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mini

i tascabili di minimum fax


32
Véronique Ovaldé
Gli uomini in generale mi piacciono molto

titolo originale: Les hommes en général me plaisent beaucoup


traduzione di Lorenza Pieri

La traduzione è stata realizzata grazie al contributo


della Comunità Europea

© Actes Sud, 2003


© minimum fax, 2005, 2015
Tutti i diritti riservati

Edizioni minimum fax


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I edizione nella collana Sotterranei: giugno 2005


I edizione nei tascabili Mini: gennaio 2015
I edizione digitale: gennaio 2015
ISBN 978-88-7521-662-7

La traduttrice desidera ringraziare Véronique Ovaldé


per la sua preziosa disponibilità.
VÉRONIQUE OVALDÉ

GLI UOMINI IN GENERALE MI PIACCIONO MOLTO

traduzione di
LORENZA PIERI
1.

È stato il silenzio a svegliarmi quella notte. Un silenzio frusciante, un silenzio


di città, pieno dei nostri motori intimi, il brusio dei meccanismi, il ronzio delle
zanzare e i colpi d’ala di una mosca contro i vetri. Sentivo la strada e il sibilo
dei pneumatici, le sirene lontane e le migliaia di crepitii delle televisioni degli
insonni, sentivo l’acqua che batteva nella doccia e i messaggi che si
registravano nel segreto dei cavi telefonici, che attraversavano il mio spazio
circostante, che mi attraversavano per seguire il loro corso. Ascoltavo la notte
d’estate con il suo palpito irregolare.
Ma quello che mi ha svegliato è che nessun rumore sovrastava questa
vibrazione. Di solito sento gli animali. Sento gli animali dello zoo che vivono
la loro vita notturna e misteriosa. E invece quella notte niente. Il barrito
dell’elefante, le grida acute delle scimmie e gli urli dei coyote perforavano
abitualmente le mie notti. Avrebbero dovuto esserci anche fruscii impazziti di
piume, spaventi e incubi di bestie; di solito li sentivo, partecipavo alle loro
attività notturne, e invece adesso più niente, nient’altro che una notte d’estate,
nient’altro che il rumore riflesso del mondo.
«Dove sono gli animali?», l’ho detto, credo, ma Samuel non s’è svegliato,
allora di sicuro l’ho pensato, mi sono seduta sul letto, fuori era chiaro, ma non
sapevo più se era la luna piena o solo il pallore elettrico dei lampioni. Mi
sono alzata e sono andata alla finestra aperta, ho liberato la mosca intorpidita
agitando la tenda, ho respirato l’odore della città – un odore più fresco, come
lavato, tutto pulito e profumato, un odore più fresco di quello del giorno – ma
lo stesso non ho sentito gli animali. Dalla finestra intravedevo le inferriate
dello zoo e la grande roccia delle scimmie, intravedevo anche il tetto della
voliera. Sono rimasta un momento ad aspettare che si svegliassero, ho pensato,
forse ogni notte c’è un’ora in cui gli animali tacciono, forse semplicemente non
me ne sono mai accorta. Ho aspettato che si svegliassero. Ero là, immobile,
l’occhio fisso sul giardino, la spalla contro lo stipite della finestra, a
riaddormentarmi, anche se in piedi, con la mente che si allontanava e
rallentava, facendo fatica a riorganizzarsi, quando all’improvviso li ho visti
passare.
Per prima la giraffa, di cui ho visto il lungo collo incedere ondeggiando al
disopra della siepe; ho scavalcato la finestra e mi sono avvicinata calpestando
l’erba fradicia. Erano tutti lì, passavano nella strada deserta inondata di luce
molle, passavano i miei animali, quelli piccoli circondati da quelli più grossi,
certi correndo, altri invece ciondolando, c’erano la coppia di elefanti e i lupi
spelacchiati, i tatù e i piccoli dei tatù, c’erano tutte le scimmie e Wanda, la
vecchia signora gorilla – era scritto così sul cartello della sua gabbia –,
c’erano degli animaletti di cui non sapevo il nome e il meraviglioso okapi che
avanzava lentamente – mi era sempre piaciuta la sua strana tristezza –, c’erano
i gatti selvatici, le zebre, e anche gli avvoltoi che volavano sopra tutta questa
cerimonia. Pensavo, è bello, è bellissimo, e lo mormoravo, accovacciata
dietro la siepe, senza dubbio un po’ spaventata, dondolando leggermente
nell’umidità e sentendo i piedi che affondavano nella terra cedevole. Vedevo
tutti gli animali passare in un silenzio di sogno. Ho pensato, stanno zitti per
non allarmare nessuno, scappano, gli animali scappano, e mi sono messa a
ridere piano piano perché non mi sentissero e non mi venissero a sbranare,
ridevo dietro la siepe e pensavo, forse lo fanno ogni notte e tornano all’alba, e
mi circondavo il corpo con le braccia e ridevo piano piano. Poi hanno svoltato
l’angolo della strada, io sono caduta col culo sull’erba, disturbando gli ultimi
vermi luccicanti, e ho continuato a ridere e a rabbrividire di piacere.

La mattina ho preparato pane tostato e caffè in cucina. Mi sentivo in pace nella


luce brillante dell’alba. Samuel è entrato, mi ha sorriso come fa ogni mattina.
Ho sempre l’impressione che abbia passato la notte lontano da me, che ritorni
da una lunga assenza anche se ha dormito alla mia destra come ogni notte. Mi
dice buongiorno e per me è un indizio supplementare. Penso, allora non era
davvero alla mia destra stanotte, c’erano solo il suo scheletro e la sua carne
vuota, nient’altro. Sorrido e lo bacio, non lascio trapelare niente di quello che
mi frulla nel cranio.
Ci sediamo tranquillamente al tavolo della cucina e Samuel mi racconta i
suoi sogni. Gli piace che io ci trovi un significato e dei simboli, e allora lo
faccio in modo che assuma quell’aria soddisfatta e un po’ misteriosa che ha
ogni tanto – come se fosse abitato da qualcosa di vasto e incomprensibile. Non
sa che i suoi sogni mi annoiano. Ascoltiamo la radio sgranocchiando pane
tostato e creando minuscoli mucchietti di briciole sul pavimento.
E poi all’improvviso penso agli animali dello zoo che sono scappati
stanotte. Mi ritorna in mente all’improvviso, è come se finalmente potessi dare
un nome al sapore zuccherino che ho in bocca, alla soddisfazione dolce che
provo in questo mattino giovane. Sorrido e tendo l’orecchio ma non sento
nient’altro che le parole della gente che abita nella mia radio e il tintinnio del
cucchiaio di Samuel nel vasetto del miele. Questi due suoni parassiti occupano
troppo spazio perché io possa percepire anche il più piccolo verso
proveniente dallo zoo al di là del viale di acacie. Mi alzo, posando i piedi
sulle piccole discariche di briciole sulle piastrelle, distendendo il mio corpo e
i suoi rami in tutta la loro lunghezza, dirigendomi verso la finestra. Ascolto un
istante senza muovermi. Poi mi giro un attimo verso Samuel e dico, pare
proprio che se ne siano andati, non si sente più niente, guardo Samuel, la sua
barba e la sua canottiera e le sue spalle tonde e ogni infimo muscolo delle sue
braccia, il suo sguardo è dolce e sferico, non bada a quello che ho appena
detto, è concentrato sul vasetto del miele e sulle notizie politiche che gli fanno
aggrottare le sopracciglia. Non può preoccuparsi anche dello zoo oltre a tutto
il resto.
Se sapesse che stanotte ho visto scappare gli animali penserebbe che
qualcuno li ha liberati, avrebbe un sospetto, Samuel, avrebbe un sospetto,
penserebbe, è stata lei?, penserebbe, si ricomincia?, vedrei tutte le sue
domandine passare in quello sguardo cupo – morbido morbido come il pelo di
un animale, bisogna immaginarsi occhi color pelliccia, cangianti allo stesso
modo.
Allora non ripeto che gli animali sono scappati, non ho nessuna voglia di
doverlo rassicurare, non ho voglia di dire una cosa tipo: è pazzesco, come
hanno fatto a liberare tutti gli animali? con un tono incredulo, perché sia sicuro
che io non c’entro niente. Credo invece che se ne avessi avuto l’occasione e se
i miei strani angoli non fossero stati smussati dalla vita di qui, allora sì, certo,
ci sarei andata io di notte, in tuta di lycra nera con passamontagna, ad aprire le
gabbie e i cancelli dello zoo, sì, sarei stata io a far uscire tutte le bestiole.
Ascolto ancora inspirando l’aria pulita del mattino, c’è un vocio di uccelli
non molto lontano, cornacchie e grilli, ma non sento niente di più selvaggio,
peloso e imponente. Ho voglia di mettermi a girare su me stessa. Non ho
sognato. Sono scappati, vi dico, sono scappati.
Guardo Samuel che fissa la sua tazza di caffè. Tra lui e me c’è un vaso con
dei tulipani rossi che ho raccolto ieri in giardino, il vaso è trasparente, l’acqua
già un po’ ingiallita, senza dubbio ne ho messa troppa e allora i tulipani
s’illanguidiscono come i rami di un salice, toccano quasi il tavolo coi petali.
Samuel è concentrato sulla tazza di caffè, sento il rumore dei suoi molari che
stritolano il pane tostato. Un rumore che mi disgusta un po’ ma mi rassicura
anche, è un rumore delizioso e orribile. Sorrido a Samuel e mi volto verso il
giardino, verso l’erba dal colore elettrico e verso tutte le foglie dell’albero
che scintillano scuotendosi in questo mattino ideale, mi volto verso il
venticello d’estate che lascia palpitare le molecole e i fantasmi nell’aria. Non
mi muovo più, m’impregno di questa stagione accecante, strizzo gli occhi e
vedo Samuel dietro di me che non sorride per colpa della politica interna e del
miele che gocciola sulla tavola e che deve asciugare col suo indice già
impiastricciato. Samuel alza la testa, continua a essere serio, Samuel è un
uomo serio che nasconde molto meglio di me il terreno minato in cui si trova,
lo sento preoccuparsi silenziosamente, e ripeto tra me, gli animali del mio zoo
sono scappati, Samuel non se n’è reso conto. Forse non se ne renderà conto
nessuno.

Dopo che Samuel è uscito, resto seduta sugli scalini di legno che scendono in
giardino, tenendo i gomiti ben stretti sullo stomaco – cosa che spesso fa dire a
Samuel, hai paura che ti rubino un pezzo di pancia? –, guardo tutta l’umidità
della notte evaporare e far nascere dei moscerini trasparenti che si agitano
nervosamente intorno a me, aspetto dandomi ogni tanto un’occhiata ai piedi o
alla pelle delle gambe – mai però troppo a lungo, perché i piedi e la pelle
delle gambe possono sprofondarmi in abissi di tristezza. Rifletto sulla
proposta di Samuel, quella che mi ha fatto la sera prima, a cena, la proposta di
impegnarci «a lungo termine», e rifletto anche su tutti gli animali evasi (non
molto a lungo in effetti, non sono per niente ansiosa di verificare se davvero se
ne sono andati tutti, voglio mantenere viva la mia meraviglia notturna).
Mi rigiro in testa, come se mi rigirassi in bocca una caramella, la frase «a
lungo termine» di Samuel. L’assaggio con la lingua e poi mi tiro indietro
davanti alla sua improvvisa acidità. Alla fine mi abituo al suo sapore, ma non
riesco a decidermi. Aspetto che il sole mi abbagli e mi scotti prima di
rientrare nell’ombra della cucina. Lì sbatto tutte le porte e creo un gran giro
d’aria tenendo le finestre aperte con delle sedie, e resto in mezzo a tutta questa
agitazione per rinfrescare la casa e far volare via i pensieri pericolosi.

Samuel, la sera, rientra con Ben e la nuova ragazza di Ben. Stanno parlando di
politica quando attraversano la soglia ma la loro conversazione non è tanto
animata. Samuel ha l’abitudine di riferire ai suoi amici, che sono già
d’accordo, dei fatti che l’hanno indignato; gli altri fanno sempre «sì sì sono
assolutamente d’accordo» perché sono davvero assolutamente d’accordo con
lui. Allora Samuel si sente bene in questa indignazione condivisa, si sente più
forte e più legittimato. Credo che sia l’ingenuità di Samuel a commuovermi,
qualcosa che ha a che fare con l’infanzia – la più lontana e la più pura.
Ci sediamo sugli scalini di fronte al giardino con i nostri bicchieri di
liquore, li lascio parlare sorridendo – perché non si preoccupino della mia
assenza –, gli occhi fissi sul ghiaccio nel mio bicchiere, il ghiaccio che crepita
ancora e scampanella contro le pareti del bicchiere ogni volta che l’agito.
La ragazza di Ben è carina, ha uno sfavillio particolare negli occhi, auguro a
tutti e due tanta felicità, me lo ripeto a bassa voce, penso che Ben ha davvero
bisogno di qualche incantesimo perché gli riesca una storia che duri per
sempre. Adesso guarda la sua principessa. Ben mi piace molto. Gli uomini in
generale mi piacciono molto. Ho già provato a sedurre Ben ma mi sono
fermata in tempo, giusto in tempo perché Ben si affezionasse a me quanto a
Samuel.
Il sole della sera ci ha raggiunto da sinistra, cala rapidamente dietro gli
edifici e ci lascia la pelle rosa e, per ciascuno di noi, un’ombra lunga che si
stende sulle assi di legno fino in fondo alla cucina. Il crepuscolo è morbido e
fa ricadere a terra la polvere del giorno, le zanzare escono dall’erba e dai loro
minuscoli serbatoi d’acqua. Guardo attentamente questa frenesia serale e
respiro l’odore di sangue che sale con i vapori della terra. In quel momento
Samuel dice, avremo un bambino io e Lili, e mi giro verso di lui appena un po’
sorpresa. Questo bambino ancora non esiste, non ho ancora dato il mio
consenso alla proposta di Samuel e ancora una volta la sua ingenuità mi
colpisce.
Allora chiaramente gli altri due credono che noi siamo questa coppia
meravigliosa nella loro casetta, questa coppia meravigliosa che progetta una
vita carina piena di bambini muti e rosei. Non voglio mettere nessuno a
disagio e quindi acconsento. Ben e la sua ragazza (Vera, credo) cominciano a
congratularsi con noi. Non riesco a dirgli, no no aspettate, la mia pancia è
vuota per il momento, sapete, è solo l’entusiasmo di Samuel. Chiaramente è
impossibile dirglielo adesso. Samuel sembrerebbe ridicolo e io distruggerei la
gioia di tutti. Allora sì, certo, mi metto a parlare e a raccontare la mia felicità,
rincaro un po’ la dose. Samuel mi guarda leggermente esterrefatto ma
intrappolato anche lui e siamo lì tutti e due, bellissimi nei nostri abiti bianchi,
immersi tutti e due in questo crepuscolo perfetto, a mentire tutti e due ai nostri
amici ma con dei sorrisi così seducenti che nessuno potrebbe serbarci rancore.
Io ovviamente sono altrove, rivedo tutti gli animali selvaggi di questa notte e il
dondolio della giraffa, li vedo che scappano ma continuo a sorridere in questo
momento puro. Samuel si alza e mi porge la mano per aiutarmi. Restiamo un
istante in piedi sugli scalini. Per me quest’uomo è meraviglioso, mi dico a
bassa voce, quest’uomo è una meraviglia. Sento una gioia intensa, proprio in
mezzo al plesso solare, per il fatto di essere lì, accanto a lui; rido per
mascherare la mia emozione e rientriamo tutti e quattro in casa per mangiare
intorno al tavolo parlando a bassa voce per non disturbare le falene e la notte
d’estate che trasporta le voci al di là del giardino, per non disturbare i miei
fantasmi e la pienezza di questa serata.
2.

Il giorno dopo decido di tornare allo zoo. È ancora presto. Aspetto davanti al
cancello dell’entrata con dei bambini, quelli irriducibili, accompagnati dalle
zie nubili, aspetto appoggiata all’inferriata che la porta si apra, godendomi
l’ombra ardente delle acacie, tormentando il mio braccialetto di plastica e le
sue minuscole perle di vetro, sgranandole come un rosario. Sento già l’odore
soave della sabbia e del letame mescolato agli aromi zuccherosi dei bambini,
quegli aromi artificiali di fragola e ananas. Mi riempio i polmoni di questo
brulicare di odori e sorrido nell’ombra ardente delle acacie.
Il guardiano viene ad aprirci, io mi faccio avanti e comincio a girellare tra i
viali, fermandomi davanti alle sbarre, appoggiandomi coi gomiti ai muretti di
fronte alle gabbie vuote – non sono tornati, i miei animali, oppure si sono
rintanati nelle caverne di resina dopo la fuga, e stamattina sono ancora
assopiti.
Nel punto in cui mi sto dirigendo non c’è nessuna agitazione, nessun grido,
non c’è nessuno.
È l’ora assassina. Sento lo scottare del sole attraverso il cappello, sento che
passa attraverso l’intreccio della paglia.
Resto a lungo davanti a Wanda la gorilla, così vecchia che ha dovuto
lasciare che gli altri continuassero la gita senza di lei, avendo già assaporato
quello che immaginava di non assaporare mai più, quasi non chiedendo altro e
ritornando al suo foraggio e alle sue mele vizze. Questo zoo ormai è diventato
uno zoo di animali vecchissimi, mi dico. Cerco di sondare la sconfinata
desolazione della signora Wanda, ripetendomi, morirà presto, annusando
l’odore del suo calore e della sua stessa decomposizione – perché si
decompone, la signora Wanda, si decompone piano nella sua vecchiaia lenta –,
e mi chiedo cosa fare per liberarla se non darle delle polverine profumate e
mortali, cosa fare per la signora Wanda.
In quel preciso istante, nell’istante in cui mi allontano dalla prostrazione
malinconica del gorilla, in cui me ne distacco per raggiungere il viale,
percepisco qualcosa che si muove alla mia sinistra, qualcosa che trema
nell’aria liquida, che brilla e sparisce – uno di quegli spiriti del caldo che
appaiono scintillando sopra l’asfalto d’estate. Giro la testa, non c’è già più
niente. Vedo solo, in fondo, sotto un’acacia, un uomo e la sua figlioletta con un
palloncino a forma di cane giallo.
Il mio fantasma d’estate è scomparso. Eppure pensandoci bene posso dire
che era un uomo tutto vestito di nero che stava immobile nell’angolo sinistro
del mio occhio sinistro. Laggiù sotto l’acacia. Vicino alla bambina e a suo
padre.
Potrei anche dire chi è quell’uomo. Ma il suo nome mi pietrifica di terrore.
Perché non doveva tornare, non dovrebbe essere qui, non può del resto, se ci
penso bene, è davvero impossibile, basta che io respiri profondamente per uno
o due minuti tenendomi alla balaustra davanti alla signora Wanda, il viso
nell’ombra del mio cappellone, ecco, respiro profondamente, mi riempio di
tutta quest’aria calda e mi dico seria seria, con le sopracciglia aggrottate, mi
dico, no, non può essere tornato.
Mi rimetto in cammino a piccoli passi sulla sabbia del viale – solo la mia
ombra minuscola concentrata attorno ai miei piedi, nient’altro che quest’ombra
e questo sole fisso. Rientro a casa e rifletto tutto il pomeriggio per capire se
parlerò o no a Samuel del fantasma che ho incrociato allo zoo.

Quando Samuel torna non dico niente.


Preparo un’insalata, la lascio in ammollo a lungo nel lavello, immergendo
le mani nell’acqua gelata, il che mi dà un gran sollievo, poi tagliando a cubetti
piccolissimi pomodori e cipolle su un tagliere di legno, mettendomi d’impegno
col coltello che si anima lentamente tra le mie dita, cospargendo l’insalata di
prezzemolo e di lievito e mettendola in due belle ciotole blu che hanno proprio
la forma del palmo delle mie mani. Aggiungo pere, birra, soia, aceto e passo
le mani sotto l’acqua che è tornata tiepida nelle tubature. Depongo le ciotole
su un vassoio e porto tutto fuori; mangiamo seduti sugli scalini io e Samuel,
parlando poco ma sorridendoci molto – tu sei qui, io sono sempre qui.
All’improvviso mi sento sul punto di mettermi a ridere pensando all’idea di
un bambino con Samuel, ho l’impressione di avere otto anni e che mi abbiano
messo insieme alla bell’e meglio un corpo di donna e di madre possibile ma
che è – l’idea di questa maternità – la cosa più scandalosa e più stramba che
mi possa succedere. Poi aggiungo, solo per me, Samuel forse ne ha voglia
davvero. Questo pensiero mi solletica, allora continuo, e io di che diavolo ho
voglia?
Contemplo Samuel concentrandomi sulla bellezza dei suoi lineamenti e sui
suoi occhi di pelliccia, penso, il bambino avrebbe un bel visetto; passo in
rassegna tutto quello che mi lega a lui e soprattutto, soprattutto, il fatto che non
mi ricorda mai da dove mi ha tirato fuori; mi guardo intorno e vedo questo
giardino e la casa, la passiflora che ricopre il muro a nord, la densità dei suoi
tralci e lo splendore dei suoi fiori – brevi esplosioni bianche nella profusione
vegetale; sento il mio cuore dire «è di questo, cara mia, è di questo che hai
bisogno» – ma sarà davvero il mio cuore, non saranno piuttosto mio padre mia
madre mio fratello e la Vecchia che ospito nella carne che si permettono
troppo spesso dei sermoni e delle intrusioni –, continuo a sorridere con
prudenza.
Mi sento inquieta per via dell’uomo che ho visto sotto le acacie dello zoo e
di cui ho dissimulato l’apparizione, come ha fatto a ritrovarmi, come ha fatto
Yoïm – perché non posso sempre tacere il suo nome – a ritrovarmi, provo a
convincermi che si tratta di uno spettro, cerco di relegare nel doppiofondo di
un cassetto l’angoscia nauseante che mi provoca, cerco di concentrarmi su
Samuel e sul malinteso a proposito del bambino. Mi sforzo di modificare il
corso delle mie divagazioni. Penso al piacere che proverei nel distruggere
l’equilibrio in cui viviamo, Samuel e io. Esito, giocherellando per un momento
con la seduzione della dinamite. Alla fine decido di tenere tutto sotto chiave, il
ritorno di Yoïm e le nostre bugie sul bambino, e di aggiungere uno strato
supplementare al nostro raffinato millefoglie – non-detti, silenzi, tedio,
ripetere l’operazione fino alla nausea.

Quando Samuel comincia ad accarezzarmi quella notte, attaccandosi alla mia


coscia, premendo il suo uccello contro di me, urgente e teso – così teso che ho
sempre l’impressione che la pelle del suo cazzo sia sul punto di rompersi e di
squarciarsi lentamente –, lo sento come un intruso. E come con un intruso a cui
non saprei rispondere, come con una persona indelicata di cui non saprei come
sbarazzarmi, accetto che entri e si accomodi, si metta a suo agio e cominci il
suo discorso. Io sono altrove e senza di lui. Lascio che mi scopi, resto educata
e lievemente distante, e mi metto a contare tra me. Conto sempre tra me quando
Samuel mi scopa e io non ci sono. Sottraggo e sommo, vedo i numeri volare
sul soffitto e allinearsi in file immaginarie che si replicano nella mia testa
scandendo il movimento di Samuel. A volte vorrei interromperlo, ma ha
un’aria così concentrata – infatti è talmente concentrato che non mi vede più e
non si accorge della mia assenza –, ha un’aria così contratta che lo aiuto a
venire prima, lo aiuto a godere come si darebbe una spintarella al meccanismo
di un giocattolo che non va più avanti. Quando lo faccio non mi sento cattiva,
non mi sento cinica, lo faccio con tutto l’amore che provo per lui, lo faccio
come un dono. A volte, semplicemente, mi è impossibile essere vicino a lui,
vedo i miei fantasmi che si agitano, siamo troppi in questo letto, mi guardo le
cosce, i seni, le mani, mi sento che gli parlo, è la mia voce ma è sorda ed
estranea, dice parole che non conosco bene, parlo per coprire le voci dei miei
fantasmi che tentano di chiamarmi ma che sono ancora troppo lontane, guardo
le spalle di Samuel che trovo così seducenti e gli apro l’interno della mia
pelle, gli apro l’interno del mio corpo, non posso far altro che offrirgli il
godimento del mio culo, vorrei dargli di più ma posso soltanto darmi a lui e
contare, contare tenendo i fantasmi a distanza.
3.

Samuel mi ha fatto uscire di prigione. Nessuno di quelli che frequentiamo lo


sa. Abbiamo una storia già pronta se ce lo chiedono. Chi tiene di più a questa
bugia è Samuel. Dice che lo fa per noi, per me soprattutto, ma anche per gli
altri, per evitargli il disagio e l’incomprensione, per evitargli il dolore di non
capirci più del tutto.
Samuel è professore di disegno. Si occupa di bambini molto piccoli che
hanno dei problemi assolutamente fuori misura per la loro età. Credo che gli
insegni semplicemente a guardare e che passerà davvero al disegno quando
loro si sentiranno pronti. Gli porta degli oggetti, un macinapepe, un piccolo
machete, un bicchiere che prende un colore blu iridato quando lo lasci al sole,
gli porta degli occhiali da sole – molto grandi, molto vecchi, gli occhiali di
una stella del cinema che avrebbe centottantotto anni e nessun’altra possibilità
se non nascondercisi dietro –, gli porta un orologio, un nastro rosa un po’
sfilacciato, un limone con la punta ammuffita per mostrargli il muschio verde e
vellutato come un sottobosco. Samuel ha un modo molto particolare di parlare
ai bambini, di fargli raccontare quello che succede nel profondo della loro
testa. I bambini disegnano un poco, molto poco, e parlano molto con lui. Alla
sera Samuel mi racconta cosa dicono. Torna in macchina, la scuola è dall’altra
parte della città – appena fuori dal centro, in modo che tutti questi bimbi non
proprio in forma non contaminino la nostra città –, torna nella sua macchina
grigia, ne riconosco il rumore da molto lontano, un rumore di marmitta.
Mi metto alla finestra oppure esco ad appostarmi sotto l’acacia per
accoglierlo. Quando si accorge di me agita la mano come se io stessi lì ad
aspettare qualcun altro e lui passasse di là per caso. Ferma la macchina
proprio davanti al cancello, e io mi avvicino; ho di nuovo l’impressione di
avere otto anni, la gioia di vederlo riapparire ogni sera si mescola a un
sollievo intenso, sono una bambina piccola oppure un cucciolo di cane, non lo
so bene, metto le zampette sulla portiera, mi sento un po’ ridicola ma a quanto
pare lui mi trova normale e carina, ecco che si estirpa dalla macchina e si
stira, ecco che mi abbraccia – il mio lungo corpo fatto di rami –
allacciandomi, passandomi la mano sotto la camicia e accarezzandomi le
costole, stupito quasi di trovarmi scheletrica, io con il viso nell’incavo del suo
collo, immersa nel suo odore di uomo, il suo sudore di auto e di estate, e
respiro l’odore dei bambini che erano con lui, l’odore di tempera e di pelle, e
mi sento all’improvviso insonnolita e molle – mi piacerebbe che mi portasse
su una spalla, mi piacerebbe diventare un sacco di cemento e che mi portasse
in spalla.
È in questi momenti dolci che mi torna addosso la prigione, come un brusco
rossore del viso, sento la voce di Samuel che non dice mai prigione, dice i
campi, tu vieni dai campi, i campi erano tremendi, sono le sbarre e il metallo
che tornano, il rumore del metallo e il rumore dei corridoi – i corridoi sono
abitati dai rumori, da migliaia di bestioline senza corpo, solo una frenesia di
zampe, rumori senza corpo per penetrarti meglio. Si sovrappone allora, come
un’immagine porno in un cartone animato, si sovrappone uno Yoïm subliminale
e leggero che sparisce appena mi scrollo, appena agito la mano per far finire
quest’oscenità.
Poi passa. Riprendo colore e vita. Stringo la mano di Samuel e sono di
nuovo lì, sotto l’acacia insieme a lui.

Sono uscita di prigione un lunedì. Samuel è venuto a prendermi, si era dato


tanto da fare per liberarmi che sembrava ovvio che sarebbe stato lui ad
appostarsi all’uscita della prigione, che sarebbe stato lui a farmi salire con
mille precauzioni sul sedile di dietro della sua macchina come se fosse il mio
tassista o il mio autista dell’ambulanza, che posasse il mio zaino di fianco a sé
e mi chiedesse, hai un posto dove andare?, e io che non ci avevo
assolutamente pensato, che del resto non avevo pensato di poter uscire un
giorno da quell’inferno, che mi stavo semplicemente facendo trasportare dalla
sua volontà, io che credevo ancora che il mondo fosse essenzialmente
carnivoro, che non potessi farci niente, e che gli uomini fossero tutti
particolarmente pericolosi – e come non pensarlo quando Yoïm è stato il tuo
primo amante –, gli ho risposto, no non ho nessun posto dove andare.
Allora Samuel mi ha portato a casa sua. Lì per lì la cosa mi ha rattristato un
po’, come se da sempre fosse quello che aveva in mente, farmi uscire di
prigione e portarmi in città fino al suo appartamento. Mi ripetevo, comunque
non ho nessuna alternativa. C’era un sole brillante, Samuel mi ha passato i suoi
occhiali neri da sopra la spalla, io me li sono infilati, ma le particelle di luce
hanno continuato ad agitarsi e a ballarmi la giga davanti agli occhi, andando
ovunque andasse la pupilla, parassitando tutto quello che vedevo di questa
città, impedendomi di percepire altro che una città metaforica. Samuel ha
continuato a parlare gettandomi occhiate nello specchietto – non smettevo di
ripetermi, deve guardare la strada, qui finisce che ci incastriamo sotto un
camion.
In quel periodo Samuel abitava a pochi chilometri dalla prigione. Viveva in
un appartamento al secondo piano di una palazzina in cui sua madre occupava
l’ultimo piano che aveva una terrazza per i suoi gatti deambulanti sui tetti,
lungo le grondaie, decine di gatti tigrati dagli occhi gialli che passavano
davanti alle finestre di Samuel ed entravano da lui come in un terreno
occupato. Ho pensato, chiunque può entrare nell’appartamento di Samuel
passando dalle terrazze. Ho incrociato le braccia e me le sono strette intorno
al busto il più forte possibile.
Samuel ha posato la mia borsa vicino alla porta, mi ha preparato da
mangiare, pasta al pomodoro e formaggio, ha acceso la radio, accarezzato il
ficus sfiorandone le foglie mentre continuava a parlare del suo lavoro, di sua
madre, di cosa avremmo fatto più tardi – trovarmi una casa, un lavoro,
iscrivermi alla biblioteca e alla cineteca – aggiungendo a volte, scandendolo
quasi, ti darò una mano, e poi anche, ti porterò a mangiare il gelato e a vedere
degli spettacoli di danza, avrai un telefono e forse un computer e potremo
mandarci messaggi e ti potrò invitare a pranzo e ti preparerò l’anatra
all’arancia con tanto caramello, vedrai, adesso la tua vita sarà facile.
Mi è sembrato di sentire la mia voce rispondergli, e quanto ti devo?
Ma mi sono ripresa, non volevo rovinare niente di quella mattinata con
Samuel. Il salotto era macchiato di sole, i mobili erano bassi, c’erano dei
cuscini, un televisore per terra, delle mensole piene di libri, una palma, della
polvere che turbinava al rallentatore nei raggi di sole, ho sorriso, ho pensato, e
se restassi?, mi sono girata e l’ho visto venire verso di me con il vassoio, la
salsa di soia, il vino bianco e la birra, gli spaghetti e la ciotolina del
parmigiano grattugiato, ho colto il suo sguardo che mi sfuggiva, ero ancora
perplessa del potere che avevo su di lui. Ho pensato, Samuel ha voglia di
occuparsi di me. Ha accarezzato i due gatti che se ne stavano a poltrire nella
losanga di sole sul parquet e ha ripetuto, sono i gatti di mia madre, come se
l’informazione avesse potuto sfuggirmi.
Nel pomeriggio siamo saliti fino all’ultimo piano dalle scale di servizio.
Lui aveva la chiave di casa di sua madre ma prima di entrare ha bussato tre
colpi brevi e uno lungo per avvertirla del nostro arrivo.
Nel tepore di quel pomeriggio ho conosciuto sua madre, una signora anziana
che abitava quasi esclusivamente sulla terrazza. Quel giorno aveva dei guanti
color malva, un innaffiatoio di plastica rosa all’estremità della mano color
malva, un cappello di paglia e un’aria da signora vecchissima, che avrei
potuto immaginare anche senza incontrare mai una come lei, con il viso da
frutto ammaccato e l’odore scialbo di cipria, la voce come un filo teso, una
grazia angelica, una che assomiglia alla figura ideale di una madre molto
vecchia. Ma quanti anni aveva, a quanti anni poteva aver avuto Samuel, mi
sono chiesta se avrei osato domandarlo a Samuel, ma non potevo interrogarlo
davanti a lei su questa storia che aveva a che fare con la menopausa e il parto
tardivo, così non ho detto niente, sono rimasta lì a guardarla con la mia
domanda sospesa e ho fatto dei calcoli inverosimili in cui alla fine lei aveva
centovent’anni, allora ho ricominciato.
Lui non le ha detto da dove mi aveva tirato fuori, ha detto che ero un’amica
di ritorno da un lungo viaggio, abbiamo mangiato biscotti allo zenzero e sua
madre ha parlato delle sue piante e dei suoi gatti fino al crepuscolo, io ho
curiosato nella biblioteca e sulla terrazza, Samuel ascoltava la madre,
compilava qualche assegno, smistava la posta, lei gli versava di nuovo il tè,
gli chiedeva del lavoro coi bambini, della scuola che stava per essere
decentrata, di Samuel che forse avrebbe dovuto traslocare, allora ha fatto una
faccia triste aggiungendo, fai del tuo meglio, e gli ha domandato dell’altro suo
lavoro, quello non retribuito, con quelle poverette della prigione – lei non
poteva in nessun modo collegarmi alle poverette della prigione,
immaginandole senza dubbio come guerrigliere o prostitute in calze a rete –, le
poverette che occupavano tutto il tempo libero di Samuel (ma cosa avrebbe
potuto farci di più costruttivo con quel tempo, si chiedeva lui stesso). E sua
madre ha scosso la testa, un pochino afflitta oppure un pochino perplessa,
chiedendosi perché il figlio sentisse tanto il bisogno di dilapidarsi, così ha
detto, tu ti dilapidi amore mio, ti dai anima e corpo, e che ottieni in cambio?, e
Samuel sorrideva dolcemente alla madre senza provare a spiegarle di cosa
andava in cerca nel parlatorio delle ragazze e durante i corsi di disegno che gli
dispensava, non potendo certo discutere con lei della disperazione e della
vacuità del mondo, abbandonando l’idea, non provando neanche a dirle, e tu
che ci fai con tutti questi gatti?, eppure avrebbe potuto pronunciare queste
parole senza la minima aggressività, con il tono che usava quando si rivolgeva
alle puttane del carcere e anche a me, ci parlava sempre piano, come se fosse
stanco oppure quasi condiscendente, e io che continuavo a curiosare,
sentendomi per un attimo spaesata sulla terrazza, guardando di sotto e
pensando alla caduta e alla mia schiena spezzata, sentendoli al di là dei miei
pensieri allegri, sentendoli parlare, lui che diceva, è per il signor Tang
questo?, sei sicura di dovergli tutti questi soldi?, e lei incurante ripeteva,
firma, firma, il signor Tang è un uomo onesto, tesoro, e lo chiamava tesoro o
stella mia o amore mio, mai Samuel, con naturalezza e dolcezza come se
l’avesse sempre chiamato pulcino mio, da quando era uscito da lei, e il nome
Samuel fosse solo una convenzione ufficiale che non valeva nei suoi territori,
e poi continuava a leggere i tarocchi che estraeva e che predicevano al figlio
una lunga vita, una lunga vita di viaggi, vedo sempre dei viaggi per te amore
mio, e io che li guardavo e li amavo di già, tutti e due, e pensavo, si sta bene
qui, ancora un po’ insicura ma quasi non più, e pensavo, mi bacerà stasera,
sono sicura che mi vorrà baciare, e mi sedevo vicino a loro con un gatto
tigrato sulle ginocchia che mi affondava a intermittenza le unghie nelle cosce
preso da una sorta di spasmo di comodità, e mi chiedevo ancora, Samuel saprà
consolarmi?, e alla fine mi addormentavo sul divano, con la voce di Samuel
che ripeteva alla madre l’itinerario della spedizione immaginaria da cui
tornavo, la sua voce come la pioggia di marzo, che mi penetrava e mi
prometteva una fioritura tardiva.
Mi hanno lasciato dormire. Hanno aspettato vicino a me e sussurrato per
non disturbare il mio sonno, io avevo l’impressione di lottare per svegliarmi,
di provare a battere i piedi contro un fondo sabbioso, per resistere
all’annegamento. Ma in effetti, Samuel me l’ha raccontato più tardi, ero
rimasta immobile come un sasso.
4.

Questa notte, poco più di cinque anni dopo la mia uscita di prigione, nella
notte che segue il nuovo e spettrale incontro con il mio vecchio amante, mentre
Samuel che ha appena finito di scoparmi dorme già nella nostra stanza
nonostante il rumore delicato e regolare della persiana che sbatte sulla
spagnoletta – un rumore che non gli dà nessun fastidio, mentre per me ha una
portata mostruosa che calpesta quel poco di sonno che riesco a far arrivare
fino a me –, quando chiudo gli occhi e tento di concentrarmi sul silenzio
intorno alle pulsazioni della persiana, spaventata di sentire l’insonnia
aggirarsi nelle mie acque profonde, quando stringo i pugni sul lenzuolo,
fissandomi sull’immagine di un albero o di un ruscello – immagini che, in
genere, allontanano lo squalo e mi permettono di riposare –, sento l’urgenza
irresistibile di alzarmi per andare alla finestra della cucina e verificare ciò di
cui sono convinta.
Mi dico, dopo potrai dormire.
All’inizio non riesco a muovermi perché so che lui mi spia, so che è dietro
di me, so che è intorno a me. Il vuoto in me prende vita, la mancanza mi
soffoca, mi sei mancato, una cosa che ha a che fare con la dolcezza e con
l’attrazione sessuale.
Alla fine mi alzo, vado in cucina, mi appoggio al lavandino e lo vedo
subito, lo scorgo che aspetta fumando dall’altra parte della strada, vedo Yoïm
pigramente appoggiato al lampione, gli occhi altrove, che non guardano
proprio la casa e me dietro la tenda, solo a fumare una sigaretta come se fosse
una cosa normale aspettare sotto un lampione alle tre di notte in questo
quartiere di villini con giardinetti e siepi. Riconosco il suo corpo e il suo
cranio, riconosco la sua statura e i suoi gesti, riconosco la sua posa – lo sa che
lo sto guardando, lo sa – e il suo modo di fumare, lo riconosco come prima ho
riconosciuto il suo profilo sfuggente sotto le acacie dello zoo, ma adesso non
ho più alcun dubbio, non si tratta di un fantasma del calore o di un miraggio
maligno, è davvero lui in tutta la sua concretezza, sento una leggera esplosione
allo sterno, lo sbocciare di un fiore in gestazione da tanto tempo, che aspettava
solo il suo momento per agitare delicatamente il pistillo e disseminarmi nel
sangue il suo veleno.
Sono perduta nella contemplazione di questo gesto, di questo automatismo,
di questa macchina per attizzare, consumare, distruggere. Il suo profilo fa
rinascere in me quell’attrazione adolescente che mi pizzicava le cosce e mi
risaliva verso la gola, di cui sento ancora il calore tra le gambe. Faccio un
test. Voglio sapere se mi ricordo la pelle del suo petto.
Non c’è dubbio, me ne ricordo ancora.
Tento di tagliar corto alle discussioni che sento dentro le viscere – padre
madre fratello e Vecchia. Ripeto il nome di ognuno dei miei abitanti, mio
padre mia madre il mio fratellino la Vecchia, li scandisco a tutta velocità per
non sentire le loro voci, per disturbare la linea, là dentro litigano, danno
consigli, mi mettono in guardia con toni isterici, elimino il pensiero di Yoïm,
non so neanche più di cosa ho paura, vedo i capelli morbidi del mio fratellino
che brillano come bauxite, ripeto padre madre fratello Vecchia, li lascio urlare
e discutere ma non li ascolto. Lotto contro la dolcezza e l’attrazione sessuale,
mi sei mancato, penso a mio padre a mia madre al mio fratellino, penso alla
Vecchia, poi torno al mio fratellino – i suoi capelli, le sue piume, la sua
bicicletta e i raggi delle ruote che mi fanno strizzare gli occhi al sole.
Inspiro espiro. Sospiro. Mi riprendo.
In realtà vengo abbagliata a intermittenza dal luccichio alle orecchie di
Yoïm e alle sue dita, allora penso in equilibrio sul bordo del lavandino, penso,
è incredibile, porta ancora gli stessi gioielli e gli stessi ciondoli. Resto ad
aspettare che se ne vada, guardando il suo cranio che risplende
tranquillamente sotto il lampione, so che il suo atteggiamento è minaccioso, lo
sento con esattezza dall’agitazione incontrollata di certi miei organi e dalle
mani che mi tremano, aspetto che se ne vada ma lui non si muove. Mi dico,
devo tornare a dormire, non devo restare sveglia, con l’insonnia si incasina
tutto, bisogna dormire e dimenticare Yoïm, non posso lottare contro il suo
ritorno ma posso cercare di dormire, vedrò dopo, vedrò domani, vedrò più
tardi quando farà giorno, vedrò come affrontare questa realtà.

Al mattino quando mi alzo, appena ho l’impressione di essere stata sveglia


tutta la notte, dietro le palpebre chiuse, il mio primo pensiero è lo stesso di
quando avevo quindici anni, ai tempi in cui stavo con Yoïm, quando ogni
mattina mi liberavo dal sonno. Sono ancora dipendente? Era la domanda che
mi facevo ogni mattina. Sono ancora dipendente? Mi interrogavo come se mi
fossi chiesta: mi fa ancora male il ginocchio? E poi subito dopo, quasi
simultaneamente, facevo una smorfia. Sì il ginocchio mi fa ancora male.
5.

Quando mia madre è morta, in casa c’era solo il mio fratellino. Le è venuto un
attacco, qualcosa le è esploso nel cervello lasciando spandere liquidi
preziosi, qualcosa che poteva somigliare a una bomba sottomarina, con tanto
rumore e scosse in fondo agli abissi, miliardi di bolle che risalivano in
superficie, con l’unico desiderio di salvarsi a tutti i costi e salire, salire,
travolgendo tutto quello che c’era di vivo intorno per arrivare finalmente
all’aria e scomparire.
Mi sono detta, che casino dev’esserci là dentro, tutta quella memoria a
soqquadro e i neuroni sottosopra.
Questo ho pensato quando l’ho vista nel suo vestito a fiori gialli – il suo
vestito da casa –, quando ho visto la sua mole rovesciata per terra, il suo
corpo obeso e magnifico – oh sì che fortuna aver avuto una madre che avrebbe
potuto esserne tre – e dietro a tutto le urla del mio fratellino che
all’improvviso capiva e singhiozzava fino a soffocare – una vicina che non
conoscevo gli diceva, respira respira – e mio padre in uniforme che parlava ai
medici del pronto soccorso, mio padre che manteneva la sua espressione
glaciale, che agiva, ben ancorato alla realtà, sguazzando (dilettandosi?) in
questa cazzo di realtà, e io guardavo il viso di mia madre e mi dicevo, che
orrore, ma non lo pensavo, lo dicevo soltanto, mamma dove sei, questa non è
altro che carne spenta, senza corrente, un pasticcio di organi, mamma
chiaramente era da un’altra parte, non lontano, non poteva aver avuto il tempo
di andare lontano, in un altro albergo, un altro corpo che questa volta
sicuramente aveva scelto incantevole. Restavo lì, immobile e silenziosa per
non combinare il mio grido, due volte un grido, a quello di mio fratello, per
non dar fastidio a mio padre che restava ben dritto nella sua uniforme e che
parlava ai medici del pronto soccorso per non dire niente in realtà e mamma
non si muoveva più e non si sarebbe più mossa, perlomeno in quel corpo
massiccio, non si sarebbe più animata nel suo vestito da casa macchiato – le
vedevo la macchia di crema al burro sotto il mento e mi dicevo, bisogna
pulirla subito altrimenti non potremo più farci niente e mi dicevo, la seppellirà
con questo vestito?, e ho aggiunto solo per me perché mi rendevo conto
all’improvviso di cosa significava la sua scomparsa, mi rendevo conto
all’improvviso del vuoto che avrebbe lasciato questo corpo di madre in me e
in questa casa, allora ho aggiunto solo per me, merda merda merda, siamo soli
con lui adesso.

Samuel va via in bici stamattina.


Dice che c’è un po’ di vento e che gli farà piacere godersi un po’ di
brezzolina, dice davvero così: godersi un po’ di brezzolina. È stupefacente che
uno pronunci una frase simile a un’età così precoce... ridacchio a pensarci, è
una frase in pantofole. Poi me ne pento. Dopo che se n’è andato, resto
tranquilla in cucina a bere caffè e ad ascoltare l’estate. Sento il peso del
nostro silenzio, il peso della menzogna che abbiamo lasciato allargarsi,
sarebbe stato così semplice dirmi, non ha nessuna importanza, non so cosa ci
abbia preso, e comunque questo bambino lo faremo presto, no?, allora non è
stata proprio una bugia; e in questo mondo ideale avrei detto la mia, avrei riso
con lui della situazione delicata in cui ci trovavamo e avrei detto la mia.
Non ho davvero niente da fare. Sento tutto il tempo sterile di questa giornata
d’estate che si stende davanti a me. Mi dico, o provo lo zoo o il centro
commerciale. La signora Wanda o la galleria climatizzata. Il segreto che
condivido coi miei animali o il parcheggio e il sole che ci crepita sopra. Sono
indecisa tra i due. Mi sembra di dover scegliere tra un magnifico incidente di
macchina e una bella impiccagione. Mi sento così strana stamattina per il
ritorno di Yoïm, sarà da una parte o dall’altra?, per il fatto che posso pensare
questo genere di cose sorridendo. Gioco al capello più corto: strappare due
capelli, il primo è per lo zoo, il secondo per la galleria.
Alla fine vado al centro commerciale in macchina.
Sono capace di passare molto tempo seduta in macchina in pieno sole a
guardare la gente andare e venire, riempire e svuotare i carrelli, sgridare i
bambini e girare un po’ per trovare posto all’ombra. Ci metto una pazienza da
poliziotto. Sono capace di restare due o tre ore così immobile dietro al
parabrezza. Sono anche capace di dire la durata media di una visita al centro
commerciale.
Vedo i bimbi che seguono i loro genitori fino alla macchina mentre la
distanza aumenta sempre di più. Tentano di camminare e mangiare il gelato
contemporaneamente. Ma io sono convinta che sia impossibile prima degli
otto anni, mi dico, non possono farcela, è una questione che ha a che fare con
l’evoluzione della specie, e perciò mi ripeto, non possono farcela, e scuoto la
testa. Li guardo impiastricciarsi e innervosirsi per essere così in ritardo, fanno
delle soste in mezzo al parcheggio per arrestare il disastro, succhiano il cono,
che di sicuro non è una soluzione, poi trotterellano per tentare di raggiungere i
genitori, non hanno neanche più il coraggio di chiedere che li aspettino, sono
là, semplicemente indietro, a macchiarsi le canottiere e i sandali; vedo i gelati
che sgocciolano, si sciolgono e si diluiscono in tutto questo caldo, vedo gli
occhietti spaventati delle loro vittime, ho tanta voglia di uscire dalla macchina
e rassicurarli, prenderli in braccio e rassicurarli ma non posso perché sono
nascosta. Chiudo bene i finestrini e aspetto di diventare liquida; è un modo
come un altro per eliminare tutto quello che c’è di cattivo in me; passa
attraverso i pori della pelle, evaporando subito, sparendo completamente.
E quel giorno, dopo che già da un’ora sto osservando i miei contemporanei,
all’improvviso, un’ombra nera si attacca al mio finestrino, oscurando tutto
quello che c’è intorno, occultando la parte sinistra del mio universo,
accecandomi con violenza. Mi raggelo, quasi urlo dallo spavento, mi porto le
mani alla bocca per farmi tacere, sentendo brutalmente una freschezza da
cantina intorno a me, senza avere il coraggio di guardare. Lo so che è Yoïm,
che si sporge sulla portiera, le due braccia sul tetto della macchina, lo so che è
lì che mi scruta dietro al finestrino e lo diverto, si starà dicendo, è tale e quale
a prima, non è cambiata affatto, ho voglia di muggire, invece sì, sì è cambiato
tutto, non sarà perché resto chiusa nella mia macchina in piena canicola che
potrai ancora fare di me quello che vuoi, ma resto immobile dietro la portiera,
rifiutandomi di guardare verso di lui e la sua massa che ostruisce e mi raggela,
Dio quant’è enorme, come fa a muoversi ancora, bussa sul vetro e io mi giro
verso di lui con la lentezza di un camaleonte, sono ben decisa a non aprirgli e
allora vedo il suo viso come la luna e i suoi occhi siberiani, acuti, pungenti,
che sorridono, vogliono sorridere ma mi fanno venir voglia di urlare, sento
che mi sono mancati da morire, adesso potrei affacciarmi e accettare il suo
ritorno ma ho ancora abbastanza forza per mettere in moto, giro la chiave nel
cruscotto, Yoïm si blocca, il suo sorriso (vieni, non avere paura) fa una
smorfia, metto la prima e la macchina sobbalza, penso, si aggrapperà alla
carrozzeria, mi impedirà di partire, se vuole può trattenere questa macchina
con la forza delle braccia e delle gambe (oh le sue gambe) oppure si
abbarbicherà al tettuccio come un corvo obeso e resterà steso lì, appiccicato
alla macchina, impossibile staccarlo, io andrò sempre più veloce, bisognerà
toglierlo da lì, bisognerà eliminarlo, gli passerò sopra, urlerò e chiuderò gli
occhi e gli passerò sopra. Ma non succede niente di tutto questo, Yoïm arretra,
alza le braccia come minacciato da un grosso calibro (l’innocenza perfetta di
quel gesto, vedo le sue mani e i suoi anelli che brillano nel sole verticale), c’è
un leggero abbandono della postura, una cosa quasi pacifica, lo vedo nel
retrovisore, mi guarda andar via, il suo cranio riluce come un casco, sono già
uscita dal parcheggio, sono sulla strada e vedo ancora la sua gigantesca figura
che sussulta, si accende una sigaretta e resta in pieno sole, il naso per aria
(come se avesse passato anni in prigione e potesse finalmente godersi
l’estate).
Guido fino a casa, gli occhi fuori dalle orbite e il corpo frangibile come
vetro, non piango perché sarebbe un sollievo e come posso sentirmi sollevata
ora che Yoïm è tornato e che porto di nuovo il cuore appeso al collo.
6.

Quando il mio fratellino ha visto mamma accasciata nel corridoio, crollata sul
parquet, le si è avvicinato e l’ha chiamata a voce alta nell’orecchio, lo so
perché me l’ha raccontato molto dopo, non si era dimenticato niente di quella
scena, mi ha anche precisato che aveva sollevato i capelli di mamma e
liberato l’orecchio perché lo sentisse meglio. Ovviamente lei non ha reagito. E
poi dato che era solo un cucciolo ha capito che qualcosa non andava e si è
sdraiato su di lei – lei con quel bel vestito da casa a fiori gialli che ci piaceva
tanto al mio fratellino e a me perché quel vestito ci diceva semplicemente,
questa è casa vostra. È rimasto un momento così, e si è persino addormentato,
le braccia ciondoloni lungo i fianchi di mamma, la testa appoggiata sul suo
petto. Poi ha squillato il telefono e il mio fratellino si è svegliato. È arrivato
all’apparecchio, coi capelli ancora umidi del sudore del sonno, grattandosi il
collo, lo vedo benissimo mentre fa questi gesti, erano davvero una cosa dolce
e molto toccante i risvegli del mio fratellino. Ed è andato a rispondere. Era
un’amica di mamma, Samantha – che mio padre detestava come tutte le amiche
di mamma e che avrebbe detestato ancora di più perché sarebbe stata la
messaggera (il detonatore?) del suo lutto –, e ha chiesto di parlare con mamma
e il mio fratellino ha detto, sta dormendo, mamma dorme, e Samantha era
sorpresa perché mamma non dormiva mai durante il giorno, allora ha chiesto
se mamma si sentiva male e il mio fratellino ha detto solo che non si
svegliava, ha detto, non riesco a svegliarla, molto dorme mamma (mio fratello
combinava le parole a casaccio). Samantha gli ha chiesto di aspettare buono
buono a casa, di restare vicino a mamma, che lei arrivava subito, sì sì subito,
ha ripetuto, e il mio fratellino ha detto, che bello. Ha riattaccato ed è tornato a
sdraiarsi sullo stomaco di mamma.

Stasera, la sera in cui Yoïm è apparso alla portiera della macchina, Samuel
non torna. Mi chiama, non capisco bene di che si tratta, parla di riunione, di
bicicletta, di colleghi, io in risposta mormoro qualcosa, allora mi chiede, c’è
qualcosa che non va?, e allora di nuovo sto zitta, dico, niente niente mi manchi
tutto qua. Lo sento sorridere – fa sempre un leggero rumore di pelo sfregato –
e dice, bisogna che ne parliamo di questo bambino, Lili, ne dobbiamo parlare.
Borbotto qualcosa, confusa. Poi riattacchiamo e resto per un momento seduta
vicino al telefono, piegata in avanti, le mani attorno alle caviglie e i seni
schiacciati sulle cosce, sentendone la dimensione e l’inutile bellezza.
Guardo il crepuscolo sulle scale, ascoltando di nuovo le grida delle
scimmie, promettendomi di tornare allo zoo il giorno dopo.
Quando il sole sparisce dietro ai palazzi, rientro in casa, do un’occhiata
all’ombra blu del giardino e mi barrico, chiudo le persiane e le finestre, mi
dico, stasera verrà.
Prendo un coltello dalla cucina – niente di bellicoso, soltanto quello che uso
per il pesce. Vado a sedermi in camera da letto e resto in mezzo al buio in
un’immobilità da insetto. Intravedo i raggi della luna che filtrano dagli
interstizi, e le ombre che si muovono, l’acacia che si agita piano nell’aria
della sera, ascolto ogni scricchiolio, la casa che respira e si stiracchia come
fanno le case di notte.
E poi lo sento aggirarsi intorno alla casa. Sentire qualcuno che si aggira
significa percepire la sua ombra e il suo silenzio. Prendo il manico del
coltello con la destra, mi accovaccio e lascio il coltello a terra con il mio
lungo braccio alla sua estremità. Aspetto e lo vedo passare dietro le persiane,
sento il suo respiro e il fruscio del suo passo, cammina tra le fragole
selvatiche che crescono lì dietro, ce l’ho con lui come se lo facesse per
malanimo e mi dico, quest’uomo ha commesso degli atti orribili, lo ripeto,
assassinio, facendo delle pause tra una sillaba e l’altra, e le sue branchie fanno
un leggero rumore di valvole quando si attivano, chiamo mia madre mio padre
il mio fratellino in aiuto e anche la Vecchia ma lei davvero non può farci
niente, è nell’ordine delle cose, e mi dico, mi sta per, perché mia madre mio
padre il mio fratellino e persino la Vecchia preferiscono rannicchiarsi e
raccogliersi al centro del mio corpo, come il sangue quando fa molto freddo, e
mi dicono, attenzione, ti sta per.
Yoïm si avvicina alla porta della cucina e scuote la persiana, ha il coraggio
di scuotere la persiana, indignazione, non vuole entrare davvero, non è una
maniglia di alluminio a scoraggiare Yoïm, mi avverte soltanto, sono qui, sono
venuto a prenderti, vedrai, ti consolerò. Ma ho tanta paura di sbagliarmi, che
entri lo stesso, mi trovi qui, tutta raggomitolata, col coltello che pende tra le
cosce – oh le mie cosce – e che mi porti via e mi faccia subire i, che mi porti
via in spalla, io completamente pietrificata e rigida, che mi porti via e mi
faccia subire i.
Lo sento allontanarsi, come fanno duecento chili a stare su dei piedi così
piccoli, forse è per questa stranezza che ha quel modo di saltellare, quello
squilibrio ballerino, si riprende costantemente per evitare una caduta, stritola
l’erba che non si rialzerà più, che ci metterà due mesi a riprendersi dalla
torchiatura, stritola i gusci delle chiocciole che fanno un leggero rumore di
uova nella rugiada notturna, se ne frega dei vermi luccicanti e dei rospi
principesse, esce dal cancello, allora era aperto?, e se saltassi in piedi e
corressi a raggiungerlo, adesso sono pronta, devo lasciar andare il coltello e
rimettermi in movimento, apro la persiana della cucina, l’aria della sera mi
schiarisce le idee, fate che Yoïm se ne vada via e mi lasci alle dolcezze della
mia vita, se potessi fare un rito vudù lo rispedirei lontano. Non ho lasciato
andare il coltello. Torno a sedermi.
7.

Quando mamma è morta il mio fratellino ha smesso di parlare. Rispondeva


alle nostre domande solo con vaghe oscillazioni della testa e occhiate
insonnolite come se fosse uscito da un lungo assopimento in una bara di vetro.
Si era assentato, mi sembrava. Ho aspettato che tornasse. Ma la parola lo
aveva abbandonato completamente.
Mi sono ritrovata a essere l’unica interlocutrice di nostro padre.
E dato che partiva spesso, grazie a Dio, tutto serio in uniforme, per via del
suo lavoro di ispettore delle poste – me l’immaginavo sempre a smistare la
posta, mucchi di lettere che esaminava in trasparenza con una minuscola
lampada fatta apposta per quello sulla sua scrivania a scaglie, che esaminava
per capire quali minacce potevano celare, quelle lettere, ma in effetti non era
per niente così, mi sbagliavo proprio, nostro padre non controllava nessuna
missiva, non si trattava del servizio postale, nostro padre ispezionava
semplicemente gli altri sorveglianti del partito, sorveglianti appostati là, tutti
rigidi, in attesa di essere ispezionati, con la paura di essere sospettati –, e dato
che partiva spesso, mi sono ritrovata sola col fratellino.
Avevo quattordici anni e dieci anni mi separavano dal piccolo. Per molto
tempo avevo immaginato una serie di bambini morti, ferri da calza e perdite di
sangue che avrebbero spiegato i dieci anni di infertilità. Un giorno avevo
avuto il coraggio di parlarne alla mamma che aveva riso e tremolato da tutte le
parti, meravigliosa gelatina di ribes, e mi aveva detto, no no non preoccuparti,
io e tuo padre abbiamo solo avuto qualche problema a incrociarci durante
questi dieci anni. Non sono riuscita a scoprire il mistero di questo non-
incrociarsi – una posizione sessuale propizia alla gravidanza?
In ogni caso, c’era qualche cosa di incongruo a vederli insieme, padre e
madre, uno accanto all’altra; lui era minuscolo e magro, serio e blu oltremare,
lei era una vera e propria prateria – vedi i vestiti a fiori.
Quando mamma è morta, il partito ha lasciato a papà una settimana di lutto,
no no resti a casa, si organizzi, il partito la vuole solo se è operativo al
centodue per cento, ah ah. Quindi è restato e si è organizzato in vista della sua
partenza successiva. È stato previdente. Fin troppo. Ha chiuso le persiane e
fissato delle sbarre di metallo perché non le potessimo aprire, la sola finestra
che non era stata sbarrata era quella della cucina, che aveva inferriate e
zanzariera. Potevo scorgere, montando sullo sgabello, la terrazza e i cactus che
non avevano bisogno di cure. Potevo anche sporgermi sul bordo del lavello e
guardare fuori, con i piedi nella vasca dove l’acqua sgocciolava.
Il mio fratellino spuntava dalla porta della cucina, seduto sul triciclo, col
sorriso sulle labbra – c’ero solo io a essere convinta che si trattasse di un
sorriso –, e gli dicevo, sì sì tigrotto, sono ancora qui a guardare fuori, vuoi
venire?, allora con una spinta apriva del tutto la porta, si arrampicava sullo
sgabello e sul lavello, restava in piedi nella vasca più piccola e appoggiava i
gomiti sul davanzale della finestra, la testa fra le mani, e guardavamo insieme i
cactus e la terrazza, sperando forse in una libellula o in un gatto, io
accarezzavo la schiena di mio fratello facendogli circuiti col dito e
disegnandogli parole brevi o semplicemente lettere tra le scapole. Restavamo
così. Del resto, non c’era nient’altro da fare.

Samuel non riparla del bambino.


Credo che potrebbe riuscirci solo raccontandomi un sogno – inventato se
necessario – in cui io e il bambino avremmo una parte, in cui ci darebbe un
ruolo irreale, attraverso cui sarebbe in grado di riparlarmi del piccolo, tra di
noi solo il tavolo della cucina e le tazze di caffè, solo la radio in sottofondo e
questa estate di caldo torrido. Ma non gli è venuta l’idea o non ne ha il
coraggio.
Ritorno allo zoo per vedere i guardiani che bagnano la coppia di elefanti e
li spazzolano scambiandosi battute sul tempo o sul loro lavoro ma non sulle
ragazze, non è il luogo adatto. Nell’aria c’è una viscosità particolare, come un
sudore della terra, un odore di sale e di liquore, di piscio anche, profumi di
carne cattiva.
Mi piace così tanto il calore, quello che fa di me quando mi trasforma in
candela e sego. Il mio corpo è più presente d’estate, e quindi, siccome lo è
troppo, chiudo gli occhi a metà passando davanti ai vetri delle macchine e dei
negozi. A casa ricopro gli specchi perché sia visibile solo un pezzetto del mio
viso – mio padre ci proibiva qualsiasi relazione con il nostro riflesso, ci
obbligava a far pipì al buio e a lavarci con pochissima luce.
Perché i miei seni che si muovono sotto il vestito nero quando cammino in
questo viale dello zoo, perché i miei seni che palpitano sotto la pelle troppo
fragile e si sfregano al tessuto mi soffocano completamente e mi infondono
tristezza.
Yoïm è lì, seduto al bar dello zoo, sotto le acacie, io vado verso di lui,
finalmente, con questi seni che sospirano, vado verso di lui, è il momento,
seduto davanti alla sua birra, questa seggiolina verde foresta reggerà ancora,
seggiolina verde foresta, non cedere sotto il peso del mio amante, credo di
sorriderne, allora vado verso Yoïm, sento i pappagalli che litigano in
lontananza, e Yoïm abbassa il giornale e mi si raggela il cuore, ogni mio gesto
ha una lentezza da palombaro, i miei seni si pietrificano nel vedere le sue mani
così larghe, provo a calmare il mio mondo, provo a calmare le mie cose. E
dice, perché alla fine mi parla con questa voce che non sentivo da tanto tempo,
dall’epoca dei campi, da mio padre mia madre dal mio fratellino e dalla
Vecchia soprattutto, lui dice, anche per te?, e siccome io non rispondo perché
non capisco lui si rivolge alla cameriera e chiede due birre.
Appoggio i gomiti sul tavolo di metallo, poso la testa fra le mani e guardo
più lontano, guadagno tempo, mi è impossibile tenere gli occhi fissi sul viso di
Yoïm. Dico, per cosa sei venuto esattamente? Lui si mette a ridere e per
rispondere aspetta le birre e la cameriera. Esattamente?, ripete e ride ancora
di più, la sua carne trema, oh orso mio, mostro mio, lamantino mio. Accende
una sigaretta e continua, per riprenderti, mia bellissima, per riprenderti. E
smette di ridere e si sporge in avanti e io chiudo gli occhi per annusare meglio.
8.

Mio padre mi aveva lasciato delle consegne.


Avevamo da mangiare nel frigo e nella dispensa – roba in ghiaccio e roba
da scorbuto – quindi non dovevamo uscire, del resto le chiavi non ce le
avrebbe lasciate, in caso d’incendio potevamo aprire la porta, ma in caso di
inopportuno desiderio di fuga non avremmo più potuto chiuderla – mio padre
era incapace di immaginare che avremmo potuto scappare lasciando la porta
aperta, e comunque aveva lavorato su di noi per anni con un preciso lavoro di
persuasione, ma dove andreste poi?, aveva insistito così tanto sull’ostilità del
mondo e sulla cattiveria della gente che adesso gli bastava sottolineare i
pericoli ai quali avrei esposto un bambino di quattro anni che non parlava più.
Fate sempre molta attenzione, e non aprite per nessun motivo. Avevo
quattordici anni, non sapevo disubbidire, sarebbe stato penetrare in luoghi
sconosciuti, violare territori nemici, non sapevo cosa avrei trovato al di là
della terrazza e dei cactus, m’immaginavo svincoli autostradali, esseri umani
carnivori di tutti i colori, bambini armati, e ovviamente nessuno che capisse la
mia lingua, nessuno che mi desse da mangiare, lupi dappertutto lupi.
Mio padre quindi ci aveva convocati, il mio fratellino e me, al termine della
settimana di lutto e ci aveva fatti mettere ben dritti, mento in alto, ma alla fine
aveva congedato mio fratello che faceva dei rumori con la bocca e si grattava i
polpacci, le zanzare, capite, le zanzare. Quindi ero rimasta sola, sull’attenti,
davanti a lui, e lui aveva squittito, in caso di bisogno, in caso di malattia, in
caso d’incidente, in caso di fissione nucleare, in caso di nube tossica, puoi
chiamare questo numero, è quello della Signorina, ma attenzione, non bisogna
disturbare la Signorina per sciocchezze o malinconie, no, no, soltanto cose
serie, concrete, solide.
Se ne stava fermo di fronte a me il più dritto possibile, proprio accanto alla
finestra barricata, a recitarmi la sua tiritera, a parlarmi della Signorina – la
Vecchia –, benefattrice del partito, vegliarda inanellata che, ne ero sicura,
ballava la giga con la luna piena, e mio padre era lì, davanti a me, nella sua
uniforme ridicola, tutta lucida perché vecchia, la sua uniforme della
Wehrmacht scovata in qualche negozio di residuati militari che era gestito dai
giovani suonati del partito – persino mio padre li trovava un tantino degeneri,
ma comunque fungevano da braccio e da manganello. Lo guardavo nella sua
bella uniforme, mi faceva paura e anche un po’ pietà e continuavo a scandire,
sei solo una mosca uno scarafaggio una formica un ragno giallo, sei
insignificante, forse se mi concentro bene scompari, sentivo in fondo
all’appartamento il mio fratellino che faceva il motore del biplano – volare
via come no – e che aumentava l’intensità dell’elica quando passava dietro la
porta del salotto in cui ero stata convocata, ti non preoccupare, Lili, sono qui,
lontano sono non, e battevo piano i piedi, impaziente che mio padre se ne
andasse, agitandomi e dimenandomi, gomiti attaccati al corpo, pugni alle tette.
Mio padre non si è accorto affatto della mia impazienza – probabilmente avrà
pensato che avevo bisogno di far pipì e queste cose qua, ovviamente, non si
dicono, allora ha semplicemente squittito, riposo! E io mi sono girata, lui si è
seduto nella sua uniforme che brillava tutta lustra al giromanica, ben piantato
negli stivali, ma con lo sguardo un po’ lontano, per via della sua Prateria,
dell’attacco alla sua Prateria, era tutto solo adesso a fare la guardia ai piccoli,
ma sentendo all’improvviso il petto magro gonfiarsi al di là del suo
perdonabile scoramento, è il mio dovere, si diceva, e lui era un uomo di
dovere, un uomo che lo amava il dovere, lo apprezzava davvero.

So benissimo che rivedere Yoïm adesso, avvicinarmi così tanto, significa


ritrovarmi di nuovo satellite e perduta. È come lottare con le sabbie mobili,
più ti agiti e più ti tirano giù, ma mai, mai più in giù del petto, dopo averti
inghiottito a metà, ti stringono il corpo così tanto e così forte che muori
soffocato.

Dopo la partenza di mio padre ho pensato, seduta sul lavello, l’occhio sui
cactus, ho pensato che non sarei mai più uscita viva da quell’appartamento. Mi
sono detta, sei ancora piccola, ma non ne uscirai.
Allora ho organizzato il mio suicidio.
Avevo deciso di lasciare lì mio fratello, di non portarmelo dietro nella
morte, mi dicevo, finirà i biscotti, gli aprirò tutti i barattoli delle conserve e
potrà cavarsela finché non torna nostro padre. Ho preparato dei piatti e delle
ciotole di cibo nel frigo, ho tirato fuori i biscotti, ho aperto tutti i pacchetti –
non sapeva cavarsela tanto bene con le scatole –, ho disposto le bottiglie
d’acqua, suddiviso le scatole di cereali e le fette biscottate, costruito dei
piccoli mucchi di biscotti – a pile di dieci – e allineato le tavolette di
cioccolato per terra sulle piastrelle della cucina, l’ho fatto venire, gli ho
spiegato che doveva essere misurato, che non doveva abbuffarsi il mio primo
giorno di assenza – vago sguardo sospettoso del bimbo –, che avrebbe dovuto
regolarsi con parsimonia e che poi papà sarebbe tornato presto a riempire gli
scaffali, bastava che lui continuasse ad andare sul suo triciclo e a non buttare
tutto all’aria, gli ho consigliato di entrare in cucina solo per guardare i cactus
dall’alto del lavello e per sostentarsi, per il resto sarebbe stato meglio, mi
sembrava, allontanare il suo mezzo da luoghi di paura di confusione e di
troppo casino – ha sorriso, ve lo giuro, quando ho detto «troppo casino», per
via del divieto di usare quella parola e dell’enorme infamia di cui traboccava.
A questo punto, gli ho chiesto aiuto per il suicidio. Ha tenuto fermo lo
sgabello sul quale mi sono arrampicata per appendere una corda al lampadario
del salotto. Non ero molto sicura dei nodi che stavo facendo, stavo
organizzando la cosa alla bell’e meglio ma non mi ricordavo che si potesse far
cilecca impiccandosi – con le medicine sì, un’amica di mamma, anche lei
vilipesa da mio padre, era finita all’ospedale del quartiere e le avevano
ripulito lo stomaco (m’immaginavo con la candeggina), un’altra era rimasta
con delle cicatrici da guerriera nell’interno morbido dei polsi, ci buttavo
sempre l’occhio quando veniva a trovare mamma e beveva il caffè, mi
piazzavo di lato, un po’ indietro per non perdere di vista le tracce ancora
sensibili che la partenza improvvisa del suo indelicato amante le aveva
lasciato sui polsi.
Già a quei tempi mi immaginavo che avrei potuto morire d’amore per
qualcuno, ma non sapevo bene per chi e avevo paura che la mia vita sarebbe
stata solo un lungo cammino tra pietre che non avrei saputo evitare. Quelle
donne erano diventate le mie eroine e ancora di più lo è diventata mamma
quando ha permesso che il suo cuore e il suo cervello la colpissero e si è
abbandonata a tutti quei fiotti di sangue che le hanno inondato la testa.
Ho chiesto al piccolo se si sarebbe annoiato senza di me, lo guardavo
dall’alto dello sgabello, lui alzava la testa per guardarmi, con le due mani ben
salde sul seggiolino perché io non cadessi all’improvviso, sennò, tigrotto mio,
ho insistito, ti posso dissigillare la tv. La tv nel mobile era piombata come un
contatore del gas. Impossibile accenderla senza che nostro padre se ne
accorgesse – ma mi rendevo conto che sarebbe stato solo un dettaglio alla
vista del mio corpo che colava roba nera sul parquet stratificato del salotto di
papà.
Ha scosso la testa, no, no, non mi annoierò, e ha fatto un gesto con la mano
destra con una leggera torsione del polso, mi troverò qualcosa da fare, Lili,
non tu preoccupa. Allora mi sono chiesta se fosse il caso di lasciare un
biglietto, era una cosa fattibile e corretta, ci ho riflettuto e ho deciso di non
lasciare niente, alla fin fine sarebbe stato superfluo, e ho detto a mio fratello,
quando ti faccio segno spingi la sedia, mi sono messa la corda al collo e ho
tirato un po’ per testare e aggiungere un po’ di serietà alla mia impresa, ho
svuotato la testa di tutto quello che ci si azzuffava dentro e ho ripetuto solo,
voglio morire, voglio morire, voglio morire per favore, non so a chi mi stavo
rivolgendo ma mi sembrava più sicuro farne richiesta, voglio morire per
favore, insistendo sarei anche riuscita a farmi piangere, il mio fratellino
aspettava il segnale, concentrato, sopracciglio aggrottato naturalmente, labbro
inferiore tutto dentro la bocca, mi sono detta, sembra ancora un neonato, ma mi
sono ripresa, ho lanciato il segnale, il mio fratellino ha fatto cadere lo
sgabello, sono rimasta a penzolare un po’ nel vuoto, un dolore vivo alla gola e
alla nuca, poi ho sentito uno scricchiolio fortissimo e il lampadario si è
staccato dal soffitto ed è crollato con me sotto facendo un rumore di bomba, il
mio fratellino è saltato da una parte per non rimanere schiacciato e
all’improvviso per terra c’era tutto un disastro, io, la corda, il lampadario, lo
sgabello ed ero arrabbiata perché avevo sbagliato tutto, ero furiosa di non
essere stata capace di mettere fine ai miei giorni, non capivo più a cosa avrei
potuto attaccare adesso quella cazzo di corda, mi sentivo accecata, ho pensato,
bisogna che escogiti qualcos’altro, ho mandato al diavolo il mio fratellino che
ha battuto in ritirata verso la cucina e io sono rimasta seduta in mezzo al mio
disastro con questa corda che mi segava il collo e il ritratto di Dodolf che mi
stava a guardare, dall’alto della sua cornice dorata.

Mi dico, l’ho ritrovato, e quando mi siedo su di lui, quando sento il suo


uccello penetrarmi tutta e sollevarmi, mi dico, ma sì, è davvero lui, alla fine
l’ho ritrovato. E mi concentro su questo tempo già quasi del tutto perduto.
9.

Mi ripasso il vestito nero da sopra la testa, dimenandomi un tantino per


infilarlo, lisciandolo sulle anche e sulle cosce e guardandolo ricadere su di
me, così nero perfetto e intatto – come se non fosse successo niente in questa
stanza color malva. Immagino che lui resti sdraiato perché è costretto a
piegare il collo e a ingobbirsi per passare sotto il soffitto color malva; mi fa
segno di avvicinarmi. Si sporge per prendere i pantaloni da terra e toglie dalla
tasca tre pasticche, dice, da mandar giù la mattina, mia bella, solo la mattina.
E io tendo la mano verso di lui e apro il palmo aspettando che ci deponga le
tre pasticche – non sono affatto io a fare questi gesti, sto a guardare quella che
prende le pasticche e se le mette nella tasca del vestito, quella che è appena
andata a letto con Yoïm sapendo che è assolutamente vietato, e mi dico, eccola
che prende le pasticche, poverina, allora non sa cosa l’aspetta, mi dico, non mi
ascolterà, impossibile metterla in guardia e la sto a guardare e mi dico ancora,
è così carina con quelle ossa da cinciallegra e quelle caviglie e il petto, è così
carina, spero che non ci caschi, e mi chiedo, perché non gli domanda come ha
fatto a ritrovarla, forse immagina che le mentirà comunque, perché non gli
domanda niente, perché fa come se non l’avesse mai abbandonata nove anni fa,
perché non è arrabbiata. La guardo, questa signorina perduta, aprire la porta
della camera d’albergo e uscire in mezzo alle ondulazioni del caldo, in tutte
queste costellazioni di polvere che si depositano sul suo vestito nero e
penetrano fino al fondo nero della sua tasca.

Qualcuno ha bussato alla porta dell’appartamento barricato. Era la sera del


mio tentativo di morte per impiccagione. Io non ho sentito, è stato il mio
fratellino a venirmi a cercare, è arrivato sul suo triciclo, le sopracciglia
aggrottate – ma tutto il resto del viso smentiva questo aggrottamento perché ci
si leggeva una grande eccitazione da novità.
Ho guardato dallo spioncino salendo sullo sgabello. Era l’indiano che
viveva sopra di noi, il paki, come diceva nostro padre, il muso giallo, il poco
di buono – mamma li chiamava la bella famigliola indiana e aggiungeva, per
convinzione forse, ma soprattutto per infastidire papà, aggiungeva, io ci parlo,
sai, ci parlo con loro e sono davvero simpatici.
L’uomo luccicava leggermente nella luce della tromba delle scale, aveva
grossi occhiali di plastica come quelli che portano le suore – hanno tutte gli
stessi occhiali, economici e brutti, li comprano per corrispondenza da ottici
per suore, sono certa che non sono nemmeno adattati ai loro difetti di vista,
sarebbe troppo ricercato e comodo – ma su di lui erano rassicuranti, erano gli
occhiali di un padre di famiglia, un tassista, che se ne fregava che avessero
un’aria di malattia, un’aria repellente tipo labbro leporino, poggiati sul suo
naso grigio. Si è girato verso le scale che portavano di sopra e ha detto, non
c’è nessuno, un mormorio soffocato gli ha risposto e una voce più forte, più
bassa, che mi ha percorso la schiena, ha detto, vieni, risali, torniamo dopo.
Sono rimasta là dietro al mio spioncino a rabbrividire ripassandomi quella
voce, a non respirare perché nessuno scoprisse che eravamo rinchiusi là
dentro io e il mio fratellino, a torcermi per vedere per più tempo possibile il
padre di famiglia indiano coi suoi vestiti scialbi e un po’ stropicciati che
risaliva a casa sua portandosi dietro il mormorio soffocato e la voce bassa e
forte.
Sono rimasta a sospirare sul mio sgabello, a guardare quelle scale che si
coprivano di polvere e a sentire un immenso abbandono, con il petto infossato
che risuonava come un campanile, sono saltata giù dallo sgabello, sono
passata di fronte al mio fratellino che sembrava rattristato che non avessi
avuto il coraggio di aprire quella cazzo di porta – spioncini e chiavistelli,
sicurezza, catenacci e serrature, sicurezza –, sono tornata nel salotto dove
c’era ancora quel lampadario da ballo che giaceva a terra in mezzo a pezzetti
di vetro sparsi dappertutto, perfino tra i miei capelli, dei frammenti
scintillanti, ancora vivi forse ma per sempre disgiunti, vivete adesso le vostre
vite indipendenti, il mio fratellino magari era ancora convinto che si trattasse
di diamanti e li guardava col rispetto che si deve alle cose preziose, rare ed
eterne, e mi sono detta, comunque, bisogna che muoia prima del ritorno di
papà altrimenti mi massacrerà lui a badilate e per tutta la vita dovrò ripagare
questo bel lampadario di diamanti finti, inutile occultare il cadavere del
lampadario, sentivo dietro di me la voce del mio fratellino che avrebbe potuto
dirmi, non riparare si può?, allora gli ho risposto, papà sa sempre tutto, siamo
rimasti in questa oscurità benefica, seduti tutti e due a gambe incrociate per
terra per non rovinare le poltrone, sicuri dietro le nostre persiane, a guardare
quel monumento sepolcrale di falso cristallo e io soprattutto ad aspettare
muovendomi il meno possibile che il padre di famiglia tassista ridiscendesse
le scale e suonasse di nuovo alla porta del nostro bunker insistendo quel tanto
che bastava perché avessi il coraggio di aprire la porta.

Ci sono due punti esatti che mi bruciano – mi scaldano come materiale


radioattivo. È quello che mi dico tornando a casa e passando sotto l’acacia,
c’è il fondo della tasca dove le tre pasticche si scontrano nelle tenebre e c’è il
fondo del mio corpo, lì, esattamente tra le gambe, dove mi sembra di essere
stata tagliata a pezzettini, le ossa sbriciolate e indolenzite – le giunture che
s’inceppano – con questo liquido caldo che cola lentamente dal mio sesso,
impiastricciandomi le cosce e riversandosi da me come fossi un serbatoio di
sperma, sgocciolandomi lungo le gambe, fermandosi un istante nella piega del
ginocchio ma arrivando giù fino ai sandali, uscendo da me come sangue, anche
se mi sarebbe piaciuto tanto conservare tutto nel bacino del mio ventre, anche
se sorrido e intuisco il mio viso liscio e felice di aver scopato con Yoïm.
Sento il mio ventre caldo come un forno per il pane, resto all’ombra
dell’acacia e mi faccio scivolare la mano sotto al vestito per avvicinarmi
sempre di più a questo bruciare di mattone, gli avevo detto, fatti scopare con
la bocca, e sorrido perché so che lo stato di grazia mi abbandonerà presto, che
le pasticche e il cazzo di Yoïm mi tortureranno di nuovo e che qualcuno finirà
per chiedersi che ci faccio qui appoggiata a quest’acacia con la mano destra
premuta tra le cosce al centro del viluppo del mio vestito nero.
10.

Samuel è tornato, io mi ero cambiata il vestito. L’ho stretto tra le braccia


perché non mi abbandonasse – perché l’orribile ragazzina che non sono io ha
appena commesso l’irreparabile accettando di seguire Yoïm all’uscita dello
zoo, accettando di sedersi accanto a lui nella sua macchina a noleggio dove fa
un freddo da cantina e accettando di mettersi nuda e lasciare che la toccasse in
quella stanza d’albergo color malva.
Samuel mi parla ma io non ci sono per niente.

Stanotte mi alzo per guardare gli animali passare per strada. È esattamente la
stessa ora della notte in cui ho sorpreso la loro sfilata magica. Sono le 3.45.
Mi apposto alla finestra con un tè bollente, mi siedo su una sedia di plastica
bianca e aspetto. È di nuovo una notte d’estate picchiettata di stelle, non voglio
uscire in veranda, perché ho paura di essere fuori e di essere presa dall’odore
intenso della terra assopita e di non capire più niente e della possibile
presenza di Yoïm nell’ombra. Ma tutto rimane silenzioso stanotte, tutto tace,
tutto è di un’immobilità sovrannaturale. Gli animali non arrivano. Mi dico, è
normale, anche io farei così, non vogliono che li spii. Lascio che il mio tè si
raffreddi nella porcellana che tengo nel cavo delle mani. Sospiro languida
riandando con la mente alla notte magica degli animali magici, sospiro sulla
sedia di plastica, intravedo solo il pergolato al di là del giardino e le acacie,
tutte queste acacie sulla strada, resto ferma e trattengo il respiro e alla fine
cado dalla sedia di plastica bianca con dei luccichii davanti agli occhi e un
pulsare da bomba nelle tempie. Mi chiamo, povera ragazza, e torno a letto.

L’indiano tassista padre di famiglia era sceso di nuovo più tardi quella sera.
Doveva essere quasi buio e quando aveva bussato alla porta noi avevamo
interrotto la veglia al lampadario di vetrame scattando, io e mio fratello, ci
eravamo precipitati verso l’ingresso con dei rumori soffocati di zuffa. Io ero la
più forte, ero montata io sullo sgabello. Era proprio il tassista coi suoi
occhiali di plastica. Ma in fondo, sulle scale, c’era un altro uomo seduto, una
sorta di colosso mostruoso, un lamantino, mi ero detta, aveva cose d’oro
dappertutto, sui polsi sul petto le orecchie e le dita, e teneva stretta sulle
ginocchia una delle bimbe del tassista – volant rosa e pizzo. Portava degli
occhiali da sole, mi ero detta, è un tipo losco, fa buio in questa tromba delle
scale, mi ero ripetuta, è un tipo losco, ma non riuscivo a staccare lo sguardo
da quell’uomo. Alla fine avevo girato la testa verso mio fratello, aveva
quell’aria profonda e grave di scienza che hanno i bambini che non sorridono
né parlano.
In quel momento il telefono si era messo a squillare. E noi ci eravamo tutti
immobilizzati. Perché l’avevamo sentito tutti, i due uomini e la bambina rosa
delle scale, così come io e mio fratello.
Era nostro padre al telefono – durante la sua settimana di lutto efficiente,
aveva cambiato il numero di telefono perché nessuna delle amiche del cuore di
nostra madre potesse riapparire e accaparrarsi la nostra orfanezza.
Quindi era nostro padre al telefono.
Sono rimasta tesa, in un panico che mi rendeva statua, ho implorato con lo
sguardo il mio fratellino ma lui mi ha restituito lo stesso sguardo come uno
specchio. Squilla, ha detto il pakistano. Il colosso con la bambina ha risposto,
lo sento.
Allora sono scesa dallo sgabello e sono andata a rispondere in salotto, ho
scavalcato i frantumi di vetro e mi sono detta, che avrebbe fatto il vecchio se
non avessi risposto, sarebbe tornato? Ho afferrato il telefono e stritolato i
pezzetti di vetro. Sì? Il vecchio ha detto solo, ce ne hai messo di tempo. –
Stavo preparando da mangiare in cucina. – Va tutto bene? (E qui ho teso tutt’e
due le orecchie, una per sapere da dove stava chiamando mio padre, cabina
vicino all’autostrada, camera d’albergo con carta magnetica o stanzetta a casa
di qualche ospitale membro del partito, no, no, si accomodi nel sottoscala, è
vicino alla caldaia, ah, ah, starà molto bene; l’altro orecchio, il destro, il
migliore, per sapere se i due uomini e la bimbetta sul pianerottolo erano
sempre là, se potevano sentire il mio embrione senza vita di conversazione
telefonica.) – Tutto bene. – Non avete bisogno di niente? – No no. – Torno la
settimana prossima. Mercoledì. Porterò delle cose. – Ah? (Non capivo di cosa
parlasse.) – Come sta il piccolo? – Non parla. – Ah? – Sì. – Va bene, devo
andare. – Sì. – A dopo. – Sì. – Richiamerò. – Va bene. – A mercoledì in ogni
caso. – Sì, a mercoledì in ogni caso. (Io, su un piede, che tiro il filo, cercando
di vedere l’entrata della porta, intravedendo il mio fratellino arrampicato sullo
sgabello e sul grosso libro, l’unico di casa, che sbircia dallo spioncino
dimenando il suo culo magro di bambino nei pantaloncini di cuoio, io che
riattacco e filo verso la porta, determinata stavolta, che afferro il fratellino
alla vita per farlo scendere, che spingo col piede lo sgabello di formica blu
ceramica e il grosso libro e che sgancio slego svincolo sblocco questa porta
da rifugio antiatomico – costruitevi da soli un rifugio antiatomico nel vostro
giardino, no, no, non sulla terrazza, non c’entrerà mai con tutti quei cactus,
compratevi un giardino e installateci un bunker – e alla fine, in mezzo al
fracasso del metallo, apro la porta alla grande, e mi dico, ma casa nostra
puzza, allora puzza, c’è odore di muffa, di chiuso, di stantio, c’è odore di
respiro e di scorreggia, di cibo e di non pulito, mentre sul pianerottolo, Dio
mio, si sentiva odore di aperto e di aria e di curry e di candeggina al profumo
di fiori, si sentiva l’odore del tabacco e della sera.)

Yoïm mi ha raccontato che quando ho aperto il bunker e lui ci ha visto, a me e


mio fratello, il mio fratellino in tenuta tirolese con la riga da una parte, la
biondezza brillante e lo sguardo freddo come il metallo, e io in mutande, senza
gonna tirolese, sì in mutande, sì coi miei rami e le mie gambe e la mia
canottiera kaki macchiata e ancora coi pezzetti di vetro come dei brillantini di
quarzo tra i capelli, coi miei seni, i miei accenni di seno che spuntavano sotto
la canottiera kaki macchiata e il mio colore olivastro e i miei capelli neri tanto
quanto erano biondi quelli del piccolo, Yoïm mi ha raccontato che non ha visto
quasi nient’altro che me nell’ombra del corridoio, ha visto solo me che uscivo
dall’oscurità e ha pensato, che bomba.
11.

Mi piace la cittadina in cui abitiamo io e Samuel, perché ci sono uno zoo e un


centro commerciale, perché è lunga e si estende per chilometri di villini coi
giardinetti e le stradine e le siepi di rovi in fondo ai giardinetti, perché c’è
questa scuola in cui Samuel insegna e una stazione dove sua madre scende
quando viene a trovarci (col suo ombrello, sempre l’ombrello, e i denti d’oro
che brillano quando sorride, smonta dal treno e ringrazia come una duchessa la
persona che l’ha aiutata a scendere, è meravigliosa per dolcezza e garbo come
un vecchio monumento di buone maniere e ci aspetta sul marciapiede del
binario e quando ci vede si dirige verso di noi a piccoli passi, viene a trovarci
nel pomeriggio e la sera dorme a casa della sua vecchia amica Rose che abita
nella stessa città di me e Samuel, due piccioni con una fava, dice sempre lei,
mi piace molto quando lo dice perché lo dice sempre, ci parla del padre di
Samuel e della guerra – aneddoti che non mi danno nessun indizio per capire
di quale guerra si tratti –, si siede con Samuel a tavola davanti alla
portafinestra aperta sul giardino. Emana questo odore dolce e zuccherino e
sento che Samuel si annoia ma farebbe qualsiasi cosa perché la visita che lei
ci fa due volte al mese passi nella maniera più tranquilla possibile, Samuel
che ha un modo piuttosto elegante e affettuoso di annoiarsi. Come al solito
quindi la madre di Samuel ci parla della guerra e racconta che sua madre le
metteva dei nastri patriottici nei capelli e la lasciava sola tutta la giornata
mentre lavorava alla fabbrica di armi. Ci parla del negro che c’era al suo
paese – un uomo di colore, dice – e che lo trovava molto affascinante – deve
aver sognato di avere dei bambini meticci. Samuel commenta quello che lei
racconta e le ricorda dei dettagli che aveva dimenticato. Mi piace guardarli
scherzare. Samuel si versa ancora liquore di tiglio – del liquore di tiglio molto
vecchio, adesso non ci sono più tigli dalle nostre parti –, esitando un po’ e
perdendo il filo del racconto della madre all’improvviso, non rendendosi
neanche conto che la madre comincia a vaneggiare. Guardo Samuel che si
versa del liquore di tiglio, penso a mio padre che ne beveva sempre in certi
bicchierini di vetro spesso, in piedi, davanti all’angolo della porta della
cucina, alzava il braccio e buttava indietro la testa con un colpo secco,
ingoiando tutto in una sorsata seguita da uno schiocco del palato e bruciandosi
la gola con delizia, guardo Samuel bere e lasciare, nel frattempo, che la madre
così vecchia e così rugosa inizi pian piano a vaneggiare). Mi piace la cittadina
in cui abitiamo perché, in questa città, nessuno mi conosce e perché è molto
lontana dalla città in cui abitavo con mio padre mia madre e il mio fratellino, e
perché è molto lontana dalla prigione, perché è molto a sud, perché ci fa
questo caldo di gesso infuocato e perché ero stata sicura per molto tempo che
qui Yoïm non mi avrebbe ritrovata.

Il padre tassista si è limitato a dire, ma siete da soli?, e siccome né il mio


fratellino muto né io abbiamo risposto, ancora imbambolati da quel buon
odore di vita, ha aggiunto, ma da quanto tempo siete soli?, si è girato verso il
lamantino sulla scala e gli ha lanciato, non possiamo lasciarli qui. Voleva
convincerlo e rassicurarlo forse, prevenire i rimproveri e i «ma di che
t’impicci?» Io vedevo solo gli occhi del lamantino fissi su di me, la sua
enormità e il suo sudore, con il cuore in fremito per ogni cosa, e aspettavo che
si mettesse a parlare per ascoltare di nuovo quella voce cupa e bassa e forte. E
l’indiano tassista ha detto, volete salire?, ha aggiunto, ero sceso per portarvi a
vedere una cosa di sopra. Ma io non potevo rispondere occupata com’ero a
innamorarmi del colosso nell’umido di quella scala, ho sentito il mio fratellino
che pensava, sì sì possiamo restare per sempre? non voglio vedere papà più,
lui è cattivo ed è triste, il mio fratellino mi ha preso la mano ed è andato avanti
verso il signore indiano e quello ha sorriso come si sorride alle tortorelle che
ti mangiano nel palmo della mano; ho detto, ma non possiamo chiudere la
porta, e il colosso ha risposto, perché c’è qualcosa da rubare a casa vostra?, e
ha aggiunto più gentilmente, non prenderla a male, principessa, ridiscenderò
dopo con un lucchetto se non hai le chiavi di casa tua. Si è alzato, la piccola
rosa aggrappata all’avambraccio, è salito su per le scale coi suoi passi leggeri
leggeri (da svaligiatore di appartamenti), e noi l’abbiamo seguito, e l’indiano,
io sono il signor Dira, ci ha sorriso di nuovo e io ho salito quelle scale
tenendo forte il mio fratellino che continuava a non avere paura, ero a piedi
nudi, certo, e sentivo il freddo delle mattonelle sotto le piante dei piedi e
salivo seguendo le loro orme.
Il signor Dira mi ha portato nella camera di Hanif, suo figlio, e mi ha fatto
vedere sotto il tappeto il buco attraverso il quale potevo vedere il nostro
salotto (e del resto era magico poter vedere attraverso quello squarcio un
pezzo del parquet stratificato di papà e il luccichio delle schegge di vetro
nell’ombra). Tutta preoccupata per il lampadario scassato, non mi ero accorta
che alle mie perle scintillanti si mescolavano intonaco e calcinacci, non mi ero
accorta che avevo staccato un pezzo di soffitto. Ho avuto molta paura della
reazione di nostro padre, mi sono detta di nuovo, bisogna che io muoia prima
di mercoledì. Ho stretto la mano del mio fratellino dicendomi, ecco una buona
famiglia per adottarlo.
12.

Vado allo zoo, lo vedo seduto sulla sedia verde foresta e gli vado vicina
vicina per strofinarmi a lui. A ritrovarlo sempre così in mezzo al fruscio delle
acacie con i pappagalli poco distanti, mi sento diventare liquida e acida.
Lungo tutto il percorso prima di intravedere i suoi contorni, sento il sangue
caricarsi di sostanze piccanti e il sudore che mi si posa nel palmo delle mani e
naturalmente nell’intimità delle cosce.
Mi porta nella sua macchina ghiacciata e nella camera color malva,
costruisce attorno a me la sua barriera. Mi lancia delle occhiate rapide mentre
guida, occhiate furtive e viscide con le sue pupille da eteromane.
Quando me ne vado, ancora un po’ più prigioniera, mi dà tre pasticche che
caccio nelle tasche del vestito e prendo ogni mattina perché me l’ha chiesto
lui. Mi dico, sono delle schifezze, è tornato con le sue schifezze ma le voglio
sentire squagliarsi dentro, voglio assorbirle e sentirmi molle e dolce e bella
(lui che mi dice sei molle e bella e dolce e io che mi tolgo il vestito perché mi
veda nuda e perché voglio fargli vedere quanto sono molle e bella e dolce e
mi siedo su di lui e mi sembra che mi si stiano per rompere le ossa, e mi
sembra che il mio culo ardente non abbia fatto altro che aspettare, e poi che la
memoria mi parli delle sue mani e del suo cazzo).
Allora prendo le pasticche, gli arcobaleni e i miracoli, mi dico, traffica
ancora, andrà a finire che tornerò in gabbia, lui troverà una Vecchia e tutto
ricomincerà. Ma non ho paura, non ho più paura di niente.

Il signor Dira ci ha fatto entrare nella sua sala da pranzo, ci ha presentato alla
signora Dira e ad Hanif incollato alla tv, poi ha detto che il colosso si
chiamava Yoïm – stretta di mani, la mia mano madida abbandonata alla zampa
di Yoïm, io non lo so come si stringono le mani, so solo mettermi sull’attenti –
e la piccola Didi nei suoi pizzi che si nascondeva nel collo di Yoïm, lo adora,
dice il signor Dira, è sempre con lui, ho pensato, è come un badge, ho pensato
a una spilla.
Il nostro abbigliamento – fratellino muto in pantaloncini di cuoio coi ricami
edelweiss, e io mutande e canottiera militari – non sembrava disturbare
nessuno. La signora Dira ci sorrideva molto; ho avuto tanta voglia di piangere
e di tuffarmi nel suo sari e di raccontarle che sarei morta prima di mercoledì e
quanto mi mancava la mamma. Non l’ho fatto; ho avuto paura di spaventarli;
nel profondo c’era la voce di mio padre che mi ripeteva, non fidarti di quei
poco di buono, cercheranno di avere delle informazioni sul partito, e verranno
a cercarci nei nostri ritrovi e ci trascineranno sulla piazza principale e ci
bruceranno. Io non capivo neanche di che piazza parlasse, e non capivo
neanche di cosa stesse parlando, la voce di mio padre, era come un sottofondo
sonoro che strillava, vinile rigato, discorsi di Dodolf tramite burattinaio.
Credo che a un certo punto il signor Dira abbia detto alla moglie, sono i
figli del pazzo. Ma lei ha continuato a sorriderci nel suo sari che scintillava
come sabbia; la notte scendeva e lei è andata ad apparecchiare la tavola, ha
fischiato ad Hanif sempre incollato al suo schermo, colori a milioni, perché
andasse ad aiutarla. Mi sono detta, mangeremo con loro, ho sentito la voce di
mio padre dire, vi avveleneranno, loro mangiano i cani, vi drogheranno,
attenzione, attenzione (allarme rosso accompagnato da squittii), ma il mio
fratellino è andato a mettersi davanti alla tv e mi sono fidata di lui, del suo
istinto di piccolo roditore.
Il signor Dira ha detto, mangiamo sempre molto presto perché poi io vado a
lavorare, io ho detto, ah sì? molto educatamente. Mi ha guardato da dietro i
suoi occhiali di plasticaccia marrone, sono tassista di notte, mi ha informato.
Gli ho sorriso e mi sono detta, dev’essere pericolosissimo (mio padre
raccontava sempre delle storie di tassisti ammazzati selvaggiamente a colpi
d’ascia o strangolati con i lacci delle loro stesse scarpe e aggiungeva
sistematicamente, è per questo che io mi sono attrezzato, indicando col mento
il suo arsenale – in generale, mamma piangeva in cucina, l’astro del suo viso
rigato di lacrime che lei leccava quando arrivavano alla commessura delle
labbra, e io mi dicevo, papà è pieno di armi e mamma piange tutto il tempo, e
provavo disperatamente a mettere insieme gli elementi, a costruire qualcosa,
qualsiasi cosa, una torre o un ponte, con tutti quei cubetti multicolori, ma non
reggeva, non capivo niente dell’organizzazione del mondo).
Allora ho domandato, lei è armato?, e il signor Dira ha guardato la signora
Dira e Yoïm, è scoppiato a ridere, no, no, sai, non ci sono poi tutti questi
furfanti in giro. E ha aggiunto, su, mangiate con noi, scenderete dopo nella
vostra caverna.
Yoïm teneva la piccola rosa sulle ginocchia, il signor Dira faceva delle
minuscole strizzate d’occhio alla signora Dira che sorrideva sempre e io mi
dicevo, tramano qualcosa, ma mi sentivo così riposata all’idea di essere
arrivata in un posto e di mangiare qualcosa di diverso da uova e fette
biscottate e biscotti e patatine. Anche se qui c’erano troppo peperoncino e
troppe spezie; tutto questo cibo infuocato proibito mi faceva venire da
piangere. A un certo punto Yoïm mi ha guardato e ha chiesto, cos’è quel segno
che hai sul collo, principessa, mi sono portata la mano al collo e lui ha
aggiunto, non avrai mica provato a impiccarti al lampadario per farla finita?
La signora Dira ha assunto un’aria seria e ha fatto girare in ogni direzione i
suoi begli occhi di giraffa, e ha detto, non sei obbligata a rispondere. Ho
farfugliato qualcosa e sono arrossita e mi sono concentrata sulle candele e
sulla tappezzeria e sui centrini che ricoprivano ogni mobile.
Allora il signor Dira si è alzato, vabbè, io vado, e verso di noi, più
dolcemente, vi riaccompagno?, e ho pensato, non ci ha fatto domande, non ci
ha neanche chiesto dove erano padre, madre o tutori legali.
Al buco ci pensiamo domani, ha detto. Non ho capito di che parlava, mi
sono detta, mi perforerà la carne, vuole scavarmi per sapere tutto. E ha
cominciato a girarmi la testa. Sono ridiscesa col mio fratellino e siamo rimasti
di una tristezza assoluta, tutti e due, seduti nel salotto. Ci siamo coricati per
terra sotto al ritratto di Dodolf con dei cuscini e le ossa del corpo che ci
bucavano la pelle sul parquet di papà, ci siamo incastrati uno nell’altra, cane e
fucile, e io ho pianto, e mi dicevo, avrò lo stesso difetto di mamma, piangerò
tutto il tempo anch’io, la notte era scesa e io pensavo al signor Dira nel suo
taxi – ninnoli di plastica e musica di laggiù – e pensavo a Yoïm e non capivo
che c’incastrasse in quel quadro familiare, pensavo a Yoïm e mi sentivo
fremere.

È stato Yoïm a scendere la mattina dopo. Ha bussato e io ho aperto, ha


guardato lo stato in cui si trovava il salotto e non ha detto niente, riguardo a
Dodolf e all’arsenale – che solo in parte era appeso nel salotto sotto vetrine a
serratura multipla –, ha solo detto, bisognerebbe cambiare l’aria. È risalito ed
è tornato con del materiale per riparare intonaco, cartone e cartapesta (sono di
cartapesta le vostre cazzo di baracche quaggiù, dixit il mio eroe), ha
rattoppato il lampadario con fil di ferro e saldature, non era venuto fuori un
granché, sembrava una parrucca gigante dopo un elettroshock, ma lo stavamo a
guardare, io e il mio fratellino, e io sentivo il mio fratellino dire, è magnifico,
è forte, è più forte di me, è più forte di papà. Io mi sentivo fiera, come se Yoïm
fosse mio. Il suo sguardo mi faceva sculettare quando andavo in cucina a
prendere il ghiaccio, il limone e l’acqua del rubinetto. Abbiamo festeggiato il
risultato, se vostro padre non apre mai le persiane non si accorgerà di nulla,
siamo rimasti un attimo tutti e tre a guardare il lampadario, vi porterò delle
lampadine, e io mi sono detta, vorrà qualcosa in cambio del suo servizio, non
sapevo bene cosa dargli, mi arrovellavo, allora sono andata in camera di mio
padre, ho cercato tra la roba appesa e ho trovato i fucili e le granate e le
pistole e ho portato una bella pistola tutta nera a Yoïm, lui è rimasto a
guardarmi e ha solennemente accettato il pagamento, ha detto, bell’arnese, e mi
ha toccato i capelli e io ho guizzato come una trota in pieno sole.
13.

Finché c’era la mamma, papà è riuscito solo una volta a imporre una riunione
del suo comitato. Aveva detto, il partito viene a casa.
Aveva pronunciato queste parole una sera in cucina mentre io e il mio
fratellino cenavamo a tavola, mentre il mio fratellino tentava di non mangiare
il grasso del prosciutto – bisogna mangiare tutto quello che ti viene dato, pensa
ai bambini che muoiono, ai bambini in tempo di guerra, mangia tutto, anche
quello che ti fa schifo –, lasciando cadere a terra sul linoleum i minuscoli
pezzi di prosciutto in disgrazia, sparpagliandoli, spiaccicandoli con le
pantofole blu, tentando di farli sparire nel linoleum come se alla fine la
plastica marrone potesse inghiottirli al posto suo, assorbendoli come la sabbia
fa con l’acqua di mare. Gli facevo dei segni perché la smettesse; si sarebbe di
nuovo fatto beccare, nostro padre avrebbe urlato, l’avrebbe costretto a
mangiare solo grasso di prosciutto, croste di formaggio, cotenne di lardo e
bucce di mele, tutte cose al limite del mangiabile che facevano vomitare il mio
fratellino e impestare il suo sgabuzzino delle punizioni.
Mamma si è accorta dei traffici del fratellino, si è piazzata davanti alla
tavola per nasconderlo alla vista del vecchio e ha detto, come faceva sempre,
con molta grazia e stupore sincero, ha detto, quale partito?
Sono scoppiata a ridere nel piatto, ho fatto finta di strozzarmi per camuffare
la mia ilarità.
Poteva essere così sfacciata da chiedergli, quale partito?, mentre lui era là,
nel vano della porta, con la sua uniforme, senza stivali è vero, ma con la sua
uniforme, sempre pronto, sempre operativo – di notte dormiva accanto a lei in
uniforme, aspettava nelle sue insonnie che la sirena della caserma dei
pompieri risuonasse per chiamarlo immediatamente sui campi di battaglia,
aspettava la tromba del primo assalto, si spogliava un pochino, solo la parte di
sotto, solo il pantalone tolto, piegato sulla sedia, lucido, con la sua
brillantezza di filo vecchio?, impossibile saperlo, la camera dei genitori era
vietata, rigorosamente vietato l’accesso e soprattutto dopo il tramonto, ci si
chiudevano sempre tutti e due, mamma sospirava sempre, la sentivo
accasciarsi dietro la porta quando lui chiudeva a chiave. E io pensavo, sospira
perché, sospira di noia?
Quella sera, il vecchio non si è arrabbiato – puledrina mia, smettila di fare
la cattiva –, si è mantenuto stoico, ha spiegato di che si trattava, non saranno in
molti, ha detto, ma ci saranno degli alti dirigenti (tremito della voce, infinita
fedeltà) perciò bisognerà fare bella figura, vestire e pettinare i bambini, tenuta
da parata, trecce per la ragazza, riga da una parte per il fratellino.
Mamma ha ascoltato con calma senza muoversi, e quando saranno questi bei
festeggiamenti?, ha domandato e ha aggiunto, ed è in onore di cosa esattamente
che riceviamo tutti questi eroi nel nostro trilocale? Il vecchio ha assunto l’aria
addolorata, ribellione della puledrina, si è impantanato in una spiegazione, ha
detto, vengono a trovare ogni membro del partito, e poi questa volta sono io
che presento uno nuovo, allora vengono qui a parlarne, capisci. Mamma
capiva, ha tirato su col naso con leggero disprezzo e una sorta di afflizione –
lo sgomento da cui si sentiva paralizzata ogni giorno di più non aveva niente a
che fare con la paura, oh no, era l’insidioso parassitismo della sua tristezza. E
io ho pensato, ma perché non si rifiuta, perché non si oppone a tutte queste
storie. L’ho guardata, aveva un’aria così infelice.
Siamo rimasti immobili io e mio fratello fino all’uscita del vecchio dal
vano della porta – dai, ritorna alla tua poltrona di cuoio che scrocchia con
Dodolf fissato con le puntine sul parato e documentari di animali, antilopi e
grandi belve, alla tv. Quando è scomparso nel salotto buio abbiamo
ricominciato a respirare, io e il mio fratellino, era più forte di noi a volte,
quando c’era il vecchio trattenevamo il respiro – come per evitare danni,
inquinamento, contaminazione, cattivi odori – e ci guardavamo dritti negli
occhi. Finivamo per avere una terribile voglia di ridere. Le nostre facce
facevano smorfie, si contraevano, il fratellino alzava gli occhi al cielo, con la
bella pelle delle guance lisce che si gonfiava.
Poi il vecchio spariva e noi vuotavamo i polmoni.
Mamma mi ha detto, non posso chinarmi, potresti pulire le porcherie di
Lulù?, e ha accarezzato i capelli – le piume – del piccolo, e mi ha sorriso e
poi ha aggiunto, lo so io che gli preparo a tutti quegli schifosi. Il suo petto ha
vibrato sotto l’effetto della sua risata, io ero accovacciata sotto il tavolo a
passare un colpo di spugna per terra e vedevo il suo corpo come un astro e il
suo vestito a fiori, miliardi di fiori microscopici per ricoprire tutta la sua
ampia persona, e mi sono detta, i seni di mamma, credo che siano la cosa più
bella che esista, e mi è venuto da piangere a pensarci, accovacciata sotto quel
tavolo, perché, me lo ricordo molto bene, ho avuto paura che morisse; avrei
voluto metterla in guardia, dirle, mangia meno burro e panna, e budino, e torta
glassata allo zucchero, e dolci, mangia meno tutte queste cose, mamma,
altrimenti va a finire che ti ammazzano, tutte queste morbidezze al miele.

Nostro padre si era lustrato gli stivali, ci aveva fatto passare un’ispezione,
pettinando lui stesso il fratellino che piagnucolava dicendo, fa male, mentre il
vecchio gli incollava i capelli con la cera, e io accanto con le mie due trecce e
la mia magrezza da ragno (sì, ma un ragno molto carino, diceva mamma, un
ragnetto molto delicato, un ragnetto da sera), io che mi dicevo, non è grave,
comunque, moriremo tutti tra poco, non è poi tanto grave, e in mezzo al petto
un abisso insondabile che si riempiva solo quando sentivo mamma in cucina,
chiusa a tripla mandata, non si entra, non voglio nessuno tra i piedi, mamma
che cucinava con cura e preparava – una sorpresa – per tutti quei nazistoni del
partito di papà, che dei suoi preparativi lasciava sfuggire solo qualche filo di
profumo fantastico e rumori di alluminio e un canticchiare concentrato.
Il vecchio aveva il viso livido, il bianco degli occhi varicoso e le pupille
dilatate, era eccitato e ridicolo, mi sono detta, non dovrebbe farsi vedere
davanti a noi così terrorizzato, sghignazzavo dentro e senza rumore, il signore
perde la sua superbia, ammesso che ne abbia mai avuta.
E poi ha riecheggiato la prima scampanellata e la sfilata ha avuto inizio.
Sono arrivati quasi puntualmente a gruppi di due o tre, alla fine erano undici
di cui una donna – capelli corti, tipo insegnante di una piccola sezione,
scintilla folle negli occhi grigio-azzurri, era lei quella che mi interessava più
di tutti. Li abbiamo passati minuziosamente in rivista, io e mio fratello,
nascosti dietro lo stipite della porta di camera nostra, io gli descrivevo il
modo in cui erano vestiti, divisa, stivali e berretti, nostro padre li riceveva,
s’inchinava, farfugliava, al tempo stesso caloroso e servile, cortese e
compassato, dicevo al fratellino, vedi tutta questa gente, vogliono mettere
nelle camere a gas la metà del pianeta (sapevo che questo genere di frase
faceva il suo effetto, vedevo gli occhi terrorizzati e curiosi del bambino, si
immaginava un grande dormitorio senza finestre con delle enormi cucine, forno
aperto, sportello spalancato, che lasciava fuoriuscire con un sibilo il gas di
città che, in tempi normali, serviva solo a far bollire l’acqua e ad arrostire la
faraona).
Non mi ricordo di aver mai creduto alle fesserie di nostro padre – grazie
forse al dolce lavoro sovversivo di mamma. Allora passavo il tempo ad
agitare il sonno del mio fratellino e a mettere in ridicolo le ubbie del vecchio.
Spesso mi mettevo due dita sotto il naso come baffi e la mano appiattita bene
sulla fronte come ciuffo, e mi mettevo ad abbaiare come un cagnetto ringhioso,
il che faceva urlare dal ridere il piccolo che squittiva cantando, è Dodolf, è
Dodolf.
Si sono ritrovati tutti nel salotto, sedie rustiche e divani in cuoio che
scrocchia, intorno alla credenza, centrini, punto croce e punto passato,
paesaggi montani, qualche camoscio, si sono messi a parlare con voci serie –
gli uomini, sigaretta, aspettate, vi porto subito un posacenere, tirandosi su i
pantaloni per evitare di sgualcirli, il più vecchio che dice a mio padre, ebbene
dov’è la sua signora amico mio?, lui, il più anziano, gli occhi piuttosto
decentrati nelle orbite, i capelli radi, l’aria severa ma giusta, il capo, il
cervello; mio padre, sempre ossequioso, adesso arriva, adesso arriva, intanto
vi presento i bambini, chiamandoci, noi colti di sorpresa dalla fifa, che
arriviamo all’istante, sull’attenti, io che li guardo più da vicino, loro che ci
giudicano come al mercato degli schiavi, apprezzando, borbottando,
approvando, il capo che sorride addirittura di un contegno così fermo, approva
anche lui, cosa che sembra trasfigurare mio padre del resto, io che mi dico
all’improvviso, ho voglia di togliermi il vestito, questa camicetta, questi
calzini bianchi, e poi anche il mio intimo grigio, non intimo, mamma non
diceva intimo, no, canottiera e mutande, sì, ho voglia di mettermi tutta nuda e
vedere la loro reazione, indignazione, svenimento, palpitazione, erezione.
Eccomi tutta emozionata a immaginarmi queste cose mentre vengo valutata
da questi schifosi, mi dico, sei pazza, povera ragazza mia, sei completamente
pazza. Ho paura del tipo con gli occhi decentrati, stasera discuteranno
dell’arrivo di un novizio, un gran cretino senza famiglia a quanto pare, e il
capo con gli occhi sui bordi sentenzierà alla fine dell’incontro. Mi ripeto,
sentenzierà.
In quel momento arriva mamma e rompe l’atmosfera.
Non che si sia vestita in modo speciale per la circostanza; è sempre una
regina ovviamente ma ha tenuto il suo vestito millefiori e sorride, fascinosa,
batte le ciglia e fa moine, e io mi dico, che ci fa qui?, e all’improvviso vedo
cosa c’è sul piatto che porta, e al tempo stesso lo vedono tutti quei matti
intorno alla tavola, gli offre dolcetti orientali, insalate di ceci, kebab, pilpil e
merguez, carne di montone, tè alla menta in quantità, e delle meraviglie
speziate, dice, aspettate aspettate, non ho finito, esce e torna rapidamente con
dolcini al miele, corni di gazzella, biscotti cannella e zenzero, mi accorgo che
si è messa dei braccialetti e degli orecchini, mi dico, ora gli fa una danza del
ventre, e mi sa che hanno tutti paura, anche loro pensano alla danza del ventre
che lei potrebbe benissimo cominciare, allora mio padre interviene, dice, ma
insomma puledrina mia, poi resta muto un istante e dice un’altra volta, ma
insomma puledrina mia, mia prateria, poi si sblocca e la riporta in cucina, la
accompagna gentilmente fino alle sue stanze, la sento, nostra madre, che
protesta, e noi, io e il mio fratellino, sempre sull’attenti, persino io, coi miei
pensieri viziosi e la voglia di accarezzarmi il seno, restiamo tutti e due
immobili, le mani ben appiattite sulle cosce, il mento in aria e la travolgente
tentazione di raggiungere mamma in cucina.

Siamo stati congedati in camera nostra. Papà ha messo la sua musica sul
vecchio giradischi mono che gracchia, pompa e circostanza. Hanno passato
metà della sera a parlare, a fumare e a non toccare le delizie che aveva
preparato mamma. Probabilmente avevano lo stomaco in subbuglio, le budella
miagolanti di fronte alla fragranza delle piccole delizie d’Oriente, ma
impossibile per loro assaggiarle, impossibile persino gettare uno sguardo a
quelle meraviglie relegate sul tavolo grande, intarsi, sala da pranzo.
Mamma piangeva in cucina, come al solito.
Non era riuscita a strozzare neanche uno di quegli schifosi del partito, non
era riuscita a rovinargli la serata.
Alla fine, quando hanno cominciato a raschiarsi la gola e ad aspettare un
segno del capo occhi-negli-angoli per poter ritornare alle loro case artiglieria,
ai loro appartamenti depositi d’armi – con nascondigli per tesori di guerra,
magazzini in fondo al giardino riempiti di anticaglie SS –, il capo si è estirpato
dalla poltrona e ha dichiarato (l’abbiamo sentito, imboscati dietro la porta, il
fratellino che si dondolava piano contro il mio fianco, con Robert il facocero
infilato sotto l’ascella), ha sentenziato, dichiaro terminata la seduta, M.K.
sfortunatamente stasera non è riuscito a convincere nessuno della giustezza
dell’arrivo del giovane R., questo patrocinio quindi è rifiutato.
Nostro padre, M.K., è crollato ancora un po’.
I burattini, quella sera, se ne sono andati, inamidati e affamati, nessuno di
loro si è mai più fatto vedere e papà si è defilato per qualche giorno per colpa
senz’altro dell’umiliazione ma anche soprattutto per il tradimento della sua
puledrina.
Quanto a noi, siamo rimasti a casa e abbiamo aspettato, muovendoci il meno
possibile, che l’effervescenza delle molecole si calmasse, e che le cose dopo
la turbolenza riprendessero la loro immobilità primordiale.
Mamma avrebbe scelto di lasciare quel posto qualche mese più tardi,
mollando la presa, smettendo di lottare contro il suo corpo obeso che
ingrassava anche all’interno, così diceva lei sempre, il mio corpo non ingrossa
solo visibilmente, ma mi ingombra anche le viscere, mi comprime gli organi
vitali.
Quando ho cercato di capire perché ma perché avesse spento tutto, quando
ho cercato di decifrare segni premonitori e avvertimenti inosservati, sono
arrivata alla conclusione che la sua scomparsa era iniziata la sera dei burattini
mascherati.
14.

Quel giorno non sono andata allo zoo.


Dopo essere rimasta un attimo seduta sui gradini – sole che si alza sulle
case basse, formica che trasporta quarantacinque volte il suo peso con le sue
zampe di formica, sfavillio di uccellini e agitazione molle e indolente di
particelle – ho deciso di passare a trovare Samuel. Mi sono alzata e ho
guardato il posto in cui abitiamo, ho provato a dirmi, è la prima volta che vedo
questa casa, che ne penso?, ma vedevo solo pannelli di legno e vetri, non
riuscivo a percepire lo spirito della casa. Ho sentito la corsa precipitosa di
una nutria sotto la veranda, mi sono accovacciata e ho intravisto due occhi a
specchio che mi scrutavano dalla sua oscurità terrorizzata, le ho fatto un
piccolo gesto con la mano sinistra per farle sapere che me ne fregavo che una
nutria abitasse nei sotterranei intermedi della mia vita. Sono risalita sulla
veranda e mi sono preparata – vestito rosso e turbante, pantaloni sotto il
vestito, tutto bene al caldo, ben protetto, niente sotto i jeans ovviamente per
poterci infilare la mano in caso di malinconia. Ho preso i sandali in mano per
poter guidare scalza, sono uscita – l’aria fresca molto umida del lato in ombra
del giardino – e sono salita in macchina.
Ho attraversato la città – la città bassa e lunga e lampeggiante anche in
pieno giorno, i pannelli pubblicitari che girano con la loro tetra lentezza, i
pedoni che camminano come comparse in un film, il sole già alto nel cielo
d’alluminio, il calore quasi rumoroso, attraverso la città, soprattutto guardando
soltanto la strada, per non rischiare di vedere Yoïm che fuma e prende il caffè
in piazza, soprattutto per non incontrare la sua macchina cantina, per
continuare lentamente, sempre con la stessa andatura, verso la scuola di
Samuel, molto a nord, all’estremità nord, subito prima che la città cada nelle
distese desertiche di Marte (periferie, zona commerciale, interessanti
situazioni di insediamento, tipografie e sfasciacarrozze, rotonde in mezzo al
nulla e, più lontano ancora, collina, sabbia, pietra, roccia, sassi a miliardi, è
possibile la presenza di acqua?).
Concentrata sui miei tre centimetri quadrati di visione, sono arrivata fino
alla scuola – prefabbricata, di cartone del cazzo, direbbe Yoïm, di fuscelli di
legno, in caso di terremoto cadrebbe senza neanche sollevare un po’ di
polvere, sparirebbe per meglio dire, è solo carta e un po’ di colla –, hibiscus
rosa per dare un po’ di colore e posti numerati per darsi un’aria seria.
Ho parcheggiato la macchina accanto alla bici di Samuel e ho fatto il giro
del fabbricato, sono rimasta nascosta dietro un arbusto e l’ho visto in una sala
davanti ai bimbi riuniti.
E lì, ecco, mi sono trovata proiettata più lontana, alla prigione, direttamente.
L’ho rivisto che veniva a farci visita e a dare lezioni di disegno ai cattivi. A
me interessavano solo i suoi occhi dolci, restavo tutta chiusa, il corpo in
battaglia ma mi tenevo i suoi occhi per la sera – nella mia cella con le altre
due pazze, cretine e puttane, puttane cattive, non quelle che gli uomini sognano,
le puttane madri e vergini, spalle consolatrici e petto stessa funzione, no, no,
piccole puttane malvagie con certe unghie lunghe assassine portatrici di
miasmi, piccole puttane che sbraitano e ti pizzicano la carne e la pellaccia.
Allora ovviamente la sera sulla mia branda per non ascoltare i loro televespri
che urlavano insulsaggini anestetizzanti fino alle dieci, pensavo agli occhi di
pelliccia di Samuel – non a Yoïm ovviamente, troppo pericoloso, tutti
cercavano di levarmelo dalla testa, perciò da brava allieva, docile come sono
in fondo, facevo di tutto per non averlo in mente, per non averci il pensiero
fisso, lo rimpiazzavo con gli occhi del mio visitatore settimanale, era lui la
mia posta, il mio oroscopo, il mio colpo di telefono al mondo esterno, era
Samuel incollato a piccole tessere di puzzle sul poster a grandezza naturale di
Yoïm, il mio unico.
Mi era tornato tutto all’improvviso, la prigione, i topi, il rumore del ferro e
il suo odore e le puttane cattive della mia cella, le urla nere nella notte e Yoïm
lontano fuori da qualche parte che mi aspetta ne sono sicura ma bisogna che
me lo faccio uscire dalla testa e dagli occhi e dalla pancia perché va a finire
che si metastatizza là dentro. Estirpatemelo dal corpo – con l’elettroshock, coi
cibi insipidi, la disciplina, il servizio militare, e il partito che diceva, le
prigioni sono degli alberghi, hanno la televisione e il riscaldamento, ma
andateci allora nei campi femminili, andate a vedere che ci succede e in alto i
cuori, ohilì, ohilà, pigliatevi le nostre malattie, le nostre verruche, le nostre
cancrene, inferno e dannazione, oh sì, mi ricordo benissimo del dolore di
sapere Yoïm là fuori e di intuire che non stava facendo niente per farmi uscire,
che stava fuggendo piuttosto, il più velocemente possibile per non essere
catturato anche lui, che comunque mi avrebbe venduta se ci fosse stato un
acquirente, che stava facendo di tutto per imbarcarsi su un cargo e allontanarsi
da me, ora che ero impiombata in questo campo per donne. Mi aspetti, Yoïm,
dimmi, mi aspetti, ma c’era solo silenzio a rispondermi, Yoïm non si era mai
più fatto vivo – avrebbe potuto venire in parlatorio travestito, mascherato da
vecchia signora, da zio benevolo, da predicatore. Ma niente di tutto questo.
Yoïm non si è mai più fatto vivo e oggi sono accanto al mio Samuel, imboscata
dietro al cespuglio e ai fiori rosa, a guardarlo muoversi in questa luce che mi
penetra l’occhio in bruciature successive, lo vedo che parla ai bambini, vedo
la grazia dei suoi gesti e delle sue mani, lo vedo che mima e sorride e mi dico
ancora, che meraviglia che è quest’uomo.
In quel momento sento che mi gira la testa – il marciapiede di una stazione
che si allontana prendendo velocità – e non so più se per colpa di questo sole
che cade a piombo, delle tre pasticche del mattino che mi rendono languida o
di questo eccesso di scopate a cui ho abituato le mie carni, allora mi
accovaccio e mi tengo all’arbusto – ragni rossi e tele lanuginose, odore
appena un po’ acre di piscio di topo – e resto così in una felicità relativa,
separata da Samuel solo da un tramezzo di carta.
La prigione mi torna un’altra volta, ma adesso non temo più le vertigini,
sono a due centimetri da terra, posso anche cascarci, andare giù lunga, sarebbe
quasi piacevole. Avevo sedici anni e a volte mi sentivo così abbandonata che
avrei rivisto con piacere papà e la sua collezione di elmetti a punta – ho anche
un paio di stivali delle SS, in perfetto stato, quasi mai utilizzati, ah ah. Non
sapevo esattamente dove si trovasse la prigione, è arrivato Samuel con una
cartina e me l’ha fatto vedere, ero totalmente assorbita dal suo sorriso e dalla
grana della sua pelle – quadrettatura e rughe fini, perfetta disposizione di
verticali, orizzontali e curve –, ha alzato la testa da quella cartina, mi ricordo,
parlava senza sosta perché non voleva che quella ragazza di sedici anni lo
turbasse così, mi sono sentita molto rassicurata, lui ha avuto un leggero
balbettio e ha detto qualcosa di cui si è pentito subito dopo quando è tornato
nel suo appartamento in città, tv e whisky, tavolino Noguchi e libri, ha detto,
sai, possiamo provare a farti uscire da qui. Io ho scosso la testa calcolando
molto precisamente il modo in cui i capelli mi scivolavano sulle orecchie, no,
ho mormorato, credo che non sia possibile.
Allora sento la campana suonare, la campana della scuola, mi apre una
breccia tra gli occhi, mi rialzo e mi spolvero, vacillo un attimo – sono le
pasticche, è sicuro adesso – e vado all’ingresso, il custode mi sorride,
soddisfatto della sua autorità bonaria di custode, scuote persino la testa per
dirmi, va bene può passare, mi piacerebbe accennare un valzer con lui, mi
prudono le gambe, ma no, mi trattengo, mica sei in un musical, che diavolo, e
mi dirigo mezzo svolazzando verso la stanza di Samuel che sistema le sue cose
ancora con uno o due passerotti accanto. I passerotti si disperdono, posso
avvicinarmi, Samuel?, alza la testa e io misuro finalmente la gioia che ha di
vedermi, vado verso di lui, mi prende la mano, non vuole abbracciarmi qui,
buongiorno, dice – e ancora una volta lo trovo incredibile, Samuel mi dice
buongiorno anche se mi ha già visto stamattina, forse non è il vero Samuel,
provatemelo, dite qualcosa che sia nostra intima, che nessuno a parte Samuel
potrebbe sapere, ma mi correggo, non devo mai dimenticare che Samuel, la
sera, prima di addormentarsi accanto a me, quando mi accarezza i capelli e
comunque non sembra uno pronto a battersela, Samuel mi dice, arrivederci, e
poi non so che succede, ma lascia il suo corpo, è sicuro, abbandonandolo alla
mia destra; il resto di ciò che lo compone se la svigna per la notte molto
lontano o molto al disopra delle sue spoglie, è per questo motivo che assume
sempre un’aria seriosa un po’ goffa per dirmi arrivederci e mai buonanotte.
Sono venuta fino da lui per accertarmi di qualcosa, mi sembra, per chiedere
aiuto o forse l’autorizzazione a continuare la mia tresca con Yoïm. Non lo so
con esattezza. Lo prendo per mano, cosa che non lo mette affatto a suo agio. E
usciamo nella luce brutale di questa mattinata, lui fa una pausa nel momento
della ricreazione dei bambini, sgranocchia una barretta vitaminizzata – il mio
corpo così non si ossiderà – e mi dice, stasera passano Ben e la sua ragazza,
ha l’aria imbarazzata, forse per via della commedia che gli abbiamo recitato la
volta scorsa – bella coppia con bambino in arrivo –, ci penso io a
rassicurarlo, ora che siamo seduti su questa panca all’ombra degli hibiscus, mi
sa che gli dico, vieni a scoparmi in macchina. Ma in effetti, no, niente affatto,
non dico niente. La cosa mi diverte e allora comincio questo giochino, Yoïm è
tornato, gli dico in segreto, era così tanto che l’aspettavo, Samuel continua a
mangiare le sue barrette dopate guardando lontano, perciò continuo la mia
confessione, è proprio quel Yoïm là sai, con le pasticche di Hyper-G e lo
stesso uccello storto, ho voglia di spiattellare delle assurdità, ho l’impressione
che sia pericoloso, che da un momento all’altro non sarò più in grado di
distinguere tra quello che penso e lascio affiorare sulle labbra e quello che
dico davvero allora vado, sfuggo al controllo, gli tiro fuori i miei orrori – una
storia di sodomia un po’ fumosa – e Samuel si lecca le punte delle dita e si
sporge per buttare gli incarti nel cestino di metallo accanto alla panca. Mi
sorride e io penso, che innocenza perfetta, restiamo così un momento, con gli
occhi perduti, addossati alla costruzione di carta stile scenografia di
Hollywood, lui dice, è accecante tutta questa luce, poi si gira verso di me, mi
fa piacere che tu sia venuta a trovarmi – Samuel dice spesso delle cose con un
buffo tono ufficiale, che mi lascia sempre perplessa e certe volte mi spinge a
guardarmi alle spalle per essere certa che quelle varianti di intonazione non
siano indirizzate a un’altra compagnia.
Sulla strada del ritorno, mi sento mostruosa e piango e piango e mi
domando, da dove viene tutta quest’acqua che scorre da me, e piango per
Samuel e singhiozzo senza fine in questo mezzogiorno che brucia. E voglio
mortificarmi, mi piacerebbe mortificarmi, per via dell’infinita benevolenza di
Samuel e di quello che mi conduce malgrado tutto verso Yoïm – ecco, è
questo, sono un piccolo robot obbediente che avanza con cigolii e stridii ma
che avanza comunque verso il suo signore e padrone.

Sono tornata a casa nostra, sono rimasta seduta al tavolo della cucina
appoggiando le mani ben piatte davanti a me tentando di chiarirmi le idee. Era
impossibile, ero intrappolata nella melma del sopore, le pasticche mi
impedivano di allineare i pensieri coerenti, li vedevo evadere, fugaci, li
vedevo saltar fuori da me e non riuscivo a farci niente. Me ne andrò con
Yoïm?, sono riuscita a pronunciare. Sono riuscita a dirlo a voce alta e la mia
voce mi ha spaventato, in equilibrio sul bordo del sonno. Mi sono dilettata un
istante con questo sogno – con Yoïm a scopare per sempre e a seguire i
controviali in una macchina gelata. Mi sono detta, bisogna che smetta di
prendere le pasticche, mi annebbiano tutto. Allora per punirmi mi sono
immersa di nuovo nei miei ricordi dei campi, potevo farlo, inutile avere
pensieri chiari e connessioni a posto, potevo tornarci anche solo dicendo,
prigione, si materializzava allora tutto il resto – avevo anche la possibilità di
scegliere una scena particolarmente umiliante o violenta: la stronza puttana
rossa che mi pesta e mi violenta con una bottiglia di Coca –, facevo smorfie e
mi mettevo a sudare e tentavo di scappare ma mi tenevo salda con le mani e
continuavo a infliggermi questi terrori. Ne uscivo sfinita.
15.

Quando mio padre è tornato, oh sì, quando è tornato, noi ce n’eravamo già
andati, io e il mio fratellino, certo non i nostri corpi docili che l’hanno accolto
ancora una volta, tutti e due prostrati in cucina con la paura che vedesse il
lampadario, no, non i nostri visi e i nostri piedi sporchi e il nostro odore di
sottobosco – letame e porcile. Ma io tutta intera nella voce magnifica e bassa
del mio quasi amante e il mio fratellino così lontano dalle contingenze, così
pronto a sopravvivere solo con due biscotti secchi al giorno e un po’ d’acqua
del rubinetto, così assorbito dalla sua perdita assoluta – la Prateria –, oh sì,
mio padre è rientrato e ha trovato due piccoli fantasmi, io occupata a
percepire i rumori da sopra, intenta a sentire i passi di Yoïm, rammentandomi
le cene al curry con la famiglia Dira e soprattutto la sua voce che mi diceva:
niente sciocchezze, mia bella, niente medicine, niente taglierini né coltelli da
pane, niente idraulico liquido, non ti sporcare principessa, ci sono un sacco di
cose da fare qui. E l’ho sentito camminare sopra la mia testa con scricchiolii
di assi sconnesse, parquet imbarcato, ho avuto all’improvviso delle
prospettive, mi è sembrato possibile sopravvivere ancora all’internamento,
sono proprio qua sopra, mia bella, cammino sul tuo soffitto, ascoltami,
ascoltami allora se il tuo vecchio ti fa la predica o ti inghiotte, io sono qui,
proprio qua sopra. E le sue mani erano già sui miei fianchi e sulle mie chiappe
e io dovevo avere uno sguardo di sottomissione esemplare, mi sentivo
sciroppo.
Il vecchio è tornato con la sua uniforme e la valigia di metallo, aveva l’aria
stanca, bloccato dall’artrite e dai pensieri tristi, ha preso una sedia ed è
rimasto in cucina con noi, mi ha fatto segno di servirgli un bicchierino – vodka
liscia, etichetta del partito, addizionata di un goccio di liquore di tiglio
vecchissimo per dargli l’amaro –, in genere si poteva percepire l’intensa
soddisfazione che provava nell’avermi addomesticata, ma in quel momento no,
niente, giusto il suo abbattimento, mi sono detta, ho ancora paura di lui? Ha
agitato le dita per indicarmi di servirlo di nuovo, l’ho fatto tenendomi a
distanza – temendo che mi picchiasse la coscia o mi prendesse per la nuca
stringendo troppo forte, non sono un coniglio –, ho detto, il telefono non
funziona, ma aveva già bevuto così tanta vodka che non ha fatto caso alla mia
osservazione, mi sono girata di nuovo sul mio sgabello e ho smesso di
dondolare le gambe, un leggero vento passava attraverso la zanzariera.
Ci trasferiamo, ha detto.
Piombo fuso tra le costole. Mi sono sentita implodere come un televisore
con un delizioso rumore cristallino di polvere di vetro. Il fratellino ha detto,
no no no possibile non è, credo che pensasse alla Didi rosa con la quale
giocava a carte tutto il giorno, con la quale colorava, faceva i puzzle e andava
in triciclo, con la quale teneva lunghe e mute conversazioni – il signore e la
signora Dira erano entusiasti dell’intesa silenziosa che c’era tra i due bimbi.
Ho guardato mio fratello, i suoi occhi erano sconvolti, torceva la sua bella
bocca e prendeva un’aria terrorizzata, sapevo che avrebbe voluto uscire dalla
stanza ma non osava, c’era il rischio che mio padre si mettesse a urlare, lo
prendesse per il collo della camicia sudicia e lo sculacciasse. Allora è
rimasto completamente immobile, tetanizzato, la mano sul lavello, le gambe
incrociate premute una contro l’altra, gli scapperà la pipì, mi sono detta.
Il partito ci ha trovato una casa nuova, ha detto nostro padre.
Ho avuto voglia di urlare.
Preferivo restare in quell’appartamento scuro con la terrazza in cui non si
metteva mai piede e i suoi cactus tetri.
Torno tra un mese, resto una settimana e traslochiamo.
Allora a quel punto, ovviamente, ho ripensato alla mia possibile morte, mi
sono detta, bene, mi servirò delle armi di papà, anche se la P38 mi faceva
paura, l’idea di mettermela in bocca mi gelava, sarebbe stato, mi sembrava,
come ingoiare una piccola bomba e aspettarne l’esplosione e gli effetti funesti
sugli organi, avevo paura di sparare e di mancarmi, di ritrovarmi con una
grossa parte di cervello danneggiata e bruciata, più dipendente e più
prigioniera che mai, cavolfiore a vita, e papà che mi viene a trovare
all’ospedale, non capisco, aveva tutto per essere felice, e le infermiere che
guardano la sua uniforme e il basco che tiene ben stretto contro il petto e si
dicono, chi è ’sto matto?
Ho chiesto il permesso di uscire dalla cucina, mio padre me l’ha accordato,
ho preso per mano mio fratello che pensava a Didi e mi inviava dei segnali di
soccorso, l’ho portato via, sono andata in camera nostra, ho chiuso gli occhi e
cercato di non sentire il momento in cui nostro padre sarebbe entrato nel
salotto e si sarebbe reso conto delle nostre violazioni.
Ci aveva portato marmellata, pretzel, chincaglieria del Terzo Reich (spille e
ciondoli), birra e un aereo da guerra per il mio fratellino.
Ha detto, ma cazzo, vieni qua, che è successo al lampadario?, io sono
arrivata, sull’attenti, col cuore in gola e il fiato corto, non so bene, una mattina
ci siamo svegliati ed era così, credi che qualcuno sia potuto entrare nel nostro
salotto in piena notte senza farsi sentire?, mi ha guardato con un occhio da
orata morta, che mi stai raccontando?, ma aveva bevuto talmente tanta vodka
che faceva fatica a seguire il filo dei pensieri, e poi il mio fratellino è arrivato
in salotto col suo nuovo aereo da guerra e papà è rimasto incantato, e ci ha
tenuto a fargli una cronistoria dell’aereo in questione, mio fratello ha fatto
finta di interessarsi, non preoccupare tu Lili mia, e il vecchio si è dimenticato
che avrebbe dovuto torchiarmi per avere la spiegazione dell’enigma del
lampadario. Sono rimasta immobile e ho guardato il mio fratellino eseguire
dei looping col suo aereo da caccia finendo immancabilmente per farlo
schiantare sul parquet, accompagnando la tragedia col rumore caratteristico
dell’aereo in picchiata, il rumore della caduta libera – documentari in bianco e
nero su un canale tematico, cinegiornali d’epoca. Mio padre l’ha osservato,
inebetito, tentando comunque di proseguire la sua lezione di storia, sedendosi
su una poltrona da fantasmi ricoperta di lenzuola bianche per far fuggire la
polvere e tentando ancora laboriosamente di riportare ordine nei suoi pensieri.
Alla fine mi sono eclissata ancora prima che mi dicesse di rompere le righe.
16.

Il lunedì prima del ritorno di papà, io e Yoïm eravamo seduti sulla terrazza dei
Dira – niente cactus, ma delle biciclette, una parabola, delle scatole, un
minuscolo angolo con l’orto e dei giocattoli di plastica orbi. La sua vicinanza
mi rendeva elettrica – avevo l’impressione di produrre minuscole scintille
sulla superficie della pelle, sotto la canottiera, sulla punta delle dita dei piedi.
Lei abita sempre a casa dei signori Dira?, gli ho chiesto molto
educatamente. (Era fuori discussione dare del tu a un adulto.) Lui si rollava
delle sigarette sbriciolandoci dentro una polverina bianca, non mi piaceva
vederglielo fare, mi sembrava che mio padre avrebbe potuto apparire
brutalmente come un vapore di genio dentro una lampada a olio e che avrebbe
fatto volare in frantumi il fragile equilibrio di quel momento. Yoïm ha guardato
lontano, ha gettato uno sguardo alle sue spalle, forse per assicurarsi che
nessuno ci sorvegliasse, e mi ha appoggiato l’enorme mano scura sulla coscia,
ho chiuso le ginocchia, mi sono detta, oh farò delle macchie dappertutto su
questo sgabello di legno, il mio culo diventava liquido, mi dicevo, non è
possibile, sarà sangue, mi sono detta, se continua così svengo, lui ha lasciato lì
la mano e mi ha raccontato il suo incontro col signor Dira, io non sentivo più
niente, indemoniata com’ero dalla sua mano che mi bruciava e dall’umidità
della mia carne. Sono tornata poco a poco in me. Lui diceva, eravamo molto
giovani, Dira era appena sbarcato – e io che mi dicevo, rischio l’asfissia,
deve togliere quella mano –, ci siamo ritrovati nello stesso centro
d’accoglienza per giovani lavoratori – si è messo a ridere, credo che siano
state le parole giovani lavoratori ad aver provocato quell’ilarità –, all’epoca
campavo di piccoli affari e organizzavo delle scommesse nelle camere, delle
scommesse a carte o a dama – io ho pensato a mamma che piangeva sempre, al
suo dolore per quello che stava diventando suo marito, le chiedevo, ma,
mamma, quando l’hai incontrato, non era così?, e lei che gli stirava le camicie
e mi diceva, no no, era così vulnerabile, così tenero e così infelice, e io che
non riuscivo a immaginare niente di tutto ciò, lei aggiungeva, oh comunque,
c’era sì qualcosa che non andava, aveva le sopracciglia che si toccavano, è
segno di gelosia, sai, di gelosia e di mi-san-tro-pia –, Dira non parlava una
parola della nostra lingua, era una caricatura di indiano in salsa tandoori, l’ho
aiutato, capisci, a trovare il suo posto – Yoïm rideva ancora, non volevo
ascoltare quello che raccontava, non facevo altro che ascoltare mamma che
singhiozzava e rifiutava che papà la chiamasse Eva B., era l’ultimo capriccio
del vecchio, mi diceva, nell’intimità mi chiama Eva B., non è più possibile,
Lili mia, non è più possibile, micina mia, e ci stringeva tra le braccia a me e al
mio fratellino, io riflettevo e mi dicevo, nell’intimità, vuol dire quando si
ritrovano in camera loro e lei si toglie il vestito a fiori, ma nel frattempo Yoïm
continuava –, gli ho procurato dei documenti, non era poi così difficile, siamo
diventati inseparabili, mi ha portato dei polli per le scommesse, dei polli
freschi freschi di sbarco, ma lo faceva del tutto in buona fede, senza sapere
che io spennavo tutti – rideva molto forte –, il paparino Dira, è un brav’uomo,
te ne sei accorta no?, con un cuore così – gesto eloquente –, è un vero buono –
allora mi sono detta, e papà che cos’è, un falso cattivo? –, e poi sono sparito
per un po’ – ha assunto un’aria pensierosa, mi sono detta di nuovo, mi sa che
sto per soffocare, avrò ingoiato una vespa; Yoïm si è girato verso di me – ti
annoio? –, io non ho potuto rispondere perché mi mancava il respiro, allora ho
fatto no no, con le labbra senza che uscisse alcun suono – adesso sono tornato
nei paraggi, e aspettando che due o tre affari si sblocchino, resto con loro, per
me sono come una famiglia capisci, sono davvero come la mia famiglia – di
nuovo, ha guardato lontano, sole della sera, riflesso rossastro delle finestre di
fronte, c’era un odore di polvere, di sospiro della terra, di brevi esalazioni del
suolo, c’era un odore di carne e di cottura, un odore di cipolle fritte, era il
crepuscolo, mi sono messa a pensare alla cucina di mamma, al brodo della
sera e al crepitio dell’olio nella padella di ghisa, mi sono sentita triste e triste
di aver perso tutto ciò, qua tutto sembrava normale e calmo, mi sono sorpresa
a desiderare di restare sempre così in un giorno che si spegne con la mano di
Yoïm qua, che stringe le mie cosce di ragazzina, allora ha detto, mi piace stare
qui con te, bellezza – e ha messo uno scintillio negli occhi, ho pensato, è un
trucco, decide di seminare nello sguardo delle piccole scintille di desiderio,
ma è un inganno, non è possibile, dovrei fidarmi meno della gente, è quello
che mi diceva sempre papà, dovresti fidarti meno della gente, non dimenticare
mai che la gente è cattiva, allora mi sono detta, non si tratta della gente, si
tratta di Yoïm e io credo, papà, che sia il mio principe. Ho chiuso i pugni e
tentato di raccogliere le forze per affrontare il momento in cui papà sarebbe
tornato, non sapevo ancora che in quel momento ci avrebbe parlato della sua
decisione di trasferirci, perché alla fine delle vacanze noi frequentassimo, io e
il mio fratellino, una scuola del partito, per non farci restare eternamente in
vacanza o nelle scuole pubbliche del quartiere piene di topi e di malattie
terribili (arrivava a parlare di colera e di peste bubbonica), perché abitassimo
in un villaggio carino con della gente di celluloide che funzionava a pile.
La sera in cui Yoïm mi ha raccontato tutte queste cose, era l’antivigilia del
ritorno di papà, io avevo voglia di qualcosa di definitivo allora ho lasciato
che Yoïm mi infilasse la mano nei pantaloncini sulla terrazza dei Dira, ha
mosso leggermente le dita e ha detto, mi piacerebbe metterci la faccia qui. Ho
provato a riprendere fiato, e ci sono riuscita solo parzialmente e ho pensato
molto forte, ma non l’ho detto per non spaventarlo, perché lo sapevo già che
queste cose possono spaventare, ho pensato molto forte, serrando palpebre e
pugni, ho pensato, tienimi per sempre.
17.

Ben e Vera sono arrivati poco dopo il ritorno di Samuel a casa, la sera che
metteva fine a quella giornata incandescente in cui ero andata a trovarlo a
scuola. Abbiamo cenato e, mentre mangiavano gli spiedini di pesce che avevo
preparato e su cui avevo messo decisamente troppo peperoncino – vedevo la
bella Vera, gli occhi tutti umidi, brillanti come gemme grezze, mi dicevo, ha gli
occhi come laghi, lago minore e lago maggiore –, mentre erano lì, seduti
tranquillamente ad aspettare che il peperoncino smettesse di bruciargli la gola
e che il cervello rimuginasse la sua chimica abituale per addormentare le
papille, mentre bevevano vino sgranocchiando briciole raccolte sul tavolo con
la punta dell’indice umettata, mentre erano a tavola con noi, la conversazione
ha deviato poco a poco – cibo, diete, grassi cattivi, lotta contro la bruttezza – e
Ben ha detto all’improvviso, oggi pomeriggio ho visto un tipo che è passato al
negozio, un tipo enorme, veramente mostruoso, questo tipo portava gioielli
dappertutto, aveva tatuaggi fino al collo e il cranio rasato con la nuca a strati,
così (gesto della mano per mimare i rotoli della pelle), e ho pensato, questo
qua peserà almeno centocinquanta chili ed è magnifico (mi sono ricordata
delle parole di mio fratello per qualificare Yoïm, diceva spesso, è un po’ tanto
magnifico, lo guardava e pensava molto forte, è un po’ tanto magnifico). A
queste parole Samuel si è girato verso di me, mi ha fissato a lungo, credo che
abbia domandato che voleva il tipo nel negozio di Ben, ma non ho ascoltato il
seguito, mi sono alzata per portare via i miei spiedini assassini, gli ho
ostinatamente voltato le spalle perché la smettesse, perché la facesse finita di
inviarmi infime onde di sospetto. Mi sono detta, dimenticherà, basta che
parliamo d’altro e dimenticherà. Samuel non aveva mai visto Yoïm tranne che
in foto, delle foto del penitenziario, e l’aveva sempre immaginato solo
attraverso le mie descrizioni. D’altro canto quella di Ben era
straordinariamente realistica. Mi sono detta, in effetti, Samuel si è sempre
aspettato che Yoïm riapparisse e facesse valere il suo titolo di proprietà, ho
sorriso davanti al lavello, l’idea mi piaceva. Subito dopo mi sono ripresa, mi
sono detta, smettila di sorridere, tutto finirà male e tu resterai qui stupidamente
a sorridere mentre tutto crolla. Quando sono tornata a tavola ho pilotato la
conversazione sul lavoro di Samuel ma ho sentito la pesantezza dei suoi gesti e
la tristezza e l’abbattimento di tutta la sua postura. Avrei voluto dirgli, sai il
mondo è pieno di tipi di centocinquanta chili con dei braccialetti, ma
onestamente non potevo insistere. Allora sono rimasta zitta.

In fin dei conti, è stato solo quando Ben ha parlato di lui e quando Samuel ha
iniziato a sospettare il suo ritorno che mi sono resa conto che non avevo per
niente a che fare con un fantasma. Mi sa che fino a quel momento non avevo
affatto creduto alla sua ricomparsa, ero ancora lì a rassicurarmi e a dirmi, ma
no tesoro è tutto nella tua testa, tutto questo non esiste davvero.
18.

Papà è ripartito senza cercare di chiarire l’enigma del lampadario – mi sono


detta, è una cosa magica questo oblio, dev’esserci dietro una stregoneria.
Prima di andarsene mi ha chiesto, non è troppo dura senza la mamma?, e io ho
risposto, sì è molto dura, soprattutto per il piccolo. E mi sono messa a
piangere, e lui ha fatto un discorso sul coraggio e i soldati, sul sacrificio e
l’ordine divino. Non l’ho seguito; ho continuato a piagnucolare. Allora ha
detto, vabbè adesso io devo andare. E ha sbattuto la porta, ben inamidato nei
suoi abiti da ispettore delle poste.
Ho contemplato la porta per un istante e mi sono detta, non ti rivedrò mai
più.
Il mio fratellino è arrivato sul triciclo, col suo facocero Robert infilato sotto
il braccio. Mi ha supplicato con lo sguardo, allora si va? saliamo a trovare
Didi? Ho scosso la testa, no, Lulù mio, è ancora troppo presto, ci andiamo tra
un po’, lui ha fatto inversione col suo trabiccolo, con gli occhi tutti pieni di
lacrime, andando a cercarsi una cuccia per far sbollire l’impazienza e
l’umiliazione, sei sempre tu a decidere, l’ho richiamato prima che virasse in
fondo al corridoio ma ovviamente non si è voltato, tutto compreso com’era
nella sua dignità quasi interamente offesa.
Ho contato i minuti. Ho posato a terra l’orologio militare che mio padre mi
aveva, ormai da un tempo considerevole, affidato. Mi ci sono seduta davanti,
piedi e ginocchia uniti, mento sulle rotule e ho lasciato passare i minuti fino
all’ora giusta. Ho finito per addormentarmi. Quando mi sono risvegliata, le
linee fosforescenti indicavano le undici, ho sentito qualcuno trafficare alla
porta d’ingresso, sono salita sullo sgabello di formica e ho guardato dallo
spioncino – nella mia sfera visiva c’era un tipo in tuta blu da lavoro che si
stava dando da fare con la nostra porta. Ho avuto molta paura, non ho fatto il
minimo rumore, che era in fin dei conti quello che mio padre avrebbe voluto,
l’uomo ha continuato il suo maneggio, mettendoci ancora un po’ di più sotto
chiave, aggiungendo un chiavistello supplementare, al di fuori; ha concluso
l’operazione, io non avevo ancora detto niente, ha ripreso la sua cassetta degli
attrezzi e si è precipitato giù dalle scale. Io sono corsa in salotto, tra i listelli
della persiana riuscivo a vedere delle strisce verticali di strada e di palazzi,
delle sottili linee di luce – correnti d’aria nell’occhio –, ho visto il tipo salire
in macchina – macchina muta, nessuna scritta, nessuna impresa generale di
serramenti e imprigionamenti, no, niente di niente, una semplice macchina del
partito, solo ai membri fabbri ferrai del partito si poteva chiedere di installare
dei catenacci esterni sulla porta della propria casa.
Mi sono detta, il vecchio vuole essere sicuro di tenerci al fresco fino alla
ripresa dell’autocontrollo in un campo di vacanze forzate, ho trascinato i piedi
fino a camera nostra che odorava di aerosol antimicrobi. Prima di andarsene
mio padre, un fazzoletto al naso, spruzzava sostanze annientanti in ogni
camera. Il mio fratellino dormiva in quell’odore piccante («profumo
gradevole») sul mio letto con Robert il facocero, le chiappe all’aria, la testa
sul cuscino e la bocca inerte aperta. Dormivamo moltissimo per aggirare la
noia. Si sprigionava da lui un aroma di umidità, un madore di sonno, aveva i
capelli incollati alle tempie, l’ho osservato un momento, mi piaceva la sua
magnifica immobilità, il peso che sembrava prendere all’improvviso il suo bel
corpo di bambino, mi sono detta, sogna, starà sognando e io non posso vedere
niente, mi sono detta, scrigno di tesori, mi sono detta, forziere di orrori, ho
contato fino a undici incrociando le dita, ho girato due volte su me stessa e
sono uscita dalla camera.
Ho impugnato la scopa, battuto al soffitto della cucina e aspettato che Yoïm
scendesse, mi dicevo, bisogna che qualcuno ci salvi. Avevo quattordici anni, e
mi ripetevo, bisogna che qualcuno ci salvi. Avevo quattordici anni, e mi erano
già sembrati quattordici anni interminabili.

Un’ora dopo ero stesa sul parquet vetrificato di papà nel salotto, guardavo
sotto i mobili e vedevo la loro organizzazione interna e le loro interiora di
legno e di polvere, guardavo i mobili come non li avevo mai guardati, avevo
accesso al disotto delle cose, ero nuda e le stecche del parquet e i chiodi e le
schegge mi striavano la schiena, Yoïm si è abbassato su di me e mi ha
sollevato tra le sue braccia, mi ha baciato il ventre e la bocca, mi ha
pronunciato sciocchezze e sussurri nell’orecchio – il destro, quello che
avrebbe sanguinato tanto dopo i colpi di pistola –, ed ero tutta quanta nella mia
estasi di ragazzina sverginata. Poi mi sono sentita prendere da disgusto e
apatia, languore, smania malinconica, fatica che rende inerte ogni parte del
corpo, non ero stata preparata a respirare un uomo così da vicino. Alla scuola
dove andavamo ogni tanto – quando mio padre non temeva troppo la
tubercolosi, quando era partito per i suoi giri d’ispezione, e mamma voleva
ancora riuscire a fare di noi dei bambini nonostante tutto normali –, i ragazzi
non mettevano mai la lingua tra le cosce delle ragazze. Mi sono detta, è strano
che capiti a me, forse perché la mamma è morta, forse perché il mondo e le sue
rivoluzioni si invertono silenziosamente, questo fa di me una troia, sono
diventata una puttana? Ho circondato il collo del mio amante – amante, una
parola di due taglie troppo grande, spiacente signorina non abbiamo la sua
taglia, ritorni tra cinque anni – con le mie braccia di ragazzina e siamo rimasti
così ad aspettare che il mio fratellino si risvegliasse.

Quando il mio fratellino si è risvegliato, ha cacciato nel suo zaino di Topolino


tutti i suoi animali; gli animali hanno litigato per decidere chi doveva entrare
per primo; sono ripassata davanti alla camera e ho detto, ti sbrighi un po’?, il
mio fratellino mi ha guardata come se fosse una cosa idiota fargli fretta, come
se non potessi accusarlo della lentezza e dei litigi incessanti che c’erano tra il
koala e l’orso bianco. Ha continuato a riempire lo zaino col suo ritmo – col
loro ritmo. Ha lasciato tutti gli aerei da caccia sul comodino, non ha preso il
ritratto di Lindbergh e i suoi soldatini; si è portato dietro solo i suoi peluche e
Robert, si è sistemato di fianco alla porta, io si può andare, sono pronto, sei tu
che sei un pochino un po’ troppo più lenta di me.
Ho messo dei vestiti di ricambio in una sacca, dei fermacapelli della
mamma (ero sentimentale) e delle scarpe da ginnastica, poi siamo saliti per le
scale. La signora Dira, con un’amica sari e braccialetti, ci ha visti arrivare,
quando torna vostro padre? Yoïm ha risposto per me, tra un mese. Sembrava
che le facesse piacere alla signora Dira di tenerci a casa sua, mi sono detta,
però le costerà caro sfamarci, cercherò di mangiare il meno possibile, ho visto
Didi arrivare e prendere per mano il mio fratellino e volare via dalla porta coi
suoi sandaletti dorati. Yoïm ha detto, porto i piccoli ai giardinetti, vieni anche
tu bella, e ha aggiunto più a bassa voce, poi vado al lavoro.
Sulla strada per i giardini, mentre si era messo a piovere leggermente, mi ha
detto, non resterò ancora a lungo a casa dei Dira, credo che ce ne andremo
tesoro mio. Ma ho fatto fatica a immaginare che un uomo fatto come Yoïm
avesse voglia di far comunella con una bimbetta come me, era terribilmente
pericoloso mi sembrava, era una perversione. Il suo desiderio mi
sconvolgeva. Mi sorrideva molto dolcemente, per non spaventarmi senza
dubbio, ma evidentemente io non ero spaventata, ero determinata. E d’altro
canto è stato sotto quella pioggerella estiva che mi ha dato la mia prima
pasticca di Hyper-G da succhiare e che l’ho presa senza esitazioni e messa
sulla lingua, determinata com’ero.
19.

Il giorno dopo che Ben aveva detto di aver parlato con Yoïm nel suo negozio
di articoli sportivi (caschi da hockey e scarponi da sci), ho ricevuto una busta
bianca rettangolare nella quale ho trovato una frase dattiloscritta che diceva:
Chiedi alla signora Wanda.
Sono rimasta interdetta, sotto il fruscio dell’acacia, con l’odore dei
germogli che mi s’immergeva e mi nidificava in gola – ho annusato la busta e
la carta e ognuna delle lettere impresse sulla carta, non c’era nient’altro che
quell’odore di germogli. Sono uscita in strada e ho guardato a destra e a
sinistra senza peraltro pensare che fosse possibile che l’ambasciatore di
quell’ingiunzione si trattenesse ancora nei paraggi (la busta era leggermente
umida di rugiada mattutina, era stata depositata durante la notte o alle prime
ore del giorno). Mi sono attardata un momento a scrutare la via – macchine
ancora addormentate, vernice metallizzata brillante di goccioline, ampio fondo
stradale appena un po’ bombato e acacie, nient’altro che acacie.
Sono rimasta a casa, senza muovermi, senza rispondere al telefono che
suonava ogni ora e risuonava nelle stanze immobili – Yoïm oserebbe
telefonare qui?, nessuna voglia di verificare, non sono in casa –, ho chiuso le
persiane, ho aspettato nella penombra, barricando i miei accessi per non
ricadere negli orrori della prigione e nei 14 x 12 mesi della mia tetra infanzia
(fino all’azione eclatante, fino a Yoïm, fino al sangue), e l’ora del ritorno di
Samuel si è avvicinata, mi sono alzata e ho cominciato a darmi da fare, ho
pulito il bagno e passato lo straccio in cucina e ho continuato a non rispondere
al telefono, non volevo che Samuel si accorgesse della mia inerzia, non volevo
parlare della lettera ricevuta, volevo restare ancora depositaria del segreto.
L’indomani mattina c’era un’altra busta e un altro foglio piegato in quattro
con grande cura come lisciato con l’unghia e c’era scritto: Avanti, chiedi alla
signora Wanda.
Allora mi sono infilata il vestito nero che piaceva a Yoïm e sono tornata
allo zoo.

Davanti alla gabbia della signora Wanda, ho aspettato a lungo che lei
apparisse, che la vecchia signorina gorilla venisse a posare il culo pelato sotto
il suo albero, che uscisse dalla sua caverna di plastica – era stata isolata dalle
altre scimmie perché era aggressiva con i piccoli. E poi è passato un
guardiano, si è messo a svitare la placchetta che riportava il nome, la data e il
luogo di nascita della signora Wanda. Gli ho chiesto perché, mi ha guardato il
vestito, e le mani che portavo sul cuore e mi ha risposto che era morta la notte
precedente. Gli ho chiesto di cosa era morta, ha scosso la testa, non so, è
morta di vecchiaia senza dubbio.
Mi sono allontanata, chiedendomi se il messaggio che dovevo ricevere
fosse la morte della signora Wanda, o se lei fosse malauguratamente morta
prima che io potessi capirci qualcosa.
Mi sono detta, la signora Wanda è morta nella sua gabbia in mezzo alle sue
rocce di resina.
Era ancora presto, sono andata al bar, a mettermi su una sedia di metallo
sulla ghiaia e ho aspettato Yoïm bevendo una cosa fredda e amara.
20.

Avevo quattordici anni e capivo vagamente cosa Yoïm voleva fare di me –


perché mio padre mi aveva da sempre iniettato per endovena che tutti gli
uomini erano violentatori o magnaccia. Il resto del tempo mi ripetevo con un
tono confortante, ma no ma no, è innamorato, Yoïm è innamorato.
In quel periodo c’è stata molta gente dai Dira, di passaggio, dicevano loro,
c’è passaggio. Allora stavamo spesso sulla terrazza o sul pianerottolo, io e
Yoïm, oppure andavamo a scopare a casa di mio padre, in salotto, sul parquet,
per via dell’armeria che eccitava Yoïm e di Dodolf che s’indispettiva in
silenzio. Mi dicevo, sono minuscola e fragile, sono una torta di zucchero a più
strati, che succede se mi sbriciola a pezzetti. Poi mi lasciava lì, con delle
pasticche di Hyper-G e il sapore del suo cazzo e rimanevo seduta in mezzo al
disordine del mio culo dicendomi non si è accorto che sono solo una bambina
piccola.
Questo pensiero mi faceva sorridere.
Mi sentivo così fiera – come se avessi risolto un enigma o come se avessi
deciso di tenere un segreto magico profondamente nascosto tra le costole.
Yoïm mi ha fatto parlare del partito.
Ho spiattellato tutto.
Gli ho fatto vedere il nascondiglio – granate, baionette e revolver –, gli ho
parlato della benefattrice, la Signorina, la Vecchia, gli ho raccontato dei
villaggi del partito e delle riunioni grottesche, gli ho parlato della mamma e
della sua tristezza senza fondo che si appesantiva di giorno in giorno, gli ho
parlato delle minacce che aveva proferito fino alla fine, me ne andrò, tesoro,
me ne andrò, non voglio più sopportare tutti questi orrori, ma tesoro rimetteva
il suo berretto e ritornava alla sua gioiosa sarabanda, gli ho parlato del
cervello che alla fine l’aveva colpita, annientata, abbattuta e della sua tomba e
dei fiori di plastica così pratici e delle catene attorno ai vasi dei fiori finti
perché la gente non rispetta niente davvero e avrebbero rubato persino quei
fiori brutti che perdevano colore e diventavano di un grigio uniforme di
centrino vecchio.
Gli ho raccontato com’era il posto in cui nostro padre ci voleva portare, a
me e mio fratello, o piuttosto a cosa mi immaginavo somigliasse un villaggio
del partito, con casettine e torrette d’osservazione, pastori tedeschi e
altoparlanti che riversano durante la giornata canti di incoraggiamento, ci
immaginavo, io e mio fratello, per le strade di quei villaggi a marciare
liberamente su marciapiedi lucidissimi, incrociando pattuglie di sorveglianza,
documenti signorina, se non ho fatto niente di male, non possono accusarmi di
niente, che ti costa favorire i documenti se non hai niente da rimproverarti (io
che imitavo mio padre e la sua aria saputa per divertire Yoïm), immaginavo
bandiere, milizie e camicie brune, una città carina sempre al sole, tirata a
lucido, in cui non ci sarebbe potuto succedere mai niente, una città carina sotto
una campana copriformaggio, senza inquinamento, senza delinquenza, con un
lago per gli sport nautici e per l’elevazione del corpo e dell’anima. Yoïm
rideva e io rincaravo la dose di stranezze e di colori vivaci, frutta di cera, mai
un incidente, mai sangue, mai morte, decorazioni di zucchero a velo.
A volte mi mettevo a piangere.
Yoïm mi consolava, tieni prendine un’altra, mi accarezzava e mi lisciava il
corpo, Yoïm mi ascoltava e si serviva delle armi di papà e io mi dicevo, in
ogni caso non lo rivedrò mai più mio padre, è finita, è andata male, me lo
ripetevo costantemente per osare il sacrilegio e il furto.
Quando Yoïm ha cominciato a riparlarmi della Signorina, non mi sono
immaginata niente. Ho fornito dettagli, ho persino inventato degli elementi
perché non volevo che si stancasse mai. Non potevo prevedere che sarei finita
su un letto, tutta insanguinata, a far marcire il materasso dei miei liquidi
personali, a tremare e quasi a morire. Non potevo prevedere come sarebbero
andate le cose. Per il momento vivevo una favola per bambini – niente
genitori, mai genitori, ma dei vaghi adulti protettori, ero l’eroina di Lili, il suo
fratellino e Robert il facocero.
E poi Yoïm ha lasciato casa Dira, il signor Dira piangeva, la piccola Didi si
è rinchiusa nella sua cameretta con mio fratello (a spiare cosa stava
succedendo ovviamente) e io sono rimasta in un angolo della tappezzeria a
guardare il signor Dira seduto in poltrona, che si massaggiava i piedi senza
ciabatte e piagnucolava, fratello mio, è come un fratello, il suo bel viso grigio
tutto pieno di rigagnoli, Yoïm cercava di calmare la sua gente stringendo
ognuno tra le braccia gigantesche, ho il mio bizness, lo sai bene, come se si
trattasse di qualcosa di segreto e fraudolento – passaggio di frontiere con
provette tossiche, tratta di ragazzine more? –, e ripeteva, voi siete la mia
famiglia, e io dura (malgrado le sue promesse, non ti lascio mia bellezza
fatale, sono qui sopra, tu sei nella mia vita nel mio cuore nella mia pancia), ma
completamente disperata, terrorizzata dal ritorno imminente del vecchio, io
che mi ero bruciata tutti i ponti alle spalle, io che avevo rifilato quel pacco di
armi (quelle del nascondiglio dietro l’armadio) a Yoïm e che avevo scopato
così tanto in quella casa che il vecchio avrebbe sentito subito l’odore, avrebbe
immaginato all’istante le mie turpitudini (e Yoïm che mi rassicurava, non
preoccuparti, non sono lontano, mi occuperò di te), ma io non ci credevo per
niente e piangevo dentro, riempita di pozzanghere di tristezza e smarrimento.
Se n’è andato e noi siamo rimasti dai Dira. Lo raggiungevamo, io e il mio
fratellino, nella capanna dove abitava adesso a qualche stazione di metro da lì,
partivamo la mattina, Didi a volte ci accompagnava e andavamo da lui; non mi
sarebbe mai venuto in mente di andarci da sola, mi piaceva tenere i piccoli per
mano, mi sarebbe sembrato pericolosissimo camminare da sola per le strade.
Era ancora estate, la città era vuota con una luce polverosa e lunghe macchine
che passavano con un beccheggio marittimo facendo risuonare i tombini. Didi
si guardava i piedi e il mio fratellino teneva ben stretto Robert il facocero
sotto il braccio. Avevo l’impressione che le mie gambe fossero polverose, è
questo che mi rimane dell’estate della nostra liberazione, le gambe ricoperte
di uno sporco grasso di città. Il mio fratellino mi guardava e faceva dei
commenti silenziosi sulla temperatura, la densità dell’aria e l’umidità, fa un
po’ freddo e un po’ caldo, diceva, è tutto mischiato.
La casa di Yoïm era sotto la metropolitana rialzata, aveva un giardinetto
spelacchiato, una sorta di pezzo di terra calva su cui non sarebbe mai potuto
crescere niente – neanche inzuppandola di fertilizzanti e di sostanze magiche –,
era, sembrava, un frammento di deserto in mezzo alla città. Spesso Yoïm non
c’era, noi lo aspettavamo nel suo giardino secco, i piccoli giocavano al sole,
nella luce che scarnificava le cose e rimbalzava per terra, si scambiavano
cartoline e parlavano con le mani (ognuna era un convitato) come se fossero
stati tantissimi. Io aspettavo e basta perché era l’occupazione che prediligevo
e gestivo meglio, aspettare perfettamente immobile nell’ombra fitta
osservando i cambiamenti che avvenivano nel mondo intorno, aspettare e
trasformarmi in pianta tropicale – che agita molto dolcemente il suo fogliame
al crepuscolo ma resta quasi minerale per tutto il resto del giorno. Ci pensavo
spesso, alla mia trasformazione in pianta, e mi vestivo ormai solo di verde –
un kaki esercito di terra ovviamente. Ascoltavo il fracasso della metro di
sopra, guardavo passare i cani orfani del vicinato, cani gialli ficcanaso e gatti
tigrati orbi, respiravo l’odore dell’esterno, l’odore delle scintille della metro
– freni e metallo contro metallo –, l’odore della terra secca e quella dei due
bambini – sudore acetoso –, quel filo di vento. Alla fine mi dondolavo come
una culla.
Yoïm appariva al volante di auto sempre diverse ma sempre distrutte;
sbatteva la portiera, prendeva i pacchetti sul sedile di dietro e diceva, non è
ancora quella giusta, e rideva debolmente come se avesse parlato di una
ragazza e non di una macchina, io guardavo Yoïm spingere il cancello, il suo
sorriso e i suoi occhi, intuivo il suo desiderio, allora portava dentro i pacchi e
portava dentro anche me, diceva ai piccoli, restate fuori ancora un po’?, e mi
afferrava e mi stendeva sulla sua brandina – che mi sembrava un tesoro di
esotismo –, mi spogliava e mi scopava piano perché i bambini non sentissero,
per non sciuparmi, quando non vorrai più il vecchio Yoïm, non dovrai essere
troppo sciupata però, e lo guardavo tutta piena di stupore, dicendomi, ma io lo
vorrò sempre, non voglio lasciarlo mai, mettendo in questo assoluto la
determinazione dei miei quattordici anni, i per tutta la vita degli amori
infantili. Arrivavo fino al punto di pensare che mi sarebbe piaciuto avere un
bambino con Yoïm, sarei rimasta lì e avrei costruito una vita normale e
tranquilla coi bambini intorno a me – mio fratello, la sua rosa e i miei bambini
moltiplicati di cui sarei stata a fatica la madre ma tantissimo la compagna e la
sorella, mi vedevo proprio come Biancaneve e tutta una tribù di lillipuziani
che non mi avrebbero mai trascurata e mi avrebbero seguita dappertutto –
ecco, mi sentivo pronta a costruire una vita normale e tranquilla con
quest’uomo che non era né ordinario né tranquillo. Questa cosa mi tormentava.
Ci pensavo spesso. Non essere impaziente, mi ripetevo, le cose ti verranno
incontro. Non osavo parlare di bambini. Ma ci pensavo spesso.

Yoïm mi ha portato in macchina – Plymouth nuova con sedili in skai rosso e


clicchettio intermittente – davanti a casa della Signorina. Siamo passati
lentamente e a più riprese davanti alla facciata, ho detto, è piena di gioielli e
soldi, tiene tutto in casa perché non si fida delle banche, si è girato verso di
me per capire meglio, ho detto io, per colpa dei rabbini. Yoïm mi ha dato un
pizzicotto sulla guancia aggrottando le sopracciglia, non parlare così, bellezza,
mai così, gli era venuta la voce terribile allora mi sono sentita una formica,
formica muta incapace persino di scusarsi.
Ha detto, passerò a fare un giro a casa sua e poi dopo ce ne andremo. Ce ne
andremo da qui, tu farai la ballerina e io venderò pasticche, ci divertiremo e
viaggeremo per tutto il continente.
Ho annuito e mi sono detta, non è un violentatore, è più del genere
magnaccia, mi immagina ballerina con paillette e suggestivi movimenti d’anca.
Mi sono convinta che avremmo avuto comunque dei bambini. Allora gli ho
sorriso e gli ho messo la mano sulla coscia. Dove andrà lui andrò io, ho
pensato beatamente.
21.

Sono rimasta allo zoo ad aspettare Yoïm sulla mia sedia verde foresta
all’ombra delle acacie. Non è venuto. Allora ho preso l’autobus davanti allo
zoo e sono andata a vedere che faceva. Mi è toccato camminare sotto tutto
quell’ammasso di calore per raggiungere il motel a camere malva. Ho
trotterellato per tutta la strada maestra. Mi dicevo, perché i nostri scambi sono
così muti, perché non parliamo della Vecchia, del mio abbandono, del mio
fratellino scomparso, perché non parliamo e non facciamo altro che scopare?
Yoïm è così reale – il suo odore e il suo corpo – ma così impalpabile e
incongruo – qui in questa città lontana da tutto dove è venuto a ritrovarmi e a
ricercarmi e a convincermi e ad assicurarsi del suo potere. Ho attraversato il
parcheggio e sono salita sul ballatoio davanti alle porte delle camere. Mi
domandavo, ma insomma chi mi manda queste frasi incomprensibili, Yoïm non
lo farebbe mai, no no, non lo farebbe mai, chissà se almeno sa scrivere?
Ridacchiavo piano come ogni volta che cercavo di ridicolizzarlo o di
sminuirlo. La porta della sua camera era socchiusa, cosa che mi ha sorpreso e
vagamente inquietato, ho sentito il ronzio delle mosche e la finestra che
sbatteva piano, come una finestra restia, che sbatteva debolmente sulla
spagnoletta. Ho fatto un passo sulla soglia della camera malva, la pittura era
sempre piena di bolle e sembrava trasudare, l’intero immobile sudava in
quell’estate torrida dei miei ventitré anni. Questo mi sono detta, camera malva,
camera viola, è l’estate dei miei ventitré anni. Yoïm era disteso sul letto,
voltava le spalle all’entrata, aveva addosso la sua camicia nera e i suoi
pantaloni neri e mi sono detta, non è molto prudente per un trafficante di
pasticche, ho abbozzato un sorriso, poi ho voluto avvicinarmi ma mi sono
sentita improvvisamente gelare da tutto quel malva colante e dall’incessante
ronzio delle mosche blu.
22.

Mi sono ritrovata seduta dietro nella macchina (la Plymouth Fury 1954),
mezzo sdraiata sul sedile, intenta a fumare e a sentirmi una puttana di lusso
nonostante i miei quattordici anni. C’era un tipo che guidava, un pakistano con
gli orecchini e un’aria sgradevole. Yoïm era accanto a lui, a indicare la strada,
a dire cosa bisognava fare (tastare il terreno, richiedere un colloquio, farsi
passare per il capetto di un gruppuscolo estremista, guadagnarsi la fiducia
della Vecchia, vedere se era necessario maltrattarla un tantino o se si poteva
fare a meno della sua collaborazione, e in caso di fallimento tornare a
svaligiare da soli come dei grandi), seguivo una parola su otto di quello che
diceva, mi interessavo delle briciole infilate in mezzo al sedile e mi assopivo
a tratti – facevo dei sogni folgoranti di qualche secondo e mi risvegliavo.
Mi accarezzavo la pancia, la gonfiavo bloccando il respiro e sorridevo
immaginandola enorme e abitata. Poi mi riaddormentavo.
Yoïm è uscito dalla macchina, ha disceso la strada e ha salito i gradini della
scalinata, ha suonato, una ragazza è venuta ad aprirgli. Io ero sempre incollata
allo skai rosso, siamo rimasti diverse ore così, immobili, io e il pakistano. Lui
non mi parlava, credo che trovasse molto sconcertante la relazione tra me e
Yoïm, immagino di aver avuto l’età di sua figlia, era il tipo che trafficava
Cadillac bianche con gli alettoni, ma che metteva i suoi figli alle scuole
private. Penso che parlasse di me a sua moglie come della piccola puttana di
Yoïm – cosa che mi eccitava leggermente. E mi dicevo, se papà potesse
vedermi. Mi dicevo, ecco, ecco, basta fare gli incontri giusti e l’universo
cambia completamente, tu avevi una predisposizione, mi dicevo ridacchiando,
vivevi reclusa, mostruosa e innocente. Avevi una predisposizione.
Yoïm alla fine è uscito, ha risalito la strada, lo guardavo galoppare sul
marciapiede, nascosta dietro il sedile, il pakistano lo sorvegliava dallo
specchietto retrovisore, Yoïm è montato in macchina, bene, ha detto soffiando,
andrà bene, e siamo partiti.
Ho ripassato migliaia di volte il modo in cui gli avvenimenti si sono
combinati, ho cercato di capire in che momento tutto ha cominciato a
precipitare, perché ero finita immersa nel mio sangue in una solitudine
assoluta, riuscivo solo a dirmi, è perché sono stata cattiva, è perché sono stata
cattiva cattiva che le cose si sono messe male e aggiungevo per mortificarmi
un po’ di più, è una storia abortita, è una storia che cola sangue, e mi contraevo
in una smorfia rivedendomi sulla brandina di Yoïm a gocciolare sangue sul
pavimento con una regolarità da metronomo.
23.

Yoïm mi ha spiegato il suo piano, la mia missione a casa della Signorina. Non
stavo molto attenta, la testa completamente annebbiata – una caligine fredda di
fine inverno, che si chiude dietro di te quando avanzi nella notte, ti sfiora le
spalle, ti fa voltare indietro perché t’immagini, qualunque sia il tuo
attaccamento al reale, che siano dita di spettro che ti tirano per la manica. Ero
altrove, allora Yoïm mi prendeva un po’ a scappellotti per farmi ridiscendere
vicino a lui, la smetterai di prendere queste schifezze, ripeteva.
E poi due giorni prima della notte prevista per il furto – giustiziere, una
cosa che diceva sempre Yoïm, bisogna che giustizia sia fatta –, ha portato un
uomo a casa sua. Io mi sono detta, forse sarà il tipo che guiderà la macchina e
conterà il bottino, oppure è uno che vuole comprare delle pasticche, non mi
sono interessata della visita, stravaccata com’ero sul letto di Yoïm, ad
ascoltare distrattamente il rumore della metro e i cinguettii da pettirosso dei
due bambini nel giardino mentre giravo le pagine di una rivista di musica per
sentirmi più libera e decadente ancora, sonnecchiando dolcemente.
Yoïm ha detto solo, vi lascio, devo comprare una cosa.
Non riesco ancora a capire perché mi avesse venduta a quel tipo, che genere
di accordo avessero preso, se l’uomo, l’intruso, quell’uomo là – nessun viso,
nient’altro che una pelle butterata e il secondo cazzo della mia vita – fosse un
creditore. Il tipo si è avvicinato al letto e ha detto molto piano, hai capito
vero, hai capito che Yoïm mi ha venduto un’ora del tuo culo?
È tutto.
Non ho nessuna voglia di aggiungere particolari.
Mi riposerò e ricomincerò più tardi. Davvero non posso raccontare cosa mi
ha fatto subire l’uomo con la faccia butterata, tacerò per sempre
quest’oltraggio.

Avevo immaginato che il mio naufragio sarebbe stato tragico – tempesta,


ondate, crisi d’agonia e d’impotenza – ma niente di tutto ciò, ero pronta ad
affondare lentamente in quella casetta fatta di assi sotto la metro, ero pronta a
diventare puttana e brutta prendendomi tutto il tempo e ad allontanarmi di
molto e fuori da me. Come ha potuto pensare Yoïm che tutto andasse come
voleva lui? Mi ripetevo, è vanitoso, è vanitoso, è vanitoso – era
un’espressione di mamma, scuoteva la testa e diceva, è così piccolo eppure
così vanitoso, gonfia il collo come un gallo, parlava di papà – e poi
m’interrompevo, no no, mi ama in un modo così speciale, e singhiozzavo quasi
silenziosamente mentre mio fratello vestito da Superman, seduto sul bordo del
letto, giocava con le dita dei miei piedi, tastandone la polpa e tirando le ossa
tonde e morbide con un rumore di gola, portando con disinvoltura il costume
rosso e blu che gli aveva regalato Yoïm, coi piedi nudi in fondo e
canticchiando mormorando canticchiando.
Mi sentivo una ragazza perduta e ne provavo, bisogna dirlo, il giubilo
particolare della caduta – Lili puttana in roulotte in mezzo a terreno
abbandonato, Lili puttana su macchina marrone ruggine in parcheggio di
ristorante in borgo anonimo della provincia triste (e sottoinsiemi), Lili in
paillette in canale di scolo sotto stelle e cielo notturno, Lili calze smagliate e
sigaretta dal filtro dorato, Lili che misura a grandi passi il cemento con tacchi
conturbanti, scarpe di pelo di scoiattolo come Cenerentola, tutta una panoplia
di Lili in cartoncino a due dimensioni, tutta nuda o con perizoma nero di nylon,
e il resto, gli accessori, i vestiti, i brillanti e i gingilli di carta ritagliata con
piccole linguette perché tengano bene, insomma, sulle spalle e sulle caviglie,
sui contorni in sostanza, pensate a quelle bambole di cartone con la testa
grossa, col collo riappiccicato con lo scotch e il guardaroba da collegiale che
mi lasciava perplessa – calzette bianche per eccitare i vecchi, diceva mamma
arricciando il naso, preferisco che porti ancora i pantaloni di tela.
Ho messo in guardia il mio fratellino, se qualcosa va male, lupacchiotto
mio, torna a casa dei Dira e restaci sempre, gli mettevo le mani sulle braccia,
le dita attorno ai bicipiti di bimbo piccolo, e lo guardavo dritto negli occhi,
aveva l’aria di giudicare il tragico e il definitivo di quello che stavo dicendo
in quel momento. Lo sentivo ripetere, paura non ho, paura non ho.

Quando Yoïm mi aveva recuperata dopo la venuta di quell’uomo dalla pelle


butterata, dopo che ero rimasta completamente inebetita sotto le coperte,
incapace di muovermi, per la paura, per una vertigine enorme, risolutamente
inerte fino, mi sembrava allora, alla fine della mia esistenza, mi aveva stretta
tra le braccia e mi aveva chiamata gattina mia bellezza mia bella luce mia mia
dolce follia. Io non mi ero mossa e lui aveva aggiunto, non ho rovinato tutto
comunque. Credo che avrei urlato e gli avrei cavato i bulbi oculari dalle
orbite solo con i pollici se avessi potuto muovermi, se avessi imparato
innanzitutto quello, a muovermi.

Mi ha bardata, imbrigliata, pettinata (capelli bene indietro, massimo angolo di


visione, minimo attrito col vento) – io pensavo al mio fratellino, al suo sonno,
era notte fonda, alle sue palpebre immense, quando dormiva il suo viso
diventava solo due palpebre orlate di sudore, mi dicevo, anche io voglio
essere a dormire nel mio letto, riposare sotto le mie lenzuola di notte fine, non
voglio essere in piedi qui con Yoïm che mi spinge avanti, che mi augura buona
fortuna e mi bacia sulla fronte e vorrei dire, mi serve un amuleto, un
portafortuna, una cosa qualsiasi che mi protegga, non devo camminare sulle
ombre né sulle righe del marciapiede, devo contare fino a 111, lasciatemi
contare fino a 111, dammi delle pasticche, mio Yoïm, dammi qualcosa al posto
di questo, mi ha portata sulla sua Plymouth Fury 1954 di skai rosso scuro
riparata col nastro isolante rosso più chiaro, mi ha fatto ripetere cosa dovevo
fare, seminterrato, cofanetto dei gioielli, poca roba, non siamo così ingordi,
mia bella, al ritorno Yoïm su macchina non discreta al quarto palo della luce,
AL RITORNO sparizione della macchina, rottamazione, che tristezza, piccola
macchina nera che ci porta verso sud, i bar delle puttane, le collane e le perle,
roba brillante e luccicante, carina mia, mi dico di nuovo sul sedile di dietro
mentre filiamo a casa della Vecchia, mi dico ancora, porteremo il mio
fratellino, se tutto va bene lo portiamo, convincerò Yoïm, ed era questo che
alla fine mi preoccupava di più, convincere Yoïm, niente affatto andare a casa
della Vecchia Signorina e svaligiarla, no, ma convincere Yoïm.
La notte scendeva con un chiarore tale che ci si vedeva come a
mezzogiorno, ho detto, c’è troppa luce Yoïm, lui ha scosso la testa e ha detto,
non fa niente, ci sono solo la cameriera e la Vecchia là dentro, non fanno paura
a nessuno, è un gioco da ragazzi, lo ripeteva in continuazione, è un gioco da
ragazzi, a volte usava anche una variante, è una passeggiata, io avrei preferito
una passeggiata al buio, avrei preferito una notte bella profonda per
scomparirci del tutto. Diceva, sei leggerissima, piccolissima, sei veramente
perfetta per intrufolarti senza farti vedere né sentire. Io pensavo, andrà a finire
male, e ce l’avevo con me stessa per essere così negativa. Yoïm mi ha
depositata davanti alla casa della Vecchia e avevo davvero l’impressione di
essere piantata lì come un canguro prigioniero inchiodato dai fari, ma,
insomma, avevo una missione, c’era un pericolo e dei gioielli e sono riuscita,
nel momento in cui sono penetrata nella casa della Vecchia, a prenderla come
una festa.
Ho saltato il cancello e ho camminato nell’ombra della casa, la luna era
così rotonda e lattiginosa, ho trovato il condotto di aerazione del seminterrato,
bagno, sotto il lavandino, come faceva Yoïm a saperlo, le case delle vecchie
signorine fasciste hanno sempre dei condotti di aerazione sotto il lavandino?
Avevo una bisaccia piegata in centocinquanta nella cintura, un coltello e delle
cesoie, mi sono infilata nel condotto, retina metallica che si arriccia da un bel
po’ di tempo, che graffia un po’, tetano. Pensavo, tanto me ne frego. E poi
ridacchiavo, se papà mi vedesse. Il bagno, gli occhi si abituano, piastrelle
nere e bianche, vasca artigliata, rubinetteria d’argento con preziosità
civettuole, specchi con principi di vitiligine, mi ero immaginata creme anti-
vecchia, profumi svaniti il secolo scorso, ma niente di tutto ciò, era solo un
bagno senza oggetti, da abluzioni, per ripulirsi da cima a fondo.
Ho aperto la porta, mi sono detta, è il mio cuore che batte così, come faccio
con questa palpitazione, creerà un’eco, risuonerà per tutto il corridoio.
Sono andata avanti, camere da letto al primo piano, aveva detto, salotto
piano terra, nasconde tutto in cucina, e aveva aggiunto, me l’ha detto la
giovane, come aveva potuto ottenere così rapidamente queste informazioni, la
piccola cameriera dev’essersi fatta coccolare, personale di fiducia, non regge
bene a contatto col mio Yoïm, arriccio il naso, certo, sono gelosa,
morbosamente gelosa, procedo nel corridoio più nero del nero senza fare più
rumore di una corrente d’aria, parquet che diventa piastrelle, la cucina si
avvicina, niente maniglia, la stanza è fredda, col soffitto molto alto, la luce del
chiarore passa dalla finestra e si posa sugli oggetti, arrotondando le ombre,
ingrossando la luminosità delle cose, pensile sopra il lavello, mi aveva detto,
ho preso il caffè con la piccola prima di andare via, mi ha fatto vedere tutto,
ma le avrà toccato i seni, mi trotta in testa, le avrà toccato i seni?, monto su
una sedia, apro il pensile, lieve rumore di stoviglie, e penso in quel preciso
momento, to’, è strano che non abbia dei cani, la Vecchia, è proprio il tipo da
avere due mastini tedeschi, due molossi con le mascelle pendule e l’occhio
pazzo, uno sordo, l’altro epilettico, consanguineità, bella razza di cattiverie
mischiate, ispeziono vagamente, elettrodomestici di qualche decennio fa, e poi
scatole di biscotti, parecchie, stesso formato, ben impilate, scuoto una delle
scatole, non fa rumore di biscotti, la ragazza quindi ha tutta questa ricchezza
sottomano in cucina, ma attenzione, non si tocca, la Vecchia la perquisisce e la
spia (perquisizione a sorpresa, svuoti le tasche, via le calze, apra bene la
bocca), sto per ridiscendere dalla sedia, la scatola sotto il braccio, quando si
accende bruscamente la luce, alzo il gomito per proteggermi gli occhi, eccomi
accecata, piccola troietta, squittisce la vecchia, ma sì certo, la Vecchia, non
dorme lassù, troppo vecchia per salire e scendere le scale, visto che il bagno è
al piano di sotto e i gioielli pure, la vecchia urla, lascio cadere la scatola che
si apre e si riversa sulle piastrelle, ho troppa paura per piangere, alzo le
braccia, segno di pace, ma lei mi punta un’arma contro, ecco, mi dico, è pazza,
mi ammazzerà, approfitto dell’arrivo della cameriera, pigiama blu cielo, aria
addormentata, no non è possibile, non può aver avuto voglia di toccarle i seni,
ha un’aria ridicola e spaventata, la Vecchia si rigira urlando in una lingua che
non conosco, io lancio il macinacaffè verso la plafoniera, la luce, clang, si
spegne, mi precipito verso la finestra, la apro mentre la servetta accende la
luce del corridoio, salto sul balcone, scavalco la balaustra, la Vecchia spara a
caso, chiaro di luna o no, non ci vede un accidenti, sento una scossa, un lampo
violento che mi brucia gli occhi, oh merda, sto per morire, barcollo nel
giardino, inciampo, porto la mano alle costole e sull’orecchio, c’è sangue
dappertutto, mi sembra di sentire la Vecchia urlare, libera i coccodrilli, mi
trascino nell’erba fresca e inerte di questa dolce notte d’inizio autunno, c’è
odore di terra umida, il profumo soffocante del terriccio bagnato, mi stride
nelle orecchie, sento anche un rospo che mi gracida vicino, e c’è anche
l’odore inebriante di questa notte che sanguina e il mio sangue che cola e
inzuppa il giardino della Vecchia, singhiozzo e tremo, tutto il corpo mi trema
con una frenesia delirante, mi accascio e all’improvviso mi sento sollevare,
no, non mi sollevano, mi picchiano, mi prendono a calci, è la Vecchia che è
uscita e si accanisce, rinvigorita, mi ricorda la mia giovinezza, io sanguino e
sanguino, basta, sibilo, basta, voglio che arrivi la polizia, questa vecchia mi fa
paura, intravedo la servetta ridicola in pigiama blu che mi guarda dall’alto
delle scale, ha un telefono in mano, menomale, arriverà la polizia, ti sparo
troietta, grida la Vecchia, alla fine capisco cosa dice, mormoro, i coccodrilli
no, per favore, i coccodrilli no, e in quel momento sento un gran rumore dalla
parte del cancello come se si sfondasse tutto il muro di cinta, due fari mi
bruciano la retina, sento un colpo di pistola, credo di essere morta ma no, la
Vecchia crolla gorgogliando, la servetta urla e urla e lo stridio del suo urlo mi
fora i timpani, Yoïm appare, mi solleva, questa volta davvero, e mi prende in
braccio, mi spinge in macchina attraverso la portiera e si rimette al volante, fa
inversione con uno stridio di pneumatici, ha sfondato il cancello, ha un’aria
furiosa e cattiva, io non dico niente, perdo sangue in silenzio e tutto il resto
succede in un silenzio spaventoso, tutto il resto andrà in frantumi con una bella
precisione muta, Yoïm mi riporterà nella casa sotto la metro sopraelevata, mi
spoglierà e mi fascerà il torso, grugnirà e bestemmierà e parlerà e rifletterà su
cosa bisogna fare adesso ma io sverrò a intermittenza, non capirò bene, dirò
solo ogni tanto, dov’è il mio fratellino, lascialo a casa dei Dira per favore,
Yoïm mi sussurrerà, lascio tutto qui in ogni caso, io scappo mia bella, non
posso restare, ti lascio la casa, la carcassa di macchina, ti lascio su questo
letto ma non ti preoccupare, chiamo un’ambulanza prima di partire, bisogna
che scappi, tornerò a prenderti più tardi, te lo prometto, fidati di me.
Allora sono rimasta su quella branda a svuotarmi e a sperare di morire
prima dell’arrivo dell’ambulanza, sapevo oscuramente che sarei finita in un
centro di rieducazione specializzato – i campi –, sapevo che non avrei avuto
nessuna nuova opportunità, che mio padre e mio fratello sarebbero spariti, che
mi avrebbero raddrizzata a colpi di bastone, mi sono detta, mi manderanno a
ottomila chilometri da qui, sentivo la febbre impadronirsi di ciascuna delle
mie membra e darle un po’ di vita autonoma, ho saputo che mai avrei tradito
Yoïm, mio tesoro, avevo quasi quindici anni, non bisogna dimenticarlo, ed ero
là, a inondarmi del mio sangue e della mia linfa e a giurargli fedeltà.
24.

Nella stanza malva, nel ronzio insistente delle mosche blu, in quell’atmosfera
grassa, alla fine mi avvicino a Yoïm, sembra dormire un sonno sottomarino.
Assomiglia a un calamaro gigante degli abissi, tentacoli lunghi undici metri,
mai incontrato uno di quei mostri vivi, non esistono vivi, mi dico, esistono
solo morti arenati sulla spiaggia con un gran corpo immaginario.
Mi siedo sul letto e mi sdraio completamente sopra di lui, calata nella
cavità del suo addome.
Mi dico, o dorme come un sasso o è morto, mi sento tranquilla di essere
così quasi all’interno del mio Yoïm forse morto, è come una gioia che mi fa
ripetere, il mio amore forse è morto. Non ho nessun bisogno di verificare la
sua apnea, desidero immaginare il mondo che si libera di lui – il mondo?,
semplicemente io, solo io –, desidero riposarmi alla fine.
Sorrido – l’idea della sua scomparsa, mentre la densità della sua carne fa
peso dietro di me, è come un’insolenza, mi sembra di immaginare un
professore di cui ho terrore in atteggiamenti osceni.
Le mosche blu mi si posano sulle braccia percorrendo dei brevi tragitti
irregolari, le guardo agire, dicendomi, mi scrivono dei messaggi sulla pelle.
Brutalmente la mano di Yoïm si abbatte sulla mia spalla, sei qui?, sento
risuonare. Ha una voce di ferraglia – con infime particelle metalliche che
feriscono la gola. Sospiro, mi giro per vederlo in faccia e gli dico molto
piano, non sei morto?

Nel frattempo, qualcuno sta depositando una busta bianca nella mia cassetta
delle lettere con, all’interno, piegata in quattro con grande cura, i bordi del
foglio che ricoprono i bordi del foglio come se si fosse voluto abbozzare un
aereo di carta con la massima precisione, solo questa frase: Paura non avere,
sono molto vicino.
Guardo gli occhi di Yoïm e mi dico, sono vitrei come due meduse.

La sera stessa ho detto a Samuel, credo che proverò a cercarmi un lavoro.


Ma non ballerina paillettata coi pompon sui capezzoli.
Lui ha detto, certo, certo, ma che cosa vuoi fare? Ho risposto, ci penserò
ancora un po’.
L’ho guardato un istante mentre era in piedi su una sedia a sostituire una
lampadina, e poi che impugnava il giornale e si andava a mettere sugli scalini
fuori sospirando, che bell’estate che abbiamo avuto, dopo aver cacciato dal
suo bel cervello le ragioni che lo avevano spinto a tirarmi fuori di prigione,
aspettando che gli servissi un bicchiere di qualcosa, acquavite forse?, e
sorridendo sempre rifiutandosi di interrogarmi, hai rivisto Yoïm?, essendo
riuscito a relegare sugli scaffali di tre piani sottoterra la certezza che Yoïm è
tornato, che è passato da Ben nel suo negozio di articoli sportivi per cercare
materiali da pesca grossa – scalpi di coniglio colorati, sì, scalpi rosa e gialli –
mentre siamo lontanissimi dal mare qui, e Samuel che adesso sorseggia la sua
acquavite e io che mi dico, lo lascerò a sua madre, me ne andrò credo, ho solo
ventitré anni insomma, presto presto, scappiamo da qui, io che sorrido
nell’aria della sera, pensando ai bigliettini che mi trasmette mio fratello nella
cassetta delle lettere, ogni mattina, in quest’odore di ramoscelli e di aghi di
pino che mi tappezza la gola per tanto tempo dopo.
Rivedo Samuel che taglia il pesce nel piatto di sua madre l’altroieri sera,
quando è passata, raccontava di nuovo le sue storie di tarocchi e di gatti e lui
era lì, piegato su di lei che sommava sulla forchetta un pezzetto di orata, un
morso di broccoli e un po’ di purè, porgendole lo strumento dopo
l’operazione, lei, altrove, a chiacchierare e pigolare come un uccello
tropicale, Samuel attento, forse già preoccupato che lei non riesca davvero più
a nutrirsi da sola, che le diceva, che ti prepari a casa?, e lei che rispondeva,
surgelati e poi dei biscotti, e Samuel che le chiedeva, li fai riscaldare i
surgelati?, e lei leggermente turbata, guardandolo come se avesse proferito
un’indecenza o come se lo avesse sorpreso in piena crisi di delirio, che
rispondeva, ma certo, non vorrai mica che me li mangi così ghiacciati, ridendo
molto delicatamente, come sa fare lei coi suoi denti d’oro che scintillano tra le
labbra rosa madreperla.
Penso a Samuel e alla sua vecchissima madre.
E mi dico, lascerò questa città, il suo centro commerciale e la sua scuola nel
deserto, e poi no, cambio idea, non lascerò la città, prenderò un
appartamentino sulla piazza e lavorerò in un hotel, oppure farò la bidella in
una scuola media, sì ecco, bidella in una scuola e ricomincerò – no,
comincerò, non ho fatto niente finora – dei corsi per diventare maestra, sì
ecco, maestra o qualcosa di simile, e sono in piedi in cucina, tutta circondata
dal crepuscolo a progettare nuove vite, con Samuel ai miei piedi che mi porge
il bicchiere sorridendo perché glielo riempia ancora una volta di acquavite, mi
sento seduta sullo sterno tutta la mia assemblea di fantasmi che discute la mia
decisione, hanno l’aria di trovarla irragionevole, parlano di lasciare il certo
per l’incerto – per la tana dei lupi? –, mio padre mi ricorda da dove mi ha
tirato fuori Samuel, ricordati della tua detenzione, Lili, di come si è impegnato
per farti ridurre la pena, ricordati della sua generosità, ma perché, mi permetto
di rispondergli, perché Samuel veniva a trovare le ragazzine nei centri di
rieducazione forzata, perché preferiva trascorrere i suoi sabati con noi quando
avrebbe potuto uscire, piazzarsi sul fondo di un divanetto umido in un cinema e
lasciar passare il temporale, quando avrebbe potuto andare a cercare dei libri
in biblioteca, attaccare discorso con la ragazza dagli occhi verdi dietro al
bancone, quella ragazza che gli sorrideva sempre e commentava le sue scelte
letterarie, e forse, sì, invitare questa ragazza con gli occhi verdi a bere
qualcosa al Globo, perché veniva appositamente a portarmi delle tortine ai
mirtilli – le ha fatte mia madre, diceva sorridendo con gli occhi che
sorridevano ugualmente, fossette e promesse –, e io preoccupata di sentirmi
bendisposta e vacillante, così vicina a fidarmi di lui, io che mi riprendevo, è
una stronzata questa storia delle tortine ai mirtilli preparate da sua madre, io,
che mi truccavo gli occhi prima che arrivasse il sabato, per rendere le ciglia
più lunghe e più folte ancora, volendo che assomigliassero alle barbe di una
piuma, che ne fosse colpito, che rientrasse a casa sua la sera e pensasse, ha
occhi da cerbiatta, o da giraffa o da puledra, o da qualsiasi cosa con occhi e
ciglia lunghe e piene di ombre, e lui che tornava così regolarmente, così
puntuale e io che piagnucolavo un po’ e gli dicevo, non ho più genitori, non ho
più una famiglia, tutte le lettere che ho spedito al mio fratellino mi sono tornate
indietro, mio padre ha firmato per la mia emancipazione, non vuole più sentir
parlare di me, inorridito, ne sono sicura, all’idea di tutto quello che avevo
fatto, applicando da quel momento in poi un’educazione ancora più rigida con
mio fratello, rimpiangendo di non poter purgare quest’onta familiare in un
bunker con armi appropriate, lasciando la città e i Dira spaventati,
trasferendosi in un villaggio del partito per il lavaggio del cervello del
fratellino e una duratura ripresa del controllo, e Samuel che mi diceva, vuoi
che provi a ritrovarli, e io vicino a lui nella stretta stanza salmone scrostata
con sedie in ferro per nani, che gli dicevo, no no, ho troppa paura di quello
che possono essere diventati, e in ogni caso non ne vogliono più sapere di me,
Samuel mi stringeva la mano, la premeva contro la sua per farmi capire la sua
serietà e la sua determinazione e anche l’affetto che provava per me, Samuel
che riusciva finalmente a togliermi di là – odore di ferraglia e rumori di
chiavi, disintossicazione e incubi nel cassetto – per portarmi qui in questa casa
di legno con le acacie, ma che non riesce, il mio Samuel, a risvegliare in me
niente di più che riconoscenza.

L’indomani mattina, ho acciuffato il ragazzino.


Mentre Samuel dormiva ancora io mi sono nascosta, con quell’eccitazione
intensa che irradiava da ogni mia fibra e la rendeva elettrica, e ho aspettato in
garage, in mezzo all’odore dell’olio per motori e degli attrezzi di metallo,
seduta a lungo su uno sgabello, a guardare attraverso la porta o a contemplare i
profili delle tenaglie e del martello disegnati sul muro – dai proprietari
precedenti che si erano portati via le tenaglie e i martelli nel trasloco ma ne
avevano lasciato le tracce e le ombre sui pannelli di legno – rabbrividendo
nell’alba, quasi addormentandomi ogni tanto, con gli occhi aperti come per lo
stupore, aspettando semplicemente che comparisse il mio fratellino.
Un ragazzino è arrivato in bicicletta, tranquillamente, fischiettando,
montando sul marciapiede per non dover scendere dal suo mezzo mentre
infilava la lettera nella cassetta: aveva i capelli grassi, la pelle intonata, la
maglietta nera con scheletro fosforescente, lo zaino pieno di spillette attaccato
con elastici sul portabagagli. Mi sono detta, questo è mio fratello?, e poi no
chiaramente, mi sono ripresa, no no non è lui, allora sono saltata sul
marciapiede, lui ha fatto un salto all’indietro squittendo – gridolino da topo
delle palme –, ha perso l’equilibrio, la gamba sinistra che scalciava in aria, la
destra che tentava di far riprendere l’equilibrio alla bici e al ragazzo.
L’ho preso per un braccio, si è dibattuto urlando, non c’entro niente, io non
la conosco, non c’entro niente. Quando l’ho lasciato, gli ho sorriso in modo
che abbandonasse l’idea che ero una pazza che lo voleva rapire – un sorriso
molto dolce e ragionevole –, si è allontanato di due passi e ha detto scuotendo
la testa, non so assolutamente che cosa le scriva, ci siamo incontrati a una gara
di nuoto – com’è incredibile, quando sono sparita in prigione per farmi
rieducare il mio fratellino aveva quasi cinque anni e non si era mai immerso
da nessun’altra parte oltre che nella nostra vasca da bagno, niente vacanze al
mare, perché troppo olio solare e troppe femmine quasi tutte nude (carne,
carne, diceva nostro padre, relitti, sono relitti), e neanche niente piscina,
verruche, piattole anfibie e blatte, a nostro padre sarebbe piaciuto farci fare il
bagno nei torrenti di montagna per fortificare le nostre anime infantili, ma mia
madre gli aveva sempre impedito di portarci sulle cime dove non ci avrebbe
potuto accompagnare, per via del suo peso. Ho detto, ma allora sa nuotare?,
cosa che ha spinto il ragazzino a guardarmi ancora più serio dietro le palpebre
macchiate di acne. Ho sorriso di nuovo, il mio sorriso «è tutto normale».
Allora ha proseguito con la sua spiegazione, si erano incontrati in costume da
bagno e cuffia, avevano simpatizzato – allora il mio fratellino parlava, la gioia
mi ha incendiato il cuore –, si erano rivisti, erano rimasti vagamente in
contatto per interposta persona, si incontravano poco, al di là della piscina e
delle gare, perché mio fratello abitava lontano, ho chiesto, suo padre lo
accompagna ogni tanto?, il ragazzino mi ha guardato come se fossi pazza, no,
suo padre è malato, da quello che mi ha raccontato non può più parlare, più
camminare, una cosa del genere, e ha aggiunto con la sua aria furbetta, è suo
fratello?, e senza aspettare che io rispondessi ha continuato, è venuto qui una
volta sola, siamo andati allo zoo perché eravamo con la mia ragazza (mi sono
interrogata sulla relazione causa-effetto, davvero le ragazze amano gli animali
ed è più facile sedurle portandole preventivamente allo zoo?) e siamo andati
allo Scarabeo (il centro commerciale, soprannome che gli danno gli
adolescenti della zona). Ho assentito, certo, certo. Ha aggiunto, adesso mi
manda delle buste per lei, non avevo nessun motivo per rifiutarmi di
portargliele. Mi sono detta, allora mi cercava, il mio fratellino mi cercava. Ho
sospirato, non dovevo essere così difficile da ritrovare, ce l’avevo quasi con
lui per non essersi fatto vivo prima. Ho arricciato il naso e ho detto con un
tono gioioso, sono notizie eccellenti, mi lasci il suo numero? Ha esitato –
lealtà? – poi ha alzato le spalle e l’ha scarabocchiato su uno scontrino del fast
food pescato in fondo alla tasca. Ha inforcato la bici, io ho aperto la busta di
mio fratello che mi aveva consegnato il ragazzo, lui è partito, io ho dispiegato
il biglietto, lui mi ha fatto un segno prima di svoltare in fondo alla strada come
se ci conoscessimo da chissà quanto tempo, perché alla fin fine ero una
vecchia abbastanza carina. Ho letto il biglietto, c’era scritto: Bisogna pulire
tutto per bene.
Mi sono detta, questo ragazzino tornerà a casa e chiamerà il mio fratellino.
Mi sono detta, finalmente lo rivedrò e gli parlerò.
Mi sono detta, bisogna che faccia presto prima che arrivi per sparare a
Yoïm.
25.

Ho smesso di prendere le pasticche di Yoïm. Non era così difficile. Mi è


bastato rimandare al minuto successivo, per tutta la giornata, il momento di
prendere le pasticche, contavo i minuti guadagnati, facevo delle tabelle su
pezzi di carta per congratularmi di tutto il tempo che fino a quel momento non
avevo perso, mi attivavo – diserbiamo, sfrondiamo, tagliamo e tosiamo –, alla
fine ho chiamato Yoïm (metà pomeriggio, pigrizia tra i ligustri e le acacie ma
bollore tutto dentro), mai mai non l’avevo ancora chiamato, mi aveva
autorizzato ma io preferivo trovarlo allo zoo. Sentire la sua voce restituita nel
mio orecchio, farla penetrare qui in questa casa in cui vivevo con Samuel mi
sembrava un tradimento supplementare (aggrappata al telefono, le gambe
incrociate e ben strette).
Ha risposto e la sua voce mi ha sbriciolato finemente, beninteso. Ho pensato
no no no e ho detto sentendo il palmo della mano – quella che teneva così forte
il telefono che mi sembrava che ci sarebbe rimasta innestata per sempre –
inzupparsi e scottare, non ci vedremo più, vattene a pescare in mare visto che
adesso sei attrezzato, esci dalla mia vita, questa storia finirà male.
Non sono stata per niente credibile. Avevo una voce acuta e tremula.
Davvero non sono stata per niente credibile.
Vieni bella mia, parleremo di tutte queste cose (ha riso), e poi non parto
subito per andare a pescare il pesce spada, non ho intenzione di andarmene
senza di te mia bellissima.
Sono rimasta inerte, senza muovermi né respirare, come un sasso.
Ho detto d’accordo, ho sospirato, vada come vada, ha riattaccato e io sono
rimasta un istante col telefono in mano, l’aria era diventata pesante, la pelle
immersa completamente in una materia di grana e temperatura paragonabili
alle sue, ho ripetuto, va bene va bene e ho sentito il vento alzarsi
all’improvviso, era senza dubbio un vento da temporale, veniva da molto
lontano, sapeva di sabbia e di iodio, veniva da lontanissimo. Mi sono alzata e
ho chiuso le persiane. Ho preso il coltello grande da pescivendola e un
cucchiaino (per estrargli i bulbi dalle orbite), li ho deposti in fondo alla mia
borsetta luccicante (perline e lustrini, una borsa da ragazzina, da ragazzina
molto giovane), ho pensato, rivedrò mio fratello, non è mai scomparso, ha solo
imparato a nuotare e a parlare di nuovo, va tutto molto bene, è tutto normale, il
tempo passato a farmi rieducare con tutte quelle puttane carogne allora è
assolutamente passato, rivedrò mio fratello. Sono uscita di casa, il cielo era di
un bel colore acciaio lucido, ho sentito tuonare lontano, era ancora molto
lontano. Vorrei morire qui folgorata, oh sì, levatemi tutti questi parafulmini,
lasciateci finire grigliati, colpiti in mezzo alle spalle dal fulmine. Borbottavo,
con la borsa di lustrini sotto il braccio, la mia borsina da spogliarellista,
fatemi una divisa con questa borsa, mi basta giusto un pezzetto di spago e
qualche perlina, basteranno, il coltello aveva forato l’angolo della borsa, lo
vedevo che spuntava e lacerava il tessuto e ridevo piano piano. Mi libererò,
pensavo, mi libererò e andrò a stare in un’altra capanna, l’arrederò come
voglio io, con piante e cassette della frutta come un campo nomadi, andrò a
stare in un’altra caverna. Continuavo a ridere e mi ripetevo non ci sei più tutta
con la testa, e parlarmi così e con quel tono mi faceva divertire ancora di più.
Una burrasca calda, aria piena di sabbia e di conchiglie, mi ha spinto verso la
macchina, mi sono detta, Samuel ormai va in giro solo in bici, ritornerà un
bambino piccolo?, me lo sono immaginato su un grande triciclo adattato alla
sua altezza, ho scosso la testa per non essere ingombrata da questi pensieri
parassiti, una goccia così grossa che non pensavo potesse essere pioggia mi è
caduta sulla nuca, mi sono detta, è un momento meraviglioso per andare a
regolare i conti con quel mostro, mi sentivo tutta eccitata dall’elettricità che
zigzagava nell’aria e mi attraversava a momenti lasciando dietro di sé sulla
mia pelle un odore di bruciaticcio o di zolfo, la sensazione spossata di una
leggerissima scarica elettrica – elettroshock, ho sospirato –, sono scivolata in
macchina, ho messo in moto, la pioggia si è messa a cadere, solo qualche
goccia all’inizio, enorme e oleosa, e poi l’acquazzone e il diluvio, come per
impedirvi di andare avanti, per lasciarvi impiombati proprio lì, senz’altra
possibilità che guardare l’acqua che scorre lungo la portiera, ho girato
l’angolo della strada nel frastuono della pioggia sulla lamiera, i tergicristalli
non servivano più a niente, tanto che alla fine si sono arresi, e io che andavo
avanti verso il mio bruttissimo amante che mi ha lasciato a marcire per troppo
tempo, sono marcia adesso caro Yoïm, è andata male finita basta (era
un’espressione di mamma, è andata male finita basta, lo diceva con un gesto
definitivo della mano come per fare tabula rasa di qualcosa), avevo posato
accanto a me sul sedile del passeggero la borsa da cui usciva, aguzza, la punta
del coltello da pescivendola, e andavo avanti alla cieca, seguendo i fari delle
macchine che mi precedevano nel chiarore e nello scrosciare del temporale –
è il mio dolore, Yoïm, ci credi che è il mio dolore ad accecarmi –, non sapevo
neanche più se piangevo o no, costretta per essere sicura a toccarmi gli occhi e
le guance, e io vagamente stupefatta, ah no, non sto piangendo, mi sento
addirittura piuttosto allegra.
Mi sembrava di correre lentamente – come nel mondo che non riesce a
muoversi nel mezzo dei sogni.
Sono arrivata al motel con la camera malva ma sono rimasta ancora un poco
in macchina. Mi è tornato il desiderio solo a vedere il contorno rettilineo
dell’edificio sotto la pioggia, immaginandomi le luci nelle camere. Mi sono
detta, allora non hanno paura dei fulmini, mi sono ricordata di mamma che
staccava il contatore e staccava gli apparecchi elettrici, che parlava di
incendio e di palle di fuoco che attraversavano la casa da parte a parte, da una
finestra all’altra (perciò non restare mai vicino a una finestra durante un
temporale), le palle di fuoco che tracciavano il loro percorso bruciato in
mezzo alle nostre interiora, e io che mi dicevo, sono solo delle navicelle
spaziali piene di esseri minuscoli che attraversano così velocemente la nostra
atmosfera che si bruciano e si consumano in salotto e alla fine si buttano dalla
finestra della cucina sul terrazzo coi cactus e crepitano un po’ prima di
spegnersi del tutto sulle piastrelle sconnesse. Nonostante la mia intima
conoscenza dei segreti interstellari mi nascondevo dietro la poltrona durante il
temporale in modo che mamma si rassicurasse e non gemesse troppo tremando
tutta – il mio budino tremolante ai frutti rossi.
Ho continuato a contemplare il motel e i suoi neon a stella, luna e prezzi
imbattibili, vedevo solo dei vaghi luccichii slavati dietro il parabrezza. Mi
sono detta, solo un’ultima volta, dai, solo un’ultima, sentendo di nuovo
l’acidità che mi mordeva il cuore, stringendo le cosce una contro l’altra,
dicendomi, questa pioggia mi raffredderà il corpo, devo restare un istante sotto
questa pioggia, mi metterò a fumare come una padella sotto il rubinetto, ghigno
e ridacchio ancora, aprendo la portiera, uscendo dalla macchina, esitando per
la forza del temporale che si riversa su di me, rabbia e determinazione,
dicendomi, ma annegherò, dicendomi, ma mi sbriciolerà le ossa, alla fine
andando avanti di qualche passo, accorgendomi che ho dimenticato cucchiaino
e coltello da pescivendola e borsina di perline, ritornando in macchina a
prenderli, rituffandomi sotto il temporale, sbattendo la portiera, lampo e tuono
simultanei appena sopra di me, oddio, è proprio qui sopra, fa tremare
qualsiasi cosa solida, e camminando, rifiutando di correre fino al portico
davanti alla camera malva, ripetendomi, mi sconquasserà tutta forse, non
dovrò più scopare e impormi di non scopare, non dovrò più mentire ed
eliminare, pulire tutto.
Alla fine sono salita sul ballatoio, eccomi da adesso al riparo, la terra
sapeva di terra, di metallo e di ozono, era un odore profondo e ancestrale –
l’odore dei campi e delle foreste, qualcosa che non aveva niente a che fare con
il bitume e la polvere. Ho bussato alla porta di Yoïm. È venuto ad aprirmi,
aveva quel sorriso, aveva addosso il completo mimetico, l’ho trovata una
scelta un po’ ridicola, ma ho insistito, nonostante quella scelta ridicola l’ho
trovato molto seducente, ho pensato, dai, ancora un’ultima volta – ho visto la
sua mano soppesarmi i seni, piazzata lì sotto la loro densità e rotondità e lui
che parlava di dolcezza e pesantezza con la voce che non raccontava mai
nient’altro che storie di dolcezza e pesantezza, che non parlava mai del tempo
passato fuori mentre ero rinchiusa, che non parlava del dolore mai, che non gli
fregava niente di parlare delle cose vere, allora mi sono detta senza crederci
più, l’ultima e poi basta, ho sentito la gioia invadermi il corpo praticamente
affogato perché all’improvviso ero più forte di quel desiderio e già sollevata
di non dover più lottare, insomma quasi beata, e ho sentito al disopra del
fracasso della pioggia il rumore piccolo e molto tranquillo, una sorta di
carillon lieve, che facevano le perline della mia borsa da spogliarellista tenuta
ben stretta all’incavo della pancia, ho sentito questo rumorino così calmo che
turbava appena la superficie bagnata delle cose, e ho tirato fuori, con gesti
precisi e graziosi, gesti che avevo coreografato e calcolato per anni, ho tirato
fuori il coltellaccio da pescivendola e il cucchiaino. Li ho guardati e ho
sorriso, si trattava solo di un cucchiaino per girare lo zucchero in fondo alla
tazza e di un coltello per pulire le sardine. Sono libera, ho detto. Ho sentito la
forza di respingere Yoïm. Ho alzato il viso verso di lui e ho cominciato a
ridere perché era semplicemente ridicolo con quel completo mimetico, tuta
militare e anfibi, mi sono detta, ha delle riserve infinite di grasso, ho pensato,
ci si sarebbe potuto fare un bel po’ di sapone, e ridevo senza potermi fermare
col cielo squarciato dietro e quel rumore d’acqua invadente e il sollievo e la
gioia che mi riempivano la bocca di miele.
INDICE

Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25

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