Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
traduzione di
LORENZA PIERI
1.
Dopo che Samuel è uscito, resto seduta sugli scalini di legno che scendono in
giardino, tenendo i gomiti ben stretti sullo stomaco – cosa che spesso fa dire a
Samuel, hai paura che ti rubino un pezzo di pancia? –, guardo tutta l’umidità
della notte evaporare e far nascere dei moscerini trasparenti che si agitano
nervosamente intorno a me, aspetto dandomi ogni tanto un’occhiata ai piedi o
alla pelle delle gambe – mai però troppo a lungo, perché i piedi e la pelle
delle gambe possono sprofondarmi in abissi di tristezza. Rifletto sulla
proposta di Samuel, quella che mi ha fatto la sera prima, a cena, la proposta di
impegnarci «a lungo termine», e rifletto anche su tutti gli animali evasi (non
molto a lungo in effetti, non sono per niente ansiosa di verificare se davvero se
ne sono andati tutti, voglio mantenere viva la mia meraviglia notturna).
Mi rigiro in testa, come se mi rigirassi in bocca una caramella, la frase «a
lungo termine» di Samuel. L’assaggio con la lingua e poi mi tiro indietro
davanti alla sua improvvisa acidità. Alla fine mi abituo al suo sapore, ma non
riesco a decidermi. Aspetto che il sole mi abbagli e mi scotti prima di
rientrare nell’ombra della cucina. Lì sbatto tutte le porte e creo un gran giro
d’aria tenendo le finestre aperte con delle sedie, e resto in mezzo a tutta questa
agitazione per rinfrescare la casa e far volare via i pensieri pericolosi.
Samuel, la sera, rientra con Ben e la nuova ragazza di Ben. Stanno parlando di
politica quando attraversano la soglia ma la loro conversazione non è tanto
animata. Samuel ha l’abitudine di riferire ai suoi amici, che sono già
d’accordo, dei fatti che l’hanno indignato; gli altri fanno sempre «sì sì sono
assolutamente d’accordo» perché sono davvero assolutamente d’accordo con
lui. Allora Samuel si sente bene in questa indignazione condivisa, si sente più
forte e più legittimato. Credo che sia l’ingenuità di Samuel a commuovermi,
qualcosa che ha a che fare con l’infanzia – la più lontana e la più pura.
Ci sediamo sugli scalini di fronte al giardino con i nostri bicchieri di
liquore, li lascio parlare sorridendo – perché non si preoccupino della mia
assenza –, gli occhi fissi sul ghiaccio nel mio bicchiere, il ghiaccio che crepita
ancora e scampanella contro le pareti del bicchiere ogni volta che l’agito.
La ragazza di Ben è carina, ha uno sfavillio particolare negli occhi, auguro a
tutti e due tanta felicità, me lo ripeto a bassa voce, penso che Ben ha davvero
bisogno di qualche incantesimo perché gli riesca una storia che duri per
sempre. Adesso guarda la sua principessa. Ben mi piace molto. Gli uomini in
generale mi piacciono molto. Ho già provato a sedurre Ben ma mi sono
fermata in tempo, giusto in tempo perché Ben si affezionasse a me quanto a
Samuel.
Il sole della sera ci ha raggiunto da sinistra, cala rapidamente dietro gli
edifici e ci lascia la pelle rosa e, per ciascuno di noi, un’ombra lunga che si
stende sulle assi di legno fino in fondo alla cucina. Il crepuscolo è morbido e
fa ricadere a terra la polvere del giorno, le zanzare escono dall’erba e dai loro
minuscoli serbatoi d’acqua. Guardo attentamente questa frenesia serale e
respiro l’odore di sangue che sale con i vapori della terra. In quel momento
Samuel dice, avremo un bambino io e Lili, e mi giro verso di lui appena un po’
sorpresa. Questo bambino ancora non esiste, non ho ancora dato il mio
consenso alla proposta di Samuel e ancora una volta la sua ingenuità mi
colpisce.
Allora chiaramente gli altri due credono che noi siamo questa coppia
meravigliosa nella loro casetta, questa coppia meravigliosa che progetta una
vita carina piena di bambini muti e rosei. Non voglio mettere nessuno a
disagio e quindi acconsento. Ben e la sua ragazza (Vera, credo) cominciano a
congratularsi con noi. Non riesco a dirgli, no no aspettate, la mia pancia è
vuota per il momento, sapete, è solo l’entusiasmo di Samuel. Chiaramente è
impossibile dirglielo adesso. Samuel sembrerebbe ridicolo e io distruggerei la
gioia di tutti. Allora sì, certo, mi metto a parlare e a raccontare la mia felicità,
rincaro un po’ la dose. Samuel mi guarda leggermente esterrefatto ma
intrappolato anche lui e siamo lì tutti e due, bellissimi nei nostri abiti bianchi,
immersi tutti e due in questo crepuscolo perfetto, a mentire tutti e due ai nostri
amici ma con dei sorrisi così seducenti che nessuno potrebbe serbarci rancore.
Io ovviamente sono altrove, rivedo tutti gli animali selvaggi di questa notte e il
dondolio della giraffa, li vedo che scappano ma continuo a sorridere in questo
momento puro. Samuel si alza e mi porge la mano per aiutarmi. Restiamo un
istante in piedi sugli scalini. Per me quest’uomo è meraviglioso, mi dico a
bassa voce, quest’uomo è una meraviglia. Sento una gioia intensa, proprio in
mezzo al plesso solare, per il fatto di essere lì, accanto a lui; rido per
mascherare la mia emozione e rientriamo tutti e quattro in casa per mangiare
intorno al tavolo parlando a bassa voce per non disturbare le falene e la notte
d’estate che trasporta le voci al di là del giardino, per non disturbare i miei
fantasmi e la pienezza di questa serata.
2.
Il giorno dopo decido di tornare allo zoo. È ancora presto. Aspetto davanti al
cancello dell’entrata con dei bambini, quelli irriducibili, accompagnati dalle
zie nubili, aspetto appoggiata all’inferriata che la porta si apra, godendomi
l’ombra ardente delle acacie, tormentando il mio braccialetto di plastica e le
sue minuscole perle di vetro, sgranandole come un rosario. Sento già l’odore
soave della sabbia e del letame mescolato agli aromi zuccherosi dei bambini,
quegli aromi artificiali di fragola e ananas. Mi riempio i polmoni di questo
brulicare di odori e sorrido nell’ombra ardente delle acacie.
Il guardiano viene ad aprirci, io mi faccio avanti e comincio a girellare tra i
viali, fermandomi davanti alle sbarre, appoggiandomi coi gomiti ai muretti di
fronte alle gabbie vuote – non sono tornati, i miei animali, oppure si sono
rintanati nelle caverne di resina dopo la fuga, e stamattina sono ancora
assopiti.
Nel punto in cui mi sto dirigendo non c’è nessuna agitazione, nessun grido,
non c’è nessuno.
È l’ora assassina. Sento lo scottare del sole attraverso il cappello, sento che
passa attraverso l’intreccio della paglia.
Resto a lungo davanti a Wanda la gorilla, così vecchia che ha dovuto
lasciare che gli altri continuassero la gita senza di lei, avendo già assaporato
quello che immaginava di non assaporare mai più, quasi non chiedendo altro e
ritornando al suo foraggio e alle sue mele vizze. Questo zoo ormai è diventato
uno zoo di animali vecchissimi, mi dico. Cerco di sondare la sconfinata
desolazione della signora Wanda, ripetendomi, morirà presto, annusando
l’odore del suo calore e della sua stessa decomposizione – perché si
decompone, la signora Wanda, si decompone piano nella sua vecchiaia lenta –,
e mi chiedo cosa fare per liberarla se non darle delle polverine profumate e
mortali, cosa fare per la signora Wanda.
In quel preciso istante, nell’istante in cui mi allontano dalla prostrazione
malinconica del gorilla, in cui me ne distacco per raggiungere il viale,
percepisco qualcosa che si muove alla mia sinistra, qualcosa che trema
nell’aria liquida, che brilla e sparisce – uno di quegli spiriti del caldo che
appaiono scintillando sopra l’asfalto d’estate. Giro la testa, non c’è già più
niente. Vedo solo, in fondo, sotto un’acacia, un uomo e la sua figlioletta con un
palloncino a forma di cane giallo.
Il mio fantasma d’estate è scomparso. Eppure pensandoci bene posso dire
che era un uomo tutto vestito di nero che stava immobile nell’angolo sinistro
del mio occhio sinistro. Laggiù sotto l’acacia. Vicino alla bambina e a suo
padre.
Potrei anche dire chi è quell’uomo. Ma il suo nome mi pietrifica di terrore.
Perché non doveva tornare, non dovrebbe essere qui, non può del resto, se ci
penso bene, è davvero impossibile, basta che io respiri profondamente per uno
o due minuti tenendomi alla balaustra davanti alla signora Wanda, il viso
nell’ombra del mio cappellone, ecco, respiro profondamente, mi riempio di
tutta quest’aria calda e mi dico seria seria, con le sopracciglia aggrottate, mi
dico, no, non può essere tornato.
Mi rimetto in cammino a piccoli passi sulla sabbia del viale – solo la mia
ombra minuscola concentrata attorno ai miei piedi, nient’altro che quest’ombra
e questo sole fisso. Rientro a casa e rifletto tutto il pomeriggio per capire se
parlerò o no a Samuel del fantasma che ho incrociato allo zoo.
Questa notte, poco più di cinque anni dopo la mia uscita di prigione, nella
notte che segue il nuovo e spettrale incontro con il mio vecchio amante, mentre
Samuel che ha appena finito di scoparmi dorme già nella nostra stanza
nonostante il rumore delicato e regolare della persiana che sbatte sulla
spagnoletta – un rumore che non gli dà nessun fastidio, mentre per me ha una
portata mostruosa che calpesta quel poco di sonno che riesco a far arrivare
fino a me –, quando chiudo gli occhi e tento di concentrarmi sul silenzio
intorno alle pulsazioni della persiana, spaventata di sentire l’insonnia
aggirarsi nelle mie acque profonde, quando stringo i pugni sul lenzuolo,
fissandomi sull’immagine di un albero o di un ruscello – immagini che, in
genere, allontanano lo squalo e mi permettono di riposare –, sento l’urgenza
irresistibile di alzarmi per andare alla finestra della cucina e verificare ciò di
cui sono convinta.
Mi dico, dopo potrai dormire.
All’inizio non riesco a muovermi perché so che lui mi spia, so che è dietro
di me, so che è intorno a me. Il vuoto in me prende vita, la mancanza mi
soffoca, mi sei mancato, una cosa che ha a che fare con la dolcezza e con
l’attrazione sessuale.
Alla fine mi alzo, vado in cucina, mi appoggio al lavandino e lo vedo
subito, lo scorgo che aspetta fumando dall’altra parte della strada, vedo Yoïm
pigramente appoggiato al lampione, gli occhi altrove, che non guardano
proprio la casa e me dietro la tenda, solo a fumare una sigaretta come se fosse
una cosa normale aspettare sotto un lampione alle tre di notte in questo
quartiere di villini con giardinetti e siepi. Riconosco il suo corpo e il suo
cranio, riconosco la sua statura e i suoi gesti, riconosco la sua posa – lo sa che
lo sto guardando, lo sa – e il suo modo di fumare, lo riconosco come prima ho
riconosciuto il suo profilo sfuggente sotto le acacie dello zoo, ma adesso non
ho più alcun dubbio, non si tratta di un fantasma del calore o di un miraggio
maligno, è davvero lui in tutta la sua concretezza, sento una leggera esplosione
allo sterno, lo sbocciare di un fiore in gestazione da tanto tempo, che aspettava
solo il suo momento per agitare delicatamente il pistillo e disseminarmi nel
sangue il suo veleno.
Sono perduta nella contemplazione di questo gesto, di questo automatismo,
di questa macchina per attizzare, consumare, distruggere. Il suo profilo fa
rinascere in me quell’attrazione adolescente che mi pizzicava le cosce e mi
risaliva verso la gola, di cui sento ancora il calore tra le gambe. Faccio un
test. Voglio sapere se mi ricordo la pelle del suo petto.
Non c’è dubbio, me ne ricordo ancora.
Tento di tagliar corto alle discussioni che sento dentro le viscere – padre
madre fratello e Vecchia. Ripeto il nome di ognuno dei miei abitanti, mio
padre mia madre il mio fratellino la Vecchia, li scandisco a tutta velocità per
non sentire le loro voci, per disturbare la linea, là dentro litigano, danno
consigli, mi mettono in guardia con toni isterici, elimino il pensiero di Yoïm,
non so neanche più di cosa ho paura, vedo i capelli morbidi del mio fratellino
che brillano come bauxite, ripeto padre madre fratello Vecchia, li lascio urlare
e discutere ma non li ascolto. Lotto contro la dolcezza e l’attrazione sessuale,
mi sei mancato, penso a mio padre a mia madre al mio fratellino, penso alla
Vecchia, poi torno al mio fratellino – i suoi capelli, le sue piume, la sua
bicicletta e i raggi delle ruote che mi fanno strizzare gli occhi al sole.
Inspiro espiro. Sospiro. Mi riprendo.
In realtà vengo abbagliata a intermittenza dal luccichio alle orecchie di
Yoïm e alle sue dita, allora penso in equilibrio sul bordo del lavandino, penso,
è incredibile, porta ancora gli stessi gioielli e gli stessi ciondoli. Resto ad
aspettare che se ne vada, guardando il suo cranio che risplende
tranquillamente sotto il lampione, so che il suo atteggiamento è minaccioso, lo
sento con esattezza dall’agitazione incontrollata di certi miei organi e dalle
mani che mi tremano, aspetto che se ne vada ma lui non si muove. Mi dico,
devo tornare a dormire, non devo restare sveglia, con l’insonnia si incasina
tutto, bisogna dormire e dimenticare Yoïm, non posso lottare contro il suo
ritorno ma posso cercare di dormire, vedrò dopo, vedrò domani, vedrò più
tardi quando farà giorno, vedrò come affrontare questa realtà.
Quando mia madre è morta, in casa c’era solo il mio fratellino. Le è venuto un
attacco, qualcosa le è esploso nel cervello lasciando spandere liquidi
preziosi, qualcosa che poteva somigliare a una bomba sottomarina, con tanto
rumore e scosse in fondo agli abissi, miliardi di bolle che risalivano in
superficie, con l’unico desiderio di salvarsi a tutti i costi e salire, salire,
travolgendo tutto quello che c’era di vivo intorno per arrivare finalmente
all’aria e scomparire.
Mi sono detta, che casino dev’esserci là dentro, tutta quella memoria a
soqquadro e i neuroni sottosopra.
Questo ho pensato quando l’ho vista nel suo vestito a fiori gialli – il suo
vestito da casa –, quando ho visto la sua mole rovesciata per terra, il suo
corpo obeso e magnifico – oh sì che fortuna aver avuto una madre che avrebbe
potuto esserne tre – e dietro a tutto le urla del mio fratellino che
all’improvviso capiva e singhiozzava fino a soffocare – una vicina che non
conoscevo gli diceva, respira respira – e mio padre in uniforme che parlava ai
medici del pronto soccorso, mio padre che manteneva la sua espressione
glaciale, che agiva, ben ancorato alla realtà, sguazzando (dilettandosi?) in
questa cazzo di realtà, e io guardavo il viso di mia madre e mi dicevo, che
orrore, ma non lo pensavo, lo dicevo soltanto, mamma dove sei, questa non è
altro che carne spenta, senza corrente, un pasticcio di organi, mamma
chiaramente era da un’altra parte, non lontano, non poteva aver avuto il tempo
di andare lontano, in un altro albergo, un altro corpo che questa volta
sicuramente aveva scelto incantevole. Restavo lì, immobile e silenziosa per
non combinare il mio grido, due volte un grido, a quello di mio fratello, per
non dar fastidio a mio padre che restava ben dritto nella sua uniforme e che
parlava ai medici del pronto soccorso per non dire niente in realtà e mamma
non si muoveva più e non si sarebbe più mossa, perlomeno in quel corpo
massiccio, non si sarebbe più animata nel suo vestito da casa macchiato – le
vedevo la macchia di crema al burro sotto il mento e mi dicevo, bisogna
pulirla subito altrimenti non potremo più farci niente e mi dicevo, la seppellirà
con questo vestito?, e ho aggiunto solo per me perché mi rendevo conto
all’improvviso di cosa significava la sua scomparsa, mi rendevo conto
all’improvviso del vuoto che avrebbe lasciato questo corpo di madre in me e
in questa casa, allora ho aggiunto solo per me, merda merda merda, siamo soli
con lui adesso.
Quando il mio fratellino ha visto mamma accasciata nel corridoio, crollata sul
parquet, le si è avvicinato e l’ha chiamata a voce alta nell’orecchio, lo so
perché me l’ha raccontato molto dopo, non si era dimenticato niente di quella
scena, mi ha anche precisato che aveva sollevato i capelli di mamma e
liberato l’orecchio perché lo sentisse meglio. Ovviamente lei non ha reagito. E
poi dato che era solo un cucciolo ha capito che qualcosa non andava e si è
sdraiato su di lei – lei con quel bel vestito da casa a fiori gialli che ci piaceva
tanto al mio fratellino e a me perché quel vestito ci diceva semplicemente,
questa è casa vostra. È rimasto un momento così, e si è persino addormentato,
le braccia ciondoloni lungo i fianchi di mamma, la testa appoggiata sul suo
petto. Poi ha squillato il telefono e il mio fratellino si è svegliato. È arrivato
all’apparecchio, coi capelli ancora umidi del sudore del sonno, grattandosi il
collo, lo vedo benissimo mentre fa questi gesti, erano davvero una cosa dolce
e molto toccante i risvegli del mio fratellino. Ed è andato a rispondere. Era
un’amica di mamma, Samantha – che mio padre detestava come tutte le amiche
di mamma e che avrebbe detestato ancora di più perché sarebbe stata la
messaggera (il detonatore?) del suo lutto –, e ha chiesto di parlare con mamma
e il mio fratellino ha detto, sta dormendo, mamma dorme, e Samantha era
sorpresa perché mamma non dormiva mai durante il giorno, allora ha chiesto
se mamma si sentiva male e il mio fratellino ha detto solo che non si
svegliava, ha detto, non riesco a svegliarla, molto dorme mamma (mio fratello
combinava le parole a casaccio). Samantha gli ha chiesto di aspettare buono
buono a casa, di restare vicino a mamma, che lei arrivava subito, sì sì subito,
ha ripetuto, e il mio fratellino ha detto, che bello. Ha riattaccato ed è tornato a
sdraiarsi sullo stomaco di mamma.
Stasera, la sera in cui Yoïm è apparso alla portiera della macchina, Samuel
non torna. Mi chiama, non capisco bene di che si tratta, parla di riunione, di
bicicletta, di colleghi, io in risposta mormoro qualcosa, allora mi chiede, c’è
qualcosa che non va?, e allora di nuovo sto zitta, dico, niente niente mi manchi
tutto qua. Lo sento sorridere – fa sempre un leggero rumore di pelo sfregato –
e dice, bisogna che ne parliamo di questo bambino, Lili, ne dobbiamo parlare.
Borbotto qualcosa, confusa. Poi riattacchiamo e resto per un momento seduta
vicino al telefono, piegata in avanti, le mani attorno alle caviglie e i seni
schiacciati sulle cosce, sentendone la dimensione e l’inutile bellezza.
Guardo il crepuscolo sulle scale, ascoltando di nuovo le grida delle
scimmie, promettendomi di tornare allo zoo il giorno dopo.
Quando il sole sparisce dietro ai palazzi, rientro in casa, do un’occhiata
all’ombra blu del giardino e mi barrico, chiudo le persiane e le finestre, mi
dico, stasera verrà.
Prendo un coltello dalla cucina – niente di bellicoso, soltanto quello che uso
per il pesce. Vado a sedermi in camera da letto e resto in mezzo al buio in
un’immobilità da insetto. Intravedo i raggi della luna che filtrano dagli
interstizi, e le ombre che si muovono, l’acacia che si agita piano nell’aria
della sera, ascolto ogni scricchiolio, la casa che respira e si stiracchia come
fanno le case di notte.
E poi lo sento aggirarsi intorno alla casa. Sentire qualcuno che si aggira
significa percepire la sua ombra e il suo silenzio. Prendo il manico del
coltello con la destra, mi accovaccio e lascio il coltello a terra con il mio
lungo braccio alla sua estremità. Aspetto e lo vedo passare dietro le persiane,
sento il suo respiro e il fruscio del suo passo, cammina tra le fragole
selvatiche che crescono lì dietro, ce l’ho con lui come se lo facesse per
malanimo e mi dico, quest’uomo ha commesso degli atti orribili, lo ripeto,
assassinio, facendo delle pause tra una sillaba e l’altra, e le sue branchie fanno
un leggero rumore di valvole quando si attivano, chiamo mia madre mio padre
il mio fratellino in aiuto e anche la Vecchia ma lei davvero non può farci
niente, è nell’ordine delle cose, e mi dico, mi sta per, perché mia madre mio
padre il mio fratellino e persino la Vecchia preferiscono rannicchiarsi e
raccogliersi al centro del mio corpo, come il sangue quando fa molto freddo, e
mi dicono, attenzione, ti sta per.
Yoïm si avvicina alla porta della cucina e scuote la persiana, ha il coraggio
di scuotere la persiana, indignazione, non vuole entrare davvero, non è una
maniglia di alluminio a scoraggiare Yoïm, mi avverte soltanto, sono qui, sono
venuto a prenderti, vedrai, ti consolerò. Ma ho tanta paura di sbagliarmi, che
entri lo stesso, mi trovi qui, tutta raggomitolata, col coltello che pende tra le
cosce – oh le mie cosce – e che mi porti via e mi faccia subire i, che mi porti
via in spalla, io completamente pietrificata e rigida, che mi porti via e mi
faccia subire i.
Lo sento allontanarsi, come fanno duecento chili a stare su dei piedi così
piccoli, forse è per questa stranezza che ha quel modo di saltellare, quello
squilibrio ballerino, si riprende costantemente per evitare una caduta, stritola
l’erba che non si rialzerà più, che ci metterà due mesi a riprendersi dalla
torchiatura, stritola i gusci delle chiocciole che fanno un leggero rumore di
uova nella rugiada notturna, se ne frega dei vermi luccicanti e dei rospi
principesse, esce dal cancello, allora era aperto?, e se saltassi in piedi e
corressi a raggiungerlo, adesso sono pronta, devo lasciar andare il coltello e
rimettermi in movimento, apro la persiana della cucina, l’aria della sera mi
schiarisce le idee, fate che Yoïm se ne vada via e mi lasci alle dolcezze della
mia vita, se potessi fare un rito vudù lo rispedirei lontano. Non ho lasciato
andare il coltello. Torno a sedermi.
7.
Dopo la partenza di mio padre ho pensato, seduta sul lavello, l’occhio sui
cactus, ho pensato che non sarei mai più uscita viva da quell’appartamento. Mi
sono detta, sei ancora piccola, ma non ne uscirai.
Allora ho organizzato il mio suicidio.
Avevo deciso di lasciare lì mio fratello, di non portarmelo dietro nella
morte, mi dicevo, finirà i biscotti, gli aprirò tutti i barattoli delle conserve e
potrà cavarsela finché non torna nostro padre. Ho preparato dei piatti e delle
ciotole di cibo nel frigo, ho tirato fuori i biscotti, ho aperto tutti i pacchetti –
non sapeva cavarsela tanto bene con le scatole –, ho disposto le bottiglie
d’acqua, suddiviso le scatole di cereali e le fette biscottate, costruito dei
piccoli mucchi di biscotti – a pile di dieci – e allineato le tavolette di
cioccolato per terra sulle piastrelle della cucina, l’ho fatto venire, gli ho
spiegato che doveva essere misurato, che non doveva abbuffarsi il mio primo
giorno di assenza – vago sguardo sospettoso del bimbo –, che avrebbe dovuto
regolarsi con parsimonia e che poi papà sarebbe tornato presto a riempire gli
scaffali, bastava che lui continuasse ad andare sul suo triciclo e a non buttare
tutto all’aria, gli ho consigliato di entrare in cucina solo per guardare i cactus
dall’alto del lavello e per sostentarsi, per il resto sarebbe stato meglio, mi
sembrava, allontanare il suo mezzo da luoghi di paura di confusione e di
troppo casino – ha sorriso, ve lo giuro, quando ho detto «troppo casino», per
via del divieto di usare quella parola e dell’enorme infamia di cui traboccava.
A questo punto, gli ho chiesto aiuto per il suicidio. Ha tenuto fermo lo
sgabello sul quale mi sono arrampicata per appendere una corda al lampadario
del salotto. Non ero molto sicura dei nodi che stavo facendo, stavo
organizzando la cosa alla bell’e meglio ma non mi ricordavo che si potesse far
cilecca impiccandosi – con le medicine sì, un’amica di mamma, anche lei
vilipesa da mio padre, era finita all’ospedale del quartiere e le avevano
ripulito lo stomaco (m’immaginavo con la candeggina), un’altra era rimasta
con delle cicatrici da guerriera nell’interno morbido dei polsi, ci buttavo
sempre l’occhio quando veniva a trovare mamma e beveva il caffè, mi
piazzavo di lato, un po’ indietro per non perdere di vista le tracce ancora
sensibili che la partenza improvvisa del suo indelicato amante le aveva
lasciato sui polsi.
Già a quei tempi mi immaginavo che avrei potuto morire d’amore per
qualcuno, ma non sapevo bene per chi e avevo paura che la mia vita sarebbe
stata solo un lungo cammino tra pietre che non avrei saputo evitare. Quelle
donne erano diventate le mie eroine e ancora di più lo è diventata mamma
quando ha permesso che il suo cuore e il suo cervello la colpissero e si è
abbandonata a tutti quei fiotti di sangue che le hanno inondato la testa.
Ho chiesto al piccolo se si sarebbe annoiato senza di me, lo guardavo
dall’alto dello sgabello, lui alzava la testa per guardarmi, con le due mani ben
salde sul seggiolino perché io non cadessi all’improvviso, sennò, tigrotto mio,
ho insistito, ti posso dissigillare la tv. La tv nel mobile era piombata come un
contatore del gas. Impossibile accenderla senza che nostro padre se ne
accorgesse – ma mi rendevo conto che sarebbe stato solo un dettaglio alla
vista del mio corpo che colava roba nera sul parquet stratificato del salotto di
papà.
Ha scosso la testa, no, no, non mi annoierò, e ha fatto un gesto con la mano
destra con una leggera torsione del polso, mi troverò qualcosa da fare, Lili,
non tu preoccupa. Allora mi sono chiesta se fosse il caso di lasciare un
biglietto, era una cosa fattibile e corretta, ci ho riflettuto e ho deciso di non
lasciare niente, alla fin fine sarebbe stato superfluo, e ho detto a mio fratello,
quando ti faccio segno spingi la sedia, mi sono messa la corda al collo e ho
tirato un po’ per testare e aggiungere un po’ di serietà alla mia impresa, ho
svuotato la testa di tutto quello che ci si azzuffava dentro e ho ripetuto solo,
voglio morire, voglio morire, voglio morire per favore, non so a chi mi stavo
rivolgendo ma mi sembrava più sicuro farne richiesta, voglio morire per
favore, insistendo sarei anche riuscita a farmi piangere, il mio fratellino
aspettava il segnale, concentrato, sopracciglio aggrottato naturalmente, labbro
inferiore tutto dentro la bocca, mi sono detta, sembra ancora un neonato, ma mi
sono ripresa, ho lanciato il segnale, il mio fratellino ha fatto cadere lo
sgabello, sono rimasta a penzolare un po’ nel vuoto, un dolore vivo alla gola e
alla nuca, poi ho sentito uno scricchiolio fortissimo e il lampadario si è
staccato dal soffitto ed è crollato con me sotto facendo un rumore di bomba, il
mio fratellino è saltato da una parte per non rimanere schiacciato e
all’improvviso per terra c’era tutto un disastro, io, la corda, il lampadario, lo
sgabello ed ero arrabbiata perché avevo sbagliato tutto, ero furiosa di non
essere stata capace di mettere fine ai miei giorni, non capivo più a cosa avrei
potuto attaccare adesso quella cazzo di corda, mi sentivo accecata, ho pensato,
bisogna che escogiti qualcos’altro, ho mandato al diavolo il mio fratellino che
ha battuto in ritirata verso la cucina e io sono rimasta seduta in mezzo al mio
disastro con questa corda che mi segava il collo e il ritratto di Dodolf che mi
stava a guardare, dall’alto della sua cornice dorata.
Stanotte mi alzo per guardare gli animali passare per strada. È esattamente la
stessa ora della notte in cui ho sorpreso la loro sfilata magica. Sono le 3.45.
Mi apposto alla finestra con un tè bollente, mi siedo su una sedia di plastica
bianca e aspetto. È di nuovo una notte d’estate picchiettata di stelle, non voglio
uscire in veranda, perché ho paura di essere fuori e di essere presa dall’odore
intenso della terra assopita e di non capire più niente e della possibile
presenza di Yoïm nell’ombra. Ma tutto rimane silenzioso stanotte, tutto tace,
tutto è di un’immobilità sovrannaturale. Gli animali non arrivano. Mi dico, è
normale, anche io farei così, non vogliono che li spii. Lascio che il mio tè si
raffreddi nella porcellana che tengo nel cavo delle mani. Sospiro languida
riandando con la mente alla notte magica degli animali magici, sospiro sulla
sedia di plastica, intravedo solo il pergolato al di là del giardino e le acacie,
tutte queste acacie sulla strada, resto ferma e trattengo il respiro e alla fine
cado dalla sedia di plastica bianca con dei luccichii davanti agli occhi e un
pulsare da bomba nelle tempie. Mi chiamo, povera ragazza, e torno a letto.
L’indiano tassista padre di famiglia era sceso di nuovo più tardi quella sera.
Doveva essere quasi buio e quando aveva bussato alla porta noi avevamo
interrotto la veglia al lampadario di vetrame scattando, io e mio fratello, ci
eravamo precipitati verso l’ingresso con dei rumori soffocati di zuffa. Io ero la
più forte, ero montata io sullo sgabello. Era proprio il tassista coi suoi
occhiali di plastica. Ma in fondo, sulle scale, c’era un altro uomo seduto, una
sorta di colosso mostruoso, un lamantino, mi ero detta, aveva cose d’oro
dappertutto, sui polsi sul petto le orecchie e le dita, e teneva stretta sulle
ginocchia una delle bimbe del tassista – volant rosa e pizzo. Portava degli
occhiali da sole, mi ero detta, è un tipo losco, fa buio in questa tromba delle
scale, mi ero ripetuta, è un tipo losco, ma non riuscivo a staccare lo sguardo
da quell’uomo. Alla fine avevo girato la testa verso mio fratello, aveva
quell’aria profonda e grave di scienza che hanno i bambini che non sorridono
né parlano.
In quel momento il telefono si era messo a squillare. E noi ci eravamo tutti
immobilizzati. Perché l’avevamo sentito tutti, i due uomini e la bambina rosa
delle scale, così come io e mio fratello.
Era nostro padre al telefono – durante la sua settimana di lutto efficiente,
aveva cambiato il numero di telefono perché nessuna delle amiche del cuore di
nostra madre potesse riapparire e accaparrarsi la nostra orfanezza.
Quindi era nostro padre al telefono.
Sono rimasta tesa, in un panico che mi rendeva statua, ho implorato con lo
sguardo il mio fratellino ma lui mi ha restituito lo stesso sguardo come uno
specchio. Squilla, ha detto il pakistano. Il colosso con la bambina ha risposto,
lo sento.
Allora sono scesa dallo sgabello e sono andata a rispondere in salotto, ho
scavalcato i frantumi di vetro e mi sono detta, che avrebbe fatto il vecchio se
non avessi risposto, sarebbe tornato? Ho afferrato il telefono e stritolato i
pezzetti di vetro. Sì? Il vecchio ha detto solo, ce ne hai messo di tempo. –
Stavo preparando da mangiare in cucina. – Va tutto bene? (E qui ho teso tutt’e
due le orecchie, una per sapere da dove stava chiamando mio padre, cabina
vicino all’autostrada, camera d’albergo con carta magnetica o stanzetta a casa
di qualche ospitale membro del partito, no, no, si accomodi nel sottoscala, è
vicino alla caldaia, ah, ah, starà molto bene; l’altro orecchio, il destro, il
migliore, per sapere se i due uomini e la bimbetta sul pianerottolo erano
sempre là, se potevano sentire il mio embrione senza vita di conversazione
telefonica.) – Tutto bene. – Non avete bisogno di niente? – No no. – Torno la
settimana prossima. Mercoledì. Porterò delle cose. – Ah? (Non capivo di cosa
parlasse.) – Come sta il piccolo? – Non parla. – Ah? – Sì. – Va bene, devo
andare. – Sì. – A dopo. – Sì. – Richiamerò. – Va bene. – A mercoledì in ogni
caso. – Sì, a mercoledì in ogni caso. (Io, su un piede, che tiro il filo, cercando
di vedere l’entrata della porta, intravedendo il mio fratellino arrampicato sullo
sgabello e sul grosso libro, l’unico di casa, che sbircia dallo spioncino
dimenando il suo culo magro di bambino nei pantaloncini di cuoio, io che
riattacco e filo verso la porta, determinata stavolta, che afferro il fratellino
alla vita per farlo scendere, che spingo col piede lo sgabello di formica blu
ceramica e il grosso libro e che sgancio slego svincolo sblocco questa porta
da rifugio antiatomico – costruitevi da soli un rifugio antiatomico nel vostro
giardino, no, no, non sulla terrazza, non c’entrerà mai con tutti quei cactus,
compratevi un giardino e installateci un bunker – e alla fine, in mezzo al
fracasso del metallo, apro la porta alla grande, e mi dico, ma casa nostra
puzza, allora puzza, c’è odore di muffa, di chiuso, di stantio, c’è odore di
respiro e di scorreggia, di cibo e di non pulito, mentre sul pianerottolo, Dio
mio, si sentiva odore di aperto e di aria e di curry e di candeggina al profumo
di fiori, si sentiva l’odore del tabacco e della sera.)
Vado allo zoo, lo vedo seduto sulla sedia verde foresta e gli vado vicina
vicina per strofinarmi a lui. A ritrovarlo sempre così in mezzo al fruscio delle
acacie con i pappagalli poco distanti, mi sento diventare liquida e acida.
Lungo tutto il percorso prima di intravedere i suoi contorni, sento il sangue
caricarsi di sostanze piccanti e il sudore che mi si posa nel palmo delle mani e
naturalmente nell’intimità delle cosce.
Mi porta nella sua macchina ghiacciata e nella camera color malva,
costruisce attorno a me la sua barriera. Mi lancia delle occhiate rapide mentre
guida, occhiate furtive e viscide con le sue pupille da eteromane.
Quando me ne vado, ancora un po’ più prigioniera, mi dà tre pasticche che
caccio nelle tasche del vestito e prendo ogni mattina perché me l’ha chiesto
lui. Mi dico, sono delle schifezze, è tornato con le sue schifezze ma le voglio
sentire squagliarsi dentro, voglio assorbirle e sentirmi molle e dolce e bella
(lui che mi dice sei molle e bella e dolce e io che mi tolgo il vestito perché mi
veda nuda e perché voglio fargli vedere quanto sono molle e bella e dolce e
mi siedo su di lui e mi sembra che mi si stiano per rompere le ossa, e mi
sembra che il mio culo ardente non abbia fatto altro che aspettare, e poi che la
memoria mi parli delle sue mani e del suo cazzo).
Allora prendo le pasticche, gli arcobaleni e i miracoli, mi dico, traffica
ancora, andrà a finire che tornerò in gabbia, lui troverà una Vecchia e tutto
ricomincerà. Ma non ho paura, non ho più paura di niente.
Il signor Dira ci ha fatto entrare nella sua sala da pranzo, ci ha presentato alla
signora Dira e ad Hanif incollato alla tv, poi ha detto che il colosso si
chiamava Yoïm – stretta di mani, la mia mano madida abbandonata alla zampa
di Yoïm, io non lo so come si stringono le mani, so solo mettermi sull’attenti –
e la piccola Didi nei suoi pizzi che si nascondeva nel collo di Yoïm, lo adora,
dice il signor Dira, è sempre con lui, ho pensato, è come un badge, ho pensato
a una spilla.
Il nostro abbigliamento – fratellino muto in pantaloncini di cuoio coi ricami
edelweiss, e io mutande e canottiera militari – non sembrava disturbare
nessuno. La signora Dira ci sorrideva molto; ho avuto tanta voglia di piangere
e di tuffarmi nel suo sari e di raccontarle che sarei morta prima di mercoledì e
quanto mi mancava la mamma. Non l’ho fatto; ho avuto paura di spaventarli;
nel profondo c’era la voce di mio padre che mi ripeteva, non fidarti di quei
poco di buono, cercheranno di avere delle informazioni sul partito, e verranno
a cercarci nei nostri ritrovi e ci trascineranno sulla piazza principale e ci
bruceranno. Io non capivo neanche di che piazza parlasse, e non capivo
neanche di cosa stesse parlando, la voce di mio padre, era come un sottofondo
sonoro che strillava, vinile rigato, discorsi di Dodolf tramite burattinaio.
Credo che a un certo punto il signor Dira abbia detto alla moglie, sono i
figli del pazzo. Ma lei ha continuato a sorriderci nel suo sari che scintillava
come sabbia; la notte scendeva e lei è andata ad apparecchiare la tavola, ha
fischiato ad Hanif sempre incollato al suo schermo, colori a milioni, perché
andasse ad aiutarla. Mi sono detta, mangeremo con loro, ho sentito la voce di
mio padre dire, vi avveleneranno, loro mangiano i cani, vi drogheranno,
attenzione, attenzione (allarme rosso accompagnato da squittii), ma il mio
fratellino è andato a mettersi davanti alla tv e mi sono fidata di lui, del suo
istinto di piccolo roditore.
Il signor Dira ha detto, mangiamo sempre molto presto perché poi io vado a
lavorare, io ho detto, ah sì? molto educatamente. Mi ha guardato da dietro i
suoi occhiali di plasticaccia marrone, sono tassista di notte, mi ha informato.
Gli ho sorriso e mi sono detta, dev’essere pericolosissimo (mio padre
raccontava sempre delle storie di tassisti ammazzati selvaggiamente a colpi
d’ascia o strangolati con i lacci delle loro stesse scarpe e aggiungeva
sistematicamente, è per questo che io mi sono attrezzato, indicando col mento
il suo arsenale – in generale, mamma piangeva in cucina, l’astro del suo viso
rigato di lacrime che lei leccava quando arrivavano alla commessura delle
labbra, e io mi dicevo, papà è pieno di armi e mamma piange tutto il tempo, e
provavo disperatamente a mettere insieme gli elementi, a costruire qualcosa,
qualsiasi cosa, una torre o un ponte, con tutti quei cubetti multicolori, ma non
reggeva, non capivo niente dell’organizzazione del mondo).
Allora ho domandato, lei è armato?, e il signor Dira ha guardato la signora
Dira e Yoïm, è scoppiato a ridere, no, no, sai, non ci sono poi tutti questi
furfanti in giro. E ha aggiunto, su, mangiate con noi, scenderete dopo nella
vostra caverna.
Yoïm teneva la piccola rosa sulle ginocchia, il signor Dira faceva delle
minuscole strizzate d’occhio alla signora Dira che sorrideva sempre e io mi
dicevo, tramano qualcosa, ma mi sentivo così riposata all’idea di essere
arrivata in un posto e di mangiare qualcosa di diverso da uova e fette
biscottate e biscotti e patatine. Anche se qui c’erano troppo peperoncino e
troppe spezie; tutto questo cibo infuocato proibito mi faceva venire da
piangere. A un certo punto Yoïm mi ha guardato e ha chiesto, cos’è quel segno
che hai sul collo, principessa, mi sono portata la mano al collo e lui ha
aggiunto, non avrai mica provato a impiccarti al lampadario per farla finita?
La signora Dira ha assunto un’aria seria e ha fatto girare in ogni direzione i
suoi begli occhi di giraffa, e ha detto, non sei obbligata a rispondere. Ho
farfugliato qualcosa e sono arrossita e mi sono concentrata sulle candele e
sulla tappezzeria e sui centrini che ricoprivano ogni mobile.
Allora il signor Dira si è alzato, vabbè, io vado, e verso di noi, più
dolcemente, vi riaccompagno?, e ho pensato, non ci ha fatto domande, non ci
ha neanche chiesto dove erano padre, madre o tutori legali.
Al buco ci pensiamo domani, ha detto. Non ho capito di che parlava, mi
sono detta, mi perforerà la carne, vuole scavarmi per sapere tutto. E ha
cominciato a girarmi la testa. Sono ridiscesa col mio fratellino e siamo rimasti
di una tristezza assoluta, tutti e due, seduti nel salotto. Ci siamo coricati per
terra sotto al ritratto di Dodolf con dei cuscini e le ossa del corpo che ci
bucavano la pelle sul parquet di papà, ci siamo incastrati uno nell’altra, cane e
fucile, e io ho pianto, e mi dicevo, avrò lo stesso difetto di mamma, piangerò
tutto il tempo anch’io, la notte era scesa e io pensavo al signor Dira nel suo
taxi – ninnoli di plastica e musica di laggiù – e pensavo a Yoïm e non capivo
che c’incastrasse in quel quadro familiare, pensavo a Yoïm e mi sentivo
fremere.
Finché c’era la mamma, papà è riuscito solo una volta a imporre una riunione
del suo comitato. Aveva detto, il partito viene a casa.
Aveva pronunciato queste parole una sera in cucina mentre io e il mio
fratellino cenavamo a tavola, mentre il mio fratellino tentava di non mangiare
il grasso del prosciutto – bisogna mangiare tutto quello che ti viene dato, pensa
ai bambini che muoiono, ai bambini in tempo di guerra, mangia tutto, anche
quello che ti fa schifo –, lasciando cadere a terra sul linoleum i minuscoli
pezzi di prosciutto in disgrazia, sparpagliandoli, spiaccicandoli con le
pantofole blu, tentando di farli sparire nel linoleum come se alla fine la
plastica marrone potesse inghiottirli al posto suo, assorbendoli come la sabbia
fa con l’acqua di mare. Gli facevo dei segni perché la smettesse; si sarebbe di
nuovo fatto beccare, nostro padre avrebbe urlato, l’avrebbe costretto a
mangiare solo grasso di prosciutto, croste di formaggio, cotenne di lardo e
bucce di mele, tutte cose al limite del mangiabile che facevano vomitare il mio
fratellino e impestare il suo sgabuzzino delle punizioni.
Mamma si è accorta dei traffici del fratellino, si è piazzata davanti alla
tavola per nasconderlo alla vista del vecchio e ha detto, come faceva sempre,
con molta grazia e stupore sincero, ha detto, quale partito?
Sono scoppiata a ridere nel piatto, ho fatto finta di strozzarmi per camuffare
la mia ilarità.
Poteva essere così sfacciata da chiedergli, quale partito?, mentre lui era là,
nel vano della porta, con la sua uniforme, senza stivali è vero, ma con la sua
uniforme, sempre pronto, sempre operativo – di notte dormiva accanto a lei in
uniforme, aspettava nelle sue insonnie che la sirena della caserma dei
pompieri risuonasse per chiamarlo immediatamente sui campi di battaglia,
aspettava la tromba del primo assalto, si spogliava un pochino, solo la parte di
sotto, solo il pantalone tolto, piegato sulla sedia, lucido, con la sua
brillantezza di filo vecchio?, impossibile saperlo, la camera dei genitori era
vietata, rigorosamente vietato l’accesso e soprattutto dopo il tramonto, ci si
chiudevano sempre tutti e due, mamma sospirava sempre, la sentivo
accasciarsi dietro la porta quando lui chiudeva a chiave. E io pensavo, sospira
perché, sospira di noia?
Quella sera, il vecchio non si è arrabbiato – puledrina mia, smettila di fare
la cattiva –, si è mantenuto stoico, ha spiegato di che si trattava, non saranno in
molti, ha detto, ma ci saranno degli alti dirigenti (tremito della voce, infinita
fedeltà) perciò bisognerà fare bella figura, vestire e pettinare i bambini, tenuta
da parata, trecce per la ragazza, riga da una parte per il fratellino.
Mamma ha ascoltato con calma senza muoversi, e quando saranno questi bei
festeggiamenti?, ha domandato e ha aggiunto, ed è in onore di cosa esattamente
che riceviamo tutti questi eroi nel nostro trilocale? Il vecchio ha assunto l’aria
addolorata, ribellione della puledrina, si è impantanato in una spiegazione, ha
detto, vengono a trovare ogni membro del partito, e poi questa volta sono io
che presento uno nuovo, allora vengono qui a parlarne, capisci. Mamma
capiva, ha tirato su col naso con leggero disprezzo e una sorta di afflizione –
lo sgomento da cui si sentiva paralizzata ogni giorno di più non aveva niente a
che fare con la paura, oh no, era l’insidioso parassitismo della sua tristezza. E
io ho pensato, ma perché non si rifiuta, perché non si oppone a tutte queste
storie. L’ho guardata, aveva un’aria così infelice.
Siamo rimasti immobili io e mio fratello fino all’uscita del vecchio dal
vano della porta – dai, ritorna alla tua poltrona di cuoio che scrocchia con
Dodolf fissato con le puntine sul parato e documentari di animali, antilopi e
grandi belve, alla tv. Quando è scomparso nel salotto buio abbiamo
ricominciato a respirare, io e il mio fratellino, era più forte di noi a volte,
quando c’era il vecchio trattenevamo il respiro – come per evitare danni,
inquinamento, contaminazione, cattivi odori – e ci guardavamo dritti negli
occhi. Finivamo per avere una terribile voglia di ridere. Le nostre facce
facevano smorfie, si contraevano, il fratellino alzava gli occhi al cielo, con la
bella pelle delle guance lisce che si gonfiava.
Poi il vecchio spariva e noi vuotavamo i polmoni.
Mamma mi ha detto, non posso chinarmi, potresti pulire le porcherie di
Lulù?, e ha accarezzato i capelli – le piume – del piccolo, e mi ha sorriso e
poi ha aggiunto, lo so io che gli preparo a tutti quegli schifosi. Il suo petto ha
vibrato sotto l’effetto della sua risata, io ero accovacciata sotto il tavolo a
passare un colpo di spugna per terra e vedevo il suo corpo come un astro e il
suo vestito a fiori, miliardi di fiori microscopici per ricoprire tutta la sua
ampia persona, e mi sono detta, i seni di mamma, credo che siano la cosa più
bella che esista, e mi è venuto da piangere a pensarci, accovacciata sotto quel
tavolo, perché, me lo ricordo molto bene, ho avuto paura che morisse; avrei
voluto metterla in guardia, dirle, mangia meno burro e panna, e budino, e torta
glassata allo zucchero, e dolci, mangia meno tutte queste cose, mamma,
altrimenti va a finire che ti ammazzano, tutte queste morbidezze al miele.
Nostro padre si era lustrato gli stivali, ci aveva fatto passare un’ispezione,
pettinando lui stesso il fratellino che piagnucolava dicendo, fa male, mentre il
vecchio gli incollava i capelli con la cera, e io accanto con le mie due trecce e
la mia magrezza da ragno (sì, ma un ragno molto carino, diceva mamma, un
ragnetto molto delicato, un ragnetto da sera), io che mi dicevo, non è grave,
comunque, moriremo tutti tra poco, non è poi tanto grave, e in mezzo al petto
un abisso insondabile che si riempiva solo quando sentivo mamma in cucina,
chiusa a tripla mandata, non si entra, non voglio nessuno tra i piedi, mamma
che cucinava con cura e preparava – una sorpresa – per tutti quei nazistoni del
partito di papà, che dei suoi preparativi lasciava sfuggire solo qualche filo di
profumo fantastico e rumori di alluminio e un canticchiare concentrato.
Il vecchio aveva il viso livido, il bianco degli occhi varicoso e le pupille
dilatate, era eccitato e ridicolo, mi sono detta, non dovrebbe farsi vedere
davanti a noi così terrorizzato, sghignazzavo dentro e senza rumore, il signore
perde la sua superbia, ammesso che ne abbia mai avuta.
E poi ha riecheggiato la prima scampanellata e la sfilata ha avuto inizio.
Sono arrivati quasi puntualmente a gruppi di due o tre, alla fine erano undici
di cui una donna – capelli corti, tipo insegnante di una piccola sezione,
scintilla folle negli occhi grigio-azzurri, era lei quella che mi interessava più
di tutti. Li abbiamo passati minuziosamente in rivista, io e mio fratello,
nascosti dietro lo stipite della porta di camera nostra, io gli descrivevo il
modo in cui erano vestiti, divisa, stivali e berretti, nostro padre li riceveva,
s’inchinava, farfugliava, al tempo stesso caloroso e servile, cortese e
compassato, dicevo al fratellino, vedi tutta questa gente, vogliono mettere
nelle camere a gas la metà del pianeta (sapevo che questo genere di frase
faceva il suo effetto, vedevo gli occhi terrorizzati e curiosi del bambino, si
immaginava un grande dormitorio senza finestre con delle enormi cucine, forno
aperto, sportello spalancato, che lasciava fuoriuscire con un sibilo il gas di
città che, in tempi normali, serviva solo a far bollire l’acqua e ad arrostire la
faraona).
Non mi ricordo di aver mai creduto alle fesserie di nostro padre – grazie
forse al dolce lavoro sovversivo di mamma. Allora passavo il tempo ad
agitare il sonno del mio fratellino e a mettere in ridicolo le ubbie del vecchio.
Spesso mi mettevo due dita sotto il naso come baffi e la mano appiattita bene
sulla fronte come ciuffo, e mi mettevo ad abbaiare come un cagnetto ringhioso,
il che faceva urlare dal ridere il piccolo che squittiva cantando, è Dodolf, è
Dodolf.
Si sono ritrovati tutti nel salotto, sedie rustiche e divani in cuoio che
scrocchia, intorno alla credenza, centrini, punto croce e punto passato,
paesaggi montani, qualche camoscio, si sono messi a parlare con voci serie –
gli uomini, sigaretta, aspettate, vi porto subito un posacenere, tirandosi su i
pantaloni per evitare di sgualcirli, il più vecchio che dice a mio padre, ebbene
dov’è la sua signora amico mio?, lui, il più anziano, gli occhi piuttosto
decentrati nelle orbite, i capelli radi, l’aria severa ma giusta, il capo, il
cervello; mio padre, sempre ossequioso, adesso arriva, adesso arriva, intanto
vi presento i bambini, chiamandoci, noi colti di sorpresa dalla fifa, che
arriviamo all’istante, sull’attenti, io che li guardo più da vicino, loro che ci
giudicano come al mercato degli schiavi, apprezzando, borbottando,
approvando, il capo che sorride addirittura di un contegno così fermo, approva
anche lui, cosa che sembra trasfigurare mio padre del resto, io che mi dico
all’improvviso, ho voglia di togliermi il vestito, questa camicetta, questi
calzini bianchi, e poi anche il mio intimo grigio, non intimo, mamma non
diceva intimo, no, canottiera e mutande, sì, ho voglia di mettermi tutta nuda e
vedere la loro reazione, indignazione, svenimento, palpitazione, erezione.
Eccomi tutta emozionata a immaginarmi queste cose mentre vengo valutata
da questi schifosi, mi dico, sei pazza, povera ragazza mia, sei completamente
pazza. Ho paura del tipo con gli occhi decentrati, stasera discuteranno
dell’arrivo di un novizio, un gran cretino senza famiglia a quanto pare, e il
capo con gli occhi sui bordi sentenzierà alla fine dell’incontro. Mi ripeto,
sentenzierà.
In quel momento arriva mamma e rompe l’atmosfera.
Non che si sia vestita in modo speciale per la circostanza; è sempre una
regina ovviamente ma ha tenuto il suo vestito millefiori e sorride, fascinosa,
batte le ciglia e fa moine, e io mi dico, che ci fa qui?, e all’improvviso vedo
cosa c’è sul piatto che porta, e al tempo stesso lo vedono tutti quei matti
intorno alla tavola, gli offre dolcetti orientali, insalate di ceci, kebab, pilpil e
merguez, carne di montone, tè alla menta in quantità, e delle meraviglie
speziate, dice, aspettate aspettate, non ho finito, esce e torna rapidamente con
dolcini al miele, corni di gazzella, biscotti cannella e zenzero, mi accorgo che
si è messa dei braccialetti e degli orecchini, mi dico, ora gli fa una danza del
ventre, e mi sa che hanno tutti paura, anche loro pensano alla danza del ventre
che lei potrebbe benissimo cominciare, allora mio padre interviene, dice, ma
insomma puledrina mia, poi resta muto un istante e dice un’altra volta, ma
insomma puledrina mia, mia prateria, poi si sblocca e la riporta in cucina, la
accompagna gentilmente fino alle sue stanze, la sento, nostra madre, che
protesta, e noi, io e il mio fratellino, sempre sull’attenti, persino io, coi miei
pensieri viziosi e la voglia di accarezzarmi il seno, restiamo tutti e due
immobili, le mani ben appiattite sulle cosce, il mento in aria e la travolgente
tentazione di raggiungere mamma in cucina.
Siamo stati congedati in camera nostra. Papà ha messo la sua musica sul
vecchio giradischi mono che gracchia, pompa e circostanza. Hanno passato
metà della sera a parlare, a fumare e a non toccare le delizie che aveva
preparato mamma. Probabilmente avevano lo stomaco in subbuglio, le budella
miagolanti di fronte alla fragranza delle piccole delizie d’Oriente, ma
impossibile per loro assaggiarle, impossibile persino gettare uno sguardo a
quelle meraviglie relegate sul tavolo grande, intarsi, sala da pranzo.
Mamma piangeva in cucina, come al solito.
Non era riuscita a strozzare neanche uno di quegli schifosi del partito, non
era riuscita a rovinargli la serata.
Alla fine, quando hanno cominciato a raschiarsi la gola e ad aspettare un
segno del capo occhi-negli-angoli per poter ritornare alle loro case artiglieria,
ai loro appartamenti depositi d’armi – con nascondigli per tesori di guerra,
magazzini in fondo al giardino riempiti di anticaglie SS –, il capo si è estirpato
dalla poltrona e ha dichiarato (l’abbiamo sentito, imboscati dietro la porta, il
fratellino che si dondolava piano contro il mio fianco, con Robert il facocero
infilato sotto l’ascella), ha sentenziato, dichiaro terminata la seduta, M.K.
sfortunatamente stasera non è riuscito a convincere nessuno della giustezza
dell’arrivo del giovane R., questo patrocinio quindi è rifiutato.
Nostro padre, M.K., è crollato ancora un po’.
I burattini, quella sera, se ne sono andati, inamidati e affamati, nessuno di
loro si è mai più fatto vedere e papà si è defilato per qualche giorno per colpa
senz’altro dell’umiliazione ma anche soprattutto per il tradimento della sua
puledrina.
Quanto a noi, siamo rimasti a casa e abbiamo aspettato, muovendoci il meno
possibile, che l’effervescenza delle molecole si calmasse, e che le cose dopo
la turbolenza riprendessero la loro immobilità primordiale.
Mamma avrebbe scelto di lasciare quel posto qualche mese più tardi,
mollando la presa, smettendo di lottare contro il suo corpo obeso che
ingrassava anche all’interno, così diceva lei sempre, il mio corpo non ingrossa
solo visibilmente, ma mi ingombra anche le viscere, mi comprime gli organi
vitali.
Quando ho cercato di capire perché ma perché avesse spento tutto, quando
ho cercato di decifrare segni premonitori e avvertimenti inosservati, sono
arrivata alla conclusione che la sua scomparsa era iniziata la sera dei burattini
mascherati.
14.
Sono tornata a casa nostra, sono rimasta seduta al tavolo della cucina
appoggiando le mani ben piatte davanti a me tentando di chiarirmi le idee. Era
impossibile, ero intrappolata nella melma del sopore, le pasticche mi
impedivano di allineare i pensieri coerenti, li vedevo evadere, fugaci, li
vedevo saltar fuori da me e non riuscivo a farci niente. Me ne andrò con
Yoïm?, sono riuscita a pronunciare. Sono riuscita a dirlo a voce alta e la mia
voce mi ha spaventato, in equilibrio sul bordo del sonno. Mi sono dilettata un
istante con questo sogno – con Yoïm a scopare per sempre e a seguire i
controviali in una macchina gelata. Mi sono detta, bisogna che smetta di
prendere le pasticche, mi annebbiano tutto. Allora per punirmi mi sono
immersa di nuovo nei miei ricordi dei campi, potevo farlo, inutile avere
pensieri chiari e connessioni a posto, potevo tornarci anche solo dicendo,
prigione, si materializzava allora tutto il resto – avevo anche la possibilità di
scegliere una scena particolarmente umiliante o violenta: la stronza puttana
rossa che mi pesta e mi violenta con una bottiglia di Coca –, facevo smorfie e
mi mettevo a sudare e tentavo di scappare ma mi tenevo salda con le mani e
continuavo a infliggermi questi terrori. Ne uscivo sfinita.
15.
Quando mio padre è tornato, oh sì, quando è tornato, noi ce n’eravamo già
andati, io e il mio fratellino, certo non i nostri corpi docili che l’hanno accolto
ancora una volta, tutti e due prostrati in cucina con la paura che vedesse il
lampadario, no, non i nostri visi e i nostri piedi sporchi e il nostro odore di
sottobosco – letame e porcile. Ma io tutta intera nella voce magnifica e bassa
del mio quasi amante e il mio fratellino così lontano dalle contingenze, così
pronto a sopravvivere solo con due biscotti secchi al giorno e un po’ d’acqua
del rubinetto, così assorbito dalla sua perdita assoluta – la Prateria –, oh sì,
mio padre è rientrato e ha trovato due piccoli fantasmi, io occupata a
percepire i rumori da sopra, intenta a sentire i passi di Yoïm, rammentandomi
le cene al curry con la famiglia Dira e soprattutto la sua voce che mi diceva:
niente sciocchezze, mia bella, niente medicine, niente taglierini né coltelli da
pane, niente idraulico liquido, non ti sporcare principessa, ci sono un sacco di
cose da fare qui. E l’ho sentito camminare sopra la mia testa con scricchiolii
di assi sconnesse, parquet imbarcato, ho avuto all’improvviso delle
prospettive, mi è sembrato possibile sopravvivere ancora all’internamento,
sono proprio qua sopra, mia bella, cammino sul tuo soffitto, ascoltami,
ascoltami allora se il tuo vecchio ti fa la predica o ti inghiotte, io sono qui,
proprio qua sopra. E le sue mani erano già sui miei fianchi e sulle mie chiappe
e io dovevo avere uno sguardo di sottomissione esemplare, mi sentivo
sciroppo.
Il vecchio è tornato con la sua uniforme e la valigia di metallo, aveva l’aria
stanca, bloccato dall’artrite e dai pensieri tristi, ha preso una sedia ed è
rimasto in cucina con noi, mi ha fatto segno di servirgli un bicchierino – vodka
liscia, etichetta del partito, addizionata di un goccio di liquore di tiglio
vecchissimo per dargli l’amaro –, in genere si poteva percepire l’intensa
soddisfazione che provava nell’avermi addomesticata, ma in quel momento no,
niente, giusto il suo abbattimento, mi sono detta, ho ancora paura di lui? Ha
agitato le dita per indicarmi di servirlo di nuovo, l’ho fatto tenendomi a
distanza – temendo che mi picchiasse la coscia o mi prendesse per la nuca
stringendo troppo forte, non sono un coniglio –, ho detto, il telefono non
funziona, ma aveva già bevuto così tanta vodka che non ha fatto caso alla mia
osservazione, mi sono girata di nuovo sul mio sgabello e ho smesso di
dondolare le gambe, un leggero vento passava attraverso la zanzariera.
Ci trasferiamo, ha detto.
Piombo fuso tra le costole. Mi sono sentita implodere come un televisore
con un delizioso rumore cristallino di polvere di vetro. Il fratellino ha detto,
no no no possibile non è, credo che pensasse alla Didi rosa con la quale
giocava a carte tutto il giorno, con la quale colorava, faceva i puzzle e andava
in triciclo, con la quale teneva lunghe e mute conversazioni – il signore e la
signora Dira erano entusiasti dell’intesa silenziosa che c’era tra i due bimbi.
Ho guardato mio fratello, i suoi occhi erano sconvolti, torceva la sua bella
bocca e prendeva un’aria terrorizzata, sapevo che avrebbe voluto uscire dalla
stanza ma non osava, c’era il rischio che mio padre si mettesse a urlare, lo
prendesse per il collo della camicia sudicia e lo sculacciasse. Allora è
rimasto completamente immobile, tetanizzato, la mano sul lavello, le gambe
incrociate premute una contro l’altra, gli scapperà la pipì, mi sono detta.
Il partito ci ha trovato una casa nuova, ha detto nostro padre.
Ho avuto voglia di urlare.
Preferivo restare in quell’appartamento scuro con la terrazza in cui non si
metteva mai piede e i suoi cactus tetri.
Torno tra un mese, resto una settimana e traslochiamo.
Allora a quel punto, ovviamente, ho ripensato alla mia possibile morte, mi
sono detta, bene, mi servirò delle armi di papà, anche se la P38 mi faceva
paura, l’idea di mettermela in bocca mi gelava, sarebbe stato, mi sembrava,
come ingoiare una piccola bomba e aspettarne l’esplosione e gli effetti funesti
sugli organi, avevo paura di sparare e di mancarmi, di ritrovarmi con una
grossa parte di cervello danneggiata e bruciata, più dipendente e più
prigioniera che mai, cavolfiore a vita, e papà che mi viene a trovare
all’ospedale, non capisco, aveva tutto per essere felice, e le infermiere che
guardano la sua uniforme e il basco che tiene ben stretto contro il petto e si
dicono, chi è ’sto matto?
Ho chiesto il permesso di uscire dalla cucina, mio padre me l’ha accordato,
ho preso per mano mio fratello che pensava a Didi e mi inviava dei segnali di
soccorso, l’ho portato via, sono andata in camera nostra, ho chiuso gli occhi e
cercato di non sentire il momento in cui nostro padre sarebbe entrato nel
salotto e si sarebbe reso conto delle nostre violazioni.
Ci aveva portato marmellata, pretzel, chincaglieria del Terzo Reich (spille e
ciondoli), birra e un aereo da guerra per il mio fratellino.
Ha detto, ma cazzo, vieni qua, che è successo al lampadario?, io sono
arrivata, sull’attenti, col cuore in gola e il fiato corto, non so bene, una mattina
ci siamo svegliati ed era così, credi che qualcuno sia potuto entrare nel nostro
salotto in piena notte senza farsi sentire?, mi ha guardato con un occhio da
orata morta, che mi stai raccontando?, ma aveva bevuto talmente tanta vodka
che faceva fatica a seguire il filo dei pensieri, e poi il mio fratellino è arrivato
in salotto col suo nuovo aereo da guerra e papà è rimasto incantato, e ci ha
tenuto a fargli una cronistoria dell’aereo in questione, mio fratello ha fatto
finta di interessarsi, non preoccupare tu Lili mia, e il vecchio si è dimenticato
che avrebbe dovuto torchiarmi per avere la spiegazione dell’enigma del
lampadario. Sono rimasta immobile e ho guardato il mio fratellino eseguire
dei looping col suo aereo da caccia finendo immancabilmente per farlo
schiantare sul parquet, accompagnando la tragedia col rumore caratteristico
dell’aereo in picchiata, il rumore della caduta libera – documentari in bianco e
nero su un canale tematico, cinegiornali d’epoca. Mio padre l’ha osservato,
inebetito, tentando comunque di proseguire la sua lezione di storia, sedendosi
su una poltrona da fantasmi ricoperta di lenzuola bianche per far fuggire la
polvere e tentando ancora laboriosamente di riportare ordine nei suoi pensieri.
Alla fine mi sono eclissata ancora prima che mi dicesse di rompere le righe.
16.
Il lunedì prima del ritorno di papà, io e Yoïm eravamo seduti sulla terrazza dei
Dira – niente cactus, ma delle biciclette, una parabola, delle scatole, un
minuscolo angolo con l’orto e dei giocattoli di plastica orbi. La sua vicinanza
mi rendeva elettrica – avevo l’impressione di produrre minuscole scintille
sulla superficie della pelle, sotto la canottiera, sulla punta delle dita dei piedi.
Lei abita sempre a casa dei signori Dira?, gli ho chiesto molto
educatamente. (Era fuori discussione dare del tu a un adulto.) Lui si rollava
delle sigarette sbriciolandoci dentro una polverina bianca, non mi piaceva
vederglielo fare, mi sembrava che mio padre avrebbe potuto apparire
brutalmente come un vapore di genio dentro una lampada a olio e che avrebbe
fatto volare in frantumi il fragile equilibrio di quel momento. Yoïm ha guardato
lontano, ha gettato uno sguardo alle sue spalle, forse per assicurarsi che
nessuno ci sorvegliasse, e mi ha appoggiato l’enorme mano scura sulla coscia,
ho chiuso le ginocchia, mi sono detta, oh farò delle macchie dappertutto su
questo sgabello di legno, il mio culo diventava liquido, mi dicevo, non è
possibile, sarà sangue, mi sono detta, se continua così svengo, lui ha lasciato lì
la mano e mi ha raccontato il suo incontro col signor Dira, io non sentivo più
niente, indemoniata com’ero dalla sua mano che mi bruciava e dall’umidità
della mia carne. Sono tornata poco a poco in me. Lui diceva, eravamo molto
giovani, Dira era appena sbarcato – e io che mi dicevo, rischio l’asfissia,
deve togliere quella mano –, ci siamo ritrovati nello stesso centro
d’accoglienza per giovani lavoratori – si è messo a ridere, credo che siano
state le parole giovani lavoratori ad aver provocato quell’ilarità –, all’epoca
campavo di piccoli affari e organizzavo delle scommesse nelle camere, delle
scommesse a carte o a dama – io ho pensato a mamma che piangeva sempre, al
suo dolore per quello che stava diventando suo marito, le chiedevo, ma,
mamma, quando l’hai incontrato, non era così?, e lei che gli stirava le camicie
e mi diceva, no no, era così vulnerabile, così tenero e così infelice, e io che
non riuscivo a immaginare niente di tutto ciò, lei aggiungeva, oh comunque,
c’era sì qualcosa che non andava, aveva le sopracciglia che si toccavano, è
segno di gelosia, sai, di gelosia e di mi-san-tro-pia –, Dira non parlava una
parola della nostra lingua, era una caricatura di indiano in salsa tandoori, l’ho
aiutato, capisci, a trovare il suo posto – Yoïm rideva ancora, non volevo
ascoltare quello che raccontava, non facevo altro che ascoltare mamma che
singhiozzava e rifiutava che papà la chiamasse Eva B., era l’ultimo capriccio
del vecchio, mi diceva, nell’intimità mi chiama Eva B., non è più possibile,
Lili mia, non è più possibile, micina mia, e ci stringeva tra le braccia a me e al
mio fratellino, io riflettevo e mi dicevo, nell’intimità, vuol dire quando si
ritrovano in camera loro e lei si toglie il vestito a fiori, ma nel frattempo Yoïm
continuava –, gli ho procurato dei documenti, non era poi così difficile, siamo
diventati inseparabili, mi ha portato dei polli per le scommesse, dei polli
freschi freschi di sbarco, ma lo faceva del tutto in buona fede, senza sapere
che io spennavo tutti – rideva molto forte –, il paparino Dira, è un brav’uomo,
te ne sei accorta no?, con un cuore così – gesto eloquente –, è un vero buono –
allora mi sono detta, e papà che cos’è, un falso cattivo? –, e poi sono sparito
per un po’ – ha assunto un’aria pensierosa, mi sono detta di nuovo, mi sa che
sto per soffocare, avrò ingoiato una vespa; Yoïm si è girato verso di me – ti
annoio? –, io non ho potuto rispondere perché mi mancava il respiro, allora ho
fatto no no, con le labbra senza che uscisse alcun suono – adesso sono tornato
nei paraggi, e aspettando che due o tre affari si sblocchino, resto con loro, per
me sono come una famiglia capisci, sono davvero come la mia famiglia – di
nuovo, ha guardato lontano, sole della sera, riflesso rossastro delle finestre di
fronte, c’era un odore di polvere, di sospiro della terra, di brevi esalazioni del
suolo, c’era un odore di carne e di cottura, un odore di cipolle fritte, era il
crepuscolo, mi sono messa a pensare alla cucina di mamma, al brodo della
sera e al crepitio dell’olio nella padella di ghisa, mi sono sentita triste e triste
di aver perso tutto ciò, qua tutto sembrava normale e calmo, mi sono sorpresa
a desiderare di restare sempre così in un giorno che si spegne con la mano di
Yoïm qua, che stringe le mie cosce di ragazzina, allora ha detto, mi piace stare
qui con te, bellezza – e ha messo uno scintillio negli occhi, ho pensato, è un
trucco, decide di seminare nello sguardo delle piccole scintille di desiderio,
ma è un inganno, non è possibile, dovrei fidarmi meno della gente, è quello
che mi diceva sempre papà, dovresti fidarti meno della gente, non dimenticare
mai che la gente è cattiva, allora mi sono detta, non si tratta della gente, si
tratta di Yoïm e io credo, papà, che sia il mio principe. Ho chiuso i pugni e
tentato di raccogliere le forze per affrontare il momento in cui papà sarebbe
tornato, non sapevo ancora che in quel momento ci avrebbe parlato della sua
decisione di trasferirci, perché alla fine delle vacanze noi frequentassimo, io e
il mio fratellino, una scuola del partito, per non farci restare eternamente in
vacanza o nelle scuole pubbliche del quartiere piene di topi e di malattie
terribili (arrivava a parlare di colera e di peste bubbonica), perché abitassimo
in un villaggio carino con della gente di celluloide che funzionava a pile.
La sera in cui Yoïm mi ha raccontato tutte queste cose, era l’antivigilia del
ritorno di papà, io avevo voglia di qualcosa di definitivo allora ho lasciato
che Yoïm mi infilasse la mano nei pantaloncini sulla terrazza dei Dira, ha
mosso leggermente le dita e ha detto, mi piacerebbe metterci la faccia qui. Ho
provato a riprendere fiato, e ci sono riuscita solo parzialmente e ho pensato
molto forte, ma non l’ho detto per non spaventarlo, perché lo sapevo già che
queste cose possono spaventare, ho pensato molto forte, serrando palpebre e
pugni, ho pensato, tienimi per sempre.
17.
Ben e Vera sono arrivati poco dopo il ritorno di Samuel a casa, la sera che
metteva fine a quella giornata incandescente in cui ero andata a trovarlo a
scuola. Abbiamo cenato e, mentre mangiavano gli spiedini di pesce che avevo
preparato e su cui avevo messo decisamente troppo peperoncino – vedevo la
bella Vera, gli occhi tutti umidi, brillanti come gemme grezze, mi dicevo, ha gli
occhi come laghi, lago minore e lago maggiore –, mentre erano lì, seduti
tranquillamente ad aspettare che il peperoncino smettesse di bruciargli la gola
e che il cervello rimuginasse la sua chimica abituale per addormentare le
papille, mentre bevevano vino sgranocchiando briciole raccolte sul tavolo con
la punta dell’indice umettata, mentre erano a tavola con noi, la conversazione
ha deviato poco a poco – cibo, diete, grassi cattivi, lotta contro la bruttezza – e
Ben ha detto all’improvviso, oggi pomeriggio ho visto un tipo che è passato al
negozio, un tipo enorme, veramente mostruoso, questo tipo portava gioielli
dappertutto, aveva tatuaggi fino al collo e il cranio rasato con la nuca a strati,
così (gesto della mano per mimare i rotoli della pelle), e ho pensato, questo
qua peserà almeno centocinquanta chili ed è magnifico (mi sono ricordata
delle parole di mio fratello per qualificare Yoïm, diceva spesso, è un po’ tanto
magnifico, lo guardava e pensava molto forte, è un po’ tanto magnifico). A
queste parole Samuel si è girato verso di me, mi ha fissato a lungo, credo che
abbia domandato che voleva il tipo nel negozio di Ben, ma non ho ascoltato il
seguito, mi sono alzata per portare via i miei spiedini assassini, gli ho
ostinatamente voltato le spalle perché la smettesse, perché la facesse finita di
inviarmi infime onde di sospetto. Mi sono detta, dimenticherà, basta che
parliamo d’altro e dimenticherà. Samuel non aveva mai visto Yoïm tranne che
in foto, delle foto del penitenziario, e l’aveva sempre immaginato solo
attraverso le mie descrizioni. D’altro canto quella di Ben era
straordinariamente realistica. Mi sono detta, in effetti, Samuel si è sempre
aspettato che Yoïm riapparisse e facesse valere il suo titolo di proprietà, ho
sorriso davanti al lavello, l’idea mi piaceva. Subito dopo mi sono ripresa, mi
sono detta, smettila di sorridere, tutto finirà male e tu resterai qui stupidamente
a sorridere mentre tutto crolla. Quando sono tornata a tavola ho pilotato la
conversazione sul lavoro di Samuel ma ho sentito la pesantezza dei suoi gesti e
la tristezza e l’abbattimento di tutta la sua postura. Avrei voluto dirgli, sai il
mondo è pieno di tipi di centocinquanta chili con dei braccialetti, ma
onestamente non potevo insistere. Allora sono rimasta zitta.
In fin dei conti, è stato solo quando Ben ha parlato di lui e quando Samuel ha
iniziato a sospettare il suo ritorno che mi sono resa conto che non avevo per
niente a che fare con un fantasma. Mi sa che fino a quel momento non avevo
affatto creduto alla sua ricomparsa, ero ancora lì a rassicurarmi e a dirmi, ma
no tesoro è tutto nella tua testa, tutto questo non esiste davvero.
18.
Un’ora dopo ero stesa sul parquet vetrificato di papà nel salotto, guardavo
sotto i mobili e vedevo la loro organizzazione interna e le loro interiora di
legno e di polvere, guardavo i mobili come non li avevo mai guardati, avevo
accesso al disotto delle cose, ero nuda e le stecche del parquet e i chiodi e le
schegge mi striavano la schiena, Yoïm si è abbassato su di me e mi ha
sollevato tra le sue braccia, mi ha baciato il ventre e la bocca, mi ha
pronunciato sciocchezze e sussurri nell’orecchio – il destro, quello che
avrebbe sanguinato tanto dopo i colpi di pistola –, ed ero tutta quanta nella mia
estasi di ragazzina sverginata. Poi mi sono sentita prendere da disgusto e
apatia, languore, smania malinconica, fatica che rende inerte ogni parte del
corpo, non ero stata preparata a respirare un uomo così da vicino. Alla scuola
dove andavamo ogni tanto – quando mio padre non temeva troppo la
tubercolosi, quando era partito per i suoi giri d’ispezione, e mamma voleva
ancora riuscire a fare di noi dei bambini nonostante tutto normali –, i ragazzi
non mettevano mai la lingua tra le cosce delle ragazze. Mi sono detta, è strano
che capiti a me, forse perché la mamma è morta, forse perché il mondo e le sue
rivoluzioni si invertono silenziosamente, questo fa di me una troia, sono
diventata una puttana? Ho circondato il collo del mio amante – amante, una
parola di due taglie troppo grande, spiacente signorina non abbiamo la sua
taglia, ritorni tra cinque anni – con le mie braccia di ragazzina e siamo rimasti
così ad aspettare che il mio fratellino si risvegliasse.
Il giorno dopo che Ben aveva detto di aver parlato con Yoïm nel suo negozio
di articoli sportivi (caschi da hockey e scarponi da sci), ho ricevuto una busta
bianca rettangolare nella quale ho trovato una frase dattiloscritta che diceva:
Chiedi alla signora Wanda.
Sono rimasta interdetta, sotto il fruscio dell’acacia, con l’odore dei
germogli che mi s’immergeva e mi nidificava in gola – ho annusato la busta e
la carta e ognuna delle lettere impresse sulla carta, non c’era nient’altro che
quell’odore di germogli. Sono uscita in strada e ho guardato a destra e a
sinistra senza peraltro pensare che fosse possibile che l’ambasciatore di
quell’ingiunzione si trattenesse ancora nei paraggi (la busta era leggermente
umida di rugiada mattutina, era stata depositata durante la notte o alle prime
ore del giorno). Mi sono attardata un momento a scrutare la via – macchine
ancora addormentate, vernice metallizzata brillante di goccioline, ampio fondo
stradale appena un po’ bombato e acacie, nient’altro che acacie.
Sono rimasta a casa, senza muovermi, senza rispondere al telefono che
suonava ogni ora e risuonava nelle stanze immobili – Yoïm oserebbe
telefonare qui?, nessuna voglia di verificare, non sono in casa –, ho chiuso le
persiane, ho aspettato nella penombra, barricando i miei accessi per non
ricadere negli orrori della prigione e nei 14 x 12 mesi della mia tetra infanzia
(fino all’azione eclatante, fino a Yoïm, fino al sangue), e l’ora del ritorno di
Samuel si è avvicinata, mi sono alzata e ho cominciato a darmi da fare, ho
pulito il bagno e passato lo straccio in cucina e ho continuato a non rispondere
al telefono, non volevo che Samuel si accorgesse della mia inerzia, non volevo
parlare della lettera ricevuta, volevo restare ancora depositaria del segreto.
L’indomani mattina c’era un’altra busta e un altro foglio piegato in quattro
con grande cura come lisciato con l’unghia e c’era scritto: Avanti, chiedi alla
signora Wanda.
Allora mi sono infilata il vestito nero che piaceva a Yoïm e sono tornata
allo zoo.
Davanti alla gabbia della signora Wanda, ho aspettato a lungo che lei
apparisse, che la vecchia signorina gorilla venisse a posare il culo pelato sotto
il suo albero, che uscisse dalla sua caverna di plastica – era stata isolata dalle
altre scimmie perché era aggressiva con i piccoli. E poi è passato un
guardiano, si è messo a svitare la placchetta che riportava il nome, la data e il
luogo di nascita della signora Wanda. Gli ho chiesto perché, mi ha guardato il
vestito, e le mani che portavo sul cuore e mi ha risposto che era morta la notte
precedente. Gli ho chiesto di cosa era morta, ha scosso la testa, non so, è
morta di vecchiaia senza dubbio.
Mi sono allontanata, chiedendomi se il messaggio che dovevo ricevere
fosse la morte della signora Wanda, o se lei fosse malauguratamente morta
prima che io potessi capirci qualcosa.
Mi sono detta, la signora Wanda è morta nella sua gabbia in mezzo alle sue
rocce di resina.
Era ancora presto, sono andata al bar, a mettermi su una sedia di metallo
sulla ghiaia e ho aspettato Yoïm bevendo una cosa fredda e amara.
20.
Sono rimasta allo zoo ad aspettare Yoïm sulla mia sedia verde foresta
all’ombra delle acacie. Non è venuto. Allora ho preso l’autobus davanti allo
zoo e sono andata a vedere che faceva. Mi è toccato camminare sotto tutto
quell’ammasso di calore per raggiungere il motel a camere malva. Ho
trotterellato per tutta la strada maestra. Mi dicevo, perché i nostri scambi sono
così muti, perché non parliamo della Vecchia, del mio abbandono, del mio
fratellino scomparso, perché non parliamo e non facciamo altro che scopare?
Yoïm è così reale – il suo odore e il suo corpo – ma così impalpabile e
incongruo – qui in questa città lontana da tutto dove è venuto a ritrovarmi e a
ricercarmi e a convincermi e ad assicurarsi del suo potere. Ho attraversato il
parcheggio e sono salita sul ballatoio davanti alle porte delle camere. Mi
domandavo, ma insomma chi mi manda queste frasi incomprensibili, Yoïm non
lo farebbe mai, no no, non lo farebbe mai, chissà se almeno sa scrivere?
Ridacchiavo piano come ogni volta che cercavo di ridicolizzarlo o di
sminuirlo. La porta della sua camera era socchiusa, cosa che mi ha sorpreso e
vagamente inquietato, ho sentito il ronzio delle mosche e la finestra che
sbatteva piano, come una finestra restia, che sbatteva debolmente sulla
spagnoletta. Ho fatto un passo sulla soglia della camera malva, la pittura era
sempre piena di bolle e sembrava trasudare, l’intero immobile sudava in
quell’estate torrida dei miei ventitré anni. Questo mi sono detta, camera malva,
camera viola, è l’estate dei miei ventitré anni. Yoïm era disteso sul letto,
voltava le spalle all’entrata, aveva addosso la sua camicia nera e i suoi
pantaloni neri e mi sono detta, non è molto prudente per un trafficante di
pasticche, ho abbozzato un sorriso, poi ho voluto avvicinarmi ma mi sono
sentita improvvisamente gelare da tutto quel malva colante e dall’incessante
ronzio delle mosche blu.
22.
Mi sono ritrovata seduta dietro nella macchina (la Plymouth Fury 1954),
mezzo sdraiata sul sedile, intenta a fumare e a sentirmi una puttana di lusso
nonostante i miei quattordici anni. C’era un tipo che guidava, un pakistano con
gli orecchini e un’aria sgradevole. Yoïm era accanto a lui, a indicare la strada,
a dire cosa bisognava fare (tastare il terreno, richiedere un colloquio, farsi
passare per il capetto di un gruppuscolo estremista, guadagnarsi la fiducia
della Vecchia, vedere se era necessario maltrattarla un tantino o se si poteva
fare a meno della sua collaborazione, e in caso di fallimento tornare a
svaligiare da soli come dei grandi), seguivo una parola su otto di quello che
diceva, mi interessavo delle briciole infilate in mezzo al sedile e mi assopivo
a tratti – facevo dei sogni folgoranti di qualche secondo e mi risvegliavo.
Mi accarezzavo la pancia, la gonfiavo bloccando il respiro e sorridevo
immaginandola enorme e abitata. Poi mi riaddormentavo.
Yoïm è uscito dalla macchina, ha disceso la strada e ha salito i gradini della
scalinata, ha suonato, una ragazza è venuta ad aprirgli. Io ero sempre incollata
allo skai rosso, siamo rimasti diverse ore così, immobili, io e il pakistano. Lui
non mi parlava, credo che trovasse molto sconcertante la relazione tra me e
Yoïm, immagino di aver avuto l’età di sua figlia, era il tipo che trafficava
Cadillac bianche con gli alettoni, ma che metteva i suoi figli alle scuole
private. Penso che parlasse di me a sua moglie come della piccola puttana di
Yoïm – cosa che mi eccitava leggermente. E mi dicevo, se papà potesse
vedermi. Mi dicevo, ecco, ecco, basta fare gli incontri giusti e l’universo
cambia completamente, tu avevi una predisposizione, mi dicevo ridacchiando,
vivevi reclusa, mostruosa e innocente. Avevi una predisposizione.
Yoïm alla fine è uscito, ha risalito la strada, lo guardavo galoppare sul
marciapiede, nascosta dietro il sedile, il pakistano lo sorvegliava dallo
specchietto retrovisore, Yoïm è montato in macchina, bene, ha detto soffiando,
andrà bene, e siamo partiti.
Ho ripassato migliaia di volte il modo in cui gli avvenimenti si sono
combinati, ho cercato di capire in che momento tutto ha cominciato a
precipitare, perché ero finita immersa nel mio sangue in una solitudine
assoluta, riuscivo solo a dirmi, è perché sono stata cattiva, è perché sono stata
cattiva cattiva che le cose si sono messe male e aggiungevo per mortificarmi
un po’ di più, è una storia abortita, è una storia che cola sangue, e mi contraevo
in una smorfia rivedendomi sulla brandina di Yoïm a gocciolare sangue sul
pavimento con una regolarità da metronomo.
23.
Yoïm mi ha spiegato il suo piano, la mia missione a casa della Signorina. Non
stavo molto attenta, la testa completamente annebbiata – una caligine fredda di
fine inverno, che si chiude dietro di te quando avanzi nella notte, ti sfiora le
spalle, ti fa voltare indietro perché t’immagini, qualunque sia il tuo
attaccamento al reale, che siano dita di spettro che ti tirano per la manica. Ero
altrove, allora Yoïm mi prendeva un po’ a scappellotti per farmi ridiscendere
vicino a lui, la smetterai di prendere queste schifezze, ripeteva.
E poi due giorni prima della notte prevista per il furto – giustiziere, una
cosa che diceva sempre Yoïm, bisogna che giustizia sia fatta –, ha portato un
uomo a casa sua. Io mi sono detta, forse sarà il tipo che guiderà la macchina e
conterà il bottino, oppure è uno che vuole comprare delle pasticche, non mi
sono interessata della visita, stravaccata com’ero sul letto di Yoïm, ad
ascoltare distrattamente il rumore della metro e i cinguettii da pettirosso dei
due bambini nel giardino mentre giravo le pagine di una rivista di musica per
sentirmi più libera e decadente ancora, sonnecchiando dolcemente.
Yoïm ha detto solo, vi lascio, devo comprare una cosa.
Non riesco ancora a capire perché mi avesse venduta a quel tipo, che genere
di accordo avessero preso, se l’uomo, l’intruso, quell’uomo là – nessun viso,
nient’altro che una pelle butterata e il secondo cazzo della mia vita – fosse un
creditore. Il tipo si è avvicinato al letto e ha detto molto piano, hai capito
vero, hai capito che Yoïm mi ha venduto un’ora del tuo culo?
È tutto.
Non ho nessuna voglia di aggiungere particolari.
Mi riposerò e ricomincerò più tardi. Davvero non posso raccontare cosa mi
ha fatto subire l’uomo con la faccia butterata, tacerò per sempre
quest’oltraggio.
Nella stanza malva, nel ronzio insistente delle mosche blu, in quell’atmosfera
grassa, alla fine mi avvicino a Yoïm, sembra dormire un sonno sottomarino.
Assomiglia a un calamaro gigante degli abissi, tentacoli lunghi undici metri,
mai incontrato uno di quei mostri vivi, non esistono vivi, mi dico, esistono
solo morti arenati sulla spiaggia con un gran corpo immaginario.
Mi siedo sul letto e mi sdraio completamente sopra di lui, calata nella
cavità del suo addome.
Mi dico, o dorme come un sasso o è morto, mi sento tranquilla di essere
così quasi all’interno del mio Yoïm forse morto, è come una gioia che mi fa
ripetere, il mio amore forse è morto. Non ho nessun bisogno di verificare la
sua apnea, desidero immaginare il mondo che si libera di lui – il mondo?,
semplicemente io, solo io –, desidero riposarmi alla fine.
Sorrido – l’idea della sua scomparsa, mentre la densità della sua carne fa
peso dietro di me, è come un’insolenza, mi sembra di immaginare un
professore di cui ho terrore in atteggiamenti osceni.
Le mosche blu mi si posano sulle braccia percorrendo dei brevi tragitti
irregolari, le guardo agire, dicendomi, mi scrivono dei messaggi sulla pelle.
Brutalmente la mano di Yoïm si abbatte sulla mia spalla, sei qui?, sento
risuonare. Ha una voce di ferraglia – con infime particelle metalliche che
feriscono la gola. Sospiro, mi giro per vederlo in faccia e gli dico molto
piano, non sei morto?
Nel frattempo, qualcuno sta depositando una busta bianca nella mia cassetta
delle lettere con, all’interno, piegata in quattro con grande cura, i bordi del
foglio che ricoprono i bordi del foglio come se si fosse voluto abbozzare un
aereo di carta con la massima precisione, solo questa frase: Paura non avere,
sono molto vicino.
Guardo gli occhi di Yoïm e mi dico, sono vitrei come due meduse.
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25