo sembra una suite. Come sta andando
l’insediamento?»
Carol scrollò le spalle, leggermente a
disagio di fronte allo spirito di
cameratismo mostrato da un’agente di
grado inferiore ma di età probabilmente
simile alla sua. «Ci stiamo
acclimatando. Allora, sergente Shields,
è in visita di cortesia? O posso esserle
utile in qualcosa?»
«Credo di poter essere io ad aiutare
lei.» Jan sventolò un fascicolo sottile a
mezz’aria. Il suo sorriso ora era
provocatorio.
Carol inarcò le sopracciglia,
ritornando dietro alla sua scrivania.
«Davvero?»
«La sua squadra sta lavorando a dei
casi irrisolti finché non arriva un jackpot
tutto nuovo, giusto?»
«Stiamo considerando una serie di
casi, sì.»
«E uno di questi è per caso quello di
Tim Golding?»
«È ben informata, sergente.»
Jan scrollò le spalle. «Sa com’è, i
pettegolezzi viaggiano più veloci dei
proiettili.»
«E oggi siamo noi la novità scottante.»
Carol si sedette. Voleva trasmettere
un’aria di sicurezza. «Quindi cos’ha per
me?»
«È una storia un po’ lunga.» Jan indicò
la sedia di fronte alla scrivania di Carol.
«Posso?» Si sedette e incrociò le gambe
con disinvoltura.
Carol si sporse in avanti.
«Cominciamo allora.»
«Quando lei lavorava qui anni fa, io
ero in distaccamento presso un team
degli Affari interni e collaboravo con
l’FBI su un’indagine a lungo termine
incentrata sui pedofili che sfruttano
internet. Forse ha sentito parlare
dell’Operazione Minerale Grezzo?»
Carol annuì. I media si erano gettati
sull’Operazione Minerale Grezzo con la
stessa avidità di un coyote affamato in
una macelleria. L’indagine aveva
scovato migliaia di potenziali indagati
su entrambe le sponde dell’Atlantico:
uomini che navigavano in rete e usavano
le loro carte di credito per comprare
l’accesso a siti da cui scaricare
materiale pornografico. Ma i numeri
raccolti avevano fatto dell’Operazione
Minerale Grezzo una vittima di sé
stessa. Le agenzie governative coinvolte
avevano guardato la montagna di prove
e alzato le mani in segno di
disperazione. Carol aveva sentito un
collega stimare che, con la quantità di
agenti a sua disposizione, ci sarebbero
voluti nove anni e mezzo solo per
interrogare tutti i nomi nella sua
giurisdizione, senza contare il tempo
necessario a sequestrare e analizzare
tutti gli hard disk. «Lei faceva parte
dell’indagine?»
«Negli stadi iniziali, sì. Sono tornata
da due anni e tra un turno e l’altro e la
solita merda per le strade, ho stilato una
lista dei bersagli prioritari. Negli ultimi
sei mesi, abbiamo cominciato ad
ammanettare i sospettati più importanti.
Sfondiamo le porte e sequestriamo i
computer. Dopo un interrogatorio
preliminare li rilasciamo su cauzione di
solito, finché non abbiamo i risultati
delle analisi degli hard disk.»
«Il che può richiedere settimane,
suppongo.»
Le labbra di Jan si arricciarono in un
mezzo sorriso. «Se siamo fortunati. Ad
ogni modo, ieri ho ricevuto del
materiale dal reparto informatico. Hanno
trovato cose interessanti sul computer di
un tizio che abbiamo trattenuto un paio
di mesi fa.» Scosse la testa. «Dovrei
esserci abituata ormai. Si tratta di un
alto dirigente dell’NHS, il sistema
sanitario nazionale. Stai aspettando
un’anca o un ginocchio nuovo al
Bradfield Cross? È con lui che te la devi
prendere per la lista d’attesa troppo
lunga. Villetta di tutto rispetto in
periferia, moglie insegnante, due figli
adolescenti. E il suo computer è una
cazzo di fogna. Quindi, mentre guardo la
sua merda trovo questo...» Aprì il
fascicolo con un gesto drammatico e tirò
fuori la copia cartacea di una fotografia
digitale, ingrandita fin quasi a riempire
un foglio A4. «Ho riconosciuto il
bambino grazie al bombardamento
visivo dei media.»
Carol osservò la fotografia. Sullo
sfondo c’era una formazione rocciosa.
Rami sottili di betulla si incrociavano in
un angolo. Un bimbo mingherlino era
accovacciato nel mezzo della foto, nudo.
Capelli color sabbia, occhiali alla Harry
Potter. Dettagli che Carol aveva
memorizzato in quella giornata trascorsa
a leggere. Non c’erano dubbi: quello era
Tim Golding. Avvertì il brivido
familiare che sempre accompagnava una
pista fresca e si odiò per quello. Non
c’era nulla per cui gioire. Carol lo
capiva meglio di quanto non avesse mai
fatto. «Ce ne sono altre?» chiese.
Jan scosse la testa. «Ho controllato
tutto l’archivio. Niente.»
«Che mi dice dell’altro bambino
scomparso, Guy Lefevre?»
«Desolata, ma lui non c’è. E comunque
questo non vuol dire che il mio indagato
sia l’uomo che cercate. Questi bastardi
si scambiano foto di continuo. Il fatto
che abbiamo trovato una sola foto di
Tim Golding mi suggerisce che il
fotografo non è il mio indagato.»
«Credo abbia ragione. Ma voglio
parlargli comunque.» Carol incrociò lo
sguardo di Jan. «Vorrei che mi
consegnasse il fascicolo su di lui e
vorrei incontrare il suo indagato in una
sala interrogatori domani mattina presto.
Vuole che sia io a parlarne col suo
superiore?»
«Già risolto. Il mio capo le lascia
campo libero. Full batte colore.»
«Grazie, sergente. Lo apprezzo.»
Carol fece scivolare la fotografia verso
Jan. «Questo sfondo... idee su dove
possa essere?» Indicò la strana
formazione rocciosa.
Jan scosse la testa. «Nessuna. Sono
una tipa da città. Mi vengono i brividi se
sono a più di otto chilometri da uno
Starbucks.»
«Mi sembra molto particolare. Ma per
quanto ne so potrebbero esserci rocce
simili in ogni angolo del Paese.»
«Sì, ma c’è un solo Tim Golding.»
Carol sospirò. «Tempo sbagliato,
credo.»
«Mi scusi?»
«Guardando questa foto, credo sia più
corretto dire che c’era un solo Tim
Golding.»
Le mani gli sudano. Scivolano
nonostante il sottile strato di talco
all’interno dei guanti di lattice. Questo
rende difficile la preparazione. Non è
abituato a nulla che richieda più
precisione del rollare una canna.
Quando le dita vanno a tentoni e una
lama taglia la pelle oltre il guanto,
impreca ad alta voce per le gocce di
sangue che stillano dalla ferita.
È grato che la Voce non sia lì a
vederlo combinare un casino. E questo
gli ricorda che ha delle istruzioni da
seguire in caso il suo sangue finisca su
qualcosa. «Metti da parte qualsiasi
cosa macchiata, anche della più
minuscola goccia di sangue.
Sostituiscila e ricomincia. Solo un tipo
di sangue, è questo che vogliamo.» Le
parole echeggiano nella sua mente e lui
obbedisce. Sfila una pagina da un
quotidiano e vi poggia la lama
insanguinata. Poi si toglie i guanti e li
aggiunge alla pila. Non ha un cerotto,
perciò strappa un angolo del giornale e
lo attacca goffamente sul punto in cui
fuoriesce il sangue. Poi prende un altro
paio di guanti dalla scatola. E
ricomincia.
Vuole fare le cose per bene. Sa che se
ci riuscirà, quella sarà la cosa migliore
che abbia mai fatto. Lo sa perché è
stata la Voce a dirglielo. Tutto quello
che la Voce ha detto si è rivelato vero.
Per tutto il giorno, non ha fatto altro
che pensare a quello che sta per
succedere. Per tutto il giorno, la sua
mente è stata su di giri. Per quanto
abbia provato a nasconderlo, la gente
lo ha notato. Ma nessuno si aspetta mai
niente da lui, quindi non è una cosa che
ricorderanno. Ci hanno scherzato su
più che altro, anche se un paio di loro
hanno usato la sua ottusità o lentezza
come scusa per infastidirlo. Ma è
abituato anche a quello. Era tutto
normale per lui, finché la Voce non è
arrivata a dirgli che si meritava di più.
Era l’albero su cui tutti i cani pisciano.
Era quello che faceva così schifo che
chiunque faceva una bella figura
accanto a lui.
Stasera dimostrerà a tutti che si
sbagliano. Stasera farà qualcosa che
nessuno di loro oserebbe fare. E la farà
per bene.
Giusto?
Il parcheggio era un luogo fatto
d’ombre, circondato da muri di mattoni
sormontati da filo spinato. Quando era
stato costruito, nessuno poteva
prevedere il boom dei possessori
d’auto, perciò era sempre sovraffollato
e con macchine in doppia fila. Una
seccatura per chi doveva usarlo.
Si supponeva inoltre che fosse sicuro.
Una robusta sbarra di metallo si alzava
per permettere l’entrata e l’uscita, e
l’agente incaricato di azionarla aveva il
compito di monitorare attentamente ogni
avventore. Ma l’uomo appoggiato a una
delle auto sapeva bene come aggirare il
sistema. Durante le sue visite
precedenti, si era fatto degli amici tra gli
uomini della sicurezza, consapevole che
un giorno avrebbe forse avuto bisogno
di entrare senza i permessi necessari.
Quel giorno era arrivato. Aveva
aspettato per quasi un’ora appoggiato al
cofano della berlina argentata, leggendo
i documenti che aveva infilato nella sua
valigetta mentre con la coda dell’occhio
prestava attenzione a chi usciva dall’alto
palazzo di fronte al parcheggio. Ma la
luce diminuiva in fretta e nell’aria si
respirava un frizzante accenno di
inverno. Aspettare stava diventando
poco piacevole. Lanciò un’occhiata al
suo orologio. Erano appena passate le
sei. Avrebbe aspettato un’altra mezz’ora,
poi sarebbe scivolato via nella notte.
Non voleva appostarsi al buio, per tutta
una serie di ragioni.
Qualche minuto dopo, vide ciò che
stava aspettando. Un luccichio di capelli
biondi sotto le luci di sicurezza della
porta sul retro. Ficcò i documenti nella
ventiquattrore e si scostò dal cofano,
spostandosi verso il retro della
macchina per intercettare la donna prima
che arrivasse allo sportello del
guidatore.
Lei gettò uno sguardo alle sue spalle,
salutando un collega. Quando si voltò,
lui era a pochi metri di distanza. Shock e
stupore attraversarono il viso della
donna che si fermò all’istante. La bocca
si aprì, ma non ne emerse alcun suono.
«Ciao, Carol» disse Tony. «Ti va una
cena indiana?»
«Gesù» espirò l’ispettrice, rilassando
le spalle. «Per poco non mi veniva un
infarto. Che diavolo ci fai qui?»
Tony allargò le braccia, una parodia
d’innocenza. «Come dicevo, sono qui
per invitarti a cena.»
«Per spaventarmi, più precisamente.
Che ci fai a Bradfield? Dovresti essere
alla St Andrews.»
Il dottore alzò un dito in segno di
rimprovero. «Dopo. Ora, potresti aprire
la macchina? Mi sto congelando.»
Stupita e perplessa, Carol fece scattare
la serratura delle portiere e lo guardò
raggiungere il lato passeggero. Non
riuscì a trattenere un sorriso, pensando
che non c’era davvero nessuno come
Tony Hill.
Venti minuti dopo, avevano trovato un
tavolo libero in un angolo relativamente
tranquillo di un locale bengalese vivace
ed economico nei pressi di Temple
Fields, la zona del centro città dove il
quartiere gay confinava, con disagio dei
suoi abitanti, con il distretto a luci rosse.
Gli altri avventori erano un miscuglio di
studenti e individui che cercavano
l’amore nei posti più sbagliati. Carol e
Tony avevano scoperto il locale durante
un caso incentrato a Temple Fields, il
primo in cui avevano collaborato, e
sembrava il luogo perfetto per una
rimpatriata.
«Ancora non ci credo che sei qui»
disse Carol, mentre il cameriere si
allontanava per prendere due bottiglie di
Kingfisher.
Tony allungò un braccio. «Fai pure,
dammi un pizzico. Sono reale.»
Lei si chinò in avanti e gli diede un
leggero pugno sulla spalla. «Okay, sei
reale. Ma perché sei qui?»
«Ho mollato il lavoro. Ero un pesce
fuor d’acqua lì, Carol. Avevo bisogno di
tornare a fare quello che so fare meglio.
Mi avevano già offerto un lavoro di
consulenza in Europa. E quando John
Brandon mi ha detto che saresti tornata
qui, ho contattato il Bradfield Moor e ho
fatto richiesta per un part time.» Sorrise.
«Ed eccomi qui.»
«Quindi sei tornato a Bradfield per
me?» Carol lo guardò con
circospezione. «Non voglio la tua pietà,
Tony.»
«Non c’entra niente la pietà. Sei
l’amica migliore che ho. Ho una vaga
idea di quanto sia difficile per te questo
momento, Carol. E voglio esserci se hai
bisogno di me.»
Carol aspettò che il cameriere servisse
loro le birre, poi disse: «Me la so
cavare, sai. Faccio questo lavoro da
tanto tempo. Sono capace di arrestare i
cattivi senza il tuo aiuto.»
Tony prese un lungo sorso dalla sua
bottiglia di lager indiana, mentre
ponderava come risolvere quel
fraintendimento volontario da parte di
Carol. «Non sono qui per aiutarti a fare
il tuo lavoro. Sono qui perché è così che
si comporta un amico.» Sorrise
maliziosamente. «E poi, questo posto fa
per me. Dovresti vedere gli svitati
rinchiusi al Bradfield Moor. È un sogno
fatto realtà per uno strambo come me.»
Carol sbuffò, spruzzando della birra
sulla tovaglietta di carta. «Bastardo! Hai
aspettato che avessi la bocca piena per
farmi ridere.»
«Che ti aspetti? Sono addestrato a
provocare reazioni. Allora, dove vivi?»
«Sono accampata nella stanza per gli
ospiti di Michael mentre cerco un posto
in affitto.» Carol studiò il menu.
Tony fece finta di fare altrettanto, ma
sapeva già che avrebbe scelto pakora di
pesce e biryani di pollo. La riluttanza di
Carol a impegnarsi in modo definitivo,
insita nella sua decisione di affittare
piuttosto che di vendere l’appartamento
londinese per comprarne uno a
Bradfield, era comprensibile. Voleva
lasciarsi una via di fuga. Ma Tony la
trovava comunque preoccupante. «Deve
essere strano» disse. «Era casa tua una
volta.»
«Non è la soluzione ideale. Non credo
che Lucy faccia i salti di gioia ad avermi
tra i piedi. È un avvocato, ricordi? Si
occupa spesso della difesa, quindi tende
a vedermi nello stesso modo in cui una
gallina guarda una volpe.» Il cameriere
ritornò e prese le ordinazioni. «Tu che
mi racconti? Dove ti sei sistemato?»
«Sono stato fortunato. Ho venduto il
mio cottage a Cellardyke nel giro di un
giorno in pratica. Ho appena comprato
un posticino qui. Vicino a dove abitavo
una volta. Una villetta vittoriana semi-
indipendente. Tre camere da letto,
doppio soggiorno. Stanze ampie, molto
luminose.»
«Sembra carina.»
Con un tonfo sordo, il cameriere mise
loro davanti un piatto di pane azzimo e
un vassoio di salse. Tony ne approfittò
per spostare l’attenzione su qualcosa di
diverso da Carol. «Ho anche un
seminterrato, sai. Praticamente
indipendente. Due camere ampie, luce
naturale. Servizi e doccia. E un piccolo
ripostiglio che si potrebbe trasformare
in una cucina.» Alzò lo sguardo con aria
interrogativa.
Carol lo fissò, era chiaro che non
fosse sicura di aver inteso
correttamente. Abbozzò un sorriso
incerto. «Che ci farei con una cucina?»
«Ottima osservazione. Ma almeno
sapresti dove mettere la lavatrice.»
«Mi stai davvero offrendo il tuo
seminterrato?»
«Perché no? Risolverebbe la tua
situazione abitativa. E avere uno sbirro
vicino mi farebbe sentire al sicuro.»
Sorrise. «Ma soprattutto, Nelson
terrebbe i topi alla larga.»
Carol giocherellava con i lime
sottaceto. «Non lo so. Ha un’entrata
indipendente?»
«Be’, certamente. Non vorrei
compromettere la tua reputazione. C’è
una porta che dà su una rampa di scale
che conduce al giardino. E una porta
interna che collega il seminterrato alla
casa, ovviamente. Ma non dovrebbe
essere un problema munirla di una
serratura.» Sorrise. «Potresti addirittura
metterci un chiavistello, se volessi.»
«Hai pensato a tutto, eh?»
Tony scrollò le spalle. «La prima volta
che ho visto la casa, mi è sembrata una
buona sistemazione. Non sapevo quali
fossero i tuoi piani. L’impresa edile ha
cominciato a lavorarci ieri. E preferirei
avere te come inquilina, piuttosto che
uno sconosciuto. Ascolta, non devi
decidere ora. Pensaci. Dormici su. Non
c’è fretta.» Scese un silenzio
imbarazzato mentre entrambi cercavano
un altro argomento di cui parlare.
«Allora, come è andato il primo giorno?
A cosa lavori?» chiese Tony,
allontanando la conversazione da
sponde pericolose.
«Finché non ci arriva un nuovo caso,
lavoriamo sugli irrisolti.» Carol alzò lo
sguardo mentre il cameriere arrivava
con gli antipasti.
«Deve essere demoralizzante.»
«Di norma lo sarebbe.» Allungò la
mano verso il suo aloo chaat. «Ma
abbiamo fatto un inaspettato passo in
avanti oggi pomeriggio. Per caso, un
sergente di un’altra squadra è incappato
in un nuovo indizio. Credo sia di buon
auspicio.»
«Ottimo modo di cominciare.»
Il volto di Carol si fece mesto. «Sì e
no. Ricordi Don Merrick? È l’ispettore
della squadra. La nuova pista riguarda
uno dei suoi casi irrisolti. E questo lo fa
sentire uno schifo.»
«Non sarà il caso di Tim Golding?»
Carol annuì col capo. «Quello per cui
ti ha consultato. Grazie di avermelo
detto, Tony» aggiunse, in tono ironico.
Il dottore sembrò imbarazzato. «A
essere sinceri, non volevo confonderti le
idee proprio mentre stavi considerando
di tornare a Bradfield. Non volevo
influenzare la tua decisione in un senso o
nell’altro.»
Carol sorrise. «Ah, credi che la tua
presenza a Bradfield mi avrebbe attirata
qui così facilmente?»
Tony posò il boccone di pakora che
stava per mettere in bocca. «Vuoi la
verità, Carol? Avevo paura che se
avessi saputo che ero qui, avresti evitato
questo posto come la morte.»
Don Merrick fissava con aria cupa la
sua pinta di Newcastle Brown Ale, i
suoi occhi da labrador erano tristi e
pensierosi. «Smettila di pensare al cazzo
di lato positivo, Paula» brontolò. «Non
c’è nessun cazzo di lato positivo, okay?»
Paula fece scorrere le dita sulla
condensa che avvolgeva la sua bottiglia
di Smirnoff Ice. I due erano gli ultimi
sopravvissuti di un tentativo di
socializzazione organizzato dalla
squadra dopo che il capo Jordan aveva
dichiarato finita la giornata. A dir la
verità, l’atmosfera non era stata molto
festosa. Stacey e Sam si erano defilati
dopo il primo giro, e Kevin era stato
risucchiato in un’infinita partita a
biliardo nel retro fatiscente del pub. Non
dispiaceva a Paula e Merrick.
Lavoravano insieme da tempo
sufficiente per dimenticarsi dei gradi
differenti una volta fuori dall’ufficio.
«Pensala come vuoi, Don.»
«Quella foto... Non riesco a non
pensare a cosa avrà sofferto quel
bambino prima di morire. E non provare
a contraddirmi» continuò, alzando una
mano per zittire Paula. «Sappiamo
entrambi che il genere di feccia che fa
cose simili a un bambino non lascia
testimoni. Tim Golding è morto. Ma è
stato vivo abbastanza a lungo da venire
trascinato nel mezzo del nulla ed essere
sottoposto a dio solo sa cosa. Quella
foto è stata scattata di giorno, quindi era
ancora vivo la mattina dopo il
rapimento. Ed è questo che mi tormenta.
Se avessi fatto il mio lavoro, lo
avremmo trovato.»
Paula si allungò verso Merrick e prese
una delle sue sigarette. «Se devi
piagnucolare, ho bisogno di fumare.»
«Credevo avessi smesso.»
«Infatti.» Inspirò a fondo. «Sono
stronzate le cose che dici. Abbiamo fatto
l’impossibile per quel caso. Devi
smetterla di darti addosso in questo
modo, Don. Oltretutto, c’è bisogno che
tu rimanga lucido. Abbiamo già
un’ispettrice capo incasinata, l’ultima
cosa che ci serve è un ispettore
altrettanto incasinato.»
Merrick la guardò con aria sorpresa.
«Credi che Carol Jordan sia
incasinata?»
«Certo che lo è. È stata stuprata, Don.
Ed è successo perché un mucchio di
idioti incravattati avevano un’opinione
talmente bassa di lei da usarla come
agnello sacrificale. In qualunque modo
la metti, non è al top ora. La sua
capacità di giudizio è compromessa.»
Merrick scosse la testa. «Non lo so,
Paula. Mi è sembrata abbastanza sul
pezzo.»
«Facile sembrarlo quando non hai
pressioni. Ma non sono sicura che
reggerà quando il gioco si farà serio.»
Merrick sembrava poco convinto. «È
troppo presto per dirlo. Carol Jordan è
il capo migliore che abbia mai avuto.»
«Anch’io lo pensavo una volta. Ma
ora?» Paula tracannò quel che rimaneva
del suo drink. «Vediamo se sarai ancora
della stessa opinione tra sei mesi. Che
ne pensi dei nuovi arrivati?»
«Ancora non so.» Merrick scrollò le
spalle. «Quella Stacey sa il fatto suo in
materia di computer, questo è certo.»
«Ogni tanto mi chiedo se non sia una
macchina» ridacchiò Paula. «Non è una
tipa frivola, questo è sicuro. Provo a
farla parlare, ma chiacchierare non è il
suo forte.»
Merrick sorrise. «Già, non ce la vedo
a spettegolare su uomini e trucco nel
bagno delle donne. Ma è subito pronta a
intervenire se qualcuno ha bisogno di
una mano col computer.»
«E Sam? Che ne pensi di lui?» chiese
Paula.
«Mi sembra a posto. Non parla
molto.»
«Non mi convince del tutto. Ha
qualcosa di sospetto» confessò Paula.
«Un’amica lavorava con lui a
Downtown e diceva che era viscido.
Non parlava molto, ma non perdeva mai
l’occasione di farsi bello a discapito
degli altri. Ed era sempre
incredibilmente ben informato sui
movimenti dei colleghi. A quanto pare al
nostro Sam piace fare bella figura col
capo.»
«Be’, a tutti piace fare bella figura»
disse Merrick.
«Sì, ma non a discapito dei colleghi.
Ah, la mia amica diceva anche che Sam
non sembrava mai a suo agio con lei o
con le altre donne della squadra.
Credeva fosse un po’ sessista in fondo in
fondo.»
Merrick rise. «Paula, di questi tempi
ci è permesso essere sessisti solo in
fondo in fondo, altrimenti tu e tutte le
altre ci sbranate vivi.»
Paula gli diede un leggero pugno sulla
spalla con fare affettuoso. «Sai che
intendo.» Contemplò la sua bottiglia.
«Pronto per un altro giro?»
«Dovrei andare a casa» disse Merrick,
a malincuore.
Paula si alzò, sorridendo. «Quindi
un’altra birra scura, giusto?»
Conosce queste strade come le sue
tasche. Ci ha camminato, lavorato sin
da bambino. Conosce i volti, conosce i
posti in cui trovare certe persone in
certe ore del giorno e della notte. Non
ci aveva mai dato peso prima, era così
e basta. Ma la Voce gli ha fatto capire
che la conoscenza è potere, che quello
che sa lo rende il re delle strade.
Trascina i piedi come fa sempre,
sforzandosi di non comportarsi in
modo diverso da ogni altra sera.
Conclude qualche affare, solo per
avere una copertura, per farla
sembrare una sera come le altre. La
Voce gli ha detto di fare così. In questo
modo, quando cominceranno le
domande, la gente lo ricorderà nei
soliti posti, a fare le solite cose.
Ma presto è ora di agire. Sa dove
trovarla. È sempre tra un cliente e
l’altro. Si schiarisce la gola e si
avvicina a lei. Le dice cosa vuole. Lei
sembra divertita, come se non riuscisse
a credere che sia proprio lui a chiedere
una cosa simile. «Non faccio sconti
agli amici» dice lei. Lui arrossisce e si
agita. Lo mette a disagio che l’abbia
chiamato amico. Perché quello che sta
per farle non è il genere di cosa che
fanno gli amici, per niente. Ma lei non
sa cos’ha in mente. Vede solo quello
che si aspetta di vedere: un cliente
agitato perché è un pesce fuor d’acqua.
Le dice che vuole andare nella sua
stanza. Sapeva della stanza anche
prima che arrivasse la Voce. Sa molto
di più su cosa succede lì intorno di
quanto chiunque creda. La segue oltre
l’angolo, nel vicolo dove ha una
camera, lanciando un’occhiata fugace
alle sue spalle. Nessuno presta loro
attenzione. Anche se lo facessero, è
troppo buio lì; gli spacciatori
distruggono i lampioni così spesso che
il comune ha smesso di sostituirli.
Anche se qualcuno avesse la vista di un
felino, penserebbe che lui stia solo
lavorando, non che sia lei a farlo per
lui.
La osserva salire le scale, il suo
sedere sodo avvolto nella minigonna. È
incredibile, ma si sente diventare duro
solo a guardarlo. Ha visto queste
ragazze un milione di volte prima di
stasera, fanno parte del paesaggio, non
le nota neanche più. Ma adesso,
guardare i fianchi di Sandie ondeggiare
lo eccita. Ricorda vagamente quello
che dovrebbe fare a questo punto, tira
fuori la fotocamera digitale e le scatta
una foto. Il flash la fa bloccare e
voltare di scatto. «Che cazzo fai?»
chiede.
Agita la fotocamera davanti a lei.
«Volevo solo un ricordo» dice, la
battuta provata e riprovata gli esce
dalle labbra senza intoppi.
Lei si acciglia per un momento, poi
ride. «Ti costerà.»
Lui scatta un’altra foto. «Posso
pagare» dice. Riprende a seguirla su
per le scale. Alla porta, lei si ferma.
«Vediamo di che colore sono i tuoi
soldi» dice. «Vuoi legarmi, perciò
paghi prima.»
Lui tira fuori il denaro che la Voce gli
ha lasciato insieme alle sue istruzioni e
sfoglia le banconote. Sandie le afferra
e le ficca nella sua borsetta. «Vedo che
gli affari vanno meglio a te che a me»
dice, la sua voce aspra come il caffè
dello Stan’s Café. Apre la porta.
«Entra, vediamo di sbrigarci.»
Lui sorride. Lei non direbbe così se
sapesse cosa la aspetta. Ma se lui farà
il suo lavoro, Sandie non dirà proprio
niente. Mai più.
Mentre camminavano verso la
macchina, Carol notò che il quartiere di
Temple Fields non era cambiato molto
negli ultimi due anni. Nei canali di scolo
rotolava ancora la stessa spazzatura, lo
stesso miscuglio di individui
imbarazzati in cerca di ciò che passava
per piacere socializzando in modo
impacciato con chi il piacere lo aveva
già trovato e nel farlo aveva perso
qualsiasi inibizione. I suoi occhi da
poliziotta li registravano uno a uno: i
gracili gigolò, le prostitute annoiate, i
loschi venditori di promesse chimiche, i
facili bersagli che si muovevano tra di
loro con falsa sicurezza. La donna dietro
al distintivo, tuttavia, rabbrividiva
davanti a quel traffico di carne umana e
follia. Non voleva pensare agli atti che
si sarebbero consumati in quel
chilometro quadrato prima del sorgere
del sole. Carol si sentiva come se
avesse perso uno strato di pelle, e si
chiedeva quanto ci sarebbe voluto a
farlo ricrescere.
«La solita storia» disse stancamente.
«Guardali. Credono di aver stretto un
patto con il mondo che li tiene al sicuro.
Non hanno una dannata idea di quanto
siano fragili.»
«Non possono permettersi di
pensarci» disse Tony, osservandoli
sfilare sulle strade illuminate a chiazze
dai neon sgargianti dei bar.
I due continuarono a camminare in
silenzio. «Ti do un passaggio» disse
Carol, mentre raggiungevano la
macchina.
«No, non preoccuparti. Mi va di
camminare.»
Carol inarcò le sopracciglia. «Hai
bisogno di pensare?»
Tony annuì. «Ho conosciuto una
persona oggi e devo capire come
mantenere la promessa che gli ho fatto.»
«La tua nuova crociata?» Carol
sorrise.
Tony sembrò sorpreso. «È così che
vedi quello che faccio?»
«Credo sia tu a vederla così. Una
crociata solitaria per riparare i danni.»
Il dottore scrollò le spalle. «Magari
fosse così facile. Allora, passi da me
domani sera per vedere casa?»
«Lo farò. Poi potrò decidere se essere
la pazza che vive nel seminterrato. Porto
la pizza?»
Tony ci pensò. «Cinese» disse infine.
«Okay.» Carol allungò una mano verso
la portiera. «Tony... grazie per stasera. E
per essere a Bradfield.»
Il dottore sembrò sorpreso. Dove altro
dovrei essere? Tutto ciò di cui ho
bisogno è qui. Invece di dar voce ai
suoi pensieri, le diede una goffa pacca
sulla spalla. «A domani.»
Carol entrò in macchina e partì,
cosciente del riflesso del dottore negli
specchietti, di come la guardasse
allontanarsi dal marciapiede. Carol
sapeva che era stato il senso di colpa a
portarlo a Bradfield. Un tempo
l’avrebbe fatta sentire a disagio,
l’avrebbe fatta infuriare. Ma era una
donna diversa ora, una donna che aveva
imparato a essere grata per le cose
positive, anche se la confezione in cui
arrivavano era alquanto complessa.
Sam Evans aprì la porta dell’ufficio
con estrema cautela. Le luci erano
spente. Si infilò nello spiraglio appena
aperto e chiuse la porta a chiave. Poi
azionò l’interruttore delle luci. I tubi
fluorescenti tremolarono fino ad
accendersi, fissando il loro sguardo
gelido sull’ufficio comune della squadra
crimini maggiori. Sam studiò lo
schieramento di scrivanie e andò dritto
verso quella di Paula McIntyre.
Si sedette sulla sedia della detective e
osservò la disposizione delle pile di
documenti sul tavolo. Il caso a cui Paula
stava lavorando sarebbe passato a lui
subito dopo. Sfogliò attentamente ogni
dossier, cercando di comprendere la
ragione della loro disposizione. Aprì il
taccuino della detective e lesse i suoi
appunti. Alcuni li trovò molto perspicaci
e li memorizzò per quando il caso
sarebbe arrivato a lui.
Aprì i cassetti della scrivania uno a
uno, rovistando tra il contenuto con una
matita, senza lasciare traccia del suo
passaggio. Trovava utile scoprire quello
che la gente teneva nascosto alla vista
ma a portata di mano. Sul fondo del
cassetto, il detective notò una foto di
Don Merrick con un braccio sulle spalle
di una donna in quello che sembrava un
pub o una discoteca. A uno sguardo più
attento, si rese conto, con non poca
sorpresa, che la donna era Carol Jordan.
Aveva i capelli più lunghi, il viso più
pieno, ma non c’erano dubbi che fosse
lei. Insieme a Merrick, alzava verso
l’obiettivo quello che sembrava un
calice di champagne. Molto interessante,
pensò Evans. Sicuramente utile.
Richiuse il cassetto e si spostò alla
scrivania di Kevin Matthews, dove
ripeté la stessa procedura. Si dice che
bisogna conoscere il proprio nemico.
Ma secondo Sam Evans bisognava
prima di tutto assicurarsi di conoscere
chi, almeno in teoria, è dalla propria
parte. Come John Brandon aveva intuito,
il detective era ambizioso. Ma non
voleva semplicemente eccellere. Voleva
assicurarsi che nessuno facesse meglio
di lui. Mai.
La conoscenza è potere. Evans sapeva
che nessuno regala il potere. Bisogna
prenderlo quando e dove si può. Se
questo voleva dire rubarlo a qualcun
altro, che fosse. Chi era troppo debole
per tenerselo stretto, non se lo meritava.
Al contrario di lui.
Confronta l’immagine che ha davanti
con quella piantata nella sua testa
dalla Voce e dai video. Sandie è sul
letto a braccia e gambe divaricate, i
polsi ammanettati alla scadente
spalliera di pino. I piedi sono legati
alle gambe del letto. Ha usato una fune
per bloccarli perché le manette non
sono abbastanza lunghe. Non è
perfetto, ma è il meglio che può fare. È
nuovamente grato alla Voce per avergli
ricordato di portare la fune oltre alle
manette, nel caso in cui il letto fosse
stato diverso.
Vorrebbe che la stanza fosse più
bella, ma non può fare molto al
riguardo. Le luci sono fioche,
perlomeno. È facile ignorare i segni
d’ago sulle braccia e il fatto che sia
troppo emaciata. Potrebbe quasi essere
la ragazza da sogno di uno dei video,
con quel triangolo di peli che nasconde
i segreti che a breve lui possiederà.
Le volta le spalle e infila i guanti di
lattice. «Ti muovi» dice lei. «Che
aspetti? Non ho tutta la notte.»
Solo lui sa quanto sia vero. Affonda
una mano nel suo zaino ed estrae un
bavaglio di pelle imbottito. Si gira
verso di lei. Ora sembra preoccupata.
Lui si avvicina e lei comincia a
gridare. «Aspetta un attimo, cazzo! Non
hai mai parlato di...» Ma le sue parole
si interrompono quando lui le ficca il
bavaglio in bocca, sollevandole
bruscamente la testa per annodarlo
dietro alla nuca. Lei strabuzza gli
occhi mentre prova a urlare. Ma le esce
soltanto un grugnito smorzato.
Lui si ricorda di pulire le manette da
eventuali impronte, poi prende la
videocamera e la sistema sul piccolo
treppiedi, assicurandosi di inquadrare
tutto il letto. Poi, sistema il portatile e
la webcam. Sandie strattona le manette
e la fune, inutilmente.
Lui tira fuori un fagotto voluminoso
di carta assorbente. Entra
nell’inquadratura e, lentamente,
rimuove la carta. Quando Sandie
capisce cos’ha in mano, le vene sul suo
collo si ingrossano. L’aria si riempie di
puzza di urina. Lui sorride dolcemente.
È duro ora, neanche i video lo hanno
mai fatto diventare così duro. Ma non
deve perdere il controllo. Vuole che la
Voce sia fiera di lui, e questo vuol dire
niente prove.
Fa un respiro profondo, cercando di
calmare il cuore impazzito. Sta
sudando, sente le gocce scivolargli giù
per il collo e bagnargli la maglietta.
Stringe la presa attorno alla sua arma.
Le lamette brillano affilate e feroci alla
luce della lampada. «Spero che tu sia
pronta, Sandie» dice a bassa voce,
proprio come gli ha detto la Voce.
Poi comincia.
Carol fissava l’uomo seduto nella
stanza interrogatori attraverso il falso
specchio. Ronald Edmund Alexander
non corrispondeva affatto all’immagine
tipo di un pedofilo. Non era losco o
sudato. Non era sporco né trasandato.
Sembrava esattamente ciò che era, un
dirigente di livello intermedio che
viveva in periferia con una moglie e due
figli. Nessun impermeabile sudicio, solo
un completo prêt-à-porter, di un modesto
grigio antracite. Camicia celeste,
cravatta bordeaux con una sottile striscia
grigia. Capelli corti, nessun vano
tentativo di nascondere la calvizie
incipiente. Aveva protestato con
veemenza quando due agenti lo avevano
trascinato in centrale. Non avevano
alcun diritto, insisteva, proprio alcun
diritto di irrompere nel suo ufficio al
Bradfield Cross come se fosse un
comune criminale. Aveva cooperato,
giusto? Sarebbe bastata una telefonata e
lui sarebbe corso in stazione. Non c’era
motivo, assolutamente alcun motivo di
metterlo in imbarazzo sul posto di
lavoro.
Carol aveva osservato la scena dalla
parte opposta della sala di custodia,
cercando di decidere se lo detestasse di
più per quello che c’era sul suo
computer o perché era l’incarnazione di
ogni burocrate meschino che le avesse
mai suscitato pensieri violenti. Lo
avrebbe messo sotto torchio
immediatamente, ma il suo avvocato
tardava ad arrivare.
Così lo avevano chiuso in una cella in
attesa del suo rappresentante. Era
rimasto sorprendentemente calmo. Carol
lo aveva notato, chiedendosi come Tony
avrebbe giudicato quel comportamento.
Alexander si era guardato intorno e si
era seduto con calma sulla branda.
Gambe aperte, braccia conserte, sguardo
perso nel vuoto. Lo Zen e l’arte di
mantenere le apparenze, pensò Carol
sarcasticamente.
Finalmente, la porta della stanza di
osservazione si aprì. Paula fece
capolino oltre la porta. «Si va in scena,
capo. L’avvocato è arrivato.»
«Chi è?» chiese Carol, staccando gli
occhi da Alexander.
«Bronwen Scott.»
Carol ricordava l’avvocato difensore
dalla sua precedente esperienza a
Bradfield. Al contrario di molti
difensori d’ufficio, la Scott sembrava
avere l’esigenza di vestire Dolce &
Gabbana, con tanto di scarpe coordinate
e borse firmate Prada. I suoi capelli neri
perfettamente in piega che le arrivavano
fino alle spalle e le unghie smaltate in
modo impeccabile facevano sentire
Carol come se qualcuno l’avesse
trascinata direttamente giù dal letto fino
alla stanza interrogatori. Sarebbe stato
quasi sopportabile se la Scott non fosse
stata scaltra e combattiva tanto quanto
costosamente ineccepibile. L’idea
generale era che se potevi permetterti
Bronwen Scott, probabilmente ce
l’avevi fatta. «Ah bene» disse Carol,
dirigendosi verso la porta.
Si trovò faccia a faccia con la Scott
non appena mise piede nel corridoio.
«Ispettrice Jordan. Che sorpresa.
Credevo ci avesse lasciati per pascoli
più invitanti» disse Scott, con voce
fredda e divertita.
«Ispettrice capo, in realtà. Dovrebbe
sapere meglio di chiunque altro che non
c’è nulla di invitante in quello che
facciamo. Vogliamo procedere?»
Scott scosse la testa. «Non so dove sia
stata finora, ispettrice capo, ma qui a
Bradfield permettiamo ancora che gli
avvocati conferiscano con i propri
clienti in privato. E prima di farlo,
vorrei qualche informazione.»
Niente di inaspettato, pensò Carol.
«Quando il suo cliente è stato arrestato,
la polizia ha sequestrato il suo computer.
E lo ha analizzato. Sarà interrogato al
riguardo in un secondo momento, ma c’è
una foto sul suo computer che lo collega
direttamente a un’indagine di cui sono a
capo. È solo di quella foto che voglio
parlare.»
«E la foto sarebbe...?»
«Sarò felice di discuterne durante
l’interrogatorio. E di mostrarne una
copia a lei e al suo cliente.»
Scott scosse la testa. «Allora ha
davvero dimenticato le buone maniere,
ispettrice capo? Prima di avere una
conversazione significativa col mio
cliente, ho bisogno di sapere di cosa si
parla.»
Ci fu un lungo silenzio. Carol sentiva
gli occhi di Paula su di lei, pronti a
soppesare le sue azioni. A quel punto,
non c’era granché da guadagnare a
trattenere informazioni. Ron Alexander
non era un sospettato per il rapimento di
Tim Golding. Se Carol avesse deciso di
non sbottonarsi con la Scott, avrebbe
senza dubbio ottenuto un ‘no comment’
per tutta la durata dell’interrogatorio. Se
avesse mostrato la foto durante
quest’ultimo, Scott avrebbe comunque
chiesto di essere lasciata sola con il suo
cliente. Carol ponderò le opzioni.
Voleva cooperazione. Non le interessava
che conseguenze avrebbe o non avrebbe
avuto su qualsiasi altro caso in cui fosse
coinvolto Ron Alexander. «Direi di
velocizzare le cose» disse. «Il suo
cliente era in possesso di una foto di
Tim Golding, il bambino di otto...»
«Sì, so chi è Tim Golding» rispose
Scott, in tono impaziente. «Ma dato che
avete disseminato foto del bambino in
tutto il Paese, non credo sia rilevante il
fatto che il mio cliente ne avesse una sul
suo computer.»
«È rilevante se la foto in questione
ritrae un bambino terrorizzato e nudo.»
Carol si voltò e si allontanò. «Mi faccia
sapere quando siete pronti a parlare»
disse mentre svoltava un angolo con
Paula al seguito. «Vedo che Bronwen
Scott non si è addolcita col tempo»
commentò.
«Peccato averle rivelato così tanto»
disse Paula, camminando ora fianco a
fianco con il suo capo.
«Conosci le regole, Paula. Se loro
chiedono informazioni, noi dobbiamo
dargliele.»
«Non poteva almeno omettere il nome
del bambino, capo? E spiattellarglielo in
faccia nell’interrogatorio?»
Carol si fermò e osservò Paula con
sguardo inquisitorio. «Credi che sia
stata debole con Scott, non è così?»
Paula sembrò inorridire. «Non
penserei mai...»
«Cedere non è sempre segno di
debolezza, Paula. Non c’era motivo di
nascondere informazioni. Conosco la
Scott. Alexander si sarebbe chiuso in un
‘no comment’ sin dall’inizio. Così
invece, Scott potrebbe cercare una
negoziazione.» Carol si allontanò,
avvertendo una tensione nelle spalle.
Forse i suoi sottoposti si fidavano di lei
meno di quanto credesse.
Dorme fino a tardi. È quasi
mezzogiorno quando si sveglia,
ciononostante deve sforzarsi di aprire
gli occhi. Si sente come se qualcuno gli
avesse imbottito il cervello di Valium.
È intontito, ci mette un po’ a capire
dove si trova. A casa, nel suo letto,
rannicchiato su sé stesso come un
bambino. Ma oggi c’è una persona
diversa nel suo corpo.
Non è più il buono a nulla di cui tutti
ridono. Lo ha fatto. Ha fatto
esattamente ciò che doveva. Proprio
come gli aveva detto la Voce. E ha
avuto la sua ricompensa. Ha avuto i
soldi, anche se le ha spiegato che non
era per quello che l’aveva fatto. Lo
aveva fatto perché capiva. Non sono i
soldi a farlo sentire bene. Sono le cose
positive che la Voce dice su di lui. È
sapere che ha fatto qualcosa di cui
pochi altri sarebbero capaci. Qualcosa
di speciale.
Grazie a dio è riuscito a nascondere
le sue vere sensazioni quando è
arrivato il momento di farlo. All’inizio
era eccitato, su di giri, quasi sul punto
di venire nei pantaloni come un
ragazzino. Ma quando è arrivato il
momento, quando ha dovuto ficcare
quella cosa dentro di lei ancora e
ancora, si è afflosciato. Non c’era
niente di sexy. Era sanguinoso e
terribile e agghiacciante. Sa che era la
cosa giusta da fare ma, dopotutto, non
l’ha trovato per niente eccitante. Solo
caotico e triste.
Ma la Voce non lo sa. La Voce vede
solo che ha fatto quel che doveva, e che
lo ha fatto bene.
Mentre si sveglia del tutto, sente un
fervore nelle vene. È orgoglio, ma ha
anche paura. Lo cercheranno. La Voce
gli ha promesso che andrà tutto bene.
Ma forse la Voce si sbaglia.
Forse non è stato così bravo come
aveva creduto.
Tom Storey guardava fuori dalla
finestra, osservava le foglie staccarsi
dagli alberi e vorticare nella brezza
pungente che si era levata intorno a
mezzogiorno. Sedeva immobile,
reggendo il moncone fasciato con la
mano che gli rimaneva. Tony lo osservò
per almeno dieci minuti, ma lui non
mosse un muscolo.
Alla fine, il dottore attraversò la sala
comune e spostò una sedia a fianco a
Storey. Notò il livido viola sul suo
zigomo. Stando all’inserviente che
aveva accompagnato Tony in sala, un
paziente aveva preso a pugni Storey
durante una sessione di terapia di
gruppo. «Anche per questi pazzi bastardi
uccidere bambini supera ogni limite»
disse l’uomo con noncuranza.
«Abbiamo tutti due personalità, sai»
esordì Tony. «Una in ogni emisfero del
cervello. Una è il capo, e sovrasta
quella più debole. Ma se si
interrompono i collegamenti
diplomatici, è impossibile predire cosa
farà la parte remissiva una volta
assaggiato il potere.»
Storey rimase immobile. «Riesco
ancora a sentirla» disse. «È come un
fantasma maligno. Non mi lascia in
pace. Se si scopre che ho un tumore al
cervello, supponendo che io non muoia,
avrò comunque una guerra nella mia
testa, vero?»
«Non ti mentirò, Tom» disse Tony.
«Non esiste una soluzione veloce. Vedi,
la parte sinistra del cervello, quella
dominante, è responsabile di attività
come la lettura, la scrittura, la capacità
di calcolo. Poi c’è la parte destra,
quella analfabeta, che però comprende
le forme, la geometria solida, la musica.
Credo che questa possa sviluppare un
certo grado di frustrazione per la sua
incapacità di comunicare prontamente
nel modo in cui le persone comunicano
di solito. È per questo che degenera
quando la parte sinistra allenta il
controllo. Ma non è la fine della storia.»
«Solo la fine di Tom Storey.» Il suo
tono era amaro.
«Non necessariamente. Il cervello ha
una struttura formidabile. Quando viene
danneggiato, addestra altre aree a
svolgere i compiti di cui si occupava la
porzione divenuta superflua. Ci sono
alcune cose che possiamo provare per
riqualificare la parte ribelle del tuo
cervello. Posso aiutarti, Tom.»
Storey fece un respiro profondo,
sollevando le spalle. «Non può ridarmi i
miei bambini, però.»
Tony guardò fuori dalla finestra,
osservando il turbinio di foglie dorate e
scarlatte. «No, non posso. Ma posso
aiutarti a vivere sopportandone
l’assenza.»
Delle lacrime traboccarono dagli
occhi di Storey e gocciolarono
incontrastate sulle sue guance. «Perché
dovrebbe farlo?»
Perché è l’unica cosa che so fare,
pensò Tony. Ma disse: «Perché te lo
meriti, Tom. Perché te lo meriti.»
Carol entrò nella stanza interrogatori
fingendo una sicurezza che non provava.
Erano passati molti mesi dall’ultima
volta che aveva interrogato qualcuno,
che fosse un testimone o un sospettato, e
temeva che le sue emozioni potessero
influenzare la sfera professionale. La
presenza di Paula al suo fianco, pronta a
giudicarla, non era di aiuto. Perlomeno,
sembrava che la compostezza di Ron
Alexander avesse cominciato a
sgretolarsi. Evitava il contatto visivo,
toccando e rigirando la sua fede nuziale.
«Bene» disse Carol, sistemandosi
sulla sedia. «Sono l’ispettrice capo
Carol Jordan e questa è la detective
McIntyre. Come le avrà spiegato il suo
legale, signor Alexander, vorremmo il
suo aiuto circa un’indagine non collegata
alle ragioni del suo primo arresto. La
sua collaborazione sarebbe molto
apprezzata.»
«Perché dovrei parlare con voi?»
sbottò Alexander. «Distorcereste ogni
parola per costruire un caso contro di
me.»
Bronwen Scott gli poggiò una mano sul
braccio. «Non devi dire niente, Ron.»
Poi alzò lo sguardo verso Carol. «Il mio
cliente teme che qualsiasi tipo di
collaborazione possa offrire avrà delle
conseguenze su azioni legali future.»
Carol scosse la testa. «Sa che non
dipende da noi, avvocato Scott. È la
procura che concede accordi. Ma sono
più che disponibile a intercedere a
favore del suo cliente quando sarà il
momento.»
«Non basta.»
Carol scrollò le spalle. «È il massimo
che posso fare. Tuttavia, forse il suo
cliente gradirebbe considerare
l’alternativa. Se rifiuta di aiutarci in un
caso così delicato, nessuno gli mostrerà
un briciolo di tolleranza, in nessun
momento dell’iter giudiziario.»
«È una minaccia, ispettrice capo?»
«Solo un dato di fatto, avvocato Scott.
Sa anche lei quanto peso abbiano le
emozioni nei casi di minori scomparsi.
Chi compie reati sessuali ha già
abbastanza gatte da pelare in prigione,
senza bisogno di aggiungere ulteriori
problemi. Dipende da lei, signor
Alexander.» Carol guardò Alexander
che si agitava inquieto sulla sedia. Aprì
il dossier che aveva davanti e prese la
fotografia che le aveva fornito Jan
Shields. La poggiò davanti ad
Alexander. «Abbiamo trovato questa sul
suo computer. Riconosce questo
bambino, signor Alexander?»
L’uomo lanciò un’occhiata alla foto e
poi distolse lo sguardo, fissando
disperatamente le pareti come se
potessero dargli una risposta. «Sì»
disse, la sua voce era poco più di un
sussurro.
«Mi può dire chi è?»
«Si chiama Tim Golding.» Prese la
penna di Scott, stringendola con
entrambe le mani come se volesse
spezzarla in due. «La sua foto era sui
giornali. E alla tv.»
«Quando è entrato in possesso di
questa foto?» Carol si sporse
leggermente in avanti, modulando la sua
voce fino a renderla calda e intima.
Alexander lanciò un’occhiata a Scott.
L’avvocato annuì. «Non so quando, di
preciso. Qualche settimana fa, credo.
Era allegata a un’e-mail. Sono rimasto
scioccato quando l’ho aperta.»
«Scioccato perché ha riconosciuto Tim
Golding?»
Annuì. «Sì. E per... per il suo aspetto.»
«Che c’è? Non è abituato a ricevere
foto di bambini nudi e spaventati?»
«Non rispondere, Ron» disse subito
Scott. «Ispettrice capo, se vogliamo fare
qualche progresso, devo insistere
affinché la smetta di cercare risposte che
potrebbero incriminare il mio cliente.»
Sì, certo. Carol fece un respiro
profondo. Estrasse un’altra foto dal
fascicolo. «Riconosce questo
bambino?»
Alexander corrugò la fronte. «Non è
quello scomparso l’anno scorso? Guy
qualcosa?»
«Guy Lefevre» disse Carol. «Ha mai
ricevuto foto di Guy Levefre?»
«No.» Gli occhi di Alexander
guizzavano da una parte all’altra. Carol
non riuscì a decidere se stesse mentendo
o se fosse solo in preda al panico. Ma
con Bronwen Scott a controllare ogni
sua mossa, era inutile insistere
sull’argomento.
«Cosa ha fatto quando ha riconosciuto
Tim Golding?» chiese Carol.
«Ho cancellato subito la foto» rispose
Alexander. «Non la volevo sul mio
computer.»
Carol smorzò il tono di sfida nella sua
voce e cercò di sembrare comprensiva.
«Non ha pensato di contattare la polizia?
Avrebbe potuto stamparla e mandarcela
in modo anonimo. Lei ha figli, non è
così, Ron? Come crede che si sentirebbe
se uno di loro scomparisse? Non le
piacerebbe pensare che chiunque avesse
informazioni utili all’indagine le
passerebbe alla polizia?»
Una patina lucente di sudore apparve
sulla fronte dell’uomo. «Credo di sì»
disse.
«Non è troppo tardi per fare la cosa
giusta» disse Carol. «Chi le ha mandato
la foto, Ron?»
Alexander espirò rumorosamente.
«Non lo so. La gente non usa nomi veri
per le email, sa?»
Carol lo sapeva. Si usavano
soprannomi, combinazioni di lettere e
numeri, anche se non si aveva nulla da
nascondere. La sua email personale era
un misto tra il suo cognome e le ultime
quattro cifre di un suo vecchio numero
di telefono perché, quando l’aveva
creata, il nome ‘caroljordan’ era già
stato preso da qualcun altro. «Okay. Non
conosce l’identità del mittente. Che mi
dice dell’indirizzo email?»
Alexander allargò le mani. «Non lo so.
Non ci ho fatto attenzione. Ho solo
cancellato tutto. L’email e l’allegato.»
«Forse era qualcuno che le aveva già
inviato altre email prima di allora?»
«Ti consiglio di non rispondere, Ron.»
Scott poggiò nuovamente una mano sul
suo braccio.
Carol fulminò l’avvocato con lo
sguardo. «Credo si stia perdendo di
vista cosa c’è in gioco, avvocato Scott.
Un bambino è scomparso. Sappiamo
entrambe che con tutta probabilità è
morto. Sto cercando di capire cosa gli
sia successo. È l’unica cosa che mi
interessa.»
«Encomiabile da parte sua, ispettrice
capo. Ma il mio compito è difendere gli
interessi del mio cliente. E non me ne
starò seduta in silenzio mentre lo induce
a fare delle affermazioni potenzialmente
incriminanti.»
Carol si calmò e riportò la sua
attenzione su Alexander. «Ron, ricorda
nulla che possa aiutarci ad arrivare alla
persona che ha inviato questa foto?»
L’uomo scosse la testa. «Davvero, se
sapessi qualcosa di utile, glielo direi.
Voglio aiutarvi, lo voglio sul serio.»
«Okay. Proviamo con un approccio
diverso allora. Per quale motivo le è
stata inviata questa foto? Perché chi lo
ha fatto ha pensato che potesse
piacerle?»
«Non credo...» cominciò a dire Scott.
«Non c’è problema» disse Alexander.
«Non so neanche questo. Tutti riceviamo
delle email indesiderate. I filtri contro
lo spam possono fallire a volte.» Si
appoggiò allo schienale, evidentemente
più rilassato ora che aveva capito le
regole del gioco.
Carol cominciò a irritarsi. «Bene. Se è
così che vuole giocarsela, signor
Alexander, è così che faremo.» Scostò la
sedia dal tavolo. «L’interrogatorio è
finito. Ma la avverto che setacceremo
ogni byte del suo hard disk. Seguiremo
tutte le tracce che ha lasciato sul web.
Lei crede di aver ripulito il computer,
ma i nostri tecnici le dimostreranno
quanto si sbaglia. Ha avuto la sua
occasione, signor Alexander. E l’ha
appena mandata all’aria.»
Carol marciò fuori dalla sala
interrogatori e si diresse verso il suo
ufficio, senza neanche preoccuparsi di
controllare se Paula la stesse seguendo.
«Stacey? Nel mio ufficio, ora» disse,
attraversando l’ufficio comune. Paula e
Stacey arrivarono nello stesso momento.
«Cosa hanno trovato i tecnici sul
computer di Ron Alexander?» chiese
Carol a Stacey, facendo segno di sedersi
a entrambe le detective.
«Non quanto speravamo» rispose
Stacey. «La gente è così ottusa in queste
cose. Alexander pensava di aver ripulito
l’hard disk. Probabilmente è andato nel
panico quando ha letto sui giornali dei
primi risultati dell’Operazione Minerale
Grezzo. Ma come la maggior parte della
gente, credeva che svuotare il cestino
bastasse a cancellare per sempre i suoi
file. E come la maggior parte della
gente, non si è mai preoccupato di
formattare o deframmentare...»
«Deframmentare?» chiese Paula,
confusa.
Stacey alzò gli occhi al cielo. «Vuol
dire...»
«Non importa» disse Carol. «Quindi
c’era ancora qualcosa?»
«Be’, certo che c’era. Frammenti di
file, e alcuni file completi. Come la foto
di Tim Golding.»
«E possiamo scoprire da dove è
arrivata?»
Stacey scosse la testa. «Niente tracce.
È un’orfana.»
Paula aprì la bocca ma prima che
potesse parlare, Carol si affrettò a dire:
«Lascia stare, Paula. Afferriamo il
concetto. Questa non ci voleva, Stacey.»
L’ispettrice si massaggiò il ponte del
naso con due dita. La pista che il giorno
prima era sembrata così promettente si
stava rivelando un altro vicolo cieco.
«Che mi dici del service provider
dell’email? Potrebbe esserci d’aiuto?»
Stacey scrollò le spalle. «Dipende da
quando è stata ricevuta l’email. Gli ISP
sono più simili a dei contabili che a dei
tecnici» disse, in tono denigratorio.
«Sono interessati solo a fatturare, non a
controllare il traffico. La maggior parte
conserva dei registri dettagliati per una
settimana. Alcuni per un mese. Se la foto
è stata ricevuta più di trenta giorni fa,
non abbiamo speranze. E in ogni caso,
avremmo bisogno di un mandato per
avere accesso a quei registri.»
«Quindi siamo fottuti.» La
constatazione secca di Carol rimase
sospesa nell’aria.
Stacey spostò una ciocca di capelli
dietro l’orecchio. Il suo sorriso
compiaciuto e gli occhi a mandorla scuri
la facevano assomigliare a un gatto.
«Non necessariamente. In immagini del
genere c’è più di quanto non si possa
vedere. Letteralmente. A volte
contengono informazioni criptate.»
Carol si rianimò. «Come il nome del
mittente?»
Stacey sospirò trattenendo a stento la
sua esasperazione. «Niente di così
diretto. Potremmo risalire al numero di
serie dell’apparecchio che ha scattato la
foto. O al codice di registrazione del
software usato per elaborare l’immagine
elettronicamente. A quel punto si
dovrebbe contattare la casa costruttrice
o il titolare della licenza del software e
vedere che informazioni riescono a
darci.»
«È inquietante» disse Paula.
«È una diavolo di buona notizia» la
corresse Carol. «Che stiamo aspettando
allora?»
Stacey si alzò. «Richiederà tempo»
avvertì.
«Cosa non lo richiede?» Carol si
appoggiò allo schienale. «Qualsiasi
cosa ti serva, Stacey, fammelo sapere.
Paula, scopri l’ISP di Ron Alexander e
vedi cosa possono dirci. È ora di
riportare a casa Tim Golding.»
Il suono del campanello fu un gradito
sollievo. Tony mise da parte il testo
filosofico sul problema mente-corpo su
cui si stava scervellando e si precipitò
in corridoio. Aprì la porta e trovò Carol
appoggiata alla colonna del portico con
un contenitore di plastica in mano. «Hai
ordinato la cena?» chiese lei.
«Ci hai messo un po’. L’ho ordinata da
almeno ventidue ore» rispose il dottore,
facendosi da parte e seguendola nel
corridoio. «Per la cucina sempre dritto.»
Carol si guardò intorno, osservando le
finiture in pino e l’isola per la colazione
ricoperta di piastrelle. «Molto anni
Ottanta» disse.
«Davvero? Credi sia per questo che
l’ho pagata poco?»
Carol sorrise. «Potrebbe essere.
Sembra in buone condizioni però.»
«Funzionano tutti i cassetti. È già un
bel progresso rispetto a dove vivevo
prima. Ora, preferisci prima mangiare e
poi fare il tour del seminterrato?»
«Preferirei un bicchiere di vino, in
realtà. È stata una giornata frustrante.»
«Okay. Vada per il vino.» Tony prese
una bottiglia già aperta di Shiraz
cabernet australiano e riempì due calici.
«Brindiamo a... non lo so, a cosa
dovremmo brindare?»
«Alla fine delle frustrazioni? Per
entrambi?»
Tony alzò il suo bicchiere, che tintinnò
contro quello di Carol. «Perché no. Alla
fine delle frustrazioni.» La osservò bere,
notando le occhiaie scure sotto i suoi
occhi e la circospezione del suo
linguaggio corporeo. Era molto lontana
dall’essere di nuovo sé stessa. «Allora,
vuoi vedere il seminterrato... Scusa,
l’appartamento al piano inferiore?»
Carol sorrise. «Perché no?»
Lo seguì in corridoio. Tony aprì una
porta che sembrava l’anta di un
ripostiglio da sottoscala. Invece, si
apriva su una rampa di scale stretta e
ripida illuminata da una semplice
lampadina. Il dottore fece strada finché
non raggiunsero uno spazio dal soffitto
sorprendentemente alto. «Questo
sarebbe il soggiorno» disse,
accompagnandola in un’ampia stanza
con due finestre basse ma larghe che si
aprivano in alto sulla parete. «Entra una
buona quantità di luce naturale. E
potremmo inserire una lastra di vetro
nella porta d’ingresso e costruire un
piccolo portico ai piedi delle scale per
sicurezza» aggiunse con entusiasmo.
«L’ho già fatto presente all’impresa
edile. So che è difficile da immaginare
adesso, con le pareti ancora di mattoni,
ma verrà tutto rivestito col cartongesso.
Pavimenti in legno. Sarà davvero
grazioso.»
La grandezza era giusta. C’è tutto lo
spazio che serve, pensò Carol. La
camera da letto era grande quasi quanto
il soggiorno, con una finestra a golfo
sorprendentemente ampia. Carol si
guardò intorno mentre un sorriso si
faceva largo sulle sue labbra. «Non è
male, sai. Mi ci vedo a svegliarmi qui la
mattina.»
Tony abbassò lo sguardo,
improvvisamente in imbarazzo. «Bene»
disse. «Pensaci.»
Tornando su, le mostrò i sanitari
appena installati e l’angolo doccia. Le
piastrelle bianche brillavano splendenti
alla luce dei faretti. Pulito, fresco,
incontaminato. Nuovo, pensò Carol con
entusiasmo. Un posto senza fantasmi.
«Non ho bisogno di pensarci» disse
Carol. «Quando sarà pronta?»
Tony sorrise come un ragazzino. «Fra
tre settimane, dicono. Ce la fai a
rimanere da Michael fino ad allora?»
Carol si appoggiò all’isola per la
colazione. «Posso sopportare qualsiasi
cosa se so che finirà. Tu credi di
riuscire a sopportare me come inquilina
del piano inferiore?»
«Solo se prometti di avere sempre del
latte.» Fece una smorfia. «Sono
bravissimo a rimanere sempre senza.»
Carol sorrise. «Farò scorte di UHT.»
Aspettare non è mai facile.
Specialmente quando sa con esattezza
cosa sta aspettando. Quando ha messo
piede in strada oggi, si aspettava di
vedere sbirri ovunque, nastri della
polizia attorno al vicolo in cui Sandie
lavorava. Si aspettava persone
accalcate agli angoli della strada a
mormorare di omicidi e mutilazioni. Si
aspettava poliziotti in uniforme muniti
di taccuino che chiedevano alle
persone dove fossero e cosa avessero
fatto la sera precedente.
Ricorda come è stato l’ultima volta.
L’intero quartiere di Temple Fields era
andato in overdose da gossip. Tutti ne
parlavano, mormoravano frenetici,
senza sosta, come dei tossici. Tutti,
persino quei miserabili idioti che di
solito non avevano tempo per lui o per
chiunque altro. Finché non arrivavano
gli sbirri. Allora scendeva il silenzio,
come una coperta gettata sulle loro
teste.
Era quello che si aspettava anche
stavolta. Ma quando era entrato allo
Stan’s Café per il suo solito sandwich
al bacon e una tazza di tè, gli era
sembrato un giorno come tanti. Delle
prostitute sedevano intorno ai tavoli
unti, una breve pausa di mezz’ora per
riposare i piedi. Un paio di ragazzi
stringevano tra le mani una tazza di
caffè. Diversi occhi lo osservavano,
chiedendosi se avesse un po’ di merce,
per poi distogliere lo sguardo,
contrariati, quando lui scuoteva la
testa quasi impercettibilmente. Quando
sarebbe passato da Big Jimmy per fare
rifornimento, l’omaccione gli avrebbe
dato delle seccature. Lo avrebbe
strigliato per essere in ritardo. Aveva
sperato di trovare una scusa nella
confusione scatenatasi per le strade,
ma era tutto tranquillo.
Così aveva finito di fare colazione e
aveva fatto due passi fino
all’appartamento di Big Jimmy per
prendere il suo stock giornaliero. Per
fortuna, l’omaccione non era in casa.
C’era solo quel fattone rincoglionito di
Drum, che era sempre talmente
sballato da non fregargliene niente di
nessuno al mondo. Nel giro di mezz’ora
era ritornato in strada, a fare affari,
sperando che nessuno si chiedesse
dov’era stato tutta la mattina. Con
buona probabilità, molti dei suoi stessi
clienti erano rimasti svenuti sul letto
per buona parte della giornata.
Ma ora è sera e non si muove ancora
nulla per le strade. Questo lo
preoccupa. Parte di lui comincia a
credere di aver sognato tutto. Vorrebbe
quasi andare a controllare il
marciapiede di Sandie, per vedere se
sta battendo il suo solito angolo, come
se non fosse successo nulla fuori
dall’ordinario.
Vorrebbe che la Voce fosse lì a
spiegargli cosa succede. Ma da quando
ha fatto ciò che doveva, non l’ha più
sentita. Comincia a chiedersi se
l’abbia abbandonato, se anche tutte le
sue promesse siano state solo un sogno.
Non sarebbe la prima volta.
Tony alzò il calice e allungò un
braccio oltre i resti della cena cinese.
«A uno dei nostri rari pasti non
cattolici.» I bicchieri tintinnarono l’uno
contro l’altro.
«Pasti non cattolici?» Carol aggrottò
la fronte.
«Spesso siamo nel mezzo di un caso
quando mangiamo insieme.» Prese un
pezzo di pancake. «Questo è il mio
corpo offerto in sacrificio per voi.»
Mangiò il pancake, poi alzò di nuovo il
calice imitando il rito religioso. «Questo
è il calice del mio sangue.»
Carol annuì, capendo a cosa alludesse.
«Solo che, nel nostro caso, la
confessione viene dopo la comunione.»
«Solo se abbiamo ragione.»
Il volto di Carol si intristì. «Giusto, e
fortuna.» Prese il bicchiere del dottore e
fece un sorso dal lato opposto. Avvertì
una scarica di elettricità nella strana
intensità del momento. Prima che
potesse restituire il calice, l’intimità fu
interrotta dallo squillare insistente del
suo cellulare. «Dannazione» disse,
allungandosi freneticamente verso la sua
borsa.
«A proposito di fortuna...» borbottò
Tony.
«Ispettrice capo Jordan» disse Carol.
Le giunse all’orecchio la voce
familiare di Don Merrick. «Abbiamo
trovato un cadavere. Credo che voglia
vederlo.»
Carol trattenne un sospiro. «Okay.
Dovrai mandare qualcuno a prendermi,
ho bevuto un paio di bicchieri di vino.»
Tony si alzò e cominciò a sistemare i
contenitori in stagnola nelle rispettive
buste di plastica.
«Nessun problema, capo. È a casa
sua?»
«Veramente no, Don. Sono a casa del
dottor Hill.» Colse lo sguardo di Tony e
alzò gli occhi al cielo mentre dettava
l’indirizzo a Merrick. Sentì le voci
smorzate dall’altra parte del telefono.
Poi Merrick tornò a rivolgersi a lei.
«Ho chiesto a un agente di venirla a
prendere lì.»
«A tra poco, Don» disse Carol,
terminando la chiamata. Finì il vino nel
suo bicchiere e disse: «A quanto pare
hanno trovato un cadavere.» Si alzò.
«Non era proprio così che volevo finire
la serata.»
Tony prese i piatti sporchi. «Be’, forse
è meglio continuare a fare quello in cui
siamo bravi.»
Il fascino scadente di Temple Fields
era offuscato dalla pioggia autunnale che
cadeva obliqua. Gli pneumatici
fischiavano sulla pavimentazione a
blocchi dell’area pedonale nel cuore del
quartiere. Il guidatore svoltò in una
stradina laterale. In mattoni rossi e
squallida, la strada ospitava vetrine
poco invitanti e piccole attività
imprenditoriali con monolocali ai piani
superiori. Poco più in là, un paio di auto
della polizia bloccavano il passaggio.
Sagome indistinte si muovevano veloci
oltre le volanti, il capo chinato per
difendersi dal maltempo. Mentre l’auto
parcheggiava, Carol abbassò lo sguardo,
fece un respiro profondo e uscì.
Avvicinandosi alle volanti, Carol notò
che l’entrata di un vicolo angusto era
sigillata dal nastro della polizia. Il suo
stomaco si contorse, anticipando a cosa
stesse andando incontro. Ti prego Dio,
fa’ che non sia sessuale. Si abbassò per
superare il nastro, dando nome e grado
all’agente che registrava gli ingressi alla
scena del crimine, e vide Paula davanti
a una porta sudicia che dava su una
rampa di scale. Notando Carol, la
detective tagliò corto la sua
conversazione con un agente in uniforme
e si voltò verso di lei.
«È al piano di sopra, capo. Non è un
bello spettacolo.»
«Grazie, Paula.» Carol si fermò sulla
soglia, infilando un paio di guanti di
lattice. «Chi ha trovato il corpo?»
«Una prostituta. Dee. Lei e la vittima
condividevano la stanza. Ci portavano i
clienti.»
«Dee era con un cliente quando ha
trovato il corpo?»
Paula abbozzò un mezzo sorriso.
«Stando a quanto dice Dee, non appena
il tizio ha fiutato guai, è scappato come
un ratto su una nave che affonda.»
«Dov’è Dee ora?»
«Sta andando in centrale per una
dichiarazione. Con Sam.»
Carol annuì soddisfatta. «Grazie,
Paula.» Scansò un tecnico della
scientifica intento a rilevare impronte
dallo stretto corrimano e si diresse al
piano superiore. In cima alle scale
ripide e spoglie una porta aperta gettava
un rettangolo di luce pallida sul
pianerottolo. L’aria era satura
dell’odore metallico di sangue e del
tanfo più cupo e profondo di escrementi
umani. Sebbene avesse cercato di
prepararsi, Carol si sentì scivolare nei
ricordi e rischiò di perdere l’equilibrio.
Ma la vista degli agenti della scientifica
che si davano da fare con assoluta calma
la riportò al presente, scacciando il
caleidoscopio di immagini che
minacciava di sopraffarla. Sali ed entra.
Quando raggiunse la soglia, Carol
avvertì Merrick e Kevin voltarsi verso
di lei. All’inizio, si concentrò sui
dettagli esterni, preparandosi
gradualmente a ciò che giaceva al centro
della stanza. Era una camera spartana,
fatiscente e arredata in economia con del
truciolato vecchio e macchiato che un
tempo era stato color magnolia. Una
spalliera in pino, un paio di poltrone che
sembravano recuperate da una discarica,
un lavandino, un piccolo tavolo da gioco
e poco altro. Niente a distrarla dal
cadavere sul letto.
La donna era legata, le gambe e le
braccia allargate in un’orribile parodia
d’estasi. Gli occhi azzurri fissavano il
soffitto. Non era difficile leggervi il
panico e il dolore. I capelli corti biondo
ossigenato erano schiacciati sulla testa;
il sudore richiamato dalla paura li aveva
impregnati e il tempo li aveva seccati e
induriti in una sorta di casco. Era ancora
vestita, la gonna era un ammasso di
pieghe zuppo di sangue intorno alla vita.
Un mare rosso inghiottiva la parte
inferiore del corpo, inzuppando il
materasso sottile e cadente. Carol si
schiarì la gola e si avvicinò. «È un bel
po’ di sangue» disse.
«Secondo il medico legale è morta
dissanguata» disse Merrick. «Crede ci
abbia messo un po’ a morire.»
Carol cercava di scacciare le
emozioni che la tormentavano, tentando
di ricordare come fare il suo lavoro. «È
già venuto e andato via?»
«Sì, pare fosse a cena al Queensbury.
Noi eravamo arrivati da poco.»
«Allora, cosa sappiamo?» chiese.
Merrick consultò il suo taccuino.
«Sandie Foster, venticinque anni,
prostituta, condanne per incitamento alla
prostituzione e possesso. Ma prima di
continuare... signora, il modus operandi
è identico a quello di una serie di
quattro omicidi risalenti a due anni fa,
non molto dopo la sua partenza.»
«Tutte le vittime erano vestite? Come
questa?»
«Come ho detto, la scena è identica.»
«Be’, forse questa volta riusciremo a
risolvere il caso.»
Merrick e Kevin si scambiarono
un’occhiata. Kevin sembrò vagamente
mortificato. «È questo il punto, capo. Lo
abbiamo già risolto.»
«Come?» chiese Carol.
Merrick affondò le mani guantate nelle
tasche. «Fummo io e Kevin a occuparci
del caso. Derek Tyler. Si dichiarò
colpevole. Ora è in un ospedale
psichiatrico.»
«Possibile che fosse l’uomo
sbagliato?»
Merrick scosse la testa, il labbro
inferiore sporgeva in un’espressione di
ostinato rifiuto. «Non c’è dubbio che
fosse lui. Le prove scientifiche erano
schiaccianti. DNA, impronte, tutto. Derek
Tyler. Si è dichiarato colpevole. Ha
anche fatto una sorta di confessione,
diceva che erano state le voci nella sua
testa a spingerlo a uccidere. E non
appena Tyler fu arrestato, gli omicidi
cessarono. Un’ulteriore prova, non che
ne avessimo bisogno. L’hanno rinchiuso
al Bradfield Moor e da allora non ha più
detto una parola sugli omicidi.»
«Possiamo accertarci che non sia stato
rilasciato?» chiese Carol.
«Già fatto. Ho appena parlato con
l’ospedale. Tyler è nel suo letto, a
dormire con una tranquillità che non
merita affatto. Perciò, non è lui.»
«Forse ci è sfuggito qualcosa negli
omicidi precedenti.»
«Le prove scientifiche erano
schiaccianti» insistette Merrick.
«Forse dovremmo parlare col dottor
Hill» disse Kevin. «Dare un senso alle
cose è il suo forte, no?»
«Buona idea, Kevin» disse Carol.
Tony si lamentava sempre di non venire
mai interpellato tempestivamente in casi
di omicidio complessi. L’ispettrice uscì
dalla stanza e digitò il numero di
Brandon. Quando rispose, Carol gli
spiegò brevemente la situazione.
«All’apparenza, sembra impossibile»
disse. «Vorrei contattare il dottor Hill
per un consulto.»
«Non è un po’ troppo presto per una
mossa simile?» chiese Brandon.
«In altre circostanze avrei concordato
con lei, signore. Ma se c’è qualche
possibilità che si tratti di un emulatore,
credo che il dottor Hill possa fornirci
una risposta immediata. Come ha fatto la
prima volta che abbiamo collaborato
con lui.» Carol trattenne il fiato mentre
Brandon valutava la richiesta.
«Va bene, procedete. Approfondiremo
domattina.»
Mentre terminava la chiamata, Carol si
scostò per far entrare il personale
dell’obitorio. «Il dottor Vernon sa che
siete qui?» chiese.
L’ultimo della fila annuì. «Sì, vuole
fare l’autopsia domattina presto perché
poi ha una conferenza o qualcosa di
simile a cui partecipare. Ha detto di
dirle che sarà pronto per le sette.»
Merrick e Kevin raggiunsero Carol sul
pianerottolo, lasciando al personale
dell’obitorio lo spazio necessario a
sistemare il corpo nel sacco per
cadaveri. «Kevin, Sam sta interrogando
la donna che ha scoperto il corpo. Vorrei
che ritornassi con me in centrale per
affiancarlo. Hai lavorato al caso
precedente, potresti notare qualcosa che
a Sam potrebbe sfuggire. Don, tu e Paula
cominciate a organizzare un’indagine
porta a porta. Dobbiamo parlare con
ogni prostituta o gigolò su cui riusciamo
a mettere le mani, lo stesso vale per il
personale dei locali, i clienti e cose
simili. Scoprite dove lavorava Sandie
Foster. Qualcuno deve averla vista con
l’assassino.» Si tolse i guanti e infilò le
mani in tasca, curvando inconsciamente
le spalle. «E cerchiamo di tenere la
mente aperta per ora.»
Kevin trovò Sam Evans stravaccato
accanto alla parete, davanti a una delle
sale degli interrogatori. «Come sta
andando?» chiese.
«Ah, se sono felice di vederti» si
lamentò Evans. «È evidente che quella
donna non gradisca le persone di colore.
Mi spieghi perché se noi diciamo una
parola fuori posto ci becchiamo un
reclamo per razzismo, ma lei può
chiamarmi scimmione negro?»
Kevin arricciò il naso. «Vuoi che ci
provi io?»
«Tutta tua.» Evans fece un cenno
indicando la porta. «Con me non parla.
Esco a fumare.»
Diede un fascicolo a Kevin e se ne
andò. Kevin lo aprì e trovò un singolo
foglio di carta su cui non c’era scritto
nulla di più di nome, età e indirizzo.
«Non scherzavi, Sam» disse a bassa
voce.
Kevin guardò attraverso lo spioncino
della porta. La donna aveva i capelli
corti e tinti di un biondo ossigenato.
Indossava un vestito nero corto e
aderente. Secondo gli appunti sul
fascicolo, aveva venticinque anni ma,
vista da lì, sembrava più vicina ai
diciannove. Si stringeva nel suo
giubbetto succinto, come se facesse
freddo nella stanza. Stava fumando e, a
giudicare dalla densità dell’aria, non era
la sua prima sigaretta. Alla faccia della
politica del ‘vietato fumare’ di Brandon.
Kevin ricordava la prima volta che
aveva cercato di farla rispettare. Il
sospettato che stava interrogando aveva
minacciato di appellarsi alla
legislazione sui diritti umani inoltrando
un reclamo per punizione crudele e
disumana. Kevin non aveva alcuna
intenzione di dire a Dee Smart di
spegnere la cicca. La prostituta era
quello che avevano di più vicino a un
testimone fino a quel momento, e quel
caso era troppo importante per correre
rischi inutili.
Entrò e le mostrò il sorriso più
comprensivo di cui era capace.
«Finalmente, cazzo» disse lei. «Un
essere umano.»
«Ha avuto qualche problema con il
mio collega?» chiese Kevin, mantenendo
il suo sorriso.
«Mi fa venire la pelle d’oca» borbottò
Dee. «Ha quell’atteggiamento alla Ali
G. ‘È perché sono nero?’ No, amico, è
perché sei uno stronzo. Qualcuno
dovrebbe dirgli che anche le puttane
valgono di più della merda sulle sue
scarpe. Ma chi si crede di essere a
guardarmi con quell’aria di
superiorità?»
«È un po’ carente in materia di
capacità relazionali.»
«Puoi dirlo forte.» Espirò una striscia
di fumo e si accigliò. «Quindi tu mi
tratterai meglio?»
Venti minuti dopo, i due erano quasi
intimi. Le tazze di tè che Kevin aveva
portato per rompere il ghiaccio erano
vuote, e la parte più difficile l’avevano
già superata, la scoperta del cadavere.
«Da quanto tempo avevate
quest’accordo?» chiese Kevin, con
disinvoltura.
Dee scrollò le spalle. «Da circa tre
mesi, credo. Sandie condivideva la
camera con un’altra ragazza prima, una
certa Mo. Poi lei si è trasferita a Leeds e
Sandie mi ha chiesto di prendere il suo
posto.»
«Come funzionava in pratica?»
Dee aprì il pacchetto di sigarette e
guardò indignata le ultime tre. «Dovrai
trovarmi un distributore se la cosa va
ancora per le lunghe.»
«Nessun problema. Dimmi
dell’accordo.» Kevin le sorrise.
Dee si accigliò. Le rughe sottili sul suo
volto divennero improvvisamente più
nette, facendole dimostrare la sua età.
«Sandie comincia prima di me. Spesso
finisce alle dieci. Ha un bambino, Sean.
Se ne occupa la nonna. Sandie
preferisce tornare a casa in tempo per
farsi una dormita prima di svegliarlo per
la scuola. Dopo le dieci, la camera è
mia.»
Kevin cercò di non pensare a come si
sarebbe sentito Sean il mattino
successivo, quando al suo risveglio
avrebbe scoperto che sua mamma era
stata uccisa. Si concentrò sulle parole di
Dee, invece. «E come mai non l’hai
trovata ieri sera?» chiese.
«Non ho lavorato ieri notte.» Notò la
sorpresa sul volto del sergente. «Se
proprio vuoi saperlo, avevo la diarrea.
Dev’essere stato qualcosa che ho
mangiato. Non potevo soddisfare
proprio nessuno in quello stato.»
Aveva senso. Anche le prostitute si
prendono giorni di malattia, pensò
Kevin. «Quindi per quanto ne sapevi,
era tutto normale? Quando sei salita col
tuo cliente ti aspettavi di trovare la
stanza vuota?»
Dee chiuse gli occhi e rabbrividì al
ricordo. «Sì.»
«Non avevi visto Sandie prima, nel
corso della serata?»
Dee scosse la testa. «Non l’avrei vista
a meno che non stessi lavorando, e non
lo stavo facendo. Ho bevuto un paio di
drink al Nag’s Head prima di
cominciare, ma non ho visto Sandie.»
«Dove lavorava di solito?»
«Alla fine di Campion Boulevard.
Appena dopo la minirotatoria.»
Kevin richiamò alla memoria
quell’angolo. Appena quaranta metri più
in là, sulla strada laterale, c’era il
vicolo che ospitava la stanza condivisa.
«Che mi dici dei clienti abituali?»
chiese.
Dee si agitò all’improvviso. Gli occhi
si riempirono di lacrime e la voce mutò
in un vagito soffocato. «Non lo so.
Usavamo la stessa camera e dividevamo
l’affitto, ma non vivevamo una attaccata
all’altra, non so cosa facesse o con chi
lo facesse.»
Kevin allungò un braccio sul tavolo e
le prese una mano. Lo sfogo emotivo
della ragazza lasciò il posto allo
stupore. Fissò il sergente a bocca aperta.
«Perdonami. Il fatto è che dobbiamo
considerare qualsiasi possibilità se
vogliamo prendere l’assassino.»
Dee sbuffò con fare beffardo, ritraendo
la mano. «Ma sentiti. Sembra che parli
di una madre rispettabile di tre figli, non
di una sgualdrina usa e getta qualunque.»
Kevin scosse la testa con aria triste.
«Non so chi ti abbia messo in testa
queste idee, Dee, ma qui non trattiamo
nessuno come vittime usa e getta. Il mio
capo non lo permetterebbe mai.»
Dee sembrò esitare per un momento.
«Dici sul serio?»
«Dico sul serio. Nessuno dei miei
colleghi sta dando meno del cento
percento. Ora, vorrei che venissi con me
al piano di sopra per controllare delle
fotografie. Puoi fare questo per me,
Dee?»
«Va bene» disse. Era difficile dire chi
dei due fosse più sorpreso.
Dopo mezzanotte, le luci fluorescenti
dell’ufficio di Carol sembravano
indecentemente intense, ingrigendo
qualsiasi colorito. Carol leggeva i pochi
file sugli omicidi di Derek Tyler, quando
la porta si aprì e Tony varcò la soglia.
«Sono tutte scemenze, sai» disse, senza
preamboli.
Carol, abituata al suo modo
stravagante di iniziare una
conversazione, gli diede corda. «Grazie
per essere venuto. Di che scemenze
parli?»
«Gli emulatori. Scemenze. Non
esistono, non negli omicidi a sfondo
sessuale.» Si lasciò cadere sulla sedia
di fronte alla scrivania di Carol e
sospirò.
«Cosa vorresti dire, Tony? Che Derek
Tyler riesce a essere in due posti
contemporaneamente?»
«Non saprò nulla di Derek Tyler finché
non leggerò il suo fascicolo. Quello che
so è che qualunque cosa abbiamo
davanti, non è un caso di emulazione.»
Carol faticava a comprendere. «Ma se
il modus operandi è lo stesso...»
«Allora anche l’assassino è lo stesso.»
Le sorrise con aria dispiaciuta e scrollò
le spalle.
«Non è possibile. Stando a quanto dice
Don, e a quanto leggo qui, non c’erano
dubbi sulle prove scientifiche. E Derek
Tyler è rinchiuso in quell’ospedale.»
Tony strusciò la sedia in avanti e si
appoggiò sulla scrivania. Il suo viso era
a qualche centimetro da quello di Carol.
«Su cosa si basa un omicidio a sfondo
sessuale?» chiese.
Carol conosceva la risposta. «Sulla
gratificazione perversa del desiderio.»
«Bene, bene» disse lui, avvicinandosi
ancora di più. «Quanti amanti hai
avuto?»
Sentendosi a disagio, Carol distolse lo
sguardo. «Che c’entra questo adesso?»
«Più di uno, giusto?» insistette Tony.
Carol si arrese. Era più facile
dell’alternativa. «Più di uno» confermò.
«E quanti di loro si sono comportati
esattamente allo stesso modo a letto?»
chiese Tony, come se la risposta dovesse
risolvere un dibattito importante.
Carol cominciò a capire dove volesse
arrivare. «Nessuno.» Gli intensi occhi
blu di Tony erano irresistibili. Per
quanto cercasse di evitarlo, la vicinanza
fisica la fece irrigidire. Se lui se ne
accorse o meno, non lo diede a vedere.
La voce del dottore si abbassò,
facendosi intima e gentile. «I miei
particolari bisogni possono essere
soddisfatti da un solo, specifico
procedimento rituale. Ti voglio legata al
letto, ti voglio vestita, voglio silenziare
la tua voce con un bavaglio di pelle, ti
voglio in mio potere e voglio
distruggere la manifestazione della tua
sessualità.» Fece un respiro profondo e
indietreggiò. «Quante possibilità ci sono
che esista qualcun altro che vuole la
stessa identica cosa?»
Carol comprese. Si rilassò ora che
l’improvvisa intimità era svanita. «Hai
ragione. Ma resta comunque il modus
operandi identico. Che per me è un
problema.»
Tony si appoggiò allo schienale e la
sua voce si trasformò. Carol riconobbe
il cambiamento. Il dottore stava
pensando ad alta voce ora, deduzioni
indefinite si scontravano le une con le
altre. Gli ci era voluto un po’ per
sentirsi talmente a suo agio con lei da
lasciarsi andare in quel modo, ma ora
considerava l’ispettrice quasi come
un’estensione di sé stesso in quei
momenti di rêverie verbale. «A meno
che ovviamente qualcuno non volesse
liberarsi proprio di Sandie e ha pensato
di eliminarla in un modo che ci facesse
girare a vuoto come galline senza testa
alla ricerca di un killer impossibile.»
«Credo sia plausibile» disse Carol,
con riluttanza.
«Voglio dire, se non fosse per il
legame con un caso precedente, non
sarebbe tanto fuori dall’ordinario.
Estremo ma non straordinario.»
«Gesù, Tony» protestò Carol. «Credi
che quello che le ha fatto non sia
straordinario?»
«Separa la tua reazione personale da
quella professionale, Carol» disse, in
modo pacato. «Hai visto peggio di così.
Molto peggio. Chiunque abbia
commesso quest’omicidio ha molto da
imparare in fatto di sadismo sessuale.»
«Avevo dimenticato quanto fossi
tutt’altro che normale» disse Carol, con
voce stanca.
«È per questo che hai bisogno di me»
disse semplicemente. «Forse l’unico
aspetto davvero interessante è il fatto
che non fosse svestita. Cioè, se ti prendi
la briga e l’onere economico di
appartarti con una prostituta in una
stanza, si presume che tu voglia almeno
toglierle i vestiti. Io lo vorrei.
Altrimenti, potresti farlo senza problemi
sul sedile posteriore di un’auto o contro
un muro.»
«Questo cosa ti suggerisce?»
«Stupro.» La parola rimase sospesa
nell’aria che li separava. Per mesi non
era stata proferita ed era rimasta
improferibile. Ora non più. Tony scrollò
le spalle come per scusarsi.
Carol si sforzò di rimanere
professionale. «Cosa ti porta a dirlo?
Non ci sono segni di lotta nella stanza. È
presumibile che Sandie abbia accettato
di farsi legare. Ed è presumibile che lui
abbia accettato di pagarla per farlo.»
«Senza dubbio. Ma lui vuole che
sembri uno stupro, vuole provarne le
sensazioni. Perciò non spoglia la
vittima. Così può illudersi di essere uno
stupratore.»
Carol sembrò perplessa. «Vuole far
finta di essere uno stupratore?
Dopodiché le uccide? Perché non fa
semplicemente finta di essere un
assassino?»
Tony sospirò. «Ancora non lo so,
Carol.»
Ironicamente, è più calmo ora che le
strade sono piene di poliziotti. È ciò
che si aspettava, e per lui è sempre
confortante quando quello che si
aspetta succede davvero, anche se sono
cose brutte. Almeno sa di non dover
aspettarsi nulla di peggiore.
Stava facendo qualche affare nei
bagni dello Stan’s Café quando ha visto
le luci blu attraverso le finestre
satinate. Una sola luce avrebbe potuto
voler dire qualsiasi cosa, ma tre
insieme no. Doveva essere per Sandie.
Non era andato nel panico. Ne è
orgoglioso ora. Prima della Voce,
sarebbe scappato probabilmente, anche
solo per abitudine. Invece aveva
continuato a vendere coca a quel
ragazzino di colore agitato, fingendosi
sorpreso quando aveva cercato di
velocizzare le cose per via degli sbirri.
Il ragazzino era appena uscito dalla
porta quando la conversazione era
iniziata. «L’hanno trovata» aveva detto
la voce, calda e avvolgente come una
carezza. «Saranno ovunque a Temple
Fields stasera. Vorranno parlare con
tutti. Vorranno parlare con te. E va
bene. Va bene. Sai quello che devi dire,
non è così?»
Aveva lanciato uno sguardo verso la
porta, nervoso. «Sì. Lo so.»
«Dimostralo. Ripetimelo di nuovo» lo
aveva persuaso la Voce.
«Ero in giro, come sempre. Sono
passato allo Stan’s, ho preso un paio di
birre al Queen of Hearts. Non ho visto
Sandie in giro. La vedevo sempre alla
fine di Campion Boulevard, ma non ieri
sera.»
«E se vogliono sapere chi può
confermare il tuo alibi?»
«Faccio il vago. Come se non sapessi
distinguere una sera dall’altra. Tutti
sanno che sono un po’ lento, non ci
vedranno niente di strano.»
«Giusto. Vago va bene. È quello che
si aspettano da te. Hai fatto un ottimo
lavoro ieri. Filmato meraviglioso.
Quando tornerai a casa stasera, ci sarà
una piccola ricompensa ad aspettarti.»
«Non è necessario» aveva protestato,
sincero. «Sono a posto.»
«Te lo meriti. Sei un giovanotto molto
speciale.»
Aveva avvertito una vampata di
calore dentro di sé, un calore che non
l’aveva ancora abbandonato. Nessuno,
oltre la Voce, aveva mai riconosciuto
qualcosa di speciale in lui, eccetto i
suoi bisogni educativi.
Perciò ora è lì fuori, a gironzolare
come al solito. Osserva i poliziotti.
Alcuni sono semplici agenti in
uniforme, altri investigatori di grado
maggiore. Setacciano la strada alla
ricerca di testimoni. Potrebbe rientrare
allo Stan’s Café e aspettarli lì, oppure
potrebbe passeggiare tranquillamente
verso di loro, come un idiota che non
ha nulla da nascondere.
Riconosce uno degli sbirri. Lo ha
incontrato un paio di anni fa, quando
la polizia aveva invaso Temple Fields.
È un Geordie grande e grosso. Geordie
non ti trattava come se fossi merda.
Cambia direzione per avvicinarsi a
Geordie e alla donna che lavora con
lui. Stanno parlando con un cliente che
non ha niente da dire e non vede l’ora
di andarsene. Probabilmente ha dato
nome e indirizzo falsi e vuole filarsela
prima che lo scoprano.
Si fanno da parte e l’uomo si defila
come un granchio. Lo sbirro alza lo
sguardo e lo vede. La sua espressione
sembra dire ‘Ti conosco ma non
ricordo il tuo nome’. Sorride a Geordie
come uno stupido e lo saluta. Geordie
si presenta come ispettore Merrick.
Lui ripete il nome un paio di volte per
memorizzarlo bene, perché sa che la
Voce vorrà sapere tutto. Dà a Geordie
il suo nome e indirizzo, quasi
anticipandolo, e la donna li appunta.
Non è brutta. Un po’ troppo magra, ma
a lui cominciano a piacere così. Lo
sbirro gli chiede se ha saputo di Sandie
e lui dice di sì, tutti ne parlano. Poi
ripete le frasi che la Voce ha scolpito
nella sua testa. Parola per parola.
Gli chiedono se abbia visto qualcuno
comportarsi in modo strano. Lui ride di
gusto, comportandosi come lo stupido
del villaggio che tutti credono. «Tutti si
comportano in modo strano qui» dice.
«Direi» la donna mormora a bassa
voce. «C’è qualcuno che può
confermare i tuoi movimenti di ieri
sera?»
Lui sembra confuso. Merrick dice:
«Chi ti ha visto in giro? Chi può dirci
dov’eri ieri sera?»
Lui sgrana gli occhi. «Non lo so»
dice. «Ieri sera era una sera come
tante. Mi viene difficile ricordare bene
le cose, signor Merrick.»
«Ma ti ricordi di non aver visto
Sandie» s’intromette la donna. Stronza
saputella.
«Solo perché ne parlano tutti» dice
lui, mentre una goccia di sudore gli
solletica la nuca. «È una cosa grande,
non una cosa piccola come ricordare
chi c’era al bar o al pub.»
Il signor Merrick gli dà una pacca
sulla spalla. Prende un biglietto dalla
tasca e glielo mette in mano. «Se senti
qualcosa, chiamami. Okay?» E se ne
vanno, pronti per la prossima
chiacchieratina amichevole.
Non il minimo dubbio. Non il minimo
sospetto. Li ha ingannati. Hanno
parlato con un assassino e non ne
hanno idea. Chi è lo stupido adesso?
Carol chiuse la porta con delicatezza,
non voleva disturbare Michael e Lucy.
Sapeva quanto anche il più lieve rumore
rimbombasse tra le pareti alte del loft.
Si sfilò le scarpe e si diresse a passo
felpato verso la cucina, sul lato opposto
dell’open space della zona giorno. I tubi
nascosti che proiettavano una luce
fluorescente sul piano di lavoro erano
accesi, e illuminavano Nelson, il suo
gatto, disteso su un fianco a godersi il
calore. Il felino drizzò un orecchio
quando la sentì avvicinarsi ed emise un
brontolio sommesso che i più benevoli
avrebbero potuto interpretare come un
benvenuto. Carol gli accarezzò la testa,
poi notò il pezzo di carta su cui era
disteso. Lo sfilò da sotto il corpo del
felino, ignorandone le proteste.
Ciao, sorella. Lucy è impegnata con un caso di
rapina a mano armata a Leeds domani e giovedì,
abbiamo preso dei biglietti dell’ultimo minuto per
l’opera, quindi stasera sono da lei.
Ci vediamo giovedì sera. Con affetto,
M.
Carol accartocciò il pezzo di carta e lo
gettò nel cestino, concedendosi di
immaginare per un momento come
sarebbe stato trascorrere una serata a
teatro in buona compagnia. Qualunque
cosa sarebbe stata meglio che rimanere
una notte da sola nel loft. Aprendo il
frigorifero in cerca della scatola di cibo
per gatti piena per metà, Carol si sentì
irresistibilmente attratta dal Pinot Grigio
sistemato sul supporto portabottiglie
dello sportello. Prese entrambe le cose,
diede da mangiare al gatto e contemplò
il vino.
Nella sua battaglia per rimettersi in
sesto, Carol aveva desistito dal cercare
conforto nell’alcol, frenata dalla
promessa di un oblio facile e immediato.
Si era detta che avrebbe superato le
conseguenze dello stupro a mente lucida.
Voleva affrontarlo, contrastarne gli
effetti e rimettere insieme i cocci
nell’ordine giusto. Ma quella notte
desiderava solo cancellare tutto. Non
sopportava l’idea di chiudere gli occhi e
rivedere le immagini che si era portata a
casa dall’obitorio. Senza un anestetico,
non sarebbe riuscita a dormire. Se non
avesse dormito, non sarebbe stata
abbastanza lucida nel dare la caccia
all’assassino di Sandie Foster. Carol
frugò nel cassetto delle posate in cerca
del cavatappi e aprì la bottiglia,
impaziente. Con un calice pieno in
mano, si appoggiò al piano di lavoro e
affondò le dita nella pelliccia di Nelson,
grata per il battito del suo piccolo cuore
sotto la sua pelle.
Ventiquattr’ore prima, l’unica cosa che
la accomunava a Sandie era il genere
sessuale. Ma quello che era successo
alla prostituta aveva creato una sorta di
affinità con la donna incaricata di
catturare il suo assassino. A entrambe
era stato imposto il ruolo della vittima,
perché entrambe erano colpevoli di
essere donne in un mondo in cui alcuni
uomini non sopportavano di sentirsi
impotenti. Sandie non meritava ciò che
le era successo più di quanto non lo
avesse meritato Carol.
L’ispettrice cominciò a bere,
rabboccando il bicchiere non appena si
svuotava per metà. Conosceva il terrore
che doveva aver provato Sandie quando
aveva capito di non poter sfuggire al suo
aggressore. Conosceva il senso di totale
impotenza, conosceva la paura assoluta
di una preda che non ha difese contro il
suo predatore. Ma in un certo senso, per
quanto perverso potesse sembrare,
Sandie era stata più fortunata di Carol.
Lei non avrebbe mai dovuto trovare il
modo di vivere con ciò che le era stato
fatto.
Tony era accanto a Carol, lo sguardo
fisso sul volto senza vita di Sandie
Foster. Non gli dispiaceva assistere alle
autopsie. In verità, lo intrigava
osservare il patologo svelare i messaggi
custoditi dai morti. Anche Tony leggeva
i cadaveri, ma quello che vedeva lui era
un testo differente. Ciò che lo
accomunava con il medico legale era
che entrambi ricavavano informazioni
sull’assassino attraverso la sua vittima.
Il corpo giaceva in una macchia di
luce alogena, il resto della stanza era
avvolto in un collage di ombre. Il dottor
Vernon, il medico legale, era chinato sul
cadavere. Era uno spettacolo di
raccapricciante contrasto. Dalla vita in
giù, il corpo di Sandie era ancora
incrostato di sangue, uno studio in rosso.
Sopra la vita, era apparentemente
inviolato. I sacchetti di plastica che le
coprivano le mani oscuravano in parte i
lividi sui polsi, lasciando intatta
l’illusione di incolumità. «Malnutrita»
disse Vernon. «Sottopeso per la sua
altezza. Segni di abuso di droga per via
endovenosa.» Indicò i segni di puntura
sulle braccia di Sandie.
Si sporse in avanti e le aprì la bocca
con delicatezza. «Lievi ematomi
all’interno della bocca. Molto
probabilmente dovuti al bavaglio che
abbiamo rimosso. Segni di abuso
prolungato di anfetamina.»
«So che odia quando saltiamo alle
conclusioni» disse Carol. «Ma è già in
grado di darmi indicazioni sulla causa
del decesso?»
Vernon si voltò e le sorrise
freddamente. «Vedo che non ha imparato
a essere paziente durante la sua assenza,
Carol. Per ora, non vedo nulla che
contraddica la risposta più ovvia. È
morta dissanguata in seguito a delle
ferite inferte per via vaginale. Il tessuto
è stato macerato fino a diventare
irriconoscibile. Non un bel modo di
andarsene.»
«Non è morta subito?» chiese Carol.
Tony avvertì l’agitazione che emanava.
Avvertiva anche l’odore stantio di alcol
nel suo alito. Lui stesso non era riuscito
a dormire per più di quattro ore. Dio
solo sapeva quanto Carol avesse
riposato tra la bottiglia e l’obitorio. Di
certo non abbastanza, a giudicare dai
solchi scuri sotto i suoi occhi.
Vernon scosse la testa. «No. Nessun
segno di emorragia arteriosa. Il
dissanguamento è stato lento.
Probabilmente è rimasta in vita in stato
di shock per un’ora o più. Il dolore sarà
stato terribile.»
L’informazione fu accolta da un lungo
silenzio. Tony sperò che Carol non si
stesse immedesimando nella sofferenza
di Sandie. Allontanò il pensiero.
Doveva smetterla di concentrarsi su di
lei. Aveva un lavoro da svolgere, e
sebbene svolgerlo sarebbe stato più
facile se fosse riuscito ad aiutare Carol
sul piano personale, doveva mantenere
una distanza tale da permettergli di fare
ciò per cui era pagato. Entrare nella
mente di un assassino non era mai un
compito semplice, e il dottore non
poteva permettersi di ignorare
un’opportunità come quella di trovare
una via d’accesso.
Una morte lenta e dolorosa. «L’ha
guardata morire» disse, a bassa voce.
Carol si voltò di scatto. «Cosa?»
«È questo il punto di una morte lenta.
L’assassino vuole assaporare la sua
creazione. È possibile che l’abbia
registrata. Su cassetta, probabilmente.
Ma varrebbe la pena perquisire la stanza
in cerca di telecamere a fibre ottiche.
Non si può escludere che il killer
volesse assistere alla scoperta del
cadavere.»
«È rimasto con lei finché non è
morta?»
Tony annuì. «Un rischio non
indifferente. Questo indica sicurezza.
Conosceva la routine di Sandie
abbastanza bene da essere sicuro che
nessuno li avrebbe disturbati. È
probabile che l’avesse già pagata per
fare sesso altre volte, per tastare il
terreno. Non sarà riuscito ad avere un
rapporto sessuale, ma avrà voluto
parlare, scoprire le sue abitudini.
Dovreste chiedere in giro, potrebbe
averne parlato con le altre ragazze.»
Carol memorizzò le informazioni per
uso futuro. Vernon sfilò i sacchetti di
plastica dalle mani di Sandie e cominciò
a cercare residui sotto le unghie. «Che
mi dice dell’ora della morte?» chiese
Carol.
«Che è una scienza imprecisa nel
migliore dei casi» disse Vernon, in tono
ironico. «Penso si possa fissare tra la
mezzanotte e le otto di ieri mattina.»
«Suppongo non ci sia modo di sapere
se abbia avuto rapporti sessuali prima di
essere attaccata» disse Carol.
«Decisamente no. I danni subiti dai
tessuti sono talmente gravi che sarà
impossibile stabilire la presenza di
contusioni ante mortem. Per quel che
vale, non ci sono segni evidenti di
penetrazione anale.»
Prima che Carol potesse rispondere, la
porta alle loro spalle si aprì. Tony si
voltò. Gli bastò un solo sguardo per
capire che la donna che aveva varcato la
soglia era un’agente di polizia. C’era
qualcosa di inequivocabile nell’aria di
disinvolta autorità che emanava in quel
contesto. Indossava un cappotto lungo di
pelle nera, il colletto sollevato per
proteggersi dal vento che soffiava
all’esterno; sembrava pronta a sostenere
un provino per la versione femminista di
Matrix. Guardò a stento il corpo disteso
sul tavolo prima di dirigersi verso
Carol.
«Giorno, ispettrice capo Jordan»
disse. «Il signor Brandon mi ha detto che
l’avrei trovata qui.»
Carol nascose la sua sorpresa, a tutti
tranne che a Tony. Il dottore la
conosceva abbastanza bene da notare
l’inarcarsi impercettibile delle
sopracciglia, il leggero sgranarsi degli
occhi. «Sergente Shields» disse Carol.
«Come mai qui?»
«Il signor Brandon non l’ha
chiamata?» Il volto di Jan mostrava
costernazione.
«No.»
«Ah. Suppongo le abbia lasciato un
messaggio in segreteria. Ho provato a
contattarla io stessa prima, ma senza
successo. Ad ogni modo, il capo ha
deciso di affiancarmi alla sua squadra
per quest’indagine. Dice che si ritrova
con un sergente in meno del previsto e
crede possa tornarvi utile qualcuno che
conosce le strade.»
«Ha senso.» La voce di Carol era
glaciale. A quanto pareva, Brandon si
stava già rimangiando la promessa di
lasciarle campo libero, e questo diceva
delle cose sul suo conto che Carol non
gradiva.
«È quello che pensa anche lui» disse
Jan, girandosi verso Tony. «E questo
dev’essere l’uomo che legge nei nostri
pensieri.»
Tony assunse l’espressione di chi
aveva già sentito quelle parole un
milione di volte. «Solo in quelli dei
predatori sessuali seriali.»
Jan rise. «I miei segreti sono al sicuro,
allora.» Allungò una mano. «Sono Jan
Shields.»
Tony le strinse la mano. Forte, calda.
Esattamente quello che si aspettava da
chi aveva appena dimostrato una
notevole sicurezza di sé.
Jan si voltò nuovamente verso Carol.
«Un’altra che ha tirato le cuoia, eh?»
«In modo particolarmente spiacevole»
disse Carol, cercando di trattenersi.
Jan scrollò le spalle, avvicinandosi
per vedere meglio cosa stesse facendo
Vernon. «È un lavoro rischioso.»
«Lo è anche fare il poliziotto» disse
Carol. «Ma quando uno di noi muore, gli
viene mostrato un po’ di rispetto.»
Jan abbozzò un sorriso di scuse. «Mi
dispiace, non intendevo essere
indelicata. Ma quando si lavora alla
buon costume, cominciano a sembrare
tutte dei pezzi di carne dopo un po’.»
Tony non fu sorpreso
dall’atteggiamento di Jan. Aveva
conosciuto fin troppi poliziotti – e
psicologi clinici – a un passo
dall’esaurimento per non compatire i
meccanismi protettivi che finivano con
l’adottare. Si spostò, avvicinandosi al
tavolo. «Si occupò lei delle autopsie
due anni fa?» chiese.
Vernon annuì. «Sì.»
«Cosa ne pensa?» chiese Tony.
«Se non sapessi che è impossibile,
direi che questa donna è una vittima
dello stesso assassino. Lo schema delle
ferite è alquanto peculiare. Unico, in
realtà. L’unica volta che ho visto una
cosa simile è stata nel caso di Derek
Tyler, negli omicidi per cui è stato
giudicato colpevole.»
«Cosa usava? Una specie di coltello?»
«Se ricordo bene, Tyler non ha mai
rivelato l’arma del delitto. Allora,
ipotizzai si trattasse di un oggetto fatto in
casa» disse Vernon. «Di sicuro le ferite
non combaciano con nessuno strumento
di mia conoscenza. Consultai anche un
collega esperto nell’analisi delle ferite e
nell’identificazione delle armi usate per
infliggerle.»
«Quindi, che genere di oggetto fatto in
casa?» lo interruppe Carol.
Vernon osservò la lama del suo bisturi.
«Difficile dirlo con certezza. Le ferite
combaciano con una lama stretta e
flessibile. Una lametta più che un
taglierino. Ma ci sono dozzine, centinaia
di tagli. L’ipotesi più plausibile a cui
siamo giunti io e il mio collega è che si
tratti di qualcosa di simile a un vibratore
con una serie di lamette conficcate
all’interno, in profondità.»
Carol inspirò rumorosamente. «Gesù»
disse.
«Pericolo, squilibrati all’opera» disse
Jan, in tono amaro. «Non è così, dottor
Hill?»
Tony si accigliò. Non aveva senso.
Non quadrava nulla. Se la polizia avesse
preso l’uomo sbagliato, il vero
assassino avrebbe dovuto reagire
reclamando una nuova vittima,
immediatamente. Chi commette omicidi
a sfondo sessuale non gradisce che altri
si prendano il merito del proprio lavoro.
Aspettare due anni per colpire di nuovo
non aveva alcun senso. Tony aveva
bisogno di ragionarci su. «Carol?» disse
a bassa voce.
Ma l’attenzione dell’ispettrice era
altrove. Fece un cenno col capo verso di
lui, senza incrociare il suo sguardo.
«Jan, il dottor Hill crede che il nostro
uomo sia stato con Sandie altre volte,
prima di ieri notte. Puoi scoprire con chi
se la faceva, se per caso abbia mai
parlato di un cliente che voleva farla
parlare di sé stessa? È probabile che
non riuscisse a mantenere un’erezione.»
Jan sbuffò. «Be’, questo non restringe
il campo. Rimarrebbe sorpresa dalla
quantità di tizi che non riescono a
farselo alzare quando serve. È per
questo che spesso le ragazze vengono
picchiate. Ma sì, posso provarci.»
Strinse il colletto del cappotto attorno
alla gola. «Chiederò in giro. A più
tardi.»
Tony la osservò svanire nell’ombra,
aspettando di sentire la porta chiudersi
alle sue spalle prima di tornare accanto
a Carol. C’era silenzio nella sala,
eccetto per il tintinnio metallico di
Vernon che cambiava uno strumento di
dissezione per un altro. «Carol,
ribadisco quello che ho già detto. È uno
scenario impossibile. Se Derek Tyler ha
davvero commesso gli omicidi per cui è
stato condannato, la possibilità che un
altro individuo provi soddisfazione
nella replica esatta dei suoi crimini
supera i limiti della plausibilità. Va
contro ogni verità psicologica che io
conosca. Qualcuno sta lavorando da
dietro le quinte, sta creando la scena che
vuole farci vedere.»
«Ma le prove scientifiche...»
«Ricordo cos’hai detto» la interruppe
Tony. «Ma la tua squadra dovrebbe
ritornare sul caso, assicurarsi che non ci
siano possibilità di aver commesso
errori. E se ce n’è anche solo una,
dovete cominciare a cercare qualcuno
che sia stato rilasciato di prigione o dal
Bradfield Moor di recente dopo una
detenzione di due anni. È l’unica
spiegazione che dia senso al periodo di
inattività. Perché sarei pronto a
scommetterci la reputazione che
chiunque abbia ucciso quelle donne due
anni fa, abbia ucciso anche Sandie
Foster.»
Carol lo guardò, un barlume di idea
prese forma nella sua testa. «Tony? E se
fosse proprio questo che vuole
l’assassino?»
«Come?» Il dottore sembrava
perplesso.
Le parole fuoriuscirono precipitose
dalle labbra di Carol. «E se chi ha
ucciso Sandie Foster facesse
affidamento sul fatto che è proprio
questa la conclusione a cui porta la
logica? E se uccidere Sandie avesse un
secondo fine? Se il vero scopo
dell’assassino fosse annullare la
condanna di Derek Tyler?»
Tony inclinò la testa, riflettendo. «E
funzionerebbe? Ci si potrebbe basare un
ricorso? Nonostante le prove
schiaccianti a carico di Tyler?»
«Si potrebbe sicuramente provare.
Specialmente con qualcuno come te sul
banco dei testimoni pronto a
scommetterci la tua notevole
reputazione.»
«Ah» disse il dottore. «Quindi
suppongo di non dover urlare le mie
opinioni ai quattro venti.»
«Specialmente non nei paraggi di
avvocati e giornalisti» disse Carol. «Ma
cosa ne pensi? Credi sia sufficiente
come movente?»
«Difficile dirlo. Dovrebbe essere
qualcuno che tiene molto a Derek Tyler,
e abbastanza intelligente da sapere come
manovrarci. Non è uno scenario
probabile, ma è possibile.» Sorrise.
«Ecco perché lavoriamo così bene
insieme. Tu pensi come un detective, io
come un malato di mente.»
Dopo la visita all’obitorio, fu quasi un
sollievo ritornare al Bradfield Moor.
Gli addetti alla sicurezza all’entrata gli
dissero dove trovare Derek Tyler. Dato
che era stato classificato come detenuto
non violento, gli era concesso
consumare i pasti in sala mensa con altri
della sua stessa categoria. La sala
somigliava a un fienile dal soffitto basso
e puzzava di olio fritto e cavolo
bruciato. Le pareti erano dipinte di
indaco e giallo, in linea con quella che
Tony considerava segretamente la
scienza spazzatura della cromoterapia.
Qualsiasi effetto benefico potesse avere
l’arredo era probabilmente
compromesso dai graffi e dalle macchie
che insozzavano le pareti dal pavimento
al soffitto. Attraverso il vetro di
sicurezza delle finestre si vedeva un
cespuglio di arbusti formato da alloro
giapponese e rododendro. Se non sei
depresso quando entri, pensò Tony, lo
diventi qui dentro.
Chiese a un inserviente di indicargli
Tyler, poi prese un vassoio di
maccheroni al formaggio e piselli e
scelse un tavolo defilato da cui
osservare l’uomo giudicato colpevole di
aver ucciso quattro prostitute in sei
mesi, un uomo che incolpava la voce
nella sua testa per la sua brama omicida.
Alcuni pazienti lanciarono uno sguardo a
Tony, qualcuno di loro fissandolo
apertamente. Ma nessuno gli si avvicinò.
Tyler era un individuo smilzo e
scheletrico di circa venticinque anni.
Era curvo sul suo piatto di salsiccia,
uova e patate fritte come uno spilorcio
davanti a un mucchio d’oro, il capo
chinato ostruiva la visuale di Tony, che
non vedeva altro se non la testa rasata e
i tatuaggi sugli avambracci ossuti.
Il dottore consumò il suo pranzo
distrattamente, mandando giù il cibo
insipido con del tè dal sapore robusto.
Nell’atteggiamento di Tyler non c’era
alcuna traccia dei tic fisici tipici dei
soggetti ossessivo-compulsivi.
Mangiava con una lentezza estrema,
come se volesse prolungare il pasto il
più possibile. Buona strategia per
passare il tempo, pensò Tony.
Tyler era agli ultimi bocconi quando
Aidan Hart occupò una sedia vicino al
dottore. «Non mi aspettavo di vederti
qui oggi» disse.
«Non preoccuparti, non ti chiederò gli
straordinari» rispose Tony.
«Sai, abbiamo cibo migliore nella
mensa del personale.»
«Lo so. Ma volevo osservare un
paziente.»
Hart annuì. «Derek Tyler.» Notando
l’espressione sorpresa di Tony,
aggiunse: «Me lo hanno detto quelli
della sicurezza quando sono arrivato.
Perché ti interessa Tyler?»
«La polizia di Bradfield ha trovato un
cadavere la notte scorsa. Un omicidio.
Mi hanno contattato per una
consulenza.» Alla menzione della
polizia, Hart drizzò le orecchie,
l’interesse si fece evidente nei suoi
occhi. Tony capì che il suo istinto non
aveva fallito nell’etichettare Aidan Hart
come arrivista. Proprio quello che ci
voleva. Altri giochetti politici in cui lui
era pessimo. Doveva gestire la
situazione con estrema attenzione.
«All’apparenza sembrerebbe una replica
degli omicidi di Derek Tyler.»
Hart si massaggiò il mento
perfettamente rasato. «Interessante.»
«Oh, sì. Interessante è dir poco.» Tony
finì il suo tè. «Sembra un po’ giovane
per questo tipo di crimine.»
«Suppongo che i profili possano
essere imprecisi a volte» ammise Hart
con tranquillità. «In fondo sottostanno
alle leggi della probabilità.»
«È per questo che ricordo sempre alla
polizia che non si tratta di una scienza
esatta. Allora, cosa sai dirmi su di lui?»
Hart spostò lo sguardo su Tyler, che
ora aveva finito di mangiare e fissava il
piatto vuoto. «Molto poco. È uno dei
pazienti meno collaborativi che abbia
mai visto. Non fraintendermi, non è
indisciplinato. L’opposto, direi. È
completamente passivo. Non dà alcun
problema in questo senso. Ma per altri
versi è assolutamente intrattabile. Non
partecipa ad alcuna attività del regime
terapeutico. Non parla. Ma non è
catatonico. Semplicemente non vuole
parlare.»
«Ha mai dato problemi?»
«Solo una volta. Abbiamo delle radio
integrate in ogni stanza. I pazienti
possono scegliere tra una dozzina di
stazioni preselezionate, e noi possiamo
sfruttare il sistema per comunicazioni e
avvisi. Derek non usa mai la sua, ma un
giorno qualcosa è andato storto. La
radio si è accesa e non si riusciva più a
spegnere. Derek ha perso la testa. Ha
distrutto la camera e aggredito gli
infermieri. Abbiamo dovuto sedarlo, e si
è rifiutato di tornare in camera finché la
radio non è stata rimossa.»
Tony abbozzò un sorriso.
«Interessante» disse. Se Hart notò l’eco,
non lo diede a vedere.
«Ma poco illuminante.»
Tony ignorò il commento. Non era
pronto a condividere le sue ipotesi con
nessuno, di certo non con qualcuno da
cui l’istinto lo metteva in guardia. «Cosa
sappiamo di lui prima degli omicidi?»
Tony osservò i movimenti delle
pupille di Hart; indicavano che stava
ricordando, non inventando. «Non
molto» disse Hart, dopo una breve
pausa. «Quasi un soggetto con bisogni
speciali. Stando al rapporto del medico
di base, era altamente suggestionabile,
ansioso di compiacere, con lievi
tendenze ossessivo-compulsive. Ma
niente che richiedesse una terapia. E
niente che indicasse una propensione per
una carriera da serial killer. Ma
d’altronde, cosa ne sanno i medici di
base?» Il suo era un sorriso di
complicità, da esperto a esperto,
studiato per costruire un’alleanza. Tony
lo lesse per ciò che era e lo combatté
istintivamente. Hart allontanò la sedia
dal tavolo. «Vuoi incontrarlo?»
«Apprezzerei se tu potessi organizzare
un incontro. L’ideale sarebbe parlargli
nella sua stanza, se è possibile.»
Hart sembrò sorpreso. «Non è la
prassi consueta. Di solito incontriamo i
pazienti in una delle sale colloqui.»
«Lo so. Ma vorrei osservarlo nel suo
ambiente. Vorrei che si sentisse in
controllo, per quanto possibile. E poi, lo
hai detto tu stesso, non è violento.»
Osservò Hart mentre ponderava le
argomentazioni e decideva di
assecondarlo. «Va bene. Ti chiamerò
quando sarà il momento. Ma ti avverto,
sarà una perdita di tempo. Non ha
parlato con nessun membro dello staff
medico da quando è entrato qui dentro.»
Tony continuò a fissare Derek Tyler
mentre Hart si allontanava. «Ti piace la
voce, non è così, Derek? Ti piace
ascoltarla. Non vuoi interferenze. Cosa
devo fare per indurti a voler ascoltare la
mia?»
Quando si era svegliata solo tre ore
dopo essersi addormentata, Carol aveva
incolpato la carenza di sonno per la sua
pessima forma. Ma nel corso della
mattinata, era risultato evidente che in
realtà avesse i postumi di una sbornia.
Si sentiva come se qualcuno le stesse
affondando un coltello nel cervello dopo
aver aumentato senza pietà il voltaggio
delle luci. Eppure, ne era valsa quasi la
pena, considerato il torpore privo di
sogni che aveva tenuto alla larga le
immagini angoscianti della morte di
Sandie Foster. Bevve un lungo sorso di
acqua da una bottiglia e osservò la sua
squadra. Sembravano tutti più freschi di
lei. Uscì dal suo ufficio e si mise di
fronte alla lavagna bianca già piena di
foto di Sandie, da viva e da morta.
«Buongiorno» disse Carol, cercando
di trasmettere un’energia che non aveva.
«Sandie Foster è morta tra la mezzanotte
e le otto di martedì mattina. Questo vuol
dire che probabilmente è stata attaccata
tra le dieci di lunedì sera e le quattro
della mattina di martedì. Considerando
che era solita staccare alle dieci,
possiamo ipotizzare che fosse insieme
all’assassino prima di quell’ora.
Secondo il dottor Vernon, è morta
dissanguata in non meno di sessanta
minuti. Il dottor Hill, che ci assisterà in
questo caso, crede che il killer sia
rimasto con lei mentre moriva. Perciò
cerchiamo qualcuno che abbia un buco
di due o tre ore di cui non può rendere
conto.» Si voltò verso la lavagna bianca
e appuntò la linea temporale. «Le analisi
preliminari della scientifica indicano
che non avremo molto su cui lavorare.
Un mucchio di impronte, ma nessuna
sulle manette o sulla spalliera. Sono
state pulite entrambe. Il piano del
tavolino era rivestito di panno verde,
perciò neanche quello ci sarà di aiuto. È
molto probabile che le impronte rilevate
siano di clienti che non hanno nulla a
che fare col nostro caso. Tuttavia, se e
quando avremo dei riscontri, sarà nostro
dovere approfondire. Non sono state
trovate tracce di sperma per ora. I
ragazzi del laboratorio stanno cercando
tracce di sangue che non appartengano a
Sandie, ma le possibilità di trovare
qualcosa di utile sono poche.» Carol si
appoggiò al bordo della scrivania,
facendo ordine nei suoi pensieri. «So
che siete tutti a conoscenza delle
analogie tra questo caso e una serie di
omicidi che ha avuto luogo due anni fa.
Tuttavia, non c’è nulla che suggerisca
che la condanna di Derek Tyler fosse
ingiustificata. Ho letto i fascicoli, e
anche senza un’ammissione di colpa, è
raro disporre di prove più schiaccianti
di quelle raccolte. Quindi, sebbene
tratteremo questo come un caso singolo,
dobbiamo considerare la possibilità che
Derek Tyler si sia fatto un fan un paio di
anni fa. Un bastardo malato che vuole
replicare i suoi crimini. Non è da
escludere che qualcuno voglia far
rilasciare Tyler dal Bradfield Moor e
che abbia deciso di farlo in questo
modo: creare un legame tra i due casi è
tutto ciò che serve a provare un errore
giudiziario.»
«Non crede che sia un po’
inverosimile, signora?» la interruppe
Don Merrick.
«Al momento, Don, non escludo alcuna
possibilità, per quanto assurda possa
sembrare.» Carol notò Paula incrociare
lo sguardo di Merrick e scuotere
lievemente la testa. Voleva forse dire
che la detective non aveva più fiducia
nel suo capo? O era solo la paranoia di
Carol? Forse Paula agiva per il bene
della squadra, avvertendo Don che era
inopportuno mettere in dubbio il parere
del capo davanti a tutti? Carol si schiarì
la gola e continuò. «Sappiamo tutti che
la somiglianza con gli omicidi
precedenti rende il caso complicato. Ma
voglio che quest’informazione rimanga
tra queste mura. Non parlate con la
stampa. Lasciatelo fare a me e al capo
Brandon. Ora, cosa sappiamo?»
Non molto, pensò Carol tristemente
mentre la sua squadra riassumeva gli
scarsi risultati ottenuti fino ad allora.
Nessuno aveva visto Sandie in
compagnia di un cliente dopo le nove.
Sua madre, distrutta dal dolore, non
sapeva nulla della vita parallela di sua
figlia. Tra le due c’era un tacito
accordo: quello che Sandie faceva per
guadagnarsi da vivere non era
argomento da trattare tra le mura di casa.
L’unica pista che avevano era che
Sandie era stata vista salire su un
Freelander nero 4x4 intorno alle otto e
mezza. Una prostituta collaborativa
aveva annotato le ultime tre cifre del
numero di targa.
«Okay» sospirò Carol. «Kevin,
concentrati sulla targa. È probabile che
non sia il nostro uomo, ma se
scoprissimo dove l’ha lasciata
potremmo restringere il lasso temporale
in cui ha agito l’assassino. Don, Paula,
confrontate le testimonianze di chi era in
quella strada l’altra notte. Lavorate
insieme a Stacey per creare uno schema
preciso di chi c’era, quando e dov’era.
Ci aiuterà a capire chi varrebbe la pena
interrogare di nuovo. Stacey, continua a
lavorare sui file di Ron Alexander nel
frattempo. Non perdiamo di vista le
priorità. Jan, tu sei con me. Sam,
comincia a rintracciare le vecchie
conoscenze di Derek Tyler. Voglio il
resto di voi sulle strade di Temple
Fields. Setacciatele. Voglio che
interroghiate chiunque fosse fuori casa
lunedì sera.»
Un brusio riempì la stanza mentre gli
agenti iniziavano a organizzarsi. Jan
Shields zigzagò tra la folla e raggiunse
Carol prima che entrasse nel suo ufficio.
«Cos’ha in mente per noi?» disse Jan,
seguendo l’ispettrice nell’ufficio.
«Kevin ha fatto un buon lavoro con
Dee Smart, ma credo che la ragazza non
ci abbia detto tutto. È sempre utile
provare un approccio diverso. E credo
che tu sappia come muoverti in questo
senso.»
Jan si appoggiò allo stipite della porta.
«Certo. È probabile che si riveli una
perdita di tempo, ma non si sa mai.»
«Sempre meglio di starcene con le
mani in mano.» Carol apriva e chiudeva
i cassetti della scrivania in cerca del
paracetamolo che era sicura di aver
messo lì da qualche parte. Non ce n’era
traccia. Avrebbe dovuto cavarsela
senza.
«Crede davvero che qualcuno stia
cercando di scagionare Derek Tyler?»
chiese Jan.
Carol alzò lo sguardo. «Non lo so. Ma,
francamente, è l’alternativa più
rassicurante.»
Tony bussò sulla porta aperta e
aspettò. Silenzio. Valeva la pena
provare, pensò, per niente sorpreso dal
fallimento di quella tattica. Fece
capolino oltre lo stipite. Derek Tyler
sedeva sul letto, le ginocchia piegate, le
braccia avvolte attorno alle gambe.
«Posso entrare?» chiese Tony.
Tyler non si mosse. «Lo prenderò
come un sì.» Tony entrò nella stanzetta,
tenendo lo sguardo su Tyler. Avrebbe
avuto tutto il tempo di osservare la
stanza senza dargli la sensazione che il
suo ambiente fosse sotto scrutinio. «Mi
siedo, okay?» continuò Tony,
avvicinandosi all’unica sedia di legno
accostata a un tavolo spoglio.
Prese la sedia e la posizionò di sbieco
rispetto a Tyler. Assunse una postura
volutamente rilassata. Aperta e innocua.
Tyler mosse la testa in modo che Tony
uscisse dal suo campo visivo. Il dottore
intravide un volto ossuto con occhi
chiari e infossati. Aveva l’impressione
che Tyler fosse perfettamente in grado di
relazionarsi con gli altri ma che
scegliesse di non farlo. «Mi chiamo
Tony Hill» disse il dottore. «Lavoro per
l’ospedale. Ma collaboro anche con la
polizia. È per questo che vorrei parlare
con te.» Aspettò, notando quanto la
camera fosse spoglia. Sembrava la cella
di un monaco. Niente libri, niente
fotografie di famiglia appuntate alle
pareti, niente poster di modelle nude.
L’unico oggetto personale era un’ampia
cornice che ospitava una fotografia in
bianco e nero di Temple Fields con le
sue strade pedonali fiancheggiate dal
canale.
Dopo alcuni minuti, Tony decise che
era il momento di agire. Sapeva che la
sua era una strategia elementare. Ma era
la migliore che fosse riuscito ad
approntare con così poco preavviso e
con un paziente con cui non aveva
precedenti clinici. «Capisco che tu non
ne voglia parlare. Chi potrebbe mai
capire com’è stato fare le cose che hai
fatto?»
Tyler si mosse quasi
impercettibilmente, ma il suo viso
ossuto rimase girato. Tony abbassò la
voce. Era calda ora, il suo tono
comprensivo. «Ma non è questo il
problema, non è così? Il fatto è che
quando cominci a parlare, tutti vogliono
parlare con te a loro volta. E così non
puoi sentire la voce. Giusto, Derek?»
Tyler si voltò di scatto, per un attimo.
Un’espressione sorpresa dipinta sul
viso. Fu una reazione così fulminea che
Tony credette quasi di averla
immaginata. «È ancora lì, vero?» disse.
Aspettò un paio di minuti prima di
parlare di nuovo. «La senti quando non
parlo. Giusto?»
Nessuna risposta da Tyler. Ma
quell’unico sguardo aveva confermato al
dottore che la strada era quella giusta.
«Ma la voce può solo dirti quello che è
successo prima. Non può dirti cosa
succede ora, fuori da qui. Devi fare
affidamento su di me per questo. Sai
perché? Sai perché si è azzittita? Perché
la tua voce sta parlando a qualcun altro
adesso.»
Tyler si girò con tutto il corpo finché
non fu faccia a faccia con Tony. Il
dottore aveva tutta la sua attenzione ora.
Gli occhi grigio-azzurri di Tyler lo
fissavano, nascosti dalle folte
sopracciglia. Tony allargò le mani con
fare conciliatorio. «Mi dispiace, Derek,
ma è così. Tu sei rinchiuso qui dentro,
non servi a nulla ormai. Ti ho detto che
collaboro con la polizia. La ragione per
cui sono qui è che qualcun altro sta
facendo esattamente quello che hai fatto
tu, Derek. E questo perché la voce non
parla più con te ora. Parla con lui.»
Gli occhi di Tyler si infiammarono,
rabbiosi. Le mani strinsero la presa, le
vene sulle sue braccia gracili si tesero
come corde. Tony si chiese se qualcuno
dello staff di Aidan Hart avesse mai
provocato una simile collera in Tyler.
Ne dubitava. Se avessero visto ciò che
stava vedendo lui, Tyler non sarebbe
stato classificato come non violento. «La
voce ti ha lasciato per qualcun altro.
L’unica cosa che ti rimane sono i
ricordi.»
All’improvviso Tyler schizzò in piedi
e oltrepassò Tony, diretto verso la porta.
Premette il pulsante di chiamata sulla
parete e sbatté un pugno sulla porta.
Tony continuò a parlare come se non
fosse successo nulla. «Ho ragione, vero?
La voce non è più tua. Tanto vale
parlare.»
Nel corridoio apparve un infermiere in
camice bianco. Alle sue spalle, Tony
notò Aidan Hart. Tyler se ne stava in
piedi vicino alla porta con aria docile.
«Che è successo?» chiese l’infermiere.
Tony sorrise. «Credo che Derek voglia
andarsene e riflettere su ciò che gli ho
detto. Non è così, Derek?»
«Lei sta bene, dottore?»
«Sto bene. Io e la mia voce non siamo
mai stati meglio.»
L’infermiere spostò lo sguardo da Tony
a Tyler e viceversa, incapace di
comprendere cosa stesse accadendo.
«Vieni allora, Derek. Ti accompagno
nella sala comune.» L’infermiere allungò
una mano verso il braccio di Tyler.
Sulla soglia, Tyler si voltò e ringhiò
con una voce arrugginita dal disuso: «Tu
non sei la voce. Non potresti mai essere
la voce.»
Aidan Hart rimase a bocca aperta.
Senza parole, guardò Tyler allontanarsi
nel corridoio a testa alta e spalle dritte.
Tony si alzò e mise a posto la sedia.
«Be’, è un inizio» disse sorridente,
superando il suo nuovo capo a passo
svelto.
Lo Stan’s Café non figurava in nessuna
delle guide turistiche di Bradfield.
Anche i siti indipendenti, che si
vantavano di offrire ai propri lettori
l’esperienza ‘autentica’ normalmente
riservata ai soli indigeni della cittadina,
si vedevano bene dal menzionare quella
bettola frequentata principalmente da
prostitute, gigolò, senzatetto e
spacciatori. Al contrario di altri
localacci mal frequentati che rientravano
in guide alternative, nessuno andava allo
Stan’s per il cibo. La clientela che
frequentava il locale lo faceva per
ripararsi dal freddo e dalla pioggia.
Quando negli anni Novanta Temple
Fields aveva cambiato look per
diventare il quartiere gay della città, i
proprietari dei locali erano diventati più
selettivi sulla clientela a cui era
permesso varcare la soglia,
specialmente se si trattava di clienti
capaci di sorseggiare mezza pinta per
ore. L’unico beneficiario di questo
approccio più rigido era stato lo Stan’s
Café. A Fat Bobby, il proprietario, non
importava chi occupasse i sedili in
vinile lacerati e appiccicosi purché
comprasse cibo, alcol e sigarette.
Quella mattina, mezza dozzina di
tavoli era occupata. Due giovani asiatici
erano chini su un piatto di uova e toast,
un rotolo portagioielli in velluto pieno
di orologi falsi giaceva seminascosto tra
di loro. Era evidente che fossero fratelli.
Condividevano gli stessi lineamenti tesi
e spigolosi, le stesse labbra cadenti
sporche di ketchup. Tra un boccone e
l’altro, discutevano di prezzi e strategie
di promozione. Un ragazzo allampanato
oziava appoggiato a una slot machine,
corrugando la fronte mentre i rulli
giravano e rivelavano la combinazione
finale in risposta alle monete date in
pasto alla macchina da un ragazzotto
tarchiato con i capelli scuri. «Perché
continui se non vinci?» chiese lo
spettatore.
«Se non gioco, non vinco, no?» grugnì
il giocatore. «Levati dalle scatole, porti
iella.»
Dee Smart sedeva a un tavolo in un
angolo del locale vicino alla toilette,
spalle alla porta, rannicchiata a fumare
una sigaretta. Aveva le palpebre gonfie e
pesanti, le labbra tese, gli angoli della
bocca rivolti verso il basso. Fissava una
tazza grigia piena di caffè, sembrava
avvilita. Un ragazzo goffo, dall’aspetto
non molto sveglio, uscì dal bagno e la
vide. Si sedette di fronte a lei. «Sei
triste per Sandie, Dee?» chiese. Aveva
un difetto di pronuncia che lo portava a
strascicare le parole.
Dee fece un tiro e sospirò. Jason Duffy
era l’ultima cosa di cui aveva bisogno in
quel momento. «Sì, Jason. Sono triste
per Sandie.»
Le diede una pacca sulla mano con
fare impacciato. «Ti serve qualcosa per
stare meglio? Ho fumo buono.»
«Non è una buona idea ora, Jason. Sto
aspettando gli sbirri» disse Dee, con
voce stanca. «E poi, non compro da te.»
Il volto di Jason si contorse in una
smorfia di agitazione. Si alzò di scatto,
quasi cadendo per la fretta. «Ci
vediamo, allora.» Si diresse verso la
porta senza voltarsi.
Il ragazzo alla slot machine abbondonò
la sua postazione e raggiunse il bancone
per ordinare un tè. Le porte del locale si
spalancarono e Jason Duffy rischiò di
andare a sbattere dritto contro Carol
Jordan nella fretta di filarsela.
L’ispettrice lo scansò ed entrò, mentre il
suo stomaco si ribellava all’aria pregna
di fumo e vapore. L’odore di grasso di
pancetta e di aceto cospiravano in un
disgustoso miasma che le fece
rimpiangere, ancora una volta, gli
eccessi della notte precedente. Jan la
seguiva, cercando Dee Smart con lo
sguardo. «Lì giù» disse, indicando Dee
con un cenno del capo. «Vuole un
caffè?»
Carol arricciò il naso. «Stai
scherzando, vero?»
«Non servono acqua minerale qui»
disse Jan, in tono acido. «Una Coca
potrebbe sistemarle lo stomaco.»
Carol cercò di nascondere lo stupore.
«Scusa?»
«È da stamattina che ha una brutta
cera. L’obitorio fa quest’effetto a volte.»
Jan aggirò i tavoli fino al bancone.
Carol la seguì, studiando l’ambiente.
Considerata la quantità di occhi che il
suo sguardo riusciva a incrociare,
sembrava fosse diventata invisibile.
Ogni volta che guardava qualcuno, gli
occhi dell’interessato scivolavano
altrove come acqua su cera. «Chi è
chi?» chiese.
Jan scrutò la sala. «Il ragazzo alla slot
machine è Tyrone Donelan. Ruba auto.»
Come se l’avesse sentita, Tyrone
Donelan lanciò uno sguardo alle sue
spalle e andò dritto verso il bagno.
«I due asiatici sono Tariq e Samir
Iqbal. Smerciano orologi tarocchi, dvd
pirata. Quel genere di cose. Il loro
vecchio è un pezzo grosso in fatto di
contraffazioni. È stato beccato circa un
anno fa, si è fatto tre mesi dentro.»
All’improvviso, gli Iqbal persero ogni
interesse nel loro piatto di uova e toast,
afferrarono il rotolo di orologi e se ne
andarono in tutta fretta.
«Che mi dici del tizio che mi ha quasi
atterrata quando siamo entrate?»
«Jason Duffy. Spacciatore di bassa
lega. Eroina e anfetamina, perlopiù. Non
è molto sveglio. È famoso perché sua
madre è stata la prima persona arrestata
per spaccio a Bradfield.» Indicò il
giovane allampanato con un cenno della
testa. «Quello è un altro della stessa
pasta: Carl Mackenzie. Spaccia
soprattutto alle prostitute. Roba più
varia rispetto a Jason, ma Carl non è
molto più sveglio. Considerato quello
che cerchiamo, entrambi sarebbero utili
quanto una torta al cioccolato.»
Carol annuì. «Grazie.» Avanzò senza
fretta verso Dee e le si sedette davanti.
La ragazza alzò la testa e la squadrò
deliberatamente. Carol osservò i suoi
capelli lisci schiariti con l’henné e gli
occhi stanchi e diffidenti.
«Tu chi sei?» chiese.
«Ciao, Dee» rispose l’ispettrice. «Mi
dispiace non averti potuto conoscere
ieri. Sono l’ispettrice capo Jordan.
Carol Jordan.» Carol sorrise e le porse
una mano.
Evidentemente spiazzata, Dee passò la
sigaretta da una mano all’altra e strinse
quella offerta da Carol. «Ah» disse.
«Quindi sai già chi sono io.»
«Mi dispiace per Sandie» disse Carol.
«Non quanto dispiace a me.»
«Naturalmente. Non era mia amica.
Ma voglio che tu sappia che darò la
caccia a chiunque l’abbia uccisa come
se lo fosse stata.»
La sincerità nella voce di Carol
sembrò penetrare la corazza da dura di
Dee. «È la stessa cosa che ha detto
l’altro tizio alla stazione. Che l’avresti
presa seriamente.» Sembrava sorpresa.
Jan si avvicinò al tavolo con in mano
due lattine di Coca-Cola. Le poggiò sul
tavolo e si lasciò cadere sulla sedia
laterale tra le due donne. «Dee, questa
è...» cominciò Carol.
«So chi è» disse Dee. Il suo
atteggiamento era di nuovo ostile.
«Ciao, Dee. Come stai?» chiese Jan.
«Tu che dici?» Si risistemò sulla sedia
in modo da dare le spalle a Jan.
Carol aprì la lattina della sua Coca-
Cola e fece un sorso. Lo zucchero misto
alla caffeina e alle bollicine la tirò su in
un istante. «So che è un momento
difficile per te, ma abbiamo bisogno del
tuo aiuto.»
Dee sospirò. «Ascolta, come ti ho
detto al telefono, ho detto tutto quello
che so al tizio di ieri sera.»
Jan scosse la testa. «C’è sempre di
più, Dee. Lo sappiamo entrambe. Cose
che credi poco importanti, cose che
credi troppo importanti. Da chi si
riforniva?»
Dee sembrò in preda al panico. Gli
occhi saettarono verso il bancone a cui
era appoggiato Carl Mackenzie.
Reggeva una tazza e parlava con una
ragazza dietro il bancone. «Non lo so»
borbottò Dee.
«Certo che lo sai.» Jan seguì il suo
sguardo, giusto in tempo per vedere Carl
dirigersi verso la porta e lanciare
un’occhiata nervosa nella loro
direzione.
«Era Carl Mackenzie quello che è
uscito giusto adesso?» chiese Jan.
«Non ho gli occhi dietro la testa. E
anche se fosse stato lui? Questo è ancora
un Paese libero, no? La gente può
prendersi una tazza di caffè quando
vuole.» Dee sta parlando troppo, pensò
Carol.
Evidentemente, Jan la pensava allo
stesso modo. «Era Carl lo spacciatore di
Sandie, non è così?»
Dee sbuffò, sprezzante. «Sandie non
era una sbandata. Non so da chi si
rifornisse, ma non da Carl. Okay?
Stategli alla larga, è innocuo.»
«E dovremmo stargli alla larga perché
rifornisce te, giusto?» disse Jan,
strascicando le parole in tono stanco.
«Fanculo. Okay, forse comprava
qualcosa da Jason Duffy, ogni tanto. Ma
è tutto quello che so.»
«Aveva un protettore?» chiese Carol.
Dee scosse la testa. «Ce ne sono meno
di quanto pensi a Temple Fields. Tutto
grazie alla sua gente» disse, indicando
Jan con un pollice.
«Ci siamo liberati della gran parte dei
papponi un po’ di tempo fa» spiegò Jan a
Carol. «Gli abbiamo fatto capire che
avremmo congelato i loro profitti in
base alla legge sui proventi di reato.» Si
voltò verso Dee. «Credevo che voi
ragazze ci avreste ringraziato per averli
tolti di torno.»
«Lo avremmo fatto se allo stesso
tempo non aveste provato a togliere di
torno anche i cazzo di clienti» disse
Dee, piena di rabbia. «Siete voi che ci
avete costretto a lasciare le strade
principali per quelle minori. E ora sta
succedendo di nuovo.»
Carol si rese conto che l’intesa che
aveva stabilito con Dee stava svanendo.
«Vogliamo che non succeda più»
insistette.
«Sì, be’, io vi ho detto tutto quello che
so.» Dee scostò la sedia dal tavolo.
Carol provò con un ultimo, disperato
appello. «Se dovessi ricordare qualsiasi
cosa, per quanto insignificante ti possa
sembrare, potrebbe essere importante
per la nostra indagine, Dee. Siamo qui
per aiutarvi.»
Dee sbuffò. «Sì, be’, farmi vedere allo
Stan’s a parlare con voi sbirri di certo
non mi aiuta a guadagnarmi da vivere.
Me ne vado.»
Afferrò il suo giubbetto di jeans
striminzito poggiato sullo schienale
della sedia e si allontanò a passo svelto.
Carol la seguì con lo sguardo, stufa e
perplessa. «Ieri sera è stata molto più
collaborativa con Kevin» disse.
Jan scrollò le spalle. «Forse
preferisce gli uomini.»
«Mi è sembrata tesa quando abbiamo
menzionato Carl Mackenzie.»
Jan sembrava annoiata. «Si rifornisce
da lui. Non vuole che lo tocchiamo. È
innocuo. Mentalmente è come un
bambino di dieci anni. Le ragazze lo
trattano come un animale domestico.»
«Credi che Dee abbia detto la verità?
Riguardo al fatto che Sandie non
comprasse da lui?»
Jan ci pensò, rigirando il drink tra i
palmi delle mani. «Forse. Se Sandie
comprava da Jason, è improbabile che
comprasse anche da Carl. Lavorano per
lo stesso intermediario. E poi, cosa ci
guadagnerebbe Dee mentendo?»
«Come hai detto tu, terrebbe il suo
spacciatore dove serve, per le strade» le
fece notare Carol.
Jan non sembrava convinta.
L’espressione dubbiosa sul suo viso la
faceva assomigliare a un cherubino
imbronciato che aveva superato da un
bel po’ la data di scadenza. «Non saprei.
Se vuole posso controllare i rapporti
della notte scorsa e vedere se è già stato
interrogato.»
«Buona idea. E se nessuno ci ha
ancora parlato, potresti farlo tu.» Lei
stessa aveva controllato i rapporti
quella mattina, ma non riusciva a
ricordare quel dettaglio. «Lo stesso vale
per Jason Duffy.»
Carol sapeva che era un tentativo
disperato, ma quando un’indagine non
produceva piste solide, aggrapparsi a
qualsiasi cosa sembrava un’alternativa
allettante. Cominciava ad avere una
brutta sensazione riguardo all’omicidio
di Sandie Foster. Aveva tutte le
caratteristiche del classico caso in cui si
fatica a fare progressi. Se non si fosse
sbloccato qualcosa al più presto, la
squadra di grandi promesse di Carol si
sarebbe trasformata in un team di capri
espiatori. Un’eventualità che non
credeva di poter sopportare in quel
momento.
È lui la notizia. La prima pagina del
giornale serale. Non sa leggere bene,
ma capisce i titoloni. Non credeva
sarebbe stato così, Sandie era solo una
prostituta. Gli sbirri devono averla
presa male, pensa. I titoloni
sull’omicidio li mettono in cattiva luce.
Sono ovunque in strada, parlano con
chiunque gli capiti a tiro. È evidente
che non sanno da dove cominciare.
Cercano disperatamente qualche
indizio, ma lui sa che non ne
troveranno. Lo sa perché ha fatto
esattamente quello che gli è stato detto.
È orgoglioso di sé stesso. Non ricorda
di essersi mai sentito così prima d’ora.
Deve esserci stata un’occasione in cui
ha fatto qualcosa nel modo giusto,
qualcosa di cui andare fiero. Ma
quando fruga nei suoi ricordi
incasinati, non trova nulla.
La Voce lo capisce. Anche la Voce è
orgogliosa di lui. Lo sa perché quando
è tornato a casa la notte scorsa, ha
trovato una ricompensa. Un piccolo
pacchetto poggiato sul suo televisore
con videoregistratore incorporato. Un
pacchetto avvolto in una carta
olografica lucida con intorno un
grande fiocco dorato. Era così bello
che quasi non voleva aprirlo. Voleva
andarsene in giro a sfoggiarlo, voleva
far vedere agli altri che lui era il tipo
di persona che riceve regali speciali.
Ma non lo ha fatto. Sarebbe stato
sciocco. E ultimamente si sta sforzando
di non essere sciocco.
Così, era rimasto seduto a lungo sul
suo letto, a rigirare il pacchetto tra le
mani. Alla fine, aveva deciso di
scartarlo e scoprire il contenuto.
Immaginava cosa fosse, ma voleva
esserne sicuro. Per prima cosa, aveva
sciolto il fiocco, sforzandosi di
allentare il nodo con le sue dita
impacciate, invece di strapparlo con i
denti o tagliarlo con il suo coltellino
svizzero. Poi aveva piegato la carta e il
fiocco con cura, prima di riporli in un
cassetto.
All’interno, aveva trovato la
ricompensa che si aspettava. Una
videocassetta. Con le mani sudate,
l’aveva infilata nel videoregistratore,
afferrando il telecomando per
accendere la tv. Ed eccola lì, in tutta la
sua gloria. La sua prima missione, la
sua prima purificazione.
Mantenere l’erezione non era stato
un problema in quel caso.
Parte terza
Tre settimane dopo
Era solito avere gli incubi da piccolo.
Sono anni che non ci pensa. Si sono
fermati quando ha iniziato a fumare.
Non ricorda l’ultima volta che è andato
a dormire senza almeno uno spinello in
circolo nelle vene. Di conseguenza, non
ricorda l’ultima volta che si è svegliato
da un incubo urlando e tremando sotto
le coperte. Ma ricorda come ci fosse
sempre qualcuno a incombere su di lui,
a muovere la bocca per sputar fuori
parole feroci. Gli sembrava di
rimpicciolirsi in quei momenti, mentre
la sagoma urlante si ingrossava come
un mostro in un manga. Non riusciva
mai a comprenderne le parole, ma
sembravano strappargli la pelle di
dosso fino a lasciarlo spoglio e
sanguinante.
A peggiorare le cose, c’era il fatto
che non avesse niente di positivo a cui
aggrapparsi al suo risveglio. Non
aveva esempi di gentilezza o dolcezza,
nessun ricordo confortante da
contrapporre al rumore e alla furia del
suo incubo.
È difficile credere quanto le cose
siano cambiate. Ora si addormenta
cullato dal suono della Voce. Sarebbe
pronto a scommettere che se smettesse
di fumare erba, dormirebbe come un
bambino. Non che voglia provarci. La
vita senza incubi gli piace troppo per
rischiare.
Stanotte, sta studiando il piano. La
Voce è nella sua testa, gli dice di agire
di nuovo. È tempo per il prossimo
capitolo della lezione, dice. Tempo per
un’altra purificazione.
Domani sera tornerà a casa e troverà
l’occorrente sul letto. Domani sera si
preparerà, proprio come l’altra volta.
Cerca di non pensare al suo bersaglio
come un essere umano. In modo che i
pensieri non si ingarbuglino nella sua
testa come era successo con Sandie,
proprio alla fine, quando aveva
cominciato a pensare che forse non
avrebbe dovuto toglierle la vita,
quando tutto era diventato confuso e
solo il ricordo della Voce lo aveva
spinto a continuare.
Questa volta non penserà a lei come
a una persona con un nome. La vedrà
come spazzatura da eliminare prima
che avveleni il mondo in cui vive. Poi si
godrà la strada verso la gloria. Sarà
un eroe, proprio come nei film. Sangue
e gloria. Sangue, gloria e la Voce.
Un tempo, l’unico modo in cui una
persona rispettabile poteva comprare
giocattoli sessuali era ordinare per posta
quello che i cataloghi descrivevano con
bizzarra evasività un ‘massaggiatore per
collo senza fili’. Ma dalla prima decade
del XXI secolo, in quasi ogni città di
medie proporzioni del Regno Unito
aveva aperto almeno un emporio
dedicato alla realizzazione dei desideri
sessuali più svariati. All’inizio, si era
trattato di negozi squallidi dai vetri
oscurati, regolarmente picchettati da una
varietà di dimostranti che andava dai
cristiani evangelici a organizzazioni
femminili contro la violenza sulle donne.
Ma nel giro di poco tempo, quei
negozietti si erano evoluti in empori di
vendita al dettaglio attraenti e ben
illuminati, con scaffali che ospitavano di
tutto: da manette stravaganti rivestite di
finta pelliccia a oggetti le cui funzioni
sfuggivano, fortunatamente, alla gran
parte dei clienti che desideravano
semplicemente trascorrere una serata
piacevole.
La maggior parte di questi negozi era
avvolta in un’inesorabile atmosfera di
ilarità. Il Pink Flaming-O era uno di
questi. Occupava un locale con doppia
vetrina ed entrata centrale che in
passato, per ironia, era stato un negozio
di giocattoli, ed era situato all’estremità
meno elegante della via principale dello
shopping a Firnham, una delle sei città
satellite che circondavano Bradfield. Le
vetrine erano dipinte di un rosa shocking
opaco, per non offendere quei cittadini
che persistevano nella loro mancanza di
interesse per gli articoli venduti. Dato
che l’aspettativa di vita della maggior
parte delle attività in quella zona del
Deansgate andava dai sei ai diciotto
mesi, e dato che il Pink Flaming-O
prosperava da ormai quattro anni, si
poteva supporre che la città ospitasse
non poche persone con uno spiccato
interesse per le sponde più stravaganti
del sesso; un numero sufficiente da
eclissare critici e censori.
Di certo i clienti non scarseggiavano
sul finire di un pomeriggio domenicale
in autunno inoltrato. Due adolescenti
ridacchiavano incredule di fronte a una
vetrina di vibratori extra large, ma
l’altra mezza dozzina di clienti
considerava con aria di gran lunga più
seria un assortimento di articoli che
andava dagli anelli vibranti, ai kit per
sesso anale, ad attrezzature per bondage,
bambole gonfiabili e pompe per pene.
Mentre le adolescenti passavano oltre
e si stupivano della varietà di
stimolatori clitoridei, il loro posto alla
vetrina dei vibratori fu occupato da un
cliente che aveva appena dato
un’occhiata a uno scaffale di
videocassette. Una mano nascosta da un
guanto di pelle nera si allungò verso uno
dei modelli in esposizione, un finto pene
in lattice di uno sgargiante rosso
scarlatto. Dita robuste ne testarono la
flessibilità e, soddisfatte, lo rimisero a
posto sullo scaffale. La mano afferrò un
esemplare inscatolato dell’articolo e lo
portò alla cassa, fermandosi a prendere
due paia di manette per polsi e caviglie.
Non ci fu nulla di strano nel pagamento
in contanti. Niente che destasse il più
piccolo sospetto agli occhi del
commesso, il quale in realtà sembrava
più interessato alle possibilità di
successo del Bradfield Victoria nel
match di campionato serale piuttosto che
alla presunta vita sessuale dei suoi
clienti. Dopotutto, era forse meglio per
lui non avere idea che nel giro di
quarantotto ore la sua merce sarebbe
stata trasformata nell’arma di un delitto.
Il cliente uscì dal negozio e svoltò su
una strada laterale che conduceva a un
supermarket sovraffollato. Quindici
minuti dopo, un cassiere dagli occhi
spenti batté una serie di articoli senza
prestarvi attenzione. Una pagnotta di
pane integrale tagliato a fette. Sei
salsicce di maiale. Quattro rotoli di
carta igienica. Una bottiglia di vodka. E
tre confezioni di lamette.
La Voce era pronta.
Carol osservò la catasta di scatole di
cartone e il suo buon umore svanì.
All’inizio era sembrata una buona idea
ordinare i mobili per la sua nuova casa
sul sito di una catena di negozi. Ma ora
che si ritrovava davanti un paio di
dozzine di mobili da montare, sapeva
che quello che l’aspettava sarebbe stato
un lungo pomeriggio di unghie
scheggiate e imprecazioni sotto voce.
Eppure, si disse, ne sarebbe valsa la
pena. L’impresa edile aveva fatto un
buon lavoro nel trasformare il
seminterrato in un appartamento
grazioso. L’odore acre e pungente della
vernice fresca era ancora forte nell’aria,
ma era il piccolo prezzo da pagare per
avere di nuovo uno spazio tutto suo.
Carol stappò una bottiglia di Viognier,
riempì un bicchiere e assaporò la
freschezza del vino che le scivolava giù
per la gola. Era ormai diventato un
rituale alla fine della giornata di lavoro.
Non appena Michael e Lucy andavano a
dormire, si sedeva alla finestra mentre
Nelson si strusciava sulle sue gambe.
Con bottiglia e bicchiere a farle
compagnia, rielaborava le infruttuose
attività della giornata e cercava di non
pensare a cosa si nascondesse nelle
ombre che si portava dietro. Sapeva che
stava cominciando a dipendere troppo
dalla consolazione offerta dal vino, ma
l’unica alternativa che aveva era
parlare, e dubitava che sarebbe riuscita
a trovare un terapista che rispettasse e di
cui si potesse fidare. Avrebbe potuto
parlare con Tony, ovviamente. Ma
riteneva la sua amicizia troppo
importante per trasformarlo in un
terapista.
Svuotò il bicchiere e lo riempì
nuovamente, poi si mise a lavoro. Il letto
prima di tutto. Almeno avrebbe avuto un
posto dove crollare quando la
frustrazione di rimanere sempre con tre
viti e un pezzo di legno in più fosse
diventata troppa.
Carol si affannava a sistemare le
doghe del letto, quando sentì il suono
alieno del campanello di casa. Sorrise.
Niente di meglio che stabilire le regole
da subito. Attraversò il soggiorno e aprì
la porta che dava sul mondo esterno.
Tony era ai piedi della rampa di scale,
con una bottiglia di champagne che gli
penzolava da una mano. «Ti avrei
portato dei fiori,» disse «ma non ero
sicuro che avessi un vaso.»
Carol fece un passo indietro e gli fece
cenno di entrare. «Due, in realtà. Sono
in cucina, pieni di gigli per smorzare
l’odore di vernice.»
Tony le porse la bottiglia. «Benvenuta
nella tua nuova casa.»
Carol gli poggiò una mano sulla spalla
e lo baciò su una guancia. Non erano
così vicini da mesi, e l’odore familiare
della pelle di Tony innescò in lei una
reazione a catena di sensazioni confuse.
«Grazie» disse a bassa voce. «Non hai
idea di cosa significhi per me.»
Il dottore le diede una pacca sulla
schiena con fare impacciato. «Sei tu che
fai un favore a me. Averti a un passo da
casa potrebbe salvarmi dal diventare un
recluso pazzoide.»
Carol rise, facendo un passo indietro
quando la vicinanza iniziava a essere
eccessiva. «Non ci scommetterei.»
Il dottore notò le scatole appoggiate al
muro. «Cominciamo, allora» disse,
arrotolandosi le maniche della felpa. «Ti
avverto, sto al fai da te come George
Bush sta alla filosofia del linguaggio.»
«Addirittura? Tony, lo so che va contro
ogni tuo istinto, ma non devi fare altro
che seguire le istruzioni.»
Due ore dopo, avevano assemblato i
mobili della camera da letto, due
librerie e tre sedie del soggiorno.
Sedevano scomposti, esausti e intontiti,
ognuno con un bicchiere di champagne
tra le dita contuse e indolenzite. «Dio,
mi fanno male muscoli che non
ricordavo di avere» gemette Carol.
«Continuo a ripetermi che ne vale la
pena per avere di nuovo un posto tutto
mio. Michael è stato un tesoro, ma è così
estenuante rincasare da lavoro e dover
fare conversazione.»
Tony sussultò. «Dovevi fare
conversazione? Questo sì che è un caso
di punizione crudele e disumana.»
«L’alternativa era ascoltare Lucy che
pontificava sull’incompetenza, la
stupidità o l’ostinazione della polizia.»
«Non quello di cui hai bisogno»
concordò Tony.
«Specialmente non quando sembra
avere ragione. La mia squadra d’élite ha
due casi per le mani, e non facciamo
progressi in nessuno dei due. Con Tim
Golding siamo arrivati a un punto morto.
Stacey è riuscita a estrarre il numero di
serie della macchina fotografica con cui
è stata scattata la foto del bambino, ma
chiunque l’abbia acquistata lo ha fatto
pagando in contanti in un ipermercato di
Birmingham, senza mai compilare i
documenti per la garanzia. Niente di
nuovo neanche su Guy Lefevre. Gli
informatici dell’Operazione Minerale
Grezzo stanno setacciando ogni prova in
loro possesso alla ricerca di altre foto
dei due bambini, ma stando a quanto
dicono, è come cercare un ago in un
pagliaio. Domani mattina ho la revisione
della terza settimana sull’omicidio di
Sandie Foster, e sarà un incubo. Cosa
abbiamo in mano dopo tutto quel lavoro
e le risorse spese? Fanculo. Una
manciata di vicoli ciechi e non una sola
idea su come procedere. Setacciare
Temple Fields non ha portato da nessuna
parte. Controllare i contatti di Derek
Tyler non ha portato da nessuna parte. Le
prove scientifiche non hanno portato da
nessuna parte.» Carol accavallò le
gambe e incrociò le braccia sul petto.
«Abbiamo interrogato Jason Duffy, il
ragazzo da cui comprava la droga. Dice
di non averla vista per un paio di giorni
prima dell’omicidio, e non c’è nulla che
provi il contrario. Un altro vicolo cieco.
Da una targa parziale siamo risaliti
all’auto su cui è salita Sandie quella
sera, ma il cliente con cui era ha un alibi
di ferro dalle nove in poi.» Carol
avrebbe voluto dirgli che il cliente in
questione era il suo nuovo capo, Aidan
Hart, l’irreprensibile uomo copertina
della pratica psichiatrica. Dato che Hart
era una delle poche persone a godere di
libero accesso ai dettagli dei crimini di
Tyler, per un momento il cuore di Carol
si era fermato al pensiero di avere la
soluzione a portata di mano. Ma mentre
Sandie Foster subiva l’aggressione
brutale che l’avrebbe portata alla morte,
Aidan Hart era impegnato in una cena
tarda in un costoso ristorante, in
compagnia di un alto funzionario statale
e di un parlamentare. Stando a quanto
riportato da Sam Evans, che lo aveva
interrogato, il direttore del Bradfield
Moor se l’era quasi fatta nei pantaloni
quando aveva scoperto che la donna che
aveva pagato per un pompino era la
vittima dell’assassino di cui Tony Hill
stava stilando il profilo. Ma quella era
un’informazione che Carol non poteva
condividere.
«Mi dispiace non averti dato un
profilo valido» disse Tony,
interrompendo i pensieri di Carol.
«Non è colpa tua. È la natura del tuo
lavoro. Hai bisogno di informazioni su
cui lavorare, e un solo omicidio non ne
offre abbastanza.»
Tony si alzò e prese a camminare
avanti e indietro per la stanza. «Già. È
uno degli aspetti peggiori di questo
lavoro. Più un criminale riesce a farla
franca e a fare sfoggio della sua
perversione, più facile diventa isolare
gli elementi importanti dei suoi crimini.
Di fronte a un episodio isolato, è
difficile separare il rumore di fondo dal
messaggio principale. Ma più agisce,
più riesco a dedurre. Il che mi relega
nell’angolo dei reietti – sono l’unico che
beneficia dalla reiterazione di un
crimine. Non mi sorprende che alcuni
dei tuoi colleghi mi trattino come un
lebbroso.»
«Forse non ucciderà di nuovo» disse
Carol, in tono per niente convinto.
«Lo ha già fatto, Carol. Anche se ho
stilato il profilo come se fosse un caso
isolato, questo è il quinto omicidio in
realtà.»
Carol scosse la testa. «Ho revisionato
il caso originale, Tony. Non ci sono
dubbi sulla colpevolezza di Tyler. E non
c’è niente che indichi l’esistenza di un
complice. Me l’hai detto tu stesso: due
assassini che agiscono insieme sono
sempre legati da un forte legame di co-
dipendenza e intimità. Sono inseparabili.
Non c’è nessuno di simile nella vita di
Derek Tyler. Sam Evans ne ha sviscerato
ogni aspetto. Tyler è cresciuto in una
famiglia affidataria. Non aveva una
ragazza. O un ragazzo, per quel che vale.
Non aveva neppure amici. Il che vuol
dire anche che non c’è nessuno
abbastanza attaccato a lui da replicare i
suoi crimini per provare a scagionarlo.»
Tony si appoggiò alla parete.
«Comprendo cosa vuoi dire, Carol. E
non so come aiutarti. Non capisco cosa
stia succedendo. Non c’è una sola teoria
su cui lavorare che non contraddica tutto
quello che so sulla psicologia degli
omicidi a sfondo sessuale.»
«Nessuna nuova idea?»
Tony scosse la testa. «L’ipotesi più
plausibile è quella che sostengo sin
dall’inizio. L’assassino trae piacere
dall’idea dello stupro. Ma vuole andare
oltre l’atto stesso. È il non plus ultra
degli stupratori, il metro di paragone
con cui si dovrà confrontare chiunque
verrà dopo di lui. È così che si vede. È
una questione di rabbia e potere, non di
semplice gratificazione sessuale.»
Carol sbuffò. «Come se un omicidio a
sfondo sessuale potesse mai essere
semplice.»
Tony allargò le braccia, versandosi
addosso dello champagne. Sussultò e
strofinò il braccio umido con
impazienza, asciugando il liquido. «Lo
è, Carol. Si riduce tutto all’attuazione di
una fantasia. Comprendi quella e avrai il
movente del crimine. Novantanove volte
su cento, la fantasia è raggiungere
l’orgasmo. Ma in questo caso è qualcosa
di più. È l’affermazione di un potere
assoluto. E parte della sua
manifestazione è manipolarci.
Controllare le nostre reazioni e
orchestrare l’intera vicenda.» Si zittì,
improvvisamente perso nei suoi
pensieri. Carol sapeva che era meglio
non interromperlo. Sorseggiò il suo
champagne nell’attesa.
«C’è una cosa che non mi quadra di
questo profilo sin dall’inizio» disse
infine, scostandosi dalla parete e
riprendendo a fare avanti e indietro nel
soggiorno. «Le tipologie di stupro sono
state definite negli anni Settanta da
Nicholas Groth e, sebbene siano state
ritoccate da allora, la classificazione è
rimasta praticamente la stessa. Ora, se
l’aggressore di Sandie Foster non
l’avesse uccisa, rientrerebbe tra gli
stupratori per potere. È un tipo quindi
che pianifica. Lega le vittime perché
questo accresce le possibilità di
successo dell’aggressione. Le vuole
remissive dal primo momento. Invece di
prendere la vittima dalla strada, il
nostro uomo paga una prostituta per
legarla. Con questo genere di stupratore
non ci sono palpeggiamenti di solito,
niente baci né preliminari – e scommetto
che è stato così nel nostro caso. Ha
tagliato i vestiti della vittima quel tanto
che serviva per fare ciò che voleva. È
questa la sua idea di preliminari. Non
sembra che abbia preso dei souvenir, ma
credo che abbia filmato le sue azioni.
Fin qui, niente di nuovo. Ma poi la
uccide. E questo è assolutamente
inusuale per uno stupratore per potere.
Tutto quello che sappiamo su questa
tipologia di aggressori ci dice che
ricorrono alla forza quanto basta per
raggiungere il loro scopo. Non sono
sadici, in linea di massima. Questo è il
primo problema. Il secondo è molto più
significativo per noi.» Interruppe il suo
camminare irrequieto per rabboccare il
bicchiere. «Lo stupratore per potere ha
un ego notevole. È sicuro della sua
virilità. Opera nella sua zona di
sicurezza ed è certo di riuscire ad
attirare la sua vittima in una situazione
che gli permetta di affermare il suo
potere. Questo va oltre la probabilità. È
praticamente una certezza.» Fissò Carol
con tutto il potere magnetico dei suoi
occhi blu. «Ti sembra che abbia
descritto Derek Tyler?»
Carol scostò una ciocca di capelli
biondi dalla fronte. «Certo che no. Ma
non basta a contraddire le prove
scientifiche. Credi di riuscire a cavare
qualcosa da Tyler?»
Tony si lasciò cadere di nuovo sulla
sua sedia. «Ci ho provato. Ma escluse le
poche parole del nostro primo incontro,
non ha più aperto bocca. È come se
avesse imparato a escludere la mia
voce. Se vuoi che provi di nuovo, lo
farò. Ma non aspettarti nulla.»
«A questo punto, Tony, sei la mia unica
possibilità.»
Alla guida della sua auto, la detective
Paula McIntyre avanzava lentamente
lungo una strada sconosciuta in cerca di
un pub chiamato Penny Whistle. File di
villette anguste degli anni Sessanta e di
appartamentini a due piani stipati uno
accanto all’altro mostravano i segni
inconfondibili di alloggi popolari
divenuti privati – portici brutti e mal
costruiti, porte scadenti e di cattivo
gusto, finestre con motivi a rombo del
tutto inadeguate. Fino a un paio di anni
prima, Paula avrebbe avuto un solo
motivo per trovarsi a Kenton:
l’ennesima sparatoria da un’auto in
corsa nella guerra per il traffico di
stupefacenti che aveva distrutto la
periferia del centro abitato. Da allora,
Kenton si era liberata dall’etichetta di
zona interdetta non grazie a un piano di
prevenzione e controllo, ma grazie alla
sua vicinanza al Bradfield Cross
Hospital e all’università. Era stata
colonizzata, apparentemente da un
giorno all’altro, da giovani paramedici e
da genitori ansiosi di assicurarsi che la
loro prole privilegiata non dovesse
occuparsi di nulla di così impegnativo
come cercare una casa in affitto decente.
Ciononostante, non era una zona che
Paula aveva motivo di frequentare per
questioni non legate al lavoro.
Conosceva un paio di donne che
avevano comprato casa nelle vicinanze,
ma non era mai stata a casa loro.
Neanche Don Merrick bazzicava da
quelle parti solitamente, motivo per cui
Paula era rimasta sorpresa più dalla
scelta del luogo che dalla richiesta
dell’ispettore di incontrarsi per un drink.
Sebbene la loro amicizia fosse
cresciuta al punto da trascendere i
rispettivi gradi oltre l’orario di lavoro,
raramente si davano appuntamenti per
vedersi, e altrettanto raramente
tendevano a confidarsi circa le loro vite
private. Spesso bevevano qualcosa
insieme dopo il lavoro, ma entrambi
avevano altri interessi a cui dedicarsi
nel tempo libero. Quando Merrick aveva
chiamato per invitarla al locale, il primo
istinto di Paula era stato di rifiutare.
Aveva programmato di incontrarsi con
un gruppo di amici in un pub fuori città.
Ma qualcosa nella voce di Merrick
aveva catturato la sua attenzione, così
aveva accettato. Ora, mentre
parcheggiava davanti a un locale
risalente agli anni Sessanta più simile a
una baracca che a un pub, cominciava a
pentirsene.
Quando aprì la porta, un misto di
fumo, odore di birra stantia e sudore
maschile le esplose nelle narici. Le
uniche altre donne nel locale
occupavano una panca tutta loro.
Nonostante tentassero di mascherarlo,
sembravano sfinite dalla povertà e dai
figli. Diversi uomini al bancone si
girarono a guardarla, spinti da leggere
gomitate nelle costole da parte degli
amici. «Vieni qui, tesoro» gridò uno di
loro.
«Ti piacerebbe, sfigato» borbottò
Paula. Notò Merrick su una panca in un
angolo del locale, mentre fissava una
pinta mezza vuota con sguardo cupo.
Spalle ricurve, testa china. La musica
country in sottofondo e la cacofonia
elettronica della slot machine
sembravano non esistere per lui. Paula
si avvicinò al bancone ignorando i
patetici tentativi degli alcolizzati di
attirare la sua attenzione, e prese un paio
di drink.
Merrick non alzò neppure lo sguardo
quando l’ombra della donna oscurò il
tavolo. Paula poggiò una bottiglia di
Newcastle Brown Ale accanto alla pinta
mezza vuota. «Ecco a te» disse Paula,
sedendosi sulla panca accanto a lui.
«Grazie» sospirò.
Paula bevve un sorso di Smirnoff Ice,
chiedendosi cosa stesse succedendo.
«Allora, eccoci qui. Che succede,
Don?»
Merrick incrociò le braccia. Sembrava
non sapesse da dove cominciare.
«Perché deve succedere qualcosa? Non
possiamo incontrarci per una birra
l’unica sera in cui non lavoriamo?»
«Certo che possiamo. Ma questo posto
è lontano da quelli che frequentiamo di
solito, in ogni senso. E tu te ne stai
seduto qui con la faccia di uno a cui è
appena morto il gatto. Sono una
detective, e questi due indizi mi dicono
che è successo qualcosa. Puoi parlarne
con me, oppure possiamo starcene seduti
in questa incantevole locanda come un
paio di fermalibri. Decidi tu.» Si chinò
in avanti, allungando una mano verso le
sigarette di Merrick. La luce colpì i suoi
capelli biondo ossigenato, facendoli
spiccare accanto al legno scuro della
panca.
«Lindy mi ha buttato fuori» disse
Merrick, senza preamboli.
Paula si paralizzò, con la sigaretta a
metà strada tra il tavolo e la sua bocca.
Oh cazzo, pensò. Bel guaio. «Cosa?»
«Ho accompagnato i bambini in
piscina oggi pomeriggio, e quando sono
tornato ho trovato due valigie pronte. Ha
detto che dovevo andarmene.»
«Gesù, Don» disse Paula. «Che
crudeltà.»
«Già. Non ho potuto neppure ribattere,
non con i bambini presenti. Se ne stava
all’ingresso a dire ai miei figli che il
loro papà starà via qualche giorno per
motivi di lavoro. E lo sguardo che
aveva, era come se mi sfidasse a
contraddirla.»
Paula scosse la testa, provando a
immaginare, senza riuscirci, come si
fosse sentito il suo collega. «Quindi,
cos’hai fatto?»
«Ho preso le valigie e sono uscito.
Sono entrato in macchina e ho
girovagato per un po’. Non riuscivo a
crederci, capisci? Ho provato a
telefonare a Lindy, ma non ha risposto.
Ho parcheggiato e ho vagato senza meta
per il centro città. Poi ti ho chiamato.»
Prese il boccale e trangugiò quello che
rimaneva della sua birra.
«Mi dispiace, Don.»
«Anche a me, Paula.» Afferrò la
bottiglia di birra ancora piena e la versò
con cura nel boccale, osservando la
schiuma gonfiarsi.
«Sai il motivo?»
Merrick emise un suono gutturale. «Il
motivo è sempre lo stesso per i
poliziotti.»
«Il lavoro» disse Paula, in tono grave.
«Il lavoro» confermò Merrick. «Sai
come sono state le ultime settimane.
Abbiamo lavorato senza sosta,
facendoci una pinta a fine giornata per
staccare il cervello, perché abbiamo
bisogno di spazio. Non puoi rincasare
finché non c’è un po’ di distanza tra te e
la giornata che hai avuto, altrimenti ti
porti dietro tutta la merda che hai visto.
E quando finalmente ritorni a casa, vieni
snobbato, trattato con freddezza. Quello,
oppure ‘Non sei mai qui, non stai mai
coi tuoi figli, non hai idea di cosa voglia
dire occuparsi di tutto, tanto vale essere
una madre single’. Non mi ha dato un
attimo di pace da quando ho avuto la
promozione.»
«Hai provato a spiegarle?»
Le labbra di Merrick si arricciarono in
un’espressione di tristezza. «Non sono
bravo a parlare di sentimenti, Paula.
Sono un uomo. Ho provato a spiegarle
com’è, quanto sia importante quello che
faccio, ma lei travisa ogni parola e
pensa che il lavoro sia più importante di
lei e dei bambini. Andava male già da
un po’, ma questo caso è stata l’ultima
goccia. Dice che preferisco passare il
tempo a parlare con le prostitute
piuttosto che con lei.»
Paula gli poggiò una mano sul braccio.
«Da quello che dici, non te ne farei una
colpa se fosse vero. Che ne dici di una
terapia di coppia? Ci hai pensato?»
Merrick inclinò la testa all’indietro e
fissò il soffitto. «Il fatto è che non sono
neanche sicuro di volerci provare,
Paula. Non sono lo stesso uomo che ha
sposato Lindy. Io ho preso una direzione
e lei un’altra. Non abbiamo più niente in
comune ormai. Sai che è ritornata al
college, part time? Vuole diventare una
psicopedagogista. Riesci a crederci?
Sembra che l’unica psicologia che abbia
appreso sia come distruggermi.»
«È per questo che sei rimasto in questo
pub più a lungo di quanto volessi?»
Paula non era sicura della piega che
stava prendendo la conversazione, né
sapeva come indirizzarla.
«Forse. Ma qualsiasi cosa stia
succedendo tra me e Lindy, so che non
voglio perdere i miei figli. Li adoro, lo
sai.»
«Lo so, Don. Ma lasciare Lindy non
vuol dire perdere i tuoi bambini. Puoi
continuare a essere il loro papà anche se
non vivi con la loro mamma. Puoi
ancora accompagnarli a calcio, puoi
andare in piscina con loro, puoi anche
portarli in vacanza.»
Merrick sbuffò. «E quanto è facile
farlo con questo lavoro? Quante volte
stacchiamo quando dovremmo?»
«Sei un ispettore, adesso. Non hai
turni fissi, non devi fare gli straordinari
come una volta. Puoi ritagliarti del
tempo per i tuoi figli. Se lo desideri sul
serio, puoi farlo.»
I suoi occhi sembrarono supplicarla.
«Credi davvero?»
«Credo davvero.» Paula lanciò
un’occhiata al bancone, dove un
gruppetto di ventenni discuteva ad alta
voce di calcio. Prese una decisione
impulsiva di cui sperava non si sarebbe
pentita. «Questo posto è penoso, Don.
Hai dove andare?»
Merrick distolse lo sguardo. «Pensavo
di andare in albergo.»
«Non fare lo stupido. Se tu e Lindy vi
separate, avrai bisogno di ogni singolo
centesimo. Puoi stare nella mia stanza
degli ospiti» disse Paula in tono
burbero.
«Dici sul serio?» Merrick sembrò
genuinamente sorpreso.
«Se non ti secca dividere la stanza con
la pila di vestiti da stirare più alta del
mondo.»
Merrick abbozzò un sorriso. «Non sai
che sono un fenomeno col ferro da
stiro?»
«Perfetto. Ma non usare il mio rasoio,
okay?»
Sam Evans abbassò il finestrino
dell’auto per far uscire un ricciolo di
fumo. L’aspetto positivo di fare un
appostamento in un quartiere a luci rosse
era che nessuno prestava molta
attenzione a un uomo solo seduto in auto.
Nessuno eccetto le prostitute, ma anche
quelle avevano girato alla larga dopo
che il detective aveva mostrato il suo
distintivo alla prima che lo aveva
approcciato. Aveva sottolineato di non
essere interessato a loro, e lo avevano
lasciato in pace.
L’alibi di Aidan Hart poteva anche
bastare a Carol Jordan, ma quando
aveva interrogato lo psicologo, Sam
Evans aveva avuto la sensazione che
l’uomo nascondesse qualcosa. Il
detective si chiedeva cosa fosse e se
potesse usarlo a suo vantaggio. Se c’era
la possibilità di far rientrare Aidan Hart
nella lista dei sospettati, Evans ne
avrebbe giovato in ogni modo possibile.
Così, aveva cominciato a seguire Hart
ogni volta che poteva. Una cosa gli era
parsa chiara da subito: il direttore e sua
moglie conducevano due vite
praticamente separate. Non sapeva se
fosse una scelta condivisa o se fosse
imposta dal fatto che Hart tornava a casa
solo per dormire. Il direttore era solito
trascorrere le sue serate tra bar e
ristoranti, a bere e a cenare con uomini
simili a lui: benestanti, ben curati,
compiaciuti.
Ma c’era un aspetto della vita di
Aidan Hart di cui, secondo Evans, i suoi
amici di bevute erano all’oscuro. Nelle
sere in cui non era impegnato a
costruirsi la carriera e le amicizie con
altri uomini, il direttore pagava donne in
cambio di sesso. Evidentemente, lo
shock subìto quando Evans aveva
toccato l’argomento, non era bastato a
placare gli appetiti del direttore. Li
aveva semplicemente riallocati.
Invece di cercare compagnia a Temple
Fields, Hart si era allontanato. Prima
Manningham Lane a Bradford, poi
Whalley Range a Manchester e ora
Chapeltown a Leeds. Da quel che Sam
era riuscito a intuire, il direttore
preferiva prostitute che avessero un
posto dove appartarsi piuttosto che
accontentarsi di un pompino nella sua
4x4 tirata a lucido. In due occasioni era
tornato sui suoi passi per un bis, dopo
aver fatto pausa in un ristorante indiano
per un boccone.
L’apparente dipendenza di Hart dalle
prostitute non disturbava Evans sul
piano morale. Lui stesso se ne era fatta
più di una nel corso degli anni.
Piuttosto, gli faceva dubitare di cosa
ronzasse nella testa di Hart. Di sicuro,
gli assicurava delle cartucce da poter
usare in futuro. Era risaputo che chi
commetteva omicidi a sfondo sessuale si
rivelasse il più delle volte un habitué
del sesso a pagamento, ed era risaputo
che l’esposizione a comportamenti
estremi desensibilizzasse le persone.
Hart sembrava sempre più un sospettato
plausibile, nonostante Carol Jordan lo
avesse scartato dai giochi.
Evans era determinato a far sì che la
sua assegnazione alla squadra crimini
maggiori fosse un altro passo in avanti
sulla strada del successo professionale.
E se per proseguire avesse dovuto
mettere in cattiva luce Carol Jordan,
allora l’avrebbe fatto.
Dopotutto, era lui che aveva scavato
per quelle informazioni. E
l’informazione è potere.
I colpetti sulla porta dell’ufficio di
Tony sembravano quelli frettolosi dello
staff ospedaliero. «Avanti» disse il
dottore.
Uno degli infermieri fece capolino da
dietro la porta. «Voleva ricevere un
paziente qui dentro, giusto? Non in sala
colloqui?»
«Giusto.»
L’infermiere inarcò le sopracciglia,
scettico, come a esimersi da ogni
responsabilità per quello che sarebbe
potuto accadere. «Vado a prenderlo,
allora.»
Nell’attesa, Tony rifletté sulla strategia
che stava per mettere in atto. Pensare
fuori dagli schemi era la sua specialità,
ma non era sua abitudine imporre le sue
idee stravaganti a soggetti vulnerabili.
Si ripeté gli ottimi motivi per non farlo:
non era professionale, metteva un
paziente in potenziale pericolo e andava
contro ogni principio terapeutico
pretendere da quello stesso paziente
qualcosa che non fosse direttamente
rilevante ai fini del suo regime curativo.
Sull’altro piatto della bilancia c’erano
le argomentazioni a favore. La
possibilità di salvare vite doveva avere
la precedenza su ogni altra
considerazione. Il paziente non avrebbe
corso un pericolo fisico perché si
trovava in un ambiente controllato. La
cosa migliore che potesse fare per
questo soggetto in particolare era
aumentarne l’autostima, e dargli un
compito realizzabile era un buon modo
di farlo. Ovviamente, la realizzabilità
del compito in questione era discutibile,
perciò Tony avrebbe dovuto sottolineare
con molta attenzione quanto quello che
si accingeva a proporre fosse quasi
impossibile, un ultimo, disperato
tentativo.
Lo era davvero, naturalmente.
Non c’era tempo per ulteriori
speculazioni. L’infermiere aprì la porta
e si scansò per lasciar entrare Tom
Storey. L’uomo oltrepassò la soglia, poi
si fermò. Tony notò che le sue spalle
erano più curve dell’ultima volta. Storey
si guardò intorno con un’espressione di
leggero stupore sul viso. Gli occhi grigi
vagarono tra gli scaffali sovraccarichi di
libri, raccoglitori e buste imbottite con
gli angoli strappati, fino a fermarsi su
Tony, che si era girato sulla sua sedia
verso la porta, dando le spalle alla
scrivania sommersa da documenti.
«Entra, Tom» disse, alzandosi in piedi.
«Accomodati.» Indicò un paio di
poltroncine sistemate in un angolo.
Storey corrugò la fronte. «Non ci
incontriamo qui di solito» disse, con
aria incerta.
«Vero» rispose Tony.
«Vuol dire che ha brutte notizie per
me?»
Per un attimo, Tony si chiese se un
tumore operabile fosse una notizia buona
o cattiva per un uomo nella posizione di
Tom Storey. «Ho delle notizie per te, è
vero. Ma oggi siamo qui anche perché
ho bisogno del tuo aiuto. Vieni, siediti.»
Poggiò una mano sul gomito dell’uomo e
lo guidò verso una delle poltroncine, poi
si sedette su quella di fronte.
«Come stai, Tom?» chiese.
Storey evitò lo sguardo del dottore,
fissando il punto in cui una volta c’era la
sua mano. L’ammasso di bende aveva
lasciato il posto a una fasciatura più
leggera; sembrava che all’estremità del
suo avambraccio avesse un calzino
infilato a mo’ di pupazzo decisamente
poco interessante. «Aveva ragione.
Dicono che ho un tumore al cervello.»
Roteò il capo, come per dar sollievo al
collo irrigidito. «Strano. Non molto
tempo fa mi sarebbe sembrata la notizia
peggiore del mondo.»
«Non è mai una buona notizia. Come ti
sentiresti se ti dicessi che il tumore è
operabile?»
Sulla testa calva di Storey comparve
una sottile patina di sudore. Guardò
Tony con aria triste. «È una cosa orribile
da dire, ma vorrei che mi operassero.
Vorrei vivere. So che spesso mi sembra
di non avere più motivi per farlo, ma se
mi chiedesse se voglio vivere, la mia
risposta sarebbe sì.»
Tony non poté fare a meno di provare
pena per la vita distrutta di Tom Storey.
La sua rovina sembrava così inutile,
così irrevocabile. Il fatto che Storey
fosse un uomo evidentemente intelligente
con una comprensione disarmante della
sua condizione non faceva che
peggiorare le cose. «Ti senti in colpa
per questo. Non è così, Tom? Oltre a
tutto il resto, ti senti in colpa perché
vuoi vivere.»
Con gli occhi colmi di lacrime, Storey
annuì. «Sono un codardo» farfugliò.
«Non... riesco a guardarmi in faccia per
quello che ho fatto.»
«Non sei un codardo, Tom. Morire,
quello sì che sarebbe da codardi. Vivere
con te stesso richiede coraggio. Non
puoi restituire quello che hai preso, ma
puoi vivere il resto dei tuoi anni facendo
ammenda.»
«Quindi è operabile? Il tumore,
possono eliminarlo?»
Tony annuì. «Dicono di sì. Come ti ho
già detto, non curerà la tua mente. Ma
per quello possiamo aiutarti noi. Avrai
già notato una differenza con le medicine
che ti abbiamo prescritto.»
Storey annuì. «Mi sento molto più
calmo. Molto più sotto controllo.»
Tony pensò fosse un’ottima notizia per
il suo piano. «E le cose continueranno a
migliorare» disse. «L’operazione ti darà
un futuro, Tom. E credo che potrai farne
buon uso. Lo credo davvero.»
Storey si strofinò gli occhi col dorso
della mano. «Non mi lasceranno mai
uscire di qui, vero?»
«Non è impossibile, Tom. Molto
dipende da te, e molto dipende da noi.»
«Quindi suppongo che vorrà scrivere
di me? Farsi un nome occupandosi del
mio caso? È così che vuole che l’aiuti?»
C’era una leggera ma inconfondibile
vena di rancore nella sua voce.
Sinceramente spiazzato, Tony si
maledisse per essere stato così sicuro
della fiducia di Tom Storey nei suoi
confronti. «Mi dispiace che la pensi
così, Tom» disse, cercando di
recuperare il terreno che non sapeva
neppure di aver perso.
«È così che fate voi, no? Passate
quelli come me al microscopio e poi ci
trasformate in libri e articoli.»
Tony scosse la testa. «Non è così che
agisco, Tom. Sì, a volte scrivo dei miei
casi, ma non per ambizione.» Allargò le
mani, indicando la stanza. «Ti sembra
l’habitat di un uomo ambizioso questo?»
Storey si guardò di nuovo intorno,
questa volta in modo più evidente. Non
c’erano attestati o diplomi sulle pareti,
nessun libro con il nome di Tony ben
evidente in copertina, niente che
indicasse un tentativo di impressionare
pazienti o colleghi con la sua posizione
e i traguardi raggiunti. «Credo di no»
disse l’uomo. «Se non per fare carriera,
allora perché lo fa?»
«Lo faccio perché quello che imparo
da qualcuno come te potrebbe aiutare i
miei colleghi a curare al meglio chi ha
bisogno del loro aiuto. Di sicuro è il
motivo per cui leggo quello che
scrivono gli altri dottori. Se dovessi mai
scrivere di te – e a questo punto non è
sulla mia lista di cose da fare perché
non so quali risultati otterremo –
scriverei per sensibilizzare e accrescere
le conoscenze circa la tua condizione,
affinché il prossimo Tom Storey riceva
il supporto di cui ha bisogno in modo
tempestivo.» Tony parlò con passione e
sincerità, e Storey si rilassò
visibilmente alle sue parole.
«Quando dice che vuole il mio aiuto, a
cosa si riferisce?»
«Ho osservato il modo in cui
interagisci con gli altri. Te la cavi bene.
Sembra che tu abbia talento nello
stabilire una connessione con chi spesso
non si relaziona bene con lo staff.»
Storey scrollò le spalle. «Me la
cavavo con le persone prima...»
«Prima di ammalarti?»
«Prima di impazzire, intende. Perché
non lo dice? Nessuno dice mai quella
parola qui. Nessuno ci chiama pazzi o
squilibrati. Neppure pazienti. Ci girate
attorno, come se noi non sapessimo
perché siamo qui.»
Tony sorrise, cercando di smorzare
l’irritazione di Storey. «Preferiresti che
lo facessimo?»
«Sarebbe più onesto. Pretendete
onestà da noi, ma ovattate il nostro
mondo con eufemismi.»
Tony considerò la situazione. Se
davvero voleva riscrivere le regole,
questa era la sua occasione. «Okay,
cercherò di essere più diretto. Sei bravo
con i pazzi. Si fidano di te. Piaci. Ti
vedono come uno di loro, perciò non si
sentono minacciati.»
«Perché io sono uno di loro» disse
Storey.
«Ma per la maggior parte del tempo
sei ancora l’uomo che eri prima che il
tuo corpo ti tradisse. Per questo
scommetto che puoi aiutarmi.» Tony fece
un respiro profondo e si appoggiò allo
schienale. «Ho un altro lavoro. Aiuto la
polizia quando non sono qui. Analizzo il
comportamento dei criminali e fornisco
dei suggerimenti per aiutare a catturarli
prima che commettano altri reati.»
«È un profiler quindi? Come in quella
serie tv, Cracker?»
Tony trasalì. «Non proprio, no. E
ancora di meno come Jodie Foster. Non
c’è niente di eccitante in quello che
faccio. Ma sì, sono un profiler. In questo
momento sto collaborando con la polizia
di Bradfield. C’è un assassino da
fermare prima che faccia altre vittime.»
Storey sembrò confuso. «E cos’ha a
che fare questo con me?»
«Un paziente che si trova in questo
ospedale è stato condannato per aver
ucciso quattro donne due anni fa. Non ci
sono dubbi che sia stato lui. Le prove
sono schiaccianti e ha ammesso i suoi
crimini. Ma ora una donna è stata uccisa
nello stesso identico modo. Chiunque lo
abbia fatto, conosce ogni dettaglio degli
omicidi originali, compresi i particolari
mai divulgati.»
«E lei crede che l’uomo rinchiuso qui
sia innocente? E vuole il mio aiuto per
provarlo?» Storey sembrava impaziente
di mettersi all’opera, il suo viso si era
illuminato.
«Non so se è innocente, Tom. Tutto
quello che so è che ha delle
informazioni richiuse nella sua testa che
potrebbero aiutarci a evitare la morte di
altre donne. Ma con me non parla. Non
parla con nessuno. Ha detto a stento
qualche parola da quando è arrivato.
Quello che ti chiedo è di convincerlo a
parlare con me.»
Storey parve esitare. «Io? Crede che
con me parlerà?»
«Non so neanche questo. Ma ho
provato di tutto per spingerlo ad aprirsi,
e ho fallito. Perciò, sono disposto a
provare qualsiasi cosa, per quanto folle
possa sembrare.»
«Folle è la parola giusta.» Storey
sbuffò, divertito. «I pazzi si sono presi il
manicomio.»
Tony scrollò le spalle. «Solo una
parte. Allora, che dici? Ci proverai?»
Carol mise i polsi sotto l’acqua
corrente fredda, cercando letteralmente
di sbollire l’agitazione accumulata
durante il suo incontro con Brandon per
revisionare i casi in corso. Aveva
sempre pensato che Brandon fosse un
capo ragionevole, uno che non aveva
dimenticato com’era stare dall’altra
parte della scrivania. Ma ora si sentiva
demoralizzata e demotivata, e sapeva
che il commissario capo era rimasto
deluso dalla sua performance. Non
poteva biasimarlo: lei stessa era rimasta
delusa.
Almeno era riuscita a convincere
Brandon a non tagliare il budget e a non
ridurre gli agenti sul caso Sandie Foster
ai soli membri della sua squadra. Poteva
ancora disporre di altro personale, come
e quando ne avesse avuto bisogno. Ma
era seccante avvertire la frustrazione del
capo rispecchiare la propria ed essere
incapace di suggerire una linea d’azione
che servisse a rimediare. Sapeva che
una delle ragioni del suo successo come
detective era stata la sua abilità nel
pensare fuori dagli schemi, nel trovare
l’approccio che nessun altro
considerava. Ma per quei due casi, si
sentiva intrappolata nei solchi profondi
della convenzionalità, incapace di
spingersi oltre.
In parte, era perché un altro dei suoi
talenti si era trasformato in una
maledizione. Carol aveva la capacità di
memorizzare i dialoghi alla perfezione.
Questo la rendeva un asso nella sala
interrogatori e le permetteva di
incastrare le sue vittime con le loro
stesse parole. Ma di recente, il nastro
che continuava a svolgersi e
riavvolgersi nella sua testa non aveva
nulla a che fare con il suo lavoro. Si
sforzava così tanto di respingere i
frammenti di dialogo che si insinuavano
oltre le sue difese da non aver posto
nella sua mente per quelle intuizioni del
suo subconscio che avrebbero potuto
aiutarla.
Carol appoggiò la fronte contro la
superficie fredda dello specchio e
chiuse gli occhi. Cosa avrebbe dato per
un bicchiere di vino in quel momento.
La porta del bagno delle donne si
spalancò e Paula entrò di corsa. Carol si
raddrizzò di colpo, notando il riflesso
sorpreso della sua subalterna attraverso
lo specchio. «Ciao, Paula» disse, con
voce stanca. La detective le era
sembrata più distante del solito al
briefing mattutino. Carol aveva cercato
di non prenderla sul personale e di
convincersi che Paula si era comportata
in quel modo con tutti. Ma non ci era
riuscita.
«Capo» disse Paula, esitando mentre
si dirigeva verso uno dei cubicoli.
«Come è andata col capo Brandon?»
Carol si diede un contegno, assumendo
quell’aria di placida autorità che sapeva
essere essenziale di fronte a un detective
di cui temeva di aver già perso il
rispetto. «Come previsto. Nessuno è
particolarmente soddisfatto
dell’evidente mancanza di progressi in
due indagini molto costose. Ma almeno
non ridurranno i ranghi per ora.» Carol
fece per superare Paula e dirigersi verso
la porta. Ma la detective aveva ancora
qualcosa da dire.
«Ho dato un’altra occhiata al dossier
su Tim Golding» disse, il linguaggio del
suo corpo era già sulla difensiva.
«Notato qualcosa di nuovo?» Carol
cercò di mantenere un tono di voce
neutrale.
«Quella foto, capo. Non ne so molto di
rocce e roba simile, ma lo sfondo mi
sembra molto particolare. Mi chiedevo
se valesse la pena oscurare la sagoma
del bambino e chiedere a delle riviste di
escursionismo e arrampicata di
pubblicarla, qualcuno potrebbe
riconoscere il posto in cui è stata
scattata.»
Carol annuì. Quell’idea sarebbe
venuta a lei un tempo, prima che i suoi
processi cognitivi venissero annebbiati
da troppi brutti ricordi. E da troppo
vino, mormorò una voce nella sua testa.
«Buona idea, Paula. Chiedi a Stacey di
lavorare sulla foto e noi ci assicureremo
che l’ufficio stampa la divulghi al più
presto.» Carol aveva mosso due passi in
direzione della porta, quando le parole
di Paula le riportarono alla mente un
vago ricordo. Si voltò, proprio mentre la
detective apriva la porta del cubicolo.
«Paula? Cosa ne sai di geologia
forense?»
Paula sembrò perplessa. «Geologia
forense? Mai sentita, capo.»
«Ne ho sentito parlare alla radio,
qualche mese fa. Non prestavo molta
attenzione, ma sono sicura che stessero
parlando di geologia forense. Forse un
esperto in materia potrebbe darci
indicazioni utili?» Più che parlare con
Paula, Carol stava pensando ad alta
voce, ma fu sorpresa dall’espressione di
ammirazione che aveva illuminato il
viso della detective. Era come se stesse
aspettando quel momento da settimane.
Carol avrebbe dovuto compiacersi del
fatto che stesse finalmente riuscendo a
dissipare i dubbi che Paula sembrava
nutrire nei suoi confronti. In realtà, il
pensiero di essere stata così diversa
dalla persona che era una volta la
rattristava.
«Idea brillante, capo» disse Paula,
alzando il pollice in segno di
approvazione.
«Forse» disse Carol. «Per quanto ne
so, questi tizi fanno solo trucchetti alla
Sherlock Holmes e ti dicono quale
campo hai calpestato in base al fango
che hai sui pantaloni. Ma vale la pena
provare.»
Tornò all’ufficio comune, dicendo alla
voce accusatoria nella sua testa che il
vino bianco non le aveva completamente
fritto le cellule cerebrali. «Sam»
chiamò, attraversando la stanza. «Vai sul
sito della BBC e vedi cosa riesci a
trovare sulla geologia forense.»
Sam alzò lo sguardo, sorpreso
dall’insolito vigore nella voce di Carol.
«Come?»
«Sito BBC, geologia forense. Stampa
quello che trovi e rintraccia qualcuno di
queste parti con cui possa parlare» disse
Carol, proseguendo verso il suo ufficio.
«Prova con il dipartimento di Scienze
Naturali dell’università, sapranno darti
qualche indicazione.» Chiuse la porta
alle sue spalle, isolandosi dall’ufficio
comune grazie alle veneziane montate di
recente. Si lasciò cadere sulla sua sedia
e poggiò la testa tra le mani, avvertendo
un velo di sudore sotto le dita. Cristo, da
quanto aspettava quella piccola, felice
ispirazione. Non risolveva granché. Ma
almeno era un inizio, e aveva un attimo
di respiro per sfruttarlo.
Osserva gli strumenti di quello che
ormai è diventato il suo mestiere. Sono
disposti davanti a lui. Le manette per
polsi e caviglie. Il bavaglio di pelle. Il
vibratore di gomma. Le lamette. I
guanti in lattice. Le videocamere. Il
computer. Il cellulare. Tutto quello che
deve fare ora è inserire le lamette nel
vibratore e avvolgerlo nella carta
assorbente, così da non tagliarsi le
dita.
Preme il tasto Play sul suo lettore
minidisc e la Voce lo pervade,
ripetendo le istruzioni ancora una
volta. A lui non serve a ricordarsi
quello che dev’essere fatto; lo ha
imparato a memoria. Ma gli piace
ascoltare. Nessuno lo ha mai fatto stare
così bene, e quello che lui fa in cambio
sembra un prezzo davvero piccolo da
pagare per qualcosa di così giusto.
La Voce gli dice chi scegliere, gli
rende tutto più semplice. Nulla è
lasciato al caso. Stanotte la troverà
all’angolo di quella bettola di albergo
a ore appena oltre Bellwether Street,
dove affittano camere a donne come lei.
Probabilmente, la troverà appoggiata
al bidone della spazzatura in ghisa.
Probabilmente, lei sembrerà divertita
quando ascolterà le sue richieste. Le
donne non si aspettano mai nulla da
lui, eccetto buona merce. Lui è lì, è
parte del paesaggio. Non vale la pena
prestargli attenzione.
Ma lei presterà attenzione stanotte.
Sarà l’ultima volta che presterà
attenzione a qualcuno. La presterà a
lui, e questo vuol dire tanto.
I lampioni pendevano come caramelle
luminose nella nebbiolina del tardo
pomeriggio. Negli anni in cui Tony era
mancato, l’ora di punta a Bradfield si
era espansa come lo stomaco di un uomo
di mezza età. Ma quella sera, mentre
attraversava la città di ritorno dal
Bradfield Moor, il dottore non si curava
del mondo intorno a lui. Guidava verso
casa meccanicamente, come se avesse
inserito il pilota automatico. La musica
fuoriusciva dal mangianastri; non aveva
idea di cosa fosse. Qualcosa di calmo,
minimalista, ripetitivo. Era stato uno dei
suoi studenti della St Andrews a dargli
quella cassetta. Non ricordava più il
perché – qualcosa che aveva a che fare
con le onde cerebrali. Gli piaceva
perché copriva l’interferenza di
sottofondo, escludeva i rumori della
strada, gli altri motori, il rombo
sommesso della città in piena attività.
Rifletteva sul compito che aveva dato
a Tom Storey. Chiedeva forse troppo a
un uomo con problemi seri come i suoi?
Storey avrebbe forse sofferto la
pressione a tal punto da esplodere di
nuovo? Tony pensava di no, ma non
poteva averne la certezza. Stavolta
aveva davvero superato ogni limite, e
sapeva quanto si sarebbe sentito in
colpa se quella faccenda avesse avuto
effetti negativi su Storey.
Si rese conto che il senso di colpa, in
quel caso, probabilmente sarebbe stata
l’ultima delle sue preoccupazioni. Aidan
Hart avrebbe dato di matto se avesse
scoperto cosa aveva fatto. Andava
contro ogni manuale mai scritto, sebbene
a scriverli, secondo Tony, fossero state
persone che soffrivano degli stessi
problemi dei soggetti che dicevano di
curare. Lo sapeva perché lui stesso era
una di quelle persone. La sua difficoltà
nel creare relazioni personali di
qualsiasi tipo, l’impotenza che lo aveva
afflitto per gran parte della sua vita
adulta, l’incapacità di trasformare i
sentimenti per Carol in qualcosa di
concreto e funzionale. Erano tutti sintomi
che indicavano quanto avesse in comune
con le menti disturbate di cui si
occupava per lavoro.
Perlomeno sapeva di potersene
occupare con una parvenza di
competenza. La sua empatia verso le
loro disfunzioni gli consentiva di ideare
programmi terapeutici proficui.
Nonostante a volte finisse per sentirsi
colpevolmente complice, lo considerava
un compromesso accettabile.
Quello che non riusciva ad accettare,
invece, era il senso di colpa che nutriva
nei confronti di Carol. In quel momento,
sembrava che il modo migliore per
aiutarla fosse aiutarla a svolgere il suo
lavoro. La chiave per farlo era Derek
Tyler, il che forniva al dottore una sorta
di autogiustificazione per il piano che
aveva messo in moto.
«Ah, Derek, Derek, Derek. Brami il
silenzio per continuare a sentire la
voce» disse a voce alta, continuando la
conversazione con sé stesso cominciata
dopo aver lasciato l’ospedale. «Cosa fa
la voce?» Fece una pausa, pensando e
considerando le sue sensazioni, prima di
darsi una risposta. «Ti rassicura. Ti dice
che quello che hai fatto è giusto. Se non
sentissi la voce, potresti cominciare a
pensare che quello che hai fatto è
sbagliato. Perciò hai bisogno di sentirla.
Quindi non parli, in modo che nessuno
parli con te. Allora chi è la voce?»
Lasciò la strada principale per una
secondaria. Fu solo quando non riuscì a
trovare parcheggio che capì di essere
davanti alla casa sbagliata. Si trovava
nella strada in cui aveva vissuto l’ultima
volta che aveva lavorato a Bradfield. Il
pilota automatico nella sua testa lo
aveva portato nella parte sbagliata della
città.
Jackie Mayall entrò nella hall
dell’albergo. Non era granché come
zona di accoglienza: una stanza
abbastanza ampia con una nicchia
ritagliata da un bancone che arrivava
all’altezza del petto. Il pavimento era
ricoperto da una moquette dall’aspetto
appiccicoso; solo a vederla, gli ospiti
sapevano che avrebbero avuto problemi
a staccare i piedi da terra. Jackie si
sporse sul bancone, allungandosi ad
afferrare una chiave. «Sono Jackie»
urlò, sopra i rumori attutiti e frenetici di
Sky Sport provenienti da una stanza
sulla sinistra del sudicio bancone in
fòrmica. «Prendo la ventiquattro.»
«Va bene. Sono le sei e dieci» urlò una
voce in risposta. «Lo segno, così non
puoi prendermi per il culo.»
«Figuriamoci» borbottò Jackie,
dirigendosi verso le scale strette e
logore che conducevano alla stanza sul
secondo piano che conosceva fin troppo
bene. Entrò e si sforzò di non far caso
all’ambiente. Era impossibile
immaginare un posto meno invitante di
quello per fare sesso. Sarebbe potuto
finire nel dizionario, come definizione
di squallido, lercio o pidocchioso. Una
coperta in ciniglia lisa di colore blu
copriva un materasso cadente.
L’impiallacciatura scadente della toletta
era scheggiata e scrostata. Una sedia
senza braccioli giaceva davanti a un
lavandino sudicio.
Jackie si guardò nello specchio
chiazzato. Era il momento di tingersi di
nuovo i capelli. Non le importava del
centimetro di radici nere, ma capiva
quanto contasse mantenere le apparenze.
La gonna succinta, il top allacciato
dietro il collo, gli stivali alti fino al
ginocchio, erano più raffinati di quelli
della maggior parte delle ragazze. Era
convinta che fosse per quello che poteva
permettersi tariffe abbastanza alte da
portare gran parte dei suoi clienti in
quell’albergo, invece di farseli nel vano
d’ingresso dei negozi ed elargire
pompini sui sedili posteriori delle auto.
Impaziente, distolse lo sguardo dallo
specchio e si girò, gettando la borsa sul
letto. Si sedette sul bordo del materasso,
chiedendosi se fosse il caso di togliersi
gli stivali o se volesse sfilarli lui stesso.
La pagava bene dopotutto. Si meritava il
meglio che lei potesse dargli.
Un colpetto incerto sulla porta la fece
alzare nuovamente. Spalancò la porta
con veemenza, per evitare che si
bloccasse come succedeva di solito. Lo
squadrò da capo a piedi con aria
divertita e beffarda. «Entra, su. Le
lancette corrono» disse, dandogli le
spalle e andando dritta verso il letto.
«Non ho tempo per chi ci mette tutta la
notte.»
Mentre varcava la soglia di casa, Tony
digitò il numero di Carol. «Chi è la
voce, Derek?» disse, ascoltando
distrattamente il segnale di linea libera.
«Carol Jordan» rispose l’ispettrice
all’improvviso.
«Chi è la voce, Carol» chiese, senza
preamboli. «Non ha senso. Nessuna
delle solite voci ha senso.»
«Anche per me è un piacere sentirti,
Tony» disse l’ispettrice, con un tono di
stanco umorismo.
«Il fatto è che le voci sono un po’
come una regressione alle vite
precedenti.»
«Scusa?»
«Quando ci si sottopone a questo
genere di regressione ipnotica, non si
scopre mai di essere stati stallieri o
operai in una vita passata. Ma piuttosto
Cleopatra, Enrico VIII o Emma
Hamilton. Funziona allo stesso modo per
chi sente le voci. Non è la voce di un
lattaio o della donna che si incontra tutti
i giorni sull’autobus. È la voce della
Vergine Maria o di John Lennon o di
Jack lo squartatore.»
«Be’, è difficile immaginare un lattaio
che dà istruzioni dettagliate su come
commettere un omicidio a sfondo
sessuale» disse Carol, in tono ironico.
Tony rimase in silenzio per un
momento. Sorrise. «Pensi si addica più
alla Vergine Maria?» Carol ridacchiò.
Tony avvertì una fugace vampata di
orgoglio. Aveva fatto qualcosa di molto
umano. L’aveva fatta ridere. Aveva quasi
dimenticato quanto gli piacesse il suono
di quella risata, era passato così tanto
tempo dall’ultima volta che l’aveva
sentita. «Comunque,» continuò,
nascondendo il suo momentaneo
excursus nel privato «quello che voglio
dire è che sono sempre voci di un certo
peso. Vivono nella testa di chi le sente e
sono dinamiche. Ciò che dicono cambia
a seconda delle circostanze. Non ci si
deve preoccupare del silenzio. Non si ha
bisogno del silenzio perché alla voce
non dispiace il rumore. Si fa sentire
quando vuole farsi sentire, in qualsiasi
momento risulti opportuno. Be’,
opportuno per la persona che sente la
voce, di solito meno opportuno per noi
altri» si affrettò ad aggiungere.
«E secondo te la voce di Derek Tyler
non funziona così?»
«Esatto. È come se avesse paura di
perderla. Paura che possa essere
inghiottita dal rumore di sottofondo. Non
ho mai visto niente del genere finora, né
ho mai trovato casi simili in letteratura.
È come se...» Scosse la testa. «Devo
fare qualche ricerca. Ci deve pur essere
qualcosa in letteratura... A meno che non
ci troviamo davanti a un caso senza
precedenti.» Il suo tono di voce si
abbassò sempre di più.
«Tony?»
«Ti richiamo. Ho bisogno di riflettere.
Grazie per aver ascoltato.» Qualsiasi
fosse la risposta di Carol, andò persa
quando il dottore terminò la chiamata.
Non aveva mai visto niente di simile
alla voce di Derek Tyler. Se infrangeva
ogni regola, forse era arrivato il
momento di fare altrettanto. Invece di
considerare le probabilità, forse
avrebbe dovuto iniziare a considerare
l’improbabile. Si diresse verso il suo
studio al piano superiore, mormorando:
«Sei cose impossibili prima di
colazione.»
Il sergente Kevin Matthews era dietro
al banco accettazione del Woolpack
Hotel, taccuino alla mano. Lo spazio era
poco e questo lo costringeva a una
sgradevole vicinanza con lo sciatto
individuo che si era presentato come
Jimmy de Souza, il manager notturno.
Nonostante il tanfo di sudore, sigarette e
pizza stantia che aleggiava intorno a de
Souza, Kevin preferiva stargli vicino
piuttosto che ritornare nella stanza
ventiquattro. Uno sguardo fugace gli era
bastato a capire che interrogare l’uomo
che aveva scoperto il cadavere non era
l’opzione peggiore. Molto meglio stare
lì giù, dove lo spettacolo più inquietante
era costituito da un rozzo manager
notturno e da un flusso di agenti della
scientifica e poliziotti che facevano
avanti e indietro.
De Souza era tozzo, con una pancia
rotonda che tendeva la sua sudicia
maglietta bianca e l’elastico dei
pantaloni di acetato. I capelli neri e
untuosi erano tirati all’indietro
dall’attaccatura a V. Una piccola bocca
simile a un bocciolo sopra un mento
paffuto e rotondo gli conferiva un
aspetto irascibile. «Senta, gliel’ho
detto» disse, una leggera inflessione che
sapeva di luoghi lontani puntellava
l’accento di Bradfield. «Vengo al
bancone solo se qualcuno suona il
campanello. La gente ci tiene alla
privacy. È per questo che pagano.»
«All’ora» disse Kevin in tono
pungente.
«E con questo? Non è contro la legge
affittare a ore, no? La gente ha delle
necessità.» De Souza fece per mettersi
le dita nel naso ma poi ci ripensò, come
se avesse notato le labbra di Kevin
arricciarsi in segno di disgusto.
«A che ora ha affittato la camera
ventiquattro, con esattezza?»
De Souza indicò un’agenda spessa
aperta sul ripiano sotto il bancone.
«Ecco qui. Sei e dieci.»
Kevin guardò di persona. L’ora e il
nome erano appuntati con una grafia
poco chiara. «E a chi l’ha affittata?
Suppongo – e mi corregga se sbaglio –
che non fosse Margaret Thatcher.»
«La sgualdrinella si chiama Jackie.
Uno smilzo di ragazza con i capelli
ossigenati. Veniva più di una volta quasi
ogni sera.»
«Non conosce il cognome?»
De Souza sogghignò. «Scherza? E a
chi interessa?»
«Con chi era?»
«Non lo so. Ero sul retro, guardavo la
partita. Ha urlato che prendeva la chiave
della ventiquattro e io ho segnato l’ora.
Avrebbe saldato alla fine. Do un po’ di
libertà ai clienti abituali.»
«Quindi non ha visto chi era con lei?»
chiese di nuovo Kevin.
«Non so neanche se ci fosse qualcuno
con lei. Di solito i clienti entrano dopo
qualche minuto, così nessuno li vede. Le
ragazze gli dicono solo in quale stanza
andare.»
«Molto pratico» commentò Kevin,
amaramente. «Cosa l’ha spinta ad
andare su allora?»
«Il tempo era scaduto da un pezzo. Di
solito finisce in una mezz’ora o poco
più. Come ho detto, scendeva a pagare e
io salivo a cambiare le lenzuola.
Quando la partita è finita intorno alle
otto, la chiave era tornata al suo posto.
Mi sono incazzato, credevo che se la
fosse filata senza pagare. Allora sono
salito su per vedere se aveva lasciato i
soldi in camera. Sono arrivato davanti
alla ventiquattro e sono entrato...» Per la
prima volta, de Souza sembrava a
disagio. «Cristo, mi ci vorrà un po’
prima di riaffittare quella camera.»
Kevin guardò de Souza come se
volesse picchiarlo. «Mi dispiace tanto
per lei.» Allungò la penna verso la
chiave della stanza ventiquattro e la
rimosse dal gancio. La infilò in un
sacchetto per le prove e mise il tutto in
tasca. «La terremo noi per ora» disse.
«Ma come ha detto lei, la stanza non le
servirà per un bel po’.»
Le sue parole destarono l’interesse
personale di de Souza. «Per quanto si
fermeranno gli affari?»
Kevin sorrise dolcemente. «Per tutto il
tempo necessario. Questa è una scena
del crimine ora, amico.»
Mentre lo diceva, la porta di ingresso
si aprì di nuovo lasciando entrare Carol
Jordan. «Dove, Kevin?» chiese.
«Secondo piano, capo. Camera
ventiquattro. Don è di sopra con Jan e
Paula, e gli agenti della scientifica.»
«Salgo subito.»
Tom Storey non aveva mentito
riguardo alle sue capacità di
comunicazione. Il suo ruolo di
funzionario addetto ai sussidi per gli
alloggi lo aveva abituato alla minaccia
latente di reazioni violente, sia fisiche
che verbali. Prima che il suo
comportamento bizzarro lo costringesse
a un periodo di malattia forzata, i suoi
capi avevano sempre fatto affidamento
su di lui per evitare che clienti
problematici perdessero la testa nel
peggiore dei modi. Era per questo
motivo che il compito affidatogli da
Tony Hill, più che un fardello, gli
sembrava una sfida che avrebbe potuto
vincere.
Rinchiuso al Bradfield Moor,
oppresso da un senso di colpa
devastante e dalla paura dell’intruso
sconosciuto che intaccava il suo
cervello, Tom Storey aveva provato a
distrarsi osservando gli altri pazienti.
Avere qualcosa su cui concentrarsi oltre
a sé stesso, lo aiutava a rimanere in
controllo della sua mente. Naturalmente,
coloro a cui era concessa una certa
libertà di movimento erano soggetti
considerati ‘sicuri’, nel senso che era
altamente improbabile che se ne
andassero in giro brandendo una
forchetta affilata: gli ossessivo-
compulsivi che rappresentavano un
pericolo solo per sé stessi, gli
schizofrenici resi mansueti dai
medicinali, i maniaco-depressivi
stabilizzati dal litio. In un certo senso,
Tom li trovava più interessanti dei
pazienti violenti. Gli era più facile
capire come fossero usciti dai binari
della normalità. Non gli piaceva pensare
a quelli afflitti da disordini della
personalità; nel corso della sua
precedente vita professionale aveva
conosciuto abbastanza sociopatici da
non volerne vedere più per il resto dei
suoi giorni.
Quando Tony aveva descritto Derek
Tyler, Storey aveva compreso subito
cosa intendesse. Si era già accorto del
suo silenzio placido, perlopiù perché
era così raro in quel posto. Persino i
pazienti fortemente sedati tendevano a
essere irrequieti. Ma Tyler sembrava
vivere in una piccola oasi di tranquillità.
Non che desse l’impressione di essere
un tipo tranquillo. Emanava una tensione
che creava diffidenza negli altri.
Non partecipava a nulla. Questo era un
altro aspetto che lo distingueva. Non
mostrava alcun interesse per le attività
sociali, e la sua resistenza passiva a
qualsiasi cosa simile a una terapia di
gruppo era impressionante, soprattutto
perché, secondo Storey, non era
particolarmente sveglio.
Tutto ciò lo rendeva facilmente
identificabile. Ma molto difficile da
approcciare. Quello che Tony Hill gli
aveva affidato non era un compito
semplice. Storey aveva trascorso la
maggior parte della giornata a osservare
Tyler di nascosto, cercando di capire
come rompere il suo guscio. Invano.
A pomeriggio inoltrato, mentre chi era
sveglio e fuori dalla sua camera
guardava le soap opera in tv, vide Tyler
seduto da solo a un tavolo in un angolo
della sala. Sull’impulso del momento,
Storey afferrò uno dei puzzle sulla
libreria e si diresse verso il tavolo di
Tyler. Si sedette senza chiedere il
permesso, faticò ad aprire la scatola con
una sola mano ma alla fine ci riuscì.
Rovesciò le tessere sul tavolo,
chiedendosi per un attimo quante ne
mancassero delle cinquecentocinquanta
totali e se appartenessero tutte a quel
puzzle.
Nessuna reazione. Tyler sembrò
chiudersi in sé stesso ancora di più.
Tuttavia, Storey notò come il suo
sguardo fosse attratto dal mucchio
disordinato di cartoncini sagomati.
Goffamente, cominciò a frugare tra le
tessere in cerca degli angoli e del cielo.
«La parte più facile e poi la parte più
difficile» disse. «Una volta completato
il cielo, il resto diventa fattibile.»
Tyler non disse nulla. Il silenzio
perdurò, mentre Storey metteva insieme
i margini della figura. Era un panorama
alpino, una funicolare che risaliva il
fianco di una montagna dalle pendici
erbose fino alla cima ghiacciata. Storey
fece un paio di errori intenzionali, ma
Tyler non reagì. Perciò, sistemò le
tessere al posto giusto e continuò.
«Sono felice stasera» disse, facendo
attenzione a non distogliere lo sguardo
dal puzzle. «Devo fare un’operazione,
ma dopo credo che me ne andrò da qui.»
Alzò lo sguardo verso Tyler. «Sai cosa
ho fatto, vero?» Era probabile che lo
sapesse. Nonostante il personale
cercasse in ogni modo di evitare che i
pazienti sparlassero delle trasgressioni
altrui, al Bradfield Moor le notizie
circolavano come ratti a caccia sul
territorio notturno. «Ho ucciso i miei
figli.» Storey non riuscì a trattenersi. I
suoi occhi si riempirono di lacrime che
strofinò via con fare impaziente.
«Credevo fosse finita. Non avrei più
visto il mondo esterno. A essere sinceri,
non potevo biasimarli. Voglio dire, come
potevano fidarsi di me? Come potevo
fidarmi di me stesso? Se sono stato
capace di togliere la vita alle persone
che amavo di più al mondo, allora
nessuno è al sicuro con me.»
Sembrava che Tyler non avesse sentito
una sola parola. Storey continuò. Non
aveva nient’altro da fare, in fondo. «E il
modo in cui mi tratta il personale. Sono
tutti professionali, ma lo vedo che
secondo loro non esiste redenzione per
me. Sono abituati ad avere a che fare
con persone malate. Ma mi fanno sentire
speciale, come se quello che ho fatto mi
rendesse ancora più diverso da tutti gli
altri. È l’unica cosa che nessuno ti
perdona, uccidere i tuoi stessi figli. O
almeno pensavo fosse così, finché non
ho conosciuto questo nuovo dottore.»
Sorrise. «Il dottor Hill. Non è come gli
altri. Lui ci tiene a farci uscire da qui.
Mi ha dimostrato che non è impossibile
essere migliori. Ricominciare lì fuori.
Ascolta che ti dico, se vuoi uscire da
questo postaccio, è con lui che devi
parlare.»
Tyler allungò un dito incerto e spinse
una tessera verso Storey. Apparteneva a
una sequenza di grigio frastagliato che
alla fine avrebbe rivelato un ghiacciaio
all’estremità sinistra del puzzle. Storey
si sforzò di non dare a vedere la sua
soddisfazione. «Grazie, amico» disse,
con aria disinvolta. Lavorò in silenzio al
puzzle per qualche minuto.
«Quanto avrei voluto conoscere il
dottor Hill mesi fa» disse infine,
parlando col cuore e con rammarico
sincero stavolta. «Ha capito subito cosa
non andava in me. Se il mio medico di
base non mi avesse liquidato con un
flacone di pillole, se mi avesse mandato
da qualcuno che sapeva cosa faceva, non
sarei mai finito qui. I miei figli
sarebbero ancora vivi e io non sarei
qui.»
Tyler si risistemò sulla sedia,
distogliendo lo sguardo dal tavolo.
Storey capì di aver perso l’interesse
dell’uomo taciturno. «Ma il dottor Hill...
lui mi sta facendo capire che la mia vita
non è finita. Che posso tornare nel
mondo esterno e ricominciare. E la
prossima volta, posso essere migliore.
Posso fare le cose nel modo giusto,
forse. Con un po’ di aiuto, posso fare le
cose nel modo giusto.»
Storey non sapeva cosa avesse detto di
corretto, ma le sue parole avevano
funzionato. Tyler si voltò di nuovo verso
il tavolo. Osservò le tessere, ne prese
una e la inserì al suo posto. Il suo
sguardo incrociò quello di Storey e
un’emozione indistinguibile gli guizzò
negli occhi. Tyler annuì lentamente, poi
si alzò. Superò Storey, fermandosi a
dargli una pacca sulla spalla. Poi se ne
andò, come un’ombra silenziosa uscì
dalla porta e sparì nel corridoio.
Storey si appoggiò allo schienale della
sedia, un sorriso un po’ perplesso
apparve sul suo viso. Non era sicuro che
la sua tattica avesse funzionato, ma
aveva la sensazione di essersi appena
guadagnato dei punti agli occhi
dell’uomo che poteva restituirgli la
libertà, sia dal Bradfield Moor sia dalla
prigione della sua mente.
Dopo una sola occhiata alla scena del
crimine, Carol aveva chiamato Tony.
Ora il dottore era in piedi vicino al
letto, la testa china in segno di rispetto.
Era così concentrato sulla bocca
imbavagliata che Carol riusciva quasi a
credere che la marea scarlatta che aveva
spazzato via la vita della donna non lo
turbasse. A lei non era concesso lo
stesso lusso. Il cadavere sul letto le
pareva un affronto personale, un
promemoria di come lei e la sua squadra
avessero perso la sfida lanciata
dall’assassino con il primo omicidio.
Razionalmente, Carol sapeva che non
era così; agli uomini capaci di quel
genere di cose non interessava tanto il
loro pubblico quanto il contenuto della
loro mente malata. Ma emotivamente,
era come uno schiaffo in faccia.
«Non ci sono dubbi, vero?» chiese a
Tony, a bassa voce.
Il dottore alzò la testa, il suo sguardo
era indecifrabile nella luce fioca della
lampadina da sessanta watt nascosta nel
paralume di carta. «Nessuno. Chiunque
abbia ucciso Sandie, ha ucciso anche
questa donna.»
Carol si voltò verso Jan e Paula, che
attendevano ordini sulla soglia.
«Sappiamo chi è?»
Jan annuì. «Jackie Mayall. Non è sulla
scena da molto. Eroinomane, ma una di
quelle ridotte meglio.»
«Aveva un protettore?»
«Non più. Quando ha iniziato lavorava
per Lee Myerson. Ma ora Lee sta
scontando cinque anni per spaccio.
Quando lo abbiamo preso, abbiamo
sparso la voce che i suoi compari
avrebbero fatto la stessa fine se non
avessero lasciato in pace le ragazze. Da
quando abbiamo cominciato ad
avvalerci della legge sui proventi di
reato, un mucchio di papponi merdosi
hanno dovuto dire addio alle loro belle
macchinette.»
«Okay. Quindi Jackie lavorava da
sola. Ma avrà avuto delle amicizie. Jan,
voglio te e Paula sul campo. Setacciate
le strade e parlate con le altre ragazze.
Scoprite chi altro usa questa bettola. Chi
era qui stanotte. Chi ha visto Jackie
stasera. Se aveva clienti abituali. Sapete
cosa fare.»
Le due donne stavano già per
andarsene. «Paula, dov’è Don?» chiese
Carol, fermandole.
Paula si girò, sembrava sorpresa. Con
la voce disse: «Non lo so, capo» ma la
sua espressione diceva ‘Perché lo
chiede a me?’.
«Era qui prima» disse Jan. «Ha detto a
Kevin di interrogare il manager notturno
e ha mandato me e Paula a controllare le
altre camere. Naturalmente, nessuno ha
sentito o visto nulla. Neanche
minacciare di chiamare le rispettive
mogli è servito a qualcosa. Quando il
medico legale ha finito l’esame
preliminare, credo che Don sia andato
con Sam a raccogliere testimonianze per
la strada.»
Carol nascose la sua irritazione. Se
Don Merrick voleva essere preso sul
serio come ispettore, doveva cominciare
a comportarsi come tale. Andare in
cerca di informazioni per la strada era
un lavoro per agenti di grado inferiore.
Avrebbe dovuto restare sulla scena e
coordinare il resto della squadra almeno
fino all’arrivo di Carol, invece di
andarsene in giro. «Lo voglio
all’autopsia» disse l’ispettrice. «Ditegli
di mettersi in contatto con il team del
dottor Vernon.»
Tony si era allontanato dal letto per
permettere agli agenti della scena del
crimine di svolgere le loro pratiche
arcane. Carol lo raggiunse. Erano vicini
ma non abbastanza da toccarsi. «Sembra
che non le sia rimasta una sola goccia di
sangue in corpo» disse. «L’assassino è
fuori controllo.»
«Non è mancanza di controllo. È un
eccesso di violenza, vero, ma ha una
ragione specifica. Il potere. L’abuso di
potere portato all’ennesima potenza.»
«E lo farà di nuovo» disse Carol, in
tono grave.
«Senza dubbio. Ne trae troppo piacere
per fermarsi. E credo che stia
acquistando sicurezza.»
Il viso di Carol si arricciò in
un’espressione di disgusto. «Che
intendi?»
«Ricordi che secondo Vernon Sandie
ha impiegato almeno un’ora a morire?
Eppure l’assassino ha scelto un albergo
a ore per quest’omicidio. Ha rischiato di
sforare. Probabilmente era sicuro di
poter gestire la situazione se fosse
successo.»
Carol scosse la testa. «Avrebbe corso
un rischio troppo alto. Avrebbe
moltiplicato le possibilità di essere
visto, non credi?»
«Certo» concordò Tony. «Ma non
sembra incline a correre rischi. È uno
stupratore per potere, ricordi? Mantiene
il pericolo al minimo. Forse ha più a che
fare con il grado di fiducia in sé stesso.
Forse si sente abbastanza sicuro da
sapere che riuscirebbe a eliminare
chiunque si mettesse sulla sua strada.»
Carol inspirò bruscamente. «Non mi
piace questa possibilità.»
«Già. Eppure devi considerarla.»
«Chi sto cercando, Tony? Cosa puoi
dirmi?»
Il dottore si accigliò. «È un maschio
bianco tra i venticinque e i trent’anni.
L’autorità non è il suo forte, ma crede
che il mondo lo sottovaluti. Se ha un
impiego, i suoi trascorsi professionali
saranno erratici. Ma credo che lavori in
proprio, qualcosa che non richiede
particolari abilità. Si fa ingaggiare da
chiunque abbia un impiego per lui, ma
non lavora mai a lungo per la stessa
persona perché crede di non averne
bisogno. Anche se ne ha. Se la cava dal
punto di vista sociale. Non ha amici
maschi stretti, ma ha un giro di
conoscenze. È improbabile che abbia
una relazione con una donna.» Tony fece
una smorfia. «Probabilmente è
impotente, tranne quando uccide.»
Scrollò le spalle. «Temo che non ci sia
molto su cui lavorare.»
«È un inizio» disse Carol, sapendo che
con Tony gli inizi poco promettenti
solevano portare a qualcosa di
produttivo. «E ora come ora, qualsiasi
inizio è il benvenuto.»
Si sente soddisfatto stasera. Ha
mantenuto la promessa fatta a sé
stesso. Questa volta ha funzionato. È
stato forte e si è comportato da uomo.
Ora, seduto al bancone a sorseggiare
una lager, si comporta come se fosse
una sera qualunque e si gode una
meritata pinta, tenendosi stretto il suo
segreto e sapendo che il movimento per
le strade è dovuto a lui.
Questa l’hanno trovata prima,
proprio come aveva programmato la
Voce. Okay, il ritardo della scoperta
del cadavere di Sandie aveva giocato a
suo vantaggio. Il tempo trascorso
aveva disperso qualsiasi testimone,
lasciando solo i volti noti che neanche
si accorgevano di lui. Ma era stato
snervante aspettare e dubitare. Niente
di tutto ciò stavolta. Sapeva che Jimmy
de Souza si sarebbe fiondato su per le
scale come un ratto in un tubo di
scarico non appena si fosse reso conto
che la chiave era di nuovo sul suo
gancio e che lui non era stato pagato.
Verme di un taccagno. Gli stava bene,
trovarsi faccia a faccia con qualcosa
che gli avrebbe chiuso lo stomaco per
giorni. Ricordava come de Souza lo
avesse preso in giro, anni addietro. La
vendetta era deliziosa. Due piccioni
con una fava.
Ma era stato angosciante rimanere
nella camera d’albergo mentre lei
moriva dissanguata. Sembrava non
finisse più, e sebbene la cosa lo
eccitasse, si era sentito esposto in
quella stanza, in un modo in cui non si
era sentito con Sandie. C’erano altre
persone nell’edificio. C’era quel
tirchio di Jimmy da tenere in
considerazione. Ma la Voce gli aveva
detto cosa fare nel caso qualcuno lo
vedesse. Non gli era piaciuta l’idea di
sfoderare il suo coltello e affondarlo
nello stomaco di qualcuno. Sembrava
un’azione fuori controllo, estranea alla
purificazione pianificata con tanta
cura. Ma la Voce gli aveva spiegato
che avrebbe potuto essere necessaria, e
lui si era detto che sarebbe stato
pronto, che ne sarebbe stato capace.
Osserva la strada attraverso la
finestra panoramica del locale. Eccoli
lì, gli sbirri. Taccuino alla mano,
appuntano nomi e indirizzi che
risulteranno falsi nella maggior parte
dei casi. Chiedono alla gente cos’ha
visto, dov’è stata. Cercano alibi,
testimoni, cercano un assassino che
hanno proprio sotto il naso. Ma non lo
sanno. È fuori dalla loro portata, sano
e salvo in un pub con la sua pinta.
Sorride e gli torna alla mente una
filastrocca della sua infanzia. ‘Corri,
corri più veloce che mai. Sono l’omino
di pan di zenzero, acchiapparmi non
potrai.’ È lui, proprio lui. L’omino di
pan di zenzero.
Jan e Paula decisero di cominciare dai
dintorni dell’albergo. Su Bellwether
Street c’erano due bar nei pressi del
vicolo angusto che conduceva al
Woolpack Hotel. Mentre camminavano,
Jan rabbrividì nella foschia notturna e si
infilò i guanti. «Fa freddo stanotte»
disse. «Le ragazze che non hanno un
posto al chiuso dove andare non se la
passeranno bene.»
«Che vita terribile» disse Paula con
sentimento, alzando il colletto del
cappotto per difendersi dalla morsa
fredda e appiccicosa della nebbia.
«Allora, com’è vivere con Don
Merrick?» chiese Jan, con naturalezza.
Paula la guardò, sorpresa. «Le notizie
viaggiano veloci» disse.
«Non esistono segreti in una stazione
di polizia» rispose Jan.
«Allora saprai che la nostra non è una
convivenza in senso biblico» disse
Paula in tono brusco. «Dorme nella
stanza degli ospiti. Almeno finché non
trova un’altra sistemazione.»
Jan rise. «Ci rimarrà per un bel po’
allora. Tranquilla, Paula, lo so che non è
una vera convivenza.»
Qualcosa nel tono di voce del sergente
mise Paula a disagio. «Bene. Allora non
ti dispiacerà chiarirlo a tutti.»
«È questo quello che vuoi? Vuoi
davvero che dica a tutti come faccio a
essere sicura che non condividi il letto
con Don oltre al microonde?» C’era una
sfumatura scherzosa e provocatoria nella
voce di Jan.
Paula si fermò di colpo. «E questo
cosa vorrebbe dire?» chiese, con una
sensazione di vuoto nello stomaco.
Jan si voltò a guardarla. Un sorriso
trasformò il suo viso angelico nel
ritratto dell’innocenza. «Il Rainbow
Flesh, a Leeds. Sulla pista da ballo.
Credo ci fosse un remix di Central
Reservation di Beth Orton. La tua
compagna di ballo era molto carina.
Mulatta. Col tatuaggio di un serpente
sulla spalla.»
Paula cercò di nascondere lo shock
che sembrò letteralmente penetrarle i
muscoli. «Non ero io» disse
istintivamente, senza neppure fermarsi a
capire che quell’insinuazione
equivaleva a una confessione per la
stessa Jan. Riprese a camminare.
«Evidentemente hai più tempo libero di
me se riesci ad andare a ballare»
aggiunse, provando a sminuire
l’importanza della conversazione una
volta capito che la sua paura più grande
si era trasformata in realtà.
«Va tutto bene, Paula. Non lo dirò a
nessuno» disse Jan, camminando al suo
fianco. «Pensaci. Andrei a perderci
anch’io. Nonostante quello che dicono i
capi, sappiamo entrambe che i colleghi
non manderebbero giù un nostro outing.»
«Non c’è nulla da dire» disse Paula,
tagliando corto. Voleva tempo per
ragionarci, voleva evitare di
abbandonarsi a un falso cameratismo
con qualcuno che conosceva da poco e
di cui ancora non si fidava. Attraversò
la strada, non disturbandosi di verificare
che Jan la seguisse. «C’è una donna lì,
sembra stia lavorando. Andiamo a
parlarci.»
Jan la seguì, il suo sorriso angelico
ancora sulle labbra.
Il mattino seguente, la nebbia si era
addensata fino a diventare un velo cupo
di color grigio pallido con sfumature
giallo sulfureo. Il traffico avanzava lento
per le strade della città e il dj della
mattina di Bradfield Sound cominciava a
mostrare la sua esasperazione per la
lunghezza dei bollettini sulla viabilità.
Di solito, Tony non ci avrebbe badato.
Piuttosto, il dottore avrebbe usato quel
tempo per rifugiarsi nei suoi pensieri.
Ma quella mattina era impaziente di
arrivare al lavoro.
Di ritorno dall’orrore della camera
ventiquattro al Woolpack, aveva trovato
un messaggio di Aidan Hart sulla
segreteria di casa. Quando lo aveva
richiamato, il capo gli era sembrato allo
stesso tempo perplesso e vagamente
seccato.
«Derek Tyler vuole vederti» aveva
detto.
«Lo ha chiesto lui?» Tony si era
domandato cosa avesse mai potuto fare
Tom Storey per spingere Tyler a
rompere il suo silenzio.
«Non lo ha chiesto a voce, se è questo
che intendi. Ha scritto un biglietto e lo
ha dato a un infermiere. ‘Voglio vedere
il dottor Hill.’ Non diceva altro. Ma
l’infermiere ha pensato che fosse una
novità abbastanza importante da
chiamarmi sul cellulare» aveva aggiunto
il direttore, stizzito.
«Mi dispiace che ti abbia disturbato»
aveva detto Tony, non preoccupandosi di
attribuire un tono di rammarico alle sue
parole. «È un’ottima notizia. Grazie per
avermi avvertito.»
«Ti ho fissato un appuntamento con lui
alle nove, domattina» aveva proseguito
Hart.
Mi dispiace Carol, aveva pensato il
dottore. «Va bene. Ci sarò.»
«Nella sala colloqui con la finestra di
osservazione» aveva aggiunto Hart.
«Voglio assistere di persona.»
Tony maledisse il maltempo e il
traffico, e desiderò conoscere le
stradine di Bradfield abbastanza bene da
sfruttare le scorciatoie e arrivare dritto
all’ospedale evitando la strada più
battuta. Di quel passo sarebbe arrivato
in ritardo, e aveva la sensazione che
Aidan Hart ne avrebbe gioito fin troppo.
All’improvviso, per nessuna ragione
apparente, le auto davanti a lui presero a
muoversi a una velocità molto prossima
al limite consentito. Tony affondò il
piede sull’acceleratore, rivolgendo una
preghiera di ringraziamento a qualsiasi
dio governasse il flusso erratico del
traffico di Bradfield. Deve essere un
perfido bastardo, pensò, irriverente.
Arrivò all’ospedale con sette minuti di
anticipo. Il dottore non si fermò
nemmeno in ufficio, andò dritto verso la
cabina di osservazione accanto alla sala
colloqui. Svoltando in un corridoio,
andò a sbattere contro uno degli
inservienti. «Scusi» disse, rischiando di
inciampare.
L’inserviente gli poggiò una mano sul
gomito per aiutarlo a ritrovare
l’equilibrio. «Non si preoccupi, dottore.
È qui per vedere Tyler, giusto?»
«Sì. Non ha cambiato idea, vero?»
domandò, improvvisamente
preoccupato.
L’inserviente scrollò le spalle. «Chi lo
sa? Tyler non parla. Il suo capo ha
provato a fargli qualche domanda ieri
sera ma non ha ottenuto nulla.»
«Il dottor Hart ha parlato con Tyler
ieri sera?»
L’inserviente annuì. «Non appena ha
ricevuto la nota scritta. È venuto e ha
detto a Tyler che non c’era motivo di
aspettare il suo arrivo. Se voleva
parlare poteva farlo con lui.»
Giochetti politici, pensò Tony
amaramente. Vuole prendersi la gloria
di aver convinto Tyler a parlare.
Allargò le mani in segno di estraneità
alla cosa e aprì la porta della stanza di
osservazione. Hart era già lì,
comodamente seduto con una caviglia
poggiata sul ginocchio opposto. «Mi fa
piacere che tu sia riuscito a
raggiungerci.»
«Traffico» disse Tony. «Nebbia.»
«Già, fortuna che sono uscito di casa
un quarto d’ora prima del solito
stamattina» disse Hart, compiaciuto.
«Be’, questo è un bel colpo di scena.
Credevo che Tyler ti avesse messo al tuo
posto dopo il vostro ultimo incontro. Ma
sembra che abbia altro da dire. Come
hai fatto?» Raddrizzò la schiena e si
sporse in avanti. Voleva davvero
saperlo. Ma ora che Tony sapeva del suo
tentativo di intromissione della sera
precedente, era determinato a non
rivelare nulla.
«Fascino naturale, Aidan. Fascino
naturale.» Tony sorrise e se ne andò. Era
in attesa nella sala colloqui quando la
porta si aprì e Derek Tyler entrò.
Camminava con una postura talmente
ricurva da farlo sembrare più vecchio
della sua età. La luce della sala
scintillava sulla sua testa bitorzoluta
mentre si sedeva davanti a Tony, che gli
rivolse uno sguardo di incoraggiamento.
«Ciao, Derek» disse. «Felice di
rivederti.»
Nulla. Ma almeno Tyler lo guardava
stavolta, invece di comportarsi come se
non esistesse nessuno all’infuori di lui.
Tony allungò le gambe, incrociò le
caviglie e portò le mani dietro alla testa.
Era la posizione più comoda e aperta
che si potesse assumere su una sedia di
plastica. «Allora, di cosa volevi
parlarmi?»
Nulla. «Okay» disse Tony. «Comincio
io. Credo che tu sia pronto ad arrenderti.
Non hai vacillato. Sei rimasto fedele
alla voce nella tua testa. Ma ora cominci
a chiederti perché. Come ti ho già detto,
qualcun altro ha preso il tuo posto. È lì
fuori, a fare quello che facevi tu. Ed è
più sveglio di te, dato che non l’hanno
ancora preso.»
Tyler sbatté le palpebre ripetutamente,
come una star del cinema che mette in
mostra le ciglia. Le labbra si schiusero e
la punta della sua lingua guizzò da una
parte all’altra. Ma rimase in silenzio.
«Credo che la voce ti abbia
abbandonato.»
Tyler strinse gli occhi e strofinò i
pollici contro i polpastrelli dei rispettivi
indici.
«Perché tu non puoi più soddisfarla,
Derek. Non è così? Non puoi più
liberare le strade da quelle sgualdrine.»
Tyler scosse la testa. Sembrava
frustrato. Poi aprì la bocca e le parole si
riversarono all’esterno, secche e
stridule. «So cosa stai cercando di fare.
Non è me che vuoi aiutare, vuoi aiutare
te stesso. Ma non puoi portarmi via la
Voce. È mia. Faccio solo quello che lei
mi dice di fare. E finché la Voce non mi
dice che posso parlare con te, non lo
farò.» Spinse indietro la sedia e si alzò
bruscamente. Raggiunse la porta e bussò
per essere portato via.
Non si voltò indietro. Se lo avesse
fatto, avrebbe visto le labbra di Tony
distendersi lentamente in un sorriso.
Carol era appoggiata alla parete
dell’obitorio, osservava il dottor Vernon
svolgere una perizia iniziale sui resti di
Jackie Mayall. L’odore acre delle
sostanze chimiche combinato con quello
più forte e pungente proveniente dal
cadavere le procuravano un dolore
fisico alle cavità nasali. O almeno era
così che si spiegava il suo mal di testa.
Vernon stava raccogliendo i residui sotto
le unghie della vittima, quando Don
Merrick irruppe nella sala. Sembrava
teso e un po’ scompigliato. «Mi perdoni,
signora» disse, con uno sguardo da cane
bastonato. «Il traffico è un incubo. La
nebbia...»
«La nebbia è uguale per tutti, Don»
rispose Carol.
«Lo so, ma...» La sua voce si affievolì.
Non poteva spiegare che aveva fatto
male i conti perché estraneo
all’andamento del traffico nel quartiere
di Paula. Non senza spiegare tutto il
resto.
«E riguardo a ieri sera» disse Carol,
abbassando la voce per evitare che
l’intero personale dell’obitorio la
sentisse strigliare Merrick. «Che ti è
saltato in mente? Eri l’ufficiale di grado
maggiore sulla scena e l’hai
abbandonata per mansioni che spettano
ai detective e agli agenti in uniforme.
Quando sono arrivata, Jan e Paula se ne
stavano con le mani in mano, non
sapevano se aspettarmi o cominciare a
indagare per strada.»
«Avevano l’ordine di interrogare
chiunque fosse nell’albergo» disse
Merrick, in tono difensivo.
«E non ci è voluto molto dato che solo
altre due camere erano occupate, e da
persone molto più interessate alle loro
attività che a qualsiasi cosa succedesse
al di fuori della loro stanza. Non sei più
un sergente, Don. Ho bisogno di sapere
che hai tutto sotto controllo quando io
non ci sono. Non puoi abbandonare la
scena del crimine e aspettarti che gli
altri facciano quello che dovrebbero.»
Merrick chinò la testa. «Mi dispiace,
signora. Non succederà più.»
«Sarà meglio. Ho già il mio bel da
fare senza dovermi preoccupare di
coprirti il culo.»
Merrick trasalì alla freddezza del tono
di Carol. Sperò che le informazioni che
aveva raccolto potessero riscattarlo agli
occhi dell’ispettrice. «Almeno abbiamo
l’indirizzo della vittima» disse. «Ci è
voluto un po’, ma siamo riusciti a
risalire a un monolocale a Comb Moss.
Abbiamo tirato giù dal letto il
proprietario alle tre di questa mattina e
abbiamo perquisito l’appartamento.»
L’espressione severa di Carol si
addolcì lievemente. «Cosa sappiamo
quindi?»
«Jackie Mayall si è trasferita a
Bradfield circa diciotto mesi fa. Era
originaria di Hayfield. Ho parlato con
uno del posto mentre arrivavo. Solita
storia. Genitori disoccupati da sempre,
altri tre figli oltre a lei. Lascia la scuola
a sedici anni, ma il lavoro scarseggia.
Ogni tanto fa dei turni in una delle
fabbriche del posto, ma non riesce a
trovare un lavoro a tempo pieno. La
puntualità non era il suo forte, a quanto
pare. Si dà all’eroina e poi alla
prostituzione per pagare la droga. In un
centro piccolo come Hayfield, è difficile
non essere pizzicati, perciò si trasferisce
in città. Il proprietario del monolocale
sapeva del vizietto di Jackie, ma non gli
importava perché era una buona
affittuaria. Mi creda, non ho mai visto un
appartamento di un tossico così pulito e
ordinato.» Merrick riusciva ancora a
vederlo: un letto matrimoniale
perfettamente rifatto, un paio di
poltroncine di scarsa qualità rivestite di
tessuto stampato dai colori vivaci per
nascondere la tappezzeria logora, un
angolo cottura immacolato con un
fornetto multifunzione tirato a lucido, i
vestiti appesi con cura a una barra
appendiabiti, il televisore e il
videoregistratore privi di polvere, e una
mezza dozzina di chick lit tascabili
sistemati sulla mensola del caminetto.
Era stato penoso, in verità. Il triste
simulacro di una vita normale nascosto
dietro la porta scheggiata di una delle
zone più povere della città. «Non una
bella vita, insomma» disse Merrick.
Carol sospirò. «Ma era la sua. E poi
un bastardo arriva e gliela porta via.» Si
schiarì la gola e fece qualche passo in
avanti verso il medico legale. «Che ne
pensa allora? Stesso assassino?»
Vernon alzò lo sguardo su di lei. «È
stata uccisa nello stesso modo. Semmai,
le sue ferite sono più gravi. Direi che
l’assassino ha usato uno strumento più
lungo stavolta. Le lesioni interne sono
più profonde. È probabile che sia morta
più velocemente di Sandie Foster. Il
dolore deve essere stato atroce. Sarà
andata in shock poco dopo l’affondo
iniziale.»
Carol rabbrividì. «Che genere di
persona fa una cosa simile?»
«Questa è una domanda per il dottor
Hill, non per me. Io posso solo dire
quello che fa, non perché lo fa. Ma di
sicuro ne trae una sorta di eccitazione
sessuale.»
«Questa non è di certo una novità»
borbottò Merrick.
Vernon gli lanciò un’occhiata severa.
«Io mi occupo dei fatti, ispettore, non
della teoria. So che ne trae eccitazione
sessuale perché sono presenti tracce di
sperma sulla pancia di Jackie Mayall.»
Il vapore sul lato interno delle vetrate
dello Stan’s Café faceva sempre
sembrare che sul canale di Temple
Fields aleggiasse uno strato di foschia.
Il sergente Kevin Matthews aprì la porta
e passò dal freddo della nebbia al caldo
dell’aria viziata. Non era sicuro che
fosse un miglioramento. Estrasse dalla
tasca un foglio A4 piegato e si sedette al
tavolo accanto all’ingresso. Il giovane
dall’aria assente che lo occupava,
avvolto in una felpa con cappuccio,
sembrò sorpreso, come se Kevin avesse
infranto una regola non scritta. Il
sergente spiegò il foglio, rivelando la
copia di una foto di Jackie Mayall che
Merrick aveva trovato
nell’appartamento della ragazza. La
ritraeva mentre brindava in direzione
dell’obiettivo, i capelli biondo
ossigenato resi bianchi dal flash.
Merrick aveva ritoccato la foto per
eliminare gli occhi rossi. Ma ora le
pupille di Jackie sembravano dilatate in
modo innaturale. «Forse non sono tanto
lontane dalla realtà» aveva grugnito
Sam, prendendo la sua copia e
preparandosi a tornare in strada con
Kevin. Si erano divisi poi. Sam si stava
occupando del minimarket e del burger
bar dietro l’angolo.
«Tutto bene, amico?» chiese Kevin.
Il ragazzo annuì in tutta fretta. «Sì. Sto
bene. Sono Jason.»
E non hai tutte le rotelle a posto, pensò
Kevin, modificando il suo atteggiamento
senza trattarlo con superiorità. «Ciao,
Jason. Io sono Kevin. Sono un
poliziotto.»
Gli mostrò la foto di Jackie. Jason la
guardò, poi alzò lo sguardo verso Kevin.
«Perché hai una foto di Jackie? È la tua
ragazza? L’hai persa?»
«La conoscevi?»
«Jackie? Conosco Jackie. Jackie viene
qui per la cioccolata calda.»
«Mi dispiace ma devo informarti che
Jackie è morta. È stata uccisa la notte
scorsa.»
Jason rimase a bocca aperta. «No. Non
Jackie, non è possibile. Jackie è una
ragazza gentile. Forse vi siete sbagliati.»
Kevin scosse la testa. «Temo di no. Mi
dispiace.»
«Non ha senso. Jackie era gentile»
ripeté Jason.
«Parlavi mai con lei?»
Jason sembrò imbarazzato. «Non
proprio. Non parlare parlare. Solo
‘Ciao, come va?’.»
Prima che Kevin potesse approfondire,
un paio di ragazzi si staccarono dalla
slot machine e si lasciarono cadere sulle
altre due sedie accostate al tavolo. «Sei
uno sbirro?» chiese uno di loro.
Kevin annuì. «E tu sei?»
Quello più tozzo tra i due raddrizzò le
spalle in un patetico sfoggio di virilità.
«Sono Tyrone Donelan.»
«E cosa fai, Tyrone?» domandò Kevin,
cercando di nascondere il sarcasmo
nella sua voce.
«Circa cinquantasei chilometri ogni
quattro litri.» Rise fragorosamente alla
sua stessa battuta. «Sono un meccanico»
disse. «Quando si tratta di macchine,
sono l’uomo giusto.»
Quando si tratta di rubare macchine,
pensò Kevin, cinicamente. «E chi è il
tuo amico?»
Donelan si voltò verso l’altro ragazzo.
«Lui è Carl. Carl Mackenzie. Di’ ciao
allo sbirro, Carl.»
Mackenzie grugnì qualcosa e distolse
lo sguardo, tracciando dei solchi nello
zucchero rovesciato sul tavolo. «E tu
cosa fai, Carl?» chiese Kevin.
La bocca di Mackenzie si contrasse,
come se non fosse sicuro di cosa si
aspettassero da lui. «Niente di che»
rispose.
Kevin fece scivolare la fotografia di
Jackie verso di loro. «Conoscete Jackie
Mayall?» Prima che potessero
rispondere, la porta si aprì e Dee Smart
entrò nel locale. Si guardò intorno e,
vedendo Kevin, andò dritta verso di lui
e lo fissò con sguardo furioso. I ragazzi
sembrarono illuminarsi alla vista di
Dee. «Lei è Dee. Dee, questo è Kevin»
recitò Jason, come un bambino
orgoglioso di aver appena affinato le sue
capacità relazionali.
«Conosco Kevin» disse Dee in tono
acido, continuando a fissare il sergente.
«Avevi detto che ve ne importava
qualcosa di noi. Che non eravamo delle
reiette.» La sua voce era abbastanza alta
da attrarre l’attenzione dei tavoli
circostanti.
Kevin si fece rosso paonazzo, le sue
lentiggini sembrarono scurirsi. «Non lo
siete» disse, a bassa voce.
«Allora come mai un’altra di noi è
finita all’obitorio? E come mai non
avete niente di meglio da fare che
tormentare un ragazzo innocente? Perché
non alzi quel culo e scopri chi sta
uccidendo le mie amiche?» Dee si girò
sui tacchi e se ne andò barcollando
verso il bancone.
Jason sorrise imbarazzato e Carl
ridacchiò. «Non credo che tu le piaccia,
Kevin» sghignazzò Tyrone.
Kevin notò gli sguardi ostili diretti
verso di lui. «Credo che non sia l’unica,
Tyrone.» Si alzò con aria stanca, sapeva
che non avrebbe scoperto nulla in quel
locale finché Dee non avesse cambiato
umore.
Era impossibile non notare la presenza
della polizia quella mattina a Temple
Fields. Tony vide vari agenti che
conosceva mentre camminava per le
strade e i vicoli. La nebbia si stava
diradando lentamente, lasciando il posto
a uno strano vuoto d’aria vorticante che
sembrava inghiottire le persone che lo
attraversavano. Era difficile non
accorgersi di come il clima riflettesse
l’inquietudine che opprimeva il cuore
oscuro della città.
Tony si fermò davanti alla sua
destinazione. La vetrina era ben
illuminata, il suo contenuto perlopiù
innocuo; sembrava suggerire che il sesso
fosse sempre e soltanto divertente. Il
dottore spinse la porta per aprirla ed
entrò. Era già stato in un sexy shop
prima di allora, ma tempo addietro.
Rimase sorpreso da come tutto
sembrasse così pragmatico. Della
musica techno risuonava vivace in
sottofondo. Non c’era nulla di occulto o
discreto nel modo in cui gli oggetti
erano esposti; era tutto in bella vista e a
portata dei clienti. Il messaggio
implicito era che non c’era nulla di male
in qualsiasi cosa volessero fare in
privato degli adulti consenzienti.
Il dottore fece un giro, guardandosi
intorno. C’erano oggetti il cui scopo
poteva solo immaginare, cosa che
trovava alquanto allarmante considerata
la sua area di competenza. Si fermò alla
sezione di scaffali dedicata al bondage.
Catene, manette, bavagli, pinze per
capezzoli e vari articoli misteriosi
raggruppati assieme come un
assortimento di fagioli stufati in un
supermercato. Tony afferrò un paio di
manette per caviglie in pelle che
sembravano simili a quelle usate su
Jackie. Notò il prezzo e inarcò le
sopracciglia. «Chiunque tu sia, non vai a
risparmio. Il potere ha il suo prezzo e tu
sei disposto a pagarlo.» Parlò a bassa
voce, ma non abbastanza da evitare di
attirare l’attenzione del cassiere. L’uomo
lasciò la sua postazione e si diresse
verso Tony.
«Posso aiutarla, signore?» chiese.
Tony alzò lo sguardo e vide una figura
alta e slanciata con indosso un panciotto
di cuoio su una pelle abbronzata e
tatuata. Il commesso aveva una fila di
diamanti scintillanti sul bordo di
entrambe le orecchie. «Ne vendete molte
di queste?» chiese il dottore.
«Più di quante creda. Alla gente piace
ravvivare la propria vita sessuale.» A
giudicare dallo sguardo che rivolse a
Tony, il commesso sembrava alquanto
sicuro che la vita sessuale del dottore
avesse bisogno di un po’ di pepe.
Tony accarezzò le manette
distrattamente. «Forse è qui che mi sono
sbagliato finora. Che tipo di persone le
comprano?»
«Persone di ogni tipo.» Il commesso
sembrò sospettoso.
Tony cercò di sembrare innocuo. «Il
mio interesse è puramente professionale.
Sono uno psicologo clinico» spiegò.
Il commesso alzò gli occhi al cielo,
come se avesse già sentito quella storia
altre volte. «Come ho detto, persone di
ogni tipo. Gli habitué del sadomaso, tutti
piercing e cuoio nero, ma anche le
casalinghe di periferia.»
«Il grande calderone del sesso. Grazie.
Prendo queste.» Consegnò le manette
per caviglie e ne aggiunse un paio di
metallo per i polsi. «Tutto per il bene
della ricerca.» Si diresse verso la cassa,
lanciando un’occhiata al commesso alle
sue spalle; l’uomo lo guardava come se
Tony non fosse in grado di andare in giro
da solo. Non era la prima volta che il
dottore riceveva uno sguardo simile.
Non lo trovava offensivo. Al contrario,
rimaneva colpito dalla perspicacia delle
persone. Passare per umano non sempre
mi riesce, pensò.
Uscì dal negozio qualche minuto dopo,
chiedendosi distrattamente se l’acquisto
sarebbe potuto rientrare nel rimborso
spese a carico della polizia di
Bradfield. A conti fatti, decise che era
meglio non provarci nemmeno a
inserirlo. Carol avrebbe compreso il
motivo di quella spesa, ma quelli della
contabilità ci avrebbero letto chissà
cosa. Specialmente dopo aver scoperto
– e di sicuro lo avrebbero scoperto –
l’attuale domicilio di Carol.
Il dottore si avviò verso la sua auto.
Svoltando l’angolo, notò il sergente Jan
Shields che parlava con una donna. Una
prostituta, a giudicare dagli abiti
succinti. Il linguaggio del corpo diceva
che la donna non gradiva la
conversazione in cui era impegnata.
Vedendo Tony avvicinarsi, Jan tagliò
corto con l’interrogatorio e guardò la
donna allontanarsi in tutta fretta. Poi
indicò la busta in mano al dottore. «Chi
è la fortunata?»
Tony sembrò perplesso. Abbassò lo
sguardo e vide il logo del sexy shop sul
lato della busta. Scrollò le spalle.
«Giochi mentali. Devo capire quali sono
le regole del killer. A volte aiuta usare
gli stessi giocattoli.»
«Crede che sia un gioco? Delle donne
vengono infilzate come maiali e lei
crede che sia un gioco?» Il tono della
sua voce era divertito piuttosto che
indignato.
«L’assassino lo crede. Alcune persone
prendono molto seriamente i loro giochi
mentali. Come questioni di vita o di
morte, come diceva Bill Shankly.»
Jan annuì, comprendendo cosa volesse
dire. «E il suo lavoro è batterlo al suo
stesso gioco?»
Tony considerò le parole del sergente.
«No. Il mio lavoro è dedurre le regole.
Siete voi che fate la mossa finale. Come
procede?»
Jan scosse la testa. «Lentamente. La
verità è che abbiamo bisogno di un
colpo di fortuna. Qualcuno deve pur
aver visto qualcosa. Si tratta solo di
trovarlo prima che lo faccia
l’assassino.»
Tony la guardò, sorpreso. Era
un’intuizione che non si aspettava.
«Credo che abbia ragione» disse,
lentamente. «Credo che sia pronto per
qualcosa di più.»
Oscar’s era uno di quei bar che non
era mai stato più di una topaia, secondo
Paula. Gli indizi erano ovunque. Anche
nel giorno in cui aveva riaperto dopo
l’ultima ristrutturazione, il locale era
sembrato esattamente ciò che era: una
versione scadente di qualcosa di
vagamente simile a un bar alla moda.
Ogni cosa sapeva di scarsa qualità. Le
lampadine non erano sufficientemente
potenti, ma illuminavano quanto bastava
a notare le pennellate maldestramente
distribuite sulle assi di pino nel vano
tentativo di farlo sembrare legno
massiccio. I cartelli sparsi sulle pareti
strillavano di offerte speciali su birra,
shot e happy hour.
Paula si guardò intorno in cerca del
suo obiettivo. La sua indagine sul campo
aveva fornito una sola informazione utile
fino ad allora. Una ragazza che lavorava
in una sauna ai margini di Temple Fields
le aveva detto che a volte Jackie Mayall
si lavorava alcuni clienti insieme a una
giovane prostituta che si faceva
chiamare Honey. «A quest’ora, la trovi
da Oscar’s. Non puoi sbagliarti. Sarà
quella col vestito rosso in latex e un
Bacardi Breezer in mano» aveva detto la
ragazza, guardandosi alle spalle con fare
nervoso per essere sicura che nessuno la
sentisse dare informazioni a uno sbirro.
La descrizione calzava a pennello a
una giovane donna seduta a un tavolo in
un angolo, intenta a trangugiare il suo
drink direttamente dalla bottiglia. I
capelli scuri erano striati di una tonalità
di magenta che un’amica di Paula aveva
battezzato come ‘viola prostituta’ in
seguito a un tentativo di tinta casalinga
finito male. Paula sentì il cuore
stringersi nel petto quando notò la tenera
età di Honey. Di certo non era
abbastanza grande da poter bere il suo
drink legalmente. Paula si avvicinò al
bancone, dove mezza dozzina di bevitori
dell’ora di pranzo sorseggiavano le loro
pinte con aria cupa. Comprò una
bottiglia di acqua minerale e un Bacardi
Breezer, dirigendosi verso il tavolo
della ragazza. Vi poggiò le bevande e si
sedette. L’espressione sorpresa di
Honey si trasformò in una di ostilità e
diffidenza. «Sbirro» disse, in tono
beffardo.
«Uno sbirro con un drink per te» disse
Paula.
«Credi che valga quanto una cazzo di
bottiglia?» commentò Honey, sarcastica.
Paula sospirò. «Non sono qui per
litigare, Honey. Sono qui perché una
delle tue amiche è morta.»
Honey le lanciò un’occhiata di puro
odio. «Non vi importa un cazzo di noi.
Siamo solo merda che cammina per voi.
Jackie non sarebbe morta se voi inutili
pezzi di merda aveste fatto quello per
cui siete pagati e ci aveste protetto come
fate con le persone per bene nelle loro
case per bene.»
«È quello che stiamo cercando di fare.
Ma non è facile se nessuno parla. Non
voglio incastrarti o portarti dentro,
Honey. Sto cercando di proteggere te e
le tue colleghe. È per questo che ho
bisogno del tuo aiuto.»
Honey sbuffò. «Colleghe? Cazzo,
questo sì che è un nuovo modo di dire
puttane.»
Paula si sporse in avanti e fissò Honey
con sguardo convinto. «Deciditi, Honey.
Non puoi sputtanarci perché vi trattiamo
male e poi sputtanarci ancora quando vi
mostriamo un po’ di rispetto. Non credo
che tu sia merda che cammina,
onestamente. Quella definizione la
riservo per la feccia che vi usa e abusa
di voi. E credo non vi meritiate gran
parte di quello che vi beccate. Il
bastardo che ha ucciso Jackie? Voglio
metterlo dentro per il resto dei suoi
giorni. Perciò parla.»
Il fervore di Paula smosse qualcosa in
Honey. Distolse lo sguardo e borbottò:
«Che vuoi sapere, sbirro?»
«Il mio nome è Paula. Quando hai
cominciato a lavorare con Jackie?»
«Chi ha detto che ci lavoravo?» Era
l’ultimo residuo del suo atteggiamento
sprezzante. Paula sapeva che avrebbe
ceduto.
«Non è esattamente un segreto di
stato.»
Honey prese a grattare l’etichetta del
suo drink. «Quando ho cominciato a
battere, circa sei mesi fa. Lei mi ha
preso sotto la sua ala. Io non sapevo
nulla. Ero una preda facile, capisci. E
lei mi ha tenuto alla larga dalla merda
che c’è lì fuori.»
«Quindi battevate insieme? E una volta
finito di lavorare, Honey? Jackie
continuava a prendersi cura di te?»
«Che vuoi insinuare? Non era una
cazzo di lesbica.»
Paula scosse la testa. «Non intendevo
quello.»
Honey la squadrò. «E non lo sono
neanche io.»
«Non mi interessa» sospirò Paula.
«Jackie ti ha aiutato a sistemarti?»
Honey strinse le braccia attorno alla
sua esile figura, abbracciandosi. «Mi ha
trovato un posto nel suo stesso palazzo.
Era come una sorella maggiore, tutto
qui. Ci divertivamo, sai?»
«E quando lavoravate insieme? Come
funzionava la cosa?»
Honey la guardò di sbieco, come se
stesse considerando quanto rivelare. «Tu
me la ricordi.»
Il diversivo funzionò. Colta alla
sprovvista, Paula quasi rovesciò il suo
drink. «Come? Le assomiglio?»
«Un po’. Ma è più... non lo so, è che tu
ascolti. Non mi tratti come una cazzo di
bambina.»
Paula non era sicura che Honey fosse
sincera, ma se lo era, la cosa poteva
tornare utile per convincere la giovane
prostituta ad aprirsi. «Dimmi di quando
lavoravate insieme.»
Honey trascinò a sé il pacchetto di
sigarette e ne accese una. «Succedeva
ogni tanto. Se un cliente voleva pagare
per una cosa a tre, lo portavamo
all’albergo. Sai, il Woolpack. Dove
lei... è morta.»
Paula cercò di nascondere
l’eccitazione che provava nell’avere
finalmente informazioni utili. «Qualche
cliente abituale tra questi?»
Honey sorrise. Quel gesto la privò del
suo cinismo scaltro e la fece
assomigliare di più all’adolescente che
era stata prima che la strada la
costringesse a crescere. «Alcuni
tornavano per una replica, sì. Cazzo se
eravamo brave.»
«Niente di violento?»
«Quello non si può evitare» disse
Honey, oscurandosi in volto. «Fa parte
del lavoro.»
«Qualcuno in particolare?»
Honey scrollò le spalle. «Jackie
chiudeva con chiunque superasse il
limite.»
«Crediamo che l’uomo che l’ha uccisa
fosse già stato con lei in precedenza.»
«E credi che questo accorci la lista?»
Honey sbuffò. «Era brava, sai. Chi
andava con lei, spesso ci ritornava.»
«E uno di loro potrebbe averla uccisa.
Dobbiamo cercare di identificarli.
Verificare se c’è qualcuno con
precedenti di violenza contro le donne.
Che ne dici di venire alla stazione e
dare un’occhiata a qualche foto?»
«Io? Venire in stazione? Scherzi? Vuoi
che esca da qui con te e che venga in una
stazione di polizia? Stai cercando di
rovinarmi la vita completamente? È già
grave che stia parlando con te. Se ci
vedono per strada insieme sono finita.»
Droga, pensò Paula. È preoccupata che
il suo spacciatore la veda con uno sbirro
e la lasci a secco. Prendendo una
decisione repentina, disse: «Okay.
Conosci il parcheggio al Campion
Centre?»
Honey annuì, sospettosa.
«Vediamoci all’ultimo piano tra
mezz’ora. Ti accompagno in centrale e
poi ti riporto lì. Nessuno ti vedrà
arrivare o andar via. Che ne dici?»
Honey ci pensò. «Va bene» disse, con
riluttanza. «Ma farai meglio a mantenere
la parola, Paula.» Pronunciò il suo nome
come un insulto.
Paula sorrise con dolcezza. «Mantengo
sempre la mia parola, Honey. Sono
famosa per questo.»
Honey le lanciò un’occhiata che
sembrò metterla a nudo. «Scommetto che
non è l’unica cosa per cui sei famosa.
Come ho detto, mi ricordi Jackie.»
Paula sbatté le palpebre. Era
un’allusione di troppo. Si alzò e disse in
tono burbero: «Ultimo piano del
parcheggio del Campion Centre.
Mezz’ora.»
Le sembrava di sentire gli occhi di
Honey addosso mentre camminava verso
la porta. Non era una sensazione
rassicurante.
Al suo ritorno, Carol trovò solo Stacey
nell’ufficio comune della crimini
maggiori. La detective alzò lo sguardo
dai suoi schermi. «Il commissario capo
è passato a cercarla. Ha detto di
avvertire il suo ufficio non appena
sarebbe arrivata.»
«Grazie. Fagli sapere che sono qui»
disse Carol. Esattamente quello di cui
aveva bisogno per togliersi di bocca
l’amaro lasciato dall’autopsia di Jackie
Mayall. «Il dottor Hill si è fatto vivo
oggi?»
«Non l’ho visto. E sono stata qui tutta
la mattina.»
«Vedi se riesci a rintracciarlo quando
hai un minuto» disse Carol.
«Lo faccio subito. Ah, Sam le ha
lasciato una nota riguardo al geologo
forense» aggiunse Stacey.
Come se non avessi abbastanza da
fare, pensò Carol stancamente. Chiuse la
porta del suo ufficio e si sedette alla
scrivania, rovistando nel primo cassetto
finché non trovò una boccetta di Paco
Rabane. Ne spruzzò un po’ sulla gola e
sui polsi, nel tentativo di liberarsi
dell’odore che sembrava impregnarle la
pelle. Se Brandon stava per entrare nel
suo ufficio, non voleva puzzare di
obitorio e vino.
Prese la nota sulla sua scrivania. La
calligrafia compatta di Sam diceva:
Ho parlato con il dipartimento di Scienze Naturali
all’università. Hanno un esperto che ha
collaborato con la polizia in passato, ma è
specializzato nell’analisi dei campioni di terreno,
quindi non ci è molto utile. Però mi hanno dato il
numero del dottor Jonathan France, che sembra
sia l’uomo giusto a cui rivolgersi in fatto di pietra
calcarea. Che è quello con cui abbiamo a che
fare. Lavora a Sheffield, ma sarà a Bradfield
questo pomeriggio. Gli ho chiesto di passare verso
le tre. Vuole che lo incontri io o preferisce farlo
lei?

Carol ci pensò per un momento. Non


guastava mai lusingare gli esperti.
Inoltre, la sensazione di fare progressi in
almeno uno dei suoi casi le avrebbe
fatto bene. Effettuò l’accesso al suo
computer e inviò un messaggio a Stacey.
«Di’ a Sam che parlerò io col dottor
France.»
Aveva appena inviato il messaggio,
quando la porta si aprì e Brandon entrò
senza aspettare un invito. Carol alzò lo
sguardo, stupita. In tutti gli anni in cui
aveva lavorato con John Brandon, non lo
aveva mai visto perdere le buone
maniere. Quell’entrata le diceva più
chiaramente di qualsiasi parola che
l’uomo stava subendo pressioni da piani
alti che lei poteva solo immaginare.
Brandon gettò sulla scrivania una copia
del giornale della sera. ‘SECONDA
PROSTITUTA MASSACRATA IN CITTÀ’
annunciava il titolo in prima pagina. In
caratteri più piccoli c’era scritto: ‘La
polizia ha preso l’uomo giusto due anni
fa?’
«Ride di noi, Carol. Due omicidi in tre
settimane, e non facciamo progressi.»
«Non direi, signore.»
«No? Abbiamo un sospettato?
Abbiamo la minima idea di dove
cominciarlo a cercare un sospettato?» Il
suo viso lungo era teso e mostrava la sua
frustrazione.
«Il dottor Vernon ha trovato dello
sperma sul corpo della seconda vittima.
È stato gravemente contaminato dal
sangue della ragazza, ma secondo il
dottore il laboratorio riuscirà a estrarne
un campione di DNA.» Carol cercò di
mantenere la calma, ma il cuore le
batteva all’impazzata e avvertì una
goccia di sudore scenderle lungo il
collo.
Brandon emise un grugnito di
impazienza. «A meno che non sia già nel
database, non servirà a molto finché non
avremo un sospettato. Che progressi
state facendo su quel fronte?»
Carol si alzò, cercando di diminuire la
distanza tra di loro. «Stiamo cercando di
rintracciare quanti più clienti possibile,
ma non è facile. Agli uomini non piace
ammettere di andare con le prostitute.»
Brandon afferrò il giornale e glielo
sventolò in faccia. «La stampa ci
bastona. Ci chiedono apertamente se
abbiamo incastrato Derek Tyler due anni
fa. I telegiornali chiedono una mia
dichiarazione. Dobbiamo fare progressi
veri, Carol.»
«Il dottor Hill sta lavorando al
profilo» disse, cercando disperatamente
di dare a Brandon qualcosa che fungesse
da zattera di salvataggio.
Lui scosse la testa. «Non è abbastanza.
Dobbiamo agire. Credo che dovremmo
stanarlo. Dobbiamo organizzare
un’operazione sotto copertura.»
Carol non riusciva a credere alle sue
orecchie. Dopo quello che le era
successo e di cui John Brandon era al
corrente, non riusciva a credere che le
stesse davvero suggerendo di prendere
in considerazione la possibilità di
esporre uno dei suoi agenti a una
rischiosa operazione sotto copertura.
Avrebbe voluto urlargli in faccia, dirgli
che non era migliore degli uomini dai
quali aveva detto di volerla salvare.
Voleva schiaffeggiarlo fino a farlo
tornare in sé, ricordargli quanto lei fosse
andata vicina a perdere tutto per
un’operazione simile. In qualche modo,
riuscì a controllarsi e disse
semplicemente: «Di sicuro è troppo
presto per pensare di ricorrere a una
soluzione simile, non crede?»
«Troppo presto? Ha già fatto due
vittime, Carol. E questo se escludiamo
ogni legame con i quattro omicidi per
cui Derek Tyler è stato condannato. Non
possiamo starcene a guardare e aspettare
che colpisca di nuovo sperando che
faccia un errore e ci dia delle prove
concrete su cui lavorare.»
«Possiamo aumentare i controlli su
Temple Fields, signore. Più pattuglie a
piedi. Più telecamere di sorveglianza.»
Brandon scosse la testa, esasperato.
«Carol, sai bene quanto me che questo
genere di misure serve solo a spostare il
problema altrove. Se Temple Fields
diventa troppo pericoloso per lui,
troverà la prossima vittima in un altro
quartiere. Successe la stessa cosa con lo
Squartatore dello Yorkshire. Quando la
polizia gli rese impossibile agire nei
quartieri a luci rosse, spostò l’attenzione
sulle cosiddette vittime ‘innocenti’. Non
voglio avere una cosa simile sulla
coscienza.» Aprì un dossier che aveva
in mano e distribuì il contenuto sulla
scrivania. Sei donne fissavano Carol da
altrettante foto ingrandite; sembravano
molto più felici di quanto non suggerisse
il loro stile di vita.
«Eccole» disse Brandon. «Guarda
queste foto. La preferenza per una certa
tipologia di vittima è evidente. La stessa
che aveva Derek Tyler.»
Carol trascinò lo sguardo altrove,
turbata al pensiero di quelle vite
spezzate, vite che lei e i suoi colleghi
non erano riusciti a salvare. Per un
momento, le sembrò di ritornare a un
punto in cui non era sicura per quanto
ancora sarebbe riuscita a tenersi stretta
la sua stessa vita. «Non lo metto in
dubbio. Ma...»
Brandon la interruppe bruscamente. «E
abbiamo un’agente che corrisponde a
questa tipologia.»
Paula, pensò subito Carol. Esile,
capelli corti biondo ossigenato, occhi
azzurri. «La detective McIntyre.»
«Esatto. Sarebbe perfetta.»
Carol sentì lo stomaco contorcersi. La
sensazione di déjà-vu fu irrefrenabile.
«Ho esperienza in questo genere di cose,
signore» disse, con tutta la
professionalità e l’enfasi di cui era
capace. «La esporremmo a un rischio
enorme.»
Brandon sembrò riprendersi, come se
d’un tratto si fosse ricordato con chi
stava parlando. «È proprio la tua
esperienza a darmi la certezza che
quest’operazione verrà condotta come si
deve. Credo che tu sia capace di
contenere i rischi. E credo che se
sottoponessimo l’idea alla detective
McIntyre, coglierebbe al volo
l’occasione di mettere questo bastardo
dietro le sbarre.»
Come ho fatto io. «Sono sicura che lo
farebbe. È molto dedita al suo lavoro.
Ma non sono sicura che dovremmo
esporla in questo modo. È proprio la sua
dedizione al lavoro che intaccherebbe la
sua capacità di giudizio.»
Brandon raccolse le fotografie,
impaziente. «Che altro suggerisci?»
Carol non aveva nulla da suggerire, e
lo sapevano entrambi. Cercò di prendere
tempo come meglio poteva. «Dobbiamo
essere sicuri che questa strategia
funzioni. Credo che dovremmo
coinvolgere il dottor Hill.»
«Nella fase di pianificazione.
Certamente» concordò Brandon.
«Credo che dovremmo consultarlo
prima di arrivare a quel punto, signore.
Credo che prima di mettere a rischio la
vita di un’agente, dovremmo essere
dannatamente sicuri che otterremo i
risultati sperati.»
L’empatia era la chiave di tutto,
secondo Tony: ogni assassino opera
secondo una sua logica interiore;
scoprire la logica può condurre
all’assassino. L’unico problema era
interpretare i simboli esterni e tradurne
il significato. Tutto si ricollegava alla
fantasia dell’omicidio, e ogni fantasia
trova le sue radici in una visione
distorta della realtà. A volte Tony
riusciva a districarsi in quel labirinto
con le sole parole. A volte aveva
bisogno di qualcosa di più concreto.
Aveva portato a casa i suoi acquisti, e
stava elaborando la sua personale
versione del gioco messo in atto
dall’assassino. Con le manette in pelle
aveva fissato le caviglie a una sedia
della cucina, e ora era alle prese con le
manette per polsi adagiate sul suo
grembo. Ne chiuse una attorno a un
polso e ne testò la resistenza. «Devo
legarti. Così sei costretta a fare quello
che voglio. Controllo senza consenso. È
questo che voglio.»
Armeggiò con l’altro anello delle
manette, infilandoci il polso senza
azionare la chiusura a scatto. Ma il
telefono squillò e il dottore trasalì.
Prima che potesse fermarsi, le dita si
contrassero sul metallo e l’anello scattò,
chiudendosi. «Cazzo» gridò, mentre si
attivava la segreteria telefonica.
Sentì la sua stessa voce dire: «Ora non
posso parlare, lasciate un messaggio
dopo il bip.»
A seguire il segnale acustico fu la voce
di Carol. «Tony, chiamami appena senti
questo messaggio. Devo parlarti. Se
sono impegnata, di’ che è urgente e mi
libero.»
Il dottore guardò il dispositivo, poi
scoppiò a ridere. «Prima dovrei
liberarmi io!» Fissò la chiave con aria
afflitta; era sul tavolo, a qualche metro
da lui. Riusciva a stento a toccare il
pavimento con la punta dei piedi.
Cominciò a dondolarsi avanti e indietro
sulla sedia, cercando di avanzare sul
pavimento piastrellato. Dopo qualche
minuto, sudato e furibondo, era riuscito
ad avvicinarsi al tavolo abbastanza da
afferrare la chiave con la mano destra.
Gli ci vollero almeno sei tentativi, ma
alla fine riuscì a infilarla nella serratura.
La girò e sentì il meccanismo interno
sbloccarsi. Fece per aprire l’anello
metallico e la sua mano sinistra fu
miracolosamente libera.
Sfortunatamente, si liberò anche la
chiave. Volò dall’altra parte della cucina
e finì nel lavello. Una serie di tintinnii,
poi un tonfo metallico. «Oh no» gemette.
«Fa’ che non sia il tritarifiuti.»
Slacciò frettolosamente il cinturino in
pelle delle manette per caviglie e corse
al lavello. Non c’era traccia della
chiave. Ma le fauci spalancate del
tritarifiuti lo sfidavano, avide. «Non ci
sarei riuscito neanche volendo»
mormorò.
Lanciò un’occhiataccia al telefono.
«Donne» disse. Alzò la cornetta e
compose il numero di Carol. «Volevi
parlare?» domandò, quando l’ispettrice
rispose.
«Sì. Ma non qui.»
«Va bene. Che ne dici dei giardini di
Temple Fields?»
«Perché lì?»
«Devo andare al sexy shop» disse.
«Poi ti spiego. Mezz’ora?»
Uscendo dall’ufficio di Carol,
Brandon decise di fare una sosta
nell’ufficio comune. Non guastava mai
dimostrare agli agenti che si era al
corrente del lavoro svolto. Spostandosi
da una scrivania all’altra, dedicò una
parola di incoraggiamento a tutti,
mostrandosi interessato alle rispettive
mansioni. Era completamente ignaro
degli occhi di Sam Evans su di lui.
Quando si voltò verso la scrivania di
Evans, il detective stava prendendo
appunti sullo schermo del computer.
«Come procede, Sam?» domandò
Brandon.
«A rilento, signore» rispose Evans.
«Su cosa lavori?»
Evans si risistemò sulla sedia,
sembrava imbarazzato. «Io... ehm...»
Brandon si spostò per vedere lo
schermo. «Stai pedinando il dottor
Aidan Hart?» Il commissario capo
sembrò sorpreso.
Evans si schiarì la gola. «Non
ufficialmente, signore.»
«Spiegati» disse Brandon, in tono
severo.
«Be’, sappiamo che il dottor Hart è
stato con Sandie Foster la sera
dell’omicidio. Ma ha un alibi dalle nove
in poi, e secondo il dottor Vernon la
ragazza è stata aggredita prima di
quell’ora. Quindi l’ispettrice capo
Jordan non lo ritiene un possibile
sospettato.»
«E tu non sei d’accordo?»
«Ho fatto tutto nel mio tempo libero,
signore» disse Evans, mettendosi sulla
difensiva. «Hart non me la conta giusta,
non credo sia stato sincero fino in
fondo.»
Brandon aggrottò la fronte. «E?»
«Frequenta prostitute, signore. Almeno
due volte a settimana. Ma non più a
Bradfield. Si sposta in altre città ora.»
Brandon avrebbe voluto congratularsi
con Evans per la sua perseveranza. Ma
il fatto che il detective avesse pedinato
Hart ignorando gli ordini di Carol lo
preoccupava. Come le saltava in mente
di liquidare un possibile sospettato così
facilmente? «Fai rapporto all’ispettrice
capo il prima possibile» disse, risoluto.
«Ottimo lavoro, Evans. Non fa mai male
seguire l’istinto.» Sebbene creasse a
Brandon un bel problema.
Quando Carol arrivò in quello spazio
verde e cespuglioso che la gente
chiamava parco, Tony era intento a dare
della cioccolata ai piccioni e a
strofinarsi i polsi. Carol lo osservò per
un momento, poi gli si avvicinò da
dietro e gli poggiò una mano sulla
spalla. Il dottore sobbalzò e si voltò di
scatto.
«So che la risposta non mi piacerà, ma
perché devi andare al sexy shop?»
domandò Carol, aggirando la panchina
per sedersi accanto a lui.
Tony le raccontò l’accaduto come
fosse un aneddoto. Al momento del suo
ritorno al sexy shop, Carol rideva già a
crepapelle.
«Allora entro, e il tizio alla cassa mi
guarda in modo strano. Come a dire
‘speravo di non vederti mai più’. Gli
racconto la storia ed è evidente che non
mi crede. Comunque, alla fine decide di
aprire un altro paio di manette e mi
libera.» Tirò fuori le manette incriminate
e le fece penzolare davanti ai suoi occhi.
«Va bene mettersi nei panni altrui per
un profilo, ma credo che tu abbia
esagerato stavolta.»
«Puoi dirlo forte. Allora, volevi
parlarmi.»
Carol si alzò, improvvisamente seria.
«Facciamo due passi.»
Tony la seguì sul sentiero che
conduceva alla strada. Quando Carol
non parlò, il dottore riempì il silenzio.
«Siamo circondati da onde radio. L’aria
è piena di voci che non sentiamo. Perché
l’assassino ne sente una e non le altre?
Quale ingranaggio nel suo cervello gli fa
sentire cose diverse da quelle che
sentiamo io e te? È come con i predatori
sessuali. Noi vediamo questo posto
come un luogo per passeggiare, loro lo
vedono come un luogo dove rubare
sesso. Da dove provengono queste
scelte?»
Carol rabbrividì. «Ora come ora,
provengono da me. E la scelta ricade su
un bar – mi sto congelando qui fuori. Ma
non restiamo a Temple Fields. Ci sono
miei agenti ovunque qui. Andiamo allo
Starbucks a Woolmarket.»
Dieci minuti dopo si erano accomodati
in un angolo tranquillo del locale,
ognuno davanti al proprio caffè
ricercato. «Ricordi quando un caffè era
solo un caffè?» disse Tony, con aria
nostalgica. «Se portassi alcuni dei miei
pazienti in questo posto, verrebbero
colti da un esaurimento nervoso solo per
decidere cosa bere.»
«Brandon vuole attirarlo in una
trappola» disse Carol, all’improvviso.
Tony rimase a bocca aperta.
Conosceva John Brandon da molto
tempo, ma non lo avrebbe mai ritenuto
capace di tanta insensibilità. «Vuole che
mandi qualcuno sotto copertura?»
chiese, incredulo.
Carol fece un respiro profondo. «Sì.
Crede che Paula rientri nella tipologia
preferita dall’assassino.»
«Che idea geniale.»
«Quindi anche tu non la trovi una
buona idea.» Lo sguardo di Carol
racchiudeva una richiesta di aiuto.
«Da un punto di vista psicologico
potrebbe funzionare. Ma sappiamo
entrambi che è una strategia ad alto
rischio. E conosciamo il prezzo del
fallimento. Ricordi il caso del
Wimbledon Common? È stato un fiasco
totale e ha portato la Gran Bretagna
indietro di anni in fatto di analisi
comportamentale. L’assassino di Rachel
Nickell è ancora a piede libero.
Tralasciando considerazioni personali,
questo mi rende particolarmente
diffidente verso ogni sorta di
istigazione.»
Carol scosse la testa. «Un giudice non
avrebbe obiezioni. Non parliamo di una
campagna sistematica rivolta a un
sospettato in particolare.»
«Quindi un’operazione del genere non
sarebbe classificata come istigazione?»
«Hai visto troppe serie tv americane,
Tony. Legalmente, non ci sono problemi.
È l’aspetto etico che mi lascia
perplessa. Sapendo quello che so, che
diritto ho di esporre Paula in questo
modo?»
Tony sentì una morsa al cuore. Capiva
la sua posizione. Ma capiva anche la
realtà della situazione. «Carol, se
Brandon vuole davvero procedere su
questa strada, non saranno la tua
esperienza o le tue opinioni a fargli
cambiare idea. Succederà e basta.»
«E se tu gli dicessi che non
funzionerebbe?» Giocherellò con la
tazza, senza incrociare lo sguardo del
dottore.
«Non mi crederebbe» disse Tony,
deciso. «Sappiamo entrambi quanto
siano superflue le opinioni dei profiler
quando sono in disaccordo con questioni
operative.»
Carol si passò una mano tra i capelli.
«Merda!» esplose. «Penseresti che dopo
quello che mi è successo gli sia entrato
in testa che non puoi controllare la
guerra quando la giochi in casa del
nemico.»
«Il fatto è che tutti credono che la loro
operazione andrà diversamente» disse
Tony. «Suppongo non ci sia la
possibilità che Paula dica di no.»
«Tu che dici?» Il viso di Carol era
triste, la sua voce rassegnata.
Tony si sporse in avanti e poggiò una
mano su quella della donna. «Allora
sarà meglio assicurarsi che fili tutto
liscio.»
Prima che potesse rispondere, Carol fu
interrotta dalla suoneria del suo
cellulare. «Carol Jordan» disse, in tono
impaziente.
«Detective Chen, capo» disse Stacey.
«Il dottor France è qui. Il geologo,
ricorda?»
Carol alzò gli occhi al cielo. «Sarò lì
tra dieci minuti, Stacey. Fagli le mie
scuse, okay?» Scattò in piedi, il caffè lo
aveva toccato a stento. «Devo tornare
alla stazione. Ho appuntamento con un
geologo di Sheffield.»
Tony sembrò confuso. «Lo prenderò
come parte del tuo fascino femminile»
disse, seguendola. «Posso venire con te?
Vorrei parlare con Brandon di
quest’operazione sotto copertura.»
Carol si voltò a lanciargli uno sguardo
di riconoscenza. «Grazie. Ma niente
pietà, ricordi?»
«Niente pietà» confermò.
Qualsiasi cosa Carol si aspettasse, non
corrispondeva al dottor Jonathan France.
Alto, slanciato e sui trent’anni,
indossava un completo da moto blu
scuro. La parte superiore era aperta a
rivelare una t-shirt bianca che metteva in
risalto un paio di pettorali ben definiti.
Sedeva nell’ufficio di Carol con totale
disinvoltura, come se stesse nel salotto
di casa sua. I capelli scuri erano folti e
lisci, tagliati abbastanza corti da
rimanere dritti sulla sommità della testa
come una spazzola per le scarpe. Gli
occhi blu scuro erano annidati tra rughe
d’espressione. Per la prima volta dopo
mesi, Carol provò interesse verso un
uomo affascinante, piuttosto che
diffidenza. Rimase così scioccata dalla
sua reazione che si ritirò
immediatamente dietro lo scudo della
formalità. «Sono l’ispettrice capo
Jordan» disse, porgendogli una mano.
Quella che la avvolse era una mano
calda e grande, con dita forti e lunghe
che terminavano con unghie squadrate.
«Lieto di conoscerla. Sono Jonathan
France» rispose l’uomo. Anche una
bella voce, pensò Carol, riconoscendo
quello che sembrava un vago accento
sudoccidentale nella sua cadenza. Il
geologo si guardò intorno, lasciando che
Carol lo notasse osservare l’ufficio.
«Non proprio quello che mi aspettavo»
disse.
«Si riferisce a me o alla stanza?»
chiese Carol. Oh dio, sto flirtando,
pensò, sconcertata.
«Entrambe» rispose France. «Non
immaginavo che lei fosse...»
«Una donna?» lo interruppe Carol,
sforzandosi di mantenere un tono
distaccato.
France sorrise. «Stavo per dire così
giovane. Non è forse un terribile
cliché?»
Spiazzata, Carol si rifugiò dietro alla
sua scrivania. «Non so quanto le è stato
anticipato» disse.
«Quasi nulla» rispose l’uomo. «Solo
che voleva mostrarmi una foto perché io
provassi a identificare il luogo dove è
stata scattata.»
Carol aprì il dossier su Tim Golding e
prese la foto ingrandita del bambino.
Prima di passarla, chiese: «Ha mai
lavorato con la polizia?»
France scosse la testa. «Mai.»
«Non è un problema. Ma devo
ricordarle che qualsiasi cosa ci diciamo
è confidenziale. Anche il fatto stesso che
lei collabori con noi. L’indagine è in
corso e non vogliamo fornire indizi di
alcun tipo riguardo alle nostre linee
investigative a chi ha commesso il
crimine. Qualsiasi informazione ci darà
dovrà rimanere tra noi. Per lei è un
problema questo?»
France aggrottò la fronte. «Potrei aver
bisogno di consultare un collega. Ma
posso farlo senza scendere in dettagli
riguardanti la nostra collaborazione.»
«Sarebbe l’ideale. Naturalmente, se
arrivassimo a un arresto e poi in
tribunale, potrebbe essere chiamato a
testimoniare, con tutta la pubblicità che
ne consegue. È un problema per lei?»
«No.» Indicò il suo completo in pelle.
«Non sono tanto male. E sono felice di
dimostrare al mondo che la geologia non
è noiosa.»
Come se qualcuno potesse pensare
che sei noioso. «Per la cronaca, può
riassumere le sue qualifiche?»
«Mi sono laureato in Scienze Naturali
a Manchester, poi mi sono specializzato
e ho trascorso un anno nelle Carlsbad
Caverns. Ho fatto un dottorato a Monaco
e sono tornato a Sheffield, dove ora
insegno geologia. Sono specializzato
nelle formazioni di calcite nelle rocce
calcaree. È sufficiente?»
Carol distolse lo sguardo dagli appunti
che stava prendendo. «Notevole.» Prese
di nuovo la foto. «Il bambino in questa
fotografia è Tim Golding. È stato rapito
circa quattro mesi fa. Le altre piste si
sono rivelate infruttuose, ma questa
potrebbe essere diversa. Se lei ci
aiutasse a capire dove è stata scattata la
foto, potremmo fare dei progressi e
scoprire cosa è successo al bambino.»
France protese una mano e prese il
foglio di carta. Lo inclinò verso la luce
e lo osservò. «Questa è un’immagine
digitale, giusto?»
«È stata inviata come allegato via
email.»
«E avete la versione elettronica
originale?» L’uomo parlava con aria
distratta, allontanando e avvicinando la
foto al volto.
«Sì.»
France alzò lo sguardo e sorrise.
«Bene. Può farmela inviare al mio
indirizzo email? Ho un software
specializzato nell’ingrandimento di foto
di campioni geologici. Dovrebbe
aiutarmi a capire cosa abbiamo
davanti.»
«Crede di poterci aiutare?» Carol
aveva quasi dimenticato che gusto aveva
la speranza.
Il geologo inclinò la testa, riflettendo.
«Possibile» disse infine. Si raddrizzò
sulla sedia. «Sì, è possibile. Posso
vederla per cena questa sera?»
Carol rimase sorpresa. «Avrà qualcosa
di utile così presto?»
France rise. La sua risata era calda e
profonda. «Temo di no. Ma anche
un’ispettrice capo deve mangiare prima
o poi. Che ne dice? Pizza, cucina
indiana, cinese? Scelga lei.»
«Mi sta invitando a un appuntamento?»
Carol non riuscì a nascondere
l’incredulità nella sua voce.
France allargò le mani. «Perché no?
Sono giovane, libero e single, e se lei
non lo è, deve solo dire no.»
Carol non si spiegava perché, ma c’era
qualcosa di assolutamente innocuo in
Jonathan France. L’idea di sedersi di
fronte a lui in un ristorante non la
spaventava. Per la prima volta dopo lo
stupro, riusciva quasi a credere che
fosse possibile avere qualcosa di simile
a una vita normale. «Non so a che ora
finirò qui» rispose evasiva. Ancora non
si fidava abbastanza di sé stessa.
France prese un biglietto da visita da
una tasca interna del suo completo.
«Nessun problema. Ho un paio di
impegni nel pomeriggio, dopodiché
lavorerò al computer nell’attesa.»
Poggiò il biglietto sulla scrivania. «Mi
mandi un messaggio quando è libera.» Si
alzò, agile e perfettamente a suo agio.
Carol lo seguì nell’ufficio comune.
«Grazie dell’aiuto» disse.
«È un piacere.»
Stacey alzò lo sguardo dallo schermo
del computer. «Il commissario capo
vuole vederla nel suo ufficio. Il dottor
Hill è con lui.»
Carol fu riportata bruscamente alla
realtà. Paula. Dovevano capire cosa fare
con Paula. Ma come diavolo avrebbe
spiegato Jonathan France a Tony?
Tony era entrato dritto nell’ufficio di
John Brandon, ignorando i tentativi della
segretaria di fermarlo. Il commissario
capo era seduto alla scrivania, dettava
un promemoria al suo registratore
portatile. Si zittì a metà frase, attonito.
«Tony» esclamò. «Non ti aspettavo...»
«Lo so» rispose seccamente. Mentre
Carol lo accompagnava alla stazione di
polizia, la sua rabbia non aveva fatto
altro che aumentare, sebbene si fosse
assicurato di non darlo a vedere. Nella
sua vita professionale aveva faticato
duramente per mettere un freno alle sue
reazioni. Ma più considerava la
proposta di John Brandon, più la sua
furia cresceva. Attraversò la stanza ad
ampie falcate e si appoggiò con i pugni
serrati al bordo della scrivania di
Brandon. «John, che diavolo ti è saltato
in mente? Come puoi chiedere a Carol
di mandare una sua agente sotto
copertura?»
Brandon si alzò. «Sei lontano dalla tua
area di competenza, Tony. Le mie
decisioni operative non ti riguardano.»
«Non nasconderti dietro il protocollo,
John. Vengo pagato per darvi la mia
opinione di psicologo. Ed è quello che
sto facendo. Carol Jordan è stata gettata
in pasto ai leoni da persone con le tue
stesse qualifiche. Capisco che tu stia
ricevendo pressioni politiche per
risolvere questi casi, ma sono state
proprio delle pressioni politiche a
motivare i bastardi che hanno
abbandonato Carol a sé stessa a Berlino.
Non capisci che ai suoi occhi ti stai
comportando esattamente come loro? Le
hai offerto questo lavoro come àncora di
salvezza e ora le chiedi di mettere una
sua agente nella stessa posizione che
l’ha quasi distrutta?» Le parole
fuoriuscirono dalla bocca di Tony come
un fiume in piena.
Un rossore marcato spuntò dal colletto
bianco e immacolato della camicia di
Brandon, risalendo lungo il collo e
arrivando al volto. «Stai oltrepassando
il limite, Tony.»
«No. Ti sto dicendo che quello che
vuoi fare provocherà un danno
psicologico serio a uno dei tuoi agenti
migliori se costringerai Carol a dirigere
quest’operazione.»
Brandon inarcò le sopracciglia.
«Allora non è l’operazione che
disapprovi? Solo il fatto che chieda a
Carol di dirigerla?»
Tony alzò le mani al cielo, esasperato.
«L’operazione è discutibile. Funzionerà
solo se spargerai i giusti semi tra i
media. Ma sì, la mia obiezione
principale è il potenziale pericolo per
l’ispettrice capo Jordan.»
«Credi che non ci abbia pensato?»
domandò Brandon, alzando la voce.
«Sinceramente, comincio a nutrire dei
dubbi sulla fiducia che ha in sé stessa.
Credo che stia influenzando la sua
capacità di giudizio.»
Tony rimase scioccato. «Che vuoi
dire?»
Brandon scrollò le spalle. «Niente che
sia pronto a discutere con te. Ma credi
che gioverebbe alla sua autostima se
mettessi qualcun altro a capo
dell’operazione? Questo è il suo caso,
Tony, e lei vuole provare disperatamente
di essere ancora all’altezza. È Carol che
dirige le indagini su questi omicidi. Se
affido l’operazione sotto copertura a un
altro agente, crederà che non la ritengo
capace di fare il suo lavoro. E peggio
ancora, lo crederà anche la sua squadra.
Se tentiamo questa strada, è lei che deve
avere il controllo. La cosa non mi rende
felice, ma non vedo alternative.»
Tony sbatté le mani aperte sulla
scrivania. «Allora aspetta. Dalle la
possibilità di ottenere risultati con i
metodi convenzionali. Dammi il tempo
di riprovare con Derek Tyler. Vuole
parlare, lo so che lo vuole.»
Brandon scosse la testa. «Tyler è
rimasto in silenzio per due anni. Perché
dovrebbe parlare adesso?»
«Ha parlato con me stamattina» disse
Tony.
Brandon mosse la testa all’indietro
bruscamente. «Che ha fatto?»
«Ha parlato con me.»
«Che ha detto?»
Tony si sentì messo alle strette. Sapeva
che se avesse detto la verità, Brandon
avrebbe accantonato l’idea di ottenere
informazioni da Tyler. Ma una bugia
avrebbe causato ancora più problemi a
lungo andare. «Ha detto che non può
parlare con me finché non glielo dice la
voce.» Sospirò.
«Be’, allora» disse Brandon, trionfante
«non credo sia un grande progresso,
no?»
«Certo che lo è» rispose Tony,
capendo dall’espressione di Brandon e
dal linguaggio del suo corpo di avere
già perso. «Ci vorrà del tempo, però.»
«Un lusso che non abbiamo. Tempo
vuol dire altri omicidi. Tu dovresti
capirlo più di chiunque altro» disse
Brandon. «Allora, che esca devo gettare
attraverso i media?»
Tony si strofinò il volto, come per
tentare di cancellare la rabbia e la paura
e rimpiazzarle con la professionalità.
Fissò il pavimento. Quando parlò, la sua
voce era fredda e distante. «È uno
stupratore per potere. Trae orgoglio dal
controllare la situazione. Crede di aver
pensato a tutto. Perciò dovrai dire alla
stampa che il secondo omicidio ha
fornito degli indizi importanti. Che
l’assassino non è attento quanto crede.
Che pensate di arrivare a lui prima che
possa colpire ancora. In questo modo
stuzzicherai la sua vanità, lo sfiderai a
provare che ti sbagli. E allora la tua
trappola potrebbe funzionare in poco
tempo.» Raddrizzò le spalle e guardò
Brandon negli occhi. «Ed è questo che
vuoi. Vero, John? Un risultato pulito e
veloce.»
Brandon si voltò e allungò una mano
verso il tasto dell’interfono. «Faccia
salire l’ispettrice capo Jordan, per
favore.» Con le spalle a Tony, disse:
«Sì, Tony. È quello che voglio. Un
risultato pulito e veloce. E credo che
Carol possa darmelo con un’operazione
sotto copertura.»
«Per il suo bene, spero che tu abbia
ragione.»
Merrick entrò nell’ufficio comune
bilanciando un sandwich su un bicchiere
di polistirene pieno di tè. Era tardo
pomeriggio e non c’era molto
movimento. Eccetto per Stacey, la stanza
era vuota. L’ispettore salutò ad alta
voce, ottenne un grugnito in risposta e
raggiunse la sua scrivania. Non gli
dispiaceva quella tranquillità; aveva
dato un’occhiata alla sala operativa
riservata all’indagine per omicidio e,
trovandola affollata, aveva deciso di
trascrivere le annotazioni sui suoi
interrogatori alla propria scrivania.
Sorseggiò il tè e si strofinò gli occhi.
Non dormiva bene ultimamente. Non
aveva nulla a che fare con il letto
offertogli da Paula, ma piuttosto con la
tristezza che gli attanagliava il cuore. La
mancanza dei suoi figli era quasi un
dolore fisico. Sebbene gli fosse già
capitato di trascorrere qualche giorno
vedendoli poco, sapere che non gli era
permesso stare con loro era una
sensazione completamente diversa.
Non gli mancava nulla di Lindy, e lo
trovava scioccante. Come aveva fatto a
non notare che l’amore tra di loro si era
prosciugato fino ad appassirsi? Non
c’era nessun altro, in fondo. Merrick non
era neppure stato tentato di leggere tra le
righe dell’offerta di asilo di Paula.
Oltretutto, il comportamento della
detective non aveva mostrato nulla che
indicasse un interesse che andava oltre
l’amicizia, sebbene Merrick non
avrebbe disdegnato l’opportunità di
trovare un po’ di conforto. Per ora,
riconoscere che l’amore tra lui e sua
moglie era morto lo aveva lasciato
particolarmente affranto.
Merrick sospirò e ridestò il suo
computer dalla modalità di standby.
Aveva appena cominciato a inserire i
risultati perlopiù infruttuosi dei suoi
interrogatori, quando Paula varcò la
soglia. «Ciao, Stacey. Ciao, Don» disse
con brio, raggiungendo la scrivania
dell’ispettore e sedendosi in bilico sul
bordo. «Come va?» chiese.
Merrick fece una smorfia. «Una merda,
in realtà. Ho fatto un giro per le strade
stamattina, dopo aver assegnato i
compiti alle varie squadre. Ma
considerato i progressi che ho fatto, se
fossi rimasto qui a leggere il giornale
sarebbe stato lo stesso. Sto trascrivendo
quello che ho messo insieme, poi
leggerò il resto dei rapporti nella sala
operativa.» Sfogliò il suo taccuino. «Ah,
almeno mi sono fatto una risata. Stavo
parlando con un ragazzo, un gigolò. E lui
mi fa: ‘Ho sentito che le ragazze
cominciano a rifiutarsi di fare giochetti
di bondage con i clienti. Crede che
dovrei fare lo stesso?’ Non so come ho
fatto a rimanere serio. ‘Non credo che tu
sia il tipo dell’assassino, ragazzo’ gli ho
detto.»
«Almeno ti sei fatto una risata» disse
Paula. «Io ho passato l’ultima ora a
sfogliare foto segnaletiche con una
ragazzetta che si fa chiamare Honey.
Lavorava in coppia con Jackie a volte.
Credevo potesse riconoscere qualche
cliente abituale, ma niente di fatto. È un
mondo così nascosto, Don. È quello il
problema. Queste sono vite che si
cibano di segretezza. Jan dice che sono
così abituate a chiudere un occhio che
alla fine smettono di notare qualsiasi
cosa.»
«Lei dovrebbe saperlo, la regina della
buon costume» disse Don, in tono un po’
acido.
«Non ti piace, eh?» chiese Paula.
«È una saputella arrogante» disse
Merrick. «E sai come si dice?»
«A nessuno piacciono i saputelli»
dissero in coro.
Paula si alzò. «Meglio che mi metta al
lavoro» disse. Ma prima che potesse
raggiungere la sua scrivania, la porta si
aprì e Carol entrò, seguita da Tony.
Quando vide Paula, l’ispettrice si voltò
a lanciare un’occhiata al dottore.
«Paula» disse Carol. «Puoi venire nel
mio ufficio? Dovrei parlarti.»
Con Carol di spalle, Paula incrociò lo
sguardo di Merrick inarcando le
sopracciglia, poi seguì Tony e
l’ispettrice nell’ufficio interno. Il
dottore si appoggiò alla parete a braccia
conserte. Carol si sedette e invitò Paula
a fare altrettanto. La detective percepì la
tensione nella stanza e si chiese cosa
stesse per succedere. Non era nervosa:
non aveva fatto nulla di cui
preoccuparsi, dopotutto. L’unico segreto
che nascondeva non era qualcosa per cui
Carol Jordan l’avrebbe convocata nel
suo ufficio. Specialmente non in
presenza di Tony Hill.
Carol giocherellava con una penna,
evitando lo sguardo della detective.
«Paula, il commissario capo ha avuto
un’idea che mi ha chiesto di sottoporti.»
Di colpo, i tasselli andarono al loro
posto. Le parole di Honey. Il disagio di
Carol. La presenza di Tony. «Volete che
vada sotto copertura, in strada. Volete
un’esca» disse Paula, d’impulso.
Carol alzò lo sguardo, attonita. Con la
coda dell’occhio, Paula notò
un’espressione vagamente divertita sul
volto di Tony.
«Come lo sai? Chi te l’ha detto?»
domandò Carol.
Paula scrollò le spalle. «Nessuno. Ci
sono arrivata da sola. Una delle ragazze
che ho interrogato ha detto che le
ricordavo Jackie, e allora ho capito che
se lavorassi in strada come loro, sarei
esattamente il tipo dell’assassino. E noi
non stiamo ottenendo risultati con i soliti
metodi, perciò quando ha detto che il
capo Brandon ha avuto un’idea... mi è
sembrata l’unica risposta sensata, ecco.»
«E cosa ne pensi?» chiese Carol. «La
scelta è tua, Paula. È un’operazione
rischiosa e pericolosa. Non devi
accettare se non sei completamente
sicura.»
Paula non riuscì a trattenersi. Un gran
sorriso le spuntò sulle labbra. «Credo
sia un’idea geniale, capo.» La sua
occasione per brillare, per mostrare di
cosa era capace. Neppure l’espressione
preoccupata che notò sul volto di Tony
Hill riuscì a smorzare il suo entusiasmo.
«Quando si comincia?»
Osserva le strade stanotte. Ha avuto
una brutta giornata. Non è facile fare il
suo lavoro quando ci sono poliziotti
ovunque. Ma i suoi clienti hanno
bisogno di quello che lui ha da offrire,
quindi ci riesce in qualche modo.
Sposta la merce, fidandosi del sesto
senso che lo ha sempre tenuto lontano
dai guai.
C’è qualcosa di rassicurante
nell’aggirarsi furtivamente sul suo
territorio abituale, ora trasformato
dalle sue azioni. Non ha mai creduto di
poter cambiare il mondo intorno a lui,
ma lo ha fatto. Le persone si muovono
in modo diverso. Nota gli sguardi
nervosi che si scambiano i passanti.
Non sanno se l’assassino è tra loro, e
hanno paura.
Vorrebbe quasi mettersi al centro
della strada e gridare ‘Sono io. È di me
che avete tanta paura’. Solo per vedere
i loro sguardi increduli. Perché sa di
non essere quello che si aspettano. Non
è un mostro. Non incute nemmeno
paura. Ha un aspetto ordinario.
È cosa c’è dentro che conta. E loro
non hanno idea di cosa ci sia dentro di
lui. Non hanno mai sentito la Voce.
Sono loro quelli ordinari. Ma lui, lui è
diventato straordinario. E questo è solo
l’inizio.
Il rombo sommesso della moto
squarciava la quiete della strada di
periferia. Nonostante la velocità ridotta,
Jonathan mantenne il veicolo stabile.
Quando raggiunsero la casa di Tony,
Carol ritrasse il braccio che cingeva il
torace dell’uomo e gli diede una lieve
pacca sulla spalla. La moto rallentò fino
a fermarsi e il motore si spense,
lasciandole un’eco tremante nella testa.
Carol scese col cuore che le batteva
ancora forte, e si tolse il casco di
riserva datole da Jonathan davanti al
ristorante italiano dove avevano cenato.
L’uomo le era di fianco, il suo casco
poggiato sul sellino di pelle imbottito.
«Spero non sia stato troppo spaventoso»
disse.
«Erano anni che non salivo su una
moto» rispose Carol, restituendogli il
casco. «Avevo dimenticavo quanto fosse
eccitante.»
Jonathan aprì il bauletto posteriore e
vi ripose il casco di riserva. «È una
sensazione unica» disse, avvicinandosi a
lei. Istintivamente, Carol gli poggiò una
mano sul petto, tastando il tweed ruvido
della sua giacca sotto le dita. Era come
se tutti i suoi sensi fossero amplificati,
in piena allerta. Riusciva a percepire il
profumo d’inverno nell’aria, l’odore
caldo e virile che proveniva dalla pelle
di Jonathan. Lui le poggiò le mani sui
fianchi, e Carol sentì la pelle infuocarsi
anche attraverso i vestiti.
«Grazie per la bella serata» disse lei,
bruscamente. «Sono stata bene.»
«Anche io» rispose Jonathan,
chinandosi per baciarla.
Carol si scostò in modo che le labbra
di lui si posassero sulla sua guancia. Il
cuore sembrava batterle in gola, la
lingua secca contro il palato. Le
immagini che le balenavano nella mente
non erano di Jonathan France, e per
quanto si sforzasse di convincersi che
era tutto sotto controllo, non riuscì a
scrollarsi di dosso il passato. Sapeva
che non era giusto da parte sua. Avevano
flirtato e si erano divertiti, ma era
successo in un ambiente protetto, in un
ristorante affollato e ben illuminato. Lì,
in quel momento, Carol non poteva
continuare a far finta di essere come le
altre donne.
Jonathan percepì la tensione e si tirò
indietro, confuso. «Ho detto qualcosa di
sbagliato?» chiese, in tono leggero e
scherzoso.
Carol liberò il respiro che non sapeva
di aver trattenuto. «Non sei tu»
mormorò, fissando la manica della
giacca di Jonathan. Era rimasta sorpresa
dal fatto che non indossasse più il
completo in pelle del pomeriggio, ma lui
le aveva spiegato che quando lavorava
portava sempre con sé un cambio di
vestiti. Il look da motociclista era stato
rimpiazzato da una giacca di tweed dal
gusto un po’ rétro, un paio di jeans
scambiati e un maglioncino a girocollo
in cotone.
«Che succede, Carol?» le chiese. La
sua voce era dolce, senza la minima
traccia di accusa.
«Mi dispiace, io...» Carol non sapeva
cosa dire se non la verità, ma non
sapeva come dirla. Le mani di Jonathan
erano ancora su di lei e l’ispettrice ce la
stava mettendo tutta per non divincolarsi
da quella che avvertiva come
un’invasione.
Come se si fosse accorto di quel
disagio, Jonathan la lasciò andare. La
mano di Carol era ancora sul suo petto.
Con dolcezza, Jonathan coprì le dita di
lei con le proprie. «Va tutto bene» disse.
«Vado via.» Fece un passo indietro,
continuando a tenerle la mano.
Carol chiuse gli occhi. «Sono stata
violentata» disse. Le parole rimasero
sospese nell’aria che li divideva. La
presa di Jonathan rimase invariata.
Carol aprì gli occhi, aspettandosi di
vedere shock, rabbia, pietà, avidità
riflessi sul volto che aveva di fronte.
Ma tutto ciò che vi leggeva era
preoccupazione. I loro sguardi si
incrociarono in silenzio. Poi, esitando,
lui disse: «Allora è stato molto
coraggioso da parte tua uscire con me
stasera. Grazie per esserti fidata di me.»
Carol rimase spiazzata. Quella
reazione era diversa da qualunque altra
avesse mai suscitato. «Non so se si può
chiamare coraggio» disse. «Ma non
credo di essere stata corretta.»
Jonathan scosse la testa, la luce dei
lampioni riflessa sui suoi capelli
sembrava farli brillare. «Non essere
dura con te stessa. È la prima volta che
esci con qualcuno da quando è
successo?»
Carol annuì. «Con qualcuno che non
conosco da prima? Sì.» Fece un respiro
profondo, tremando. «Sette mesi fa, ed è
ancora un ricordo più vivido di
qualunque cosa abbia fatto oggi.»
«Allora dovresti essere orgogliosa di
te stessa. Non avrei mai immaginato che
avessi altre preoccupazioni per la testa
oltre al lavoro.» Le sorrise. «Sarà
meglio finire qui la serata.» Lasciò
andare la mano di Carol e indietreggiò.
«Posso chiamarti?»
«Sì» disse lei. Seguendo l’impulso del
momento, si precipitò verso di lui e si
alzò sulle punte per baciarlo. Le labbra
di Jonathan erano asciutte e fredde. Non
cercò di attirarla a sé in un abbraccio.
Uno di fronte all’altro, si sorrisero, un
po’ impacciati. «Buonanotte» disse
Carol, a bassa voce. Era stata fortunata
quella sera. Fortunata perché aveva
trovato un uomo che non l’aveva
liquidata come merce danneggiata, che
non aveva ceduto al desiderio di
vendicarla o si era tirato indietro con
disgusto malcelato. Non l’aveva
soffocata con pietà o indignazione, non
le aveva chiesto come mai una cosa del
genere fosse successa a una donna come
lei. Un insieme di cose negative che si
sommavano alla prima esperienza
positiva che aveva vissuto dopo lo
stupro. Tony avrebbe reagito così se non
fosse stato tanto oppresso dal senso di
colpa, pensò Carol.
«Buonanotte, Carol.» Jonathan prese il
suo casco. «Aspetterò che entri» disse,
montando sulla sua moto.
Carol aprì il cancello e si incamminò
sul vialetto, accorgendosi solo allora
della luce accesa nella stanza al piano
superiore che chiunque altro avrebbe
usato come camera da letto padronale
ma che Tony aveva trasformato in uno
studio. Il suo cuore trasalì, e Carol si
augurò che il dottore non avesse
assistito al breve spettacolo che aveva
appena avuto luogo.
Tony sedeva alla sua scrivania con lo
sguardo perso nel vuoto, rimuginando su
quello che aveva appena visto.
Novantanove volte su cento, se lo
sarebbe perso. Sebbene le sue capacità
di osservazione fossero il cardine del
suo lavoro, non era solito sedere alla
finestra per spiare le vite altrui. Quando
lavorava poi, assorto nelle sue letture,
analisi o annotazioni, ci voleva molto
più del suono insolito del motore di una
moto a distrarlo dall’oggetto della sua
attenzione.
Ma quando Jonathan France aveva
imboccato la strada di casa sua, Tony si
era trovato in piedi accanto alla finestra
a golfo del suo studio, a scrutare file di
libri in cerca di un titolo che sapeva
dover essere lì, da qualche parte. Era
quello il problema con i traslochi: per
quanta cura si mettesse
nell’impacchettare, i libri finivano
sempre nell’ordine sbagliato sugli
scaffali nuovi.
Così, quando la moto si era fermata
davanti al suo cancello, Tony non era
rinchiuso nel suo solito stato di oblio
verso il mondo esterno. Incuriosito,
aveva guardato fuori dalla finestra
appena in tempo per vedere Carol
liberarsi del casco e agitare i suoi
capelli biondi. Il suo primo istinto era
stato quello di allontanarsi, di
concederle la sua privacy. Ma quando
Carol aveva allungato una mano verso
l’uomo alto appena sceso dalla moto, il
dottore non era riuscito a muoversi. Si
era detto che sarebbe rimasto a guardare
solo per assicurarsi che la sua amica
fosse al sicuro. Sapeva che era una
bugia, ma non voleva prendere atto delle
emozioni confuse che ribollivano sotto
la superficie. Era rimasto a osservare
mentre Carol aveva evitato il primo
bacio, mentre l’uomo aveva
indietreggiato, mentre i due avevano
parlato finché all’improvviso Carol non
aveva preso l’iniziativa.
Vergognandosi, Tony aveva emesso un
grugnito secco e sprezzante, e si era
rifugiato nell’ombra della stanza quando
Carol si era voltata per rincasare. Era
crollato sulla sua sedia, con il volto tra
le mani. Poi aveva rialzato la testa,
ricacciando via le lacrime.
Gelosia. Provava una gelosia così
intensa che gli sembrava di assaporarla
come bile sulla lingua. La amava. Lo
sapeva da tempo ormai. Ma sembrava
che la distanza tra di loro fosse
diventata troppa da colmare. Nonostante
gli sforzi del dottore, sembrava che
Carol avesse scelto da sola la strada
verso la salvezza; e lui non ne faceva
parte.
Nella sala operativa si respirava
un’atmosfera di attesa inebriante. Un
brusio di congetture mormorate riempiva
l’aria, mentre i detective si chiedevano
perché l’ispettrice capo Jordan li avesse
convocati. «Non mi interessa cosa sia,
basta che ci risparmi altre ore di
chiacchiere sotto la pioggia con le
prostitute» confidò Sam Evans a Kevin
Matthews. «È impossibile lì fuori.
Nessuno ha visto o sentito nulla.
Nessuno parla.»
«Non si sa mai con Jordan» disse
Kevin. «Se c’è qualcuno che non segue
gli schemi, è lei.»
«Ma funzionano?» chiese Evans. «Le
sue idee fuori dagli schemi, intendo?»
Kevin si liberò di un residuo di cibo
essiccato che aveva notato sui suoi
pantaloni. «Ha l’inquietante abitudine di
vederci giusto» disse. «L’ho vista
partorire idee che persino Tony Hill
riteneva stravaganti. E alla fine i fatti le
hanno dato ragione.»
«Sì, ma dopo quello che le è
successo... forse non ha più i nervi per
correre rischi» gli fece notare Evans. Le
sue perquisizioni notturne delle
scrivanie dei colleghi non gli avevano
rivelato molto su Carol Jordan.
Sembrava che l’ispettrice si affidasse
molto poco alla carta, e ancora di meno
al suo computer. Evans doveva scoprire
cosa le passasse per la mente per
raggiungere il suo obiettivo, ma ci stava
mettendo troppo a inquadrarla. Fino ad
allora, era riuscito a evitare qualsiasi
occasione per confessarle di aver
pedinato Hart. Sperava che Brandon lo
anticipasse, per farla sentire vulnerabile
e metterla sulla difensiva. Ma sembrava
che il commissario non le avesse ancora
parlato.
«Non ci scommetterei» mormorò
Kevin, mentre nella sala calava il
silenzio. Si voltò e vide Carol farsi
strada attraverso i ranghi serrati di
agenti. Don Merrick la seguiva. Kevin
trovò che l’ispettrice avesse un aspetto
migliore rispetto alle settimane
precedenti. La sua pelle sembrava
risplendere e gli occhi parevano radiosi.
Carol si fermò davanti alla lavagna
che ospitava le foto di Sandie Foster e
Jackie Mayall. Guardò i loro volti, fece
una promessa silenziosa a sé stessa e si
voltò verso i detective. Era in ufficio
dalle sette a lavorare su una strategia
per l’operazione sotto copertura
reprimendo le sue ansie personali, ma si
sentiva ancora fresca e concentrata.
Dopo aver lasciato Jonathan, era andata
dritta a letto, senza neanche un
bicchierino. Aveva dormito senza mai
svegliarsi fino alla sveglia delle sei.
Nessun incubo, nessun rigirarsi
irrequieto. E quasi niente alcol. Tre
bicchieri di vino per accompagnare la
cena non contavano molto dati i suoi
recenti livelli di consumo. Non si
illudeva di aver scalato la montagna, ma
credeva di aver almeno svoltato un
angolo, imboccando una nuova
direzione.
«Buongiorno a tutti» disse, la sua voce
chiara e squillante. «Per prima cosa,
voglio ringraziarvi tutti per il duro
lavoro svolto nelle ultime settimane.
Non è colpa di nessuno in questa stanza
se i progressi sono stati minimi. Ci
troviamo di fronte a un assassino
organizzato e intelligente, e sono
mancate quelle svolte che aiutano a
risolvere un caso. Perciò è tempo di
adottare una strategia alternativa.»
Nella sala si levò un mormorio di
assenso. Carol notò i cenni di
approvazione della sua squadra. Azzittì
dubbi e paure e continuò. «È
un’operazione ad alto rischio.
Richiederà il cento percento delle
capacità di ognuno di voi, ma credo ci
possa portare a risultati che non
otterremmo altrimenti.»
Carol aprì il fascicolo che aveva in
mano ed estrasse le fotografie delle
quattro vittime di Derek Tyler. Le
appuntò sulla lavagna alle sue spalle,
poi si voltò nuovamente verso la sala.
«So che i media hanno avanzato molte
congetture su una probabile connessione
tra i due omicidi di queste settimane e
quelli di due anni fa. Ora come ora, non
c’è alcun dubbio sulla colpevolezza di
Derek Tyler. Tuttavia, una cosa è
evidente: chiunque sia responsabile di
questi omicidi sta usando i crimini di
Tyler come modello da imitare. È inutile
chiedersi perché. In questo momento,
non porterebbe a nulla. Dobbiamo solo
prenderne atto. Ma questo legame ci
suggerisce qualcosa: la tipologia di
vittime preferita dall’assassino. Tutte
queste donne hanno capelli corti e
biondi. Sono esili. Si assomigliano per
altezza e corporatura. Sono queste le sue
vittime predilette.» Carol raddrizzò le
spalle. «Sapendo questo, abbiamo
deciso di mettere in atto un’operazione
sotto copertura nel tentativo di attirare
l’assassino in una trappola.» Un clamore
improvviso rischiò di sovrastare le
parole di Carol, che alzò la voce di
conseguenza. «La prima parte di questa
strategia è stata attuata ieri sera nella
conferenza stampa tenuta dal
commissario capo. Le sue affermazioni
sono state suggerite dal dottor Hill con
l’intento di spingere l’assassino ad
agire.»
Lanciò uno sguardo a Paula e annuì.
Paula si alzò. «Per chi di voi non la
conoscesse, questa è la detective Paula
McIntyre. Farà da esca nella nostra
trappola.»
Paula sorrise ai colleghi. Carol sentì
una morsa al cuore. Ricordava
quell’entusiasmo e dove l’aveva portata.
Era insopportabile pensare che qualcun
altro stesse per intraprendere lo stesso
viaggio. Ma almeno Carol avrebbe
assicurato a Paula una rete di
salvataggio, quella a cui lei era stata
costretta a rinunciare.
Percependo l’eccitazione nella sala,
Carol si affrettò a smorzare il naturale
brivido di impazienza provocato dalla
prospettiva di risolvere l’impasse
investigativo. «Ripeto, questa è
un’operazione ad alto rischio.
Riempiremo la zona di agenti in
borghese per assicurarci che Paula sia al
sicuro. Questa è la nostra
preoccupazione principale. Se Paula è in
pericolo, abortiremo l’operazione.
Voglio che questo sia ben chiaro.»
Guardò Paula. «Per prima cosa,
dobbiamo lavorare sull’aspetto di
Paula.»
«Ehi, Paula, non farti prendere troppo
la mano» scherzò Kevin.
«Okay, sergente Matthews,
conserviamo le battute adolescenziali
per lo spogliatoio dei maschi» disse
Carol, stancamente. «Sergente Shields,
accompagna Paula in un sexy shop a
Manchester, aiutala a comprare
l’equipaggiamento adatto. Non useremo
negozi locali perché potreste essere
viste. Stasera Paula sarà pronta a fare da
esca in strada, con tutti i rinforzi
possibili a sua disposizione. Don, puoi
informarci sui dettagli tecnici?»
Merrick si fece avanti. «Paula
indosserà un microfono, naturalmente.
Installeremo anche delle telecamere di
sorveglianza addizionali a entrambe le
estremità della strada principale di
Temple Fields e alla fine di Campion
Boulevard, in modo che sia difficile
notarle. Una squadra si apposterà in un
furgone di sorveglianza, e avremo delle
unità in borghese in strada. Saremo in
contatto radio costante, ed estenderemo
il segnale del microfono a tutte le auto,
in modo che sappiate cosa sta
succedendo.»
Carol riprese la parola. «Come ho
detto, la priorità è la sicurezza di Paula.
Voglio che lo teniate bene a mente. È lei
che corre tutti i rischi. Si merita di
sapere che le guarderemo le spalle. Si
merita il meglio che possiamo darle.
Faremo un briefing più completo alle
sei. Alcuni di voi – perlopiù chi è
assegnato alla lettura delle dichiarazioni
e gli addetti all’HOLMES per le ricerche
nel database nazionale della polizia –
continueranno a svolgere le loro
mansioni. Altri si prenderanno la
giornata libera. L’ispettore Merrick vi
informerà dei vostri incarichi.» Carol
osservò gli agenti con freddezza.
«Questa potrebbe essere la migliore
occasione che avremo di prendere
questo bastardo prima che uccida di
nuovo. Conto su di voi.»
Non aspettò domande o commenti.
Quelli più importanti le sarebbero stati
riferiti da Merrick, i suoi occhi e le sue
orecchie tra la trentina di detective che
formavano la squadra. Si concentrò a
lasciare la sala prima che la sua facciata
di sicurezza si sgretolasse.
Aveva appena raggiunto la tranquillità
del suo ufficio, con le veneziane a
isolarla dal resto del mondo, quando
qualcuno bussò alla porta. Se è
Brandon, non rispondo di me,
dannazione. «Avanti» disse, rassegnata.
La porta si aprì di qualche centimetro
e la testa di Jonathan France fece
capolino. «Hai un minuto?»
Confusa e sorpresa, Carol balbettò:
«Sì, sì, entra.» Jonathan aggirò la porta e
la richiuse. «Non mi aspettavo di
rivederti così presto» farfugliò Carol.
«Hai già qualcosa per noi?»
«Non dal punto di vista professionale»
rispose lui. «Per quello ci vorrà un po’
di più.» Prese una busta di plastica dalla
tasca della giacca. Carol riconobbe il
logo di una libreria indipendente della
zona. Jonathan le porse la busta. «Ho
pensato potesse interessarti» disse.
Incuriosita, Carol la prese ed estrasse
il libro al suo interno. Fortunata di
Alice Sebold. Alzò lo sguardo,
perplessa.
«È un mémoire della violenza subita
dall’autrice» disse Jonathan. «Non
voglio sembrarti arrogante, ma ho
pensato che potessi trovarlo utile.»
Sembrò a disagio, incerto riguardo a
quali fossero i suoi limiti. «Non è
scadente o sensazionalista o
sentimentale. Ed è scritto molto bene.»
«Lo hai letto?» chiese Carol. Non era
esattamente la domanda che avrebbe
voluto fargli, ma almeno riempiva il
silenzio.
Jonathan sembrò imbarazzato. «Non
dirlo ai miei colleghi.» Affondò le mani
nelle tasche dei jeans. «Mia sorella si
interessa di arte e letteratura. Mi
suggerisce sempre qualcosa di nuovo.
Mi piacciono le cose che mi fanno
riflettere.»
Carol girò il libro e lesse le note di
copertina. Alzò di nuovo lo sguardo.
«Grazie. Lo apprezzo molto.»
«Di niente.» Jonathan indietreggiò
verso la porta. «Ora vado. Abbiamo
entrambi da fare. Chiamami, okay?»
Commossa più di quanto non potesse
esprimere, Carol annuì. «Lo farò.»
«Mi farò vivo per l’altra questione,
per la foto.» Le sorrise un’ultima volta,
poi se ne andò.
Carol fissò la porta a lungo, cercando
di capire cosa stesse provando. La
gentilezza di Jonathan era fuori dal
comune, soprattutto perché la elargiva
con una grazia che la privava di
qualsiasi senso di superiorità o
sussiego. Carol aveva gradito la sua
compagnia, lo trovava attraente. Ma
niente di tutto ciò toccava il suo cuore.
Forse non era pronta. Forse era troppo
presto.
O forse, più semplicemente, non era
lui che Carol voleva.
Prima che potesse riflettere più a
fondo, bussarono di nuovo alla sua
porta. «Avanti» sospirò.
Sam Evans apparve sulla soglia, la sua
espressione era illeggibile. «Posso
parlarle?» chiese.
Carol gli indicò la sedia.
«Accomodati.»
Evans assunse un atteggiamento
rilassato e fiducioso al tempo stesso.
«Ho pensato fosse meglio parlarle di
persona prima che sia il capo Brandon a
farlo» disse, senza preamboli.
Carol si accigliò. «Di cosa parli,
Sam?»
«Aidan Hart.»
«Mi sono persa qualcosa? Non ti
seguo.»
«So che aveva escluso Hart dalla lista
dei sospettati considerato il suo alibi,
ma la cosa mi convinceva poco. Così
l’ho pedinato.» Evans incrociò lo
sguardo dell’ispettrice, contraendo la
bocca in quella che poteva sembrare
un’espressione di rammarico. «Nel
tempo libero.»
«Come?» Carol era incredula.
«Quando l’ho interrogato, ho avuto la
sensazione che Hart volesse nascondere
qualcosa. E avevo ragione» aggiunse
Evans. «Ha una sorta di dipendenza dal
sesso a pagamento. Frequenta prostitute
due o tre volte a settimana.»
Carol lo fissò, sbigottita. Non sapeva
da dove cominciare. Era furibonda per il
fatto che Evans avesse agito di testa sua.
Ma il seme assillante del dubbio aveva
già affondato le radici nei suoi pensieri.
Era stata troppo sbrigativa nel liquidare
Hart? Aveva perso la sua capacità di
giudizio? Impaziente, mise da parte quei
dubbi.
«E cosa c’entra Brandon con questa
storia?»
Evans scrollò le spalle. «Mi ha
scoperto a lavorare ai miei appunti sul
computer. Si è chiesto perché stessi
seguendo il dottor Hart, perciò ho
dovuto spiegarglielo.»
Carol sentì un vuoto gelido aprirsi
dentro di sé. «Hai detto al commissario
capo che stavi seguendo una linea
investigativa che io avevo scartato?»
disse, scandendo le parole con voce
tesa.
Evans inarcò le sopracciglia. «Non
l’ho messa in questi termini. Non
esattamente.»
Bastardo. Carol era sul punto di
esplodere. L’eco del tradimento
risuonava nella sua testa. «Voglio un
rapporto completo sulle tue attività»
disse. «Lo voglio sulla mia scrivania tra
un’ora. E non voglio mai più sentire
niente del genere da te. Questo non è
l’O.K. Corral. Siamo una squadra,
oppure non siamo niente. Non hai
espresso il minimo dubbio su Hart in
mia presenza. Se lo avessi fatto, avrei
potuto aspettare a eliminarlo dalla lista
dei sospettati. Non tollero una simile
disonestà nella mia squadra, detective
Evans. Ora sparisci.»
Evans si alzò e uscì. Schiena dritta,
testa alta. Carol non poté vedere gli
angoli della sua bocca alzarsi in un
sorriso.
Un sole pallido aveva squarciato il
grigiore della foschia, donando alle
strade di Temple Fields un tenue
bagliore. Il resto della città era in piena
attività, ma alle dieci di una mattina
infrasettimanale, il quartiere era avvolto
in un’atmosfera di desolata sonnolenza.
Chi ci viveva era già al lavoro; chi ci
lavorava stava ancora cercando di
riprendersi dalla notte precedente. Un
uomo d’affari in completo camminava
spedito sull’alzaia del canale portando a
spasso un bull terrier, mentre il suo
impermeabile sbatacchiava per
l’andatura sostenuta. Un paio di donne in
jeans e giubbini in pelle ondeggiavano
per la strada tenendosi a braccetto,
avvolte in una bolla di spavaldo
autocompiacimento. Tony Hill era
all’angolo di una strada ad armeggiare
con l’indice alfabetico delle pagine
bianche di Bradfield e con un foglio di
carta.
Avrei dovuto farlo a casa, pensò,
mentre cercava di stabilire un ordine
logico in cui visitare i sei indirizzi che
aveva annotato quando lo spettro di un
emulatore aveva cominciato a prender
forma. Sfogliò le pagine della sezione
mappe dell’elenco, cercando di
localizzare le scene del crimine e di
appuntarle sulla sua mappa mentale
della zona. In quel modo, avrebbe
cominciato a insinuarsi nella visione del
mondo dell’assassino. Non aveva scelto
le sue vittime in modo casuale, quindi
c’erano buone possibilità che l’area da
cui le aveva prelevate fosse una che
conosceva bene, una che nella sua mente
aveva una forma precisa. Chiunque ha
una topografia propria dell’ambiente che
riconosce come proprio, dettata dagli
itinerari personali, limitata dai bisogni
personali. Vincolati dalle rispettive
attività, si può essere beatamente ignari
di intere porzioni di territorio. La
Temple Fields dell’assassino era legata
a una visione unicamente sua, e scoprire
quella visione poteva aiutare Tony a
capire chi fosse. O almeno, chi non
fosse.
Il dottore aveva bisogno di tenersi
impegnato quella mattina. Sebbene
sapesse che in quelle ore Carol avrebbe
dovuto dare istruzioni ai suoi agenti
riguardo all’operazione sotto copertura,
Tony non era ancora pronto a vederla.
Per tutta la notte, si era addormentato e
risvegliato di continuo, mentre le
immagini di lei con l’uomo della moto si
trasformavano nella sua mente in nuove
forme e figure. Si odiava per l’irruenza
della propria reazione, e non voleva che
questa compromettesse il suo incontro
successivo con Carol.
Alla fine, definì un percorso nella sua
mente. Si incamminò, diretto verso il
labirinto di vicoli e stradine che si
dipanava nel cuore di Temple Fields.
Svoltò in una viuzza e si fermò davanti a
una porta. Osservò il lurido palazzo in
mattoni rossi, chiedendosi quale finestra
si affacciasse sul letto su cui la prima
vittima di Derek Tyler era morta
dissanguata. Stando ai rapporti, Lauren
McCafferty era solita portare i clienti
nel monolocale in cui viveva. Credeva
fosse più sicuro delle loro macchine.
Credeva le desse il controllo della
situazione, circondata com’era da altri
appartamenti i cui inquilini avrebbero
udito la sua richiesta d’aiuto se le cose
le fossero sfuggite di mano. Non sapeva
che si sarebbe imbattuta in un assassino
più folle di quanto lei potesse
immaginare.
Tony rimase immobile per qualche
momento, lasciando andare la mente a
ruota libera, poi si avviò verso
l’indirizzo successivo sulla sua lista.
Mezz’ora e quattro scene del crimine
più tardi, era davanti al Woolpack
Hotel. «Cos’hanno in comune questi
posti?» si chiese, a bassa voce. «Fanno
parte di una rete invisibile alla maggior
parte delle persone che frequentano
Temple Fields per bere o per il sesso.
Ma tu sei a tuo agio in questi posti.
Forse ci vivi, o ci lavori? Forse fai
consegne? Un corriere? Un postino?
Ogni scena del crimine è vicino alle
strade trafficate ma non su di esse. Ti
piace la privacy, ma vuoi che le tue
vittime siano scoperte in poco tempo.
Rimani con loro finché non muoiono e
poi te ne vai, sapendo che non
resteranno sole a lungo. Forse non
sopporti che rimangano sole?»
Proseguì lentamente lungo il vicolo
verso Bellwether Street, che a quell’ora
brulicava di persone intente a fare
compere e di quei membri delle classi
più povere per cui la prospettiva di aree
per lo shopping coperte era migliore
dell’alternativa. «No, non è questo»
mormorò Tony. «Non ti interessa così
tanto di loro. Non sono donne per te,
sono spazzatura. Vuoi che le scopriamo
al più presto così possiamo ammirare la
tua arte. Sei stato sfortunato che Dee
avesse un giorno libero e che ci
abbiamo messo così tanto a trovare
Sandie.» Il dottore alzò lo sguardo, un
sorriso smagliante sul volto. «Vuoi
metterti in mostra, ecco cos’è. Non
sopporti l’idea di passare inosservato.
Vuoi sventolarci il tuo potere davanti al
naso. Vuoi il merito, la gratificazione, e
non vuoi aspettare per averli.»
Tony continuò lungo Bellwether Street
fino al Woolmarket, dove si sedette su
una delle panchine rivolte verso la
piazza affollata. Estrarre il significato
nascosto delle azioni dell’assassino era
solo il primo passo, ma era necessario.
Il dottore doveva procedere a ritroso nel
dipanare la matassa, prima di poter
comprendere come quelle motivazioni
profonde informassero il comportamento
pubblico dell’uomo colpevole di crimini
tanto feroci. Se non ci fosse riuscito,
Tony sarebbe stato di scarso aiuto per
Carol. O per le future vittime
dell’assassino. «Sei sempre andato in
cerca di lodi ed elogi.» Parlò piano, le
labbra si muovevano a stento. «Ma
nessuno te ne ha mai fatti abbastanza,
vero? Non ti hanno mai valorizzato
come volevi. Volevi il potere che ti
avrebbe dato l’ammirazione delle
persone, ma non l’hai mai avuto. Allora
cosa fai per vivere? Avrai scelto
qualcosa che ti offra la possibilità di
sentirti superiore a tutti noi. Avresti
voluto entrare nelle forze armate o nella
polizia, magari in quella penitenziaria,
ma non credo che tu sia abbastanza
disciplinato per riuscirci. Forse un
addetto alla sicurezza allora? Un
buttafuori in una discoteca? Temple
Fields ne ha tante. Un posto dove puoi
farla da padrone.» Il dottore alzò lo
sguardo e lasciò che i suoi occhi
vagassero sulla folla affaccendata.
Dall’altra parte della piazza, una donna
in un’uniforme blu scuro picchiettava
una stilo su un palmare. «O un ausiliario
del traffico» mormorò Tony. «Loro
conoscono le strade.»
Si alzò, impaziente. Sentiva di non fare
progressi. Per qualche ragione, la mente
di questo assassino gli risultava
sfuggente come un mucchio di foglie
autunnali fradicie che si sgretolavano tra
le sue mani prima che potesse
esaminarle. Non riusciva a scovare il
filo proverbiale che lo aiutasse a
destreggiarsi in quel labirinto. Non si
era mai trovato in una situazione simile,
e non riusciva a capire perché stesse
succedendo proprio allora, con quel
caso. Era forse troppo concentrato sul
suo senso di colpa e sul bisogno di
tenere Carol al sicuro? O c’era qualcosa
che rendeva quell’assassino diverso da
tutte le altre menti malate che Tony
aveva incontrato?
Aveva trascorso troppi anni a lavorare
con criminali seriali – stupratori,
assassini, piromani e pedofili – per
considerarli un gruppo omogeneo.
Alcuni erano molto intelligenti. Altri,
come Derek Tyler, quasi non lo erano
abbastanza per essere in grado di
orchestrare i crimini che avevano
commesso. Alcuni avevano capacità
relazionali superficiali. Altri facevano
drizzare le antenne di qualsiasi persona
normale anche a settanta metri di
distanza. Alcuni erano quasi sollevati
quando venivano catturati, perché
finalmente liberi dal peso delle loro
pulsioni. Altri si crogiolavano nella
celebrità che la cultura perversa dei
media insisteva a concedergli. Una cosa
era sicura: le loro azioni portavano la
firma unica del loro particolare modo di
pensare, ed era quella la strada che Tony
era sempre riuscito a percorrere insieme
a loro.
Ma questa volta, era diverso. Questa
volta, gli sembrava impossibile
riuscirci.
Peccadilloes era nascosto in una
stradina secondaria dell’area di
Manchester chiamata Northern Quarter,
una zona rimodernata del centro città in
cui le industrie tessili erano state
lentamente accantonate per necessità
economiche e rimpiazzate con laboratori
artigianali, abitazioni e boutique alla
moda. Un singolare miscuglio di strade,
monoliti vittoriani ristrutturati e
architettura vernacolare moderna che
cercava di sembrare armonioso
contornava i marciapiedi angusti. Jan
Shields faceva da navigatore nella rete
di sensi unici come una del posto,
indicando il percorso mentre Paula
guidava.
«Ti sai muovere qui intorno»
commentò Paula, mentre superava uno
svincolo seguendo le istruzioni di Jan.
«Sono anni che faccio shopping
natalizio al Craft Village» disse Jan. «È
bello regalare qualcosa di particolare,
qualcosa che a Bradfield non si trova. E
ci sono un paio di buoni ristoranti dove
rilassarsi una volta finito.» Diresse
Paula verso un piccolo parcheggio a
pagamento dove trovarono un posto.
Il viaggio lungo i Pennini era stato
silenzioso. Jan aveva trascorso gran
parte del tempo a inviare messaggi al
cellulare, impegnata in una
conversazione virtuale che sembrava
divertirla non poco. Non aveva
condiviso la ragione del suo
divertimento con Paula. L’unico scambio
di battute tra le due aveva riguardato
Carol e il suo essere all’altezza o meno
del ruolo ricoperto. Paula l’aveva
difesa, nonostante nutrisse lei stessa dei
dubbi. Una cosa era mettere in
discussione la capacità di giudizio di
Carol con Don, ma Jan Shields non
faceva parte della loro squadra, perciò
la lealtà al team richiedeva che Paula
supportasse Carol in tutto e per tutto.
Capendo che la conversazione non
portava da nessuna parte, Jan ci aveva
rinunciato ed era tornata a concentrarsi
sul suo cellulare.
Mentre si avvicinavano a
Peccadilloes, Jan diventò più vivace.
«Ci sarà da divertirsi» annunciò.
«Niente di meglio di un po’ di gioco di
ruolo per sentirsi rinvigoriti.»
«Fai presto a parlare» borbottò Paula.
«Non sei tu quella che se ne starà
all’angolo di una strada a congelarsi il
culo e a vedersela con un branco di
sudici pervertiti del cazzo.»
Jan ridacchiò. «No, io mi godrò la
vista.» Spinse la porta per aprirla.
L’interno di Peccadilloes era meno
luccicante della sua controparte di
Bradfield. Le luci erano più soffuse, la
merce esposta in modo meno esuberante.
Dietro la cassa, una donna alzò lo
sguardo su di loro. Sembrava quasi sulla
quarantina, aveva i capelli multicolore
intrisi di gel e attorcigliati in ghirigori e
spuntoni. La cosa curiosa era che
indossasse un cardigan color crema che
sarebbe sembrato più appropriato alla
proprietaria di un negozio di lane e
filati. Paula sospettava che la pettinatura
eccentrica fosse un tentativo di sviare
l’attenzione da una voglia che le
scivolava lungo un lato del viso, come
se qualcuno avesse strusciato un
pennello impregnato di sorbetto alle
more lungo la guancia.
Jan si guardò intorno, poi condusse
Paula a una barra appendiabiti in fondo
al negozio. Jan diede un’occhiata agli
indumenti appesi alle grucce e afferrò un
vestito striminzito in latex nero. «Ehi,
ragazza, con questo addosso metteresti
tutti al tappeto al Rainbow Flesh.»
«Non saprei» mentì Paula, cercando di
tenersi stretta la sua privacy a dispetto
della certezza dimostrata da Jan.
«Comunque, non è pratico per stasera.
Non riuscirei a indossare un microfono
sotto quell’affare.»
Jan sorrise, il viso angelico in
contrasto con la sua espressione
maliziosa. «Detective, non potresti
indossare niente sotto quest’affare.»
Ripose l’indumento in latex e frugò tra
gli altri abiti. La sua scelta ricadde su
una minigonna rosso scarlatto in PVC.
«Ora sì che ci siamo. È perfetta per
Temple Fields. Con questa farai sbavare
Don Merrick nel suo tè.»
Paula ridacchiò. «E questo dovrebbe
essere un incentivo?» Ciononostante
prese la gonna, poggiandosela sui
fianchi per valutarne la misura.
Jan indicò la minigonna. «Dovrai
provarla» disse. «E avrai bisogno di una
seconda opinione.»
Paula la gelò con lo sguardo. «Non
credo sarà necessario» disse, reagendo
a quell’ennesima allusione. Superò Jan e
afferrò un minuscolo top in lurex
argentato dalla scollatura generosa.
«Questo dovrebbe andare.»
Jan inarcò le sopracciglia. «Giuro che
stai iniziando a prenderci troppo la
mano, detective McIntyre.»
Stavolta il tono allusivo di Jan mise
Paula in agitazione. Sembrava ci fosse
una nota di genuino apprezzamento nella
voce del sergente che portò Paula a
chiedersi come sarebbe stato trascorrere
del tempo con Jan oltre l’orario di
lavoro. «Mi piace fare bene il mio
lavoro» disse, scacciando quel pensiero.
Le relazioni con i colleghi erano sempre
una cattiva idea. Oltretutto, Jan Shields
non era il suo tipo. Ora, se Carol Jordan
ci avesse provato con lei... Paula si
voltò, rimproverandosi tra sé e sé per
aver perso di vista l’obiettivo.
«Naturale. Ma forse quando questa
storia sarà finita, potresti fare una
piccola sfilata tutta per me.» La voce di
Jan era sommessa, il suo respiro caldo
contro il collo di Paula.
«Accidenti, Jan, sei pessima quanto gli
uomini» disse la detective, stufa.
«Credimi, Paula, sono meglio di
chiunque di loro.» Jan le poggiò una
mano sulla spalla e sorrise quando Paula
trasalì. «I camerini sono laggiù» disse,
indicando un cubicolo delimitato da una
tenda oltre le file di vestiti. Fece un
passo indietro, permettendo a Paula di
passare senza invadere il suo spazio.
Cinque minuti dopo, Paula si guardò
nello specchio del camerino. Anche
senza trucco e senza scarpe adatte,
sapeva che persino i suoi migliori amici
avrebbero avuto difficoltà a
riconoscerla. Lei stessa stentava a farlo.
Era sconcertante quanto un cambiamento
così superficiale la rendesse qualcosa di
innegabilmente diverso. Un brivido di
apprensione le fece venire la pelle
d’oca. Si sbrigò a spogliarsi e a calzare
di nuovo la sua personalità, insieme ai
suoi jeans neri e alla camicia bianca.
Diede uno strattone alla tenda per
spostarla, reggendo gli indumenti appena
provati col braccio teso in avanti.
«Questi andranno bene» disse.
Jan le porse un bomber in PVC che si
abbinava alla gonna. «Che ne dici di
questo come tocco finale?» chiese.
«Farà un cazzo di freddo lì fuori
stanotte.»
Paula scosse la testa. «Jackie e Sandie
non indossavano giubbini. Devo
assomigliare a loro il più possibile.
Però ho bisogno di un paio di scarpe
arrapanti.»
«Hai bisogno del giubbino» insistette
Jan. «Ti serve qualcosa per nascondere
il filo del microfono sulla schiena e il
rigonfiamento del trasmettitore.»
«Non ci avevo pensato. Hai ragione.»
Paula portò gli indumenti alla cassa e
consegnò la sua carta di credito. Grazie
a dio nessuno a cui teneva avrebbe visto
l’estratto conto mensile.
«Gesù, c’è della roba proprio strana
qui dentro» disse Jan, sbirciando
incuriosita in una vetrinetta che ospitava
attrezzatura da bondage.
«Il mondo è vario» commentò la donna
alla cassa con aria imbronciata.
Jan la guardò, glaciale. «Così
sembrerebbe.» Si voltò. «Ci vediamo
fuori, Paula.»
Quando la detective la raggiunse, Jan
era appoggiata al muro a rollare una
sigaretta. «Non sapevo che fumassi»
disse Paula.
«Solo quando sono nervosa» rispose
Jan.
«Credevo ti stessi divertendo lì
dentro.»
Jan leccò la cartina e concluse
l’operazione con efficienza. «Tu ti stavi
divertendo? Era un modo di farsi
coraggio, Paula. Ecco cos’era.» La sua
espressione era indecifrabile, ma la sua
voce era pacata come Paula non l’aveva
mai sentita. «Stasera ci sarai tu lì fuori a
fare da esca. È forse la cosa più
spaventosa che un poliziotto possa
fare.»
Paula sospirò. «Grazie, collega. E io
che cercavo di convincermi che ci foste
voi a proteggermi.»
Il sorriso di Jan sembrò forzato. «Lo
faremo. Non dubitarne. Ma ci sono
volte, Paula, in cui è giusto essere
spaventati. E stasera è una di quelle.»
Il tempo scorreva, implacabile. Nella
sala operativa c’era una ziqqurat di
fascicoli che Carol avrebbe potuto
leggere, ma c’erano altri agenti
incaricati di farlo. Team che leggevano
dichiarazioni e rapporti, compilando
documenti per misure da mettere in atto,
detective che le elaboravano, agenti che
producevano ulteriori scartoffie per gli
addetti alla lettura delle dichiarazioni.
Don Merrick isolava le cose più
importanti di cui Carol doveva essere al
corrente. L’enorme quantità di materiale
prodotta da un caso come quello era
spaventosa, tanto più perché sembrava
non portare a nulla.
L’ispettrice era preda dell’angoscia
per quell’operazione come una gallina
di fronte a una volpe. Il più piccolo
pensiero su quello che poteva andare
storto si moltiplicava nella sua testa,
ridestando i ricordi assopiti
dell’operazione fallita che l’aveva vista
protagonista. Poi c’era Sam Evans.
Carol non riusciva a capire se il
detective fosse semplicemente in cerca
di gloria o se stesse tentando di
danneggiarla in modo deliberato. In ogni
caso, Evans aveva piantato il seme del
dubbio nella mente di Brandon nel
peggior momento possibile. L’ultima
cosa che Carol voleva era che il
commissario capo temesse che la sua
esperienza personale avrebbe
influenzato l’operazione sotto copertura
di Paula. L’ispettrice si sforzò di
scacciare quei pensieri tossici, ma non
riusciva a ignorarli. Alla fine, si arrese.
Se non poteva sfuggire al passato, forse
poteva provare ad affrontarlo. Prese il
libro che le aveva dato Jonathan e lo
aprì, titubante. Non era mai stata una
grande lettrice eccetto per gli argomenti
di suo interesse, sempre molto specifici,
e dopo lo stupro era rimasta volutamente
alla larga da qualsiasi cosa sapesse di
autoaiuto. Ma quel libro sembrava
diverso. Nonostante le sue riserve,
Carol si ritrovò attratta da una storia
che, sebbene avesse pochi punti in
comune con la sua esperienza, le parlava
a un livello che niente e nessuno aveva
mai toccato prima di allora.
Dopo quaranta pagine, mise giù il
libro. Le mani le tremavano ed era sul
punto di piangere. Il suo corpo bramava
un drink disperatamente, ma Carol era
determinata a non assecondarlo. Per la
prima volta da mesi, capì che aveva
camminato tanto a lungo sul sentiero
della sopravvivenza che non c’era alcun
dubbio che ce l’avrebbe fatta. La Carol
Jordan che avrebbe raggiunto la fine di
quel percorso sarebbe stata diversa, ma
sarebbe stata di nuovo sé stessa.
Danneggiata ma non distrutta. Incrinata
ma non rotta. Desiderò che Tony fosse lì,
non perché volesse parlarne, ma perché
sapeva che lui avrebbe notato quel
cambiamento e forse avrebbe
cominciato a lasciar andare il suo senso
di colpa.
Come in risposta al suo desiderio,
qualcuno bussò alla porta. «Avanti»
disse Carol, nascondendo
frettolosamente il libro sotto dei
documenti. Ma non fu Tony a entrare.
Jonathan France era di nuovo lì e
reggeva un fascicolo sotto un braccio.
«Due volte in un giorno,» disse Carol
«la gente comincerà a sparlare.» Era
felice di vederlo, molto di più di quanto
non si aspettasse.
Jonathan si sedette, appoggiandosi allo
schienale della sedia e allungando le sue
lunghe gambe. «Per quanto gradisca la
tua compagnia, questa è una visita
puramente professionale» disse. «Ho
delle novità.» Sembrava soddisfatto di
sé stesso, come un cane da riporto con in
bocca un giornale sbavato che sa
renderà felice qualcuno.
L’interesse di Carol schizzò alle stelle.
Per quanto volesse vedere Jonathan per
ragioni personali, quel desiderio
sarebbe sempre stato surclassato dai
suoi obiettivi professionali. «Hai
riconosciuto il luogo?»
Jonathan annuì. «Appena ho visto la
fotografia mi è sembrato di riconoscere
lo sfondo. Non in modo specifico, non
abbastanza da darti coordinate precise.
Ma quando ho ingrandito i dettagli sul
mio computer, l’ho riconosciuto.» Aprì
il fascicolo e tirò fuori un paio di foto
ingrandite di sezioni di roccia, poi li
passò a Carol.
L’ispettrice le guardò perplessa. Ci
vedeva solo due lastre di roccia grigia
con una lieve sfumatura rossastra e
quelle che sembravano delle chiazze di
un grigio più pallido. «Cosa sto
guardando?» chiese, pentendosi quasi
immediatamente di averlo fatto.
Conosceva molto bene i rischi che si
correvano a invitare un esperto a parlare
della sua area di specializzazione.
«Si chiamano strutture a stromatactis»
disse Jonathan, con entusiasmo. «Uno
degli enigmi più complessi del periodo
Devoniano. In parole povere, si tratta di
una cavità a fondo piatto con una
superficie irregolare riempita di calcite
fibrosa. In termini geologici, è una
formazione autoctona causata dalla
separazione parziale di sedimenti non
litificati. Ci sono diverse opinioni sulla
sua origine e su cosa rappresenti. Vedi
come imita la struttura di una barriera
corallina? Alcuni geologi ritengono che
quello che stai guardando sia il risultato
di organismi corallini, stromatoporoidi,
ammassati gli uni sugli altri. L’acqua ha
riempito gli interstizi e, sotto pressione,
si sono formate le stromatactis. Altri
credono che siano essenzialmente fossili
di organismi dal corpo molle, come le
spugne. Altri ancora ritengono che siano
il prodotto di alghe marine o di
cianobatteri.» Sorrise. «E i creazionisti
credono che siano state rigurgitate dalle
profondità marine durante il diluvio
universale.»
«Il che è molto interessante, ma...»
Carol optò per un’espressione divertita
ma confusa.
«Lo so, lo so. Vieni al sodo. È questo
che vuoi, giusto?» disse Jonathan,
mestamente. «Okay. Queste formazioni
si trovano nelle rocce calcaree. Il Peak
District ne ha ottimi esempi. Di solito si
trovano in raggruppamenti. E ci sono un
paio di posti al White Peak per cui
sfigati amanti di rocce come me
sbavano. Quando ho visto
l’ingrandimento, credevo di poterti
indirizzare verso un posto in particolare.
Ma volevo prima esserne sicuro. Perciò
dopo che ci siamo visti stamattina, ho
fatto una piccola escursione. E avevo
ragione. Questo è un pezzo di parete
calcarea di uno sperone vicino Chee
Dale.»
Carol non riuscì a trattenere la sua
eccitazione. «L’hai riconosciuto? Ne sei
sicuro?»
Jonathan annuì. «È alquanto
peculiare...»
Qualsiasi cosa stesse per dire fu
interrotta dalla porta che si aprì. Tony
cominciò a parlare mentre varcava la
soglia, ignaro del fatto che Carol avesse
compagnia. «Carol, credo lavori a
Temple Fields. Forse è un addetto alla
sicurezza o un buttafuori in un bar o una
discoteca.»
«Tony» disse Carol in tono di
avvertimento mentre faceva un cenno col
capo verso Jonathan, nascosto in parte
dalla porta aperta.
Tony allungò il collo oltre
quest’ultima. La sua voce risultò
abbastanza amichevole, ma il viso
sembrò perdere ogni traccia di vitalità.
«Oh, scusate. Non sapevo... tornerò più
tardi.»
Dalla reazione del dottore, Carol capì
che doveva aver visto qualcosa la sera
precedente. Lo conosceva abbastanza
bene da sapere anche che non avrebbe
fatto allusioni al riguardo. Non lì, non in
quel momento. Forse mai, considerata
l’abilità di Tony nell’ignorare la sua vita
emotiva. «Non ce n’è motivo» disse
Carol. «Entra. Questo è il dottor
Jonathan France. È un geologo. Jonathan,
questo è il dottor Hill.» Jonathan si alzò
e gli strinse la mano, torreggiando sul
dottore. «Tony è uno psicologo clinico.
Collaboriamo spesso.»
«Un geologo» disse Tony,
allontanandosi subito da Jonathan. Si
appollaiò sull’angolo della scrivania di
Carol. L’ispettrice sospettò che quella
mossa fosse intenzionale: mettersi
accanto a lei e dimostrare la loro
alleanza, facendo di Jonathan l’intruso.
«Deve essere rilassante lavorare con
qualcosa che si muove alla stessa
velocità di una placca tettonica.»
Jonathan si accomodò nuovamente.
«Mi tiene fuori di casa.»
Tony sorrise. «I miei pazienti dicono
la stessa cosa delle loro condizioni
psichiatriche.»
Jonathan sembrò vagamente perplesso,
non era sicuro se il dottore stesse
tentando di screditarlo. «Non gli
agorafobici, però» rispose.
Tony gli accordò un punto. Ma prima
che potesse lanciare un’altra sfida
verbale, Carol intervenne. «Jonathan ha
identificato il luogo in cui è stata
scattata la foto di Tim Golding.»
L’interesse professionale di Tony si
ridestò. «Davvero?» chiese. «E?»
«Come stavo giusto spiegando prima
che entrasse, le caratteristiche
geologiche dello sfondo nella foto sono
alquanto peculiari. Ho fatto escursioni in
quel sito più di una volta. È uno
straordinario esempio di strutture a
stromatactis.»
«Che posto è?» chiese Tony. «Isolato?
Un posto frequentato da escursionisti?»
Jonathan estrasse un altro foglio dal
suo fascicolo. «Ho fotocopiato la
sezione della mappa che ci interessa.»
La poggiò sulla scrivania e si sporse in
avanti per illustrare i suoi commenti.
«Questo punto è Chee Dale. Scavato
nelle rocce calcaree dal fiume Wye.»
Seguì la striscia sinuosa sulla mappa
con un dito. «Come potete vedere, c’è un
sentiero che scende verso la valle. È
molto conosciuto. Così tanto che il
Parco Nazionale ha sistemato dei massi
su cui camminare quando il fiume
straripa e copre il sentiero.» Puntò il
dito sulla mappa. «E questo piccolo
sperone è chiamato Swindale. L’entrata
è molto stretta, è facile mancarla. Ma
una volta superata la valle si apre e
continua in salita per circa quattrocento
metri. Non c’è un sentiero, e scommetto
che novantanove persone su cento non
noterebbero neanche l’entrata.»
«Ed è lì che c’è questo stromacoso?»
domandò Tony, studiando la mappa con
attenzione.
«Sì. A circa metà della salita, sulla
sinistra» disse Jonathan.
«Quindi è un posto appartato? Non ci
si va per un picnic o cose simili?»
Jonathan scosse la testa. «No, a meno
che non si abbia una passione
particolare per fango, rovi e la
mancanza di un panorama. È questa la
caratteristica del Peak District, ci sono
molti anfratti nascosti. Al primo ponte
disponibile arriva a ospitare circa
duecentocinquantamila visitatori, ma si
corre comunque il rischio di perdersi.»
«Quindi chi ci andrebbe?» domandò
Carol.
«Geologi, professionisti e amatoriali.
Una volta ci ho trovato tre ragazzi che
facevano arrampicata, ma non è il posto
ideale, e ci sono pareti rocciose di gran
lunga più adatte nella zona. Per il resto,
nessuno. Come ho detto, non offre molto
in termini di panorama.»
«Quindi chiunque abbia portato lì Tim
Golding era abbastanza sicuro che non li
avrebbe disturbati nessuno» rifletté
Tony. «Vuol dire che conosceva il
territorio.» Alzò lo sguardo. «Quanto ci
si può avvicinare con la macchina?»
«C’è un parcheggio a circa un
chilometro e mezzo dalla vecchia
stazione di Millers Dale.»
«È un bel rischio con una vittima non
collaborativa» disse Tony tra sé e sé.
«Suppongo che non ci sia modo di
stabilire a che ora sia stata scattata la
foto, giusto?»
Jonathan prese la copia della foto dal
fascicolo. «Dipende dal periodo
dell’anno. Quando è scomparso il
bambino?»
«Nella seconda settimana di agosto»
disse Carol, senza bisogno di
controllare.
Jonathan studiò la fotografia. «Questa
parte della valle è esposta a est. Il sole
ci mette un po’ ad alzarsi sull’orizzonte
abbastanza da illuminare la rupe
opposta. Direi intorno alle nove o dieci
del mattino.»
Tony si alzò di scatto e si girò,
premendo le mani contro le tempie come
se avesse mal di testa. «Porta la squadra
della scientifica per il sopralluogo,
Carol. Dovrete cercare una tomba. Forse
due.»
«Credi che anche Guy sia lì?»
Tony abbassò le mani. «Considerando
le probabilità, sì. È altamente probabile
che Tim e Guy siano stati rapiti dallo
stesso uomo. Lo sappiamo entrambi. Se
è abbastanza sicuro di sé da far
circolare quella foto, direi che il motivo
è che ha già usato quel posto almeno una
volta.»
Carol notò lo sgomento di Jonathan.
Era fin troppo facile dimenticare che gli
orrori a cui i poliziotti erano abituati
potevano lasciare solchi profondi nel
cuore dei non addetti ai lavori. Messi
davanti alla cruda realtà con cui lei e
Tony avevano fatto i conti innumerevoli
volte, i non combattenti non avevano
difese nella guerra contro il caos. «È
troppo presto per dirlo» disse Carol,
sapendo in realtà che Tony aveva
ragione.
Il dottore si voltò, pallido e tirato in
viso. Dimenticatosi di Jonathan, si
appoggiò con i pugni serrati sulla
scrivania di Carol e la guardò dritto
negli occhi. «Avrà raggiunto il
parcheggio alle prime luci dell’alba.
Quasi certamente Tim era sedato.
Quanto bastava per stordirlo, renderlo
docile, in modo che non facesse
resistenza. Con Tim in quello stato, il
rapitore ci avrà messo un po’ a
raggiungere Swindale. Lì avrà abusato
del bambino, prendendosi tutto il tempo
necessario. Poi avrà scattato le foto,
come trofeo. Cosa fa a quel punto? Di
certo non si prende il rischio di
imboccare un sentiero popolare
trascinandosi dietro un bambino sedato.
Lo ha ucciso, Carol. Lo ha ucciso lì e si
è disfatto del cadavere. Una fossa
superficiale sotto i rovi di cui parla
Jonathan.» Chiuse gli occhi e mormorò
qualcosa che Carol non comprese.
«Come?»
«Ho detto che almeno puoi riportarlo a
casa ora.»
Un lungo silenzio. Il volto di Jonathan
era contorto in una smorfia, i suoi occhi
ridotti a fessure, come se stesse
cercando di respingere le immagini
evocate dalle parole di Tony. Troppi
dettagli per lui, pensò Carol. Poi si
schiarì la gola. «Non lo sapremo fino al
sopralluogo.» Scostò la sedia dalla
scrivania e si alzò.
«Jonathan, non c’è nulla che possiamo
fare oggi. Il sole sta già tramontando.
Ma dobbiamo agire in base alle
informazioni che ci hai dato il prima
possibile. So che ti stiamo rubando non
poco tempo, ma ti sarebbe possibile
scortare alcuni dei miei agenti a
Swindale domattina e indicare dov’è
stata scattata la foto?»
Jonathan sgranò gli occhi, le
implicazioni di ciò che aveva sentito
risuonavano ancora nella sua testa.
«Non... non lo so» disse.
«Non dovresti rimanere più del
dovuto» spiegò Carol, con dolcezza.
«Dovresti solo portarci lì e mostrarci la
formazione geologica che corrisponde
alla foto. Poi saresti libero di andare. Te
lo prometto.»
«Ci sarai anche tu?» La sua voce era
neutra, ma Carol avvertì il bisogno che
celava. Non chiedeva molto, non dopo
quello che aveva già fatto per lei.
«Non posso prometterlo» rispose
l’ispettrice. «Sono nel mezzo di un altro
caso molto importante. Dipende da
quello che succede stasera. Se arriviamo
a un arresto, ci sarà bisogno di me qui.
In caso contrario... sì, ci sarò. Torna in
centrale domattina alle otto e
organizzeremo i dettagli.»
Jonathan annuì, cogliendo il tono di
congedo nella sua voce. «Grazie,
Carol.» Si alzò.
«Siamo noi che dobbiamo ringraziarti,
Jonathan. Questa è la prima pista
concreta che abbiamo da quando Tim è
scomparso. Se riusciremo a riportarlo a
casa dalla sua famiglia, sarà te che
dovranno ringraziare.» Gli diede una
leggera pacca sul braccio. «Ci vediamo
domani.»
Jonathan si fermò sulla soglia e riuscì
ad abbozzare un sorriso. «Lieto di
averla conosciuta, dottor Hill.»
Tony annuì in risposta. Mentre la porta
si chiudeva, disse: «Ho perso il conto di
quante volte ho sentito questa bugia.»
Carol scosse la testa, con
un’espressione di affettuosa
esasperazione. «Devi imparare a non
spaventare i cavalli» disse.
«Mi è sempre piaciuto vederli
scalpitare» rispose il dottore.
«Se domani troviamo quello che credi,
puoi venire a dare un’occhiata alla
scena del crimine?» domandò Carol.
«Se pensi possa essere d’aiuto.»
«Grazie.» La donna esitò per un
momento, chiedendosi se e come toccare
l’argomento Aidan Hart con il dottore.
«Allora, come va?» chiese Tony,
tornando ad appoggiarsi sul bordo della
scrivania di Carol. Mentre lo faceva,
urtò una pila di documenti, rivelando il
mémoire di Alice Sebold. Corrugò la
fronte, prendendolo in mano. «Stai
leggendo questo libro?» chiese.
«No, lo uso come fermacarte» sbottò
Carol. «Tu che dici?»
Tony inarcò le sopracciglia. «Dico che
potresti trovarlo utile.»
«L’hai letto?»
«Carol, credo di aver letto quasi ogni
scritto mai pubblicato sullo stupro.»
Quando Carol aprì la bocca per
ribattere, il dottore alzò un indice per
fermarla. «E no, non per te. Per lavoro.»
«Se credevi che questo libro potesse
aiutarmi, perché non me l’hai
consigliato?» Carol sapeva di sembrare
aggressiva, ma non le importava.
«Mi avresti dato retta?» chiese Tony,
con voce calma. «Non mi avresti forse
detto di farmi gli affari miei e lasciarti
affrontare la cosa a modo tuo?»
«Me lo ha dato Jonathan» disse Carol,
senza giri di parole. «Lui non ha avuto
paura di sentirsi dire di stare al proprio
posto.»
Tony spostò la testa all’indietro, come
per schivare un colpo al ralenti. «Lo hai
detto a Jonathan.»
Dritto al punto sbagliato, pensò Carol
amaramente. «Sì, l’ho detto a Jonathan.»
Il dottore annuì. «Probabilmente è più
facile. Considerato che lui è un estraneo.
Nessun precedente comune. Mi dispiace,
Carol. Se avessi creduto che lo avresti
accettato, ti avrei consigliato di
leggerlo.» Si alzò improvvisamente.
«Bene. Ora vado.»
«Non vieni al briefing?» Tony scosse
la testa. «E non ripassi l’operazione con
Paula?»
«A quale scopo?» rispose lui. «Non
spetta a me. È compito tuo.»
«Puoi darci un’altra opinione» disse
Carol.
«L’hai avuta. Credo che l’assassino
lavori a Temple Fields. Credo sia un
addetto alla sicurezza o un buttafuori, o
forse anche un ausiliario del traffico.
Eccetto questo, non ho altro da offrirti
per ora.» Allungò una mano e posò il
palmo sulla spalla di Carol.
L’ispettrice sentì un’ondata di panico
invaderle il petto, una morsa stretta che
le tolse l’aria dai polmoni. «Potresti
aiutare Paula.»
«Non credo, Carol. Non hai bisogno di
me stavolta. È una faccenda da
poliziotti, non da strizzacervelli. Non
c’è niente di più convincente
dell’esperienza. E nessuno ha più
esperienza di te in fatto di operazioni
sotto copertura. Non hai bisogno di me,
davvero.»
Paula trovò Don Merrick nella mensa
della centrale intento a sorseggiare un tè.
Occupò la sedia di fronte all’ispettore,
notando la tristezza sul suo volto.
«Potresti battertela con l’asino triste di
Winnie the Pooh, sai» disse.
«È arrivata una lettera per me in
centrale, dall’avvocato di Lindy. Vuole
il divorzio.»
«Cristo, non perde tempo, eh?»
Merrick sospirò. «Ha ragione però.
Sappiamo entrambi che è finita.
Dovrebbero essere gli uomini quelli
duri, ma quando si tratta di tagliare i
ponti e andare avanti, voi donne siete
dannatamente spietate.»
«Non tutte» disse Paula, ripensando al
suo disastroso passato. Due relazioni
negli ultimi sei anni, e a entrambe era
rimasta avvinghiata ben oltre la loro
data di scadenza. Le ricordavano una
poesia che aveva letto una volta in cui si
diceva che l’amore è un aquilone che
non riusciamo a lasciar andare finché
qualcuno non ci dà qualcosa di meglio
da fare. Sebbene non le piacesse vedere
l’effetto che la freddezza di Lindy aveva
su Merrick, Paula invidiava la capacità
della donna di voltare pagina così in
fretta.
Ma Merrick era troppo preso dalla sua
tristezza per accorgersi del rammarico
nella voce di Paula. «Almeno se
formalizziamo il divorzio saprò quando
posso vedere i ragazzi» disse. «Se mai
riuscirò a prendermi del tempo libero in
questa vita.»
«Se stasera siamo fortunati, potremo
allentare un po’ la corda» disse Paula,
sforzandosi di non pensare a cosa
avrebbe voluto dire per lei avere fortuna
quella sera.
Stavolta il suo commento provocò una
reazione. L’ispettore alzò la testa, il suo
sguardo triste mostrò interesse. «Pronta
per stasera?» chiese.
Paula attorcigliò una piccola ciocca di
capelli intorno a un dito. «Sono un po’
nervosa» ammise.
«Non ti succederà niente» la rassicurò
Merrick.
«Sì? Come a te non è successo niente
quando davate la caccia al Killer dei
finocchi?» disse Paula, in tono
sarcastico. Allora, era stata una
semplice agente di supporto del
dipartimento di investigazione criminale
ai margini dell’indagine, ma ricordava
in modo vivido il turbante di bende
intorno alla testa di Merrick dopo che
l’operazione sotto copertura a cui lui
aveva preso parte era sfuggita di mano.
L’ispettore sembrò imbarazzato.
«Quella è stata colpa mia» disse. «Mi
sono messo in pericolo da solo.
Credevo di poter gestire la situazione,
ma mi sbagliavo. Quindi impara dai
miei sbagli: non correre rischi, non
lasciare nulla al caso. Se sei in dubbio,
abortisci l’operazione. Meglio perdere
l’opportunità di beccarlo che rischiare
che ti succeda qualcosa.»
Un po’ a disagio di fronte alla
preoccupazione genuina di Merrick,
Paula disse: «Non è quello che mi
spaventa. Ho piena fiducia in chi mi
guarderà le spalle. Siamo onesti, dopo
quello che ha passato, Jordan non mi
lascerà col sedere scoperto. Semmai,
calcherà troppo la mano e finirà per
spaventarlo.»
«Allora cos’è che ti preoccupa?
Perché lo vedo che c’è qualcosa che non
va.»
«Ti sembrerà sciocco» disse Paula.
«Ma non so se sono in grado di farcela.
A calarmi nella parte, intendo. Non so se
ho l’immaginazione che serve.»
Merrick aggrottò la fronte. «Credo di
non capire.»
«Sono uno sbirro, Don. Dentro e fuori.
Vedo il mondo in bianco e nero. Non
capisco quelle stronzate empatiche di
cui Tony Hill blatera in continuazione.
Non prendo i cattivi pensando come
loro. Li prendo perché loro sono stupidi
e io sono intelligente. Perché io sono
dalla parte dei giusti e loro no. Perciò,
come fa una come me a starsene
all’angolo di una strada e a far credere a
un cazzo di psicopatico di essere una
prostituta?» disse Paula con fervore.
Merrick ebbe difficoltà a trovare una
risposta. «Hai l’abbigliamento, no?»
«Sì, ce l’ho» rispose Paula,
stancamente. «Shields è un’esperta
quando si tratta di scegliere i vestiti
volgari adatti all’occasione. Ma mi
sento come una bambina che gioca a
travestirsi. Hai presente quando a volte
ti vesti elegante per uscire, ti metti
qualcosa che è un po’ diverso da quello
che indossi di solito e pensi ‘Sì, wow,
ecco chi posso essere stasera’?»
Merrick la guardò come se stesse
parlando in cinese. «Non posso dire di
averlo presente, no.»
«Fidati, è così che va. Ma quando
indosso quella roba, riesco solo a
pensare ‘non voglio essere questa
persona’. Non ho paura che voi mi
deludiate. Ho paura che sia io a
deludere voi.»
Carol trovò John Brandon in sala
stampa, impegnato a parlare con un
funzionario di collegamento. Il
commissario capo alzò lo sguardo e le
fece un cenno col capo quando
l’ispettrice entrò. «Carol, stavamo
giusto parlando di Tim Golding e Guy
Lefevre. Shaheed mi diceva che una
delle testate della domenica ritornerà sul
caso questo fine settimana.» Sospirò.
«Per come la mettono loro, si potrebbe
pensare che siamo rimasti con le mani in
mano negli ultimi quattro mesi.»
Carol si sforzò di sorridere. «Potrei
avere delle novità al riguardo, signore.»
Riportò in breve le informazioni fornite
da Jonathan.
Il volto cupo di Brandon si illuminò.
«Ma questa è un’ottima notizia, Carol.
Chi ha avuto l’idea di consultare questo
geologo?»
«Io, signore.» Per nessun motivo
avrebbe rinunciato a prendersi il merito
per l’unica intuizione positiva avuta di
recente.
«Bene. Ottimo lavoro. Tienimi
informato sugli sviluppi. E anche
Shaheed.» Si alzò.
«Posso parlarle un secondo, signore?»
disse Carol, chiamandolo in disparte.
Brandon inarcò un sopracciglio.
«Dimmi.»
«Ho saputo che il detective Evans l’ha
informata di aver portato avanti una
linea d’indagine non autorizzata che
aveva per oggetto il dottor Aidan Hart.»
Brandon raddrizzò le spalle. «Sì. E
devo dirti che sono rimasto molto
sorpreso dal fatto che tu avessi messo da
parte quella pista. Non si può dire che i
sospettati abbondino in quest’indagine.
So che Hart lavora con Tony, ma...»
«Questo non ha avuto nulla a che fare
con la mia decisione, signore» lo
interruppe Carol. «Ho scartato il dottor
Hart perché ha un alibi per il lasso di
tempo in cui secondo il medico legale è
stata uccisa Sandie Foster.»
Brandon scosse la testa. «Non è
abbastanza, Carol. Sappiamo bene che
l’ora della morte è tutt’altro che un buon
metro di paragone.»
«Ciononostante, i tempi non
coincidono. L’ha abbordata alle otto e
mezza. Ci sarà voluto qualche minuto
per raggiungere la stanza di Sandie. A
quel punto deve legarla e aggredirla
ripetutamente. Poi in qualche modo,
deve arrivare dall’altra parte della città,
trovare parcheggio e raggiungere il
ristorante per le nove senza una traccia
di sangue addosso. Non è possibile,
signore, qualsiasi cosa ne pensi Sam
Evans.»
Brandon si accigliò. «In questo caso,
ispettrice capo Jordan, devi tenere a
freno i tuoi agenti. Ora, sono certo che
hai del lavoro da svolgere in vista di
stasera.» La oltrepassò e se ne andò,
lasciando Carol con l’amaro in bocca
per l’ingiustizia delle sue ultime frasi. Si
era sbagliata riguardo a Brandon? Con
la pressione per ottenere risultati alle
stelle, era forse tanto diverso da chi
l’aveva delusa in passato? Una cosa era
sicura: quando quella storia sarebbe
finita, ci sarebbero stati dei cambiamenti
nella squadra crimini maggiori. Ma per
il momento, doveva dimenticare il suo
orgoglio e rimettersi al lavoro.
Carol comprendeva il disappunto
stampato sulle facce di Kevin Matthews
e Sam Evans. Quella sera avrebbero
avuto il primo assaggio di azione da
quando la loro cosiddetta squadra
d’élite era stata messa insieme e lei li
costringeva a tirarsi indietro per una
sana notte di riposo. Ma se Tony aveva
ragione riguardo a cosa avrebbero
trovato a Swindale, voleva che gli
agenti a capo della perlustrazione
fossero vigili e attenti a ogni eventualità.
Voleva evitare che qualche prova
cruciale sfuggisse di mano perché gli
agenti in carica erano rintontiti e
disorientati per la stanchezza o, al
contrario, perché erano euforici per aver
ottenuto buoni risultati in un altro caso.
Quando li aveva convocati nel suo
ufficio, Carol sapeva che i due agenti si
erano convinti di stare per ricevere
qualche incarico speciale
nell’operazione sotto copertura.
Entrambi avevano dimostrato lo stesso
entusiasmo e la stessa impazienza di un
paio di ragazzini lasciati liberi di
scorrazzare per la città di sabato sera.
L’ispettrice aveva provato l’approccio
più indolore possibile, ma non c’era
modo di indorare la pillola. I due agenti
volevano essere lì fuori, spalla a spalla
con i loro colleghi, non sotto le coperte
a riposare per l’incarico della mattina
seguente, per quanto cruciale potesse
rivelarsi. Non importava quanto tutti
volessero disperatamente scoprire cosa
era successo a Tim Golding e Guy
Lefevre; alla fine dei conti, qualsiasi
poliziotto non desiderava altro che
trovarsi nel mezzo dell’azione. E quella
sera, l’azione sarebbe stata a Temple
Fields.
«Credevo che avessimo bisogno di
tutti gli agenti disponibili per
quest’operazione» aveva protestato
Evans, ancor prima che Carol finisse di
ragguagliarli.
«Non metto in dubbio la vostra
intenzione di aiutare, Sam» rispose
Carol, sforzandosi di evitare che la sua
ostilità personale nei confronti del
detective non influenzasse la risposta a
una reazione molto vicina
all’insubordinazione. «Ma sono io che
decido le priorità. E per quanto mi
riguarda, scoprire cosa è successo a Tim
Golding è importante tanto quanto
arrestare chi ha ucciso Sandie Foster e
Jackie Mayall prima che colpisca
ancora.»
«Anche se questo vuol dire esporre
un’agente a un rischio maggiore?»
Averla scavalcata per metterla in cattiva
luce con Brandon, sembrava aver
convinto Evans di poter mettere in
discussione la parola dell’ispettrice.
Carol doveva dimostrargli il contrario,
prima che la situazione creasse problemi
anche con gli altri.
«Credimi, detective, la tua assenza non
avrà alcun effetto sui rischi che correrà
la detective McIntyre. Non sei tanto
speciale da essere insostituibile. Il team
di stasera è al massimo delle sue
capacità. Quello di cui ho bisogno è
sapere che l’operazione di domani
mattina sarà diretta altrettanto
scrupolosamente.» La voce di Carol era
gelida come il ghiaccio. Evans tenne lo
sguardo fisso sulle sue scarpe e
bofonchiò qualcosa che Carol era pronta
a interpretare come una scusa.
«Cosa può dirci di domani, capo?»
domandò Kevin, compatendo il suo
collega e cercando di placare
l’irritazione di Carol.
«Il dottor France, il geologo forense,
crede di aver identificato il luogo in cui
è stata scattata la foto di Tim. È una
valle appartata ma non particolarmente
isolata nel Derbyshire. Il dottor Hill
crede ci siano buone possibilità che Tim
sia stato ucciso e seppellito lì. Quindi
non vi sto mandando a fare un giro in
campagna. Questo potrebbe essere lo
sviluppo più importante nei casi che
stiamo seguendo. Sarete accompagnati
da una squadra della scientifica al
completo e tratterete l’area interessata
come una scena del crimine. Ho bisogno
di agenti del vostro calibro perché è
fondamentale non farsi sfuggire nulla che
possa aiutarci a capire cosa è successo a
Tim e chi ne è stato colpevole.»
«Le forze locali sono state avvertite
della nostra presenza sul territorio?»
chiese Kevin.
«Le ho già informate, sì. Stacey vi dirà
nel dettaglio con chi dovrete collaborare
in caso troviate qualcosa.» Si alzò. «So
che siete entrambi delusi per stasera, ma
ho scelto voi due perché ho fiducia nella
vostra abilità di trovare qualsiasi cosa
ci sia da trovare a Swindale. Quindi
riposate stanotte e domani dimostratemi
che ho ragione.»
I due agenti uscirono e Carol li
osservò con aria cupa. Li stai perdendo,
pensò, cercando di non cedere al panico.
Li stai perdendo e loro sanno perché.
Le regole sono cambiate. Questa
volta sarà diverso perché lo dice la
Voce. Lui non stabilisce le regole, le
segue soltanto. E se cambiano,
dev’esserci una ragione. Non lo
spaventa non conoscerla.
Probabilmente non capirebbe neppure
se la conoscesse. Ma la Voce capisce.
Perciò, anche se le cose saranno
diverse stavolta, andrà comunque tutto
bene.
Ma sarà diverso perché ci sono nuove
cose da imparare per lui, e la Voce gli
concede più tempo per prepararsi. Ha
un nuovo copione da studiare, nuove
istruzioni da memorizzare. Ha anche un
cappotto nuovo per farlo sembrare
diverso.
Ha la vaga sensazione che questi
cambiamenti portino pericoli. Correrà
rischi più grandi, cosa che lo
spaventerebbe se non ci fosse la Voce a
dargli fiducia. Perciò, stanotte rimarrà
a casa, assicurandosi di sapere come
agire senza doverci pensare. È seduto
in camera sua, ascolta la voce
seducente sul minidisc e ripassa il
piano ancora una volta. Ha acceso uno
spinello, roba buona che conservava
per le occasioni speciali.
Mentre le parole attecchiscono nella
sua mente, diffondendo calore e
conforto, sa che ha fatto bene ad
accenderlo. Non potrebbe esserci
occasione più speciale di questa.
Al Bradfield Moor, Tony sedeva nella
chiazza di luce proiettata dalla lampada
da tavolo del suo ufficio. Come molti
altri oggetti nell’ospedale psichiatrico,
la lampada non era mai stata di grande
utilità, specialmente ora che era
decisamente malridotta. Le uniche due
posizioni che riusciva a mantenere erano
o troppo alta o troppo bassa per servire
a qualcosa. Ma in quel particolare
momento, Tony sembrava ignaro
dell’ambiente circostante.
L’assassino continuava a eluderlo. Una
voce eterea che non riusciva a sentire
ma che sembrava comunque capace di
manipolarlo. Il dottore non aveva idea
di che persona fosse l’assassino più di
quanta non ne avesse la mattina seguente
all’omicidio di Sandie Foster, quando
aveva parlato a Carol di stupro,
omicidio e potere.
Aveva provato a parlare di nuovo con
Derek Tyler, ma questi si era rifiutato di
lasciare la sua stanza. Quando poi Tony
era andato da lui, Tyler si era
rannicchiato sul letto con la faccia
rivolta verso la parete. C’era stato ben
poco di ambiguo in quel gesto. Così, il
dottore era tornato nel suo ufficio e
aveva studiato il fascicolo che Carol gli
aveva finalmente inviato. L’ispettrice
aveva ragione. Non c’era ombra di
dubbio sulla colpevolezza di Derek
Tyler. A meno che questo non avesse un
fratello gemello col suo stesso DNA. Ma
non c’erano tracce di eventuali fratelli
di Tyler, figurarsi di un gemello.
«Che ne ricavi?» disse, appoggiandosi
allo schienale e fissando il soffitto. «A
che scopo perpetrare i crimini di
qualcun altro?» Era sul punto di
cominciare a dubitare di qualcosa che
aveva sempre considerato come una
delle poche verità assolute del suo
lavoro: due individui non potevano
reagire a uno stimolo nello stesso,
identico modo quando si parlava di
omicidi a sfondo sessuale. E se quel
caso fosse l’eccezione alla regola?
Una volta aveva partecipato a una
conferenza sulla scienza forense in cui il
discorso di chiusura era stato tenuto da
un illustre scrittore di gialli. Ricordava
come l’uomo si era appoggiato al leggio
con disinvoltura, le sue parole rese
rassicuranti e innocue dal suo accento
gallese. Tony non era abile quanto Carol
nel richiamare alla memoria gli scambi
orali, ma il dottore ricordava il nocciolo
di quel particolare discorso perché
combaciava perfettamente con le sue
idee. Lo scrittore aveva parlato di una
domanda che riceveva spesso dai suoi
lettori: non temeva che qualcuno potesse
rubare i crimini da lui immaginati per
tramutarli in realtà? Lo scrittore aveva
confessato di non preoccuparsene
minimamente, per due ragioni. Prima di
tutto, le probabilità che qualcuno fosse
spinto da un movente identico a quello
dei suoi personaggi erano insignificanti.
Inoltre, anche nella remota possibilità
che potesse succedere, non l’avrebbe
comunque ritenuta colpa sua. Il soggetto
colpevole del reato doveva essere già
predisposto a commetterlo; incolpare lo
scrittore per il crimine dell’assassino
era come incolpare il coltello di aver
ucciso un coniuge nel corso di un litigio
domestico.
Ma se si fossero sbagliati entrambi,
sia lo scrittore che Tony? Se una
congruenza di fantasie omicide non fosse
stata così improbabile come il dottore e
i suoi colleghi avevano sempre pensato?
Se qualcuno fosse rimasto così colpito
dai crimini di Derek Tyler da arrivare a
convincersi che l’unico modo di
raggiungere il proprio sogno di
perfezione fosse mettere in atto quella
che aveva capito essere anche la sua
fantasia?
Era inverosimile. I colleghi avrebbero
riso di lui. Riusciva quasi a vedere il
sorrisetto sul volto di Aidan Hart
davanti alla convinzione che Tony Hill
aveva finito col perdere la testa,
dopotutto.
Ma più di tutto ciò, non aveva senso.
Perché Tyler aveva confessato, perché le
prove scientifiche erano inattaccabili,
perché Tyler era stato giudicato pazzo
non cattivo, perché i dettagli dei suoi
crimini non erano mai stati rivelati in
un’udienza pubblica. Alcuni particolari
degli omicidi non erano di dominio
pubblico, li conoscevano solo Tyler, la
polizia, gli avvocati di accusa e difesa e
quelli che, come Tony stesso, era
incaricati delle sue cure psichiatriche.
Sebbene non fosse impossibile che
qualcuno di questi fosse passato dalla
parte dei cattivi, non era una prospettiva
che Carol o Brandon avrebbero accolto
a braccia aperte.
In realtà, neppure Tony la considerava
plausibile. Rifletterci non aveva fatto
altro che confermarlo.
Spostò la sedia all’indietro fino a
uscire dal fascio di luce e a toccare con
la testa la libreria alle sue spalle. Aveva
perso la sua abilità? Era rimasto fuori
dal gioco troppo a lungo? Era davvero
meglio di quegli idioti egocentrici che
infangavano la professione di profiler?
Era un’idea terrificante. Se fosse
diventato incapace di fare l’unica cosa
in cui era bravo? Cosa gli sarebbe
rimasto? Di certo non poteva trovare
conforto nel pensiero di aver usato il
suo acume professionale per aiutare
Carol. Era stato un uomo che trascorreva
gran parte del suo tempo a guardare
rocce ad accorgersi di cosa avesse
bisogno l’ispettrice e ad agire di
conseguenza.
Rimuginò per qualche minuto ancora,
poi si raddrizzò sulla sedia bruscamente.
«Disgustosa autocommiserazione» disse,
ad alta voce. «Non un bello spettacolo.»
Tantomeno serviva ad assumere un
comportamento di cui andar fiero. Si era
defilato dall’operazione di quella sera
non perché fosse davvero convinto di
non poter essere utile, ma per una
combinazione di stizza e di un profondo
senso di fallimento. Aveva deluso sé
stesso. Cosa più importante, aveva
abbandonato Paula McIntyre. Aspetto
che Carol avrebbe faticato a perdonare
molto più del ruolo ricoperto dal dottore
nel suo dramma personale.
«Ah, dannazione» disse Tony, tirandosi
su e afferrando il cappotto. Era ora di
farla finita con l’autoindulgenza. Poteva
non essere troppo tardi per evitare che
succedesse qualcosa di realmente
terribile a Paula McIntyre.
Carol osservò gli agenti lasciare la
sala riunioni, le loro voci un mormorio
sommesso di sottofondo. Aveva messo
insieme poco più di una trentina di
uomini per fornire copertura
all’intrusione di Paula nel mondo
dell’assassino. Molti sarebbero stati in
strada, in borghese, a cercare di
confondersi tra i clienti abituali di
Temple Fields. Alcuni sarebbero stati
appostati in auto nei pressi della strada
principale, nascosti alla vista di Paula
ma in contatto radio con il furgone di
sorveglianza. Altri sarebbero stati
strategicamente sparsi nel labirinto di
vicoli laterali, pronti a intercettare
qualsiasi tentativo di fuga. Carol
sarebbe stata nel furgone di sorveglianza
con Don Merrick, Stacey Chen, Jan
Shields e un paio di tecnici, ad attendere
con ansia, a fissare negli schermi delle
telecamere di sorveglianza con le
orecchie tese a catturare eventuali
comunicazioni di Paula attraverso il
microfono che avrebbe indossato.
Carol cercava di convincersi che
l’operazione avesse buone possibilità di
andare a buon fine. Riteneva di aver
considerato ogni evenienza; se avesse
dispiegato altri agenti, avrebbero avuto
un impatto troppo evidente sul territorio.
Sapeva che l’uomo che cercavano era il
tipo di assassino in perfetta sintonia con
la propria zona d’azione, ed era
importante non alterare l’ambiente tanto
da indurlo ad accorgersi delle
differenze. Questo l’aveva imparato da
Tony nel corso degli anni. Un suo
contributo le sarebbe stato utile quel
pomeriggio. Non perché Carol dubitasse
delle proprie abilità nell’organizzare
un’operazione così importante, ma
perché voleva un altro punto di vista sul
piano che aveva messo a punto. Voleva
Tony perché lui sarebbe riuscito a
considerarlo con gli occhi della preda,
invece che del predatore. Paula avrebbe
fatto da esca; Carol non voleva che
finisse per diventare l’agnello
sacrificale, ma al tempo stesso non
voleva che il lupo annusasse l’aria e
fuggisse impaurito.
Tony si comporta in modo strano,
pensò Carol. Considerata la premura che
le aveva mostrato da quando era tornata
a Bradfield, aveva immaginato che il
dottore le sarebbe rimasto incollato
addosso quella sera. Era difficile non
leggere la sua assenza come un
rimprovero.
L’ultimo agente lasciò la sala e Carol
dedicò un ultimo sguardo alle lavagne su
cui era delineata la sua strategia. Era ora
di andare a rassicurare Paula.
Trovò la giovane detective nel suo
ufficio, in compagnia di Jan Shields.
Paula era già vestita e pronta a
cominciare. Sembrava curiosamente
patetica con indosso quegli abiti volgari,
le gambe nude avevano già la pelle
d’oca sopra i tacchi a spillo che Jan
aveva comprato da una bancarella. Il
viso di Paula era coperto dal trucco
eccessivo tipico di una prostituta; gli
occhi delineati dal kajal, le labbra una
macchia rosso scarlatto. Era a suo agio
come un topo in una fossa di serpenti.
Carol la squadrò. «So che è una
sensazione orribile, ma sembri una di
loro. Be’, da una certa distanza,
perlomeno. Da vicino si vede che sei
troppo in buona salute.»
«Grazie, capo» disse Paula, in tono
ironico.
Carol le poggiò una mano sulla spalla,
il PVC era freddo sotto le sue dita.
«Saremo vicini, in ogni momento.
Avremo gli occhi incollati su di te.
Abbiamo agenti per le strade e nelle
auto. Ti hanno già messo il microfono?»
Paula annuì, girandosi sulla sedia e
sollevando il giubbino. Sebbene il top
luccicante le lasciasse l’addome
scoperto, il bomber scendeva fino ai
fianchi nascondendo il cavo che correva
dal microfono tra i suoi seni, lungo il
ferretto del reggiseno e giù fino al
trasmettitore sistemato appena sotto la
vita della minigonna. Il cavo non era
fissato alla pelle con del nastro adesivo;
faceva abbastanza gioco da non
staccarsi per sbaglio nel caso in cui
Paula dovesse abbassarsi o chinarsi per
parlare con un cliente in auto.
«Non si nota per niente quando è in
piedi o quando cammina» disse Jan.
«Abbiamo controllato.»
«Bene» rispose Carol. «L’auricolare?»
Paula scosse la testa. «I tecnici hanno
detto che sarebbe troppo visibile con
dei capelli così corti.»
«E a te sta bene? Non potremo
parlarti.»
Paula scrollò le spalle. «Andrà bene.»
«In caso dovessimo abortire, uno di
noi ti passerà davanti. Ti è chiaro tutto il
resto?» chiese Carol.
La detective annuì, con aria infelice.
«Se un cliente mi abborda, svolto
l’angolo insieme a lui per vedere cosa
vuole. Se è uno dei tanti, gli mostro il
distintivo e gli dico di sparire prima che
lo arresti.»
«Giusto. Non siamo interessati ai
commessi sfigati stasera. Lasciamoli ai
colleghi di Jan.»
«Grazie» disse Jan, sarcastica.
«E se qualcuno mi parla di bondage,
vado con lui?»
Carol percepiva quanto Paula si stesse
sforzando di mantenere una facciata di
spavalderia. Ma conosceva il verme
della paura e della tensione che la stava
divorando. Lo conosceva perché ci
aveva convissuto più a lungo di quanto
non volesse mai più conviverci in vita
sua. «Esatto» disse. «Poi gli chiedi cosa
vuole con esattezza. Se ha un posto dove
andare o se vuole usare il tuo. Che sia
l’assassino o meno, è a quel punto che
interveniamo. O per dirgli di stare alla
larga in termini chiari, oppure per
arrestarlo. Saremo sempre vicini.
Dobbiamo dargli un po’ di corda, ma
saremo lì ad assicurarci che niente vada
storto.»
Paula esitò visibilmente. «Ma niente
andrà storto. Giusto?»
«Giusto.» La voce maschile veniva da
dietro le loro spalle. Le tre donne si
voltarono e videro il commissario capo
sulla soglia dell’ufficio. «Ho la massima
fiducia in lei e nella sua squadra,
ispettrice capo Jordan. Non potrebbe
essere in mani migliori, detective
McIntyre. Sono sicuro che otterremo un
risultato. Se non stasera, molto presto.»
Carol sentì Paula irrigidirsi sotto la
sua mano. Si rese conto che la detective
non aveva messo in conto che
quell’operazione potesse ripetersi per
più di una sera. «Grazie, signore» disse.
«Posso parlarle, ispettrice capo
Jordan?» chiese Brandon.
Jan e Paula lasciarono l’ufficio.
«Aspetteremo nella sala operativa»
disse Jan, chiudendo la porta.
«Come stai, Carol?» domandò
Brandon, la fronte corrugata in
un’espressione preoccupata.
«Sto bene, signore» rispose la donna,
scandendo bene le parole, incitando né
alla compassione, né all’indulgenza.
Dopo il loro ultimo incontro, Carol
trovava difficile credere che la
preoccupazione del suo capo fosse
sincera. «Non sarò io a correre rischi
stasera.»
«No, ma non deve essere facile per te
usare un’agente in un’operazione simile.
Dopo quello che...»
«Faccio il mio lavoro, signore» lo
interruppe Carol. «Se credessi che i
miei sentimenti potessero
compromettere l’operazione, le
chiederei di togliermi il comando.»
Brandon sembrò imbarazzato. «Non
era quello che intendevo, Carol. E non
era quello che intendevo quando
abbiamo parlato, prima. Volevo solo
dire che capisco quanto tutto questo
possa risvegliare ricordi poco
piacevoli.»
Carol si sforzò nuovamente di
rimanere in controllo dell’ondata
crescente di frustrazione e rabbia. «Con
tutto il rispetto, signore, queste sono
questioni personali.»
Ammonito, Brandon distolse lo
sguardo. «Come desideri. Tony è in
centrale?»
«No, signore. Il dottor Hill ha ritenuto
di aver contribuito come poteva per
l’operazione di stasera. Ha fatto
presente che le misure da me adottate
sono sufficienti.» Al contrario di te,
pensò, aspramente. Improvvisamente, si
rese conto che l’assenza di Tony poteva
non essere un ammonimento nei suoi
confronti. Poteva essere il modo del
dottore di dimostrarle che aveva di
nuovo il controllo di sé stessa, secondo
lui, di nuovo al meglio delle sue
capacità.
Se è questa la ragione, Tony si
sbaglia di grosso. Non provava una tale
ansia da molto tempo. Ma non avrebbe
mai lasciato che Brandon se ne
accorgesse. Si stampò un sorriso in
faccia e disse: «Se può scusarmi,
signore, devo dare il mio supporto alla
detective McIntyre. È ora di mettersi al
lavoro.»
Brandon si fece da parte per farla
passare. «Buona fortuna, Carol» disse.
L’ispettrice si voltò. «Se lo prendiamo
non sarà per un colpo di fortuna,
signore. Sarà merito di un lavoro ben
svolto.»
Temple Fields in una sera
infrasettimanale. L’aria pungente mista
al sentore acre dell’inquinamento che
arrivava alla gola. Due generazioni
addietro, la nota di fondo sarebbe stata
il fumo di migliaia di carboni ardenti.
Ora, consisteva in un mix di gas serra
dei tubi di scappamento delle auto e di
esalazioni stagnanti delle centinaia di
locali e fast food della città, dai burger
bar ai bistrò. La sgargiante
illuminazione al neon sembrava foschia
attraverso gli obiettivi del sistema di
sorveglianza. Le quattro telecamere che
lo alimentavano erano tutte puntate su
Paula da angolazioni e distanze diverse,
e la ritraevano davanti allo sfondo di
una strada movimentata dove ogni
appetito poteva essere soddisfatto. La
gente faceva acquisti al minimarket
all’angolo, usciva ed entrava da pub, bar
e ristoranti. Professionisti del sesso di
tutti i generi ciondolavano in attesa di
clienti, la loro impazienza intorpidita da
alcol e droghe. Le auto circolavano e
vagabondavano, a volte in cerca di
parcheggio, altre in cerca di sesso.
Quello che i conducenti non sapevano
era che ogni numero di targa veniva
registrato da un’altra serie di telecamere
posizionate strategicamente sulle
principali vie di accesso alla zona. Se
l’assassino non si fosse palesato, ognuno
di loro avrebbe ricevuto una visita,
secondo quel rituale lungo e noioso per
cui chiunque era considerato un
sospettato fino a prova contraria. Dei
matrimoni avrebbero potuto naufragare
in seguito a quell’operazione.
A Carol Jordan non importava. Sapeva
il prezzo che comportava correre rischi
e provava scarsa compassione per chi li
correva per gratificazioni così venali.
Guardò gli schermi, osservando Paula
con attenzione. La giovane detective
occupava un angolo vicino a una piccola
rotonda. Aveva imparato alla svelta,
studiando l’atteggiamento e lo stile delle
altre donne sulla strada, e ora metteva in
mostra la mercanzia come loro. Qualche
passo in una direzione, peso su una
gamba per evidenziare il bacino, uno
sguardo sfrontato verso le auto. Poi tutto
da capo.
Quando aveva preso posizione, Paula
era stata avvicinata in modo poco
amichevole da un’altra donna il cui
territorio era stato inavvertitamente
invaso dalla detective. Mostrare il
distintivo sarebbe stato il modo più
veloce per sbarazzarsene, ma avrebbe
rischiato di compromettere l’intera
operazione. Così, Paula le aveva
proposto un patto, e la donna si era
allontanata in cambio di una banconota
da venti. Non era granché come somma,
ma il tono di Paula era stato abbastanza
minaccioso da convincere la prostituta a
spostarsi in una strada laterale, qualche
metro più in là, senza ulteriori
polemiche. Carol era rimasta colpita.
Considerata la tensione che aveva notato
nella detective qualche ora prima, la sua
performance era stata eccellente.
«È stata brava» aveva commentato
Jan. «È uno dei vantaggi di aver
eliminato i protettori. Non molto tempo
fa, se avesse fatto una cosa simile si
sarebbe ritrovata con un coltello alla
gola nel giro di cinque minuti. Ma le
donne reagiscono diversamente.»
«Non si proteggono a vicenda?» aveva
chiesto Stacey, distogliendo lo sguardo
dallo schermo del computer dove
controllava i numeri delle targhe sul
database nazionale della polizia.
«Fino a un certo punto. Ma non sono
proprio un sindacato» aveva detto Jan,
in tono sardonico.
Non era una sera movimentata dal
punto di vista della prostituzione. Ma
era ancora presto. Secondo Jan, la
situazione si sarebbe animata dopo le
dieci, raggiungendo un picco di attività
tra mezzanotte e l’una. Carol, tuttavia,
aveva già deciso di interrompere
l’appostamento a mezzanotte. Tutte le
vittime dell’assassino, che fossero due o
sei a seconda delle opinioni, erano state
abbordate tra le sei e le dieci. Era
evidente che l’uomo che cercavano non
gradisse lavorare fino a tardi.
Si fecero le otto e mezza e Paula non
aveva ancora avuto molto da fare. Il
team nel furgone aveva assistito a una
dozzina di transazioni su quella strada,
ma nessuna delle donne coinvolte
assomigliava lontanamente alla vittima
tipo del killer, perciò avevano lasciato
correre senza interferire.
All’improvviso, Jan puntò il dito
verso uno degli schermi. «Bene, bene»
disse. «Guarda chi c’è.»
A passeggiare in direzione di Paula
con la testa bassa e il colletto del
cappotto sollevato, c’era la sagoma
inconfondibile di Tony Hill. Carol si
chinò verso lo schermo, osservando il
dottore mentre sorpassava Paula senza
esitazione. Poi entrò nel primo pub che
trovò. Che diavolo stava combinando?
Parte di Carol voleva schizzare fuori dal
furgone e seguirlo. Ma la parte più
razionale di lei sapeva di dover
aspettare. Se ci fosse stato movimento,
era lì che doveva essere, a dirigere il
gioco, non a correre per la strada
pretendendo di sapere cosa avesse in
mente Tony. Oltretutto, andava contro
ogni regola di appostamento uscire ed
entrare dal veicolo di sorveglianza
attirando l’attenzione su di esso.
A decidere per lei fu un’auto che si
fermò davanti a Paula. «Abbiamo un
cliente» gridò Merrick. La tensione
divenne palpabile nel furgone.
Paula si chinò per parlare attraverso il
finestrino abbassato. L’auto le
nascondeva il volto, ma la telecamera
dietro di lei la mostrava in perfetto
controllo della situazione e il microfono
offriva una resa gracchiante ma
comprensibile della conversazione.
«Stai lavorando?» chiese il guidatore.
«Cosa cerchi?» disse Paula, la
freddezza del suo tono evidente anche
attraverso l’interferenza della
trasmissione.
«Lo prendi nel culo?» chiese l’uomo.
«Se vuoi che lo prenda nel culo, ti
costerà più di quanto tu possa
permetterti. Va’ a farti fottere,
pervertito» ringhiò Paula.
«Stupida troia» sbottò il guidatore in
risposta, reinserendo la marcia e
proseguendo sulla strada.
Paula si allontanò dal bordo del
marciapiede. «Suppongo che il prezzo
non fosse giusto.»
«Così, Paula. Continua a mantenere le
apparenze» disse Carol tra sé e sé. Il
resto del team tirò un sospiro di sollievo
e si rilassò, per quanto possibile.
«Si è seduto davanti alla vetrata»
disse Jan.
«Come?» Carol stava ancora
ripensando all’accaduto.
«Il dottor Hill.» Jan indicò uno degli
schermi. Si riusciva a stento a
individuare un volto che avrebbe potuto
essere quello di Tony. «Si è appena
seduto. Ha preso da bere. Guardi. Ha
trovato un posto da cui può guardare in
strada.»
«L’importante è che stia fermo lì»
borbottò Carol.
Altri quindici minuti trascorsero senza
inconvenienti. Poi Merrick disse: «Quel
tizio. È la terza volta che passa.» Con la
sua penna, indicò un uomo di mezza età
con un inizio di calvizie, tozzo e con la
schiena curva. «Ha adocchiato Paula.
Guardate.»
Aveva ragione. L’uomo rallentò mentre
si avvicinava a Paula, la sua testa si
muoveva su e giù mentre la squadrava di
lato e da dietro. La superò, poi
attraversò la strada. All’angolo, si voltò
di nuovo. Camminò con disinvoltura in
direzione di Paula, poi, giunto alla
stessa altezza, attraversò la strada e
accelerò il passo.
«Oh, oh» disse Jan, mentre l’uomo
raggiungeva il marciapiede e invadeva
lo spazio di Paula, portandola a fare un
passo indietro.
«Facciamo affari, io e te.» La voce
dell’uomo era un ringhio sonoro negli
auricolari.
«Che cerchi?» disse Paula, cercando
di mantenere la sua posizione ma
trovandosi costretta a indietreggiare
mentre lui le stava addosso.
«Voglio che mi fai un pompino» disse
l’uomo, continuando a pressarla e
spingendola verso un vicolo tra due
palazzi che conduceva ai giardini sul
retro.
«Squadra A, portarsi in posizione»
urlò Carol. All’improvviso, quattro
uomini che passeggiavano senza una
meta apparente iniziarono a convergere
in direzione di Paula.
La detective e l’uomo erano nel
vicolo. Era difficile vedere cosa stesse
succedendo, ma si sentì un tonfo, poi un
grido di protesta di Paula. «Ehi,
cazzone, vacci piano» urlò.
«Chiudi quella fottuta fogna» grugnì
l’uomo.
«Squadra A, restare in attesa» disse
Carol. I quattro agenti fiancheggiavano
l’imbocco del vicolo. Dall’auricolare,
Carol sentì dei rumori che indicavano
movimento. Poi un grido di dolore. Poi
la voce di Paula. «È un distintivo
questo, stronzo.»
«Ma che ca...»
«Sì, sono uno sbirro.» Carol sentiva il
respiro affannato e accelerato di Paula.
«Adesso sbrigati a toglierti dai coglioni
prima che mi venga la voglia di
arrestarti per aggressione, testa di
cazzo.»
Carol rise di gusto. «Squadra A, a
riposo.»
L’uomo schizzò fuori dal vicolo
correndo in modo scomposto, per poco
non inciampò voltandosi a lanciare
un’occhiata alle sue spalle,
un’espressione di panico stampata sul
viso. Dietro di lui, Paula riemerse dal
vicolo, sistemandosi la gonna.
«È brava» disse Jan.
Carol asciugò la patina di sudore sul
labbro superiore. «È molto brava.
Speriamo che l’assassino la pensi allo
stesso modo.»
Tony stava portando il bicchiere alla
bocca, quando una mano si poggiò sulla
sua spalla. Trasalì, rovesciandosi la
lager sulla camicia. «Cazzo!» disse,
schiacciandosi contro lo schienale della
sedia mentre picchiettava inutilmente la
macchia che si allargava. Alzò lo
sguardo. «Da dove sei entrata?» chiese.
Carol fece un cenno col capo verso la
parte opposta del bar. «Dalla porta sul
retro.» Poggiò sul tavolo due Stella
Artois.
«Mi hai spaventato a morte» si
lamentò Tony, afferrando una delle
bottiglie e rabboccando il suo bicchiere
quasi vuoto.
«Spaventare a morte è il mio lavoro.
Sono uno sbirro.» Carol si sedette e
mandò giù un sorso della sua birra.
«Come avrai notato, per stasera
abbiamo finito. Mi sono fatta lasciare
dietro l’angolo.»
«Ho notato. Stavo finendo la birra e
poi sarei andato a prendere l’autobus
notturno.»
Carol sorrise. «La tua complessità non
smette mai di meravigliarmi. Cos’ha che
non va un taxi?»
«Sul bus notturno si trovano svitati di
tipo migliore. Mi confondo tra di loro
alla perfezione.»
Carol non poteva dargli torto. «Perché
sei qui, comunque? Credevo te ne fossi
lavato le mani dell’operazione.»
Il dottore scosse la testa. «Non ho mai
detto questo. Solo che non pensavo di
avere qualcosa di utile da offrire.» Le
lanciò un’occhiata scaltra. «Ma ora ce
l’ho.»
Carol inarcò le sopracciglia,
invitandolo silenziosamente a
continuare.
«Non funzionerà, Carol» disse Tony,
categorico.
Se fosse stato chiunque altro a dirlo,
Carol vi avrebbe letto un’offesa. Ma
conosceva bene il dottore. «Qual è il
problema? Non credi che le
dichiarazioni di Brandon lo spingeranno
ad agire?»
Tony fece una smorfia. «No, non è
quello. È l’esca il problema.»
«Credi che Paula non sembri una
prostituta? Trovo che Jan abbia fatto un
buon lavoro nel renderla credibile. O
credi che non assomigli abbastanza alla
tipologia preferita dall’assassino?»
Il dottore scosse la testa. «Sembra una
prostituta. E assomiglia al suo tipo di
vittima. Ma non è questo. Paula è
perfetta per lo scopo. Il problema è
come la usi. Carol, questo tizio conosce
Temple Fields. È il suo territorio. Come
ho detto prima, credo sia molto
probabile che lavori qui. Il che vuol dire
che conosce queste strade, conosce le
donne che ci lavorano. Quindi se stasera
ha notato Paula, sa che è carne fresca. E
lei cos’ha fatto?»
Carol rifletté per un momento. «Si è
comportata come una prostituta.»
Tony mise giù il bicchiere
rumorosamente. «No. Non lo ha fatto.
Carol, non è andata con un solo cliente
stasera. Ora, se il nostro uomo la stava
osservando, avrà potuto pensare due
cose. O che Paula è un’esca, e in questo
caso l’operazione è saltata, oppure che è
una novellina e fa ancora troppo la
schizzinosa. E in questo caso non
rischierà di abbordarla.»
Carol chiuse gli occhi per un momento.
Con tutto quello che aveva imparato da
Tony sul mettersi nei panni del nemico,
perché non ci aveva pensato? Perché era
stata troppo presa dalle sue stesse
reazioni. La sua priorità era stata
proteggere Paula, non assicurarsi che la
trappola fosse sufficientemente invitante.
«Quindi cosa faccio ora?» chiese,
stancamente.
«Torni qui con Paula domani sera e
continui l’operazione. Le mandi qualche
falso cliente. Un paio in macchina, un
paio a piedi. Fai sembrare che abbia
imparato a non fare troppo la difficile,
che si dia da fare invece di starsene
ferma come un pezzo di formaggio in una
trappola per topi.» Sorrise. «Questo è
quanto. Ora, mi dai un passaggio a casa
o vado a prendere il bus notturno?»
Una pioggia fine cadeva da un cielo
grigio topo, drenando ogni colore dal
paesaggio del Derbyshire. La loro breve
processione di auto aveva lasciato
Bradfield in maniera plateale, facendosi
largo tra la marea montante dell’ora di
punta mattutina e raggiungendo il
parcheggio nei pressi dei resti della
vecchia stazione ferroviaria di Millers
Dale appena dopo le nove. L’arenaria
marrone delle pareti sembrava trasudare
umidità. Carol si voltò verso Jonathan
France, pallido nel sedile posteriore
accanto a lei. «Stai bene?» chiese.
Avevano parlato poco durante il
tragitto. Carol era presa dai suoi piani
per la fase successiva dell’operazione
sotto copertura. Ma anche se non lo
fosse stata, la presenza di Sam Evans
alla guida di un’auto del dipartimento
priva di contrassegni avrebbe limitato
notevolmente la conversazione.
Dopotutto, neppure Jonathan si era
mostrato molto incline a parlare. Aveva
tenuto lo sguardo fisso davanti a sé per
la maggior parte del tempo, come se
ipnotizzato dal movimento dei
tergicristalli.
«Sono pronto, se è questo che intendi»
rispose il geologo, sollevando le spalle
mentre faceva un respiro profondo.
Prese l’impermeabile che aveva
sistemato sul sedile tra di loro, aprì lo
sportello e uscì.
Carol lo seguì. «Apprezzo che tu sia
qui» disse. «Non appena avrai
identificato il luogo, uno dei miei agenti
ti riporterà a Bradfield.»
Jonathan annuì. «Non so come riesci
ad avere a che fare con queste cose ogni
giorno» confessò. «Il solo pensiero mi
fa rabbrividire.»
«Tenendo fede ai morti. È così che
dice Tony.» Carol si guardò intorno. La
squadra si stava radunando, gli agenti
della scientifica erano avvolti nelle
abituali tute bianche progettate per
prevenire la contaminazione delle
prove. Kevin e Sam ne stavano
indossando un paio con scarsa agilità,
lamentandosi di quanto fossero
scomode. «Dovremmo indossarle anche
noi» disse Carol. Recuperò un paio di
tute dal furgone della scientifica e ne
approfittò per scambiare poche parole
con Kevin e Sam. «Non avrei dovuto
esserci» disse. «Ma il dottor France
stava per ripensarci. È la vostra
operazione, io sono qui solo per
osservare. Non rimarrò a lungo.»
Kevin le rivolse un sorriso teso.
«Grazie, capo.»
Quando tutti furono pronti, si
incamminarono lungo quello che una
volta era stato il percorso delle rotaie e
che ora era un sentiero pubblico con un
fondo di brecciame su cui si avanzava in
modo sgraziato. Doveva essere un
viaggio da mozzare il fiato quando le
locomotive a vapore correvano ancora
su questi binari, pensò Carol. Anche in
un deprimente mattino invernale come
quello, con poca luce e ancor meno
visibilità, la drammaticità del paesaggio
era palese. Rupi e pareti di rocce
calcaree striate incombevano su di loro,
macchie di vegetazione tenace
spuntavano qua e là dalle crepe.
Screziati di più sfumature di grigio di
quante Carol potesse contare, gli enormi
promontori si allungavano verso il cielo,
dando l’impressione di protendersi
come per arrivare a chiudersi sopra la
sua testa. Si sforzò di non pensare a
quanta paura dovevano aver suscitato in
Tim Golding.
Poco più in là, lasciarono il sentiero e
tagliarono giù per un pendio ripido in
direzione di un prato. Una manciata di
pecore fradicie ruminava mestamente
l’erba pallida, mentre altre se ne stavano
rannicchiate sotto i rami spogli di un
gruppo di alberi. Il terreno si faceva
impegnativo sotto i piedi, e Carol
cominciava ad accusare il peso aggiunto
del fango che rimaneva attaccato ai suoi
stivali. Furono quaranta minuti lunghi e
stancanti fino all’imbocco di Swindale.
Si radunarono intorno a quella che
sembrava una fenditura nella roccia
larga non più di un metro. Carol sudava
nella tuta protettiva, ma i suoi piedi
erano congelati. Neppure degli stivali di
ottima qualità riuscivano a tenere fuori
l’acqua quando si era costretti ad
attraversare un fiume in piena. Si voltò
verso Jonathan. «Gli agenti della
scientifica entreranno per primi per
delimitare un percorso. Useremo solo
quello per uscire ed entrare d’ora in
avanti. Se potessi seguirli e indirizzarli
verso il luogo che cerchiamo...»
Jonathan annuì. Aprì la cerniera della
tuta e prese la foto della formazione
rocciosa. L’aveva fatta plastificare, una
precauzione giudiziosa per ovviare al
clima sfavorevole. Carol gli rimase
vicino mentre il geologo seguiva gli
agenti della scientifica attraverso
l’entrata angusta della valle. Attonita,
Carol osservò le pareti rocciose
allargarsi sensibilmente solo qualche
metro più in là, fino a condurre a una
piccola valle larga circa quindici metri.
La vegetazione si diradava qua e là,
offrendo una sorta di sentiero.
Continuarono ad avanzare, mentre
Jonathan li guidava con poche parole.
«Qui a destra» disse alla fine. Carol
guardò il suo orologio. Otto minuti
dall’imbocco della valle. Affiancò
Jonathan e confrontò la foto nella sua
mano con le rocce che aveva davanti.
Anche a un occhio non allenato come il
suo sembrò che non ci fossero dubbi.
Ma Jonathan le elencò le caratteristiche
comuni, indicando gli elementi identici.
«Non posso immaginare che esistano
due porzioni di strutture a stromatactis
con questa identica configurazione»
concluse.
Carol chiese al fotografo di fare
qualche scatto, poi bloccò uno degli
agenti in uniforme che aveva richiesto
per la perlustrazione. «Bryant?
Accompagna il dottor France a
Bradfield, poi ritorna per prendere me.
Ci vediamo all’una al parcheggio vicino
alla stazione.» Si voltò verso Jonathan.
«Ti terrò informato» disse, posandogli
una mano sul braccio. «Non rimuginarci
troppo.»
Le sorrise mestamente. «Ci proverò.»
Carol si voltò e osservò Kevin
mettersi al lavoro. «Bene» disse al team
in attesa di istruzioni. «Formazione a
ventaglio da qui in avanti. Tre metri di
distanza tra ogni agente. Qualsiasi
traccia di terra smossa, pianta
sradicata... Sapete cosa cercare.
Muoviamoci.»
Carol rimase indietro, cercando riparo
a ridosso delle pareti rocciose a qualche
metro dal luogo della fotografia. Gli
agenti procedevano a rilento, ostacolati
dai rovi che si intrecciavano nel fitto
sottobosco. Nell’attesa, Carol prese il
cellulare e cominciò a fare chiamate per
modificare l’operazione prevista per la
sera. Aveva appena finito di parlare con
Paula quando uno degli agenti sulla
destra della formazione gridò: «Qui!»
Di colpo, tutti si bloccarono. Due
agenti della scientifica che erano rimasti
nelle retrovie si avviarono verso
l’uomo, svolgendo il nastro della scena
del crimine per creare un altro corridoio
d’accesso. Impiegarono qualche minuto
a raggiungerlo, poi un altro paio a
valutare ciò che lo aveva fatto fermare.
Alla fine, uno di loro si voltò verso
Carol e alzò il pollice in segno di
conferma.
L’ispettrice li raggiunse quasi in
contemporanea con Kevin. I due si
accovacciarono per osservare meglio
cosa gli veniva indicato. Sotto i rovi,
dei rami di felce morti erano stati
ammassati gli uni sugli altri nel vano
tentativo di camuffare l’inconfondibile
dosso di una fossa poco profonda. Da
una parte, la terra era stata smossa,
presumibilmente da una volpe o da un
tasso. A prima vista, poteva sembrare
che qualcuno avesse gettato sul terreno
una manciata di bastoncini grigiastri. Ma
Carol sapeva che non era così, sapeva
riconoscere un mucchio di falangi
sparso per terra.
Si alzò a testa bassa, mentre la pioggia
le rigava il viso. Sembrava che avessero
finalmente trovato Tim Golding. O Guy
Lefevre.
O entrambi.
Mezzanotte. Carol si stropicciò gli
occhi, li sentiva affaticati dopo aver
passato ore a fissare gli schermi del
sistema di sorveglianza. Sospirò.
Avevano fatto tutto quello che aveva
suggerito Tony. Ma l’indagine era in
stallo esattamente quanto lo era stata
prima che Brandon insistesse per
quell’operazione. Carol si chiedeva per
quanto tempo il commissario capo
avrebbe continuato ad approvare un
simile livello di spese e di impiego di
forze per un’operazione così
impegnativa. Con la scoperta fatta a
Swindale, avevano due casi di omicidio
per le mani. Se la stampa avesse
scoperto quanti agenti erano impegnati
negli omicidi delle prostitute, si sarebbe
scatenata una protesta: un appello
isterico affinché venissero concentrate
più forze sul pedofilo assassino, perché
era più importante proteggere dei
bambini che delle prostitute. A quel
punto, in realtà, era logico dedicare più
attenzione agli omicidi di Temple
Fields, perché era evidente che il killer
fosse ancora attivo, mentre il pedofilo
assassino sembrava non esserlo in quel
momento. Ma la logica era sempre la
prima vittima quando la stampa
affondava i denti su una buona
campagna. C’era bisogno di risultati
veloci, sia per il morale sia per
mostrarsi impegnati con ogni risorsa
possibile nella caccia all’assassino di
Tim Golding. Se non ci fossero riusciti,
sarebbe stata Carol a portare lo stigma
del fallimento agli occhi dei colleghi e
dei suoi subalterni. Non era l’inizio
ideale per una squadra cosiddetta
d’élite, sebbene Carol sospettasse che in
molti avrebbero goduto del suo
insuccesso.
Premette il pulsante per le
comunicazioni via radio e disse: «A tutte
le unità, ritirarsi. Tango Charlie due tre,
recuperate la detective McIntyre.
Briefing completo domani pomeriggio
alle quattro.» Un uomo uscì da un bar
alle spalle del furgone e vi salì,
mettendolo in moto per riportarlo in
centrale. Nessuno parlò. Erano tutti
troppo stanchi e scoraggiati. Quando
arrivarono alla stazione di polizia, gli
agenti scesero dal furgone lasciando
Carol e Merrick seduti scompostamente
sui loro sedili.
Merrick lanciò un’occhiata
all’ispettrice. «Non andiamo da nessuna
parte così, vero?»
Carol scrollò le spalle. «Almeno ha
smesso di piovere. Cos’altro possiamo
fare?»
«Dovremmo concentrarci
sull’assassino di Tim. Sappiamo
entrambi che ucciderà di nuovo se non
lo prendiamo. E non voglio il sangue di
un altro bambino sulla coscienza.»
«Anche l’uomo che ha ucciso Sandie
Foster e Jackie Mayall ucciderà di
nuovo, Don. E gli intervalli tra i suoi
omicidi sono molto più brevi. Queste
donne meritano la nostra protezione
tanto quanto i bambini. Non abbiamo il
diritto di creare una gerarchia di vittime
degne o meno degne della nostra
attenzione. A questo ci pensa la stampa.
Noi trattiamo tutti allo stesso modo e
utilizziamo le nostre risorse dove è più
probabile ottenere un risultato.»
Dall’espressione sul suo volto, Carol
capì che Merrick non era d’accordo.
«Non possiamo continuare all’infinito»
disse lui.
«E se Tony ha ragione, non dovremo
farlo. Quando il nostro uomo si abituerà
alla presenza di Paula, abboccherà
all’amo.» Carol appariva più fiduciosa
di quanto non si sentisse.
Merrick increspò le labbra. «E fino ad
allora continueremo a mettere Paula a
rischio?»
Carol afferrò il cappotto e si alzò.
«Sta a lei. Se vuole tirarsi indietro, deve
solo dirlo.»
«Ma non lo dirà mai, non è così?»
contestò Merrick. «È ambiziosa, vuole
fare un buon lavoro. Vuole fare una
buona impressione ai suoi occhi. Tirarsi
indietro lo considera un fallimento.»
«Sembri ben informato su come la
pensa Paula» disse Carol. «Ti ha forse
detto che non vuole continuare?»
Merrick sembrò imbarazzato. «Non in
modo così esplicito, no. Ma so che è
così.»
Carol sospirò. A volte non poteva fare
a meno di pensare che a Merrick fosse
stato concesso un grado di troppo. Era
stato eccezionale come sergente, ma
come ispettore non sembrava essere
all’altezza. «Don, probabilmente hai
ragione. Ma non abbiamo il diritto di
decidere per Paula. Le è stato chiesto di
fare una cosa – chiesto, non ordinato – e
finché non sarà lei a dire di essere al
limite, merita che il suo coraggio non
venga intaccato dai nostri dubbi. Quindi,
a meno che tu non creda che sia
diventata un pericolo per sé stessa o per
chiunque altro, continuerà a fare quello
che sta facendo.»
Gli occhi scuri di Merrick si
incupirono. «Se lo dice lei, signora.»
«Lo dico, Don. E ora vado a casa a
dormire. È stata una giornataccia e ho
una riunione con la squadra del caso
Golding domattina presto.» Non appena
quelle parole lasciarono le sue labbra,
Carol si maledisse.
«Le volevo giusto parlare a questo
proposito» disse Merrick. «Vorrei che
mi assegnasse a quell’indagine.»
Carol scosse la testa. «No, Don. Ho
bisogno di te su questo caso. Ci vuole un
ispettore che gestisca chi si occupa delle
dichiarazioni e che assegni le misure da
attuare. Qualcuno deve avere un quadro
generale del caso.»
«Allora trovi qualcun altro» disse,
impaziente. «Tim Golding era un mio
caso. E ho lavorato anche sulla
scomparsa di Guy Lefevre. Nessuno ha
speso più energie di me per trovare quei
bambini. Ho passato notti insonni, mi
sono spaccato il culo per trovarli.
Conosco i loro casi alla perfezione.
Conosco le famiglie. E loro conoscono
me. Chiunque altro partirebbe da zero. E
sarebbe un’indagine come un’altra.»
Carol prese in considerazione una
risposta diplomatica, ma la scartò. Era
troppo stanca per girarci intorno.
Oltretutto, la diplomazia sarebbe servita
a poco con Merrick. «Questa è una delle
ragioni per cui non ti assegnerò a quel
caso. Abbiamo un nuovo scenario ora e
voglio che se ne occupi qualcuno privo
di preconcetti.» Merrick spostò il busto
all’indietro, come se avesse ricevuto
uno schiaffo. Ma Carol continuò.
«L’altra ragione è che i casi Foster e
Mayall sono attivi e in corso. Trovare
qualcuno che ti sostituisca vorrebbe dire
dargli il compito impossibile di
rivedere tutto quello che è stato fatto
finora e nel frattempo stare al passo con
nuove dichiarazioni e provvedimenti.»
Alla fine, l’ispettrice cercò di addolcire
la risposta. «Don, so che hai preso la
scomparsa di quei bambini come una
questione personale. E non è una cosa
negativa. Vuol dire che hai fatto
l’impossibile per Tim e Guy. Ma ora è il
momento di farsi da parte. Anche Sandie
e Jackie avevano delle famiglie.
Meritano risposte tanto quanto i Golding
e i Lefevre. Ho bisogno di averti al mio
fianco per questo caso.»
Per un momento, sembrò che Merrick
volesse controbattere. Poi le sue spalle
crollarono e l’ispettore si alzò,
chinandosi per non urtare la testa contro
il tettuccio del furgone. «A domattina,
signora» disse, amaramente. Poi se ne
andò, lasciando Carol a rimuginare su un
altro episodio spiacevole in fatto di
gestione del personale.
«Che giornata di merda» disse tra sé e
sé, mentre scendeva dal furgone diretta
verso la sua auto. Aveva trovato la
tomba di un bambino, aveva guidato fino
a casa Golding per comunicare ai
genitori di Tim che i resti trovati
appartenevano quasi certamente al loro
figlio. Poi aveva dato la notizia a
Jonathan prima che lo venisse a sapere
dalla radio o dalla tv. Aveva trascorso
quattro ore rinchiusa in un furgone
immersa in un’atmosfera densa di
aspettative. E ora aveva fatto incazzare
il suo secondo. Aveva i nervi a pezzi.
Aveva bisogno di bere, e ne aveva
bisogno subito.
L’ultima cosa che si aspettava di
trovare parcheggiando davanti a casa
era Jonathan raggomitolato sulla sua
moto. Alzò lo sguardo verso le finestre
di Tony e fu lieta di constatare che le
luci erano spente. Trattenne un gemito e
uscì dall’auto. Mentre si avvicinava,
Jonathan scese dalla moto stiracchiando
gli arti e distendendo la spina dorsale.
Carol non poté fare a meno di ammirare
lo spettacolo. «Questa è una sorpresa»
disse.
«Scusa» rispose Jonathan. «Non
immaginavo che smontassi così tardi.
Ma dopo aver aspettato già un’ora...»
Scrollò le spalle e allargò le mani.
«Non posso dirti nient’altro, Jonathan.
Non abbiamo ancora un riscontro
positivo sui resti, per non parlare di una
causa della morte...»
«Non sono qui perché voglio saperne
di più» rispose lui. «Sono qui... be’, non
riuscivo a spegnere il cervello.
Ripensavo all’intera faccenda, e ho
immaginato come dovevi sentirti tu e
allora ho pensato che poteva essere
d’aiuto a entrambi se...» Notò
l’espressione sul volto di Carol e fece
per voltarsi. «Evidentemente mi
sbagliavo.»
«No, no» si affrettò a dire Carol.
«Sono solo sorpresa, tutto qui. Non sono
abituata a...» La sua voce si smorzò.
«Persone che ti vedono come un essere
umano?»
Carol sospirò. «Qualcosa del genere.
Visto che sei qui, ti va di entrare e bere
qualcosa?»
Jonathan sembrò esitare. «È tardi,
probabilmente vuoi andare a dormire.»
«Hai ragione su entrambe le cose, ma
appena entrata mi sarei comunque
versata un bel bicchiere di vino. Sei il
benvenuto se vuoi farmi compagnia.»
«Sicura?»
Carol scosse la testa, fingendo
esasperazione. «Possiamo smettere di
perdere tempo a parlare e impiegarlo
bevendo?»
Fino a quel momento, Carol aveva
creduto che il soffitto del suo
appartamento fosse relativamente alto,
ma Jonathan lo sfiorava solo di qualche
centimetro. Il geologo si sedette subito,
diede un’occhiata al soggiorno e sorrise.
«Non sei qui da molto, vero?»
Carol fece una smorfia. «Sembra così
disabitata?»
«Non è quello, è che non c’è
confusione. A me bastano tre giorni per
ridurre qualsiasi posto in un labirinto di
cianfrusaglie.»
«Non sono molto incline alla
confusione» disse Carol. «Ma quella di
cui sono capace è tutta nel mio
appartamento a Londra.» Parlò dando le
spalle a Jonathan, diretta verso il
frigorifero. «Vino bianco o birra?»
«Vino, per favore. Pensi di vendere la
casa di Londra?»
Carol tornò con una bottiglia e due
calici da vino. «Ancora non lo so. Ora
come ora, mi sembra un impegno troppo
grande.» Diede un bicchiere a Jonathan
e versò il vino. Si girò per inserire nel
lettore cd Alina di Arvo Pärt, poi si
sedette accanto a lui. C’era abbastanza
distanza tra di loro da non caricare
quella scelta di particolari significativi.
Le note tremolanti del piano e del
violino facilitarono la conversazione.
«Come fai a digerire questa roba?»
chiese Jonathan.
«Apro la bocca e ingoio» scherzò
Carol. «Non è tanto male, no?»
«Sai che non intendevo questo. Okay,
parleremo di qualcos’altro.»
«Scusa, sono talmente abituata alla
superficialità dell’umorismo da obitorio
che a volte mi riesce difficile
scrollarmelo di dosso. Hai aspettato per
ore al freddo, meriti una risposta. Il fatto
è che non ce l’ho. Alcuni poliziotti
alzano il gomito. Altri si concentrano
così tanto sul dare la caccia a chi ha
commesso il crimine che perdono
volutamente di vista la vittima. Alcuni
tornano a casa e abbracciano i figli.
Altri tornano a casa e picchiano le
mogli. E alcuni hanno un esaurimento
nervoso.»
«E tu? Tu cosa fai?»
Carol guardò nel suo bicchiere. «Io
cerco di trasformare la rabbia in energia
positiva. Cerco di nutrirmene, di
sfruttarla per arrivare fino al limite
dello sfinimento e oltre.»
«E funziona?»
Carol sentì le lacrime pizzicarle le
palpebre. «Non ne sono più sicura. Non
sono più sicura di molte cose ormai.
Cose che credevo insite in me. Ora mi
sembrano delle favole che mi
raccontavo solo per non avere paura del
buio.»
Jonathan allungò un braccio e lo mise
intorno alle spalle di Carol. Senza
esitare, lei si appoggiò al suo torace.
«Non è cambiato nulla, sai. Sei ancora
una brava persona. E una brava
poliziotta.»
«Come fai a saperlo?»
«Ti ho vista lì fuori oggi. Ho visto
come hai gestito la scena senza che
nessuno se ne accorgesse. E con tutto
quello che stava succedendo, hai
comunque trovato il tempo per essere
gentile con me. E ora sei qui, e sei
ancora gentile con me.»
Carol sospirò, un’esalazione che
sembrava provenire dai meandri più
profondi del suo essere. «Non hai mai
pensato che in realtà è solo verso di me
che voglio essere gentile? Jonathan, non
voglio restare da sola stanotte.»
Avvertì i muscoli dell’uomo
irrigidirsi. «Vuoi dire...»
Un altro sospiro profondo, intimo. «Sì,
è quello che voglio dire. Ma,
Jonathan...» Si scostò per guardarlo in
faccia. «Solo se sei assolutamente
sicuro di non essere innamorato di me.»
Poco dopo le cinque, Tony abbandonò
la lotta impari contro l’insonnia. Era
rimasto in uno stato di dormiveglia per
un po’, turbato dal pensiero di Tim
Golding. E Guy Lefevre, il bambino
quasi dimenticato in tutto quel fervore. Il
messaggio lasciatogli da Carol per
informarlo di quanto scoperto a
Swindale non era stato propriamente una
richiesta di aiuto, ma il dottore le aveva
comunque promesso che avrebbe fatto
un sopralluogo sulla scena del crimine.
Dopotutto, sentiva di essere ancora in
debito verso la polizia di Bradfield per
quel caso. Don Merrick lo aveva
coinvolto per stilare un profilo nei primi
stadi dell’indagine e Tony era fin troppo
consapevole di essere stato di scarso
aiuto. Non era stata colpa sua, tuttavia.
Aveva detto sin dall’inizio di aver
bisogno di più informazioni per potersi
rendere utile. Ora le aveva, e
un’escursione nel Derbyshire ne avrebbe
offerte ancora di più. Sarebbe stato in
grado di fornire un profilo più
dettagliato.
Giaceva a pancia in su, le braccia
incrociate dietro la testa. La stanza era
buia, ma non importava. Non aveva
bisogno di vedere per pensare.
Richiamò alla memoria ciò che credeva
di sapere sull’uomo che aveva rapito e
ucciso Tim Golding, e che
probabilmente aveva fatto lo stesso con
Guy Lefevre. Era un uomo. C’era un
dubbio infinitesimale al riguardo. Era
sempre una questione di probabilità. Ma
allo stesso tempo era necessario
mantenere una mente aperta, data la
natura peculiare degli omicidi a sfondo
sessuale; era una questione di appetiti
che si manifestavano con una frequenza
troppo bassa per poterne ricavare dati
statistici veri e propri.
Un uomo, quindi. Fra i trenta e i
quarant’anni all’incirca. Era una
tipologia di assassino che impiegava
tempo a maturare. Adolescenti e uomini
poco più che ventenni erano spesso
predatori sessuali, ma raramente
varcavano la linea di non ritorno. A
volte diventavano assassini per sbaglio,
quando si spingevano troppo in là nel
tentativo di domare le proprie vittime e
finivano per ucciderle. Se trovavano la
sensazione piacevole, la volta
successiva non sarebbe stato un
incidente e un nuovo serial killer
avrebbe affollato le strade. Ma nella
gran parte dei casi, quella prima volta
era voluta. Serviva tempo affinché le
fantasie di un uomo sviluppassero una
pulsione dominante che lo spingesse a
uccidere. Quindi, era sensato presumere
un’età iniziale maggiore rispetto a quella
considerata per lo stupro o l’aggressione
sessuale. Neanche l’età massima era
arbitraria; intorno ai quarantacinque
anni, la rabbia pressante della
giovinezza svaniva o veniva attenuata
dall’alcol. Chi non aveva ucciso fino ad
allora, probabilmente non lo avrebbe
mai fatto.
L’infanzia travagliata era anch’essa un
dato praticamente di fatto. Certo, era
possibile avere tutte le carte in regola
per abbracciare il lato oscuro senza mai
arrivare a farlo. Tony lo sapeva fin
troppo bene; chiunque avesse esaminato
il suo passato avrebbe trovato una serie
di indicatori che, per un altro uomo,
sarebbero stati i primi passi sulla strada
tortuosa della psicopatia. Per lui, erano
diventate le fondamenta della sua
empatia nei confronti di chi aveva
imboccato un sentiero diverso. Non
sapeva quale fosse stato il bivio
cruciale sulla sua strada, ma lui era
diventato un tipo di predatore differente.
Come un serial killer aveva un istinto
naturale per le vittime, così Tony aveva
una sorta di sesto senso nel rintracciare
la sua preda. Malgrado pubblicamente
insistesse sulla natura scientifica del suo
approccio, il dottore era ben
consapevole che i suoi contributi più
importanti venivano direttamente dal
pozzo dell’intuizione. Era esperto nel
nascondere questo aspetto del suo
lavoro; Carol era forse l’unica persona
che lo capiva e glielo perdonava.
Dunque cosa poteva affermare con
certezza riguardo al rapitore di Guy
Lefevre e Tim Golding? Sesso, età.
Forse era un tipo solitario,
probabilmente con capacità relazionali
superficiali, incapace di stabilire
connessioni personali significative. Era
a suo agio in campagna. Conosceva un
posto sufficientemente isolato da fungere
da luogo dell’omicidio, e conosceva la
zona abbastanza da sentirsi sicuro a
usare un parcheggio pubblico e a
trasportare il bambino per più di un
chilometro fino a destinazione. Sapeva
che ci sarebbero state poche persone in
giro a quell’ora del mattino. Era a suo
agio anche in città, dato che si credeva
avesse rapito Tim per strada e in pieno
giorno.
A quel punto, i pensieri di Tony
vacillarono. Le supposizioni non erano
fatti. Non c’erano testimoni. La polizia
faticava a credere che nessuno avesse
visto qualcosa, sebbene esistessero dei
precedenti in questo senso. Il famoso
rapitore di minori e assassino Robert
Black aveva rapito due delle sue vittime
per strada senza che nessuno se ne
accorgesse. Se invece non fosse andata
così?
Tony riconsiderò i dati certi. Guy si
era inoltrato nel bosco per cercare nidi
di uccelli. Da allora non l’aveva più
visto nessuno, ma la sua mappa dei nidi
era stata ritrovata nei pressi del canale.
Tim aveva detto ai suoi amici che
sarebbe andato verso la massicciata per
vedere i treni merci. Le donne alla
fermata dell’autobus credevano di aver
intravisto la sua maglietta da calcio
gialla tra gli alberi. Se l’assassino non
fosse stato in macchina, per strada? Se
fosse stato sulla massicciata o nel
bosco, ad aspettare, pronto ad
affascinare un bambino con una bella
storia per persuaderlo a seguirlo
volontariamente? Magari un nido
particolarmente raro o un pezzo di un
qualche macchinario usato sui treni?
Curiosamente, entrambi i luoghi del
rapimento erano vicini a mezzi di
trasporto che li collegavano alle vette
del Derbyshire, a meno di venti
chilometri da Swindale, sebbene non
fossero mezzi che l’assassino avrebbe
potuto sfruttare. Il canale conduceva a un
deposito ferroviario con un
collegamento diretto che scendeva verso
le valli. Quel particolare ramo della
linea ferroviaria portava a una cava ai
margini del Peak District.
Galvanizzato dall’intuizione, Tony
saltò giù dal letto, afferrò la sua
vestaglia e si affrettò a raggiungere lo
studio. Voleva appuntare i dettagli sullo
schermo, per concretizzare le sue idee e
sottoporle a Carol prima del briefing
mattutino che sapeva avrebbe tenuto.
Avrebbero potuto parlarne davanti a un
caffè prima che uscisse per andare al
lavoro.
Mentre aspettava che il computer si
avviasse, corse al piano di sotto a
preparare del caffè. Con la tazza in
mano, risalì le scale e raggiunse la
finestra per osservare il cielo, pensando
a come dare forma scritta alla sua
intuizione.
Ma non fu il cielo ad attirare il suo
sguardo come un magnete. Fu la moto di
Jonathan France, il solo elemento
discordante in un panorama di case,
lampioni e strade a cui si era già
abituato. La moto acquattata tra l’auto di
Carol e il monovolume dei vicini
imponeva la sua presenza con la stessa
malevolenza di un carro armato per le
strade di Baghdad. Tony sentì il fiato
venir meno, si sentì svuotare da dentro.
Poi l’emozione si risvegliò, cruda e
implacabile. Era più che gelosia. Era un
dolore lacerante che lo aggrediva con
artigli affilati. È colpa tua. Perché non
sei riuscito a darle quello di cui aveva
bisogno. Perché sei patetico. Perché
l’hai condotta nella fossa dei leoni ma
non sei riuscito a salvarla. Perché
l’amore vale qualcosa solo se le azioni
sono all’altezza delle parole.
Tony scagliò la tazza contro la porta,
macchiando di caffè la vernice
immacolata e i libri vicini. «Fanculo»
urlò. Poi crollò sulla sedia e tirò a sé la
tastiera.
Don Merrick era alla seconda sigaretta
mattutina, quando la porta della cucina
si aprì per lasciar entrare Paula. I
capelli della donna erano incollati in un
ammasso cuneiforme su un lato della
testa, gli occhi gonfi e assonnati, la
vestaglia blu scuro aveva una striscia di
dentifricio sul bavero. «Come cazzo
riesci a essere così in ordine di prima
mattina?» brontolò, diretta verso il
bollitore.
«Il trucco è radersi» disse. «Anche
quando ti senti una merda, se ti fai la
barba hai un aspetto migliore.»
«Devo provarci uno di questi giorni»
mormorò Paula.
«Problemi a dormire?» chiese
Merrick.
Paula tossì e versò dell’acqua bollente
sul caffè istantaneo. «Non ho problemi
una volta che mi addormento. È solo che
ci metto un po’ a farlo.» Tirò su col
naso, aggiunse del latte nel caffè e crollò
sulla sedia di fronte a Merrick. Fece per
prendere una delle sigarette
dell’ispettore, ma lui le spostò
abilmente al di fuori della sua portata.
«Attenta, Paula. Se cominci a
scroccare sigarette a quest’ora del
mattino, finirai per ricominciare a
fumare due pacchetti al giorno prima che
te ne accorga.» Agitò l’indice verso di
lei.
«Grrr» ringhiò, mostrando i denti.
«Non credevo di aver invitato mia
madre a stare da me.»
«Tua madre non avrebbe sigarette da
sgraffignare. Allora, che piani hai
oggi?»
Paula scrollò le spalle. «Non lo so.
Potrei andare al centro benessere, fare
una nuotata, farmi fare un massaggio
magari. Ho bisogno di fare qualcosa che
mi faccia sentire bene nel mio corpo
dopo due notti passate a metterlo in
mostra.»
«Non devi farlo, sai?»
Paula lo guardò di sbieco. «Che
intendi?»
«Intendo che potresti dire di averne
avuto abbastanza. Che la cosa comincia
a pesarti.»
Paula sbuffò. «Sì, come no. Che
grande mossa sarebbe per la mia
carriera.»
L’espressione di Merrick era un misto
di apprensione e compassione. «Jordan
capirebbe. Lei sa cosa vuol dire, c’era
lei al tuo posto quando tutto è andato a
rotoli. Non te ne farà una colpa.»
«Anche ammesso che tu abbia ragione
– e non ne sono convinta – sarebbe
improponibile anche se Jordan fosse
l’unico agente senior del mondo. Se mi
tiro indietro, sarò per sempre quella che
non ha retto alla pressione.»
«Meglio così che finire incasinata
come Jordan.» Merrick fissò il tavolo.
«Non me lo perdonerei mai se ti
succedesse qualcosa in
quest’operazione, Paula.»
Paula raddrizzò le spalle. «Fattela
passare, Don. Non riguarda te, riguarda
me. Sto tenendo duro. Ce la posso fare.»
Spinse la sedia all’indietro, le quattro
gambe stridettero sul pavimento
piastrellato. «Devi smetterla di provare
a fare l’eroe della situazione. Non puoi
salvare il mondo, Don. Concentrati sul
salvare te stesso.» Guardò l’orologio
alzandosi. «Non è ora di darti una
mossa? Non c’è il briefing su Tim
Golding alle nove?»
Merrick grugnì. «Non sono stato
invitato. Jordan vuole che resti sul caso
delle prostitute. Vuole occhi nuovi su
quello di Tim Golding.»
Paula era dispiaciuta per lui. Sapeva
quanto avesse dato per trovare il
bambino. «Mi dispiace, Don. Ma forse è
meglio così. Quel caso ti ha davvero
distrutto.»
Merrick alzò la testa, aveva uno
sguardo ferito. «Quindi anche tu pensi
che abbia fallito?»
«Certo che no. Se riusciranno a
risolverlo, sarà grazie alle basi che hai
gettato tu. Forse Jordan ha ragione, forse
ha torto. Ma io sono tua amica, e sono
felice che tu non debba tornare su quel
caso.» Si chinò per abbracciarlo e il suo
seno oscillò contro il petto di Merrick.
Paula si tirò indietro immediatamente,
imbarazzata dall’improvviso interesse
sul volto dell’ispettore. «Ci vediamo al
briefing di oggi pomeriggio, allora.»
Merrick la guardò allontanarsi,
cosciente di come il fondoschiena di
Paula oscillasse sotto la vestaglia. Si
era sforzato di mantenere il controllo,
aveva vietato a sé stesso di apprezzare
il corpo della collega, la sua sensualità
latente. Ma ora, finalmente, iniziava a
chiedersi se avesse qualche possibilità
con lei, se l’offerta di un letto e un tetto
sulla testa fosse davvero un gesto di
gentilezza e amicizia disinteressata o
qualcosa di più. Era un pensiero
incoraggiante da portare con sé
nell’austerità della sala operativa.
Carol entrò in centrale con fare sicuro,
consapevole che il suo umore non era
appropriato alla giornata che la
aspettava. Per il momento, non le
interessava. Aveva smosso mari e monti
quella notte, riassestato il proprio
mondo sul suo asse e aveva tutte le
intenzioni di assaporare quella
sensazione il più a lungo possibile. Di
certo, Jonathan non era stato l’amante
migliore che avesse mai avuto; era stato
troppo cauto, troppo premuroso, troppo
dannatamente ansioso nel fare le sue
mosse. L’istinto cinico da poliziotto le
suggerì una spiegazione: forse Jonathan
aveva rubato le proprie reazioni da
manuale dal libro che le aveva regalato.
Anche se fosse stato così, non importava
molto. Ciò che importava era che Carol
aveva superato la linea invisibile e
intangibile che l’aveva separata da una
parte fondamentale di sé stessa. Non
aveva esorcizzato lo stupro. Ma lo
aveva superato. Il suo corpo le
apparteneva di nuovo.
Jonathan se n’era andato poco dopo le
sei, e a Carol non era dispiaciuto
vederlo andar via. Il geologo aveva
tentato di proporle un altro
appuntamento, ma lei aveva abilmente
eluso la richiesta nascondendosi dietro
la scusa del lavoro per evitare un
incontro che non desiderava. Jonathan le
piaceva, ma Carol non voleva ritrovarsi
in una sorta di relazione senza neppure
accorgersene. Non era con Jonathan che
voleva stare, ma aveva sempre saputo
che non sarebbe stato Tony a riportarla
al sesso. Quello era un percorso che
doveva affrontare da sola. Averlo fatto,
apriva per loro possibilità rimaste
insondabili sin da Berlino.
Salì le scale due gradini alla volta ed
entrò nell’ufficio comune della sua
squadra emanando fiducia e buon umore.
Stacey alzò distrattamente lo sguardo
verso di lei, lo abbassò e poi lo alzò
nuovamente per una seconda occhiata.
Fu un gesto talmente palese da risultare
quasi comico. «Buongiorno, Stacey»
disse Carol allegramente.
«Buongiorno, capo» rispose Stacey
automaticamente.
«Ho un buon presentimento oggi»
disse Carol. «Sai quando a volte senti
che sta per cambiare qualcosa, che si
smuoverà qualcosa di importante?»
Stacey annuì. «Be’, oggi mi sento così.»
«Il dottor Hill ha inviato un file per
lei» disse Stacey, non sapendo come
rispondere a quello che sembrava un
ottimismo infondato. Con i computer era
a suo agio, ma le persone la
disorientavano, era costantemente alla
ricerca di un modo per affrontarle con la
stessa padronanza con cui affrontava il
mondo virtuale.
L’umore di Carol fu smorzato di colpo.
«Di che si tratta?» chiese.
«Ha stilato un profilo per il caso di
Tim Golding. L’ho stampato. È sulla sua
scrivania.»
«Grazie.» Carol si stava già muovendo
verso il suo ufficio personale.
Togliendosi il cappotto, afferrò il foglio
di carta e cominciò a leggere.
Riconobbe immediatamente l’abituale
dichiarazione di non responsabilità
d’apertura:
Re: Tim Golding
Il seguente profilo criminale è da intendersi
unicamente come guida e non è da considerarsi
come identikit. È probabile che il soggetto
criminale non corrisponda al profilo in ogni suo
dettaglio, sebbene sia ragionevole aspettarsi un
elevato grado di congruenza tra le caratteristiche
sotto riportate e la realtà. Tutte le affermazioni
fatte nel presente profilo esprimono probabilità e
possibilità, non fatti comprovati.
L’esecutore di un omicidio a sfondo sessuale
fornisce segnali e indicatori nel commettere i suoi
crimini. Ogni sua azione è intesa, consciamente o
meno, come parte di uno schema. Scoprire lo
schema sottostante alle sue azioni rivela la logica
dell’assassino. Potrebbe risultare irrazionale ai
nostri occhi, ma per il soggetto criminale è
cruciale. Dal momento che la sua logica risulta
peculiare, trappole dirette non serviranno a
catturarlo. Considerata la sua unicità, altrettanto
unici dovranno essere i mezzi adottati per
arrestarlo, interrogarlo e ricostruire le sue azioni.
Il presente documento è un supplemento al profilo
preliminare stilato in precedenza su richiesta
dell’ispettore Don Merrick. Come affermato in
quella sede, il soggetto criminale è plausibilmente
un uomo, tra i 27 e i 42 anni di età. È probabile
che viva da solo. Ha capacità relazionali
superficiali, ma probabilmente è incapace di
stabilire amicizie intime con entrambi i sessi. In
questo caso, considerata l’età della vittima, è da
ritenersi improbabile che il soggetto abbia mai
avuto una relazione sessuale funzionale con un
altro adulto. Mostrerà segni di comportamenti
ossessivi e potrebbe nutrire interesse verso il
genere di hobby che implica la compilazione
ossessiva di liste, come il birdwatching, la filatelia,
o l’osservazione dei treni. Probabilmente è un
soggetto intelligente e funzionale, quel che basta a
mantenere un lavoro che però non includa il lavoro
di squadra. Preferirà un ruolo che gli conceda
almeno l’illusione di essere autonomo e tenderà a
trascorrere gran parte della giornata lavorativa in
solitudine.
Credo che il medesimo soggetto criminale sia
responsabile del rapimento e del probabile
omicidio di Guy Lefevre. Tuttavia, considerato che
al momento è stato ritrovato unicamente il corpo
di Tim Golding, per ora ci si limiterà a considerare
le specifiche del suo caso.
È evidente che l’assassino avesse molta
familiarità con la scena del crimine. Sapeva che il
parcheggio sarebbe stato deserto all’ora del giorno
in cui l’avrebbe usato. Sapeva che avrebbe potuto
trasportare Tim Golding fino a Swindale senza
interferenze. Sapeva che avrebbe potuto sfruttare
Swindale per i suoi scopi senza interferenze. Di
conseguenza, deve avere un elevato grado di
familiarità con l’area. Portando Tim Golding in
quel luogo preciso, l’assassino ci comunica che
quello è il suo territorio, un posto che ritiene
speciale. Per quanto riguarda i sospettati, una
perquisizione del loro computer/luogo di
lavoro/casa rivelerà quasi sicuramente la presenza
di fotografie o anche dipinti della valle. Si
suggerisce di avviare una ricerca tra le università
per verificare se ci siano state escursioni
organizzate che includessero Swindale. Sarebbe
utile provare anche con associazioni geologiche
amatoriali locali, scuole di arrampicata,
appassionati di vecchie stazioni ferroviarie, e
naturalmente con i ranger del Peak National Park
che, oltre ad avere familiarità con la zona, saranno
a conoscenza di altri gruppi che frequentano Chee
Dale e Swindale. Si raccomanda, inoltre, una
ricerca approfondita della letteratura, di guide, di
pubblicazioni di vario genere. Se questa ricerca si
rivelasse infruttuosa, non farebbe altro che
rafforzare i dubbi nei confronti di un eventuale
sospettato che abbia una comprovabile familiarità
con la zona.
È probabile che l’assassino avesse già tentato di
attirare altre vittime a Swindale. Si suggerisce di
verificare con la polizia locale eventuali precedenti
di approcci sospetti nei confronti dei minori nella
zona interessata. È possibile che l’assassino abbia
sfruttato la curiosità naturale dei bambini riguardo
a ciò che li circonda per attirarli a sé (vedere
sotto).
Nuovi spunti sono emersi dalla riconsiderazione
delle modalità di rapimento di Tim Golding. Data la
mancanza di testimoni a supporto della teoria
secondo cui il minore è stato prelevato dalla
strada, e considerata l’ormai comprovata
familiarità del soggetto criminale con un ambiente
rurale, suggerirei che l’assassino abbia avuto il
primo contatto con la vittima DOPO che questa
ha abbandonato la strada per dirigersi verso la
massicciata dei binari ferroviari. Data la sua
familiarità con la natura, il soggetto criminale può
aver approcciato il minore dicendo di avere
qualcosa da mostrargli: la tana di una volpe, quella
di un tasso, il nido di un uccello. (Quest’ultima
eventualità è ancora più probabile nel caso di Guy
Lefevre, che era in cerca di nidi di uccelli al
momento della scomparsa.) In alternativa,
sfruttando l’interesse del minore per i treni, è
plausibile che il soggetto si sia finto un
appassionato di treni o un dipendente ferroviario
che prometteva di mostrargli qualcosa di speciale.
Ci sono diversi punti vicini al luogo della sparizione
in cui sarebbe stato agevole per il soggetto
criminale trasportare il minore dalla massicciata a
un veicolo privato senza essere visto. A supporto
di quest’affermazione, vi è il fatto che la linea
ferroviaria in questione lascia Bradfield per
dirigersi verso il Peak District. La stazione
terminale è a meno di venti chilometri in linea
d’aria da Swindale. La linea ferroviaria collega
quello che sappiamo essere il territorio del
soggetto criminale alla zona in cui viveva Tim
Golding. È una connessione che non dovrebbe
essere ignorata. È dunque da considerare la
possibilità che il soggetto criminale sia un
ferroviere o un appassionato di treni, specialmente
perché parte del sentiero che ha percorso con Tim
Golding è un vecchio binario in disuso.
È probabile che il soggetto viva nei pressi del
luogo in cui ha seppellito i cadaveri, piuttosto che
nei pressi del punto in cui ha prelevato Tim
Golding. È più a suo agio in campagna che in un
ambiente urbano.
Il soggetto criminale avrà inoltre accesso privato a
un computer. Considerato che la foto di Tim
Golding è stata ritrovata sul computer di un
pedofilo già noto alle autorità, sarebbe utile
collaborare con gli agenti che si occupano di
pedopornografia in internet. È possibile che
abbiano casi in corso contro altri individui che
hanno visto la foto di Tim Golding. Tali individui
potrebbero essere inclini a rivelare le loro fonti in
cambio di un accordo di qualche tipo. Potrebbe
anche darsi che nell’ingente quantità di
informazioni raccolte nell’Operazione Minerale
Grezzo su cui però ancora non si sono presi
provvedimenti si celi il nome del soggetto
criminale in questione. Potrebbe rivelarsi utile
confrontare qualsiasi nome d’interesse nel caso di
Tim Golding con quelli nel database
dell’Operazione Minerale Grezzo.
Infine, ritornando alla sparizione di Guy Lefevre, è
altamente probabile, come accennato in
precedenza, che chiunque sia responsabile del
rapimento di Tim Golding lo sia anche della
sparizione di Guy Lefevre. In tal caso, con tutta
probabilità il corpo del minore verrà anch’esso
ritrovato a Swindale. L’assassino è a suo agio con
il luogo scelto per il seppellimento ed è fiducioso
della sua capacità di condurvi le proprie vittime. È
probabile che lo avesse già testato con Guy.
Quando si sarà finito di recuperare i resti di Tim
Golding, sarebbe opportuno controllare il terreno
immediatamente al di sotto. Se ciò non producesse
risultati, sarebbe opportuno allargare le ricerche al
resto della valle.

Carol rilesse il profilo. «Grazie,


Tony» disse, tra sé e sé. Come sempre,
la sua concisione e il suo intuito
avrebbero fatto progredire ulteriormente
l’indagine. Carol avrebbe potuto
affrontare il briefing di quella mattina
con una serie di suggerimenti
propositivi. Fornire alla squadra una
linea investigativa ben definita avrebbe
spronato tutti a dare il meglio di sé
stessi.
L’unico tarlo che la assillava era
perché il dottore le avesse inviato il
profilo per email invece di
consegnarglielo di persona e discuterne
insieme. Testare le ipotesi di Tony in una
discussione aperta era risultato sempre
produttivo, per entrambi. Inoltre, non si
faceva menzione di un sopralluogo sulla
scena del crimine. La cosa intaccò il
buon umore di Carol e la rese inquieta.
L’ispettrice mise da parte quel
pensiero e prese il telefono. «Stacey,
puoi cercarmi il responsabile della
scientifica con cui stiamo collaborando
nel Derbyshire? Voglio che tornino a
Swindale per cercare un altro
cadavere.»
Evans sembrava soddisfatto di sé
stesso. «È un inizio, almeno» disse.
Erano seduti in una sala da tè a
Tideswell. Davanti a loro, una manciata
di tea cake calde e imburrate affiancava
un paio di fette di meringata al limone.
Kevin era stato il primo ad arrivare,
dopo aver supervisionato gli ulteriori
scavi nella fossa in cui era stato
ritrovato Tim Golding. Circa quaranta
centimetri sotto il primo scheletro, erano
stati scoperti altri resti umani. Carol
Jordan ci ha visto giusto, aveva pensato
Kevin, compiaciuto del fatto che il suo
capo avesse recuperato del tutto.
Al momento, era in atto una
perlustrazione approfondita di
Swindale. Due dozzine di poliziotti
avvolti in tute bianche protettive
avanzavano a gattoni tra la vegetazione
per setacciarne ogni centimetro. Dopo
aver trascorso due ore in piedi sotto la
pioggia sapendo di essere l’oggetto
dell’odio degli agenti locali presi in
prestito per la ricerca, Kevin sentiva di
meritare una ricompensa. Evans, invece,
sembrava non badare ai dolci sul tavolo.
«Aggiornami» disse Kevin.
«Okay. Ho rintracciato uno dei tre
ranger assegnati a questa zona. Un certo
Nick Sanders. Mi ha detto che c’è un
rapporto risalente a quest’estate in cui si
parla di un esibizionista avvistato da
alcuni escursionisti ai margini di Chee
Dale, nei pressi dell’imbocco di
Swindale. Hanno beccato il pervertito
mentre mostrava i genitali a un gruppo di
bambini e lo hanno inseguito, ma sono
stati seminati. Stando a quanto dicono, il
tizio è come scomparso nel nulla. Cosa
che naturalmente ha senso considerata la
via di accesso a Swindale. Più tardi,
quel pomeriggio, Sanders ha incontrato
gli escursionisti durante un giro
d’ispezione di routine, e i ragazzi hanno
fornito una descrizione del pervertito.»
Evans aprì il suo taccuino e lesse ad alta
voce. «Intorno ai trent’anni. Un metro e
settanta o ottanta, corporatura esile,
capelli scuri, calvo in cima alla testa.
Indossava una maglietta dei Leeds
Rhinos, jeans e scarpe da ginnastica.»
«È un inizio, suppongo» disse Kevin,
allungandosi a prendere una tea cake.
«Ma non riusciremo a trovarlo
basandoci su quella descrizione.»
«Potremmo renderla pubblica, però.
Qualcuno potrebbe riconoscerlo.»
Kevin era scettico. «Sanders ha fatto
rapporto alla polizia locale?»
Evans arricciò le labbra in
un’espressione di disprezzo. «No. Dice
che se n’è dimenticato.»
«Grandioso. Dannati bifolchi.»
«Ma lo ha inserito nel suo registro
giornaliero. Me ne invierà una copia una
volta tornato alla base. E mi invierà
anche delle foto scattate dai ranger a
Swindale e Chee Dale lo scorso luglio.»
«Perché facevano delle foto laggiù?»
«Non solo in quel punto specifico, in
realtà. Hanno messo insieme una
documentazione fotografica di tutta
quella parte della Wye Valley. Sanders e
gli altri due ranger assegnati a questa
zona volevano proporre una serie di
miglioramenti da apportare ai sentieri, e
a sostegno della proposta volevano
fornire prove fotografiche dell’efficacia
degli accorgimenti fatti in passato. Oltre
a indicare dove c’era ancora da
lavorare. Mi ha detto anche che nel mese
di maggio c’era una squadra di volontari
per la preservazione di fauna e flora
selvatica impegnata in quella parte della
valle. Non ha saputo darmi i nomi, ma
dice che il quartier generale del parco
nazionale dovrebbe essere in grado di
fornirceli.»
«Tipo utile, questo Nick Sanders»
disse Kevin. «Magari fossero tutte come
lui le teste di rapa che ci ha mandato la
contea del Derbyshire.»
«Sembrava sinceramente turbato per
quanto successo a Tim e Guy» disse
Evans. «Quasi quanto all’idea che
qualcuno gli incasinasse il suo prezioso
parco.»
«Bel lavoro, Sam. Allora, hai
organizzato un incontro con gli altri due
ranger?»
Evans guardò l’orologio. «Certo. Ne
incontro uno tra mezz’ora. In un posto
chiamato Wormhill, che letteralmente
vuol dire ‘collina del verme’, sembra
invitante. L’altro ha la giornata libera
oggi. Ci parlerò domattina presto.»
«Meglio darci dentro, allora. Non puoi
lavorare a stomaco vuoto.»
Evans prese una tea cake. «Sarebbe
bello prendere questo tizio.
Bilancerebbe il fatto che ci stiamo
perdendo il meglio dell’azione a Temple
Fields.»
Kevin sbuffò. «Quale azione? Si sta
rivelando la più grande perdita di tempo
e denaro dopo l’indagine sullo
squartatore dello Yorkshire. Una tomba
per la carriera, ecco cosa sarà
quell’operazione, fidati. Una tomba per
la carriera.»
«Mi sto ghiacciando il culo qua fuori.»
La voce di Paula gracchiò nelle orecchie
di Carol. Le dispiaceva per la giovane
detective. Era difficile immaginare una
notte peggiore per starsene in strada.
Una nebbia gelida aleggiava sul canale,
diffondendo riccioli di foschia pungente
per le strade di Temple Fields. Umidità
quasi troppo fine per essere chiamata
pioggia impregnava i vestiti, incollando
i capelli di Paula alla sua testa. C’erano
pochi pedoni per la strada, e quelli che
c’erano camminavano a passo svelto,
testa bassa, ombrello sopra la testa. In
tutta coscienza, Carol sapeva di non
poter lasciare Paula lì fuori per ore. Si
ripromise di dichiarare la serata
conclusa alle dieci.
«Meglio lei che io» mormorò Jan.
«Lei sta meglio di te in minigonna»
commentò Merrick.
«E anni luce meglio di come staresti
tu, Don» precisò Carol. All’improvviso
ridacchiò. «Ehi, ti ricordi quella volta
che dovevate sorvegliare quel club per
gay durante il caso Thorpe? Eri così
adorabile tutto vestito in pelle, Don.»
«Okay, okay. Ricevuto il messaggio»
mormorò.
«Ehi, sembra che abbiamo compagnia»
disse Jan a un tratto.
L’uomo passeggiava per la strada con
il cappuccio del giaccone a vento tirato
su a coprire il volto. Non c’era niente di
sospetto in questo senso in una notte
come quella. Ma mentre camminava
verso Paula, rallentò. Le si avvicinò da
un lato muovendosi silenziosamente, al
punto che la detective non lo sentì
arrivare. L’uomo allungò una mano
guantata e le posò un dito sul braccio.
«Gesù santo, vuoi farmi venire un
infarto?» La voce di Paula era forte e
chiara. Si voltò a guardarlo.
«Stai lavorando?» Le parole
dell’uomo si sentirono appena. Erano
attutite, come se stesse parlando
attraverso una sciarpa.
«Tu che dici?»
«Voglio qualcosa di un po’ inusuale. Ci
stai?»
«Dipende da cos’hai in mente.»
«Posso pagare. In anticipo.» Tirò la
mano fuori dalla tasca. Dal video delle
telecamere era impossibile capire cosa
reggesse.
«Con quelli ti puoi permettere un bel
po’ di cose. Ma ancora non mi hai detto
cosa vuoi. Devi usare il preservativo.
Lo sai, no?»
«Non è un problema. Ascolta, ho un
posto dove possiamo andare. Fatti
legare e ti pagherò duecento. In
anticipo.»
Carol sentì la bocca seccarsi. Premette
il pulsante sul suo microfono e con voce
rauca disse: «A tutte le unità, restare in
attesa. L’aquila è sul nido. Ripeto, a tutte
le unità, restare in attesa.»
Paula stava ancora parlando.
«Duecento? In anticipo? Ora?»
Anche attraverso lo schermo, il
movimento fu inconfondibile. L’uomo
sfogliò le banconote e le offrì a Paula.
Carol aveva il naso praticamente
attaccato allo schermo, ma non riusciva
comunque a distinguere alcun dettaglio
dell’uomo. «Merda. Non si vede la
faccia.»
«Sembra sia il tizio che cerchiamo»
disse Jan, concitatamente.
«A tutte le unità, portarsi in posizione
e prepararsi a intervenire. Portarsi in
posizione e prepararsi a intervenire.
Bloccare l’area. Ripeto, bloccare
l’area.» Il battito di Carol accelerò, il
sangue pulsava fragoroso nei suoi
timpani.
Sullo schermo, Paula stava girando
l’angolo con la mano dell’uomo che le
teneva il gomito. Avrebbe funzionato.
Grazie a dio, avrebbe funzionato.
L’adrenalina stringeva Paula nella sua
morsa elettrica. La detective aveva il
fiato corto, il cuore le batteva come un
tamburo. Quando svoltarono l’angolo, si
sentì spinta al lato, in un vicolo angusto
tra due palazzi. «Dove stiamo
andando?» domandò.
In tutta risposta, l’uomo la tirò a sé e
le afferrò bruscamente il seno con una
mano, mentre l’altra saettò dietro la
schiena della detective. Paula era così
presa dal dolore al capezzolo appena
pizzicato che non si accorse delle
forbici da elettricista che tagliarono di
netto il cavo che collegava il microfono
al trasmettitore.
Spinse via l’uomo, dicendo: «Ehi!
Credevo avessi un posto dove andare.»
Lui la fece voltare tenendola per un
braccio. «È proprio qui.» Si chinò per
aprire un portone, era talmente sporco
da risultare quasi invisibile tra i
mattoncini anneriti. La fece entrare, poi
si sbrigò a chiuderlo a chiave. Guidò
Paula verso una porta sul retro di un
edificio.
Nervosa, ma erroneamente convinta di
stare ancora trasmettendo alla squadra,
la detective disse in tono sarcastico:
«Mmm, un vialetto sul retro favoloso.
Chi avrebbe mai pensato che un portone
anonimo nel mezzo di un muro
nascondesse un posto così delizioso? È
in questo palazzo che andiamo quindi? È
questo il posto che dicevi?»
«Sì» disse l’uomo. «Dài, muoviti. Non
abbiamo tutta la notte.»
Carol era in piedi. «Non sento più
Paula. Non si sente niente.» Si voltò
verso i due tecnici nel furgone. «Il
problema è nostro o suo?»
Trenta secondi di suspense
insopportabile. Respiri trattenuti.
Preghiere offerte. Dita incrociate. Poi
uno dei tecnici scosse la testa. «Non
siamo noi. È lei che non trasmette più.»
All’improvviso si scatenò il caos.
Carol urlò: «Intervenire. Ripeto,
intervenire. L’aquila è atterrata. A tutte
le unità, inseguire, inseguire.»
«Cazzo, merda, cazzo, merda»
ripeteva Merrick come un mantra,
mentre con uno strattone violento
spalancava la portiera laterale del
furgone. Balzò giù mentre Carol si
strappava le cuffie e si affrettava a
seguirlo, con Jan al seguito. Stacey
rimase a fissarli a bocca aperta, non
sapendo se restare a difendere il forte o
seguirli. Decise di chiudere la portiera
del furgone e recuperare
l’equipaggiamento abbandonato da
Carol. Qualcuno doveva controllare la
situazione, e a lei non dispiaceva farlo.
Colei che controlla la tecnologia
controlla il mondo, si disse. Era
un’opzione molto più interessante
rispetto a correre in giro per le strade.
Rimanendo lì, non sarebbe accaduto
nulla senza che lei lo venisse a sapere.
I piedi di Carol pestavano l’asfalto,
visioni da incubo le invadevano la
mente. «No, no, no» ansimò, a corto di
fiato mentre copriva i quasi venti metri
che la separavano dall’angolo dove
aveva visto Paula per l’ultima volta.
Svoltandolo, andò a sbattere contro la
schiena di un altro agente, inciampando
insieme a lui. Barcollò, poi ritrovò
l’equilibrio. Proseguì e trovò altri agenti
che si aggiravano nel vicolo angusto in
cui Paula era scomparsa. Si fece strada
a suon di spallate, seguendo il vicolo
fino alla fine. Conduceva a un’altra
strada che si intersecava con stradine,
viuzze ed entrate sul retro. Era un
labirinto.
«A ventaglio» urlò Carol. «Setacciate
l’area. Non possono essere lontani.
Cazzo!»
«Questo posto è come la tana di un
coniglio, potrebbero essere ovunque»
disse Merrick, tirato in viso, la sua voce
spezzata.
«Allora non startene qui a parlare e
cercali. E qualcuno apra quest’affare»
aggiunse, sbattendo un pugno contro un
portone che si apriva in un muro.
«Scoprite dove porta e passate al
setaccio ogni centimetro.» Carol si
passò una mano tra i capelli. Un dolore
acuto cominciava a diffondersi dalla
base del cranio. Come poteva essere
successo?
Merrick parlava alla radio, una nota
d’urgenza nella sua voce. «A tutte le
unità. Iniziare la perlustrazione
dell’area. Agente scomparso. Ripeto,
agente scomparso.» Lanciò un’occhiata
a Carol. «Vuole che iniziamo col porta a
porta?»
Carol annuì. «Jan, occupatene tu. E
comincia con qualsiasi cosa ci sia dietro
questo portone.» Carol si voltò, la
rabbia sembrava soffocarla. Mentre gli
agenti si sparpagliavano, si chiese cosa
avrebbe potuto fare in modo diverso. La
cosa peggiore era che non riusciva a
darsi una risposta.
Questa è da custodire con cura. Lui
non sa perché, sa solo che è così che
dev’essere. La Voce prende le decisioni,
la Voce sa cosa fare, la Voce non lo
delude mai.
Assomiglia a tutte le altre. Sembra
una puttana, però è una poliziotta.
Saperlo lo spaventa, ma lui riesce
comunque a fare ciò che deve. Non
riesce a credere a quanto sia stato
facile catturarla. Proprio come aveva
detto la Voce. La Voce aveva detto che
sarebbe andata con lui, docile come un
agnello, senza dare problemi, ed è stato
così.
La coglie dalla strada come un fiore
dal terreno, con estrema facilità. È
stato più facile rispetto alle altre volte,
in un certo senso, perché questa non la
conosce. Non è difficile vederla come
un lurido pezzo di carne, perché lei non
ha mai fatto niente a dimostrazione del
contrario. La porta nel vicolo, poi
taglia il cavo proprio come si era
allenato a fare per tutto il pomeriggio.
Zac, ed è fatta. Lei non se ne accorge.
Nel vialetto, attraverso la porta, su
per le scale. Lei non esita neppure un
secondo, continua a blaterare, convinta
che ci sia qualcuno ad ascoltarla
mentre dà indicazioni su come
raggiungere la stanza preparata
apposta per lei. Non esita neanche
davanti alla porta a doppio battente
simile a una credenza, di fronte alla
porta d’ingresso che affaccia sul
pianerottolo. La commenta però,
credendo di passare il messaggio ai
suoi. Quando lui le dice di sdraiarsi sul
letto e aprire le gambe e le braccia, lei
lo fa. L’agitazione che prova è
palpabile, ma lei non ha paura, non
davvero, non abbastanza. Lui le mette
le manette, ed è chiaro che lei sia in
attesa della cavalleria, crede che farà
irruzione per salvarla da un momento
all’altro. Non scalcia neanche quando
lui le lega le caviglie.
Con il bavaglio, è tutta un’altra
storia. È evidente che non lo gradisca,
per niente. Sgrana gli occhi e
un’ondata di colore risale dai seni
rotondi e invitanti fino all’attaccatura
dei capelli. All’improvviso capisce che
forse non andrà come programmato.
Che è lui ad avere il controllo, non lei e
i suoi patetici amici sbirri. Le sorride.
È il sorriso rilassato e trionfante del
vincitore.
«Non arriveranno» dice lui. «Sei
sola.» Si china e infila una mano tra lei
e il materasso. Estrae il trasmettitore
da sotto la gonna. Poi allunga una
mano nella scollatura e strappa il
microfono e il cavo. Fa penzolare le
estremità tagliate davanti ai suoi occhi.
«Hai parlato da sola» la deride. «Non
hanno la minima idea di dove cazzo ti
trovi. A quest’ora, potresti essere
ovunque a Temple Fields. Credevi di
poterci battere, ma ti sbagliavi. Sei
spacciata, sbirro.»
Si volta, ignorando il piagnucolio
smorzato dal bavaglio. Prende il
vibratore che ha preparato. La luce
intensa risplende sul filo tagliente
delle lamette. È dannatamente perfida,
questa macchina della morte. Facendo
perno sui talloni, lui si gira a
guardarla. Quando lei vede il
vibratore, ogni traccia di colore
abbandona il suo viso, lasciandole il
petto chiazzato e sgradevole alla vista.
Lui si avvicina, le tira su la gonna e
strappa le mutandine. Fa oscillare il
vibratore davanti alla sua faccia e
sorride.
È allora che lei se la fa sotto. Questo
lo infastidisce perché ora la stanza
puzzerà, e non è una cosa carina.
Perché questa è da custodire con cura.
Parte quarta
È risaputo che esistono libri in grado
di cambiare la vita di una persona. Se
qualcuno mi chiedesse se un libro
simile mi sia mai capitato per le mani,
credo che quel qualcuno rimarrebbe
profondamente sorpreso dalla risposta.
Ma riesco ancora a ricordare l’impatto
che ha avuto su di me leggere per la
prima volta I tre ostaggi di John
Buchan.
Eravamo una famiglia in vacanza nei
pressi dei Norfolk Broads. I miei
genitori conoscevano il concetto di
vacanza ma non sapevano come
metterlo in pratica. Gli altri
trascorrevano la settimana in barca, a
esplorare i corsi d’acqua e a vivere in
un modo diverso rispetto alla routine
abituale – chiuse, paludi, uccelli
acquatici, la sensazione surreale di
mettere i piedi sulla terra ferma dopo
giorni passati in barca. Ma non noi. I
miei genitori avevano noleggiato un
caravan stanziale in un campeggio in
cui centinaia di scatole di metallo
simili erano sistemate in file serrate
lungo un piccolo promontorio che si
affacciava sulle acque grigio-bluastre
del Mare del Nord. Il caravan in cui
eravamo finiti non offriva neanche una
bella vista. L’unica cosa che vedevamo
dalle finestre erano altri caravan. Non
era un miglioramento rispetto a casa;
persino in un’abitazione popolare con
due camere da letto c’era più spazio e
privacy che in quella scatola di latta di
nove metri. La odiavo, invidiavo i
bambini che trascorrevano delle
vacanze vere grazie ai loro genitori,
contavo le ore che mancavano al
momento della partenza verso casa.
Neanche il clima era d’aiuto. Una
tipica settimana estiva inglese,
pioggerellina grigia alternata a giorni
di sole pallido in cui tutti al campeggio
si mettevano in marcia verso la
spiaggia ghiaiosa, si spogliavano fino
a rimanere in costume e saltellavano
da un piede all’altro sulle pietruzze
appuntite fino a raggiungere il
bagnasciuga. Poi urlavano per la
temperatura dell’acqua, si giravano e
tornavano sempre saltellando verso i
loro thermos di caffè caldo e
annacquato e i loro sandwich all’uovo.
Un pomeriggio in cui la pioggia era
particolarmente insistente i miei
genitori decisero di andare a giocare a
bingo nella sala comune/snack bar
stipata in un tozzo blocco di cemento
nel bel mezzo del campeggio. Dovetti
andare anch’io, perché a dodici anni
non mi era legalmente concesso restare
per i fatti miei. E i miei genitori
seguivano la legge alla lettera, sempre
e fino alla nausea. Protestando per
l’ingiustizia, li seguii, covando non
poco rancore. Avrei preferito passare
del tempo con Amanda, la bella
ragazzina bionda a due file di distanza
da noi. Non mi interessava guardare un
mucchio di matusa che giocavano a
bingo.
Papà mi comprò una Coca e un
pacchetto di patatine, mi indirizzò
verso il tavolo da ping pong e mi disse
di divertirmi per un paio di ore e di non
allontanarmi. Come se avessi cinque
anni. Furente, me ne andai sbattendo i
piedi. La stanza del ping pong era
piena di bambini che mi guardavano
come se fossi di un altro pianeta. Mi
trascinai verso l’angolo opposto della
stanza, e fu allora che notai gli scaffali
carichi di libri dalle copertine rigide e
lacerate. Ne presi un paio, ma non li
trovai interessanti. Poi presi I tre
ostaggi, e fin dalla prima pagina quello
scenario sociale a me completamente
alieno rapì il mio interesse.
Fino a quel momento, non avevo mai
immaginato che si potesse ottenere il
controllo completo sulla volontà di
qualcuno. Quel libro mi parlava di due
cose che desideravo ardentemente:
superiorità assoluta e accesso a un
mondo di potere e successo. La seconda
mi era stata negata per nascita, ma se
avessi ottenuto la prima con le mie
forze, avrei potuto aspirare a qualcosa
di altrettanto considerevole.
I tre ostaggi fu il primo passo nel
lungo viaggio verso il fulcro della
mente altrui. Non ho mai dubitato che
il controllo fosse possibile. Non ho mai
dubitato di poterlo ottenere. Rimaneva
solo da vedere se farlo mi avrebbe
permesso di cambiare il mondo che mi
circondava. Ma, a conti fatti, credevo
di poterci riuscire.
All’inizio, il percorso mi era
tutt’altro che chiaro. Scelsi la
superstrada dell’informazione,
rintracciando qualsiasi cosa avesse a
che fare con l’ipnosi, gli stati di
alterazione, il lavaggio del cervello e il
controllo della mente. E più imparavo,
più cercavo di testare le mie abilità.
Facevo pratica sui compagni di scuola,
costringevo le mie amanti ad abbassare
la guardia, usavo le mie capacità anche
a lavoro. Ben presto, imparai che
quest’ultime non erano elevate come
speravo. A volte ottenevo dei risultati
notevoli. Più spesso invece, fallivo.
Alcune menti eludevano cocciutamente
il mio controllo. Non importava quanto
ci provassi, non riuscivo a penetrarle.
Poi scoprii che esisteva una
categoria di menti più deboli delle
altre, con poche difese contro le mie
tecniche. Persone che il resto del
mondo ignorava perché ritenute lente e
stupide potevano essere piegate dalla
mia volontà. Forse non era l’effetto
rivoluzionario che avevo sognato, ma
offriva comunque diverse possibilità.
A quel punto la questione divenne
un’altra: cosa fare con il potere che
ero in grado di esercitare. Come potevo
amplificare ciò di cui ero capace?
La risposta si palesò di punto in
bianco. La potenza di due.
Se la conoscenza era potere, allora
scegliere come disseminarla era potere
in azione. Per questo, Sam Evans era
sempre pronto a dare poco per ottenere
tanto. Era sorprendente quanto la gente
si aprisse quando credeva di avere una
persona sincera davanti. Kevin ne era
stata l’ennesima prova. In cambio delle
poche informazioni che aveva raccolto
su Stacey Chen, Evans ne aveva ottenuto
una valanga riguardo a Don, Paula, e
allo stesso Kevin. Esattamente quel
genere di particolari che potevano
ritornare utili come punti di pressione,
se mai avesse avuto bisogno di
smuovere le acque in suo favore.
Erano seduti in un pub a pochi
chilometri da Swindale, ricaricavano le
batterie con una pinta più che meritata
dopo una giornata lunga e frustrante
passata a gestire futili dispute territoriali
e a condurre scrupolosi interrogatori.
Avrebbero dovuto stabilire un piano
d’azione per la mattina seguente, ma
avevano concordato tacitamente che per
quel giorno ne avevano avuto abbastanza
della depressione opprimente data
dall’avere a che fare con la morte di due
bambini. Fare gossip sui colleghi era
una prospettiva più accattivante.
Kevin interruppe la storia che stava
raccontando quando il suo cellulare
emise un bip, informandolo dell’arrivo
di un messaggio. Fissò lo schermo,
incredulo. «È uno scherzo?» esclamò,
mostrando il telefono a Evans.
Sotto la scritta STACEY CELL si leggeva:
‘Killer ha preso Paula. È scomparsa.’
Evans scosse la testa. «Stacey non
scherzerebbe mai così. Non è il suo
stile.»
Kevin stava già digitando il numero
della detective. Non appena questa
rispose, il sergente disse: «Che vuol
dire che il killer ha preso Paula? È una
sorta di scherzo perverso?»
«Non scherzerei mai su qualcosa di
simile» disse Stacey, evidentemente
offesa dall’insinuazione. «Vuol dire
esattamente quello che hai letto. Ha
preso Paula. L’ha trascinata in un vicolo
e abbiamo perso il contatto radio. Il
tempo di raggiungerli ed erano già
spariti. È successo circa un’ora e mezza
fa e da allora nessuna traccia di nessuno
dei due.»
«Cazzo» imprecò Kevin. «Arriviamo.
Saremo lì in meno di un’ora.» Terminò
la chiamata e si voltò verso Evans. «È
tutto vero. Mentre noi ce ne stavamo qui
a bere birra, i nostri dannati colleghi se
ne stavano con le mani in mano a
lasciare che l’assassino rapisse Paula
proprio sotto i loro nasi.» Balzò in
piedi. «Andiamo, torniamo a Bradfield.»
Evans abbandonò la pinta vuota per
metà e si fece strada verso la porta.
«Come diavolo è successo?» chiese.
«Non lo so» rispose Kevin. «Carol
Jordan era così sicura di avere tutto
sotto controllo.»
Evans inarcò le sopracciglia, seguendo
Kevin verso l’auto. Se fosse successo
qualcosa a Paula, sarebbe la fine per
Carol Jordan. Fu felice di non aver
preso parte al disastro di quella sera e
di essere impegnato in un caso con
migliori prospettive di risoluzione.
Ognuno per sé, era così che stavano le
cose. Chiunque la pensasse
diversamente era una preda, e le prede
finivano per essere divorate.
Evans non aveva alcuna intenzione di
diventare il prossimo pasto di qualcuno.
Erano appena passate le tre del
mattino quando Carol fece ritorno a
casa. Paula McIntyre era scomparsa da
poco più di sei ore. Avevano picchiato
le nocche su ogni porta di Temple Fields
a cui si potesse bussare, e avevano
interrogato chiunque si potesse
interrogare. Avevano messo a soqquadro
centri massaggio e bordelli, avvicinato
prostitute e gigolò, creato scompiglio in
bar e discoteche. Salvo prendere un
ariete e sfondare tutte le porte rimanenti
di Temple Fields – negozi, uffici,
appartamenti, monolocali e chissà
cos’altro – avevano fatto tutto il
possibile per trovare Paula. Ma era
come se lei e il suo aggressore fossero
svaniti nel nulla. Il labirinto di vicoli,
stradine e cortili sul retro non aveva
fornito uno straccio di prova. Jan
Shields aveva guidato un team nella
perlustrazione dell’edificio oltre il
portone nel muro, sembrava fungesse da
magazzino per una tipografia della zona.
La ricerca non aveva svelato nulla che
indicasse il passaggio recente di
qualcuno.
Alla fine, Carol aveva dato l’ordine di
fermarsi e tornare a casa. Alcuni agenti
avevano protestato, esprimendo la loro
volontà di continuare le ricerche, ma
Carol aveva respinto le loro richieste.
Aveva spiegato che non era rimasto
nulla di utile da fare prima dell’alba. La
cosa migliore che potessero fare per
Paula era cercare di dormire qualche
ora. Ciò a cui nessuno era pronto a dare
voce era la convinzione che, in realtà,
fosse già troppo tardi per salvarla.
Carol era ritornata al furgone di
sorveglianza con Jan Shields e Don
Merrick in un’atmosfera di silenzioso
sconforto. Giunti al veicolo, Jan aveva
scosso la testa. «Io rimango. Ho ancora
dei contatti da sentire. Gente con cui
parlare. Vi stupireste del tipo di persone
che giocano dalla nostra parte quando
sanno che è un poliziotto a essere
scomparso. Vorranno questa faccenda
risolta al più presto esattamente quanto
noi.»
«Non fa bene agli affari, eh?» aveva
detto Merrick, amaramente.
«Già, puoi dirlo forte.» Jan si era
stretta nella sua giacca di pelle. «Ci
vediamo al briefing.»
Carol non aveva neanche provato a
fermarla. Insieme a Merrick, l’ispettrice
era rimasta a guardare mentre Jan veniva
inghiottita dalla nebbia. «Stamattina le
ho detto che non era costretta a
continuare» aveva detto Merrick.
Carol aveva percepito la vena ostile
nelle sue parole, ma la stanchezza
l’aveva indotta a lasciar correre. «Lo
sapeva già, Don. È stata una sua scelta»
aveva detto, tristemente. Aveva aperto la
portiera del furgone con uno strattone ed
era salita a bordo. «Io vado a casa a
dormire. Ti consiglio di fare lo stesso
invece di stare qui a girare a vuoto come
un cane che si morde la coda.» Non
aveva aspettato una risposta. Quando
dopo venti secondi l’ispettore non
l’aveva seguita a bordo del furgone,
Carol aveva chiuso la portiera e
ordinato al conducente di riportarla in
centrale.
Aveva ringraziato Stacey per aver
tenuto la situazione sotto controllo dal
furgone, poi aveva chiesto a uno dei
tecnici di mostrarle l’incontro di Paula
con l’assassino immortalato dalle
telecamere a circuito chiuso. Lo
avevano guardato almeno sei volte
durante il tragitto, ma nessuno aveva
notato nulla di nuovo. Alla stazione di
polizia, Carol aveva ordinato ai tecnici
di fare del loro meglio per migliorare la
qualità video e audio della
registrazione. Poi aveva raggiunto la sua
auto, sentendosi così vecchia e stanca da
riuscire a malapena a mettere un piede
davanti all’altro.
Ora, davanti alla porta di casa,
tremava dalla disperazione e dallo
sfinimento. Fu patetica la gioia che
provò nel vedere una luce accesa nello
studio di Tony. Suonò il campanello. Il
dottore aprì la porta in maglietta e
pantaloni da tuta. La guardò perplesso.
«Ha preso Paula» disse Carol. Ogni
parola sembrò trascinarsi con la forza
fuori dalla sua bocca. L’ispettrice serrò
gli occhi, inclinando la testa all’indietro.
Tony varcò la soglia gelida e
l’abbracciò. Per qualche secondo, il
corpo di Carol rimase rigido. Poi la sua
testa si appoggiò sulla spalla del
dottore, il viso rigato di lacrime. Tony
non disse nulla. Supportò il peso di
Carol, lasciando che si abbandonasse tra
le sue braccia, sentendo il suo corpo
tremare mentre si liberava del dolore.
Alla fine, la donna si calmò. Si scostò
lievemente, incrociando lo sguardo
preoccupato di Tony. «Sto bene» disse,
con voce tremante.
«No, non è vero.» Tony la guidò in
casa e l’aiutò a sedersi. «Vuoi qualcosa
da bere?»
Carol annuì, asciugando i segni delle
lacrime sulle sue guance. «Sì, grazie.»
Il dottore annuì, dirigendosi verso la
cucina. Ritornò un minuto dopo con due
calici di vino bianco, ne diede uno a
Carol prima di sedersi accanto a lei.
«Vuoi parlarne?»
Carol bevve un sorso di vino. Aveva
un sapore alieno, era come se qualcosa
le avesse alterato chimicamente le
papille gustative. «Chiamala attività di
sostituzione se vuoi, ma non riesco a
parlare di Paula finché non chiariamo le
cose tra noi due.»
«Allora devi dirmi cosa devo sapere.»
Carol bevve un altro sorso. Stavolta, il
sapore si avvicinò di più alle sue
aspettative. «Dopo lo stupro, mi
sembrava che il mio corpo non fosse più
mio, che non appartenesse a me. Mi ci è
voluto un po’ per capire che mi serviva
un’esperienza sessuale per convincermi
di avere ancora controllo sulle mie
reazioni. Doveva essere incentrata su di
me, e doveva essere qualcosa di non
complicato.» Posò il palmo della mano
sulla schiena di Tony, percependo il
calore della sua pelle attraverso la
maglietta.
Il dottore sbuffò. «Cose che non mi
rendevano il candidato ideale.»
Carol abbozzò un sorriso in segno di
conferma. «E all’improvviso è arrivato
Jonathan. Comprensivo, generoso,
attraente e qualcuno di cui non avrei mai
potuto innamorarmi. Così l’ho usato.
Non ne vado particolarmente fiera, ma
non hai motivo di essere geloso. Ogni
giorno ti lascio conoscere parti di me
che con lui non ho condiviso.»
«Ma io sono geloso. Sono geloso
perché per lui è così facile e per me è
l’opposto.»
«Stavo cercando di rendere le cose
più facili per entrambi.»
«Lo so. Ma non succederà in tempi
brevi, vero? Sentirci a nostro agio,
intendo, io con te e tu con me?»
Carol non lo aveva mai sentito così
triste. «Non lo so» disse, mestamente.
«So solo che io ti...»
«Non dirlo.» La interruppe
bruscamente. «Provo lo stesso. Ma non è
mai il momento giusto, vero? C’è
sempre qualcos’altro che ci trattiene,
qualcosa che ci allontana. E ora quella
cosa è Paula. Dimmi cos’è successo.»
Carol riassunse gli eventi di quella
sera. «È morta. Ed è colpa mia.
Nonostante sapessi per esperienza
quanto una situazione simile potesse
andare storta, ho permesso comunque
che succedesse.»
Tony balzò in piedi e prese a
camminare avanti e indietro. «Non credo
sia morta. Quest’assassino vuole che le
sue vittime siano trovate quando sono
ancora fresche. Paula non è stata trovata,
perciò la logica ci dice che
probabilmente è ancora viva.»
Carol scosse la testa. «Ma perché
cambiare il modus operandi?»
«Ottima domanda. Forse perché ha
capito che Paula è un’agente di polizia.
Se ricordi, ti avevo accennato che il
killer avrebbe potuto capire che Paula
era un’esca.»
«Anche se fosse, perché dovrebbe fare
la differenza?»
«Lui ama il potere. Forse tenerla viva
gliene dà ancora di più, avere un’agente
sotto il suo controllo. Gli conferisce
potere anche su di noi. È lui il direttore
di scena, è lui che dirige l’orchestra.
Dobbiamo assecondare la sua melodia
se vogliamo rivedere Paula viva.»
Carol aggrottò la fronte. «Che vuoi
dire con ‘assecondare la sua melodia’?»
Tony agitò la mano, impaziente.
«Ancora non lo so. O ce lo farà capire
lui oppure ci dovremo arrivare da soli.»
Mentre camminava avanti e indietro, di
colpo si bloccò e si voltò verso Carol.
«Carol, come sapeva che Paula aveva un
microfono?»
«Lo hai detto tu stesso. Deve aver
capito che era un’esca e ha intuito che
doveva avere un microfono. Forse è per
questo che ha iniziato a palpeggiarla non
appena l’ha trascinata nel vicolo.»
«È una mossa troppo sofisticata per
Derek Tyler» mormorò Tony.
«Ma non è Derek Tyler che l’ha rapita.
Derek Tyler è rinchiuso al Bradfield
Moor.»
«Lo so, lo so. Ma questi sono gli stessi
crimini, c’è la stessa mente dietro di
essi. E non è quella di Derek Tyler. Lui
non è abbastanza sveglio, non è
abbastanza disciplinato.» Fissò Carol,
galvanizzato. «La persona dietro questi
omicidi non controlla solo noi.
Controlla anche l’assassino.»
Carol scosse la testa ostinatamente.
«Non è possibile. Non si uccide perché
qualcuno ti dice di farlo. Solo i sicari si
comportano così. E se è con un sicario
che abbiamo a che fare, allora questo
agisce su richiesta di qualcuno che vuole
scagionare Derek Tyler. Dobbiamo
scavare di nuovo nella sua vita, capire
chi lo vuole a piede libero e perché.»
«Ti sbagli, Carol» sospirò Tony. «Ma
se vuoi seguire questa pista, allora è
nella vita delle sue vittime che devi
scavare, non in quella di Tyler.»
Carol svuotò il bicchiere e si alzò.
«Delle sue vittime?»
«Se qualcuno che amo venisse ucciso
e il suo assassino non si beccasse
neanche l’ergastolo, se fosse
semplicemente rinchiuso in un ospedale
psichiatrico da cui, in teoria, potrebbe
essere rilasciato in ogni momento,
probabilmente non crederei che sia stata
fatta giustizia. Vorrei fargliela pagare di
persona. Considerato l’ambiente in cui
operavano le sue vittime, è nei limiti del
plausibile ipotizzare che qualcuno
potesse essere innamorato di una di esse
e che abbia la possibilità di ingaggiare
un sicario per replicare quei crimini con
lo scopo di scagionare Tyler.» Scrollò le
spalle. «Ha una sua logica.»
Carol lo fissò a bocca aperta.
«Logica?» farfugliò.
«No, Carol. Sono stronzate. Se quanto
ho detto fosse vero, chi ha ingaggiato il
sicario avrebbe mandato un avvocato da
Tyler per spingerlo a ricorrere in
appello. Ma non è successo.»
«C’è tempo» disse Carol. «Forse
proverà a usare Paula come merce di
scambio.»
«Carol, se l’assassino ti contatta
offrendo Paula in cambio di
un’ammissione ufficiale riguardo
all’erroneità della condanna di Derek
Tyler, ti offro la cena per un anno
intero.»
«Andata» disse l’ispettrice.
Tony bevve l’ultimo sorso di vino.
«Ora credo sia il momento di andare a
dormire. Entrambi avremo il nostro bel
da fare...» guardò l’orologio e gemette
«...tra qualche ora.»
«Non ti ho ringraziato per il profilo
sull’assassino di Tim Golding» disse
Carol, seguendolo verso la porta di
casa. «È stato molto utile.»
«Di niente. Vi dovevo un
approfondimento, non ero stato molto
utile la prima volta.»
«Darai un’occhiata alla scena del
crimine?»
Il dottore allargò le mani, scrollando
le spalle. «Volevo andarci domani. Ma
con Paula scomparsa...»
«Forse si può rimandare.»
«Chi hai messo sul caso?» chiese
Tony.
«Kevin e Sam. Stacey collabora con
l’unità che si occupa di pedofilia.
Voleva lavorarci Don, ma sinceramente
non ero sicura che ne fosse all’altezza.
Quando questo casino si sarà risolto,
credo che chiederò a Brandon di
riassegnarlo al suo incarico precedente,
al di fuori della mia squadra. Forse per
allora Chris Devine sarà disponibile a
traslocare più a nord. Sarebbe un’ottima
ispettrice.» Si scurì in volto. «Dio, se
penso alle speranze che nutrivo per
quest’incarico. Credevo sarebbe stato la
mia salvezza. Adesso mi sembra più un
colpo di grazia.»
Stacey Chen amava il suo lavoro.
Quando sul finire degli anni Ottanta la
tecnologia informatica era diventata alla
portata di tutti, i suoi genitori l’avevano
accolta con fervore. Possedevano una
catena di supermercati cinesi e la
capacità delle macchine di tenere traccia
di merci e transazioni li aveva
conquistati. Stacey faticava a ricordare
un periodo della sua vita di cui i
computer non facessero parte. Figlia
unica, si era appassionata al silicio
come altri bambini si appassionavano
alle Barbie o ai libri. Frustrata dai limiti
di quei primi computer, aveva imparato
a programmare e a crearsi da sé giochi
per dispositivi pensati solo per
l’elaborazione di testi e di operazioni
semplici. Quando si era iscritta
all’università di scienza e tecnologia di
Manchester, aveva già accumulato
abbastanza risparmi da potersi comprare
un loft in centro; tutto grazie a un
programmino di sua invenzione che
aveva venduto a una compagnia di
software americana e che proteggeva il
loro sistema operativo da potenziali
conflitti di software. I professori di
Stacey prevedevano per lei un’ascesa
immediata nel mondo dell’informatica.
Erano rimasti spiazzati quando Stacey
aveva annunciato di voler entrare in
polizia.
Per lei la cosa aveva perfettamente
senso. Adorava risolvere problemi.
Ficcanasare nei sistemi altrui era il suo
pane quotidiano, e avere un distintivo
era l’unico modo per soddisfare le sue
necessità senza violare la legge. Inoltre,
aveva comunque abbastanza tempo
libero per perseguire i suoi interessi
commerciali, evitando i potenziali
conflitti d’interesse in cui sarebbe
incappata se avesse lavorato per una
compagnia di software. Che importava
se lo stipendio da detective era nulla in
confronto a quello che guadagnava nel
tempo libero? Il suo lavoro
l’autorizzava a invadere la privacy
altrui, e per lei questo era più che
sufficiente.
Non aveva neppure bisogno di trovarsi
in ufficio per sbirciare nei file altrui.
Aveva creato una postazione informatica
casalinga che le permetteva di accedere
da remoto a tutti i computer della
squadra crimini maggiori. Inoltre,
essendosi autoproclamata operatrice di
sistema non doveva neanche perder
tempo a scoprire le loro password.
Poteva frugare nei loro computer quando
voleva. Così, sapeva della predilezione
di Kevin per siti porno soft, dove poteva
navigare gratuitamente senza dover
immettere dati personali. Sapeva del
debole di Don Merrick per il baseball
americano, la dipendenza di Paula dai
siti di informazione e l’abitudine di Jan
di ordinare libri da una libreria
femminista di York. La diffidenza di
Carol Jordan nei confronti del computer
aveva suscitato la curiosità di Stacey,
ma poi la detective aveva scoperto che
il fratello dell’ispettrice lavorava in una
compagnia di sviluppo software.
Evidentemente, Carol era fin troppo
consapevole delle tracce che una
qualsiasi attività poteva lasciare su un
computer.
Stacey sapeva anche delle incursioni
notturne di Sam Evans. Vi aveva
assistito da casa, notando le battute su
ogni tastiera, osservando i suoi tentativi
di accedere ai file dei colleghi e
vedendolo fallire davanti all’ostacolo
posto dalle rispettive password. Stacey
avrebbe dovuto riconoscere uno spirito
affine in Sam, ma non sopportava la sua
incompetenza. Meglio per lui limitarsi a
visitare quei disgustosi siti di autopsie
che gli piacevano così tanto. Gli si
addiceva di più. Dio, se erano strani i
poliziotti.
Quella sera, tuttavia, Stacey era la sola
nel sistema. Ovunque fosse Sam non si
stava aggirando di soppiatto in ufficio
cercando di guadagnare un vantaggio
sugli altri. Sull’hard drive non c’era
nulla di nuovo che destasse l’interesse
della detective. Si chiese cosa stesse
succedendo a Temple Fields. Qualche
comando sulla tastiera, un paio di clic, e
il segnale video delle telecamere
apparve sullo schermo del suo computer.
Stacey si versò un’altra tazza di caffè
dal thermos sulla scrivania e si mise
comoda a osservare.
Paula non aveva idea di quanto tempo
avesse trascorso in quella camera
austera e opprimente, sotto la luce di una
lampadina spoglia che rendeva tutto
spietatamente vivido. All’inizio, si era
sentita sollevata e grata per essere
ancora viva. Non aveva idea del perché
lo fosse; sapeva che le vittime
precedenti erano state aggredite subito
dopo essere state rapite. Quando poi
aveva messo gli occhi su quello
strumento vile e orribile, aveva avuto la
certezza che avrebbe fatto la loro stessa
fine. Invece no. L’assassino le aveva
solo strappato le mutandine in modo da
esporre i genitali alla videocamera, le
aveva agitato il vibratore mortale
davanti agli occhi e aveva ridacchiato.
Poi aveva controllato le manette e aveva
indietreggiato, toccandosi il membro
attraverso il tessuto scambiato dei suoi
jeans larghi. A quel punto, Paula aveva
pensato che l’avrebbe stuprata, ma
neanche quel timore si era avverato.
L’aveva fissata con occhi affamati per
qualche minuto, accarezzandosi
l’erezione come fosse un ratto da
compagnia. Poi aveva controllato la
videocamera e se n’era andato.
Da allora, Paula era rimasta sola.
Aveva tentato di liberarsi ma ci aveva
rinunciato subito, consapevole di stare
sprecando inutilmente energie che
avrebbero potuto servirle in seguito.
Aveva provato a gridare aiuto, ma il
bavaglio che le opprimeva la bocca non
faceva trapelare nulla di più forte di un
gemito. Non c’era nulla da fare se non
giacere su quel letto, a tremare dal
freddo e dalla paura. La pozza di urina
sotto di lei era penetrata nel materasso
allargandosi, facendole sentire ancora
più freddo.
Paula cercò di convincersi che presto
l’avrebbero trovata. Carol Jordan non
l’avrebbe mai abbandonata. Il fatto che
l’assassino l’avesse lasciata in vita la
induceva a pensare che Carol e gli altri
gli stessero alle calcagna. Se n’era
andato perché non credeva di avere
tempo a sufficienza per guardarla morire
una volta aggredita. Ma più il tempo
passava, più Paula cominciava a
perdere le speranze. A un tratto, le era
sembrato di sentire un rumore di passi e
delle voci attutite. Aveva drizzato le
orecchie ma i rumori erano svaniti,
lasciandola nel dubbio che fossero stati
frutto della sua immaginazione.
Era tutta colpa sua. Come aveva fatto a
non accorgersi che il cavo era stato
tagliato? Se avesse prestato attenzione
alla missione invece di lamentarsi per
un capezzolo pizzicato, avrebbe capito
di non essere più in contatto con la
squadra. Inoltre, non appena aveva
messo piede in quella camera e aveva
visto con i suoi occhi gli strumenti del
mestiere preferiti dall’uomo che
cercavano, avrebbe potuto coglierlo di
sorpresa e metterlo al tappeto. Ma aveva
sbagliato. Si era concentrata sulle
proprie reazioni invece che
sull’operazione, e ora ne pagava il
prezzo.
Era ancora viva, tuttavia. Finché fosse
stata viva, avrebbe potuto credere nella
salvezza. Carol Jordan avrebbe sfondato
ogni porta di Temple Fields se fosse
stato necessario. L’ispettrice sapeva
cosa voleva dire essere abbandonata dai
propri capi, e non avrebbe mai
permesso che a Paula succedesse nulla
di simile. Carol l’avrebbe trovata,
qualsiasi cosa dovesse fare per
riuscirci.
I minuti trascorrevano inesorabili.
Esausta, Paula usciva ed entrava da uno
stato di alterazione che correva sul
confine tra il sonno e la veglia. Quando
la porta si aprì, non riuscì subito a
capire se fosse un sogno o la realtà. Il
cuore si gonfiò di gioia. L’avevano
trovata!
La speranza svanì in pochi secondi,
quando la sagoma tristemente familiare
del suo rapitore entrò nel suo campo
visivo. Aveva abbandonato il giaccone
per un giubbino con cappuccio,
probabilmente per non farsi riconoscere.
Ma Paula sapeva fin troppo bene chi
fosse. «Sono solo io» disse l’uomo.
«Sono venuto a cambiare la cassetta. La
webcam non ha la stessa qualità, è per
questo che abbiamo bisogno anche del
video su nastro. Così possiamo
divertirci a vederti soffrire.»
Se allungava il collo, Paula riusciva a
vederlo mentre si muoveva dietro la
videocamera per rimuovere la cassetta.
La mise in tasca, poi si chinò in avanti e
armeggiò con la webcam. La guardò,
lascivo. «Non dovrei toccarti. La Voce
dice che devo aspettare il momento
giusto. Ma la Voce non vede tutto.»
Si avvicinò al letto, strofinandosi i
genitali con una mano. Salì goffamente
sul materasso. Mentre si muoveva su di
lei, Paula percepì odore di marijuana e
il sentore acido e pungente di birra mal
digerita. Era pesante e maldestro nei
movimenti, la zip del giubbino le
graffiava la pelle all’altezza dello
stomaco. All’improvviso, Paula sentì la
superficie levigata del lattice venire a
contatto con le sue labbra, tastare la sua
vagina. Si irrigidì e l’uomo grugnì. «Non
rendere le cose più difficili, stupida
troia» le ringhiò nell’orecchio. Paula
cercò di sottrarsi, ma braccia e gambe
erano immobilizzate e lui era troppo
pesante.
Poi fu dentro di lei, le dita spingevano
e affondavano mentre lui si strusciava
sulla sua coscia. Paula sentiva la sua
erezione attraverso i vestiti. Affondò i
denti sul bavaglio, cercando di frenare
le lacrime. Non voleva mostrargli cosa
stava provando. Provò a dissociarsi da
quello che succedeva al suo corpo, ma
non funzionò.
Per fortuna, finì presto. L’uomo prese a
muovere le dita dentro di lei come un
martello, col bacino premeva la coscia
della donna contro il materasso mentre
aumentava il ritmo dei movimenti. Tirò
la testa all’indietro e guaì come un
cucciolo preso a calci. Poi collassò su
Paula, facendo scivolare le dita fuori
dalla vagina dolorante. Rotolò accanto
alla donna e sorrise. «Stretta. Mi piace.
Sarà più divertente quando ti ucciderò.»
Scese dal letto, aggiustandosi il
giubbino per coprire la chiazza umida
sui pantaloni. Inserì una nuova cassetta
nella videocamera, riavviò la webcam e
raggiunse la porta. «A più tardi» disse,
salutando con la mano.
La porta si chiuse con violenza. Solo
allora Paula iniziò a piangere.
Carol era nel suo ufficio a prendere
appunti per il briefing, quando entrarono
Kevin e Sam. «Capo, possiamo
parlarle?» domandò Kevin.
Con aria rassegnata, Carol annuì e fece
segno a entrambi di sedersi. Se
l’aspettava. Un’altra pessima
conversazione che avrebbe finito col
farla sentire utile come un cieco in una
gara di tiro con l’arco. «Fatemi
indovinare. Volete aiutare nelle ricerche
di Paula?»
«È una di noi, capo. Ci ha detto sin dal
primo giorno che dobbiamo essere una
squadra. Non è giusto mettere me e il
detective Evans su un altro caso mentre
una della squadra è in pericolo.»
«Capisco come vi sentite» disse
Carol. «Ma ho bisogno di sapere che ci
sono i migliori agenti possibili sul caso
Golding e Lefevre. Avrete letto i
giornali stamattina, la gente sa che sono
stati ritrovati due cadaveri. Sono già
cominciate le congetture. L’isteria
antipedofilo sta montando e avrà noi
come obiettivo. Dobbiamo mostrarci
impegnati sul campo a cercare
l’assassino di Tim e Guy.»
«Ma sono morti, e Paula potrebbe
essere ancora viva» protestò Evans.
«Saranno anche morti, ma sono
comunque importanti. Chiunque li abbia
uccisi è ancora a piede libero, e forse in
cerca della prossima vittima.»
«Non diciamo che non siano
importanti, capo» contestò Kevin.
«Quello che intende Sam è che non c’è
la stessa urgenza.»
«Già. Mettere in pausa l’indagine per
un paio di giorni non farebbe molta
differenza. Giusto il tempo necessario
per prendere parte alle ricerche di
Paula» intervenne Evans.
«Per quanto lo vogliate, non possiamo
metterla in pausa.» Carol picchiettò un
dito su un file sulla scrivania. «Due
riscontri positivi: Tim Golding e Guy
Lefevre. In entrambi i casi, si tratta con
molta probabilità di morte per
strangolamento, a mani nude. Non
possiamo nasconderlo alla stampa.
Avete già iniziato a smuovere le acque
con il personale del parco e altri gruppi
che potrebbero essere stati a Swindale.
A meno che il nostro uomo non sia cieco
e sordo, verrà a sapere che lo stiamo
cercando. Non voglio dargli la
possibilità di sfuggirci. Dobbiamo
stargli addosso. Mi dispiace, ragazzi.
Resterete sul caso di Tim e Guy.»
Nessuno dei due agenti sembrò
accettare di buon grado la decisione.
«Ma, capo...» cominciò Kevin.
«Kevin, la cosa migliore che tu possa
fare per Paula in questo momento è
risolvere il caso in fretta. Sai che
solleverà il morale a tutti, ci aiuterà a
credere di poter riportare Paula a casa
sana e salva arrestando il suo rapitore.
Non ci vogliono grandi abilità per
bussare alle porte o rovistare tra un
mucchio di atti pubblici, che è più o
meno tutto quello che possiamo fare
stamattina. Per favore, usate il vostro
talento per darci qualcosa di positivo.»
Carol rimase alquanto sorpresa di sé
stessa. Quello era il genere di
persuasione a cui sarebbe ricorsa senza
neanche pensarci in passato. Il fatto che
ora le fosse venuto così naturale
sfruttarlo, le restituì parte della fiducia
in sé stessa che aveva perso nel corso
della notte.
Kevin abboccò all’amo. Si ringalluzzì
visibilmente, crogiolandosi nelle
lusinghe di Carol. «Faremo del nostro
meglio» disse, alzandosi in piedi.
Evans lo guardò, poi riportò lo
sguardo su Carol. Scosse la testa,
incredulo, e seguì Kevin verso la porta.
Mentre si allontanavano, l’ispettrice lo
sentì dire: «Non posso credere che ti sia
bevuto quelle cazzate...»
Carol scattò in piedi e raggiunse la
porta. «Evans» urlò. «Torna qui. Ora.»
Sorpreso, il detective tornò sui suoi
passi. «Kevin, Evans non seguirà più il
caso con te. Non mi deludere.» Lanciò
un’occhiataccia a Evans. «Nel mio
ufficio. Ora.»
Carol sbatté la porta alle loro spalle.
«Siamo tutti sotto pressione qui, ma
questo non rende accettabile
l’insubordinazione. Voglio che i miei
agenti diano il massimo di cui sono
capaci, ed è ovvio che tu non sei
disposto a dare il cento percento per
alleviare il dolore di due coppie di
genitori i cui figli sono stati uccisi.»
«Non è giusto.» Evans la guardava con
aria ribelle.
«Non rispondermi, detective» disse
Carol, scandendo ogni parola con gelida
chiarezza. «Se vuoi rimanere in questa
squadra, farai meglio a capire che
quando si tratta di assegnare gli
incarichi le tue preferenze personali non
mi interessano. Credevo di avertelo già
chiarito. Distribuisco i compiti ai miei
agenti in base alle loro capacità. Tu sei
un bravo detective, Evans, ma questo
non ti dà il diritto di mettere in
discussione le mie decisioni,
specialmente non dove posso sentirti. Ti
sposto sul caso di Temple Fields. Ma
non credere di aver vinto. Ora come ora,
sei al primo posto sulla mia lista nera e
ti ci vorrà qualcosa di davvero speciale
per liberarti di questo primato.»
Un barlume di arroganza attraversò il
viso di Evans. «Non aspetterà a lungo»
disse. «Signora.»
Carol scosse la testa, esasperata. «È
tempo di crescere, Evans. Ora sparisci
dalla mia vista prima che ti spedisca a
dirigere il traffico.» Lo guardò andar via
e sospirò. Un passo avanti e due
indietro. È ora di cambiare ritmo, pensò.
Era ora di accelerare il passo e
risolvere il caso.
Sull’enorme schermo del televisore,
Paula era di nuovo all’angolo della
strada, avvolta nella nebbia. Un uomo
con indosso un giaccone le si avvicinò e
le toccò un braccio. Le loro voci
tuonarono nell’auricolare di Carol,
ancora gracchianti ma più nitide rispetto
alla notte precedente. Paula svoltò
l’angolo insieme all’uomo e lo schermo
si oscurò. Il dialogo proseguì fino a
interrompersi bruscamente, come uno
schiaffo in faccia. Mentre le luci si
riaccendevano, la stanza rimase immersa
nel silenzio più assoluto. L’espressione
della maggior parte degli agenti
rifletteva lo stato d’animo di Carol. Si
va in scena, pensò l’ispettrice,
raddrizzando le spalle e sgranchendosi
le dita come una pianista. «Okay» disse.
«Questa è l’ultima volta che abbiamo
visto Paula. È scomparsa. Il nostro
compito è trovarla. Secondo il dottor
Hill ci sono buone possibilità che Paula
sia ancora viva. L’assassino vuole che le
sue vittime siano scoperte quando il
corpo è ancora caldo. Il fatto che non
abbiamo trovato Paula suggerisce che
non sia ancora morta. Perciò troviamola
prima che le cose cambino. Qualcuno
riconosce quella voce? Quell’uomo
sembra familiare? Sono queste le
domande da fare. Abbiamo delle
fotografie di Paula in fondo alla sala. Ci
sono anche dei fotogrammi presi dal
video di cui potete disporre. Inoltre,
abbiamo un numero limitato di
registratori portatili muniti di cassette
con la voce dell’uomo. Le farete
ascoltare a chiunque interrogherete a
Temple Fields, qualcuno potrebbe
riconoscerlo. Altre cassette e
registratori saranno disponibili tra
qualche ora.
«Sarete divisi in tre squadre.
L’ispettore Merrick rimarrà qui, a
comparare le informazioni che
arriveranno da chi si occupa delle
dichiarazioni e dagli addetti all’HOLMES.
Il sergente MacLeod gestirà la squadra
incaricata di scovare dettagli utili nel
registro delle imposte immobiliari
relative a ogni singola proprietà di
Temple Fields. Il sergente Shields sarà a
capo della squadra che interrogherà ogni
affittuario e abitante della zona in base
alle indicazioni fornite dal team del
sergente MacLeod. Nulla di intentato,
gente. Lì fuori c’è una collega che
dipende da noi. E non la deluderemo.»
La voce di Carol trasmetteva una
sicurezza che l’ispettrice non provava
fino in fondo. Ma spettava a lei animare
gli spiriti e aveva ogni intenzione di
riuscirci. Mentre gli agenti lasciavano la
sala, chiamò: «Ispettore Merrick,
sergente Shields, detective Chen. Una
parola, per favore.»
Quel che restava della sua squadra si
riunì intorno a lei. «Tutti voi avete
lavorato a stretto contatto con Paula. C’è
qualcuno che dovremmo informare?
Genitori? Partner?»
«La madre e il padre vivono a
Manchester» disse Merrick. «Posso
cercare l’indirizzo. Vuole che vada a
informarli?»
«No, non ce n’è bisogno, Don. Trova
l’indirizzo e me ne occuperò io stessa.»
Se devono prendersela con qualcuno,
quel qualcuno sono io. «Tutto qui,
dunque? Genitori, nessun partner?»
«Non ha una fidanzata al momento»
disse Jan distrattamente.
Merrick si girò verso di lei con
sguardo truce. «Che vuol dire non ha una
fidanzata?»
Jan lo guardò con aria di
commiserazione. «Amante, partner,
come preferisci. Che nel caso di Paula,
è una donna.»
«Stronzate» sbottò Merrick. «Paula
non è lesbica.»
Jan sbuffò, ridendo. «Vivi sotto il suo
stesso tetto e non hai notato che è gay? E
ti consideri un investigatore?»
Carol rimase spiazzata. Il suo ispettore
conviveva con uno dei suoi detective?
Che, per inciso, era gay? E lei non ne
sapeva niente? C’era qualcosa di
profondamente sbagliato nella catena
comunicativa della sua squadra,
qualcosa che avrebbe dovuto sistemare
una volta trovata Paula, quando le cose
sarebbero tornate vagamente normali.
Non che Carol fosse interessata al
gossip, ma doveva comprendere le
dinamiche personali affinché la squadra
potesse funzionare.
«Nei tuoi sogni, Shields. Spari
cazzate» disse Merrick, in tono
sprezzante.
Jan scosse la testa, un’espressione
divertita sul suo viso angelico. «Se lo
dici tu, ispettore.» Merrick le lanciò
un’occhiataccia frustrata.
Stacey, che era rimasta a guardare lo
scambio di battute come uno spettatore
al torneo di Wimbledon, disse la sua.
«Che importa con chi va a letto? Non è
stata rapita perché è gay o etero, è stata
rapita perché è un poliziotto e noi
l’abbiamo mandata in strada a fare il
nostro lavoro sporco. Ora torno al mio
computer a fare quello che posso per
aiutare. Signora?» Guardò Carol.
«Non avrei saputo dirlo meglio,
Stacey. Voi due, datevi una mossa, per la
miseria. Abbiamo un lavoro da
svolgere. Vogliamo cominciare?»
Tony osservava l’uomo rannicchiato
sul letto con la faccia rivolta verso il
muro. Ancora una volta Tyler si era
rifiutato di incontrare il dottore nel suo
ufficio o nella sala colloqui. Ma stavolta
Tony non avrebbe accettato un no come
risposta. Era deciso a cavargli delle
informazioni. Sapeva che se Paula
McIntyre non fosse uscita viva da quella
situazione, Carol avrebbe abbandonato
il lavoro in polizia e, per quanto al
dottore l’idea non dispiacesse, era
consapevole di non poter stare a
guardare mentre Carol perdeva l’unica
cosa che aveva dato un senso alla sua
vita adulta.
Avvicinò una sedia al letto, si sedette e
si chinò in avanti, appoggiando i gomiti
sulle ginocchia. Riordinò i pensieri,
concentrò le sue energie e parlò con
voce calma. «Non è piacevole, eh,
sapere di essere stato scaricato per
qualcun altro?» Tyler non mosse un
muscolo.
«Voglio dire, quando senti le voci, ti
aspetti perlomeno che ti siano fedeli.
Non che ti abbandonino come un paio di
scarpe logore solo perché non puoi più
fare quello che vogliono.» La gamba di
Tyler si contrasse.
«Capisco che questo ti secchi. Non c’è
da meravigliarsi. Sarei seccato anch’io
al tuo posto. Sei stato messo da parte,
Derek. Scommetto che credevi che la tua
voce ti avrebbe tirato fuori di qui, non è
così? Scommetto che è per questo che
hai giocato la carta della pazzia, perché
la voce ti ha detto di tenere la bocca
chiusa. Così, un giorno avresti potuto
ricominciare a parlare e noi avremmo
pensato di averti curato.» Un movimento
evidente, pensò Tony. Le spalle si
strinsero, le gambe si piegarono
ulteriormente.
«È strano, ma nel corso degli anni ho
notato che spesso chi sente le voci
finisce per usarle come scuse, in qualche
modo. Ora, per quanto mi riguarda, se
credessi che la Vergine Maria mi stesse
dicendo di uccidere delle prostitute, io
non lo farei, perché non ho un desiderio
innato di uccidere prostitute. Ma un
uomo segretamente convinto che le
prostitute siano il male, userebbe la
voce come una scusa per fare ciò che
crede sia giusto. Come Peter Sutcliffe
quando cercò di giocarsi la carta della
pazzia.»
La voce di Tony si fece più profonda,
più calda e compassionevole. «Ma non
credo sia andata così per te, Derek. Non
credo che tu abbia usato la voce. Credo
che sia stata la voce a usare te. E ora sta
usando qualcun altro. Accettalo, Derek,
non sei speciale come credevi.»
All’improvviso, Tyler si voltò di
scatto. Si mise a sedere sul bordo del
letto, la sua faccia era a pochi centimetri
da quella di Tony. Il dottore mantenne la
sua espressione compassionevole e
preoccupata. Era il momento di giocare
il suo asso. «Sei stato fedele alla voce,
ma lei ti ha abbandonato. Ti ha lasciato
qui a marcire. Ha trovato qualcun altro
da manipolare. Ti ha tradito, Derek.
Potresti almeno ricambiare il favore.»
Il silenzio si prolungò per un lungo
minuto. Poi Tyler si chinò ulteriormente.
Tony riusciva a sentirne il respiro caldo
sulla pelle. «Ti stavo aspettando» disse,
con voce rauca.
Tony annuì lentamente. «Lo so,
Derek.»
Derek sgranò gli occhi a tal punto che
il dottore riuscì a vedere il cerchio
perfetto dell’iride circondato dal
bianco. «Dovrei essere io quello lento.
Tutti quei dottori, dovrebbero essere
loro quelli svegli. Ma non hanno mai
capito.»
«Lo so.»
«Credono tutti che sia la voce di Dio o
cose simili. Ma io non sono pazzo. Sarò
anche lento, ma non sono pazzo.»
«So anche questo. Di chi era la voce,
allora?»
Le labbra di Tyler si arricciarono in un
ghigno trionfante. «Il Cobra.»
«Il Cobra?» Tony cercò di camuffare
la delusione. «Chi è il Cobra?»
Tyler indietreggiò di qualche
centimetro e si picchiettò un lato del
naso con un dito. «Sei così intelligente,
arrivaci da solo.» Poi, con un singolo
movimento fluido, ritornò in posizione
fetale con la faccia rivolta verso il
muro.
Se solo l’avessero capito in tempo, i
criminali opportunisti di Bradfield se la
sarebbero potuta spassare quel giorno.
Ogni agente disponibile era in strada,
incastrato in un caleidoscopio di
incontri.
A un incrocio accanto al sexy shop,
l’agente Danny Wells spaventava i
potenziali clienti. «Ha visto questa
donna nelle ultime ventiquattro ore?»
chiedeva, mostrando una fotografia di
Paula sorridente durante un’uscita serale
tra colleghe. «Riconosce quest’uomo?»
Il fotogramma del video. Potrebbe
essere chiunque a dir la verità, pensava
Danny. «Ascolti questa voce. La
riconosce?» Play, stop, riavvolgere.
Al giornalaio in fondo alla strada dove
Paula aveva fatto da esca, c’era il
sergente Jan Shields. L’asiatico dietro al
bancone aveva l’aria di un uomo
borioso chiuso nella sua indignazione
morale. «Ha mai visto questa donna?»
La foto di Paula poggiata su una pila di
quotidiani. Un cenno negativo con la
testa. «Conosce quest’uomo?» Il
fotogramma poggiato accanto alla foto.
Una scrollata di spalle.
«Come faccio a capirlo? Potrebbe
essere chiunque. Potrebbe essere lei»
disse l’uomo, insolente.
«È lei il proprietario di questo
stabile?»
«No, ho affittato solo il negozio.»
«Solo il negozio? E i piani superiori?»
«Appartamenti. Nulla a che fare con
me.»
«Okay. Mi serviranno il nome e il
recapito del proprietario.»
Il negoziante si accigliò. «A lei che
interessa? C’è qualche problema?»
«Sì, c’è un problema. Ma è probabile
che non sia suo. Mi può mostrare il retro
del locale?»
Improvvisamente, la boria dell’uomo
lasciò il posto all’apprensione. «Perché
vuole vederlo? Lo uso solo come
deposito.»
Per niente in vena di discutere, Jan si
appoggiò al bancone. «Mi ascolti, me ne
strafrego se lì dietro ha gli scaffali che
strabordano di sigarette di
contrabbando. Non è quello che cerco.
Mi faccia dare solo un’occhiata, okay?
Poi me ne andrò. Altrimenti io e lei
faremo una bella chiamata all’agenzia
delle dogane, che ne dice?»
L’uomo la guardò con rabbia, poi
sollevò la parte reclinabile del bancone
per farla passare. «Posso spiegare...»
Il sergente MacLeod, invece, si
trovava al comune di Bradfield. Con un
gruppo di cinque agenti, era al banco
accettazione dell’ufficio imposte locale.
La donna dietro la scrivania sembrava
dubbiosa. «Chiudiamo alle dodici oggi.
È sabato» disse.
«No, oggi chiudete più tardi. Riguarda
un’indagine per omicidio.»
La donna sembrò perplessa e
spaventata. «Non so quale sia la
procedura» disse.
«Sono documenti pubblici. Deve solo
mostrarmi il registro delle imposte
immobiliari relative a queste strade.» Il
sergente MacLeod le mostrò una lista di
strade di Temple Fields.
«Dovrò contattare il mio capo.»
«Va bene. Ma si sbrighi» sbottò
MacLeod.
In una casa trasformata da antica gloria
vittoriana a complesso di monolocali,
c’era la detective Laura Blythe. Bussò a
una porta. Nessuna risposta. Proseguì
sul pianerottolo impregnato dell’odore
di curry e cavolo, e bussò alla porta
successiva. La aprì un giovanotto dagli
occhi assonnati in boxer e maglietta.
Blythe mostrò il distintivo. «Detective
Blythe, polizia di Bradfield. Stiamo
cercando una donna che è stata rapita.
Le dispiace farmi dare un’occhiata in
casa?»
«Cosa?» Il ragazzo sembrava
esterrefatto.
«Vorrei solo accertarmi che la donna
in questione non sia qui.»
«Crede che abbia rapito qualcuno?»
Incredulità e confusione.
«No, ma la donna è scomparsa nelle
vicinanze di quest’abitazione ed è mio
compito escludere potenziali sospettati.
Allora, posso dare un’occhiata veloce?»
«Ha un mandato?»
Blythe abbassò la voce, il suo tono si
fece minaccioso. «Non mi costringa a
chiederne uno. Sto avendo una pessima
giornata.» Prese la foto di Paula. «Non
mi interessa nient’altro. Solo lei.»
Il ragazzo scosse la testa, sconcertato,
e spalancò la porta rivelando il caos
all’interno dell’appartamento lurido.
«Non è il mio tipo, tesoro» disse,
ironicamente.
Carol era sulla soglia dell’ufficio di
Tony, al Bradfield Moor. La stanza era
uguale a tutte quelle in cui il dottore
aveva lavorato in precedenza: talmente
piena di libri e documenti da rendere
impossibile distinguerne i tratti
architettonici fondamentali. Tony era
come uno scoiattolo, ricostruiva lo
stesso nido attorno a sé anno dopo anno.
«Mi hai lasciato un messaggio in
segreteria? Sembrava urgente.»
Il dottore alzò lo sguardo dal computer
e sorrise. «Grazie di essere venuta.
Credevo mi avresti semplicemente
richiamato.»
«Ero già diretta fuori città. Sto
andando a parlare con i genitori di
Paula.» Carol entrò e si sedette.
«Ah.»
«Già. Allora, cos’hai per me?»
«Tyler ha parlato» disse Tony.
«Stai scherzando?» esclamò Carol.
«Non ti eccitare troppo.» Il dottore
riportò la conversazione avuta con Tyler,
poi guardò Carol con aria d’attesa.
L’ispettrice si passò una mano tra i
capelli. «Il Cobra? Tutto qui?»
Tony annuì. «Ti avevo detto che Derek
Tyler non aveva i mezzi per commettere
reati così organizzati di sua iniziativa.
Gli omicidi non sono stati una sua idea.
Non è stato lui a pianificarli.»
«Perciò torniamo alla teoria di una
sorta di burattinaio che muove le fila di
Tyler? Un burattinaio che ora è tornato
in azione?»
«È una possibilità. Vorrebbe dire che
ha trovato qualcuno suggestionabile
quanto Tyler, cosa che non deve essere
stata facile. O forse ha trascorso gli
ultimi due anni a trovare il coraggio di
agire in prima persona.»
«Oh, dio» gemette Carol. «Sei
consapevole di quanto sia folle questa
teoria?»
«Lo so. Ma è l’unica cosa che ha senso
considerate le informazioni in nostro
possesso. O il burattinaio ha trovato
qualcun altro da controllare, oppure sta
agendo lui stesso.»
Un pensiero angosciante si insinuò
nella mente di Carol. «Che tipo di
persona riuscirebbe a controllare
qualcuno fino a questo punto?» chiese,
quasi con riluttanza.
Tony aggrottò la fronte. «Un individuo
con una personalità forte. Uno che abbia
la capacità di affascinare, conquistare
persino. Qualcuno che conosca a fondo
le tecniche di lavaggio del cervello.
Probabilmente qualcuno che si intende
di ipnosi.»
«Qualcuno come te, quindi?» Carol
provò a farlo sembrare uno scherzo, ma
fallì.
Tony la guardò in modo strano.
«Qualcuno con capacità relazionali
migliori delle mie» disse, ironicamente.
«Ma, sì. Uno psicologo clinico ne
sarebbe capace probabilmente.» Inclinò
la testa da un lato. «Carol, cos’è che non
mi dici?»
«Niente» rispose l’ispettrice ridendo
nervosamente. Non era quello il
momento di menzionare l’ossessione di
Evans per Aidan Hart. Prima voleva
formare una propria opinione al
riguardo. «Devo trovare la connessione
con Tyler. Chiunque sia questo Cobra,
era nella vita di Derek due anni fa. Devo
avvertire le unità in strada di fare
domande al riguardo.»
Tony la osservò per un lungo momento,
riflettendo sulle sue parole. Poi si alzò e
prese il cappotto. «Io invece ho bisogno
di pensare. Ritorno sul luogo in cui
Paula è scomparsa.» Si fermò prima di
arrivare alla porta. «È ancora viva,
Carol. Ne sono certo.»
Il caleidoscopio ruotò. In un pub
alquanto pretenzioso con delle camere in
affitto ai piani superiori, c’era il
detective Sam Evans. Il gestore era sulla
trentina, testa rasata, gilè in pelle sul
torso nudo e pantaloni anch’essi in
pelle. Lucidava dei bicchieri con uno
straccio. Le domande, le foto, il nastro.
Il gestore scrollò le spalle. «Non mi
dicono niente, amico.»
«Quante camere avete?»
«Otto doppie e due singole.»
«Vorrei dare un’occhiata.»
«Quattro sono occupate.» Il gestore
posò lo straccio.
«Vorrei dare un’occhiata specialmente
a quelle.»
L’uomo lo guardò di sbieco. «Ti piace
guardare, eh amico?»
Evans si appoggiò al bancone. Fissò il
gestore con aria minacciosa. «Quando le
scade la licenza, signore?»
In una stanza a meno di cinquanta metri
dal pub, Paula giaceva sul letto con lo
sguardo spento, come una mosca
catturata dal ragno. Aveva la bocca
talmente secca che le labbra si erano
incollate al bavaglio. Il suo rapitore era
tornato a cambiare la cassetta ma
stavolta non l’aveva toccata, si era
limitato a brandire il vibratore a pochi
centimetri dal suo viso. Paula non aveva
mai avuto tanta paura in vita sua. La sua
mente iniziava a dare segni di
cedimento, strane idee affollavano i suoi
pensieri. Se quella fosse stata la sua
punizione per aver dubitato di Carol
Jordan? Se fosse stata la sua punizione
per essere gay? Niente aveva più senso.
Viveva solo per vedere quella porta
aprirsi, sperando che non fosse
quell’uomo a farlo.
Per le strade che formavano una
ragnatela intorno alla preda del ragno, la
vita proseguiva secondo schemi troppo
consolidati per essere modificati dalla
presenza massiccia della polizia. La
gente si muoveva con più attenzione del
solito, ma le transazioni quotidiane non
si fermarono. Dee aveva già trovato
un’altra topaia in cui intrattenere i
clienti. Quel pomeriggio stava
rimbalzando meccanicamente su un
venditore di mobili da ufficio che
grugniva sotto di lei, mentre la moglie
riportava i loro due figli a casa dopo la
scuola. Honey stava comprando eroina
da Carl MacKenzie, entrambi ben
consapevoli che alla frotta di sbirri per
le strade non sarebbe importato nulla
neppure se si fosse trattato di un chilo di
China white.
Un assassino, invece, passeggiava
spavaldo per le strade di Temple Fields,
crogiolandosi in una sensazione di
sprezzante invulnerabilità.
Da sola nell’ufficio comune della
crimini maggiori, Stacey Chen notò
un’email nella posta in arrivo.
Accorgendosi della presenza di un
allegato, scansionò il tutto con il suo
personale programma antivirus. Poi,
appurata l’assenza di minacce, aprì
l’email. Era stata inviata da Nick
Sanders, un ranger del Peak National
Park, e includeva il suo registro del
mese di luglio, nonché un paio di
dozzine di foto di Chee Dale e
Swindale. Mentre Stacey dava
un’occhiata al materiale, sul suo
computer si attivò un altro software. La
detective aveva ideato un programma di
cattura per analizzare ogni file jpeg
riscontrato dalla macchina e
classificarlo in base al numero di serie
della fotocamera che l’aveva generato,
qualora questo fosse presente. Intendeva
offrire il software all’unità investigativa
che si occupava di pedofilia per
facilitare il raggruppamento di file
provenienti da fonti diverse, così da
individuare possibili connessioni tra
individui differenti. Tuttavia, Stacey
voleva prima accertarsi di aver
eliminato qualsiasi bug di sistema.
Mentre riapriva uno dei file su cui
stava lavorando qualche minuto prima,
un agente della scientifica entrò in
ufficio. «Dove posso trovare l’ispettrice
capo Jordan?» chiese.
«È a Manchester. Posso aiutarla?»
L’agente poggiò un fascicolo sulla
scrivania di Stacey. «Siamo riusciti a
estrarre il DNA dai campioni contaminati
ritrovati su Jackie Mayall. È degradato,
è inutilizzabile per cercare riscontri
positivi nel database nazionale, ma è
sufficiente per eliminare possibili
sospettati. Non incastrerà il colpevole
oltre ogni dubbio, ma sarà un indicatore
utile se prenderete l’uomo giusto.»
«Bene. Mi assicurerò che il capo
Jordan legga il fascicolo al suo rientro»
disse Stacey distrattamente, col pensiero
già rivolto a quanto accadeva sul suo
computer.
Quando abbassò lo sguardo, fu
sorpresa di vedere una finestra
lampeggiante al centro dello schermo.
Diceva: ‘Riscontro fotocamera.’ Stacey
sospirò. Probabilmente era lo stesso bug
che cercava di risolvere da una o due
settimane ormai. Invece di riconoscere
le immagini provenienti dalla stessa
fonte come un singolo gruppo, il
software le considerava individualmente
e le identificava come riscontri positivi
con file già presenti nel sistema. La
detective era convinta di aver risolto il
problema una volta per tutte, ma
evidentemente si sbagliava. Il software
le avrebbe semplicemente segnalato che
alcune foto dell’allegato di Sanders
erano state scattate con la stessa
macchina fotografica. Non esattamente
una notizia scioccante. Avrebbe dovuto
lavorarci sodo per risolvere il problema
prima di poter passare il programma ad
altri. Senza nutrire grandi speranze,
cliccò sulla finestra. Rimase a fissare lo
schermo, non riusciva a credere ai suoi
occhi.
«Oh merda» mormorò, allungando una
mano verso il telefono.
Tony ci aveva messo più del previsto a
raggiungere Temple Fields. Prima di
lasciare il Bradfield Moor, era stato
bloccato da Aidan Hart che gli chiedeva
una riunione per discutere di uno dei
suoi pazienti. «Non ora, Aidan» aveva
detto il dottore con impazienza.
«Sì, Tony. Ora. Dopotutto questa è una
delle mattine in cui sei tenuto a essere
qui» aveva insistito Hart.
«Sai che è solo una formalità. Faccio
le ore che devo – che diavolo, anche più
di quelle che devo – e le faccio quando
è meglio per me e i miei pazienti.»
Hart era tornato alla carica con un
sorriso conciliatorio. «Cosa c’è di tanto
importante da non poter aspettare un
paio di ore?»
Tony si era passato una mano tra i
capelli. «Riguarda il killer delle
prostitute. Ha rapito un’agente di
polizia. Credo sia ancora viva.»
«Be’, è una faccenda di cui deve
occuparsi la polizia, no? Non
pretenderanno certo che sia tu a
cercarla?» aveva detto Hart in tono
maliziosamente ironico.
«No. Ma ho avuto delle informazioni
da Tyler e devo capire come usarle per
far progredire l’indagine.»
Hart era sembrato sorpreso. «Tyler ti
ha parlato?»
«Poco. Abbiamo il soprannome
dell’assassino. O almeno della persona
dietro l’assassino.»
Hart aveva sgranato gli occhi. «Un
soprannome?»
«Non posso parlarne, Aidan. È
un’informazione riservata.»
La lingua di Hart era guizzata da un
angolo all’altro della sua bocca. «Credo
di comprendere il concetto di
riservatezza, Tony.»
«Ciononostante...»
«Okay, okay. Ma cosa intendi con ‘la
persona dietro l’assassino’?»
Tony si era accigliato. «Non ho tempo
per questo ora, Aidan. Devo tornare in
città.»
Hart gli aveva messo una mano sulla
spalla. «Mi dispiace, Tony. Ho bisogno
che tu ci sia a questa riunione.» Lo
aveva indirizzato nuovamente verso il
corridoio. «Allora, cos’è questa storia
della persona dietro il killer?»
«È solo un’idea. Non sono ancora
pronto a parlarne» aveva risposto Tony
in modo vago, a disagio nei confronti di
quella che gli sembrava un’intrusione
nell’altra metà della sua vita lavorativa.
Si era chiuso a riccio e aveva
partecipato alla riunione, irritato ma
costretto dal suo senso del dovere a
supportare il proprio paziente al meglio
delle sue possibilità.
Alla fine, era riuscito ad andarsene.
Era a Temple Fields ora, a ripercorrere i
passi del rapitore di Paula, cercando di
capire da dove fosse arrivato. Le sue
labbra si muovevano mentre camminava,
ma il dottore non badava alle
occhiatacce che gli lanciavano i
passanti. Fu fermato due volte dalla
polizia e, in entrambi i casi, gli agenti
che l’avevano approcciato brandendo le
foto di Paula si erano poi mostrati
mortificati quando Tony aveva spiegato
chi era e cosa stava facendo.
«Dov’è? Perché non ce l’hai ridata?
Ci ha ridato tutte le altre. Perché non
Paula? Sappiamo che sei tu ad avere il
potere. Cosa vuoi dimostrare?» diceva
tra sé e sé, camminando, mentre le sue
domande lo facevano girare in tondo più
di quanto non facessero i suoi piedi.
Svoltò l’ennesimo angolo e si imbatté
in Jan Shields e Sam Evans, assorti in
una conversazione sotto la tenda
parasole di un negozio di scommesse.
Senza perder tempo in preliminari,
disse: «Il Cobra – vi dice qualcosa
questo nome?»
Evans scrollò le spalle. «Il cosa?»
Jan scosse la testa. «Niente. Sembra un
soprannome, ma non l’ho mai sentito.»
Tony annuì. «I protettori hanno dei
soprannomi, giusto?»
«Alcuni di loro, sì. Ma come continuo
a ripetervi, non ne sono rimasti molti in
zona» disse Jan.
«Potete chiedere in giro? Magari
qualcuno ne ha sentito parlare» suggerì
Tony.
«Certo. Ma qual è l’attinenza al
caso?» chiese Evans.
Tony si guardò intorno come se la
risposta si aggirasse in uno degli edifici
circostanti.
«Tony?» sollecitò Jan.
«Credo sia una vecchia conoscenza di
Derek Tyler» disse il dottore,
riprendendosi. «Qualcuno che potrebbe
far luce su questi omicidi.»
«Non ricordo di averlo letto nel suo
fascicolo» disse Evans.
«Non è scritto nel suo fascicolo. Lo ha
detto a me.» Tony continuava a guardarsi
attorno, la sua mente era lontana.
«È riuscito a far parlare Tyler?»
domandò Evans, incredulo.
Distratto, Tony fece un piccolo passo
in avanti superando i due agenti. «Non
abbastanza» biascicò. «E non credo che
mi dirà altro finché non dimostrerò di
meritarmelo.»
Si allontanò, ignaro degli sguardi
sbigottiti di Shields e Evans. Proseguì
fino alla fine della strada, poi continuò
tracciando un tragitto attraverso stradine
e vicoli, finché non arrivò al punto in cui
Paula era stata sentita per l’ultima volta.
«Come credevo» disse. «Doveva
esserci un cerchio.»
Si appoggiò al portone, totalmente
inconsapevole della sua importanza. «Ti
piace mandarci dei messaggi. Allora
perché ti sei ammutolito. Sei il Cobra.
Ami il suono della tua voce. Perché non
ci parli più? È per qualcosa che
abbiamo fatto? Qualcosa che abbiamo
detto? O è il contrario?» Gemette e si
portò le mani sul viso. «Quanto vorrei
capire cosa diavolo sta succedendo.»
Al suo ritornò, Carol trovò Kevin ad
aspettarla in ufficio. L’ispettrice aveva
affrontato il viaggio di ritorno da
Manchester in preda a emozioni
contrastanti. L’incontro con i genitori di
Paula era stato straziante. Il padre della
detective, un elettricista che lavorava in
proprio, era sprofondato nel panico alla
sola richiesta di Carol di incontrarlo.
Era convinto che l’ispettrice volesse
informarlo della morte di sua figlia. La
signora McIntyre era sembrata immobile
come un blocco di ghiaccio, come se
cercasse di fermare il tempo per non
dover ascoltare le notizie portate da
Carol.
Quando poi l’ispettrice aveva spiegato
la situazione, il terrore del padre si era
trasformato, come prevedibile, in
rabbia. Pretendeva risposte che Carol
non aveva e voleva qualcuno da
incolpare. Carol incassò la sfuriata, fece
il possibile per rassicurare i due coniugi
e lasciò la scialba villetta a schiera con
la promessa di tenerli informati su ogni
sviluppo.
Ma l’incontro l’aveva fatta sentire
esausta e colpevole. L’eccitazione che
aveva provato alle notizie datele da
Stacey non aveva fatto altro che
aumentare il senso di colpa. Come
poteva gioire di qualcosa mentre Paula
era alla mercé di un assassino spietato
che traeva fin troppo piacere
nell’uccidere per lasciarla viva ancora a
lungo?
Come se tutto ciò non bastasse, Carol
doveva anche decidere come procedere
riguardo ad Aidan Hart. Se la bizzarra
ipotesi di Tony era giusta e avevano
davvero a che fare con un manipolatore
esperto che aveva indotto qualcun altro
a commettere i suoi crimini, l’ispettrice
non poteva ignorare quanto scoperto da
Sam Evans riguardo al direttore del
Bradfield Moor. Considerata la sua
posizione, nessuno meglio di lui poteva
conoscere ogni dettaglio dei crimini di
Tyler. Era certo che si trovasse a Temple
Fields appena prima dell’omicidio di
Sandie Foster. Inoltre, aveva tutte le
qualità che Tony riteneva necessarie per
esercitare un simile controllo sulla
mente altrui.
Carol sapeva che avrebbe dovuto
discuterne con Brandon, ma finché non
avesse avuto qualcosa di concreto tra le
mani, era riluttante ad ammettere di
essere così evidentemente in torto.
Voleva parlarne con Tony, ma era frenata
dal possibile conflitto d’interessi. Non
aveva mai conosciuto Hart di persona e
sapeva poco dei rapporti professionali
tra Tony e il suo capo. Sapeva che non
erano molto stretti, ma in fondo questo si
poteva dire di ogni altro rapporto del
dottore. Fatta eccezione per quello tra
lui e l’ispettrice, probabilmente. Ad
ogni modo, Carol non voleva metterlo in
una posizione scomoda nel caso Hart
fosse un collega per cui il dottore
nutriva rispetto e ammirazione.
L’ispettrice fu lieta di trovare Kevin in
ufficio al suo ritorno, voleva dire che
avrebbe avuto qualcosa di concreto da
fare, qualcosa che non lasciava spazio
per rimuginare. «Buone notizie, vero?»
disse, gettando il suo cappotto sullo
schedario.
«Quella Stacey è fenomenale»
concordò Kevin. «Non avrei mai
pensato di fare quello che ha fatto.»
«Neanch’io. A proposito, dov’è?»
«È andata a comprare un vaso. A
quanto pare non ne abbiamo uno.»
Carol rimase spiazzata. «Un vaso?»
«Sì. Sa, quella cosa alta in cui si
mettono i fiori.» Il sergente sorrise in
modo sfacciato.
«Grazie, Kevin. E perché avremmo
bisogno di una cosa alta in cui si
mettono i fiori?»
«Perché ha ricevuto un bouquet, capo»
disse Kevin, gongolando in maniera
evidente nel darle la notizia.
«Ho ricevuto un bouquet?» ripeté,
sentendosi stupida. «Dove?»
Kevin indicò l’ufficio comune con il
pollice. «Stacey l’ha sistemato nel
cestino per ora.»
Carol era già diretta verso il cestino
incriminato. Aggirò la scrivania di
Stacey e si bloccò davanti a un enorme
bouquet di rose e gigli appoggiato al
lato della scrivania. «Oh, cazzo»
mormorò, abbassandosi a prendere il
biglietto pinzato sul cellofan.
Strappò la busta esterna e si sentì
sprofondare quando lesse: ‘Bentornata
al mondo. Sei una donna molto speciale.
Con affetto, J.’ «Cazzo, cazzo, cazzo»
disse, accartocciando il biglietto e
ricordandosi all’ultimo secondo di
metterlo in tasca invece di buttarlo nel
cestino. Tornò nel suo ufficio a grandi
passi rivolgendo a Kevin un sorriso
teso. «Allora, cos’abbiamo?»
«Be’, lei ha dei fiori» rispose il
sergente, non accorgendosi che la
cordialità dell’ispettrice era svanita.
«Basta con questi fiori. Aggiornami»
sbottò Carol.
Kevin ricoprì la scrivania delle foto
stampate da Stacey, sistemandole in
quattro gruppi. «Queste sono le foto che
ci ha inviato Nick Sanders. Sono state
scattate con quattro macchine
fotografiche diverse. Quelle che ci
interessano sono queste tre.» Indicò un
trio di foto in cui Carol riconobbe subito
Swindale. «Stando al software di
Stacey, sono state scattate con la stessa
fotocamera con cui è stata scattata la
foto di Tim Golding che poi è finita sul
computer di Ron Alexander.»
Lentamente, un sorriso soddisfatto si
fece strada sulle labbra di Carol.
«Quindi è ragionevole ipotizzare che sia
stato uno di questi tre ranger a scattare
quella foto di Tim» disse.
«Sembrerebbe così.»
«Come vuoi procedere?» chiese
Carol.
«Be’, sappiamo che la macchina
fotografica in questione è stata
acquistata in contanti a Birmingham,
quindi è improbabile che sia di
proprietà del parco nazionale. Perciò
pensavo di chiedere ai colleghi nel
Derbyshire di perquisire
simultaneamente le abitazioni e gli uffici
dei tre ranger e di sequestrare ogni
fotocamera trovata, così da poter fare un
raffronto.»
Carol rifletté. «Smuoveremmo troppo
le acque» disse. «Se cominciamo con le
perquisizioni, avvertiamo l’assassino
che gli stiamo addosso. Avrebbe il
tempo di inventare un alibi, o addirittura
sparire. No. Fatti dare l’indirizzo dei
ranger dal parco nazionale. Porta tre
squadre nel Derbyshire, tallonateli, e
quando tutti siete in posizione,
arrestateli per sospetto omicidio. Poi
chiederemo ai colleghi del Derbyshire
di cominciare con le perquisizioni
mentre noi li interroghiamo qui in
centrale. Voglio mettergli paura, voglio
allontanarlo dal suo territorio, voglio
vederlo sudare.»
«Dove le prendo tre squadre?»
domandò Kevin.
«Va’ dall’ispettore Merrick. Digli che
ti ho dato il permesso di prendere
cinque uomini.» Carol alzò un indice in
segno di avvertimento. «Ma non Sam
Evans.»
Kevin corrugò la fronte. «Ma è stato
lui a convincere Sanders a inviarci le
foto.»
«Esattamente» disse Carol. «Ma non
gli importava abbastanza da voler
rimanere sul caso. Tienilo alla larga
dalle fasi conclusive, Kevin. Forse
imparerà qualcosa.» Carol sapeva di
essere severa, ma voleva tenere a freno
lo spirito da cane sciolto di Sam Evans
e fare in modo che il detective
imparasse a controllarlo, invece di
lasciarsi controllare da esso. Era una
lezione che Carol comprendeva, era
quella che aveva trovato più difficile da
imparare nei primi stadi della sua
carriera. Non c’era nulla di male a
rischiare, ma era necessario saper
distinguere il marcio dal sano, e Carol
aveva la sensazione che Evans fosse
ancora molto lontano dal saperli
riconoscere.
Sto assaporando ogni minuto di
questa situazione, lo ammetto: gli
sbirri che girano a vuoto perché ho
fatto sparire uno di loro; i titoli in
prima pagina sul giornale della sera e
un editoriale che insulta la polizia per
aver messo in pericolo un agente senza
rinforzi adeguati. Naturalmente non è
stata l’incompetenza a mettere nei guai
Paula McIntyre, è stata la mia
superiorità. Ma perdono i media per
non averlo compreso, perché fa
sembrare la polizia ancora più
impotente. E il potere è come l’energia:
limitato. Se uno lo perde, qualcun altro
ne beneficia. Io, in questo caso. Ho il
potere di manipolarli, di esacerbare le
loro frustrazioni e di renderli ridicoli.
Il mio potere è evidente in tutto
quello che mi circonda. Anche quando
sono a casa, le meraviglie della
tecnologia moderna mi consentono
accesso istantaneo al terrore e al
dolore di Paula. La mia scimmia
addomesticata mi porta nuovi video a
intervalli regolari. Posso guardarla,
svilita e indifesa, sullo schermo della
mia tv o del mio computer, mentre siedo
sul divano, senza vestiti, in tutta la mia
gloria. Se voglio che le venga fatto
qualcosa, devo solo ordinarlo.
Accarezzo il mio corpo, immaginando
la sua bocca su di me mentre ubbidisce
alla mia volontà, gli occhi fissi sui
miei, ansiosi di dare piacere.
L’immaginazione può essere molto
meglio di una realtà che si rivela
deludente così spesso. Non che mi
dispiaccia afferrare il piacere quando
si presenta l’occasione. Ho sempre
avuto talento nel piegare le donne alla
mia volontà e mi è sempre piaciuto
farlo. Ma è niente in confronto a
quest’esercizio di dominazione
assoluta. Presto, le lame affonderanno
nella sua vagina, il sangue comincerà a
scorrere e a raccogliersi tra le sue
gambe, e il suo corpo si contorcerà
delirante dal dolore...
A volte guardo uno degli altri video,
uno di quelli che finiscono subito. Ma
mi fanno venire troppo presto, e allora
devo ricominciare da capo a godermi
Paula.
L’unica cosa che mi preoccupa è
come fare a superarmi dopo stavolta.
Dopo aver congedato Kevin, Carol
non era più riuscita a concentrarsi.
Aveva provato a chiamare Tony, ma
aveva risposto la segreteria telefonica.
Aveva preso un caffè con Stacey,
congratulandosi con lei per l’ottimo
lavoro svolto e insistendo affinché
accettasse i fiori di Jonathan. Era
rimasta circa mezz’ora nella sala
operativa in compagnia di Merrick,
deprimendosi di fronte alle dozzine di
nomi che le ricerche di quella mattina
avevano collegato al rapitore ignoto di
Paula. Alla fine, Carol aveva deciso di
fare quello per cui aveva criticato
Merrick in precedenza; aveva bisogno di
indagare sul campo, di fare qualcosa che
le sembrasse più costruttivo rispetto a
revisionare il lavoro altrui.
All’inizio, aveva semplicemente fatto
un giro a Temple Fields, fermandosi a
parlare con gli agenti ancora impegnati a
bussare alle porte e fermare i passanti.
Non guastava mai offrire una parola di
incoraggiamento alle truppe, farsi
vedere al lavoro sul campo, proprio
come loro. Mentre parlava con un
giovane agente in uniforme, Carol notò
Dee Smart varcare la soglia ben
illuminata di un locale dall’altra parte
della strada. L’ispettrice terminò la
conversazione con una metaforica pacca
sulla spalla e attraversò, dirigendosi
verso lo Stan’s Café.
Dee era già seduta a un tavolo con una
tazza di tè e una sigaretta. Carol occupò
la sedia di fronte a lei e sorrise. «Ciao,
Dee.»
Dee roteò gli occhi. «Senti, vi ho già
detto tutto. Mi conoscete meglio del mio
ex marito ormai. Non fate bene a miei
affari, sai?»
«E io apprezzo il tuo aiuto, Dee. Ma è
emerso un nuovo dettaglio di cui vorrei
discutere con te. Per caso Sandie ti ha
mai parlato di qualcuno che si fa
chiamare il Cobra?»
Dee la guardò a bocca aperta,
rivelando una varietà poco invitante di
brutte otturazioni e denti macchiati. «Il
Cobra?»
Carol scrollò le spalle come per
scusarsi. «Lo so, suona ridicolo. Ma
Sandie ti ha mai parlato di qualcuno con
questo soprannome?»
Dee scosse la testa, aveva
un’espressione incredula. «Tu chiedi a
me del Cobra?»
L’attenzione di Carol schizzò alle
stelle. Quella non era la reazione che si
aspettava. L’incredulità di Dee non era
dovuta al soprannome ma al fatto che
Carol le avesse posto quella domanda.
«Sai di chi sto parlando» disse Carol,
sapendo di avere ragione.
Dee sbuffò. «Credi davvero che te lo
direi? Proprio a te?»
La cosa non aveva senso. «Che vuol
dire proprio a me?»
Dee rimase in silenzio. Si risistemò
sulla sedia, come se volesse evidenziare
la distanza tra sé e Carol.
Carol insistette. Non poteva fare
altrimenti. «Dee, se sai qualcosa,
qualsiasi cosa, ti conviene dirmelo. C’è
la vita di una donna in ballo, e non mi va
di fare giochetti. Se devo arrestarti per
ostruzione alla giustizia, lo farò.»
Dee schiacciò la sigaretta e si alzò.
«Credi di farmi paura con le tue
minacce? Ascoltami, sbirro, ci sono
persone lì fuori che mi fanno molta più
paura di te e di qualsiasi cosa tu possa
farmi. Non so di che cazzo stai parlando,
okay?»
Carol balzò in piedi, tentando di
mettersi tra Dee e la porta. Ma Dee la
scostò con la forza e accelerò il passo.
«Dee!» urlò Carol. Nel locale scese il
silenzio, tutti gli occhi erano puntati
sulle due donne.
«Va’ a farti fottere! Non ho niente da
dirti» gridò Dee, uscendo dal locale
come una furia.
Consapevole di essere rimasta sola al
centro dell’attenzione, Carol sentì il
viso diventarle rosso scarlatto.
Qualcuno le toccò il braccio e
l’ispettrice si voltò, pronta a dare una
lezione a chiunque ne avesse bisogno.
«Tony?» disse, sorpresa. «Non ti avevo
visto. Mi stavi seguendo?» Per un
momento, si chiese se il dottore fosse in
una sorta di missione per proteggerla.
«No, Carol. Camminavo e riflettevo.»
La guidò verso il tavolo in un angolo in
fondo al locale, dove stava sorseggiando
un caffè e assimilando l’atmosfera prima
che Carol arrivasse. «Avevi occhi solo
per la donna con cui stavi parlando»
disse.
«Quella era Dee Smart.»
«La stessa che condivideva la stanza
con Sandie?»
Carol incrociò le braccia. «Ho
mandato tutto a puttane.» Increspò le
labbra, furiosa con sé stessa. «Sa
qualcosa riguardo al Cobra. Ha
cominciato ad agitarsi appena ho fatto
quel nome. Sa qualcosa, ma ora di certo
non verrà a dirla a me.»
«Cos’ha detto esattamente?»
Carol chiuse gli occhi e richiamò la
sua abilità nel ricordare i dialoghi. «Ha
detto: ‘Credi davvero che te lo direi?
Proprio a te?’ E poi ha aggiunto: ‘Credi
di farmi paura con le tue minacce?
Ascoltami, sbirro, ci sono persone lì
fuori che mi fanno molta più paura di te
e di qualsiasi cosa tu possa farmi.’»
«Interessante» commentò Tony.
«Che vuoi dire?»
«Non ne sono ancora sicuro. Sono
vicino a qualcosa, ma continua a
sfuggirmi» disse lentamente. Carol
sapeva che era inutile insistere. Sebbene
a volte le sue ipotesi sembrassero il
frutto di una mente malata, il dottore non
le esponeva mai finché non era sicuro
della loro validità. Carol non poteva far
altro che aspettare, per quanto frustrante
potesse essere quando in ballo c’era una
vita.
«Sarebbe carino se ci arrivassi
presto» si lamentò Carol.
«Vuoi che parli con Dee?»
Carol ci pensò. Non era una brutta
idea tutto sommato. «Credi che
riusciresti a ottenere qualcosa?»
Allargò le mani in un gesto
autoironico. «Be’, non sono un
poliziotto. E non sono una donna.»
Carol non riuscì a resistere. «L’avevo
notato.»
Tony fece una smorfia. «Forse lo
noterà anche Dee.» Scostò la sedia dal
tavolo.
«Tony...» cominciò Carol.
Il dottore la guardò incuriosito. «Sì?»
L’ispettrice sospirò. «Niente. Può
aspettare. Non è il posto più adatto
questo.»
Tony si guardò intorno. «Non posso
darti torto. A dopo, allora.»
Carol lo osservò andar via,
chiedendosi quale fosse il momento
giusto per dire a Tony che c’era la
possibilità che il suo capo fosse un
serial killer.
Sam Evans non credeva nella fortuna.
Gli idioti credevano nella fortuna. Lui
credeva nel duro lavoro, nel preparare il
terreno e nel cogliere l’attimo. Era
quella la differenza tra avere successo e
proseguire sulla lenta strada che non
portava da nessuna parte. Bisognava
cercare qualcosa che desse un
vantaggio, ed era quello che Evans
aveva fatto per tutto il giorno.
Desiderava disperatamente essere
cancellato dalla lista nera di Carol
Jordan. Non gli dispiaceva danneggiare
l’ispettrice, ma non voleva che fosse lei
a danneggiare lui. Oltretutto, sebbene
Evans bramasse l’attenzione dei capi,
quello non era di certo il tipo di
attenzione che voleva e doveva
buttarselo alle spalle, il prima possibile.
Così, nonostante la ripetitività del suo
compito, aveva tenuto le orecchie ben
aperte in cerca di quel dettaglio fuori
dall’ordinario. Le informazioni rivelate
da Tony Hill riguardo a Tyler e il Cobra
sembravano offrirgli la svolta che
cercava. Avrebbe solo dovuto trovare
qualcuno con i requisiti giusti.
Era calato il buio e il freddo sulle
strade di Temple Fields, eppure Evans
non era ancora riuscito a trovare nulla di
utile. Ma proprio quando era stato sul
punto di arrendersi, aveva sentito quel
formicolio familiare all’attaccatura dei
capelli che lo avvertiva di essere vicino
a qualcosa.
Aveva fermato una giovane prostituta
dagli occhi assonnati e ora le stava
mostrando una foto di Paula. La donna
distolse lo sguardo frettolosamente e
rabbrividì.
Evans era pronto a scommettere che
non fosse un brivido di freddo.
«Andiamo a berci qualcosa, tu e io»
disse, prendendole il gomito e
guidandola verso il pub più vicino.
Fortunatamente per lui, era il tipo di
locale in cui la compagnia che si era
scelto non avrebbe fatto scalpore. Il
detective trovò un tavolo in fondo alla
sala e chiese alla donna cosa volesse
bere.
Quando tornò con un Bacardi Breezer
e la sua pinta di Guinness, lei era ancora
lì. «Allora, come mai conosci Paula?»
chiese.
La donna fece un lungo sorso dalla
bottiglia e si pulì la bocca con il dorso
della mano. Quel gesto la fece sembrare
una dodicenne. «È stata carina con me
quando Jackie è morta. Me la ricordava,
sai? Cioè, era gentile. Ma comunque una
con cui non si scherza.»
«Già, è proprio Paula. Allora, come ti
chiami?» Il detective si portò una mano
al petto. «Io sono Sam.»
«Ciao, Sammy. Io sono Honey. E così
ha preso Paula? Lo stesso tipo che ha
ucciso Jackie?» Tirò fuori un pacchetto
di sigarette e gliene offrì una.
«Così sembra.»
«Perciò adesso fate sul serio?»
«Facevamo sul serio anche prima.
Sono sicuro che te l’abbia detto anche
Paula.»
Honey scrollò le spalle. «Così diceva.
Ma sapevo che non vi sareste
scapicollati per un paio di prostitute
morte.»
«Conoscevi Jackie?»
Honey esalò un sottile soffio di fumo.
«È per questo che Paula è venuta da me.
Per vedere se sapevo qualcosa sul tizio
che l’ha uccisa. Mi ha anche mostrato
delle foto segnaletiche. Ma non ho
riconosciuto nessuno.»
Evans non aveva intenzione di
arrendersi. «Però hai avuto tempo per
pensare da allora. Ricordi se Jackie
avesse paura di qualcuno?»
Honey lo guardò con aria beffarda.
«Con la vita che facciamo, bisognerebbe
essere davvero stupide per non passare
la maggior parte del tempo a farsela
sotto.»
«Ma c’era qualcuno in particolare che
la turbava?» Evans roteava il boccale
con disinvoltura, facendo attaccare la
schiuma alla parte interna del vetro.
«Dopo aver parlato con Paula, mi
ricordo che Jackie mi ha messa in
guardia da un cliente. Stavo per salire in
macchina con lui ma Jackie mi ha
praticamente trascinato via. Ha detto che
una volta il tizio l’aveva malmenata e
poi l’aveva scaricata senza pagare.»
La porta del locale si aprì per lasciar
entrare Jan Shields. Evans la vide con la
coda dell’occhio e scosse leggermente
la testa. O Shields non lo notò, oppure
aveva notizie che non potevano
aspettare. Il sergente si diresse verso di
loro. «Che tipo di macchina?» si affrettò
a chiedere Evans.
«Una di quei cosi 4x4 enormi. Un
fuoristrada. Nero.»
La connessione fu immediata nella
mente di Evans: Aidan Hart. Il detective
aveva avuto ragione sin dall’inizio e
Jordan si era sbagliata. Se il profilo di
Hart combaciava con questo Cobra che
secondo Tony Hill era coinvolto negli
omicidi, allora l’alibi del direttore non
bastava a scagionarlo. «Non sai di che
tipo?» insistette. «Che modello?»
Honey alzò gli occhi al cielo. «Ti
sembro una che ne capisce di macchine,
Sammy?»
Jan raggiunse il tavolo e si sedette.
Honey trasalì come se avesse ricevuto
una bastonata. Afferrò il pacchetto di
sigarette e scivolò verso l’estremità
della panca per andarsene. Jan allungò
una mano per fermarla. «Va tutto bene,
Honey. Non sono qui come agente della
buon costume. Niente di così triviale.»
Honey scansò la mano del sergente.
«Sì, be’... ho un affitto da pagare io. Ci
vediamo, Sammy.»
«Cazzo» disse il detective, mentre
Honey tornava in strada. «Ero vicino a
qualcosa di concreto.»
Jan sembrò dispiaciuta. «Scusa,
amico. Lavorare alla buon costume ha i
suoi pregi ma anche i suoi svantaggi.
Come va?»
Evans allontanò quel che restava della
sua birra. Non aveva intenzione di
condividere le sue idee con nessuno. «Si
gira a vuoto, lentamente. Tu?»
«Idem. Nessuno ha mai sentito
nominare questo Cobra di cui parla Tony
Hill. Non è una prostituta, non è un
pappone, non è un cliente. È una perdita
di tempo, secondo me.»
Evans si alzò. «Niente di nuovo
quindi. Andiamo a far deprimere
qualcun altro.»
Jan lo seguì. «Continuo a vedere il
volto di Paula. È come se mi
perseguitasse. Come se l’avessi delusa.»
«Credi ci sia qualche possibilità di
trovarla viva?»
Jan chiuse gli occhi per un momento,
come se colpita da una fitta di dolore.
«La mia opinione sincera?»
«Sì.»
«Credo che Tony Hill spari un sacco
di cazzate. Credo che Paula sia già
morta.»
Kevin chiuse la porta della sala
interrogatori alle sue spalle. Aveva
appena trascorso quaranta minuti con
l’ultimo dei tre ranger arrestati per
sospetto omicidio. Nonostante le
lamentele dei rispettivi avvocati
d’ufficio, il sergente aveva deciso di
occuparsi personalmente di ogni
interrogatorio. Tuttavia, non aveva
trovato una sola discrepanza nelle loro
versioni, nulla da usare a suo vantaggio.
Nick Sanders, Callum Donaldson e Pete
Siveright negavano di aver scattato le
foto di Swindale.
Erano stati più che disponibili
nell’identificare gli altri scatti, ma tutti e
tre avevano negato categoricamente di
aver fotografato quella valle nascosta.
Avevano negato di aver mai visto Tim
Golding o Guy Lefevre, se non
attraverso i media. Sostenevano che i
registri del parco avrebbero confermato
la loro lontananza da Bradfield nel
giorno in cui Tim era stato rapito, cosa
che di per sé era alquanto irrilevante
dato che tutti e tre avevano finito di
lavorare alle sei e nessuno dei due
bambini era stato rapito prima delle
sette. Avrebbero avuto tutto il tempo di
lasciare il parco e guidare fino a
Bradfield.
Bronwen Scott seguì Kevin fuori dalla
sala interrogatori. La freschezza e la
prontezza dell’avvocato risultavano
seccanti. «Non avete niente contro il mio
cliente» disse. «Intendo presentare
all’agente di custodia una richiesta di
rilascio per Callum Donaldson.»
Kevin si appoggiò alla parete. Come
sempre succedeva quando era stanco, la
sua pelle era diventata bianco latte e le
sue lentiggini risaltavano come stigmate
in miniatura. «Nessuno andrà da nessuna
parte finché la polizia del Derbyshire
non ci avrà aggiornato riguardo alle
perquisizioni che sta svolgendo per
nostro conto.»
«Potrebbero volerci ore» protestò
l’avvocato.
«Allora vada a casa. La chiameremo
quando avremo i risultati delle
perquisizioni e saremo pronti per un
altro interrogatorio» rispose Kevin, non
preoccupandosi di nascondere la sua
ostilità. «Uno di quei tre uomini ha
rapito e ucciso due bambini. La sua
comodità non rientra tra le mie maggiori
preoccupazioni, avvocato Scott.»
La donna inarcò le sopracciglia.
«Speravo che l’ispettrice capo Jordan
avrebbe introdotto il concetto di civiltà
in questa centrale. Evidentemente mi
sbagliavo.» Oltrepassò il sergente
diretta verso la cella di custodia.
Quando raggiunse la soglia, l’agente di
custodia spalancò la porta.
«Kevin,» gridò l’uomo «ho in linea un
detective di Buxton che vuole parlare
con te.»
Bronwen Scott si voltò mentre Kevin
si affrettava lungo il corridoio.
L’avvocato aveva l’espressione di chi
aveva appena addentato un sottaceto. Il
sergente godette nel rivolgerle un
sorriso raggiante mentre la superava.
«Sembra che non dovrà aspettare a
lungo, dopotutto.» Afferrò il telefono e
si presentò. Per un paio di minuti rimase
in ascolto, dicendo solo «Sì... sì...» Alla
fine disse: «Ripetimi marca, modello e
numero di serie.» Prese carta e penna e
appuntò i dettagli. Poi concluse:
«Grazie, amico. Ti devo un favore.
Fammi avere le scartoffie il prima
possibile.»
Mise giù la cornetta e si girò verso
Bronwen Scott per mostrarle il suo
sorriso in tutto il suo splendore. «La
polizia del Derbyshire mi ha appena
informato di aver trovato una macchina
fotografica il cui numero di serie
corrisponde a quello dell’apparecchio
usato per scattare le foto di Swindale e
di Tim Golding. Indovini dove è stata
trovata?»
Le labbra di Scott si arricciarono in
un’espressione di sdegno. «Vada avanti,
sergente.»
«È stata trovata nella camera da letto
del suo cliente.» Kevin si appoggiò al
bancone che aveva accanto e incrociò le
braccia. «Suppongo che non abbia più
fretta di andarsene. Sbaglio, avvocato
Scott?»
Guidare a Temple Fields di notte era
tutta un’altra esperienza rispetto a
passeggiarci da pedone, secondo Tony.
La prospettiva sul territorio era alquanto
diversa. Quando si camminava, la
prostituzione faceva sentire la sua
presenza, ma non era difficile da
ignorare. Al volante, invece, il sesso a
pagamento si proponeva in modo
sfrontato; chi lo vendeva si metteva in
bella mostra per il traffico su quattro
ruote, non per quello pedonale.
Al suo primo passaggio, Tony era
talmente assorto nella peculiare
atmosfera notturna di quelle strade da
non notare Dee. Al secondo passaggio,
la vide a un incrocio che si sporgeva
verso la strada sul bordo del
marciapiede, a gambe aperte. Il dottore
rallentò e fermò l’auto accanto a lei.
Mentre il finestrino si abbassava, Dee
fece un passo in avanti e si chinò,
mettendo la scollatura in bella vista.
«Cosa vogliamo fare?»
«Sei Dee?»
«Sono io. Qualcuno ti ha consigliato di
venire da me, eh dolcezza? Be’, sei nel
posto giusto. Cos’hai in mente?»
Tony era lievemente agitato. Era tutto
molto più complicato nella realtà. «Non
sono un cliente, Dee. Vorrei solo
parlarti.»
Dee fece un passo indietro, lasciando
la scollatura in bella vista. «Sei uno
sbirro?» disse, sospettosa.
Tony indicò prima l’auto e poi sé
stesso. «Ho l’aria di essere uno sbirro?
No, non sono uno sbirro.»
«Se è così, parlare ti costerà.»
Tony annuì. Sembrava una richiesta
ragionevole. Dopotutto, la gente pagava
per parlare con lui. «D’accordo.
Pagherò. Vuoi salire?»
Dieci minuti dopo, il dottore
parcheggiò davanti a un raffinato bar ai
margini del distretto finanziario. Dee
aveva tentato di fare conversazione
durante il tragitto, ma Tony le aveva
chiesto di aspettare. «Non sono bravo a
guidare e parlare contemporaneamente»
aveva detto. «Rischieremmo di finire in
mezzo al nulla.»
Raggiunsero l’entrata. Con evidente
stupore di Dee, Tony aprì la porta per
lasciarla passare. Entrati nel locale,
furono approcciati dalla sagoma
inconfondibile di un buttafuori.
«Aspettate un momento, dove credete di
andare?» chiese l’uomo, con fare
aggressivo e impertinente.
«Che ti interessa, idiota?» sbottò Dee.
«Non vogliamo gente come te qui
dentro» disse il buttafuori.
Tony intervenne con un garbo che
riusciva a mantenere solo in discussioni
che non avevano nulla di personale. «E
che tipo di gente sarebbe?»
«Restane fuori, amico» lo avvertì il
buttafuori.
«La signora è con me. Siamo qui per
bere qualcosa in tranquillità» rispose
Tony educatamente.
«Avete scelto il posto sbagliato.»
Dee posò una mano sul braccio del
dottore. «Lascia perdere, Tony. Andiamo
da un’altra parte.»
Tony le diede un paio di colpetti sulla
mano. «No, Dee. Non ce ne andiamo.»
Si rivolse al buttafuori, glaciale e
risoluto. «Non ha alcun motivo di
impedire alla mia amica di entrare. È
vestita non meno discretamente di
almeno altre tre donne qui dentro. Non è
qui per procacciare clienti, al contrario
degli idioti incravattati al bar che hanno
‘servizi finanziari’ stampato in fronte, e
al contrario di molti dei vostri clienti, la
mia amica non ha intenzione di usare la
toilette per consumare droga. Quindi, a
meno che non riesca a trovare una
ragione valida per cui non dovremmo
farlo, ora ci andremo a sedere a uno dei
vostri tavoli e faremo due chiacchiere
davanti a un drink.» Annuì educatamente
e guidò Dee oltre il buttafuori.
Frastornato, l’energumeno li guardò
come un toro che ha appena mancato il
matador. Tony scelse un tavolo, scostò la
poltroncina per far accomodare Dee e
prese posto di fronte a lei. La ragazza gli
sorrise. «Come ci sei riuscito?»
Tony si finse offeso. «Carisma
innato?»
Dee rise. Era una risata profonda,
gutturale, che sapeva di Embassy Regal
e di troppe ore piccole. «Direi più palle
d’acciaio.»
«Ah, ecco qual è stato il problema in
tutti questi anni...» Tony alzò lo sguardo,
mentre una cameriera si avvicinava per
lasciare sul tavolo una ciotola di cracker
di riso giapponesi. Il dottore sospettava
che la prontezza del suo arrivo
derivasse dalla curiosità di vedere
l’uomo che aveva azzittito il buttafuori.
Tony le sorrise allegramente.
«Buonasera. La mia amica desidera...»
Rivolse a Dee uno sguardo
interrogativo.
«Un Rum and black» disse Dee.
«Per me un calice di Shiraz cabernet.
Grazie.» La cameriera se ne andò
rivolgendo ai due un’ultima occhiata
curiosa.
Dee si rilassò sulla poltroncina in
pelle, godendo della sua comodità.
«Allora, di cos’è che vuoi parlare?»
«Credo che tu lo sappia.»
Dee inclinò la testa all’indietro e
sospirò, con l’aria di chi aveva già
intuito che era tutto troppo bello per
essere vero. «Ha per caso a che fare con
quello che voleva sapere oggi la
poliziotta?»
Tony non disse nulla, si limitò a
fissarla con un’aria d’attesa.
Dee si sporse in avanti, appoggiandosi
sul tavolo. «Chi è lei per te? Perché fai
il suo lavoro sporco se non sei uno
sbirro?» chiese a brutto muso.
«Sono uno psicologo.»
«Uno strizzacervelli? Mi farai
stendere sul lettino per parlare della mia
infanzia?» disse, in tono sprezzante.
«Non ho un lettino.»
Dee gli sorrise maliziosa. «Peccato.
Non mi dispiacerebbe stendermi su un
lettino per te.»
«La vita è piena di delusioni, Dee.
Perché hai tanta paura del Cobra?»
«Chi ha mai detto di avere paura?» La
sua temerarietà era talmente falsa da
risultare quasi ridicola.
«Per quale altra ragione ti rifiuteresti
di dirci quello che sai quando in ballo
c’è la vita di una donna? Non credo che
il tuo silenzio sia dovuto a questioni di
lealtà.»
Dee distolse lo sguardo. «Perché
dovrei rischiare la pelle per uno
sbirro?» Si risistemò sulla poltroncina
con aria impaziente. «Non sapete con
chi avete a che fare, vero?»
«Qualsiasi cosa sia, possiamo
proteggerti. Chi è il Cobra, Dee?»
La ragazza perse la calma,
mascherando la paura con una rabbia
feroce. «Non ci arrivi proprio, eh? Non
sarai uno sbirro, ma fai comunque parte
della squadra. Gli unici di cui vi
preoccupate siete voi stessi. Sì, ho
paura. E faccio bene ad averne. Nessuna
delle tue promesse mi farà cambiare
idea.» All’improvviso era in piedi e
afferrava la sua borsa.
«Dee, aspetta!» insistette Tony. Ma la
ragazza se ne andò senza voltarsi. «Non
hai neanche bevuto il tuo...» La
cameriera si avvicinò reggendo un
vassoio all’altezza della spalla. «...Rum
and black» sospirò il dottore.
Rimase da solo al suo tavolo per un
bel po’, fissando il suo vino rosso e
lanciando di tanto in tanto un’occhiata al
bicchiere di rum e ribes nero di fronte a
lui. I pensieri si avvicendavano nella
sua mente mentre si sforzava di stabilire
una sequenza logica tra le cose che
sapeva e quelle che ipotizzava. La folla
di inizio serata si disperse e il locale
entrò in una sorta di intervallo prima di
rianimarsi dopo le nove. Quando fu tra
gli ultimi clienti rimasti nel bar, Tony
prese il cellulare e digitò un numero che
conosceva bene.
«Carol Jordan» sentì dire il dottore.
«Sono io. Possiamo parlare?»
«Sono in ufficio. Vuoi raggiungermi?»
L’ultimo posto in cui Tony desiderava
avere quella particolare conversazione.
«Preferirei di no» disse. «Puoi venire
tu?»
«Sono nel mezzo di una cosa
importante» rispose Carol. «Sembra che
siamo vicini a risolvere il caso di Tim
Golding e Guy Lefevre.»
«È un’ottima notizia. Ma ho bisogno di
parlarti, e non in ufficio.»
La sentì sospirare. «Dammi un’ora. Ci
vediamo a casa tua. E, Tony...?»
«Sì?»
«Spero ne valga la pena.»
Pressato dagli avvocati di Nick
Sanders e Pete Siveright, Kevin aveva
rilasciato entrambi i ranger. Non aveva
avuto altra scelta dopo aver comunicato
l’informazione che era loro diritto
ricevere: precisamente, che le
perquisizioni non avevano prodotto
alcuna prova contro i loro clienti.
Quando Bronwen Scott aveva terminato
il colloquio privato con Callum
Donaldson, Kevin si era preso qualche
minuto in più per prepararsi. Ipotizzava
che Scott avrebbe consigliato al suo
cliente di nascondersi dietro a un ‘no
comment’, ma il sergente non voleva
correre rischi.
Sentiva nelle vene quel leggero
fermento d’eccitazione che si
manifestava puntualmente quando era
tanto vicino a un risultato da poterlo
sfiorare. Ogni buon arresto, ogni
condanna erano un passo in avanti sulla
strada del riscatto. L’errore disastroso
che aveva commesso in precedenza era
come una macchia, come la tag lasciata
da un teppista di strada con la sua
bomboletta spray, e ogni cosa che
andava per il verso giusto era una
pennellata di pittura che tentava di
coprirla. Un giorno sarebbe rimasto solo
un muro appena ridipinto, e Kevin
sarebbe tornato in carreggiata.
Callum Donaldson sembrava l’uomo
giusto. Corrispondeva al profilo. Viveva
da solo in un cottage isolato tra Chapel-
en-le-Firth e Castelton. Era un
appassionato di birdwatching e faceva
spesso da guida per le gite scolastiche al
Peak Park con il compito di spiegare la
vita degli uccelli. Si intendeva di
tecnologia, aveva un computer di ultima
generazione e un cercapersone che lo
avvertiva automaticamente dell’arrivo
di specie rare nel Regno Unito. A Kevin
era sembrato impacciato e agitato
durante l’interrogatorio preliminare, e se
avesse dovuto indicare un possibile
assassino tra i tre ranger, la sua scelta
sarebbe ricaduta su Donaldson.
Il sergente radunò la documentazione
ed entrò nella sala interrogatori. Aveva
appena azionato il registratore e
pronunciato le introduzioni di rito,
quando Bronwen Scott disse: «Il mio
cliente vorrebbe rilasciare una
dichiarazione.»
Kevin non riuscì a nascondere il suo
stupore. Sorrise, chiedendosi se sarebbe
davvero stato così facile. «Bene.
Sentiamo.»
Scott appoggiò un paio di occhiali
senza montatura sulla punta del naso e si
schiarì la voce. «Il mio nome è Callum
Donaldson e ricopro il ruolo di ranger
per il Peak National Park. Desidero fare
una dichiarazione riguardo alla
fotocamera digitale Canon Elph trovata
in mio possesso. Intorno al giorno
quindici settembre dell’anno corrente,
ho acquistato la suddetta fotocamera dal
collega Nick Sanders.»
Scott si fermò e alzò lo sguardo. Kevin
capì che l’avvocato voleva godersi la
sua espressione di improvviso
smarrimento e il sergente si sforzò di
rimanere impassibile. Scott si permise
di abbozzare un sorrisetto e continuò. «Il
pagamento è avvenuto in contanti, per
una cifra di centocinquanta sterline. La
transazione ha avuto luogo in un pub
chiamato Red Lion, a Litton. Tra i
presenti c’erano David Adams della
Litton Mill e Maria Tomlinson, anch’ella
della Litton Mill. Sono disponibile ad
autorizzare un controllo dei miei
movimenti bancari al fine di verificare
la suddetta transazione, e sono convinto
che David Adams e Maria Tomlinson
ricorderanno l’occasione in questione
dato che anch’essi quella sera hanno
scattato delle foto con la macchina da
me appena acquistata.»
Scott passò al sergente la
dichiarazione scritta nella sua calligrafia
ordinata. «Debitamente firmata e
autenticata» disse. «Quando intendete
rilasciare il mio cliente?»
Frastornato, Kevin fissò il pezzo di
carta, guardando il suo buon arresto
sgretolarsi davanti agli occhi. Sapeva di
dover comunque porre le domande che
si era preparato, ma all’improvviso ogni
secondo era diventato prezioso. «Dovrò
parlare con l’ispettrice capo Jordan»
temporeggiò. «Interrogatorio terminato
alle diciannove e quarantatré» aggiunse,
balzando in piedi e affrettandosi a uscire
dalla sala.
Si diresse di corsa verso la cella di
custodia. «Quando avete lasciato andare
Sanders?» chiese all’agente di custodia.
«Quando ci ha detto di farlo. Una
quarantina di minuti fa» rispose l’uomo.
«Chi lo sta riaccompagnando a casa?»
«Entrambi hanno declinato l’offerta di
essere portati a casa. Hanno detto di
averne avuto abbastanza di noi per oggi
e che preferivano fare da soli.»
«Cazzo» esplose Kevin.
«Ci sono dei problemi?»
«Cazzo se ci sono. Abbiamo lasciato
andare l’uomo sbagliato» ringhiò Kevin.
Si chinò sul bancone per arrivare al
telefono. «Devo parlare con il
dipartimento di investigazione criminale
di Buxton» disse al centralino. Quando
finalmente ricevette risposta, si
identificò e disse: «Devo parlare con il
detective Thom... Che vuol dire è andato
a casa?» Dopo una lunga conversazione
che portò Kevin a parlare con tre diversi
agenti, il sergente riuscì finalmente a
strappare la promessa che qualcuno
della polizia locale sarebbe andato al
cottage di Nick Sanders, a Chelmorton, e
avrebbe aspettato il ritorno del ranger
per arrestarlo nuovamente. Sempre a
patto che Kevin inoltrasse una richiesta
approvata da un suo superiore.
Il sergente salì le scale a due a due e
trovò Carol nel suo ufficio intenta a
firmare una pila di scartoffie.
L’ispettrice alzò lo sguardo con aria
d’attesa, sapendo quanto Kevin fosse
stato sicuro di essere vicino a un
risultato. Il sergente le spiegò
brevemente l’accaduto. «Oh, Cristo»
disse Carol, non provando neppure a
nascondere il suo sgomento. «Non è
colpa tua, Kevin, ma... oh, Cristo. Me ne
occupo io, parlerò con quelli del
Derbyshire. E tu fa rilasciare Donaldson
su cauzione prima che Bronwen Scott
cominci a blaterare di violazione dei
diritti umani.»
La colpa è mia, pensò Carol mentre
guardava Kevin lasciare l’ufficio.
Avrebbero dovuto aspettare i risultati
delle perquisizioni prima di interrogare
i tre uomini. Ma Kevin era stato così
impaziente di cominciare e aveva temuto
che gli agenti del Derbyshire avrebbero
trascinato le ricerche più a lungo del
dovuto per il puro gusto di farlo. Inoltre,
in base alla legge vigente su polizia e
prove dei crimini, avrebbero potuto
trattenere i sospettati solo per trentasei
ore prima di essere costretti a
presentarsi davanti a un magistrato, che
probabilmente non avrebbe compreso la
complessità delle prove relative alla
fotocamera e avrebbe dunque negato la
richiesta per un prolungamento della
custodia. Come se non bastasse, Kevin
le aveva detto che i colleghi del
Derbyshire cominciavano a mostrarsi
insofferenti davanti a quella che
sentivano come un’imposizione dei
pezzi grossi di città, troppo importanti
per abbassarsi a lavorare sul campo.
Così, andando contro il suo buon senso,
Carol aveva autorizzato una serie di
interrogatori preliminari.
L’ispettrice si massaggiò il ponte del
naso con due dita. Stava commettendo
troppi errori. Non era da lei. La cosa la
spaventava ora che in ballo c’era la vita
di Paula. Fare casini era già negativo di
per sé, ma preoccuparsi di fare casini
poteva portare a indecisioni fatali; in un
caso così delicato, l’incapacità di
prendere una decisione poteva essere
deleteria quanto prendere quella
sbagliata. Carol sospirò e chiamò la
polizia del Derbyshire. Poi prese il
cappotto. Era ora di raggiungere Tony e
capire perché faceva tanto il misterioso.
Forse, sarebbe riuscita a togliersi
almeno un peso di dosso.
Si affacciò nella sala operativa, dove
Merrick era ancora impegnato con le
dichiarazioni. L’ispettore aveva gli
occhi pesanti, le spalle ricurve. Alzò lo
sguardo quando Carol entrò e scosse
lentamente la testa. L’ispettrice fece un
rapido giro della sala, rivolgendo parole
di incoraggiamento a ogni agente.
Raggiunse Merrick e gli posò una mano
sulla spalla. «La troveremo, Don» disse.
«Perché non vai a casa a riposare un
po’?»
Il volto di Merrick si contorse in
un’espressione di dolore. «A casa? Sono
accampato da Paula, signora. Tornare a
casa peggiora solo le cose. È come un
rimprovero continuo.»
Carol si maledisse per la sua
mancanza di tatto. «Non puoi tornare da
Lindy e i ragazzi? Solo per qualche
notte?»
«Troppo tardi. Lindy non mi parla più
ormai.»
Carol strinse la presa sulla spalla in
segno di incoraggiamento. «Prenditi una
camera d’albergo, Don. Inseriscila nelle
spese dell’indagine. Ma riposa un po’,
per favore.»
L’ispettore le rivolse un sorriso
sbilenco. «Lo farò se lo fa anche lei,
signora.»
«Touché. Ma almeno sto uscendo da
questo edificio, Don. Dovresti farlo
anche tu.»
Carol era a metà del corridoio, assorta
nei suoi pensieri, quando la sagoma
familiare di Jonathan France che
avanzava spavaldo verso di lei nel suo
completo da motociclista la riportò
bruscamente alla realtà. L’uomo sorrise
e accelerò il passo, non notando
l’espressione pietrificata sul volto di
Carol.
«Che ci fai qui? Come sei entrato?»
chiese.
L’andatura e il sorriso di Jonathan
vacillarono. «Volevo vederti. Il tipo
all’entrata si è ricordato di avermi già
visto qui e mi ha fatto salire.» Sembrava
offeso. «Credevo ti avrebbe fatto
piacere vedermi» aggiunse.
In tutta risposta, Carol spalancò la
porta più vicina, che conduceva a una
sala riunioni vuota. «Entra» indicò con
un cenno della testa. Jonathan la seguì,
ringalluzzito di fronte alla prospettiva di
un po’ di privacy nonostante i segnali
poco promettenti. Carol chiuse la porta e
lo gelò con lo sguardo. «Come ti è
saltato in mente di mandarmi quei
fiori?»
Lo shock appiattì i lineamenti del
geologo. «Credevo ti sarebbero
piaciuti.»
«Allora perché non li hai mandati a
casa?»
Jonathan scrollò le spalle. «Non ci sei
mai.»
«Il fioraio li avrebbe lasciati al
vicino. Ma no, li hai mandati qui. Non
hai pensato che una stazione di polizia è
una fabbrica di gossip? Che ora la mia
vita privata è oggetto di congetture dalla
mensa fino all’ufficio del commissario
capo?»
«Non pensavo...»
«No, non hai pensato. Sono nel mezzo
di due casi importanti e l’ultima cosa di
cui ho bisogno è questo genere di
distrazione.»
Ferito, Jonathan ribatté. «Distrazione?
È questo che sono per te? Una
distrazione?» Carol scrollò le spalle.
Due chiazze di colore le infiammavano
gli zigomi. «Mi hai usato» disse
Jonathan, rendendosi conto della
situazione. «Mi hai usato per provare a
te stessa di poter superare lo stupro.»
Carol inarcò le sopracciglia. «Hai
avuto anche tu quello che volevi, vestire
i panni del salvatore forte e sensibile.
Ma non ti bastava, vero? Volevi che per
me importasse, volevi essere l’uomo che
avrebbe guarito il mio cuore. Be’,
Jonathan, ho delle novità per te. Non ti
sei mai neanche avvicinato al mio cuore
perché è già di qualcun altro.»
Come spesso accade nell’impeto di
una discussione emotiva, Jonathan si
concentrò sul punto meno rilevante. «Mi
hai detto che non stavi uscendo con
nessuno. Quella sera a cena, sei stata tu
a dirmelo.»
Carol serrò i pugni. «Non esco con
nessuno. Non come intendi tu. Ma non
puoi ridurre una relazione a
ragionamenti così semplicistici.»
«Sei stata disonesta» disse Jonathan,
amaramente. «Non sei mai stata
emotivamente disponibile.»
Carol scosse la testa con veemenza.
«Non ho mai detto di esserlo. L’hai
presunto tu. Hai visto quello che volevi
e hai presunto il resto.»
«Non mi merito questo» rispose lui,
con voce incerta.
La rabbia di Carol si smorzò
all’improvviso, lasciandola vuota e
stanca. «No» disse. «Probabilmente no.»
Aprì la porta. «Non sono irriconoscente,
Jonathan. E mi sarebbe piaciuto
rimanere amici. Ma è troppo tardi per
quello adesso.»
Jonathan varcò la soglia. «Non lo
invidio, quest’uomo che ami» disse, in
tono amaro.
«È la prima cosa sensata che hai detto
stasera» rispose Carol con voce triste.
«Addio, Jonathan.»
Lo guardò andar via, mentre gli ultimi
rimasugli di adrenalina abbandonavano
il suo corpo. Cristo, che altro può
andare storto stasera?
Tony sedeva alla sua scrivania, intento
a osservare il panorama urbano che
fluiva lungo la collina verso il centro di
Bradfield. In lontananza, i grattacieli del
distretto finanziario esibivano quadrati
di luce irregolari, come cartelle del
bingo complete per metà. «Sei lì da
qualche parte» disse, tra sé e sé.
«Pianifichi come costringerci a
partecipare al tuo gioco, decidi cosa
fare con Paula.» Un’istantanea
dell’individuo dietro quei crimini
cominciava a prender forma nella mente
del dottore. Era stato arduo penetrare la
psiche sfuggente del burattinaio, ma
finalmente ne stava mettendo insieme i
pezzi, dando gradualmente un senso alla
giungla di informazioni nella sua testa. Il
difficile sarebbe stato convincere Carol.
Tony vide l’auto dell’ispettrice
accostare davanti alla casa e corse al
piano inferiore per farla entrare. Fu
scioccato nel vederla così sbattuta, gli
occhi infossati, la pelle spenta e pallida.
«Sembri distrutta» disse il dottore,
facendosi da parte per lasciarla passare.
«Ho fatto un casino con gli
interrogatori del caso Golding. Sembra
che abbiamo lasciato andare l’uomo
giusto mentre trattenevamo quello
sbagliato. Kevin crede che l’assassino si
senta abbastanza sicuro da tornare a
casa, così potremo arrestarlo di nuovo.
Ma io non ne sono tanto sicura. Non
facciamo progressi nelle ricerche di
Paula. Don e Jan sono ai ferri corti
perché Jan dice che Paula è gay e Don
dice che non è vero. E Sam Evans crede
di essere superiore a tutto e tutti. L’unica
che non mi dà rogne è Stacey, ma solo
perché comunica esclusivamente con i
computer.» Si tolse il cappotto e lo gettò
sul caposcala del corrimano.
«Qualcos’altro?»
«Vuoi qualcosa da bere? O sei ancora
in servizio?»
«Sì, e sì. Aspetto notizie da Kevin, ma
non devo tornare in ufficio per stasera, a
meno che non spuntino novità su Paula.»
«In cucina, allora. Apro una bottiglia.»
Mentre Tony preparava da bere, Carol
si sedette al tavolo della cucina. «Ho
appena dato il benservito a Jonathan»
disse l’ispettrice.
Tony le dava le spalle in quel
momento, cosa di cui fu grato: voleva
dire che Carol non avrebbe notato la
gioia nei suoi occhi e il sorriso che gli
illuminò il volto. «E cosa provi al
riguardo?»
Carol scoppiò a ridere. «Ah, Tony, sei
proprio un dannato strizzacervelli.»
Il dottore si girò a lanciarle
un’occhiata. «Scusa. Ma non era una
domanda da strizzacervelli. Era una
domanda da amico.»
«Non sopporto che mi abbia messo
alle strette. Prima mi manda in ufficio un
assurdo bouquet di fiori, poi stasera si
presenta in centrale. Potevamo restare
amici, se avesse lasciato perdere. Ma è
quella presunzione, sai...»
Tony poggiò i calici sul tavolo. «Lo
so. Sei venuta a letto con me, come puoi
non amarmi?»
«Esatto. E lo sai come divento quando
mi mettono alle strette.»
Tony fece una smorfia. «Non è un bello
spettacolo.»
«Sono stata orribile con lui» ammise
Carol. «Ma volevo essere chiara.
Adesso non ho tempo né energie per
cose del genere.» Bevve un sorso del
suo drink. «Spero solo di non perderlo
come testimone esperto.»
«Non credo. Considerato il suo
comportamento finora, credo che vorrà
colpirti con la sua magnanimità. E
ovviamente, vorrà credere che col
passare del tempo ti renderai conto di
cosa ti sei lasciata sfuggire. Non
preoccuparti, Carol. Tornerà.» Tony
brindò a lei sollevando il calice.
Carol gemette. «Ti odio a volte» disse.
«Mi odierai ancora di più quando
avrai sentito quello che ho da dirti.»
«Ah, sì» rispose l’ispettrice. «C’è una
ragione per cui sono venuta, no? Okay,
spara.»
Tony non era mai stato bravo a dare
informazioni in modo diplomatico.
Diretto, senza fronzoli, sgradevole, era
questo il suo stile. Neanche per Carol
riusciva a cambiarlo. «Al fulcro di
questo caso troverai un poliziotto o
qualcuno che è vicino alla polizia. Un
agente della scientifica, magari. O
qualcosa di simile.»
La mano di Carol si fermò a metà
strada tra il tavolo e la sua bocca. Con
delicatezza posò il bicchiere. «È
un’accusa molto pesante questa.»
«È l’unica spiegazione che ha senso.
Ritengo impossibile che Derek Tyler
abbia pianificato i crimini che ha
commesso. Non è abbastanza acuto. È
testardo, ma è anche suggestionabile. Se
avesse ucciso una prostituta di sua
spontanea volontà, lo avrebbe fatto in
modo diverso. Sarebbe successo per
strada, con un coltello o un’arma di
fortuna. Le prove forensi sarebbero state
ovunque. La polizia l’avrebbe preso
quella sera stessa. Non è un giocatore
sofisticato come il nostro assassino.
Rimane il fatto che Tyler non è stato
accusato ingiustamente, e così arriviamo
al Cobra. Perché c’è una sola verità
psicologica innegabile qui: Derek Tyler
non avrebbe mai potuto immaginare quei
crimini. È stata la fantasia di qualcun
altro a farlo. È stato qualcun altro a
muovere le fila.»
«E se fosse Tyler a muoverle ora? Se
avesse spinto qualcun altro a
commettere questi omicidi per ritornare
in libertà?» Carol sapeva di dovergli
parlare di Hart. Ma prima di
influenzarlo con i suoi sospetti, voleva
sentire la teoria del dottore.
Tony scosse la testa. «Credimi, Carol.
Ho passato del tempo insieme a Tyler.
Non è abbastanza sveglio per una cosa
simile.»
«Ma se c’è il Cobra dietro tutto
questo, perché aspettare due anni per
colpire di nuovo?»
Tony chiuse gli occhi e poggiò i palmi
delle mani sul tavolo. «Perché sono
prudente. Perché voglio che le acque si
calmino. Perché ci vuole tempo per
trovare un altro Derek Tyler. Perché non
voglio sporcarmi le mani. Perché traggo
il mio piacere dal potere. Non solo
quello che esercito sulla vittima ma
anche quello che ho sul killer. E
stavolta, anche sulla polizia.» Aprì gli
occhi. «Ma soprattutto perché non
voglio essere preso, e ci vuole tempo
per organizzare le cose in modo che io
sia protetto.»
«Okay. Diciamo che ha senso, in
qualche modo» disse Carol con
riluttanza. «Quello che non capisco è
perché debba essere un poliziotto.»
«Ho parlato con Dee stanotte.»
«E?»
«Non vuole dirci nulla riguardo al
Cobra. E non vuole farlo perché non
crede che la proteggeremo. Questo vuol
dire che si tratta o di un poliziotto,
oppure di qualcuno vicino alla polizia.
Qualcuno che fa parte della squadra. O
anche un informatore...?»
Carol scosse la testa. «No, mi dispiace
ma non me la bevo. Potrebbe benissimo
essere qualcuno di estraneo alla polizia
che Dee ritiene talmente potente da
essere sicura che le nostre misure
protettive non basterebbero. Non c’è
niente che punti il dito contro un
poliziotto. Potrebbe essere un pappone o
uno spacciatore.»
«Dee non ha un protettore. Jan dice
che i peggiori sono stati allontanati. E
perché mai dovrebbe credere che uno
spacciatore riuscirebbe a infiltrarsi nel
programma di protezione testimoni?»
Carol gli lanciò uno sguardo d’intesa
cinico. «Perché tutti sono convinti che
gli agenti della narcotici siano corrotti, e
che non si arriva a spacciare a certi
livelli senza avere qualche sbirro sul
libro paga?»
Tony si lasciò sprofondare sulla sedia.
Ci aveva provato come meglio poteva,
ma sapeva sin dall’inizio che Carol non
avrebbe condiviso la sua teoria. «Fammi
un favore: tienilo a mente.»
L’ispettrice vuotò il bicchiere e
allungò la mano per prendere la
bottiglia. «Apprezzo il tuo contributo,
davvero. Ma credo che tu sia fuori
strada.»
«Va bene» rispose il dottore.
«Non per la tua teoria, Tony. Credo
che sia assolutamente brillante. È contro
chi punti il dito, è lì che ti sbagli.»
Perplesso, Tony si bloccò mentre stava
per bere un sorso dal suo calice. «Che
mi sono perso?»
«Qualcuno che sia in grado di fare il
lavaggio del cervello a un altro
individuo. Qualcuno che abbia accesso a
Derek Tyler e che possa assicurarsi che
tenga la bocca chiusa. Qualcuno che era
a Temple Fields la sera in cui Sandie
Foster è stata uccisa.»
Tony sgranò gli occhi. «Che stai
dicendo, Carol?»
«Sto dicendo che Aidan Hart
corrisponde al tuo profilo più di
qualsiasi poliziotto.»
Tony sbuffò, scoppiando a ridere.
«Aidan Hart? Stai scherzando?»
«Aidan Hart ha fatto sesso con Sandie
Foster la sera in cui è morta. Abbiamo
rintracciato la sua auto e lui lo ha
ammesso. Aveva un alibi per l’ora in cui
è stato commesso l’omicidio, perciò ho
lasciato perdere. Ma Sam Evans no. E
ha scoperto che Hart frequenta prostitute
almeno due o tre volte a settimana.
Neanche questo è abbastanza per
sospettare che sia un assassino. Ma se tu
hai ragione e dietro le due serie di
omicidi c’è la stessa persona, allora
l’alibi di Hart non ha alcun valore e tutto
il resto passa in primo piano.»
Tony scosse la testa, faceva difficoltà
ad assimilare le parole di Carol. «No,
non può essere. Quell’uomo è un
buffone. Un buffone arrivista.»
«O forse è solo molto bravo a
mostrarsi per ciò che non è» disse
Carol.
Tony tracannò un lungo sorso di vino,
la fronte corrugata in un’aria pensierosa.
«Non funziona, Carol. Non combacia
con quello che dice Dee. Non c’è
ragione per cui dovrebbe conoscere
Hart, e tantomeno esserne così
spaventata.»
«No? Cosa sappiamo dei precedenti
sulla salute mentale di Dee? Un uomo
nella posizione di Hart potrebbe
etichettarla come delirante,
schizofrenica, potrebbe certamente farla
internare e buttare via la chiave, no?»
Tony sembrò dubbioso. «Non lo so...»
Balzò in piedi e prese a camminare
avanti e indietro. «Aspetta un attimo»
disse, con tono trionfante. «Due anni fa.
Quando Derek Tyler era attivo. Hart non
era qui. Era ancora a Rampton. Si è
trasferito da meno di un anno. Non può
esserci lui dietro gli omicidi di Derek
Tyler. E se riconosci che Derek non
avrebbe potuto concepire da solo i suoi
crimini, allora devi riconoscere che c’è
la stessa persona dietro le due serie di
omicidi. Il che esclude Aidan Hart come
possibile sospettato.»
Carol rimase a fissarlo. «Ne sei
sicuro? Magari era in trasferta qui?»
«Ne sono abbastanza sicuro, sì. Ma
non ti sarà difficile verificare.» Tony si
rattristò. «Mi dispiace privarti di un
sospettato. Ma tralasciando i dettagli
pratici, Hart non mi sembra l’uomo
giusto. Non credo che sia capace di fare
una cosa simile.»
Carol sospirò, non del tutto convinta
ma a corto di argomentazioni. «Cazzo.
Be’, almeno non farò la parte dell’idiota
con Brandon.» Finì il suo drink. «Ho
bisogno di dormire. È stata una giornata
di merda.»
«Tienimi aggiornato, okay?» La
accompagnò alla porta.
Sulla soglia, Carol si voltò e gli
poggiò una mano sulla spalla,
avvicinandosi per dargli un bacio sulla
guancia. «Grazie» disse.
«Per cosa?» Tony era sorpreso.
Carol sorrise. «Sei tu lo psicologo,
arrivaci da solo.»
Poi se ne andò, lasciandolo solo a
continuare il suo viaggio nei recessi
oscuri della mente altrui.
L’alba è priva di nuvole per una
volta, già mi immagino quei poliziotti
ottusi interpretarla come un buon
auspicio. È questo il bello delle
superstizioni. Gli idioti che ci credono
non considerano mai che, per loro
stessa natura, i segni interpretati come
auspici non fanno discriminazioni.
Quegli stupidi guardano fuori dalla
finestra della loro camera da letto,
vedono l’arcobaleno perfetto che si
inarca nel cielo e decidono che è di
buon auspicio per loro, senza pensare
che significa esattamente la stessa cosa
per quel vicino della porta accanto che
è il loro nemico giurato. Perciò, se una
mattina assolata è di buon auspicio per
i miei nemici, deve esserlo anche per
me.
Controllo di nuovo la webcam. Anche
con una connessione a banda larga, la
frequenza di aggiornamento non è delle
migliori, ma almeno posso tenere Paula
sotto controllo in tempo reale. Tranne
quando quel ritardato si è appoggiato
per sbaglio sul tasto di pausa la prima
volta che ha cambiato la cassetta.
Almeno si è accorto di averlo fatto e ha
riavviato la webcam prima di
andarsene. Ma non succederà più; ho
dimostrato il mio scontento e questo
l’ha ridotto in una poltiglia patetica
senza spina dorsale che farebbe di tutto
per rientrare nelle mie grazie.
Così, eccola lì, sdraiata con le gambe
spalancate come piace a me. Comincio
a eccitarmi a guardarla ma non ho il
tempo di godermela, quindi mi
costringo a pensare a cose più
pratiche. Non ne ho mai tenuta una
così a lungo e questo pone dei
problemi. So che può resistere per molti
giorni senza mangiare, ma non sono
sicura di quanto possa sopravvivere
senza acqua. Non mi dispiace che
cominci a delirare, ma non voglio che
muoia. Non finché sarò io a decidere
che è arrivato il suo momento. E
quando arriverà morirà come dico io,
non per questioni fisiologiche. Decido
di fare una ricerca su internet al
riguardo, appena ho un minuto.
Farla bere sarà un problema. Se lui le
toglie il bavaglio, lei cercherà di
urlare. Si potrebbe far filtrare l’acqua
attraverso gli spazi tra i denti, ma non
credo che la scimmia ammaestrata sia
all’altezza di un’operazione così
delicata. Forse dovrò farlo io. Non è
l’ideale. Non perché ci sia il rischio
che sopravviva per raccontarlo a
qualcuno, ma perché vedermi
infrangerebbe l’alone di mistero.
La punta della mia lingua scivola tra
i denti mentre la osservo. È come un
boccone delizioso da divorare.
Un’altra fantasia da conservare per
dopo. Adesso, c’è del lavoro da
svolgere.
Paula era ignara dell’alba. Dentro la
sua prigione ben illuminata non esisteva
giorno o notte, solo un bagliore intenso,
ininterrotto e muto. Quando chiudeva gli
occhi, la luce sembrava brillare di un
rosso acceso attraverso le sue palpebre,
ricordandole il mare di sangue che
aveva fatto di Sandie Foster e Jackie
Mayall delle isole. La testa le faceva
male, un dolore soffuso che era nato alla
base del cranio e si era propagato,
strisciando come l’avanguardia di un
esercito nemico finché non le era
sembrato che l’intero cervello stesse per
scoppiare.
Non riusciva più a controllare i suoi
pensieri. Le veniva in mente qualcosa,
ma prima che riuscisse a esaminarla, le
sfuggiva o si tramutava in qualcosa di
diverso. I ricordi si inseguivano e si
neutralizzavano a vicenda, persone
apparivano in posti in cui sapeva che
non erano mai state, le loro bocche
proferivano parole che sapeva non
avevano mai detto. Amanti si
trasformavano in colleghi, vecchi amici
di scuola si dissolvevano per riapparire
come sconosciuti. Era snervante.
In certi momenti riusciva a stento a
ricordarsi chi fosse e com’era arrivata
lì. Gli arti erano pesanti, come se
appartenessero a qualcuno molto più
grande e flaccido di lei. Ma non era
niente rispetto ai crampi lancinanti che
le attraversavano braccia e gambe a
intervalli imprevedibili.
L’unica certezza a cui Paula riusciva
ancora ad aggrapparsi era che qualcuno
sarebbe arrivato per lei. Non sapeva più
chi sarebbe stato; ma sapeva che, prima
o poi, in un modo o nell’altro, sarebbe
finita.
Tony chiuse la porta di casa alle sue
spalle e si concesse un momento per
godere della luce del sole sul suo volto.
Aveva dormito meglio del previsto ma
non voleva indagare sul perché. Il viso
di Paula McIntyre gli balenò nella mente
all’improvviso, facendo evaporare quel
momento di pace mattutina. Sperò con
tutto sé stesso di avere ragione e che
Paula fosse ancora viva.
Entrò in macchina e girò la chiave per
mettere in moto. Il motore tossì e rantolò
come un ottantenne enfisematoso, e morì.
Tony si accigliò e fece un secondo
tentativo. Un clic, poi nulla. Si guardò
intorno come se potesse trovare una
risposta all’interno della macchina.
C’era una spiegazione, naturalmente.
Dopo che Carol se n’era andata, Tony
era uscito a comprare del cibo da
asporto cinese e aveva lasciato i fari
accesi. «Dannazione» sospirò. Sebbene
potesse metter mano alla tessera
dell’assistenza stradale, il dottore non
aveva il tempo di aspettare l’arrivo del
personale di soccorso per far partire
l’auto con una batteria esterna. Per
giunta, Carol era già andata via. Tony
era pronto a scommettere un bel
gruzzoletto che l’ispettrice avrebbe
avuto i cavi di avviamento nascosti da
qualche parte negli stivali, pronti
all’uso.
Stizzito, uscì dalla macchina e si
incamminò verso la fermata
dell’autobus. Sapeva che c’era una linea
che si avvicinava al Bradfield Moor, ma
sapeva anche, grazie alle lamentele dei
visitatori, che la fermata era a più di un
chilometro e mezzo dai cancelli
dell’ospedale.
Quaranta minuti dopo, un autobus si
fermò nel mezzo del nulla e Tony scese
dal veicolo. Rimase immobile per un
momento, cercando di capire dove
fosse, poi si mise in cammino lungo una
strada nelle vicinanze. Libero dall’aria
viziata e appiccicaticcia dell’autobus e
dal disagevole assortimento di
passeggeri, il dottore lasciò che la sua
mente vagasse libera tra i problemi che
la affliggevano.
«Due tipi di persone sono attirati dal
potere: quelli che lo hanno e quelli che
non lo hanno» rifletteva camminando. «È
da questi ultimi che dobbiamo partire.
Quelli che non hanno potere solitamente
non ce l’hanno per buone ragioni. Forse
non sono abbastanza svegli o motivati o
organizzati. Ma non è il tuo caso, non è
vero?»
Rimase in silenzio per un po’,
rimuginando. «Quindi dobbiamo
presumere che tu abbia accesso a un
certo grado di potere. Cosa che avrebbe
senso se tu fossi un poliziotto, ma Carol
crede che io sia completamente fuori
strada in questo senso. Il fatto è che chi
ha il potere ne vuole sempre di più. Il
potere assoluto corrompe in modo
assoluto. E a te piace la corruzione,
giusto? Ti piace il suo sapore, il suo
odore. Se sei un poliziotto, sei un
poliziotto corrotto.» Si fermò per un
momento, assimilando le implicazioni di
quell’ipotesi.
«Ed è per questo che Dee ha paura di
te. Perché sa che non giochi secondo le
regole.» Fu distratto dai suoi
ragionamenti da un fuoristrada nero e
imponente che si fermò accanto a lui. Il
finestrino oscurato sul lato del
passeggero si abbassò e Tony si ritrovò
a fissare il volto compiaciuto di Aidan
Hart. Considerato quanto aveva appreso
da Carol riguardo alle inclinazioni
sessuali del direttore, fu difficile
trattenere il commento sagace che
avrebbe cancellato per sempre quel
sorrisetto dalle labbra di Hart.
«È una passeggiata di piacere o
gradisci un passaggio?» gli chiese il suo
capo.
Tony sorrise. «Pensandoci,» disse
«preferisco camminare.»
«Questa sta diventando un’abitudine
ormai» disse Carol, entrando nel suo
ufficio con Kevin al seguito. «La gente
comincerà a parlare.»
Kevin le rivolse un sorriso stanco.
«Ne dubito. Sanno tutti che non posso
permettermi mazzi di fiori costosi.»
«Kevin» disse Carol, in tono di
avvertimento.
«Scusi, capo» rispose mestamente il
sergente.
«Allora, a che punto siamo?»
«Sanders non è rincasato ieri notte.
Dopo aver lasciato la centrale è sparito
nel nulla. Stando a Siveright, Sanders ha
detto che sarebbe andato a trovare degli
amici a Bradfield e poi si è avviato a
piedi. Sappiamo che ha ritirato dei
contanti presso un bancomat a
Woolmarket circa dieci minuti dopo
aver lasciato la centrale. Abbiamo
parlato con i suoi colleghi al parco
nazionale e abbiamo allertato porti e
aeroporti, ma non abbiamo avuto
riscontri.»
«Cazzo» disse Carol. «Dobbiamo
emettere subito un comunicato stampa,
completo di foto. Lo voglio in manette,
Kevin. Non voglio vederlo scomparire
in una sorta di rete clandestina di
supporto per pedofili. Avrà dei contatti.
Persone che lo aiuteranno a nascondersi.
Persone che gli daranno mezzi di
trasporto, soldi, asilo.»
Prima che Kevin potesse rispondere,
qualcuno bussò alla porta. «Avanti»
disse Carol, impaziente.
Stacey esitò sulla soglia. «Mi scuso
per l’interruzione, ma ho trovato
qualcosa su Nick Sanders che credo
vogliate sapere entrambi.»
Carol le fece cenno di entrare. «Ti
prego dimmi che sai dove si trova»
disse, abbozzando un sorriso.
Stacey aggrottò la fronte, non sapeva
se Carol fosse seria o meno. «No. Ma ho
qualcosa che conferma la sua
colpevolezza. Ricordate quel registro
del mese di luglio che ci ha mandato?
Quello col rapporto sul presunto
esibizionista?»
«Quando si dimostrava così
‘collaborativo’» disse Kevin, mimando
il gesto delle virgolette con le mani.
«Be’, ho scavato più a fondo. E
indovinate un po’? Il registro è stato
alterato un’ora dopo la notizia del
ritrovamento di un cadavere a Swindale.
Ha inserito il falso rapporto per sviare
l’attenzione.» Stacey sembrò soddisfatta
di sé stessa.
«Grazie Stacey, ci è di grande aiuto.
Ottimo lavoro» disse Carol. Mentre
parlava, Don Merrick fece capolino
nell’ufficio.
«Posso entrare?» chiese l’ispettore.
Carol annuì. «Cercavo Kevin, a dir la
verità» disse. Consultò un foglio di
carta. «Abbiamo ricevuto una chiamata
anonima da qualcuno che afferma di
essere un vecchio amico di Nick
Sanders. L’amicizia tra i due è terminata
quando il nostro informatore anonimo ha
beccato Sanders a scattare foto di suo
figlio piccolo mentre faceva il bagno.
Ha tenuto la bocca chiusa allora perché
non voleva che il figlio si ritrovasse al
centro di un’indagine, ma quando un
amico che lavora al Peak Park lo ha
informato che Sanders è sospettato di
omicidio e che è in fuga, ha deciso di
farsi avanti. Ad ogni modo, è convinto
che Sanders sia diretto in aperta
campagna. Ha le capacità necessarie a
sopravvivere nella natura. Pare che ci
sia una baia nella contea di Sutherland,
nella parte nordoccidentale della
Scozia, una certa Achmelvich Bay»
disse Merrick, tentennando davanti al
nome sconosciuto. «Anni fa, Sanders ci
lavorava come guardiano dell’ostello
della gioventù. Abbiamo verificato,
ovviamente. È sul curriculum che ha
presentato al corpo dei ranger. Ad ogni
modo, pare che Sanders parlasse spesso
di un posto che si chiama Hermit’s
Castle, stando a quanto dice il nostro
informatore anonimo. Non ricorda
granché al riguardo, se non che un tizio
londinese lo costruì esattamente sul
promontorio. È una sorta di forte, ma
molto piccolo. Ci visse per un anno
senza parlare ad anima viva.
L’informatore crede che Sanders sia
diretto lì. Penso che valga la pena
verificare» concluse Merrick con
entusiasmo.
«Le probabilità che sia così sono
minime» disse Carol.
Kevin scrollò le spalle. «Potremmo
chiedere alla polizia locale di tenere gli
occhi aperti.»
«Se Sanders lavorava in zona, è
probabile che conosca la polizia locale»
fece notare Merrick. «Credo che Kevin
dovrebbe andarci di persona. C’è un
volo per Inverness a mezzogiorno.»
Carol ci rifletté per un momento, poi
scosse la testa. «È una pista troppo
infondata. Kevin, contatta gli agenti del
luogo e chiedi loro di fare una verifica.
Ma in modo discreto, okay? Se c’è
traccia del passaggio di Sanders,
approfondiremo. Nel frattempo
sbrighiamoci a preparare un appello
nazionale. Ora, se volete scusarmi, ho un
briefing da preparare.»
Le indicazioni da dispensare nel
briefing mattutino erano poche e misere.
Lo sapevano tutti. La determinazione
della mattina precedente aveva assunto
una sfumatura di disperazione ora.
Sapevano tutti che con ogni ora che
passava, le possibilità di ritrovare Paula
viva diminuivano drasticamente.
«Continueremo a lavorare sui dati dei
registri immobiliari» disse Carol,
sforzandosi di mostrarsi energica.
«Voglio che parliate con ogni locatore e
ogni affittuario nell’area di ricerca
evidenziata su questa mappa. So che è
un approccio dispersivo, ma finché non
avremo qualcosa di concreto per
restringere il campo di ricerca, faremo
tutto il possibile per trovare Paula.
L’ispettore Merrick ha la lista completa
degli incarichi odierni. Con chiunque vi
troviate a parlare, voglio che chiediate
di un individuo che si fa chiamare il
Cobra.» Carol si accorse del brusio
incerto levatosi nella sala. «So che
suona alquanto bizzarro. Ma
l’informazione viene da una fonte
importante. Derek Tyler non ha detto
niente per due anni. Sebbene sia
possibile che i suoi intenti non siano dei
migliori, il dottor Hill non crede si tratti
di un tentativo di sviarci. Perciò tenetelo
a mente. La buona notizia è che il
laboratorio della scientifica ha
confermato che abbiamo il DNA del
nostro uomo. Sfortunatamente, il
campione è in condizioni tali da non
essere utilizzabile per un confronto col
database nazionale.» Brontolii in tutta la
sala. «Tuttavia,» disse Carol, alzando la
voce «è utilizzabile per eliminare
eventuali sospettati. Se prendiamo
l’uomo giusto, ci saranno abbastanza
punti in comune da conferire valore
probatorio al campione in nostro
possesso.»
Si voltò e indicò la cartina su larga
scala di Temple Fields. «Paula è qui da
qualche parte. Troviamola.»
Quando il briefing terminò, gli agenti
defluirono in piccoli gruppi verso Don
Merrick, che sembrava non dormisse da
una vita. «Sam» chiamò Carol
sovrastando il baccano. Il detective si
girò e la guardò con aria perplessa.
«Una parola, per favore.»
Evans si fece strada zigzagando tra gli
agenti fino a raggiungerla. «Sì,
signora?» disse prontamente.
«Voglio che recuperi i fascicoli dei
casi di due anni fa.»
«Gli omicidi di Derek Tyler?»
«Esatto. Una volta arrestato Tyler, tutto
il resto è stato tralasciato. Tu e io
passeremo una mattina molto noiosa a
studiare quei fascicoli e a individuare
ogni misura o provvedimento messo in
programma ma mai attuato.»
Evans cercò di mostrarsi entusiasta.
Non fu molto convincente. Prima che
Carol potesse dire qualcosa, vide la
sagoma familiare di John Brandon
muoversi attraverso la calca. Si dirigeva
dritto verso di lei. «Puoi andare, Sam»
disse con fermezza.
Brandon la raggiunse e la prese da
parte. «Carol, Tony è aggiornato
sull’indagine?»
«Sì, signore.»
«Credo sia il momento di chiedere un
suo profilo ufficiale. Ho una conferenza
stampa a mezzogiorno e vorrei dare
l’impressione che stiamo facendo
qualche progresso. Soprattutto dopo
aver lasciato andare Nick Sanders»
aggiunse, in tono pungente.
Carol si sforzò di mantenere la calma
di fronte a quella critica implicita.
«Possiamo divulgare una parte del
video? Qualcuno potrebbe riconoscere
quell’uomo.»
«Non vedo perché no. Se lo useranno
o meno è un’altra questione. I media non
condividono il nostro stesso interesse
nei confronti di un’agente in pericolo.
Sono più eccitati all’idea di avere un
serial killer in città che a quella di
salvare la detective McIntyre.» Brandon
si allontanò, prendendosi il tempo di
regalare qualche rara parola di
incoraggiamento mentre si dirigeva
verso la relativa pace del suo ufficio.
Carol si guardò intorno per vedere
quale dei suoi agenti fosse più vicino.
«Jan?» chiamò.
Jan alzò lo sguardo dalla pila di
documenti che stava leggendo, incrociò
lo sguardo di Carol e le si avvicinò.
«Ha qualcosa per me?»
«Puoi rintracciare il dottor Hill e
dirgli di raggiungermi?»
«Certo. Ha il suo numero di
cellulare?»
Carol prese un pezzo di carta e vi
appuntò il numero. Mentre scriveva,
disse: «È probabile che lo abbia spento
o che lo ignori, però. Ti do anche il suo
indirizzo di casa. Se non sbaglio ha
detto che sarebbe rimasto lì stamattina.»
«E se non è a casa?»
Carol scrollò le spalle. «Prova al
Bradfield Moor.»
Jan sorrise. «Il richiamo di spiriti
affini è forte, eh?»
Carol si accigliò. Era esattamente il
genere di battuta che avrebbe rivolto a
Tony. Ma quella era una sua prerogativa
in quanto amica, non certo il genere di
commenti maliziosi che voleva sentire
dai suoi sottoposti. «Siamo noi ad avere
bisogno di lui, non il contrario. Non ce
lo dimentichiamo, sergente. Okay?»
Jan scrollò le spalle in segno di scusa
e se ne andò. Merrick si avvicinò a
Carol e si passò una mano tra i capelli
unti che non lavava da troppo. Gli occhi
infossati dell’ispettore fissavano la
donna con aria cupa da sopra il bordo di
una tazza, mentre una gamba fremeva
nervosamente. «Continuo a credere che
dovremmo fare qualcosa di più» disse
Merrick, la voce roca per la stanchezza.
«Lo so. Ma è difficile immaginare
cosa. E non aiuterai nessuno se ci
perderai la testa dietro questo caso,
Don» disse Carol, con voce pacata.
Vide la rabbia animare gli occhi
dell’ispettore. «Paula non è solo uno dei
miei agenti» disse Merrick, con voce
ferma. «È un’amica. Lo so che può
sembrare strano. Lo so che molti non
concepiscono l’idea che un uomo e una
donna possano essere amici. Ma per noi
è così.»
Ma non sapevi che era gay, pensò
Carol. Probabilmente quello la diceva
lunga sia sulla diffidenza istintiva di
Paula sia sullo scarso intuito di Merrick.
«Ti credo, Don» disse Carol. «E
capisco che renda tutto più difficile per
te.»
«Davvero?» Merrick scosse la testa.
«Paula era fuori di sé dalla gioia quando
ha avuto il posto in squadra, lo sa? Era
eccitata alla prospettiva di lavorare con
lei. Fin dal caso Thorpe è stata la sua
eroina. È per questo che ha accettato di
andare sotto copertura anche se la cosa
la spaventava. Era convinta di poter fare
qualsiasi cosa potesse fare lei, signora.»
Sebbene sapesse che Merrick la stava
attaccando solo per alleviare il proprio
senso di colpa e di fallimento, Carol
rimase ferita da quelle parole. «Credo
che lo abbia fatto per sé stessa, Don.
Non per fare una buona impressione su
di me, ma per tenere fede alla sua idea
di dovere, di cosa vuol dire essere un
poliziotto» disse Carol. «Ad ogni modo,
qualunque fossero le sue motivazioni,
non c’è ragione di distribuire colpe.
Dobbiamo concentrare le energie per
trovarla.»
«Crede che non lo sappia? Ma c’è
poco da concentrarsi. Ci sono centinaia
di scartoffie qui, e dicono tutte la stessa
cosa. È come se fosse sparita nel nulla.»
«Ci stiamo arrivando, Don. Stiamo
restringendo il campo continuamente.
Abbiamo già controllato una buona fetta
di Temple Fields. Stando ai dati che tu
stesso hai raccolto, siamo entrati
fisicamente in più del settantacinque
percento di tutte le proprietà della zona.
È una questione di tempo e metodo.»
Merrick sospirò. «Lo so. Non ragiono
più. Senta, signora, se non le dispiace
vorrei andare a riposare. Prenderò una
camera in un motel e chiuderò gli occhi
per qualche ora.»
«Buona idea, Don. Vedrai le cose in
modo diverso dopo aver riposato.»
L’ispettore si girò e se ne andò
trascinando i piedi senza dire un’altra
parola. Erano solo le nove e mezza, ma
a Carol sembrava di avere già un’intera
giornata di lavoro sulle spalle. Quando
aveva accettato di dirigere una squadra
d’élite, non aveva considerato quanto
sarebbe stato stancante tentare di
dirigere un mucchio di agenti i cui
talenti naturali li rendevano tanto
difficili e aggressivi quanto era stata lei
a inizio carriera. A volte desiderava
quasi tornare a dirigere il traffico.
Le aree verdi del Bradfield Moor
erano state progettate con il solo intento
di facilitarne la manutenzione. Ma in una
mattina d’inverno, con gli alberi ormai
privi di foglie, esse offrivano attraverso
l’alta recinzione metallica un vasto
colpo d’occhio sulle brughiere del
versante nord. Permettevano di ignorare
la città che si estendeva al di sotto, di
scollegarsi dalla vita delle strade. Di
norma, passeggiare nei giardini con un
paziente era un’opzione che lo staff era
invitato a evitare, ma Tony aveva deciso
che una breve pausa dalle mura
opprimenti dell’ospedale non avrebbe
fatto altro che bene a Tom Storey. I due
erano stati all’aperto per quasi un’ora,
passando al vaglio le preoccupazioni
più recenti e pressanti di Tom.
Si erano fermati vicino alla recinzione,
sotto un gruppo di betulle che affacciava
sulla vallata nel punto in cui un bacino
idrico luccicava in mezzo alle brughiere.
Tony controllò l’ora. «Credo sia il
momento di rientrare. Ho un altro
appuntamento tra un quarto d’ora.»
Dopo un’ultima occhiata al paesaggio,
si avviarono verso lo sgradevole
edificio gotico vittoriano. «Mi fa
piacere che sia venuto oggi» disse
Storey.
«Avevamo un appuntamento. Dove
altro dovrei essere?»
«Credevo che i suoi impegni con la
polizia le avrebbero impedito di
venire.»
«I miei pazienti vengono per primi.
Collaboro con la polizia, ma questo non
dà loro il potere di dettare i miei
movimenti.»
Storey lo guardò incuriosito. «È un
modo strano di metterla.»
«Lo è, vero? Credo sia dovuto al fatto
che ho riflettuto molto sul potere
stamattina.»
Camminarono in silenzio per un paio
di minuti, poi Tony disse: «Cosa ne
pensi del potere, Tom?»
Mentre Storey cercava le parole per
esprimersi, due rughe gemelle presero
forma tra le sue sopracciglia. Trovava
più difficile esternare i suoi pensieri
ora. «Si prende dove si trova» disse. «È
sempre circostanziale. Al potere di un
uomo corrisponde il patimento di un
altro.»
Tony si fermò di colpo. Non si
spiegava perché, ma qualcosa nelle
parole di Tom Storey gli aveva fatto
venire un’idea. Parlò con voce talmente
bassa che il suo paziente dovette
sforzarsi per sentirlo. «Consideri il
sottomesso, c’è un filo diretto che lo
collega all’oppressore...» Tony alzò lo
sguardo al cielo. «Trova il filo e
troverai l’assassino.» Si voltò verso
Storey e sorrise pieno di gioia. «Grazie,
Tom. Grazie per questo pensiero
meraviglioso. Credo di cominciare a
vederci chiaro finalmente.» Ma c’era
ancora da aspettare per averne la
certezza. Come aveva detto, Tony aveva
un altro paziente da incontrare, un
paziente la cui psicosi richiedeva la sua
massima attenzione. Un’ora più tardi, il
dottore riemerse finalmente dal suo
ufficio, lo sguardo basso, dimentico
dell’ambiente circostante. Era
vagamente consapevole delle sagome
che gli passavano a fianco, ma giunto
quasi alla fine del corridoio qualcosa
penetrò il flusso dei suoi pensieri. Si
fermò e corrugò la fronte, guardandosi
intorno con aria impaziente mentre una
voce ripeteva la sua imitazione di Bugs
Bunny.
Jan Shields era appoggiata alla parete
vicino al suo ufficio. Sorrideva. «Ho
detto, ‘Ehi, che succede amico?’»
Un’ansia improvvisa assalì il dottore
ma fu subito soppressa. Se ci fossero
state brutte notizie, il sergente non
sarebbe stato in vena di scherzare. «Non
lasci mai il suo lavoro per una carriera
nel doppiaggio» disse, tornando sui suoi
passi.
«Neanche per sogno. Adoro il mio
lavoro.»
Tony la affiancò. «È successo
qualcosa?»
Jan si staccò dalla parete. «No. È
questo il problema. Il capo Brandon
vuole un profilo, così avrà qualcosa da
dare in pasto agli sciacalli. Sono qui per
accompagnarla in centrale. Andiamo?»
Indicò il corridoio principale e si
accodò al dottore.
«Come sapeva che ero qui? E che non
avevo la mia auto?»
Jan gli fece l’occhiolino. «Sono una
detective.»
«Quello che faccio per vivere non è di
certo un segreto. Ha chiesto a Carol.»
Jan sorrise. «Quando ho trovato la sua
macchina davanti a casa ma di lei non
c’era traccia, ho chiamato Carol. Ha
detto che probabilmente si era
dimenticato i fari accesi. Così ho
chiamato l’ospedale.»
Quando raggiunsero il parcheggio,
Tony notò con sorpresa che non si
stavano dirigendo verso una berlina
anonima ma verso una sportiva a due
posti di marchio giapponese con assetto
ribassato. «Noto con piacere che il
dipartimento di investigazione criminale
di Bradfield si prende cura dei suoi
agenti» commentò, chinandosi per
accomodarsi sul sedile del passeggero.
«Ha davvero uno strano senso
dell’umorismo, dottor Hill» disse Jan.
«Tony. Diamoci del tu, per favore.»
Sussultò quando il sergente affondò il
piede sull’acceleratore sfrecciando
lungo il viale angusto.
«Allora, tu che ci guadagni?» chiese
Jan, ingranando le marce.
«A fare cosa?» disse il dottore,
confuso.
«A lavorare con gli svitati al Bradfield
Moor. Perché farlo? Potresti limitarti a
fare il profiler e a insegnare. Perché
prendersi il disturbo di avere a che fare
con quegli schizzati?»
Tony rifletté per un momento.
«Speranza» disse, infine.
«Tutto qui? Speranza?»
«Non sottovalutare il potere della
speranza. Inoltre,» aggiunse il dottore
«sono bravo in quello che faccio. È
soddisfacente fare qualcosa in cui sai di
essere migliore della maggior parte dei
professionisti del settore. Non credi?»
Jan imboccò una curva ad alta velocità
e Tony si ritrovò schiacciato contro lo
sportello. «Grazie per il complimento
implicito» disse il sergente. «E ti sono
di aiuto nei casi di cui ti stai occupando
come profiler? Gli svitati, intendo.»
Tony sorrise. «Per quanto possa
sembrare strano, ho più fiducia nelle
mie capacità di giudizio che nelle loro.
Ma questo non vuol dire che a volte non
offrano spunti utili in modo fortuito.»
«Qualche spunto utile, oggi?»
Tony scosse la testa. «Solo un
promemoria tempestivo che mi ha fatto
capire che avrei dovuto concentrarmi di
più sulle vittime. E sul legame che le
unisce.»
«Be’, è facile. Sono tutte prostitute.»
«Eccetto Paula.»
Jan si fermò all’incrocio con la strada
principale e ne approfittò per lanciargli
uno sguardo perplesso. «Ma lo
sembrava allo sguardo di un estraneo.»
«‘Se gli sguardi potessero uccidere,
probabilmente lo farebbero’ cantava
Peter Gabriel.» Tony sorrise di fronte
all’espressione perplessa del sergente.
«C’è un’altra cosa che le accomuna.»
«Cosa?»
«Se fossi un assassino la cui missione
è ripulire le strade, potresti pensare che
togliere di mezzo i poliziotti sia
socialmente utile quanto sbarazzarsi
delle prostitute. Ma naturalmente questo
avrebbe senso solo se Paula fosse un
poliziotto corrotto...»
«Ci sono molti modi di essere
corrotti.»
«Ah, sì. Ho saputo della tua
rivelazione. Don Merrick ha reagito
male alla notizia.»
Il sorriso di Jan fu privo di calore
stavolta. «È così scontato, non trovi?
Una bella donna come lei, come è
possibile che sia lesbica?»
«Eppure tu l’hai capito» disse Tony.
«Ma suppongo sia naturale, in fondo.»
«Che intendi?» chiese Jan.
«Ci si riconosce tra affini, no?»
Jan gli lanciò un’occhiata veloce.
«Cosa ti fa pensare che io sia gay?»
«Dovrebbe essere un segreto?»
Jan gli fece una pernacchia. «Giochetti
da strizzacervelli. Rispondi alla
domanda: cosa ti fa pensare che io sia
gay?»
Per il modo in cui ti comporti quando
sei con Carol, pensò il dottore, ma non
volle dirlo per ciò che avrebbe rivelato
su sé stesso. Rifletté per un momento,
cercando un altro modo di dire la stessa
cosa. «Per il modo in cui ti comporti con
gli uomini.»
«Credi che odi gli uomini? Che
cliché.»
«Non è quello che ho detto. Ci tratti
tutti con lo stesso esatto mix di
divertimento, fascino e disprezzo. Non
importa se siamo brutti o attraenti,
intelligenti o ottusi, non fai differenze.
Non sei interessata a noi oltre i confini
di un’interazione professionale. Potresti
anche essere tra quegli individui che
semplicemente non sono interessati al
sesso, né con maschi né con femmine,
ma non credo sia così. Avverto un certo
carisma sessuale in te. Questo risponde
alla tua domanda?»
Jan rallentò e si voltò a guardarlo.
«Grazie per aver risposto seriamente. Si
dà il caso che tu abbia ragione. Come io
ho ragione riguardo a Paula.»
«E credi che sia stato giusto rivelare
un segreto non tuo?» chiese Tony,
curioso piuttosto che polemico.
«Ehi, sei tu che dici che dovremmo
considerare ogni aspetto delle vittime.
Credi sia importante? Il fatto che Paula
sia gay?»
«Non l’ho pensato nemmeno per un
secondo. Non mi è sembrato un dettaglio
rilevante» disse il dottore, con
indifferenza.
«È una cosa che può renderti
vulnerabile in strada. A meno che tu non
faccia qualcosa per girare la situazione
a tuo vantaggio. Non puoi aspettarti che
lo faccia qualcun altro per te.
Naturalmente non è l’unica cosa che ti
rende vulnerabile. Qualsiasi tipo di
differenza può avere lo stesso effetto: la
razza, la disabilità... Sono tutte cose per
cui si deve compensare.»
Nel corso di ogni esplorazione di una
mente criminale, per Tony arrivava
sempre il momento in cui qualche
dettaglio cruciale andava al suo posto e
dava senso a tutto il resto. Il dottore non
se ne sarebbe accorto se quella mattina
non fosse stato tanto assorto in
riflessioni su potere e vulnerabilità, ma
dato che la sua mente correva già su
quei binari, quel dettaglio assunse il
giusto valore. Credeva di aver capito,
finalmente. Sapeva anche che non aveva
la minima speranza di convincere Carol
o chiunque altro. Volendo nascondere la
sua reazione a Jan, Tony guardò fuori dal
finestrino del passeggero. «Suppongo di
sì. Deve essere altrettanto dura per
Evans e Chen» disse, con disinvoltura.
«Non saprei, non gliel’ho mai
chiesto.»
«No? Niente solidarietà tra
minoranze?» chiese Tony.
«Non ho nulla contro di loro, ma
neppure qualcosa in comune. Perché mai
dovrebbero combattere le mie
battaglie?»
«Mi sembra giusto. Suppongo che
Brandon voglia questo profilo per...
ieri? Spiegherebbe perché si sono presi
il disturbo di mandare qualcuno a
prendermi.»
«Credo di sì. Non facciamo progressi.
Carol e Sam stanno studiando il caso di
Tyler in cerca di piste lasciate in
sospeso da rispolverare.» Jan allungò
una mano per accendere il lettore cd.
Bonnie Raitt cantava che l’amore non
conosce orgoglio.
«Credi che ce la farete a riportare
Paula a casa viva?» chiese Tony.
«Sinceramente?»
«Sinceramente.»
«Credo sia già morta. Credo che
l’assassino ci stia solo prendendo in
giro.»
Più di qualunque altra cosa avesse
sentito quel giorno, le parole del
sergente trafissero il cuore di Tony come
la punta gelida di una lama.
Evans poggiò un dito sul foglio per
tenere il segno e alzò lo sguardo. «Capo
Jordan? Sembra che Paula non venga
menzionata tra quelli che lavorarono al
caso di Tyler.»
Carol si fermò a pensare per un
momento. «Forse non era assegnata al
caso, Sam. Era un’agente di supporto nel
caso Thorpe, ma quell’incarico aveva
una durata limitata di sei mesi.
Probabilmente era già tornata a lavorare
in uniforme. Credi che voglia dire
qualcosa?»
«Anche se fosse, non avrei idea di
cosa vorrebbe dire» rispose Evans. «Mi
sto aggrappando a tutto.» Si rimisero al
lavoro, capo chinato, mente vigile,
mentre passavano al setaccio la
montagna di documenti.
Mezz’ora di silenzio più tardi, vennero
interrotti da un agente della scientifica.
«È lei l’ispettrice capo Jordan?» chiese
l’uomo.
«Sì.» Carol cercò di smorzare le sue
aspettative. Non avrebbe sopportato
altre false speranze.
«Abbiamo ispezionato i bidoni della
spazzatura nell’area di ricerca e
abbiamo trovato il microfono e il
trasmettitore indossati dalla detective
McIntyre» disse l’agente in tono
compiaciuto.
Carol drizzò le orecchie. «E?» Con la
coda dell’occhio, registrò l’arrivo di
Jan e Tony, ma la sua attenzione era tutta
per l’agente della scientifica.
«Il cavo che collegava il microfono al
trasmettitore è stato tagliato. Sul
trasmettitore abbiamo rilevato due
impronte parziali. Ci stiamo lavorando
in questo momento. A breve dovremmo
sapere se c’è una corrispondenza
nell’AFIS.»
Tony rimase indietro in modo discreto,
mentre Jan gettò cappotto e borsa sulla
sua scrivania e si avvicinò all’ufficio di
Carol.
«Perché ci è voluto così tanto a
trovarli?» domandò Carol. «Cosa avete
fatto negli ultimi due giorni?»
L’agente sembrò offeso. «Li abbiamo
trovati a circa duecento metri dal punto
in cui la detective McIntyre è stata vista
l’ultima volta. È tanta spazzatura tra cui
rovistare.»
«Lo è quando si lavora solo dalle nove
alle cinque. Jan, trova qualcuno da
portare con te a Temple Fields e allarga
l’area di ricerca dal punto in cui hanno
trovato il microfono. Sam, va’ con lei.»
Jan non perse tempo a discutere
l’ordine e lasciò l’ufficio diretta verso
la sala operativa. Evans sistemò il
cappuccio sulla sua stilografica Cross,
la infilò nella tasca interna della giacca
e seguì il sergente. Nel frattempo, Tony
si sedette con aria disinvolta alla
scrivania di Jan, apparentemente in
attesa di avere l’attenzione di Carol.
«Quanto ci vorrà per avere un
riscontro sull’AFIS?» chiese l’ispettrice.
Indisturbato, Tony si chinò e aprì la
borsa di Jan. Vi infilò una mano e
rovistò fino a trovare un mazzo di
chiavi. Lo avvolse tra le dita e lo tirò
fuori dalla borsa senza fare rumore,
infilandolo in tasca.
«Difficile dirlo» rispose l’agente della
scientifica. «Dipende dal traffico sul
sistema.»
Tony si alzò. «Vado a prendere un
caffè.»
Carol colse a stento le sue parole.
«Possiamo chiedere la priorità?»
«L’ho già fatto» sentì dire Tony mentre
usciva dall’ufficio. Si precipitò giù per
le scale e raggiunse la reception della
stazione. Si fermò al bancone.
«Sa dov’è il negozio di ferramenta più
vicino?» chiese il dottore.
Il civile dietro il bancone rifletté per
un momento. «Se va al piccolo centro
commerciale all’angolo, ne trova uno al
piano inferiore.»
Tony uscì di corsa. Aveva il fiatone
quando raggiunse il negozio. L’odore di
solventi e colla gli pizzicò la gola,
inumidendogli gli occhi. Per fortuna, non
c’erano clienti in fila prima di lui.
Poggiò il mazzo sul bancone. Insieme
alle chiavi della macchina, c’erano una
chiave di tipo Chubb, un paio di tipo
Yale e due chiavi più piccole. «Ho
bisogno di una copia di tutte queste
chiavi, eccetto quelle della macchina»
disse il dottore. «E ho una certa fretta,
temo.»
Il giovane dietro il bancone diede
un’occhiata veloce al mazzo. «Nessun
problema. Dieci minuti?»
«Perfetto. Torno subito.» Tony uscì dal
negozio in tutta fretta e attraversò la
galleria commerciale diretto al bar
vicino alle scale mobili. Anche qui,
ebbe la fortuna di essere l’unico cliente.
«Un caffè macchiato large a portar via,
per favore.» Prese a tamburellare le dita
sul bancone, in attesa che il barista
padroneggiasse il macchinario
tecnologico con una lentezza esasperante
e che assemblasse la bevanda. Poi
afferrò il contenitore di cartone e si
avviò a passo spedito verso il negozio
di ferramenta.
Cinque minuti dopo, si avvicinò con
fare disinvolto all’auto di Jan. Poggiò il
caffè per terra, aprì lo sportello e inserì
la chiave nel cruscotto. Poi, assumendo
l’aria di chi non ha pensieri più
pressanti per la testa eccetto il proprio
caffè e il profilo di un serial killer, il
dottore si avviò verso l’ufficio comune
della crimini maggiori.
Varcò la soglia proprio mentre Jan
svuotava la sua borsa sulla scrivania.
Alzò lo sguardo, frustrata. «Per caso hai
visto le mie chiavi da qualche parte?»
Tony si grattò la testa, aggrottando la
fronte come se cercasse di ricordare.
«Sai, non ricordo di averti visto
chiudere la macchina» disse.
«Cazzo.» Jan gettò le sue cose nella
borsa, afferrò la giacca e uscì di corsa
dall’ufficio. Evans inarcò le
sopracciglia in direzione di Tony,
seguendo il sergente in tutta calma.
Tony scrollò le spalle. «Che posso
dire? Faccio quest’effetto alle donne.»
Honey, il cui vero nome era Emma
Thwaite, si riteneva una persona capace
di cavarsela da sola. Erano passati
soltanto pochi mesi da quando aveva
lasciato la sua miserabile casa popolare
a Blackburn per sfuggire alla
responsabilità di crescere tre fratelli
minori mentre sua madre trascorreva le
giornate nei pub, a scroccare drink da
uomini che poi avrebbe portato a casa e
scopato sul divano del salotto. Ma
sembrava fosse passata un’eternità.
Riusciva a stento a ricordare chi fosse
allora.
Sapeva di essere stata fortunata a
finire sotto l’ala protettiva di Jackie ed
era stata tanto ingenua da pensare di
aver appreso abbastanza in quella
posizione di relativa sicurezza per
cavarsela da sola. Ma gli ultimi giorni le
avevano fatto capire che la sua capacità
di affrontare il mondo era di gran lunga
più piccola di quanto pensasse. Voleva
che qualcuno prendesse il posto di
Jackie, voleva qualcuno che l’aiutasse a
smorzare la paura e la solitudine.
Così, quando entrò allo Stan’s Café
quel pomeriggio, andò dritta verso il
tavolo dove Dee Smart sedeva da sola a
fumare una sigaretta, fissando la strada
attraverso le vetrate. «Ehi, Dee» disse
Honey. «Ti va un’altra tazza di tè?»
Dee la squadrò da capo a piedi, come
per valutare quale potesse essere il
prezzo di quella gentilezza. «Sì, fa’
pure» rispose, con un breve sospiro.
Honey si diresse verso il bancone
accompagnata dal rumore dei suoi tacchi
alti, e ritornò con due tazze e un paio di
biscotti al cioccolato. «Ecco a te» disse,
sedendosi davanti a Dee e scartando il
suo biscotto.
Dee continuò a fissare la strada. «Quei
bastardi di sbirri sono ovunque.
Spaventano i clienti.»
«Prima prendono il responsabile di
questo casino, prima torniamo alla
normalità.»
Dee la guardò con disprezzo.
«Scordati che succeda a breve.»
«Dici?» Honey tentò di nascondere la
sua preoccupazione.
«Lo so per certo. Credi che non ci sia
il Cobra dietro tutto questo?»
Il nome colse Honey di sorpresa. Non
aveva mai pensato di collegarlo ai
crimini che avevano messo il suo mondo
sottosopra. «Questa storia ha a che fare
con il Cobra?» chiese.
«Certo che sì» disse Dee, in tono
impaziente. «Non mi hanno dato tregua
con le loro domande. Conosco il Cobra?
Conosco qualcuno che ce l’aveva con
Sandie? Bla, bla, bla.»
«E tu non hai detto niente?» Honey non
riusciva a capire perché Dee avesse
tenuto la bocca chiusa su qualcosa di
così importante.
Gli occhi di Dee si ridussero a due
fessure. «Sei pazza? Credi che voglia
essere la prossima vittima?»
Honey aggrottò la fronte. Sapeva di
non essere un genio, ma credeva che il
ragionamento di Dee non avesse molto
senso. «Non ci sarà nessun’altra vittima
se il Cobra è dietro le sbarre» le fece
notare.
Con fare esasperato, Dee diede un
colpetto alla sigaretta per far cadere la
cenere. «Cresci, Honey. Non alzeranno
mai un dito contro il Cobra.»
«Però...»
Dee scosse la testa con veemenza.
«Non pensarci neanche. Sarebbe un
suicidio, ragazza.» Allontanò la tazza,
come se avesse deciso che bere quel tè
equivalesse a prendere un impegno
troppo grande. «Credevo che avessi
imparato la lezione dopo quello che è
successo a Jackie. Se non vuoi finire
come lei, non ficcare il naso negli affari
del Cobra.»
Honey guardò Dee andar via. La feriva
il fatto che il suo approccio fosse stato
respinto, ma ciò che la turbava di più
era il motivo per cui era fallito. Forse
Dee aveva ragione, la cosa migliore da
fare era tenere la testa bassa e non
creare problemi. Ma se invece Dee si
stesse sbagliando?
Don Merrick decise che le Highlands
scozzesi non facevano per lui. Non era
mai stato in un posto così deserto in tutta
la sua vita. Si ricordò di un viaggio fatto
con Lindy prima che nascessero i
bambini, un safari nel Sahara su un 4x4.
A confronto con la desolazione che lo
circondava in quel momento, il deserto
gli sembrò decisamente affollato. Fino a
qualche chilometro di distanza
dall’aeroporto di Inverness la situazione
non era stata poi così male, ma quando
l’ispettore aveva lasciato la strada
principale per dirigersi a ovest con la
sua auto a noleggio, si era ritrovato nel
mezzo del nulla più assoluto nel giro di
pochissimo. Stando alla cartina, quella
su cui si trovava era una strada statale,
ma a Merrick sembrava più una delle
stradine secondarie del Peak District.
Ci sarebbe da impazzire quassù,
pensò. Solo rocce grigie, vegetazione tra
il marrone e il verdastro e lo sporadico
stagno marrone-grigio. A volte le rocce
grigiastre si presentavano come fastigi
sgretolati di quella che una volta era
forse stata una casa o un fienile. Ma le
tracce di vita umana erano poche e
molto distanti tra loro. Gli unici esseri
viventi che vedeva erano pecore. In
un’ora di viaggio aveva incrociato due
veicoli, entrambi nella direzione
opposta alla sua: un Land Rover e un
pulmino rosso con la scritta PostBus
stampata su un fianco. Don si disse che
alcuni potevano anche apprezzare lo
splendore naturale e l’isolamento di
quel posto, ma lui si rese conto di avere
nostalgia del trambusto e della ressa
cittadina.
Quando aveva guardato la cartina,
aveva creduto di poter controllare il
presunto nascondiglio di Nick Sanders
nel giro di qualche ora, prima ancora
che qualcuno si accorgesse della sua
assenza. Avrebbe catturato il fuggitivo e
riguadagnato il rispetto per sé stesso in
un’unica mossa. Poi, la gloria di un tale
successo gli sarebbe valsa il perdono
per la sua insubordinazione. Carol
sarebbe stata costretta a riconoscere le
sue capacità se l’ispettore avesse messo
Sanders dietro le sbarre prima
dell’imbrunire.
Ma lassù la luce andava via prima.
Era solo mezzogiorno e sembrava che il
sole stesse già per tramontare. Arrivare
ad Achmelvich prima che calasse la sera
sarebbe già stata una fortuna per
Merrick, tornare a Bradfield era fuori
discussione. Si pentì di non aver portato
con sé una torcia. Aveva la sensazione
che Achmelvich sarebbe stata alquanto
povera di lampioni. Se avesse trovato
qualche traccia di civiltà, si sarebbe
fermato a fare provviste.
Si chiese se da quelle parti si
consumasse cioccolata.
Tony aveva scelto di sedersi alla
scrivania solitamente occupata da Kevin
Matthews per la sola ragione che Carol
non avrebbe potuto vederlo dal suo
ufficio. L’ispettrice era ancora
impegnata al telefono, il che permise al
dottore di sfogliare le pagine
dell’elenco telefonico in tutta libertà.
Con un orecchio rivolto all’ufficio di
Carol, Tony fece scorrere il dito su una
colonna di nomi. Dio, se è difficile
leggere queste scritte minuscole, pensò.
Era ora di far visita al suo oculista.
Sembrava che Carol stesse per
terminare la telefonata. «Sì, lo so che
pensano tutti di avere la priorità. Ma uno
dei miei agenti è stato rapito da un
assassino...» Una pausa. «Okay. La
ringrazio.»
Tony trovò quello che cercava appena
in tempo. Lo appuntò su un pezzo di
carta e lo infilò in tasca mentre Carol
riemergeva dal suo ufficio diretta verso
di lui. «Jan ti ha aggiornato?» domandò
l’ispettrice.
«Jan? Aggiornato?» ripeté il dottore.
«Brandon vuole un profilo. Alla
conferenza stampa di mezzogiorno ha già
detto che si sarebbe rivolto a un profiler.
E ovviamente i media si aspetteranno
che sia tu.»
«Ah, quello. Giusto. Sì, mi ha
accennato qualcosa» disse Tony,
sapendo di sembrare agitato e sperando
che Carol attribuisse il tutto alla sua
abituale vaghezza. «Suppongo che non
debba fare riferimento a quanto ti ho
detto ieri sera?» chiese, sperando di
distrarla abbastanza da impedirle di
notare qualcosa di strano nel suo
comportamento.
Carol inarcò le sopracciglia. «Non se
vuoi che Brandon ti prenda seriamente.»
«E tu? Ci hai riflettuto?»
Carol si passò una mano tra i capelli.
«Sì, ma non mi ha portato a fare
progressi. Mi dispiace, Tony, ma a meno
che tu non abbia qualcosa di concreto,
non ho tempo per questo ora.»
Tony si alzò. «Non c’è problema.
Capisco. Vado a casa. Lavorerò meglio
da lì.»
«Okay, ci sentiamo più tardi» rispose
distrattamente Carol. I suoi pensieri
erano già altrove, il telefono
all’orecchio, le dita sui tasti.
Lasciata la stazione, Tony chiamò un
taxi. Prese il pezzo di carta dalla tasca e
diede l’indirizzo al conducente. Si
afflosciò sul sedile con lo sguardo fisso
nel vuoto. Era così preso dai suoi
pensieri che non si rese conto di aver
cominciato a parlare ad alta voce, né si
accorse dell’espressione preoccupata
del conducente nello specchietto
retrovisore. L’unica cosa che gli
interessava era scardinare una mente
criminale.
«Non hai avuto quello che volevi»
mormorò. «La fata cattiva ti ha dato una
vita di merda e un cervello abbastanza
acuto da capire fino a che punto lo fosse.
Allora impari a prendere il potere, a
nascondere la vulnerabilità. Ti prendi la
tua rivincita. Nascondi la tua debolezza
dietro una dimostrazione di forza. Ma
prima o poi, gli ingranaggi si inceppano.
Smetti di credere nell’immagine di te
che pubblicizzi. Devi trovare un modo
per rassicurarti. Un modo per ottenere
più potere. Diventi la voce.» Annuì,
soddisfatto. Aveva senso. Aveva la
struttura di un ragionamento logico. Era
una logica poco solida, ma era
comunque logica.
«All’inizio prendi il potere dai deboli.
Trovi un ascoltatore in Derek. Gli fai
fare ciò che vuoi. Gli fai catturare la tua
preda e controlli ogni mossa del tuo
burattino. Ma Derek incasina tutto e tu
ritorni al punto di partenza. E ci vuole
tempo per modellare un altro intelletto
perché combaci con il tuo. Ma ci riesci,
alla fine. Trovi un’altra mente da
dominare, un altro cervello in cui
annidarti. E ricominci, finché non si
presenta la possibilità di confrontarti
con qualcuno della tua stessa stazza. E
non ce la fai a resistere, non è così?»
I suoi ragionamenti furono interrotti
dalla voce ansiosa del conducente del
taxi. «Sta bene, signore?» chiese
l’uomo.
Tony si chinò in avanti. «Non proprio»
disse. «Ma starò bene molto presto,
spero.»
Una delle ragioni del mio successo è
la mia abilità nel prendere decisioni su
due piedi, nell’adattare i miei piani a
circostanze mutevoli. Considerato
quanto mi ci è voluto ad ammaestrarla,
speravo che questa scimmia sarebbe
durata più a lungo, ma è evidente che
prima piuttosto che poi il dito verrà
puntato contro di lui – e questo pone un
rischio che non sono incline a correre.
Non avevo dubbi su Tyler, sapevo che
sarebbe rimasto leale perché aveva
interessi personali in quello che gli
dicevo di fare. Ma quest’altro è più
debole. Mi tradirà senza neanche
rendersene conto.
Parcheggio all’angolo della strada in
cui si trova la topaia che chiama casa.
Si sta facendo scuro e sono tutti troppo
concentrati a raggiungere un posto
caldo per prestare attenzione a me o a
chiunque altro. Controllo gli
specchietti per assicurarmi che
nessuno mi stia guardando, poi prendo
la pistola dal vano portaoggetti. Godo
a sentirne il peso nella mia mano.
Quando la via è libera, esco e a testa
bassa raggiungo rapidamente la mia
destinazione. Ho la chiave del portone
e corro su per le scale fino al primo
pianerottolo su cui si affacciano due
porte verdi e sudicie. Sollevo una mano
guantata e busso alla porta con il
numero quattro dipinto sul legno.
Sento i battiti del cuore aumentare.
Non l’ho mai fatto faccia a faccia
prima d’ora e la prospettiva di scoprire
cosa si prova mi incuriosisce. I secondi
passano, poi la porta si apre appena.
Carl sbircia attraverso l’apertura,
indossa solo un paio di boxer larghi
grigi e una maglietta spiegazzata. Ha
l’aria di essersi appena svegliato. È
diffidente, ma quando mi vede il suo
volto si illumina.
«Ciao» dice, con un sorriso da ebete
sul volto untuoso. «Non ti aspettavo.»
Fa un passo indietro per farmi
entrare. La stanza è umida e
disordinata. Il letto è sfatto, i vestiti
ammucchiati gli uni sugli altri, un
poster di Britney è appeso alla parete.
C’è odore di masturbazione e sudore.
Ogni volta che metto piede qui dentro,
mi deprimo a pensare che questo è il
meglio che ho potuto fare.
Carl sta blaterando qualcosa, ma
oggi pomeriggio non ho tempo per
chiacchierare. Dovrei essere altrove.
Tiro fuori la pistola e godo del panico
che leggo sul suo volto. Non è molto
sveglio, ma anche lui sa cosa vuol dire
quando si punta una pistola alla testa
di qualcuno. Lo faccio indietreggiare
verso il letto.
«Ho fatto quello che volevi. Non l’ho
detto a nessuno» frigna. Le sue gambe
sbattono contro il bordo del letto e
cade all’indietro. Si dimena fino a
raggiungere la testiera. Piange ora.
«Non ti tradirò, te lo prometto.»
Trovo la voce dentro di me. Quella a
cui so che è costretto a obbedire.
«Stenditi, Carl. Stenditi e andrà tutto
bene. Sono la Voce. Sono la tua Voce.
Quello che ti dico di fare è per il tuo
bene. Sono la Voce, Carl. Stenditi.»
Funziona. Il suo subconscio prevale sul
panico abbastanza da spingerlo a fare
ciò che voglio. Trema e suda, ma fa
quello che dico.
Prendo il cuscino e lo appoggio al
lato della sua testa. Premo la canna
della pistola contro il cuscino. I suoi
occhi sono spalancati e fiduciosi.
«Sono la Voce» gli ricordo. «Sono la
tua Voce.» Poi premo il grilletto.
Carol alzò lo sguardo dai fascicoli che
stava leggendo e riconobbe nell’uomo
appena entrato nell’ufficio comune uno
degli agenti della scientifica. «Abbiamo
i risultati dell’AFIS» disse l’uomo.
«Chi è?» chiese Carol, alzandosi e
prendendo il foglio di carta nella mano
dell’agente.
«Carl Mackenzie. Ventisei anni.
Precedenti per possesso di cannabis, di
ecstasy, oltraggio al pudore...»
«Lo conosco, è uno spacciatore da
quattro soldi» disse Kevin. «Frequenta
spesso lo Stan’s Café.»
«Ultimo indirizzo conosciuto Grove
Terrace 7, appartamento numero 4,
Bradfield» disse Carol. «Forza, Kevin.
Muoviamoci.» L’ispettrice scansò
l’agente della scientifica, chiamando
Merrick ad alta voce.
«Si è preso qualche ora per riposare»
le ricordò Kevin. «Potrei chiamarlo al
cellulare.»
Carol scosse la testa. «Lascia stare.
Stacey, prendi il cappotto» ordinò.
L’agente della scientifica rimase sulla
soglia dell’ufficio di Carol e li guardò
andar via. «Grazie per aver lavorato
sodo, ragazzi» scimmiottò in tono
sarcastico.
Carol, Kevin e Stacey avanzavano a
grandi passi lungo il corridoio.
«Prendiamo la mia macchina» urlò
Kevin. «Ho il lampeggiante.»
Carol annuì mentre sfrecciavano giù
per le scale fino al parcheggio. Si
infilarono nell’auto di Kevin e Carol
aprì il vano portaoggetti per prendere il
lampeggiante blu. Armeggiando con il
connettore, riuscì finalmente a inserirlo
nell’accendisigari, poi abbassò il
finestrino e fissò il lampeggiante sul
tettuccio.
Si ritrovarono subito in mezzo al
traffico dell’ora di punta, colonne di
auto intasavano le strade. Kevin suonò il
clacson, il lampeggiante si accese e
gradualmente gli altri conducenti
capirono di dovere accostare. Sembrò
un processo terribilmente lento.
Carol si mordicchiava la pelle intorno
all’unghia del pollice. Per favore, Dio,
facci trovare Carl Mackenzie. Ti prego,
fa’ che ci conduca a Paula.
Tony pagò il taxi e rimase a fissare la
casa di fronte a lui per un lungo
momento. Era un’abitazione
indipendente in mattoni e faceva parte di
un’area di sviluppo urbano scialba e
deprimente ai margini del centro
cittadino. Occupava il lotto centrale alla
fine di un cul-de-sac e godeva di una
visuale priva di ostacoli su qualsiasi
veicolo imboccasse la strada. Non fu
una sorpresa per Tony. Era prevedibile
che il Cobra volesse tenere sotto
controllo ogni aspetto riguardante il suo
territorio.
Se possibile, la casa di Jan Shields
mancava di personalità ancor più di
quelle che la circondavano. Vernice
bianca, porta bianca, basculante del
garage bianca. Una noiosa
pavimentazione in mattoni sul vialetto
d’accesso al garage e alla casa. Un prato
curato con arbusti equamente distanziati
e delimitato da conifere potate con
un’accuratezza maniacale. Niente di
sorprendente per Tony.
Attraversò il vialetto e provò a infilare
la chiave Chubb nella serratura.
Sembrava non entrare all’inizio, ma
Tony armeggiò delicatamente e la mappa
metallica scivolò nel suo alloggiamento.
La prima Yale non entrò, ma la seconda
si infilò nella toppa senza problemi.
Mentre la porta si apriva, Tony sentì
l’insistente bip di avvertimento del
sistema di allarme. Si guardò in giro in
cerca del pannello di controllo e lo
trovò alle sue spalle. La fortuna era
dalla sua: il meccanismo di disarmo
dipendeva da una chiave e non da una
combinazione elettronica. Armeggiò con
le due chiavi più piccole, le mani
sudavano mentre infilava la prima nella
toppa e la girava.
Scese il silenzio. Tony si asciugò il
sudore dal viso con entrambe le mani e
si voltò per esaminare quella che
credeva essere la tana del Cobra. Le
prove a favore della sua convinzione
avrebbero avuto scarso successo con
qualsiasi poliziotto. Immaginava già
l’espressione di Carol. «È il modo in
cui parla di potere e vulnerabilità. Il suo
disprezzo per i deboli» avrebbe
spiegato il dottore. Poi avrebbe letto
l’indecisione sul volto di Carol, la lotta
tra il desiderio di credergli e la
necessità in quanto poliziotto di affidarsi
a prove tangibili. In realtà, per quanto
ugualmente intangibile, il dottore aveva
anche qualcos’altro a supporto della sua
convinzione. Sin dall’inizio, il fatto che
il cavo fosse stato tagliato gli aveva
dato da pensare. Se Paula se ne fosse
accorta, avrebbe reagito in quello stesso
istante. Il fatto che la detective non se ne
fosse accorta, voleva dire che il rapitore
aveva agito a colpo sicuro. E per agire a
colpo sicuro, chiunque l’aveva rapita
non poteva essersi affidato alla sorte.
Sapeva del cavo, e questo restringeva la
lista dei sospettati a Carol e al suo team.
All’inizio, il dottore si era concentrato
su Chen e Evans. Erano gli outsider più
ovvi dato il loro contesto razziale. Non
era difficile immaginare il rancore che
dovevano aver accumulato nel corso
degli anni, mentre si scoprivano
impotenti davanti a un’istituzione
implacabilmente regolata per
tramandare il controllo ad altri. Chen gli
era sembrata la più papabile data la sua
ossessione per i computer. Interagire con
le persone non era il suo forte e se fosse
stata il killer, quella caratteristica
l’avrebbe indotta ad agire attraverso
qualcun altro. Anche in Evans c’era una
freddezza che dava da pensare, una
distanza che suggeriva una sua possibile
inclinazione verso lo sfruttamento degli
altri per il raggiungimento dei propri
scopi.
Poi Tony si era reso conto che Jan non
era solo un’altra outsider, ma aveva
anche una connessione unica con Paula.
Così, quella mattina aveva guidato la
conversazione in una direzione che
sperava gli avrebbe svelato qualcosa in
più riguardo al sergente. Così era stato.
Poi il dottore si era ricordato che Carol
aveva accennato al fatto che era stata
Jan ad aiutare Paula a scegliere i vestiti
per l’operazione. Nessuno meglio del
sergente poteva assicurarsi che il cavo
fosse al posto giusto. Così, il dottore si
era intrufolato in casa di Jan, puntando
tutto sul suo istinto.
Accese l’interruttore nell’atrio. Era un
rischio, ma non aveva senso starsene al
buio. Il pavimento era coperto da una
moquette spessa color crema. Si
estendeva fino al salotto e saliva su per i
gradini verso il piano superiore. Era
immacolata. Nessuna traccia di bambini
o animali. Tony abbassò lo sguardo e
notò un paio di pantofole accanto alla
porta d’ingresso. A niente che
provenisse dal mondo esterno era
concesso insozzare quel luogo.
Si spostò verso il salotto rimanendo
sulla soglia a osservare, passando da
uno sguardo d’insieme a un esame
minuzioso. La stanza era grande, un arco
collegava l’area relax alla zona pranzo.
Due grandi divani color crema
dominavano la prima metà della stanza,
ognuno fornito di quattro cuscini di
velluto bordeaux perfettamente
posizionati. Davanti a uno dei divani
c’era un tavolino da caffè in vetro e
legno. Su di esso, rigorosamente
allineati, c’erano il quotidiano odierno e
la rivista Radio Times. Le pareti erano
dipinte di un crema più scuro di quello
della moquette. Sopra il finto camino era
appesa una riproduzione di un Mondrian
dai motivi geometrici. Una tv a schermo
piatto dominava un angolo della stanza,
un lettore dvd e un videoregistratore
erano sistemati appena sotto.
Dall’altro lato del camino c’era una
libreria a muro. Tony si avvicinò per
guardarla da vicino, ma fu distratto dal
computer portatile poggiato sul tavolo
da pranzo. Abbassò la testa varcando
l’arco, sollevò lo schermo e premette il
pulsante di accensione. Mentre aspettava
che il computer caricasse, ritornò alla
libreria. «Deve esserci qualche traccia»
mormorò.
Gli scaffali più bassi ospitavano
video, quelli più in alto libri. Gran parte
di questi ultimi erano di narrativa
lesbica, da romanzi di basso livello a
letteratura più seria di scrittrici come
Sarah Waters, Ali Smith e Jeanette
Winterson. Paradossalmente, c’era
anche una mezza dozzina di thriller di
John Buchan dalla copertina rigida e
lacera. Sullo scaffale più alto, si
susseguivano libri di testo legali e
manuali di polizia. Tony si chinò per
osservare i video. Procedurali
americani come CSI, NYPD – New York
Police Department e Law&Order
predominavano, sebbene ci fossero
anche dei classici del cinema lesbico
come Bound – Torbido inganno e
Fucking Åmål – Il coraggio di amare.
Tony prese un paio di cassette a caso,
ma il contenuto corrispondeva alla
copertina.
«Deve esserci una traccia» ripeté.
Tornò al computer e rimase a fissarlo.
Non era un tipo molto tecnologico.
Sapeva come eseguire i programmi che
gli servivano, niente di più. Aveva
bisogno di Stacey Chen. Ma in quel
momento anche una passeggiata sulla
luna sarebbe stata un’opzione più
attuabile. «Non è qui. Sei più
intelligente di così. Sai cosa possono
fare persone come Stacey. No, tu vuoi
qualcosa di tangibile, qualcosa a cui
accedere senza lasciare tracce.» Si
guardò intorno. Non c’erano nascondigli
nel soggiorno. Non sapeva dove la
burattinaia nascondesse le testimonianze
dei suoi esercizi di potere, ma di sicuro
non erano in quella stanza.
Risoluto, Tony si diresse verso le
scale. Non temeva di essere disturbato;
tutti gli agenti di Carol erano impegnati
sul campo fino a tardi. Jan non sarebbe
tornata prima di qualche ora. Il dottore
aveva tutto il tempo di guardarsi in giro
con calma.
I tre agenti salirono rumorosamente le
scale poco illuminate del civico 7 di
Grove Terrace, ignorando lo studente
rimasto a bocca aperta dopo averli
lasciati entrare e che ora gridava: «Ehi,
che cazzo...»
Si riversarono sul pianerottolo davanti
all’appartamento numero 4. Carol bussò
sbattendo il lato del pugno sulla porta.
«Polizia, aprite» urlò, dando sfogo a
tutta la rabbia, la paura e la frustrazione
dei giorni precedenti.
Nessuna risposta. Kevin si fece largo
verso la porta e la colpì con tale
veemenza che il pannello di legno si
crepò. «Apri, Carl. È finita.»
«Buttala giù» disse Carol.
Kevin fece un passo indietro e si gettò
contro la porta. Questa vibrò, ma non si
aprì. Mentre indietreggiava per fare un
altro tentativo, intervenne Stacey.
«Fammi provare» disse.
Kevin scoppiò quasi a ridere. «Cosa?»
Ma la mente di Stacey era già altrove.
La detective era di lato rispetto alla
porta e respirava a fondo. Sembrò
accartocciarsi su sé stessa, poi esplose
in un movimento fulmineo e la sua
gamba colpì la porta vicino alla
serratura. Volarono delle schegge di
legno e la porta si aprì.
«Porca miseria» disse Kevin.
Carol guardò Stacey con aria basita.
«Sei piena di sorprese» disse,
spalancando la porta. Quello che videro
spazzò via ogni traccia di meraviglia o
frivolezza. Carl Mackenzie giaceva
disteso sul letto, sangue e materia
cerebrale macchiavano le lenzuola e la
parete alle sue spalle. L’aria era pregna
del sapore metallico e salato del sangue.
Nella mano destra Carl aveva una
pistola, le sue dita erano leggermente
piegate intorno al calcio.
«Ferita d’arma da fuoco alla tempia
destra. Pistola in mano» disse Carol
automaticamente.
«Oh dio, no» gridò Kevin. «Fottuto
bastardo, perché non ci ha dato Paula
prima? Fottuto bastardo egoista.»
«Sembra suicidio» disse Stacey.
Carol si chinò per osservare il
cadavere sul letto più da vicino.
«Peccato che non vedo bruciature da
polvere da sparo intorno alla ferita.»
Poggiò il dorso della mano contro il
braccio di Carl. «È ancora caldo. È
comodo così, cazzo.»
Stacey aggrottò la fronte. «Comodo
per chi?»
«Per chiunque voglia farci credere che
Carl Mackenzie fosse abbastanza
intelligente da pianificare una serie di
omicidi e rapire un poliziotto.»
«Non capisco. Le sue impronte erano
sul trasmettitore. Crede che stesse
lavorando con qualcuno?»
Carol sospirò. «Non con qualcuno,
Stacey. Per qualcuno.»
Non è stato così male, dopotutto.
Neanche vagamente eccitante quanto
farlo fare agli altri, ma comunque un
brivido piacevole. Avere il potere di
prendere una vita e avere il fegato di
esercitarlo. Come potrebbe non essere
piacevole?
Mi chiedo quanto reggerà la storia
del suicidio. Dipende dal motivo per
cui verrà ritrovato: se per una semplice
segnalazione o se perché lo cercano
per gli omicidi. Se saranno la bionda e
la sua squadra di galoppini a trovarlo,
non ci metteranno molto a capire che
Carl non era solo quando è morto. È un
peccato che abbia dovuto usare un
cuscino, ma non avevo un silenziatore
ed era più importante andarmene
piuttosto che rendere credibile la scena
del crimine e rischiare che qualche
vicino ficcanaso mi vedesse andar via
dopo lo sparo.
Forse avrei potuto raccontare che
stavo interrogando Carl quando
all’improvviso aveva preso la pistola e
si era sparato. Sarei stata l’eroina del
giorno. Ma era una strategia ad alto
rischio, e non sono arrivata fin qui
correndo rischi superflui. Ho sempre
fatto in modo che le probabilità fossero
a mio favore. Come con le scimmie
ammaestrate: mi sono sempre
assicurata che fossero in debito con me
prima di mandarle sul palco. Con
Derek c’era stata quella prova che lo
inchiodava per stupro misteriosamente
sparita. Con Carl c’era stata la droga.
Ora è tempo di fare pulizia. Tengo gli
occhi aperti per quello che cerco,
perlustrando le stradine laterali a
circa tre chilometri dall’appartamento
di Carl. Eccolo lì, nascosto in fondo a
un vicolo. Un cassone per rifiuti edili,
pieno di legno, detriti e mobili rotti.
Accosto davanti all’imbocco del vicolo
e prendo il cuscino distrutto. Lo
sistemo sotto un pannello di truciolato
spezzato e sono di nuovo in macchina
nel giro di un minuto.
Devo farmi vedere in giro, ma prima
voglio vederla. Ne ho bisogno. È
passato troppo tempo da stamattina e
Carl non porterà più nuovi video. Più
tardi dovrò andare di persona a
cambiare la cassetta e a controllarla.
Ficcare di persona un vibratore pieno
di lamette nella vagina di una donna
non mi darà la stessa soddisfazione.
Farlo fare a qualcun altro, è così che il
gioco vale la candela. Sporcarmi le
mani non ha mai fatto parte del piano.
Ma non c’è altra soluzione. Se la
abbandono a sé stessa, ci metterà
troppo a morire. Capiranno dove la
nascondo molto prima che succeda.
Anche se non ci sono prove che portano
a me, preferirei che fosse morta quando
la troveranno.
Certo, mi darebbe più piacere tenerla
in vita... Vederla soffrire a causa dei
danni che le ha inflitto il mio potere
potrebbe offrirmi qualcosa di speciale
da assaporare. Potrebbe intrattenermi
mentre cerco un’altra scimmia da
ammaestrare.
Sì. Forse un atto di pietà potrebbe
rivelarsi la soluzione più interessante
stavolta.
Ma prima voglio vederla soffrire
ancora un po’.
L’immacolata moquette color crema
proseguiva in tutto il piano superiore
della casa. La stanza davanti alle scale
era la camera da letto principale.
Sebbene fosse in perfetto ordine come il
soggiorno – nessun vestito gettato sulle
sedie, il letto rifatto con cura, la toletta
organizzata con la stessa precisione con
cui il dottor Vernon sistemava i suoi
strumenti prima di un’autopsia – non era
quello che Tony si aspettava. In qualche
modo, nonostante l’effetto complessivo
riuscisse a sembrare sterile, quella
camera era senz’altro concepita come
boudoir. Le tinte crema e pesca, le tende
che richiamavano le coperte, neppure
nel reparto biancheria da letto della
catena di John Lewis Tony aveva mai
visto tanti fronzoli e orpelli.
«Chi vuoi sembrare qui dentro?»
chiese il dottore ad alta voce. «Chi ci
porti? Vuoi dare un falso senso di
sicurezza? Vuoi far credere alle tue
prede che non sei uno squalo?» Si
avvicinò alla cassettiera e, provando
disagio nel sentirsi come quel genere di
maniaci sessuali che finivano col
diventare suoi pazienti, aprì il primo
cassetto. Era pieno zeppo di lingerie
eccessivamente femminile, quel tipo di
articoli che fino ad allora Tony aveva
visto solo in negozi molto costosi, e
sempre di sfuggita. Anche in quel
cassetto, era l’ordine a dominare. I
reggiseni da un lato, slip che meritavano
quel nome da un altro. Frugò con cautela
tra i capi in pizzo e seta. Non trovò nulla
di inappropriato.
Il secondo cassetto conteneva
magliette accuratamente piegate, molte
in seta, e un assortimento di calze e
calzini. L’ultimo era pieno di maglioni.
Il dottore lo richiuse, non avendo trovato
altro che vestiti.
Guardò sotto il letto. Formato king
size, testiera tradizionale in ferro battuto
color crema. Tony trovava indicativo del
suo interesse intellettuale verso la
perversione il fatto che non riuscisse a
guardare un letto simile senza pensare
automaticamente al bondage. Due
comodini completi di lampada erano
sistemati ai lati del letto. Era
impossibile capire su quale lato
dormisse Jan.
Controllò il cassetto del comodino più
vicino alla porta. Vuoto. L’altro
conteneva un paio di libri di letteratura
erotica gay, uno sul sadomasochismo, un
vibratore e un piccolo plug anale.
Niente di che, pensò il dottore. «Certo,
potrei sbagliarmi su di te. Effettivamente
va contro le probabilità» mormorò. «E
se fosse così, sarebbe molto
imbarazzante.» Chiuse il cassetto e si
guardò intorno con aria risoluta.
Una parete della stanza sembrava
consistere di sole porte. Tony ne aprì
una e si ritrovò dentro un piccolo bagno.
Nessun probabile nascondiglio lì. La
porta successiva si apriva su una cabina
armadio che occupava il resto della
stanza nel senso della lunghezza. Il
dottore entrò, avanzando lentamente
mentre osservava i vestiti. Completi,
pantaloni, giacche, camicie, un paio di
vestiti da sera. Tutto pulito e stirato,
alcuni capi erano ancora nelle buste
copriabiti della lavanderia. Tony si
inginocchiò per sbirciare oltre le scarpe.
Sembrava che Jan avesse un debole per
gli stivali da cowboy. Carol l’avrebbe
trovato deprimente.
Frugando tra gli stivali, le dita di Tony
sfiorarono qualcosa di metallico.
Andando a tastoni tra le calzature, il
dottore scoprì una scatola di metallo
nascosta in una nicchia nella parete.
«Bingo» commentò. La tirò a sé e provò
con l’ultima delle chiavi che aveva fatto
duplicare.
La serratura scattò con facilità, come
se venisse usata di frequente. Sperando
di trovare qualcosa di più di una
collezione di porno, Tony scoperchiò la
scatola.
Carol era sul pianerottolo di Grove
Terrace, fissava gli agenti della
scientifica che seguivano le loro tediose
procedure. Sentiva la voce di Stacey
provenire dal piano superiore.
«Conosceva bene Carl Mackenzie?»
Una donna rispose: «Non proprio.
Scambiavamo qualche parola sulle
scale, ma niente di più. Non ci stava
molto con la testa, povero ragazzo.»
«Ha mai visto qualcuno entrare o
uscire dal suo appartamento?»
«Non ho notato nessuno. Carl non era
certo pieno di amici. Si sforzava di
piacere, ma non era il tipo di persona
che vorresti attorno.»
«Ha sentito nulla di strano questo
pomeriggio?»
«No, tesoro. Guardavo la televisione.»
Kevin riemerse dal piano inferiore.
Scosse la testa. «Nessuno ha sentito
niente.»
Carol sospirò. «Non hanno sentito sul
serio, o non hanno voluto sentire?»
«Credo che dicano la verità» disse
Kevin, con aria disperata. «C’è
un’anziana al piano di sotto che
pagherebbe per aver sentito o visto
qualcosa. È dalla guerra boera che non
si trova in mezzo a una simile
concitazione.»
«Sai, Kevin, se Carl Mackenzie si è
davvero ucciso, mi farò trasferire a
dirigere il traffico. Raduna degli agenti,
perlustrate i bidoni della spazzatura.»
«I bidoni? Cosa cerchiamo?»
«Guarda il letto. Noti qualcosa di
strano?»
Kevin lo guardò, ma non vide altro
oltre al cadavere che diventava freddo
sulle lenzuola sporche. Scrollò le spalle.
«Non c’è il cuscino. Come fai a
dormire senza cuscino, Kevin?»
Il sergente capì. «Un cuscino con un
buco nel mezzo.»
Sam Evans ne aveva abbastanza. Non
era neanche sicuro di cosa dovesse fare.
Jan Shields aveva trascinato mezza
dozzina di agenti a Temple Fields per
svolgere un lavoro che, secondo il
detective, era già stato svolto. Gli era
stato ordinato di perlustrare l’area nelle
immediate vicinanze del bidone
dell’immondizia in cui era stato trovato
il trasmettitore. Sam e gli altri agenti si
erano separati durante le ricerche e da
allora il detective aveva perso ogni
traccia di Jan Shields. Aveva bussato
alle porte a cui gli era stato detto di
bussare, aveva fatto le stesse domande,
appuntato le stesse rispose negative.
Decise di fare un breve pit stop allo
Stan’s Café. Il caffè era terribile, ma
l’atmosfera era un po’ meno deprimente
di quella della stazione di polizia.
Mentre camminava verso il locale
bisunto, vide Honey sul marciapiede
intenta a procacciare clienti. «Ehi,
ragazza, come va?» disse, con
disinvoltura.
«Ciao, Sammy» rispose Honey. «Di
merda, in realtà. Tu e gli altri sbirri non
fate bene agli affari.»
«Ti va un caffè?» Sam era sicuro che
Honey fosse stata sul punto di rivelare
qualcosa al pub, ma l’arrivo di Jan
Shields l’aveva fatta chiudere a riccio.
Forse poteva riuscire a farla aprire di
nuovo.
«Offri tu?»
«Offro io.»
«Se è così, puoi offrirmi un bel menu
colazione. Lo servono a qualsiasi ora.»
Sam sorrise. Gli piacevano le persone
con fegato. «Andiamo, allora.»
Qualche minuto più tardi, Honey
aggrediva la montagna di cibo sul suo
piatto con l’entusiasmo di un cane
affamato. Con la bocca piena di salsicce
e uova, biascicò: «Favoloso, Sammy.»
«Quella schifezza finirà per ucciderti»
disse, in tono critico. «Ti intaserà le
arterie e ti farà ingrassare.»
Honey scosse la testa. «Non ingrasso
mai io.»
Evans le rivolse uno sguardo cinico.
«Chissà perché.»
La ragazza strizzò un occhio. «Tutta
quell’attività fisica.»
«Per non parlare delle droghe...»
Honey alzò lo sguardo, delusa. «E dài,
Sammy, non rovinare tutto.»
«Sono uno sbirro, Honey. È più forte
di me.» La ragazza accolse la risposta
abbozzando un sorrisetto triste. «Hai
presente l’altro giorno, quando stavamo
parlando» continuò il detective. Honey
annuì. «Avevo la sensazione che stessi
per dirmi qualcosa. Ma poi è arrivata
Shields e sei andata via.»
Honey deglutì per prendere tempo,
ponderare. Poi disse: «Mi disgusta
quella lì.»
Sam scrollò le spalle. «Fa solo il suo
lavoro. Come me.»
Honey lo guardò incredula. «È così
che si dice ora?»
La conversazione non stava andando
nella direzione sperata ma Evans era
senza dubbio un buon ascoltatore,
specialmente quando ascoltare
incrementava il suo bottino di
informazioni. «Che vuoi dire?» le
chiese.
Honey alzò gli occhi al cielo. «Dài,
Sammy. Non dirmi che non sai niente
della buon costume e dei loro omaggi.»
All’inizio Sam non capì. «Stai dicendo
che Jan Shields è corrotta?»
Honey si liberò di un pezzo di cotenna
della pancetta rimastole incastrato tra i
denti piccoli e feroci. «Non come
intendi tu. Non prende soldi.» Capiva
l’immobilità di Evans. Sapeva che il
detective aveva bisogno di sentirlo dire,
come se crederci diventasse più
semplice in quel modo. «Prende sesso.
Costringe alcune delle ragazze a fare
sesso con lei.»
Evans non era un grande fan di Jan, ma
credeva fosse una brava agente. Era
stata lei a trovare la foto di Tim
Golding. Si era fatta il culo per trovare
Paula. Sam non riusciva a vederla sotto
la luce diversa di cui parlava Honey.
«Smettila, Honey» protestò. «Sono
chiacchiere di gente che vuole attaccare
uno sbirro solo perché è un bersaglio
facile.»
Honey posò forchetta e coltello.
Sembrava seria e avvilita allo stesso
tempo. «Lo ha fatto con me. Mi ha messa
a faccia in giù su un tavolo. Mi ha
infilato dentro un pugno intero. Ho avuto
problemi a camminare per giorni.
Un’altra volta mi ha scopato nel culo
con una bottiglia di coca. Hai idea di
quanto sia spaventoso avere qualcuno
che ti ficca una bottiglia di vetro nel
culo? È questo che piace al tuo prezioso
sergente Shields.»
Sam sapeva riconoscere quando
qualcuno diceva la verità, ma aveva
difficoltà ad accettarla in quel caso.
«Non riesco a crederci, Honey.»
Le labbra della ragazza si contorsero
in un’espressione amareggiata. «Ed è
per questo che lei agisce indisturbata da
così tanto tempo. Voi sbirri non volete
sentire questo genere di cose quando
riguardano uno di voi.»
«Avresti dovuto denunciarla.»
«Sì, certo. Come se qualcuno potesse
credere a una sgualdrina come me
piuttosto che a una poliziotta tanto carina
come lei.» Impugnò le posate e attaccò
una fetta di pane fritto, inzuppandola nel
tuorlo d’uovo e sgranocchiandola con
rabbia.
«È successo anche ad altre?»
«A poche, per quanto ne so. È
esigente. E noi sappiamo che è meglio
tenere la bocca chiusa se non vogliamo
finire dentro. La odiamo tutte. Ci sbava
addosso, ci costringe a baciarla.
Esattamente quello che non facciamo
con i clienti, capisci? È disgustoso. E
non sai mai quando tornerà per un altro
round. Da un momento all’altro, te la
ritrovi addosso.» Lo guardò di sbieco,
sapeva che le sue prossime parole
sarebbero state il colpo di grazia. «È
per questo che la chiamiamo il Cobra.»
Sam la fissò, sconvolto e inorridito.
«Vedi, lo sapevo che non mi avresti
creduto» disse la ragazza, con aria
trionfante e triste allo stesso tempo.
«Come l’hai chiamata?» Evans si
sforzò per fare uscire le parole di bocca.
«Il Cobra. È così che la chiamano le
ragazze che si scopa.»
Sam le rivolse il classico sguardo
freddo e severo da poliziotto. «Spero
per te che sia la verità, Honey» disse,
spingendo la sedia all’indietro.
«Non ho motivo di mentire, Sammy»
rispose lei con aria imbronciata.
Evans scattò in piedi e gettò delle
banconote sul tavolo. «Okay, Honey.
Alzati. Devi venire con me.» Tra le
proteste della ragazza, la condusse verso
la porta mettendo mano al cellulare.
La prima cosa che emerse dalla
scatola fu un mucchio di foto. Tony
riconobbe la prima immediatamente.
Jackie Mayall giaceva a braccia e
gambe divaricate sul letto in cui era
morta. Ma c’era meno sangue di quanto
ne ricordasse il dottore. Nelle due foto
successive la quantità di sangue era
maggiore. Negli ultimi due scatti
spuntava il nastro della polizia ai bordi
dell’inquadratura; in uno di essi un
agente della scientifica era accanto al
letto con un righello in mano. Lo
stomaco di Tony si rivoltò quando il
dottore capì cosa stava guardando.
«Foto ufficiali della scena del crimine...
e altre per niente ufficiali.»
Disgustato, le mise da parte e continuò
a frugare. C’erano altre foto, stavolta di
Sandie Foster. Si dividevano nelle
medesime categorie: ufficiali e non
ufficiali. Sotto di esse, il dottore trovò
una manciata di dvd. Si appoggiò sui
talloni e li fissò. «Ricordi» disse tra sé
e sé.
Aveva ragione. Gli ci era voluto
troppo tempo per capire, ma ci aveva
visto giusto. Pensò di avvertire Carol
ma il bisogno di sapere, di esserne
certo, era più impellente. Raccolse tutto
e tornò al tavolo nella sala da pranzo.
Si sedette davanti al computer
portatile e aprì lo scomparto del lettore
dvd. Vuoto. Era sul punto di inserirvi un
disco, quando pensò di controllare la
lista dei siti preferiti. Cliccò sul tasto
Start, poi sull’icona dei preferiti. La
banca. Il sito della BBC. Amazon. Un
certo lesbiout.co.uk. Una voce che
diceva semplicemente ‘webcam’. «Oh,
cazzo» disse Tony.
Controllò in fretta e furia che il
computer fosse collegato alla rete
telefonica, poi cliccò sull’icona per
connettersi alla rete. Con il suono del
modem che gorgheggiava in sottofondo,
Tony sparpagliò le foto sul tavolo
davanti a sé. Una voce squillante disse:
«Benvenuto. Hai dei nuovi messaggi.»
Ignorando l’invito ad accedere alla
posta in arrivo, Tony cliccò sul link
denominato ‘webcam’. Lo schermo si
oscurò. Poi fu invaso da un’immagine
sfocata. Qualche secondo più tardi, i
pixel andarono al loro posto e Paula
McIntyre apparve sullo schermo.
«Merda» disse Tony.
Inizialmente, il dottore non capì se la
detective fosse viva o morta. Non c’era
sangue, per fortuna. Aggrottò la fronte,
osservando lo schermo e cercando di
capire come controllare l’immagine, se
fosse possibile allargarla o se ci fosse
modo di scoprire da dove arrivava. Era
talmente concentrato su quello che stava
facendo che non si accorse dei fari che
illuminarono il cul-de-sac e del motore
che si spense a pochi metri dalla casa.
Non appena imboccò la strada di casa,
Jan si accorse che qualcosa non andava.
Le luci al piano inferiore e superiore
erano accese. Ma non c’erano auto in
vista, eccetto quelle che sapeva essere
dei vicini. Per un momento, considerò la
possibilità di fuggire. Avrebbe avuto un
buon vantaggio rispetto alla polizia e
aveva un piano studiato proprio per
quell’eventualità. Tuttavia, rifletté sul
fatto che se fossero stati i suoi colleghi
ad averla scoperta, avrebbe intercettato
qualche comunicazione inusuale sulle
frequenze della polizia. Ma durante tutto
il pomeriggio la radio aveva gracchiato
le solite cose. Niente fuori
dall’ordinario. Jan aveva sentito la
richiesta di rinforzi diramata dopo la
scoperta del cadavere di Carl e si era
compiaciuta della sua lungimiranza nello
sbarazzarsi di lui prima che la
scientifica avesse un riscontro sulle sue
impronte. Oltretutto, se fossero stati i
suoi colleghi a scoprirla, Jordan la
regina di ghiaccio si sarebbe assicurata
di tenerla lontana durante la
perlustrazione delle strade,
assegnandole qualche compito inutile
dall’altra parte della città.
Dunque, se non era stata la polizia a
entrare in casa sua, doveva trattarsi di
Tony Hill. Quella mattina Jan aveva
percepito una strana vibrazione nel
tragitto in macchina col dottore, ma
aveva creduto di essere paranoica. Ora,
sembrava che la sua apprensione
istintiva fosse stata giustificata. Poi
all’improvviso capì. Il dottore doveva
aver rubato le chiavi per farne una
copia. Jan imprecò tra sé e sé. Ecco
cos’era successo prima. Non era stata
una sua distrazione. Il dottore l’aveva
ingannata. Sentì l’indignazione crescere
dentro di sé e capì che non sarebbe
scappata. Nessuno poteva prendersi
gioco di lei. Nessuno.
Se si trattava di Hill e se era lì da
solo, Jan avrebbe potuto risolvere il
problema con finezza. Sbarazzarsi del
dottore, spostare i suoi souvenir dove
nessuno li avrebbe trovati, mostrare un
terribile rimorso per aver ucciso lo
psicologo che, al buio, aveva scambiato
per un ladro. Al più, si sarebbe fatta due
anni dietro le sbarre.
Perché quel piano riuscisse, tuttavia,
doveva far sembrare di essere tornata a
casa come ogni sera. A circa trenta metri
da casa, spense i fari e il motore,
raggiungendo il vialetto in folle. Uscì
dalla macchina e chiuse lo sportello con
estrema delicatezza. Dal buio del
vialetto riusciva a vedere l’interno del
soggiorno.
Era lì, quel bastardo impudente.
Sedeva al suo tavolo da pranzo, usava il
suo portatile come fosse Riccioli d’oro
e lei i tre orsi. Non c’erano più dubbi
ora. Sarebbe andata fino in fondo.
Avanzò lentamente verso il retro della
casa, abbassandosi in corrispondenza
della finestra della sala da pranzo. Si
appoggiò al muro accanto alla porta sul
retro, frugando nella borsa in cerca della
chiave che teneva sempre sciolta nel
caso perdesse il mazzo più grande. Una
pianificatrice scrupolosa, ecco cos’era.
Proprio per questo avrebbe dovuto
capire prima che Carl non era il suo
unico problema.
Inserì la chiave nella toppa e la girò
con infinita cautela. Il clic dello sblocco
della serratura si sentì appena. Si tolse
le scarpe, abbassò la maniglia e aprì
lentamente la porta. Si infilò
nell’apertura con circospezione e si
fermò ad ascoltare. Si sentiva
meravigliosamente viva, eccitata dalla
consapevolezza di avere il controllo
mentre il dottore era ignaro di tutto.
Attraverso la porta aperta per metà che
separava la cucina dalla sala da pranzo,
poteva sentire il picchiettio delle dita
sulla tastiera e il clic dei pulsanti del
touchpad.
Jan era così tesa che sobbalzò quando
la voce del dottore squarciò il silenzio.
«Dove sei? Dimmelo. Dove sei, Paula?»
Il battito del suo cuore rallentò non
appena capì che Tony stava parlando
all’immagine sullo schermo, non a lei.
Fece un respiro profondo e silenzioso.
Nel bagliore fioco della città che
penetrava dalla finestra della cucina
poteva vedere il profilo moderno, sterile
e ordinato dei pensili. Una delle poche
donne che aveva portato a casa per
scopare aveva detto che quella
sembrava la tipica cucina in cui si usava
solo il microonde. Non era stata invitata
una seconda volta. Accanto ai fornelli si
ergeva il ceppo portacoltelli. Il suo
contenuto era stato usato raramente e le
lame erano ancora affilate come se
fossero appena uscite dalla fabbrica. Jan
allungò una mano e con delicatezza
estrasse un coltello per disossare, poi si
avviò silenziosamente verso la sala da
pranzo.
Carol allungò la mano libera verso la
parete, cercando inconsciamente un
appoggio per sostenere il peso delle
informazioni che stava ricevendo
attraverso il cellulare. «Ne sei sicuro,
Sam?» disse, sapendo in cuor suo che il
detective aveva ragione, che Tony aveva
avuto ragione, che quello era il peggior
scenario possibile per Paula McIntyre.
L’informazione si fece strada nella sua
mente, dando un senso alle connessioni
mancanti che l’avevano tormentata per
giorni.
«Sono sicuro» disse Evans
solennemente.
«Dov’è adesso?» chiese Carol. Kevin
si fermò a metà strada sulla rampa che
portava al piano inferiore, allarmato
dall’espressione stravolta sul viso
dell’ispettrice, dal tono di monotona
inevitabilità nella sua voce.
«Non lo so. Sono ore che non la
vedo.»
«Dobbiamo trovarla. Ritorna in strada
e cerca di rintracciarla. Chiedi in giro se
qualcuno l’ha vista. Ma non usare la
radio, capito?»
«Capito.»
«Ottimo lavoro, Sam» disse Carol,
sapendo che nessun altro l’avrebbe mai
ringraziato per quanto aveva scoperto.
Terminò la chiamata. Desiderava solo
rannicchiarsi in posizione fetale e
piangere, ma avrebbe dovuto aspettare
per farlo.
«Capo?» disse Kevin, con voce
preoccupata. Carol sapeva che la
preoccupazione del sergente non era
davvero per lei, ma lo perdonò.
«Il Cobra» disse l’ispettrice. «Sam ha
scoperto chi è da una delle ragazze di
Temple Fields.»
Il volto di Kevin si illuminò. «È
un’ottima notizia.»
«No, non lo è» disse Carol con voce
piatta. Era come se non riuscisse a dirlo
ad alta voce. Si voltò e corse giù per le
scale. «Stacey» urlò. «Anche tu, Kevin.
Con me, adesso.»
Kevin la raggiunse alla macchina,
Stacey era subito dietro di lui. «Chi è?»
chiese il sergente. «Chi è?»
Il viso di Carol si contorse in una
fugace espressione di dolore. «Jan
Shields» disse.
Kevin indietreggiò come se l’avessero
colpito in faccia. Abbozzò una risatina
incredula. «È una bufala per incastrarla»
disse. «Qualcuno deve avere un conto in
sospeso con lei.»
«Sam dice di no» rispose Carol, con
aria grave. «Avrei dovuto dare ascolto a
Tony» aggiunse, passandosi una mano tra
i capelli. «Possiamo muoverci per
favore, Kevin?»
Disorientato, il sergente aprì la
macchina ed entrò seguito da Carol e
Stacey. «Stacey, chiama la centrale e
fatti dare l’indirizzo di casa di Jan
Shields» disse l’ispettrice. «Cazzo,
avrei dovuto dare ascolto a Tony.»
«Che vuol dire? Sapeva che c’era
Shields dietro a tutto questo?» Kevin
sembrava incredulo.
«Diceva che c’era un poliziotto. Io non
gli ho creduto.»
«Dove vado?» chiese Kevin, mentre
Carol fissava di nuovo il lampeggiante
sul tettuccio.
Dal sedile posteriore, Stacey urlò
l’indirizzo. «È nel complesso
residenziale Micklefield» disse.
«Abbiamo solo la parola di una
prostituta contro Shields» disse Kevin,
mentre si faceva strada in mezzo al
traffico. «E non ha alcun senso.»
Carol sospirò come se avesse il peso
del mondo sulle spalle. «Oh, ha senso
eccome. È la prima cosa che ha senso
dall’inizio di questa dannata indagine.»
Tony cliccò su un’altra icona,
sperando che potesse dargli qualche
indicazione sul punto d’origine del
segnale video. Aveva messo da parte la
finestra della webcam, non sopportando
la vista della vulnerabilità di Paula.
Almeno era ancora viva. Il dottore
sapeva che era ora di chiamare Carol.
Stacey Chen era molto più preparata di
lui per quel genere di cose.
Fece per prendere il cellulare. Aveva
appena tirato la mano fuori dalla tasca
quando sentì una voce profonda alle sue
spalle che gli fece gelare il sangue nelle
vene.
«Sei un ladro. È mio diritto
difendermi.»
Tony si bloccò, voltandosi lentamente.
Jan Shields era a pochi centimetri da lui,
la sua postura perfettamente bilanciata,
un coltello dalla lama scintillante
impugnato con disinvoltura. Il suo
sguardo era freddo e sicuro, il suo
atteggiamento trasudava una violenza
accuratamente contenuta. «Getta il
telefono a terra» aggiunse.
Tony fece quanto ordinato. Non aveva
il minimo dubbio che Jan lo avrebbe
infilzato senza esitazione se non avesse
fatto come voleva. «Potrebbe essere
complicato appellarsi all’uso
ragionevole della forza. Voglio dire, lo
sanno tutti che sono una mammoletta.»
Le labbra di Jan si arricciarono in
un’espressione di disprezzo. «Non credo
che si arriverà a quel punto. Perché non
lo sa nessuno che sei qui, giusto?»
«Carol lo sa» disse Tony con
nonchalance, cercando di sembrare
convincente.
Jan scosse la testa. «Non credo. La
nostra adorabile Carol gioca seguendo
le regole. Non avrebbe mai permesso
che venissi qui tutto solo. Credo proprio
di averti solo per me, dottor Hill.»
È così abituata a dominare, rifletté
Tony. L’unico modo di prenderla alla
sprovvista era rubarle il potere, cosa
che in teoria era facile. In pratica, il
problema era che il dottore non aveva
molto su cui far leva purtroppo. «Questo
non è il tuo stile, Jan» provò, per
cominciare.
Per qualche ragione, le parole del
dottore la divertirono. «Tu dici?»
«È troppo diretto. A te piace che sia
qualcun altro a fare il lavoro sporco.»
«Stai forse insinuando che ho qualcosa
a che fare con questi omicidi?» disse
Jan, il suo volto angelico assunse
un’espressione innocente e ferita.
«Sono i tuoi omicidi, Jan. Dovresti
esserne fiera. Sono capolavori
interessanti.»
«Magari lo sono. Ma non hanno niente
a che fare con me, dottor Hill. Derek
Tyler ha ucciso quattro donne. E un
ritardato di nome Carl Mackenzie lo ha
emulato uccidendone altre tre prima di
togliersi la vita in preda al rimorso,
proprio questo pomeriggio. È questo che
dicono le prove.»
Oh, cazzo. Ha ucciso con le sue stesse
mani. Quella consapevolezza colpì Tony
con la stessa veemenza di un fulmine.
Vide le sue possibilità ridursi in cenere.
Ad ogni modo, doveva provarci.
«Andiamo, Jan. Non c’è motivo di
mentire ora. Carl Mackenzie non ha
ucciso tre donne. Paula McIntyre è
ancora viva.»
«Pare che tu ne sappia molto di più di
me. Forse ci sei tu dietro tutto questo.
Forse mi hai incastrato. Forse sei tu che
mi hai mandato tutto questo materiale
disgustoso.»
Tony scosse la testa, mostrandosi
deluso. «Questa storia non reggerà.
Carol Jordan mi conosce troppo bene
per abboccarci.»
«Posso farla sembrare la verità. Con te
morto e tutti i pezzi del puzzle al loro
posto, chi darà ascolto alla tua bionda
preferita? Lo sanno tutti che ormai non
ci sta più con la testa. Ammettilo,
dottore, hai fallito.»
Kevin svoltò per entrare nel
complesso residenziale Micklefield e
fermò l’auto all’inizio della strada in cui
abitava Jan Shields. «E adesso?» disse.
«È una strada senza uscita. Se ci sta
aspettando, ci vedrà nel momento esatto
in cui la imbocchiamo.»
«La tua macchina è sufficientemente
anonima. Potremmo parcheggiare di
fronte alla casa di un vicino. Non c’è
molta luce e non faremmo niente di
sospetto.»
Kevin proseguì lentamente lungo il
cul-de-sac. Individuò immediatamente
l’auto per niente anonima di Jan.
«Sembra sia a casa» disse.
«Segui il piano» rispose Carol. «Lì, a
destra. A un paio di case dalla sua. Se
parcheggiamo in quel vialetto siamo
fuori dalla sua visuale.»
«E adesso?» chiese Kevin. «Potremmo
affrontarla a viso aperto. Arrestarla per
sospetto omicidio e fare una
perquisizione.»
Un tarlo assillava il subconscio di
Carol. «Qualcuno sa dov’è Tony?»
«Ha detto che sarebbe andato a casa a
lavorare al profilo» le ricordò Stacey.
Carol prese il cellulare e avviò la
chiamata rapida per il numero di casa di
Tony. Il telefono squillò finché non
rispose la segreteria telefonica.
L’ispettrice aspettò il segnale acustico,
poi disse: «Tony, sono Carol. Rispondi
se ci sei. È urgente.» Aspettò mezzo
minuto, poi terminò la chiamata. Provò
sul cellulare del dottore. Squillò a lungo
ma non ci fu risposta. «Oh cazzo» disse
Carol, pervasa da una terribile angoscia.
«Non abbiamo motivo di credere che
sia lì dentro» disse Kevin nervosamente.
«Eccetto per quella pantomima con le
chiavi di Jan qualche ora fa.» Carol vide
i tasselli andare al loro posto mentre il
puzzle prendeva forma nella sua mente.
«Che pantomima?»
«Jan non trovava le chiavi. E Tony ha
abbandonato il ruolo di professore
sbadato giusto per ricordarle che non
aveva chiuso la macchina. Quanto è
probabile una cosa simile, per entrambe
le parti? Non ci ho fatto caso lì per lì.»
Deglutì. «È in quella casa, Kevin. È in
quella casa con lei.»
«Non possiamo saperlo» disse il
sergente.
«Dobbiamo scoprirlo. Rimanete qui»
ordinò Carol, aprendo lo sportello e
ignorando lo sgomento sul volto dei suoi
colleghi. Raggiunse l’angolo
dell’abitazione che aveva davanti e
sbirciò oltre. Era in una posizione
obliqua rispetto alla casa di Jan. Si
vedeva parte del soggiorno, che
sembrava vuoto. Al piano superiore, la
camera che affacciava sulla strada era
illuminata. Se ci fosse stato qualcuno a
quella finestra, Carol lo avrebbe visto
dalla sua posizione. Era il momento di
tentare la sorte.
Scattò lungo la facciata anteriore
dell’abitazione, saltò una siepe bassa e
attraversò il giardino della casa accanto,
arrivando sul ciglio del vialetto di Jan,
di fianco alla sua auto. Un’ampia
finestra nella parte inferiore della
facciata illuminava il vialetto lastricato
e il muro laterale del garage. Carol
calcolò che se fosse riuscita a
raggiungere l’angolo opposto della
finestra senza essere vista, avrebbe
potuto sfruttare la copertura del garage
per sbirciare oltre la finestra da una
distanza sufficiente a non farsi notare da
nessuno all’interno.
Si accovacciò e aggirò la macchina,
raggiungendo la facciata e appiattendosi
contro il muro. Avanzò rasente a
quest’ultimo finché non raggiunse la
finestra, poi si abbassò e sgattaiolò sotto
al davanzale per qualche metro prima di
rialzarsi. Era appena al di fuori del
fascio di luce oblungo. Fece un respiro
profondo e coprì la distanza che la
divideva dal garage nel giro di pochi
secondi.
Sfruttando la zona d’ombra come
copertura, Carol si voltò. Aveva una
visuale obliqua e sgombra sulla sala da
pranzo. Vedeva Jan dalla vita in su. Di
spalle accanto a lei c’era Tony. Carol
sentì una stretta al petto. Perché cazzo
non mi hai chiamato? Mentre
osservava, vide la mano destra di Jan
sollevarsi in un gesto che sembrava
casuale da quella distanza.
Ma non c’era nulla di casuale nella
lama scintillante del coltello che
brandiva e che sembrò trafiggere il
cuore di Carol.
Il cinguettare insistente del cellulare di
Tony si fermò di colpo, così come era
iniziato. Jan annuì. «Bravo, dottore. Non
ci hai neanche provato a rispondere.»
«È questo che ti piace, vero? Il potere.
Il controllo. Il mondo che si piega alla
tua volontà.»
Jan inclinò il capo. «Se lo dici tu.»
«Non lo dico, lo so. Era una bella
idea. Lavorarti uomini impressionabili,
farne dei burattini. Una doppia dose di
potere. Controlli loro e le loro vittime,
tutto secondo il tuo copione. Mi tolgo il
cappello davanti a te. Non deve essere
stato facile fissare nelle loro teste ogni
singola battuta.»
Jan sorrise. «So cosa stai cercando di
fare. E non funzionerà. Non c’è motivo
di prendere tempo se la cavalleria non
sa dove sei.»
Tony si alzò. «Non sto prendendo
tempo.»
«Siediti» gli ordinò Jan.
«Non credo proprio» rispose il
dottore. «So che non c’è modo di
uscirne per te.»
Jan strizzò gli occhi fin quasi a
chiuderli. «Te l’ho detto. Posso far
sembrare che tu abbia tentato di
incastrarmi. Ti ho colto in flagrante,
abbiamo combattuto, tu sei morto.»
«Sottovalutare l’avversario. È questo
che rovina le persone nella maggior
parte dei casi.»
Jan sbuffò con fare derisorio. «Che c’è
da sottovalutare? Sappiamo entrambi
dove risiede il potere. Io sono un
poliziotto. Tu? Sei solo un omuncolo
bizzarro che stranisce chiunque
incontri.»
«No, no, mi fraintendi. Non sono io il
tuo problema. Vedi, a me non importa se
muoio, in realtà. No, il tuo problema è
Carol Jordan. Le ho parlato dei miei
sospetti. E sì, mi ha riso in faccia. Ma se
mi succede qualcosa, è te che verrà a
prendere.»
Jan lo guardò con aria sprezzante.
«Carol Jordan non mi fa paura.»
«È questo che intendo quando parlo di
sottovalutare l’avversario. Carol
dovrebbe spaventarti perché, al
contrario di quanto pensi, lei non ha
paura di sporcarsi le mani. Non si
nasconderà dietro qualche povero idiota
inadeguato come Derek Tyler o Carl
Mackenzie. Ti annienterà, e lo farà nel
peggiore dei modi.»
«Correrò il rischio.»
Tony si voltò. «Non credo. Sei troppo
abituata a farli correre agli altri al posto
tuo.»
«Dove credi di andare?» urlò Jan,
vedendo all’improvviso sfuggirle il
controllo di mano.
Tony si voltò a lanciarle uno sguardo.
«Sono stanco di parlare. Sei storia
ormai, io vado casa.»
Spronata all’azione, Jan balzò in
avanti e afferrò Tony per un braccio,
costringendolo a girarsi verso di lei. Poi
il coltello si sollevò, brillando tra di
loro in cerca di carne.
Non appena vide il coltello, Carol
capì che doveva agire immediatamente.
Raggiunse di corsa la porta sul retro,
allungandosi verso la maniglia. Con sua
sorpresa, questa cedette subito sotto la
sua mano e Carol per poco non ruzzolò
facendo irruzione nella cucina. Vide Jan
scagliarsi su Tony come in un fermo
immagine. L’arma era nascosta tra i loro
corpi, la bocca di Tony già spalancata in
un urlo di dolore. «Getta il coltello»
gridò disperatamente Carol con tutto il
fiato che aveva in gola, mentre
attraversava la cucina in poche falcate.
Sentendo quell’urlo, Jan esitò quanto
bastava per permettere a Tony di
sottrarsi alla traiettoria del coltello. La
donna lanciò uno sguardo a Carol, si
voltò di nuovo verso il dottore con gli
occhi pieni d’odio prima che l’ispettrice
le si scagliasse addosso coprendo gli
ultimi metri che le dividevano.
Lo slancio di Carol mandò entrambe al
tappeto in un groviglio di arti che si
dimenavano. Carol non aveva idea di
dove fosse finito il coltello e smanacciò
alla cieca per bloccare il polso di Jan.
«Lasciami» urlò Jan. «Mi fai male.»
«Getta il coltello» gridò Carol in tutta
risposta. Il suo viso era a pochi
centimetri da quello della donna.
«L’ho già lasciato» disse Jan, quasi
urlando. «Levati di dosso.» Il suo corpo
si dimenava sotto il peso di Carol. Poi
all’improvviso Tony si abbassò accanto
a loro, bloccando le spalle di Jan con le
ginocchia. Stringeva una mano
sanguinante al petto.
«Il coltello è sul pavimento, Carol»
disse il dottore.
Carol sembrò tranquillizzarsi,
ansimando mentre immobilizzava le
gambe di Jan col peso del suo corpo.
«Stai commettendo un grosso errore»
rantolò il sergente.
«Non credo proprio» disse Carol.
«Jan Shields, ti dichiaro in arresto per
sospetto concorso in omicidio...»
«Non ci arrivi proprio, eh?» si
lamentò Jan.
«Risparmiati le storie per la sala
interrogatori. Hai il diritto di rimanere
in silenzio...»
«Carol, ascoltami» disse Jan,
sforzandosi con tutta sé stessa di parlare
con voce autorevole e sicura. «Sono io
la vittima qui. Devi ascoltarmi.»
Don Merrick non ricordava di aver
mai avuto tanto freddo in vita sua. Aveva
smesso di tremare ormai ed era entrato
in una sorta di trance fisica, sentiva il
corpo intorpidito e pesante. Ancora non
c’era traccia di Nick Sanders.
Aveva raggiunto Achmelvich nel tardo
pomeriggio, alla fine di una strada
sopraelevata a corsia unica che
attraversava una stretta lingua di mare. I
pochi alberi che aveva incontrato erano
piegati di quasi novanta gradi, segno
della forza e della direzione dei venti
dominanti.
Quasi non valeva la pena dare un nome
a quel posto, aveva pensato Merrick.
C’erano solo l’ostello della gioventù,
chiuso per l’inverno, e una manciata di
casette basse disseminate sulla cresta
della scogliera che si allungava fino al
mare. Soltanto uno dei cottage era
illuminato. Merrick si era domandato se
fosse il caso di chiedere indicazioni, ma
aveva immaginato che non avrebbe
avuto grandi difficoltà a trovare
l’Hermit’s Castle.
Si era sbagliato, naturalmente. Aveva
trascorso quasi un’ora a inerpicarsi tra
le rocce con le scarpe sbagliate,
inciampando su massi sconnessi e
rischiando quasi di cadere dritto in mare
a un certo punto. Quando aveva
finalmente raggiunto il rifugio, l’aveva
quasi superato senza accorgersene.
Esausto, infreddolito e acciaccato,
aveva illuminato la piccola struttura in
cemento con la sua torcia. Era annidata
in un intervallo tra le rocce: una scatola
grigia di due metri scarsi d’altezza con
un piccolo comignolo ricurvo che
spuntava dal tetto come una coda. C’era
una soglia ma non una porta. Conduceva
a un passaggio angusto che formava una
curva, sembrava progettato per tenere
fuori il vento e la pioggia. Il passaggio
sfociava in una piccola cella larga a
stento due metri. Lungo una parete si
estendeva un ripiano in cemento della
forma e delle dimensioni di un letto
singolo. Sul lato opposto, c’era un
focolare aperto. Nient’altro. Nessun
posto per nascondersi, a stento lo spazio
per muoversi. Merrick trovava
impensabile trascorrerci un giorno,
figurarsi un anno.
L’ispettore era poi uscito dal rifugio e
si era guardato in giro. Non poteva far
altro che aspettare. Aveva deciso di
attendere fino alle dieci, dopodiché se
ne sarebbe andato. Se Nick Sanders
fosse arrivato dopo quell’ora, non
sarebbe andato da nessuna parte prima
dell’alba. Questo, naturalmente, se fosse
davvero diretto lì.
Non lontano dal rifugio, Merrick
aveva trovato un riparo tra le rocce e vi
si era rannicchiato. Durante il tragitto in
auto si era imbattuto in una stazione di
servizio dove aveva comprato una torcia
rivestita in gomma, alcune lattine di
Coca-Cola, un paio di pacchi di biscotti
e delle patatine. Aveva comprato anche
un orrendo maglione fatto a mano che
sperava l’avrebbe protetto dal freddo.
Purtroppo, non sembrava servire a
molto.
Il rumore delle onde che si frangevano
contro la scogliera era ipnotico. C’erano
momenti in cui l’ispettore arrivava sul
punto di chiudere gli occhi, per poi
destarsi di soprassalto quando,
rilassandosi, sbatteva contro una
porzione di roccia diversa. Pensieri di
Lindy e dei suoi figli si mescolavano
confusi nella sua testa. Era lì per loro. In
qualche recesso profondo della sua
mente, Merrick sapeva che uno dei
principali motivi per cui era così
determinato a consegnare personalmente
l’assassino di Tim e Guy alla giustizia
era che vedeva quell’atto come una sorta
di talismano, un’azione che l’avrebbe
protetto dalla prospettiva di perdere i
suoi bambini. Riusciva quasi a mitigare
il senso di colpa per aver abbandonato
Paula. Ma c’erano dozzine di persone a
lavorare per trovarla, e a nessuno tranne
che a lui importava abbastanza di Tim e
Guy per rischiare di seguire quella pista,
per quanto debole potesse sembrare.
Erano appena passate le sette, quando
Merrick si rese conto di sentire un
rumore in lontananza, un suono diverso
dall’impennarsi e dal frangersi delle
onde. Non c’erano dubbi. Si trattava di
un’auto. L’ispettore cambiò posizione,
sfregandosi gli arti nel tentativo di
allontanare il torpore. Poteva trattarsi
dei proprietari di uno dei cottage che
rincasavano dopo una giornata trascorsa
a fare chissà cosa in quell’angolo di
landa dimenticata da Dio. Oppure, si
trattava di Nick Sanders che andava a
rintanarsi in un posto in cui credeva
sarebbe stato al sicuro.
Passarono dei minuti, sembrarono
lunghi come ore. Poi spuntò un luccichio
tra le rocce. Divenne sempre più grande
e nitido finché, dopo aver aggirato un
affioramento roccioso, non divenne
chiaramente identificabile come il fascio
di luce di una grande torcia. Merrick si
accovacciò ulteriormente, sebbene
sapesse di essere praticamente
invisibile sullo sfondo scuro della
parete rocciosa.
Il fascio di luce si spostò a illuminare
l’Hermit’s Castle. All’inizio, Merrick
non riuscì a distinguere alcun dettaglio
della persona che reggeva la torcia. Ma
quando la luce scomparve all’interno
del passaggio angusto, l’ispettore riuscì
a distinguere una sagoma con un grande
zaino da trekking in spalla. Per quel che
riusciva a vedere, l’altezza e la
corporatura dell’individuo
corrispondevano a quanto letto nella
descrizione di Nick Sanders.
Merrick contò fino a sessanta, poi si
alzò. Gli ci vollero un paio di minuti
prima di sentirsi stabile sulle gambe
intorpidite. Con la torcia saldamente in
mano, sfruttò quel lasso di tempo per
assicurarsi che le manette fossero aperte
e pronte all’uso. Poi si fece strada tra le
rocce, al buio, e varcò la soglia del
passaggio. Avanzò più silenziosamente
che poteva, sentendo rumore di
movimenti. Il suono metallico di
contenitori di latta. Il fruscio di buste di
plastica. Poi entrò nella piccola cella,
abbassando lo sguardo sull’uomo
accovacciato accanto al ripiano in
cemento, illuminato dal bagliore di una
lanterna. Non c’erano dubbi. Era lo
stesso uomo della foto affissa alla
lavagna bianca dell’ufficio crimini
maggiori.
Un sorriso soddisfatto si fece strada
lentamente sulle labbra di Merrick.
«Nick Sanders, ti dichiaro in arresto per
sospetto omicidio» disse, godendosi
ogni parola.
Si rilassò troppo presto. Sanders balzò
in piedi, lo slancio lo portò a sbattere
contro Merrick facendogli perdere
l’equilibrio. Sanders si dimenò nel
tentativo di superare l’ispettore e fuggire
verso il passaggio, ma non c’era
abbastanza spazio. Merrick lo afferrò
per una gamba, facendolo cadere.
Sanders andò a sbattere contro il muro e
inciampò, ruzzolando all’indietro e
sbattendo la testa sul ripiano in cemento.
Grugnì, poi smise di muoversi.
Merrick si rimise in piedi a fatica e
barcollò verso Sanders. Con suo
dispiacere, notò che l’uomo respirava
ancora. Lo girò su un lato, incurante
della prima regola in caso di ferite alla
testa, e notò con soddisfazione un
ematoma che si gonfiava sulla fronte di
Sanders. Distolse lo sguardo per
prendere le manette. All’improvviso,
Sanders si voltò afferrando la lanterna e
la scagliò con violenza sulla testa di
Merrick. Lo colpì sulla tempia e
all’improvviso l’ispettore vide tutto
rosso, poi nero.
Carol fissava Jan Shields con
espressione incredula. «Sei tu la vittima
qui? Stronzate. Dov’è Paula?»
La voce di Jan si fece più profonda e
calda. «Non ne ho idea, Carol. Perché
non lo chiedi al dottor Hill? Come ho
detto, sono io la vittima qui. Sono
tornata e ho scoperto che si era
introdotto illegalmente in casa mia. L’ho
trovato a scrivere qualcosa sul mio
computer. Ho preso un coltello per
difendermi da un intruso. Non so da
quanto fosse qui o quali prove
incriminanti abbia piazzato.»
«Bel tentativo, Jan» disse Tony, in tono
stremato. «Carol, c’è un segnale video.
Proviene da una webcam. L’ha salvato
tra i preferiti. È Paula. È ancora viva.»
«Hai scoperto dov’è?»
Tony scosse la testa. «Forse Stacey
può riuscirci?»
Jan continuò come se nessuno dei due
avesse parlato. «Come ho detto, Carol,
l’ho trovato in casa mia. Non so di cosa
stia parlando.»
«Sta’ zitta» disse Carol animatamente.
Cambiò posizione in modo da poter
prendere il cellulare. Digitò il numero di
Kevin. «Kevin, raggiungimi subito.
Porta sul retro. Fa’ venire anche Stacey.
Chiama un’ambulanza, la scientifica e
dei rinforzi, per favore.»
«Ti renderai ridicola, Carol» disse
Jan, sorridendole con aria di
commiserazione. «Una rispettata agente
di polizia con onorificenze al valore ed
esperienza in collaborazioni con l’FBI si
difende da un intruso nella sua
abitazione, un intruso che vuole
incastrarla con l’intento di proteggere la
reputazione in rovina della donna che
ama... Filerà alla perfezione in tribunale,
non credi?»
Carol avrebbe voluto tapparsi le
orecchie e isolarsi dal veleno insidioso
che fuoriusciva dalla bocca di Jan.
«Come ho detto, risparmiatelo per la
sala interrogatori. Spero tu abbia messo
qualcosa da parte per quello che ti
aspetta. Bronwen Scott non si concede a
buon mercato.»
Jan ridacchiò. «Oh, credo di potermi
permettere qualche ora del suo tempo. È
quanto servirà a Brandon per capire che
groviglio di menzogne avete contro di
me. E chi c’è dietro a tutto questo.»
Il tempestivo arrivo di Kevin e Stacey
risparmiò Carol dal dover sentire altro.
L’ispettrice ordinò loro di raggiungerla
con un cenno del capo. «Ammanettala e
leggile i diritti, Kevin. Sono arrivata
solo a ‘sospetto concorso in omicidio’.
Aggiungi anche aggressione, per essere
sicuri. Tony, puoi spostarti ora» disse.
Aspettò che il dottore si facesse da parte
e che Jan fosse bloccata dagli altri due
agenti prima di alzarsi liberandole le
gambe.
«Mi dispiace che siate costretti a
partecipare a questa farsa, ragazzi»
disse Jan, in tono di scusa. «Continuo a
dire a Carol che sono io la vittima, ma
lei ha le sue ragioni per credere a Tony
piuttosto che a me, sapete?» disse,
rivolgendo un sorriso a Carol.
«Portatela via» disse Carol mentre si
avvicinava a Tony. «Appena arrivano i
rinforzi, voglio che sia portata alla
centrale e sbattuta in cella finché non
sarò pronta a parlarle.» Notò il pallore
di Tony e scostò una sedia dal tavolo. Il
dottore vi si lasciò cadere, tenendo una
mano appoggiata al maglione impregnato
di sangue. «Quanto è grave?» chiese
Carol.
«Fa un male cane. Non smette di
sanguinare.» La fronte di Tony era
imperlata di sudore. Carol corse in
cucina e afferrò un paio di canovacci
appesi a dei ganci. Li piegò a mo’ di
cuscinetti in modo che il dottore potesse
premerli sul lungo taglio trasversale che
gli percorreva la mano.
Dopo un paio di minuti che
sembrarono un’eternità, delle luci
lampeggianti blu inondarono il
soggiorno attraverso la finestra. «È
arrivata l’ambulanza» disse Carol.
«Forza, ti tiriamo su.»
Mentre i paramedici sistemavano Tony
sull’ambulanza, Kevin scortò Jan verso
una volante della polizia, aiutandola ad
accomodarsi sul sedile posteriore.
Stacey stava per salire in macchina con
loro, quando Carol la chiamò. «Ho
bisogno di te qui» disse. Stacey la seguì
all’interno della casa. «C’è un computer
che riceve un segnale video da una
webcam puntata su Paula. Ho bisogno di
saperne il più possibile, Stacey.»
La detective annuì. «Sarebbe meglio
portarlo alla centrale» disse. «Da lì
avrò accesso a tutti i miei programmi.»
«Va bene. Ma fallo più in fretta che
puoi. Paula è ancora viva. È evidente
che Jan non parlerà, quindi dobbiamo
fare tutto il necessario per trovarla
prima che sia troppo tardi» disse Carol,
con aria cupa. Osservò Stacey
impacchettare il portatile, mentre i
pensieri che le affollavano la mente si
scontravano gli uni con gli altri. Non
ricordava di aver mai affrontato un caso
dalla conclusione così complessa. La
cosa avrebbe dovuto impaurirla, invece
la rendeva euforica. Non c’era dubbio
che fosse tornata sé stessa. «Ah, Stacey.
Quando arrivi in centrale, chiama Don
Merrick sul cellulare e digli che mi
serve qui. Sto andando all’ospedale a
raccogliere la dichiarazione di Tony e
voglio che sia Don qui a gestire la
perquisizione della casa.»
Quindici minuti dopo, Carol si
rivolgeva a un gruppetto di detective e
di agenti della scientifica. «Dobbiamo
scoprire dov’è Paula. Deve esserci
qualcosa. Ricevute d’affitto, bollette,
qualcosa. Dovete essere veloci, ma
assolutamente irreprensibili. Non c’è
bisogno che vi dica quanto sia
importante questa perquisizione. Fate
quello che dovete. Strappate la
moquette, fate a brandelli i cuscini se
necessario. Non mi interessa come
riducete questo posto, scoprite dov’è
Paula.»
Si voltò, rivolgendosi all’agente di
grado maggiore presente sulla scena.
«Sto andando all’ospedale a raccogliere
la dichiarazione del dottor Hill prima di
interrogare Shields. Chiamami non
appena trovate qualcosa. Lascerò il
cellulare acceso. Al diavolo quei
dannati monitor cardiaci.» Si fermò
sulla soglia e rivolse un ultimo sguardo
deciso alla squadra. «So di poter
contare su di voi. E lo sa anche Paula.»
Tony sedeva sul bordo del lettino da
visita con in mano un bicchiere di
polistirene pieno di un liquido
marroncino non identificato. Aveva
aspettato meno di dieci minuti per essere
visitato dallo staff medico del pronto
soccorso del Bradfield Cross.
Sospettava che avesse qualcosa a che
fare con la quantità di sangue sul suo
maglione. Da allora aveva preso un
anestetico locale, ricevuto otto punti di
sutura e un parere prudente sulla scarsa
probabilità di aver subìto danni
permanenti alla mano.
Le tende che delimitavano il suo
cubicolo si mossero e il volto familiare
di Carol fece capolino attraverso
l’apertura. «Ciao» disse. Si insinuò nel
cubicolo, chiudendo le tende alle sue
spalle. «Come stai?»
«Sopravvivrò» disse.
Carol si appoggiò sul lettino, accanto a
lui. «Ho bisogno di una tua
dichiarazione.»
Tony le rivolse un sorriso stanco e
triste. «Cosa vuoi sapere?»
«Ho bisogno di sapere cosa è successo
tra te e Jan. Tutta la parte precedente –
cioè come sei arrivato lì e cosa diavolo
credevi di fare – tutto questo può
aspettare. Ma voglio sapere come sono
andati i fatti.»
«Avevo bisogno di prove concrete per
farti credere alla mia teoria, non sapevo
come altro fare» disse Tony. «Colpa
mia.» Prese un sorso dal bicchiere. Tè,
pensò, sebbene non ci avrebbe
scommesso niente di importante. «In una
scatola nascosta nell’armadio ho trovato
un mucchio di foto e alcuni dvd. Erano
foto delle vittime prima che venissero
scoperte, probabilmente scattate da Carl
Mackenzie.»
«Sai di Carl?»
Il dottore annuì. «Jan me lo ha
accennato.» Continuò a raccontare fino
al punto in cui aveva dato le spalle a
Jan.
«Mi ha aggredito» disse Tony.
«Immaginavo che l’avrebbe fatto.
Volevo che si sentisse impotente, volevo
che perdesse il controllo. Era l’unica
chance che avevo per trovare il punto
debole nella sua corazza che mi aiutasse
a uscire vivo da quella casa.» Sorrise.
«Ed è allora che sei arrivata tu.»
«Non ha confessato quindi?»
Tony scosse la testa. «No. Spiacente.
Stava già recitando la storiella che ha
usato con te.»
«Non importa» disse Carol. «La
inchioderemo.»
«Paula?» chiese Tony.
«Stiamo cercando. La troveremo.»
Tony notò la ritrovata sicurezza nello
sguardo e nella voce dell’ispettrice.
Nonostante la sua apprensione per
Paula, parte di lui si rallegrò.
Nick Sanders diede un calcio al corpo
senza vita ai suoi piedi. Quel bastardo
di uno sbirro aveva rovinato il suo
piano. Era tutto programmato. Sarebbe
rimasto al rifugio per una o due
settimane, finché le acque non si fossero
calmate e non gli fosse cresciuta la
barba. Poi avrebbe preso un traghetto
per Larne, avrebbe guidato fino in
Irlanda e sarebbe scomparso. Ma era
andato tutto in fumo grazie a quel
poliziotto ficcanaso. Sarebbe stato
costretto a rintanarsi in qualche rifugio
di montagna sul limitare delle nevi
perenni, non potendo rischiare di
frequentare zone popolate. Per come la
vedeva Sanders, un assassino di bambini
avrebbe occupato le prime pagine dei
giornali per una settimana al massimo,
ma un assassino di poliziotti sarebbe
diventato il nemico pubblico numero uno
fino al suo arresto. Il ranger non aveva
alcuna intenzione di lasciare che ciò
accadesse.
Ripose le sue cose nello zaino, pulì la
lanterna insanguinata sul maglione di
Don Merrick, poi si incamminò
nuovamente tra gli affioramenti rocciosi
diretto verso la macchina. L’aveva
parcheggiata alla fine di un’angusta
stradina asfaltata che conduceva fin
dentro al borgo di Achmelvich,
nascondendola tra l’ultimo dei cottage e
il promontorio roccioso. Le nuvole
basse lasciavano il paesaggio
nell’oscurità, costringendo Sanders a
usare la lanterna per evitare di rompersi
una gamba sulle rocce appuntite che lo
separavano dalla salvezza.
Dopo un po’, raggiunse la stradina
angusta fiancheggiata dalle rocce. Il suo
respiro formava piccole nuvole bianche
nell’aria fredda e un sottile strato di
sudore gli ricopriva la schiena.
Accelerò il passo in modo scomposto.
Era a pochi metri dalla sua auto quando
un paio di abbaglianti si accesero e lo
accecarono, contornando la sua sagoma
slanciata sull’orizzonte frastagliato.
Una voce dal marcato accento
scozzese risuonò nel breve tratto di
strada che li divideva. «Polizia.
Vorremmo farle delle domande,
signore.»
Sanders non esitò. Si mise a correre,
ripercorrendo il sentiero che portava al
mare. Sentì il rumore di passi pesanti
alle sue spalle e si fece prendere dal
panico. Lasciò il sentiero e si avventurò
tra le rocce. Aveva percorso a stento
dieci metri, quando tra i massi che lo
circondavano spuntarono un paio di
potenti fasci di luce che lo
individuarono in pochi secondi. Sanders
proseguì senza perdersi d’animo, ma i
suoi inseguitori avevano il vantaggio di
essere riposati e di vedere dove
mettevano i piedi.
Finì nel giro di qualche minuto. Due
agenti dalla corporatura robusta lo
bloccarono, lo ammanettarono e lo
riportarono sul sentiero e alla volante,
trascinandolo quasi di peso. «Che sta
succedendo?» chiese Sanders in tono
arrogante.
«Ce lo dica lei, signore. Chi ha la
coscienza pulita di solito non scappa
dalla polizia» disse il più anziano tra i
due agenti.
«Mi sono spaventato» disse. «Non
vedevo niente, non ero sicuro che foste
davvero poliziotti. Per quanto ne
sapevo, potevate essere dei ladri.»
«Sì, certo.» Giunti alla volante, lo
fecero sedere sul sedile posteriore e
accesero la luce dell’abitacolo. «Deve
far male quel bernoccolo» notò l’agente.
«Non è granché come travestimento,
signor Sanders. La stavamo aspettando.
Ma pensavamo fosse diretto
all’Hermit’s Castle, non che lo stesse
lasciando.»
Sanders rimase in silenzio, perlopiù
perché non sapeva cosa dire. Una
lacrima solitaria gli sfuggì dalla coda
dell’occhio e scivolò lungo la guancia.
L’agente più anziano annuì. «Okay.
L’agente Mackie rimarrà qui con lei
mentre io do un’occhiata al rifugio. Non
ci metterò molto.»
L’ospedale aveva dimesso Tony
basandosi sull’erronea convinzione che
il dottore sarebbe andato dritto a casa a
riposare. Invece, Tony aveva chiesto al
conducente del taxi di portarlo alla
stazione di polizia. Era stanco e
dolorante, ma c’era ancora da lavorare.
Sapeva che l’unico modo per aiutare
nelle ricerche di Paula era consigliare
Carol su come condurre l’interrogatorio
di Jan Shields per riuscire a penetrarne
le difese. Perciò, tornare a casa non era
un’opzione.
Arrivato alla centrale, trovò Carol che
discuteva con John Brandon. L’ispettrice
sembrava esasperata. Jan Shields aveva
rifiutato l’assistenza legale. Si rifiutava
anche di aprire bocca in un
interrogatorio formale. Brandon parve
sorprendentemente sollevato nel vedere
Tony. «Come stai?» chiese, con in volto
un’espressione preoccupata e bonaria.
«Signore» disse Carol, in tono di
avvertimento.
«Lo so, Carol, lo so. Ma almeno
vediamo cosa ne pensa.»
«Signore, il dottor Hill ha vissuto
un’esperienza traumatica stasera. È stato
aggredito e ferito, è esausto e
probabilmente imbottito di
antidolorifici» si lamentò Carol.
«Solo un anestetico locale» rispose
Tony. «Ho rifiutato gli antidolorifici. Ho
ritenuto opportuno rimanere lucido nel
caso in cui fossi stato chiamato a
rispondere di violazione di domicilio e
accusato di aver piazzato delle prove.»
Carol alzò gli occhi al cielo. «Questo
non è né il luogo né il momento»
borbottò Carol.
«Tony, ci troviamo di fronte a una
situazione inusuale» disse Brandon.
«Come sai, abbiamo Shields in custodia.
Si rifiuta di parlare con chiunque,
eccetto te. Dice che acconsentirà a
sottoporsi a un interrogatorio registrato,
ma solo se sarai tu a condurlo. Non
aprirà bocca con nessun altro.»
«Sarebbe ammissibile in tribunale?»
chiese Tony.
Brandon scrollò le spalle. «Non lo so,
lascerò che siano gli avvocati a
preoccuparsene. Quello che mi interessa
è trovare Paula viva. Se Carol ha
ragione, allora Shields sa dove si trova.
Sono pronto a rischiare di perdere
qualsiasi prova ottenuta
nell’interrogatorio, se questo vuol dire
trovare Paula. Che ne pensi?»
«Io dico che vuole solo coinvolgerti
nei suoi giochetti, Tony» intervenne
Carol.
«Probabilmente è così» ammise il
dottore. «Ma John ha ragione. Se c’è
anche solo una possibilità di salvare
Paula, devo coglierla.»
Tony diede un ultimo sguardo agli
appunti presi da Sam Evans riguardo
alle dichiarazioni fatte da Honey, poi
fece un respiro profondo ed entrò nella
sala interrogatori. Jan Shields era seduta
al tavolo, rilassata come se fosse lei a
condurre l’interrogatorio. Non staccò gli
occhi da Tony mentre questi attraversava
la stanza. «Carino da parte tua passare a
trovarmi, dottore» disse. «Suppongo che
le parti si invertiranno non appena
convinceremo un detective che non sia
l’ispettrice capo Jordan a dare
un’occhiata alle prove. Con questo non
voglio dire che siate in combutta. No,
credo che tu abbia agito di tua iniziativa.
Ma l’hai fatto per lei, e sicuramente
l’ispettrice si sentirà obbligata a
schierarsi dalla tua parte ora.»
«Risparmia le storielle per quando
cominceremo a registrare» disse il
dottore in tono affabile, premendo i due
pulsanti contemporaneamente come gli
era stato detto di fare. Dichiarò la data,
l’ora e i nomi dei presenti. «Ai fini della
registrazione,» disse «puoi chiarire le
circostanze di quest’interrogatorio?»
«Certamente. Ho rinunciato al diritto
di assistenza legale. Ho rifiutato di
parlare con qualsiasi agente di polizia e
ho richiesto di parlare con te, dottor
Hill. Il motivo per cui l’ho fatto è che
desidero confrontarmi personalmente
con l’uomo che si è introdotto
illegalmente in casa mia e ha piazzato
prove che sembrerebbero
incriminarmi.»
«Credo di non aver mai incontrato
qualcuno con una sete di potere simile
alla tua» disse Tony, con disinvoltura.
«Quando è cominciato? Qual è stato il
momento in cui hai capito che la vita era
stata più che ingiusta con te? Quando ti
sei resa conto che nessuno dà il potere,
che deve essere preso? Cosa ti ha
portato a capire che potevi rubare il
potere degli altri? Come hai imparato le
tecniche ipnotiche che hai usato su Carl
e Derek? Devo dirtelo, Jan, sarà
difficile per te d’ora in avanti. Perché è
come una droga, giusto? Non puoi
smettere. Anche ora, quando sai che in
realtà è finita, senti ancora il bisogno di
continuare con i tuoi giochetti di
potere.»
«È la tua carriera a essere finita,
dottore. Non la mia. Violazione di
domicilio, ricordi?»
Tony scosse la testa. «Avevo il mazzo
di chiavi che mi hai prestato.»
«Perché avrei dovuto darti le mie
chiavi?»
«Volevo prendere in prestito il tuo
cofanetto di NYPD – New York Police
Department e tu non sapevi a che ora
avresti staccato da lavoro.» Tony si
appoggiò allo schienale. «Posso
controbattere a qualsiasi storia tu riesca
a inventare. Ma l’arma che ho e da cui
non puoi difenderti è la verità.»
«Non credo proprio» Jan sorrise.
«Lo vedremo. Cominciamo con gli
abusi sessuali sulle prostitute.»
Il dottore credette di scorgere una
momentanea espressione d’agitazione
sul volto del sergente, ma sparì prima
che potesse esserne sicuro. «Mi stai
confondendo con qualcun altro. Io non
pago per fare sesso.»
«Non ho detto che paghi. Abbiamo una
dichiarazione di una giovane donna che
afferma di essere stata costretta ad avere
un rapporto sessuale violento con te
dopo che hai minacciato di arrestarla se
si fosse rifiutata.»
Jan rise di gusto, divertita. «Spuntano
accuse come funghi stasera, eh? Dottor
Hill, uno dei rischi costanti di lavorare
alla buon costume è essere bersaglio di
accuse infondate. Posso indicarvi un
mucchio di donne con cui ho fatto sesso
consensuale e non violento. Non ho
bisogno di minacciare delle prostitute
per farmi una scopata. A conti fatti,
credo che qualsiasi giuria tenderebbe a
credere a un’agente con menzioni al
valore piuttosto che a una tossica che
batte le strade.»
«Non ci scommetterei» disse Tony, con
aria pacata e distesa. «Passiamo alle
prove fisiche che ho trovato nel tuo
appartamento. Non solo il computer, Jan.
Ho trovato la tua collezione. Le foto, i
cd. Ci saranno le tue impronte sopra.»
Jan sospirò e abbassò lo sguardo sul
tavolo. «Mi hai beccato, dottore.
Suppongo che sia meglio confessare ora.
Sì, sono in possesso del materiale di cui
parli. Ma l’unica cosa di cui sono
colpevole è aver occultato delle prove.
Ho ricevuto quel materiale per posta, in
via anonima. Per caso hai idea di chi sia
il mittente? So che avrei dovuto
consegnare le prove, ma...» allargò le
mani, come per arrendersi. «Che posso
dire? Non ne vado fiera. Volevo farmi un
nome, risolvere il caso da sola. Sì, avrei
dovuto consegnare tutto all’ispettrice
capo Jordan. Ma volevo la gloria tutta
per me.» Alzò la testa e incrociò lo
sguardo del dottore. Gli rivolse un
sorriso smagliante, angelico. «Posso
solo dire che sono desolata.»
Tony non riusciva a fare a meno di
provare una vaga ammirazione per Jan.
Non aveva mai conosciuto nessuno
capace di mantenere la calma come lei.
Aveva interrogato non pochi psicopatici
a sangue freddo, ma nessuno di loro
aveva mai dimostrato un controllo così
assoluto. «Devo ammetterlo, non so
come tu ci sia riuscita. Deve essere stato
davvero difficile fare in modo che
Derek e Carl seguissero le tue istruzioni
alla lettera. Ho conosciuto degli
ipnoterapisti molto abili nel corso degli
anni, ma dubito che qualcuno di loro
riuscirebbe a esercitare un tale livello di
controllo sulla mente e sugli impulsi di
un altro individuo.»
Jan scosse la testa, con aria di
commiserazione. «Non ho idea di cosa
tu stia parlando» disse.
«No? Credevo volessi condividere il
segreto del tuo successo. Potresti fare un
sacco di soldi insegnando come si
ottiene il controllo assoluto di un altro
essere umano. Anche se parliamo di
esemplari patetici come Carl e Derek.»
Niente. Neppure l’ombra di una
reazione. Tony provò con un’altra
tattica. «È un peccato che Carl
Mackenzie sia morto. Sono sicuro che
avrebbe avuto una storia interessante da
raccontare.»
«Lo credo anch’io. E credo di essere
dispiaciuta più di te per la sua morte,
perché di certo avrebbe potuto
scagionarmi. Se è vero che qualcuno ha
orchestrato questi omicidi – e non sono
convinta che lo sia, per la cronaca –
Carl avrebbe confermato che quella
persona non sono io.»
«Un pensiero interessante, Jan. Ma c’è
una persona che può ancora aiutarci a
chiarire la situazione. Quando capirà
che la sua voce non è la creatura
onnipotente che fingeva di essere,
quando saprà che ti abbiamo in custodia,
Derek Tyler parlerà. Derek è vivo e in
buona salute, e parlerà. Te lo prometto.»
Il sorriso di Jan fu crudele stavolta, il
suo sguardo cupo intriso di umorismo
efferato. «Non ne sarei così sicura. Di
nessuna di queste cose, a dir la verità.»
Un gelo improvviso si insinuò nel
cuore di Tony. Nella sua mente apparve
come un flash l’immagine di Jan
appoggiata alla parete nei corridoi del
Bradfield Moor. Da quanto lo stava
aspettando? Era stata da Derek Tyler?
Aveva avuto modo di attivare qualche
suggestione da tempo sepolta?
«Che succede, dottore?» chiese Jan.
Era chiaro che stesse godendo della
confusione sul volto di Tony. «Ti sei
ricordato qualcosa?»
Tony balzò in piedi e corse verso la
porta. Carol uscì dalla sala di
osservazione nello stesso momento. Si
incrociarono nel corridoio. «È venuta a
prendermi al Bradfield Moor» disse
subito Tony. Prese il cellulare e digitò il
numero dell’ospedale. «Sono il dottor
Hill, devo parlare con l’infermiere
responsabile di turno.» Guardò Carol
mentre aspettava di essere messo in
contatto con il responsabile. «Devi
andare lì. Porta Derek Tyler in centrale,
mettigli qualcuno vicino ventiquattr’ore
su ventiquattro finché non riesco a
convincerlo a parlare. Non deve essere
lasciato da solo. Lo avrà programmato
per l’autodistruzione.» Spostò
l’attenzione sul suo interlocutore
telefonico. «Vincent? Sono Tony Hill. È
una questione molto importante. Come
l’hai trovato oggi Derek Tyler?»
«Strano che me lo chieda, dottore.
Tyler sembrava alquanto vivace, quasi
felice. Silenzioso come sempre, ma più
vispo in qualche modo.»
«Quand’è stata l’ultima volta che l’hai
visto?»
«Quando abbiamo spento le luci,
credo. Non c’era ragione di controllarlo
di nuovo.»
Cazzo. «Vincent, puoi farmi un favore?
Puoi andare a controllarlo di persona?
Adesso?»
L’infermiere sembrò perplesso.
«Certo, ma...»
«E, Vincent? Chiamami appena l’hai
fatto.» Terminò la chiamata. «Perché sei
ancora qui, Carol? Dobbiamo arrivare a
Tyler prima che sia troppo tardi. Devo
parlargli.»
«Non sarebbe meglio che lo facessi
all’ospedale?»
Tony scosse la testa. «Quando
qualcuno è ritenuto a rischio suicidio
all’ospedale, viene controllato ogni
quindici minuti. Ma tu puoi mettergli
qualcuno vicino giorno e notte. È di
questo che abbiamo bisogno se
vogliamo tenerlo in vita. Carol, devi
fidarti di me.»
L’ispettrice esitò per un secondo, poi
disse: «Okay, vado.» Se ne andò a passo
svelto e Tony entrò nella sala di
osservazione. Studiò Jan Shields
attraverso il finto specchio. Sembrava
impassibile. La sua arroganza era
monumentale. Anche dopo aver saputo
che il suo soprannome era stato scoperto
ed era parte dell’indagine, non aveva
perso le staffe. Aveva continuato a
chiarire in tutta calma ogni dettaglio che
avrebbe potuto causarle problemi. La
cosa allarmante era che Tony si era
quasi lasciato convincere della sua
invincibilità. Sembrava che Jan avesse
una risposta plausibile a tutto. Il dottore
temeva che sarebbe stata in grado di
spingere una giuria ad amarla tanto da
crederle. O almeno tanto da perdonarla.
I minuti passavano e Tony diventata
sempre più irrequieto. Più aspettava, più
temeva il peggio. Erano quattro, cinque
minuti al massimo dalla guardiola
dell’infermiere alla stanza di Tyler. Un
minuto per controllare, poi il tempo di
tornare indietro. Dieci minuti in tutto,
non di più. Era quanto avrebbe dovuto
impiegare Vincent a richiamarlo, se tutto
fosse stato in regola.
Dieci minuti diventarono quindici,
quindici diventarono venti. Finalmente il
cellulare squillò. Tony rischiò di farlo
cadere nella fretta di rispondere con la
sinistra. «Pronto? Vincent?»
«Sono io» rispose Carol. Quelle due
parole dissero a Tony tutto ciò che
doveva sapere.
«Merda» disse il dottore.
«Sono arrivata cinque minuti fa»
continuò Carol. «È scoppiato il caos
qui. Hanno appena trovato Derek morto
nella sua stanza. Pare abbia ingoiato la
sua stessa lingua.»
«Non ci credo» gemette Tony.
«Credici» disse Carol, in tono triste.
«Questo caso sta andando a puttane e
non abbiamo ancora idea di dove
cercare Paula. Mi viene da piangere.»
«Non sei la sola.»
«Ci vediamo in centrale. Tony, non
parlare con Jan finché non arrivo,
okay?»
«Sì. Dobbiamo capire cosa fare ora.»
Supponendo che ci fosse ancora
qualcosa da fare.
La stazione di polizia a cui Stacey
aveva fatto ritorno qualche ora prima
assomigliava ben poco a quella che la
detective aveva lasciato. Niente
viaggiava più veloce delle brutte notizie
in un ambiente così legato
all’informazione come quello di una
centrale di polizia. Per giorni, il
rapimento di Paula McIntyre aveva
alimentato chiacchiere e condizionato
l’atmosfera in un misto di indignazione,
critiche, se e ma. Chiunque aveva
un’opinione. Ma la notizia del presunto
tradimento di Jan Shields aveva
investito la polizia di Bradfield come
un’onda d’urto, creando qualcosa di
simile all’istante successivo a
un’esplosione in cui l’aria e i rumori
vengono risucchiati via dall’epicentro.
Nei corridoi regnava il silenzio, i
movimenti erano contenuti, i volti
arrabbiati e frastornati. Quando era
entrata nella sala operativa, Stacey
aveva percepito gli sguardi ostili dei
suoi colleghi, come se essere stata
presente all’arresto di Jan la rendesse in
qualche modo responsabile di un colpo
così micidiale all’autostima dell’intero
corpo di polizia. La detective sapeva
che qualcuno di loro avrebbe tentato di
riscrivere la storia; alcuni avrebbero
cercato di discolpare Shields, chi ci
aveva lavorato a stretto contatto avrebbe
preso le distanze, altri avrebbero
affermato di aver sempre saputo che
c’era qualcosa di losco nel sergente. Le
ripercussioni sarebbero state dure e
dolorose.
Tornata alla sua scrivania, Stacey
mandò giù due compresse di
paracetamolo senza l’aiuto di un
bicchiere d’acqua e corrugò la fronte in
un’espressione di concentrazione. Non
ci mise molto a capire che non c’era un
modo semplice per collegare
l’immagine sullo schermo alla posizione
fisica della webcam. Sentiva lo stomaco
contorcersi nel vedere la sua collega
così vulnerabile e si ripromise di fare in
modo che, una volta trovata Paula,
quelle immagini scomparissero per
sempre da qualsiasi computer le avesse
mai riprodotte. Nessun depravato ci
avrebbe messo le mani sopra. Paula non
sarebbe diventata lo spasso notturno di
agenti spregevoli della buon costume.
Né di nessun altro.
Uno degli informatici dell’HOLMES era
stato incaricato di esaminare tutti i file
accessibili sull’hard disk del portatile.
Finora, non aveva trovato nulla oltre a
una quantità deprimente di porno
hardcore.
A Stacey non interessava ciò che era
visibile. Sapeva che una criminale
organizzata come Jan Shields non
avrebbe mai lasciato indizi cruciali in
bella vista. Avrebbe cancellato qualsiasi
prova incriminante e, data la sua
esperienza nelle indagini per pedofilia,
era probabile che avesse imparato le
nozioni di base su come ripulire
periodicamente l’hard disk.
Questo non voleva dire che non ci
fosse nulla da trovare, e Stacey era
determinata a trovare qualcosa. Dopo
un’ora di intenso lavoro, era riuscita a
isolare solo tre frammenti di file. A un
primo sguardo, le erano sembrati
incomprensibili. Ma Stacey aveva vari
strumenti a sua disposizione e non
impiegò molto a tradurre
quell’accozzaglia di simboli in
frammenti di parole e frasi.
Il primo si rivelò irrilevante.
Sembrava il rimasuglio di un allegato
inviato per email, probabilmente una
delle migliaia di barzellette che
circolavano in rete, come indicato da
porzioni di frasi quali ‘tare in piscina’,
‘allora Dio dis’ e ‘fuori dal pesce’.
Il secondo frammento spiazzò Stacey
come uno shot di vodka. ‘...affitto in...
aparra in contan... onolocale a !%... tron
Lane, Temp... rl Macke...’ Mentre la
stampante si accendeva rantolando,
Stacey corse nella sala operativa, dove
una mappa su larga scala di Temple
Fields era appesa alla parete. Fece
scorrere un dito sui nomi delle strade.
Eccola lì. Citron Lane. Il vicolo dietro
la strada dove Paula era scomparsa.
Trattenendo a stento l’eccitazione,
Stacey ritornò di corsa alla sua
scrivania. I simboli ! e % si ottenevano
premendo il tasto Shift sulla tastiera e
stavano quindi per 1 e 5. L’aveva
trovata.
Carol appoggiò la testa sul volante e
sentì il dolore causato dalla tensione nei
suoi muscoli diffondersi nelle spalle in
una serie di crampi. Jan Shields sfuggiva
alla sua comprensione. Quante prove
sarebbe riuscita a invalidare? Era
evidente che stesse usando tutta la sua
esperienza per contrapporre a ogni
dettaglio della sua attività criminale una
serie di scuse e spiegazioni
perfettamente plausibili. Carol era
abituata all’arroganza e alla
spacconaggine di un criminale messo
alle strette, ma Jan le superava di gran
lunga fino a sfociare in una sorta di
credibilità perversa.
Tutte cose con cui Carol avrebbe
imparato a convivere, se solo fosse
riuscita a trovare Paula. Ma le
prospettive di riuscirci erano rimaste
pressoché invariate dal momento del suo
rapimento.
Si raddrizzò stancamente e avviò il
motore proprio mentre il cellulare prese
a squillare. «Carol Jordan» rispose in
tono monotono.
«Sono Stacey» disse la voce. «Credo
di averlo.»
«Di avere cosa?» Carol non voleva
crederci.
«L’indirizzo dove si trova Paula. Un
monolocale al numero quindici di Citron
Lane, a Temple Fields. Affittato a nome
di Carl Mackenzie. Lo abbiamo
perlustrato quella sera stessa, ma c’era
il sergente Shields a capo della squadra
di ricerca e ha dichiarato di non aver
trovato nulla.»
Carol sentì la gola chiudersi per
l’emozione. «Grazie, Stacey» riuscì a
dire prima che il nodo alla gola le
strozzasse la voce. «Ci penso io
adesso.» Terminò la chiamata e digitò il
numero di Merrick. Nessuna risposta.
Dove diavolo era finito? Carol non
aveva tempo di rintracciarlo, ma gli
avrebbe fatto una bella strigliata non
appena si fosse fatto vivo. Imprecando
contro Merrick tra sé e sé, Carol fece il
numero di Kevin. Il sergente rispose al
secondo squillo. «Kevin, numero
quindici di Citron Lane, Temple Fields.
Raggiungimi lì. Porta una squadra. Non
entrate, ripeto, non entrate finché non
arrivo. Chiaro?» Terminò la chiamata,
inserì la marcia e con una mano afferrò
il microfono della ricetrasmittente.
«Ispettrice capo Jordan a centrale.
Unità paramedica richiesta al quindici di
Citron Lane, Temple Fields. Ripeto,
unità paramedica richiesta al quindici di
Citron Lane, Temple Fields. Chiudo.»
La radio gracchiò una risposta di
conferma. «E ho bisogno che qualcuno
porti delle tronchesi» aggiunse Carol in
un secondo momento.
«Ha detto tronchesi?» chiese
l’operatore.
«Sì. Abbastanza robuste da spezzare
un paio di manette.»
La camera era al terzo piano. Come
aveva detto Stacey, era stata Jan Shields
a dichiarare vuoto l’edificio oltre il
portone nel muro. Anche se non fosse
stata lei a guidare la perlustrazione,
sarebbe stato facile non accorgersi della
sua esistenza nella concitazione delle
ricerche. In passato, qualcuno aveva
creato una doppia porta. Aprendo quella
che si affacciava sul pianerottolo, tutto
ciò che si vedeva era una credenza poco
profonda con delle mensole
impolverate. Ma a un esame più attento,
nascosta sotto una mensola, avevano
trovato una serratura e un’impugnatura
concava. L’edificio era sulla lista di
proprietà i cui locatori dovevano ancora
essere interrogati. Un altro giorno
ancora e avrebbero scoperto il
collegamento con Carl Mackenzie.
Kevin Matthews e Sam Evans si
gettarono contro la porta interna. Questa
collassò in un’esplosione di schegge e
polvere. Carol si fece strada tra i due ed
entrò per prima, aveva il cuore in gola.
A un primo sguardo, credette di essere
arrivata troppo tardi. Paula giaceva
immobile sul letto, con gli occhi chiusi.
La stanza puzzava di sudore e urina.
«Toglietele quelle manette» ordinò
Carol, afferrando l’angolo del lenzuolo
per coprire il bacino esposto di Paula.
Evans le passò accanto con le tronchesi
in mano.
«Gesù, Paula» gemette il detective,
mentre lavorava sulla catena delle
manette.
I paramedici invasero la stanza,
esigendo spazio per fare il loro lavoro.
Carol si chinò su Paula e le accarezzò la
fronte. La pelle era calda e febbricitante,
e in cuor suo Carol esultò. Si fece da
parte per lasciar spazio ai paramedici,
mentre il secondo paio di manette
cedeva sotto la forza di Evans.
«Come sta?» chiese Carol con
apprensione mentre i paramedici
cominciavano i controlli di rito.
«È viva. Ma è molto debole» disse
uno di loro, senza distogliere lo sguardo
dalla detective.
«Non vi azzardate a perderla» disse
Carol, indietreggiando verso il
pianerottolo. Prese il cellulare e chiamò
Tony. Il dottore rispose al primo squillo.
«Tony, l’abbiamo trovata. Abbiamo
trovato Paula.»
«Viva?»
«Sì. Viva.»
«Grazie a dio» sospirò il dottore.
Quando terminò la chiamata, Carol si
ritrovò circondata da detective intenti a
congratularsi a vicenda, soddisfatti del
lavoro svolto. Il loro giubilo era così
travolgente che nessuno, neppure Carol,
si accorse del volto che mancava. Il
baccano era tale che l’ispettrice rischiò
di non accorgersi del cellulare che
squillava. Per sentire meglio il suo
interlocutore, rientrò nella stanza in cui i
paramedici stavano spostando Paula su
una barella.
La voce le sembrò sconosciuta. «Parlo
con l’ispettrice capo Jordan?»
«Sì, sono io. Chi è?»
«Sono l’ispettore Macgregor. La
chiamo da Achmelvich» disse l’uomo,
con voce rauca e solenne.
«Avete preso Nick Sanders?» Carol si
sforzò di non sperarci troppo. Ma non
riusciva a pensare a un’altra ragione per
cui qualcuno col grado di Macgregor
potesse trovarsi in un borgo così piccolo
a quell’ora tarda se non per formalizzare
un arresto importante. Era quasi troppo
bello per essere vero. Avevano trovato
Paula, Jan Shields era in custodia, e ora
avevano preso l’uomo che aveva
molestato e ucciso Tim Golding e Guy
Levefre.
Ci fu una pausa. Poi Macgregor parlò,
l’incertezza era evidente nella sua voce.
«Sì. Abbiamo Sanders in custodia.»
«C’è qualche problema?» chiese
Carol, facendosi da parte per lasciar
passare i paramedici con la barella.
Allungò una mano per sfiorare il braccio
di Paula mentre veniva portata via.
«Capo Jordan,» disse l’uomo «c’è un
ispettore Merrick nella sua squadra?»
Un sospetto agghiacciante si fece
strada nella mente di Carol. «Cosa è
successo?» chiese.
«Sono desolato. Non c’è un modo
semplice di dirlo: l’ispettore Merrick è
morto, signora.»
Carol sentì le gambe cedere sotto il
suo peso mentre scivolava a terra con la
schiena appoggiata alla parete. Era una
notizia difficile da accettare dopo tutto
quello che era successo nelle ultime ore.
«No» sussurrò. «Non è possibile.
Dovrebbe essere qui. A dormire. In un
motel. Deve esserci un errore.»
«Non credo che ci siano dubbi,
signora. Corrisponde alla foto
identificativa sul distintivo. A quanto
pare, stava sorvegliando il rifugio in
attesa di Sanders. C’è stato uno scontro
tra i due e l’ispettore ha ricevuto un
brutto colpo alla testa. Dovremmo
saperne di più domattina. Sono
profondamente desolato, signora.»
Carol terminò la chiamata e lasciò
cadere il cellulare nella tasca. Si portò
le mani sul viso. Poi si costrinse ad
alzarsi. Avrebbe avuto tempo di
abbandonarsi al dolore. Aveva delle
responsabilità in quel momento.
Raggiunse lentamente la porta
mettendo un piede davanti all’altro con
cura, come se fosse ubriaca. Fece un
lungo respiro e rabbrividì, poi si sforzò
di parlare a voce alta e più chiaramente
che poteva. «Ho una brutta notizia»
cominciò.
Tony era ancora in piedi davanti al
finto specchio. Sapeva che avrebbe
dovuto essere euforico per il
ritrovamento di Paula, ma il retrogusto
amaro del fallimento era l’unica cosa
che riusciva ad assaporare. Aveva
finalmente trovato qualcuno alla sua
altezza: una criminale capace di
resistere alle sue tattiche senza sforzo
apparente. Le tecniche di controllo della
mente apprese da Jan le avevano
insegnato a controllare le sue stesse
reazioni quasi alla perfezione. Col
tempo, forse, Tony sarebbe riuscito a
penetrare le sue barriere. Ma aveva il
sospetto che quel lusso non gli sarebbe
stato concesso. Se il caso fosse mai
arrivato in tribunale, Jan sarebbe stata
convincente e affascinante con la giuria,
e probabilmente sarebbe stata dichiarata
non colpevole.
Se invece avesse perso, sarebbe finita
in un ospedale psichiatrico, ma Tony era
pronto a scommettere che sarebbe stato
uno molto lontano da quello in cui lui
lavorava.
Il fatto che Paula fosse viva era una
consolazione enorme, naturalmente. Sul
piano umano, era il migliore risultato
possibile. Ma non bastava a bilanciare
la disperazione che il dottore provava
nel notare l’aria compiaciuta di Jan
Shields.
Non aveva idea di quanto tempo fosse
passato quando sentì qualcuno bussare
alla porta. Tony attraversò la stanza e la
aprì. Sulla soglia, un agente in uniforme
lo guardava con aria insicura. «Mi
dispiace disturbarla, dottor Hill. Ma è
appena arrivato questo per lei.»
Consegnò a Tony una piccola busta da
lettere marrone. «Ce l’ha portata uno
degli infermieri del Bradfield Moor.»
«Grazie» disse Tony. Chiuse la porta e
studiò la busta. Il suo nome campeggiava
in lettere maiuscole sul lato anteriore.
La grafia era irregolare. Il dottore non la
riconobbe. Strappò la linguetta
superiore ed estrasse un singolo foglio
di carta da lettere sottile e scadente. Le
stesse maiuscole irregolari riempivano
metà pagina. Sotto di loro, una firma
eseguita in modo maldestro diceva:
DEREK TYLER.
Tony non riusciva a credere ai suoi
occhi.
CARO DOTTOR HILL. IL COBRA È IL
SERGENTE JAN SHIELDS. JAN SHIELDS
ME LO HA FATTO FARE. REGISTRAVA
DELLE CASSETTE PER ME. SONO DIETRO
ALLA CISTERNA PER L’ACQUA NEL
SOTTOTETTO DELL’APPARTAMENTO IN
CUI VIVEVO, AL NUMERO 7 DI ROMNEY
WALK. NON MI PENTO DI QUELLO CHE
HO FATTO. MA NON VOGLIO PRENDERMI
TUTTA LA COLPA.

Ci sono poche situazioni più


commoventi di un funerale in pompa
magna di un agente di polizia. Dozzine
di poliziotti in alta uniforme, famiglie e
amici impietriti dal dolore e in balìa
della formalità di un addio solenne, tutta
la grandiosità di cui è capace la Chiesa
d’Inghilterra. Carol era circondata dai
membri della sua squadra, lo sguardo
dritto, il mento basso, il berretto sotto il
braccio. John Brandon leggeva
l’encomio scritto dall’ispettrice per
onorare la memoria di Don Merrick,
mentre i due figli dell’ispettore defunto
si avvinghiavano alla madre, l’unico
elemento familiare in una scena fuori
dall’ordinario.
Tony se ne stava in disparte, il suo
sguardo non vagava mai troppo lontano
da Carol e da una Paula irrequieta e
dagli occhi infossati che le stava
accanto. Quando Tony le aveva mostrato
la lettera di Tyler, l’ispettrice era
piombata come una furia nel monolocale
al pianterreno. Tutto il dolore e la
rabbia per la morte di Merrick si erano
tradotti nell’assoluta determinazione a
incastrare Jan Shields.
Le cassette erano rimaste lì, tre piani
più sopra, infilate tra la cisterna per
l’acqua e l’angolo del tetto. Il messaggio
agghiacciante che contenevano era
chiaro e irrefutabile. L’unica persona
che non sembrava riconoscerlo era la
stessa Jan. Ma non importava. Nessuna
giuria l’avrebbe scagionata con quei
nastri. Tony provava pietà per qualsiasi
istituto avesse la sfortuna di riceverla
come detenuta.
Le ultime settimane erano state un
battesimo di fuoco per Carol. A tratti,
Tony aveva temuto che l’ispettrice non
ce l’avrebbe fatta. Ma lei aveva
dimostrato il contrario e, per una volta,
il dottore fu felice di essersi sbagliato.
Brandon arrivò alla fine del suo elogio
e chinò il capo. I ventuno colpi a salve
del saluto militare crepitarono nel
cimitero. Carol si voltò per incrociare
lo sguardo di Tony. I due si scambiarono
un cenno quasi impercettibile. È
incredibile, pensò il dottore, quanto
poco ci basti per sopravvivere.
Ringraziamenti

Come sempre, devo ringraziare chi mi concede


generosamente il proprio tempo e il proprio bagaglio di
conoscenze per aiutarmi a restare nei limiti
dell’accuratezza. Sono grata alle Greenfield Girls per
aver liberato l’immaginazione; ad Angus Marshall per
la consulenza sugli aspetti forensi dell’informatica; al
dottor Ray Murray per l’assistenza in materia
geologica; alla dottoressa Sue Black per la sua guida in
materia di patologie; a Brigid Baillie per la consulenza
sulle procedure legali; e alla defunta Kathy Wilkes per
essere stata la prima a farmi conoscere il problema
mente-corpo.
Per il loro costante supporto, grazie a Julia Wisdom e
Anne O’Brien della HarperCollins; a Jane, Broo,
Anna, Claire e Terry della Gregory & Company; a
Trina Furre della Riverdale; a Sandra, Ken e Robson
della Coastal.

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