Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
LA VITA
L’esteta
La vita di D’Annunzio può essere considerata una delle sue opere più interessanti, secondi principi
dell’estetismo bisognava fare della propria vita un’opera d’arte.
→ È nato a Pescara nel 1863 da una famiglia borghese.
→ Esordì nel 1879, sedicenne, con un libretto di versi, Primo vere che suscitò una certa attenzione anche da parte
di letterati di fama.
⤷A 18 anni si trasferì a Roma poi abbandonò gli studi preferendo salotti mondani e redazioni di giornali.
Esercitò la professione di giornalista (giornali: La Tribuna, Mattino). grazie ai quali acquistò notorietà in campo
letterario sia attraverso una copiosa produzione di versi e di opere che spesso suscitavano scandalo per i
contenuti erotici, Sia attraverso una vita altrettanto scandalosa, per i principi morali dell’epoca, fatta di continue
avventure galanti, lusso, duelli. Non so si crea la maschera dell’esteta: rifiuta inorridito la mediocrità borghese,
rifugiandosi in un mondo di pura arte, e che disprezza la morale corrente.
Il superuomo
Questa fase estetizzante della vita di D’Annunzio attraverso una crisi riflettendosi anche nella tematica della
produzione letteraria; lo scrittore cerco così nuove soluzioni e le trovo nel mito del superuomo ispirato alle teorie
di Nietzsche, un mito non più soltanto di bellezza ma di energia eroica attivistica. Per il momento restava solo
un vagheggiamento fantastico di cui si nutriva la sua produzione poetica e narrativa. Nella realtà D’Annunzio
puntava a creare l’immagine di una vita eccezionale il “vivere inimitabile”. Nella villa della capponcina
conduceva una vita da principe rinascimentale, A creargli intorno un alone di mito contribuivano anche i suoi
amori tra i quali Eleonora Duse. Con le sue esibizioni clamorose ed i suoi scandali lo scrittore voleva mettersi in
primo piano nell’attenzione pubblica, per vendere meglio la sua immagine ai suoi prodotti letterari. Quindi il culto
della bellezza e del vivere inimitabile risultavano essere finalizzati al loro contrario, Acciò che D’Annunzio
ostentava di disprezzare, il denaro e le esigenze del mercato. È una contraddizione che D’Annunzio non riuscì
mai a superare. D’Annunzio inoltre vagheggiava anche sogni di attivismo politico
L’esordio
Le prime due raccolte liriche Primo vere e Canto novo si rifanno alle Odi barbare Carducci. La prima opera
narrativa la raccolta di novelle Terra vergine si rifà al Verga di Vita dei campi.
Canto novo: oltre alla metrica Barbara, ricava da Carducci il senso del tutto pagano delle cose sono i forti,Della
comunione con una natura solare e vitale. Ma questi temi sono portati al limite estremo e toccano i vertici di una
fusione è Bra tra io e natura che fa già presente il futuro panismo superomistico. Spunti diversi: vitalismo
sfrenato cieli sempre in sé il fascino ambiguo della morte. Anche qui sono presenti spunti sociali provenienti dal
contemporaneo verismo.
Terra vergine: È il corrispettivo in prosa del canto novo. Il modello è il Verga rusticano di vita dei campi. Il
mondo di terra vergine è sostanzialmente idillico, non problematico. Sul piano delle tecniche narrative, questo
compiacimento per la ferinità e la barbarie si esprime in una continua intromissione della soggettività del
narratore che l’opposto dell’in personalità verista
Novelle della Pescara: comprende anche le raccolte il libro delle vergini e San Pantaleone. Accanto all’interesse
regionale e dialettale, rivelano l’ambiguo compiacimento per un mondo magico, superstizioso e sanguinario.la
loro sostanza profonda si collega alla matrice il razionalistica del decadentismo.
Consolazione
Questa lirica, tratta dal Poema paradisiaco, esprime un momento particolare della sensibilità dannunziana: il
momento della stanchezza, della sazietà, seguito al momento sensuale ed estetizzante del primo periodo
dell’attività letteraria del poeta, culminato nel Piacere. Egli desidera ora ritornare al fianco della madre, per
rivivere l’innocenza perduta dell’infanzia.
Il titolo “Consolazione” indica l’intenzione del poeta di consolare la madre, che è vissuta in solitudine,
preoccupata della vita dissipata del figlio lontano.
La lirica comincia con l’esortazione alla madre di non piangere più e di uscire a passeggiare nel giardino
abbandonato, per rievocare insieme le cose passate.
Sebbene sia settembre, la terra è ancora coperta di fiori e l’aria è mite.
La madre esita ad accettare l’invito, ma il poeta insiste: prenda un po’ di sole e non pensi alle cose cattive che
le hanno detto del figlio. Ella tornerà a sognare accanto a lui, ed egli vicino a lei si sentirà purificato, come se
prendesse dalle sue mani la lieve ostia dell'Eucaristia, che monda, libera dalle colpe chi la riceve.
Intanto nell’aria si diffonde un profumo che sembra il fantasma d’un april defunto, e per tale motivo la stessa
aria di settembre sembra avere quasi l’odore ed il pallore di una primavera dissepolta (il profumo della
primavera è simbolo della fanciullezza innocente che è rifiorita nella mente del poeta).
Verso sera egli prenderà il cembalo e, mentre nella stanza vagherà qualche odore delicato, come di viole un po’
passate, suonerà una vecchia e triste aria di danza; poi, per la madre sola, comporrà un canto che la raccolga
in sé come in una culla.
Allora si compirà un miracolo: tutto sarà come prima; al poeta l’anima ritornerà ad essere semplice, come nella
fanciullezza, e andrà leggera nella sua ritrovata innocenza dalla madre, con la stessa naturalezza con cui
l’acqua viene al cavo de la mano.
La lirica esprime, dunque, la volontà del poeta di mutar vita, di abbandonare le esperienze raffinate e gaudenti
della vita mondana e di ritornare alla semplicità e all’innocenza della fanciullezza. Ma il temperamento sensuale
del D’Annunzio rende velleitario, troppo ostentato e artificioso il mutamento. Così esso si mantiene nell’ambito
delle sensazioni e non si risolve in un effettivo rinnovamento morale.
In altri termini, D’Annunzio vuole ora “provare” ad essere buono e santo, per poi passare ad altre sensazioni. E
così egli programmerà altri atteggiamenti, quello del superuomo, dell’eroe, del poeta Vate, come prima aveva
assunto le vesti del¬l’esteta, per realizzare il mito del “vivere inimitabile“.
La struttura di questa lirica, a volte fin troppo studiata nel suo psicologismo, è fitta di ripetizioni, di pause, di
cadenze sparse che tendono ad esprimere il senso di stanchezza, di estenuazione e di languore, accresciuto
da certe espressioni dolciastre, dopo l’esperienza dionisiaca del periodo sensuale ed estetizzante.
La condizione psicologica della sazietà, del languore e della stanchezza, e il bisogno di rivivere la purezza e
l’innocenza della fanciullezza, non è originale del D’Annunzio: egli la derivò, come tanti altri motivi, da un filone
del Decadentismo francese. E a questa condizione psicologica del Poema paradisiaco s’ispireranno in seguito, i
poeti crepuscolari.
IL RITORNO DEL FIGLIOL PRODIGO Il poeta ritorna a casa come un figliol prodigo. Si rivolge alla madre
anziana, la invita a uscire al sole pallido di settembre, le confessa di essere stanco di mentire (v. 2) e le
promette che d’ora innanzi vivrà una vita semplice e profonda (v. 34): vuole purificarsi attraverso la pura mano
(v. 31) della madre, che sarà per lui come l’ostia che monda (v. 35). Tutto concorre a creare un’atmosfera di
stanchezza e abbandono (v. 11). Il periodo dell’anno è settembre: la luce del sole è tenue (lento sol di
settembre, vv. 18-19), la natura si prepara all’inverno: le rose sono poche, rare le piante. Il luogo in cui il poeta
vuole passeggiare con la madre, che ha uno sguardo stanco (v. 21), è un giardino abbandonato (v. 5) di una
villa in decadenza: le tende sono scolorite (scolorate, v. 53), nelle stanze si sente un odore delicato (v. 54),
debole come di viole sfiorite (v. 56), al pianoforte manca qualche corda (vv. 49-50).
FAR RIVIVERE IL PASSATO Il poeta vuole recuperare quanto è stato trascurato e dimenticato (certe cose
che l’oblìo afflisse, v. 14). Infatti, il ritorno a casa è anche un ritorno al passato, un desiderio di farlo rivivere
ritornando alla vita familiare: Tutto sarà come al tempo lontano (v. 65). Il poeta ricorda alla madre la dolcezza di
certe cose del passato (v. 8) e del tempo lontano (v. 30): rinascono le immagini di un april defunto (v. 40), di
una primavera dissepolta (v. 44), quando il poeta non era ancora andato via di casa.
LA GRAZIA «VAGA E NEGLETTA» Nella poesia dominano i colori tenui e sfumati (il suono velato, fioco, v. 59;
la danza un poco triste, vv. 58-59). Tutto è vago e indeterminato: quali sono le certe cose del passato
dimenticate (vv. 8, 14) e le cattive cose (v. 26)? Quali le menzogne del poeta? Come sarà la vita nuova che
vuole iniziare? Il canto che il poeta compone per la madre, e non per una delle sue innumerevoli amanti, ha una
grazia vaga e negletta (v. 64): e questa qualità estetica si può interpretare come una sorta di programma valido
per tutto il Poema paradisiaco.
D’ANNUNZIO E PASCOLI La poesia mostra notevoli somiglianze con alcuni testi di Pascoli, come Dialogo.
Non solo la struttura retorica è simile (un monologo in presenza della madre), ma lo è anche la sintassi:
spezzata e ricca di domande. Più che stabilire chi dei due ha preso ispirazione dall’altro, è interessante notare
come l’avvicinamento stilistico e tematico fra i due poeti sia un episodio destinato a non avere seguito. Mentre
pubblica il Poema paradisiaco, infatti, D’Annunzio entra in contatto con le idee del filosofo tedesco Nietzsche.
Tali idee consolidano e rendono esclusive quelle tendenze dannunziane (alla sensualità, al superomismo,
all’idealizzazione del mondo classico, a una visione quasi mistica del mondo naturale) rispetto alle quali il
Poema paradisiaco costituisce un’eccezione. D’Annunzio imbocca così, definitivamente, una strada che è
distintissima da quella presa da Pascoli.
LESSICO ORDINARIO, SINTASSI SEMPLICE In tutte le sue poesie D’Annunzio usa parole rare e preziose,
una sintassi complicata da figure di inversione e, come un poeta classico, ricorre spesso alla mitologia. Il
Poema paradisiaco è un’eccezione. Ad esempio, in Consolazione non c’è traccia di mitologia e il lessico è del
tutto ordinario. La sintassi è semplice: le proposizioni sono brevi e le parole si dispongono per lo più secondo
l’ordo naturalis. Nasce così un ritmo spezzato, che viene reso più evidente dalle frequenti inarcature (le più
intense sono lento sol, vv. 18-19; fiato debole, vv. 55-56; una grazia, vv. 63-64).
L’ACCORDO TRA FORMA E CONTENUTO Un altro dato stilistico importante è che il testo viene costruito
sulle figure retoriche di ripetizione. Data la loro abbondanza, D’Annunzio è attento a introdurre variazioni in
alcune di esse: Vieni, usciamo (vv. 3, 5), Usciamo (v. 18); Ti dirò (vv. 7, 13); ancòra (vv. 9, 10, 11); sorriderà, se
tu sorriderai (v. 12; poliptoto); un po’ di sole (vv. 23, 24); bianca … volto (v. 4), viso bianco (v. 24); sogna (vv.
29, 33, 37), tempo di sognare (vv. 37, 45); tutto (vv. 29, 30); l’anima tua m’intende (v. 38), l’anima tua m’ascolta
(v. 41), m’odi tu (v. 55); pallore (vv. 42, 43); Mancava … qualche corda (vv. 49-50), qualche corda … manca
(vv. 50-51; poliptoto e chiasmo). Gran parte del fascino di Consolazione sta proprio nell’accordo tra la forma,
che oscilla tra ripetizione e variazione, e il contenuto, che genera nel lettore un senso di fiacchezza e grigiore.
D’Annunzio e Nietzsche
Nunzio coglie alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche: il rifiuto del conformismo borghese, l’esaltazione dello
spirito dionisiaco, il rifiuto dell’etica della pietà, dell’altruismo, l’esaltazione della volontà di potenza, il mito del
superuomo.da questi motivi un’accentuata coloritura antiborghese, aristocratica, reazionaria, imperialistica.
Vagheggia perciò l’affermazione di una nuova aristocrazia, che sappia tenere schiava la moltitudine degli esseri
comuni ed elevarsi a superiori forme di vita attraverso il culto del bello e l’esercizio della vita attiva ed eroica. In
tal modo la stirpe latina arriverà a toccare la sua forma più compiuta. Il motivo nietzschiano il superuomo e
quindi interpretato da D’Annunzio nel senso del diritto di pochi essere eccezionali ad affermare se stessi,
sprezzando le leggi comuni del bene del male.
Il superuomo e l'esteta
Il nuovo personaggio del superuomo creato non nega la precedente immagine dell’esteta, ma la ingloba in sé,
conferendole una diversa funzione. L’estetismo diventa strumento di una volontà di dominio sulla realtà. L’eroe
dannunziano si adopera per imporre attraverso la bellezza, il dominio di un’Elite violenta e raffinata insieme, su
mondo meschino e vile come quello borghese. Il mito del superuomo è un tentativo che va in direzione opposta
rispetto a quella che proponeva il mito dell’esteta, poiché affida all’artista superuomo una funzione di vate, di
guida in questa realtà, ed anche compiti più pratici, attivi, una missione politica. Figura del superuomo offre
soluzioni che possono sostanzialmente accordarsi con le tendenze profonde dell’età dell’imperialismo, del
militarismo aggressivo e del colonialismo. Egli ambisce a rovesciare la sorte comune a ritrovare un ruolo
sociale.si conferisce da sé tale ruolo attribuendosi il compito di profeta di un ordine nuovo: l’artista mediante la
sua attività intellettuale, deve aprire la strada al dominio delle nuove Elite, che ponga fine al caos del liberalismo
borghese, della democrazia, dell’egualitarismo, e ditali Elite deve egli stesso entrare a far parte.
Il fuoco
Il romanzo si propone come “manifesto letterario“ del superuomo: l’eroe Stelio Effrena, medita una grande
opera artistica, che sia fusione di poesia, musica, danza, e attraverso di essa vuole creare un nuovo teatro, che
dovrà forgiare lo spirito nazionale della stirpe latina. Anche qui forze oscure si oppongono e prendono il corpo in
una donna, Foscarina Perdita. La donna, una grande attrice Che già si avvia al declino della maturità, incarna la
trazione dannunziana per il disfacimento e la morte, e con il suo amore nevrotico e possessivo ostacola l’eroe
nella sua opera. Lo scenario in cui si svolge la vicenda la città di Venezia, raffinatissima e decrepita. Il romanzo
si conclude con Foscarina Che lascerà libero Stelio, allontanandosi definitivamente da lui, in modo che possa
seguire la sua via.
LE OPERE DRAMMATICHE
LE LAUDI
Il progetto
Sette libri di Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi. I primi tre Maya, Elettra e alcyone Sono terminati e i
loro titoli derivano dai nomi delle stelle delle Pleiadi. La costruzione rimane incompiuta. Un quarto libro merope
è dedicato all’impresa coloniale in Libia. Quinto libro Asterope comprende poesie ispirate alla prima guerra
mondiale
Maia
Il primo libro è un lungo poema unitario di oltre 8000 versi, adotta il verso libero utilizza rime ricorrenti senza
schema fisso. Il fluire libero si presenta come carme ispirato, profetico, pervaso di slancio dionisiaco e
vitalistico. Ne deriva un discorso poetico tenuto su tonalità costantemente enfatiche e declamatorie, gonfie
ridondanti. Il poema è la trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia realmente compiuto da D’Annunzio nel
1895. L’io protagonista si presenta come eroe “Ulisside”, proteso verso tutte le più multiformi esperienze,
pronto a spezzare ogni limite e divieto pur di raggiungere le sue mete. Il viaggio nell’Ellade e l’immersione in un
passato mitico. Dopo questa iniziazione il protagonista si reimmerge la realtà moderna, nelle metropoli
industriali. Il mito classico va trasfigurare questo presente, riscattandolo dal suo squallore. L’orrore della civiltà
industriale si trasforma in una nuova forza e bellezza, equivalente a quella dell’Ellade e di mostri del presente
divengono luminose entità mitiche. Il poeta arriva così ad inneggiare ad aspetti tipici della modernità quali il
capitale, la finanza internazionale, i capitani d’industria, le macchine, poiché esse racchiudono in sé possenti
energie, che possono essere indirizzate ai fini eroici ed imperiali. ora inneggia alle nuove masse operaie.
Elettra
Nel secondo libro D’Annunzio utilizza una propaganda politica diretta. La struttura ideologica del libro ricalca
quella di Maia. Anche qui vi è un polo positivo rappresentato da un passato e un futuro di gloria e di debolezza,
che si contrappone ad un polo negativo presente da riscattare. Una parte cospicua del volume è costituita dalla
serie delle liriche sulle città del silenzio. Sono le antiche città italiane, ora lasciate ai margini della vita moderna,
che conservano il ricordo di un passato di grandezza guerriera e di bellezza artistica. Medioevo Rinascimento
italiani sono dunque l’equivalente funzionale dell’Ellade classica in Maia. Costante anche la celebrazione della
romanità in chiave eroica. D’Annunzio si propone come vate di futuri destini imperiali, coloniali e guerreschi
dell’Italia.
ALCYONE
Il significato dell’opera
L’esperienza Panic a cantata dal poeta, lungi dall’essere pura di ideologia, non è che una manifestazione del
superomismo: solo al superuomo, è concesso di transumanare, di indiarsi Al contatto con la natura, attingendo
ad una vita superiore, Aldilà di ogni limite umano.ed il gioco straordinario delle immagini, la trasfigurazione
musicale della parola sono resi possibili, nella visione di D’Annunzio solo da una sensibilità privilegiata, più che
umana. Ripresa diretta di: l’esaltazione di una violenta vitalità dionisiaca, la prefigurazione di un futuro di rinata
romanità imperiale, l’ulissismo (cioè la febbre di vivere tutte le esperienze, aldilà di ogni limite). In concomitanza
con l’affiorare della consueta e te lo Gia anche nel linguaggio subentra in molti punti la tensione retorica, la
gonfiezza enfatica fatta di interrogazioni, esclamazioni, e numerazioni ridondanti. D’Annunzio è in grado di dare
luogo a esiti straordinari per intensità suggestiva.il libro offre anche alcuni dei risultati più alti della poesia
dannunziana: una poesia che esercitato un’influenza profonda sulla lirica novecentesca, la quale ha fatto tesoro
delle soluzioni musicali, della magia verbale, del gioco analogico offerti dei componimenti dell’alcyone.
La sera fiesolana
Il suono delle mie parole nella sera ti risulti fresco come il fruscio che producono le foglie del gelso in mano chi
in silenzio le raccoglie e ancora indugia lentamente in quella attività sull’alta scala che si fa nera, contro il tronco
del gelso che diventa di un colore argenteo con i suoi rami privi di foglie, mentre la luna sta quasi per emergere
dalle soglie del cielo e sembra stendere un velo davanti a sé, dove giace il nostro sogno d’amore e sembra che
la campagna si senta già tutta inondata da lei nel gelo notturno e da lei assorba il desiderato refrigerio, prima
ancora di vederla.
Sii lodata per il tuo viso color della perla, o sera, e per le pozze, simili a grandi occhi umidi, in cui si distende in
silenzio l’acqua del cielo!
Il suono delle mie parole nella sera ti risulti dolce, come quello della pioggia che frusciava tiepida e veloce,
congedo triste della primavera, sui gelsi, sugli olmi e sulle viti e sui pini dalle pigne novelle di colore rosato che
sembrano dita che giocano con il vento che si perde lontano e sul grano che non è ancora maturo, ma non è
più verde e sul fieno che è già stato tagliato e sta cambiando colore, sta ingiallendo, e sugli olivi, sui fratelli olivi,
che rendono i fianchi delle colline pallidi, richiamando l’idea della santità, e lieti.
Sii lodata per le tue vesti profumate, o sera, e per la linea dell’orizzonte che ti circonda come il ramo di salice
circonda il fieno profumato.
Io ti dirò verso quali regni d’amore ci chiami il fiume, le cui sorgenti eterne all’ombra dei rami antichi parlano nel
mistero sacro dei monti; e ti dirò a causa di quale segreto le colline si incurvino sugli orizzonti limpidi, come
labbra chiuse per un divieto, e ti dirò per quale motivo la volontà di parlare le rende belle al di là di ogni
desiderio umano e nel silenzio loro sempre nuove fonti di consolazione, in modo tale che sembra che ogni sera
l’anima le possa amare di un amore più forte.
Sii lodata per la tua naturale fine, o sera, e per l’attesa della notte che fa luccicare in te le prime stelle.
Analisi:
Le Laudi di Gabriele D’Annunzio sono cinque raccolte poetiche che devono il nome alle stelle della
costellazione delle Pleiadi (Maia, Elettra, Alcyone, Merope, Asterope). Nell’Alcyone, la terza raccolta, in
particolare, D’Annunzio descrive il sogno di un’estate, di un’ideale vacanza estiva dai colli fiesolani alle coste
tirreniche, dalle piogge di fine primavera ai paesaggi autunnali di settembre. In questa raccolta, si esplica
pienamente il cosiddetto “panismo dannunziano”: l’uomo si trasforma in un elemento della natura e la natura
stessa si umanizza. Nella natura tutto è divino: non c’è più distinzione tra il soggetto e l’oggetto, tra l’uomo che
osserva e ciò che osserva. Infatti, “panismo” deriva dalla parola greca “Pan”, che significa, appunto, “tutto”: l’io
del poeta si fonde con lo scorrere della vita del Tutto, trasfigurandosi ed arrivando a toccare il divino, a cui solo
la potenza della parola evocativa del poeta-vate (strettamente connesso con il superuomo) è in grado di
attingere, sapendo cogliere appieno l’essenza misteriosa della natura.
La poesia La sera fiesolana, la prima di Alcyone ad essere stata composta, rappresenta una sorta di rilettura
laica e dionisiaca del Laudes creaturarum di San Francesco d’Assisi: il misticismo francescano viene riproposto
in modo esteriore, con espressioni come “laudata sii”, “fratelli ulivi”; “pura morte”, inserite però in un contesto
totalmente diverso.
La sera è il momento della fusione panica con la natura e rappresenta l’attesa del rapporto d’amore con la
propria donna: dopo la sera ci sarà una notte d’amore, ma il poeta preferisce descriverne l’attesa, attraverso
procedimenti irrazionali, in particolare la sinestesia e l’analogia. Vuole evocare più che descrivere
razionalmente le scene. Si tratta di una sera di giugno dopo la pioggia al crepuscolo, un momento di passaggio
e di metamorfosi, fatto di trasformazioni quasi impercettibili, un momento carico di attesa e di suggestione.
Come la sera ‘muore’ spegnendosi lentamente nella notte (v.49), così la primavera muore trascolorando
nell’estate.
In tutta la poesia, D’Annunzio si rivolge ad un “tu” indeterminato, una figura femminile di cui non viene
esplicitato il nome, ma ogni strofa costituisce sostanzialmente un nucleo a sé stante. A fungere da
collegamento stanno i tre ritornelli in cui è lodata la sera, che assume sembianze umane, di una donna amata,
celebrata per il viso perlaceo, le vesti profumate e la cintura indossata.
Nella prima strofa, originariamente intitolata Natività della luna, il tema centrale è il sorgere della luna: essa è
tutta costruita su una serie d’immagini che si richiamano l’una con l’altra per analogia: il suono delle parole
“fresche” richiama il “fruscio” delle foglie del gelso e queste corrispondenze assumono un valore allusivo quasi
magico, acuito dall’allitterazione onomatopeica e dalla sinestesia. Questi versi introducono la nascita della luna,
una sorta di teofania che solo le parole del poeta-vate sono in grado di descrivere; ma non è descritto il sorgere
vero e proprio della luna, bensì il momento, magico e sospeso, che lo precede. La luna ha il potere di produrre il
refrigerio necessario a far rifiorire la vita laddove c’era l’aridità, ma l’idea del “fresco” la connette allusivamente
anche alle “fresche” parole del poeta, che quindi assumono le medesime prerogative salvifiche.
Nella seconda strofa, originariamente intitolata La pioggia estiva, si presta ancora più attenzione al suono delle
parole, che sono scelte innanzitutto per la loro musicalità e per la trama fonica che formano. Di nuovo, si insiste
sull’idea dell’acqua e su momenti ambigui di passaggio, in particolare tra la primavera e l’estate, col grano non
maturo, ma non più verde e il fieno tagliato che sta lentamente ingiallendo.
Nella terza strofa, dal titolo originario L’immagine delle colline, giunge al massimo l’esaltazione irrazionale
dell’innamoramento: si crea una dimensione favolosa in cui le parole servono non a denotare ma ad evocare. Si
giunge ad una sensualità panica, ad una forza erotica che pervade la natura e di cui anche l’uomo partecipa:
nell’atmosfera magica e misteriosa dei “reami d’amor”, persino le colline si trasformano in sensualissime labbra.
La cura formale è molto elevata; il lessico è ricercato e ricco di arcaismi, con stilemi tipici dello Stil novo (“viso di
perla”, v. 15) e un francesismo, “bruiva”, al v. 19. Una raffinatissima musicalità, come abbiamo visto, si
accompagna a un uso larghissimo e sapiente delle figure retoriche e di ardite personificazioni e giochi cromatici.
Le stirpi canore
Parafrasi: Le mie poesie si ispirano direttamente alla natura. Alcune sono figlie delle foreste, altre del mare,
altre delle sabbie, altre del vento di ponente. Le mie parole sono profonde, come le radici che affondano nel
terreno, altre sono chiare come la volta celeste, ardenti come il sangue degli adolescenti, pungenti come i rovi,
mutevoli come i fiumi, terse come i cristalli del monte, tremule come le foglie del pioppo, gonfie come le narici
dei cavalli a galoppo, evanescenti come i profumi sparsi, vergini come i calici dei fiori appena schiusi, oscure
come la rugiada del cielo, misteriose come gli asfodeli dell’Ade, flessuose come i salici dello stagno, sottili come
le trame che tesse il ragno tra due steli.
Analisi:
La lirica si costituisce di due sequenze. Nella prima, dal titolo “Dichiarazione di poetica”, dal primo al sesto
verso, D’Annunzio sostiene che i suoi versi sono figli delle foreste, del mare, delle spiagge, del sole, del vento
ed esprimono tutta la varietà d'aspetti del mondo. La seconda sequenza, dal titolo “Potere della parola”, dal
settimo al trentaseiesimo verso, presenta un’idea di poesia che, nella sua ricchezza inesauribile di forme, colori,
suoni, riproduce la realtà. Di base c'è una fede nel potere della parola, capace di estrarre l'essenza delle cose e
di darne un'equivalente lirico e musicale. Le parole sono cariche di vita, di energia, in grado di sostituirsi alle
cose, e dietro la poesia si scorge l'ideale del poeta. Esaltando il valore della poesia, D'Annunzio esalta
implicitamente il superuomo, in grado di creare il reale: la parola poetica è il privilegio del poeta-vate, che si
innalza al di sopra degli uomini comuni e domina il resto dell'umanità. Lo scrittore italiano si pone in completa
antitesi rispetto al pittore belga Magritte, che a distanza di pochi anni si chiede se la rappresentazione della
realtà sia la realtà stessa, nel dipinto “Ceci n’est pas une pipe”.
Il panismo è certamente il tema principale del componimento. Il rapporto che corre tra il poeta e la natura
assume in D'Annunzio un carattere nuovo; la natura si antropomorfizza, assume vesti mitiche, e l'uomo si
naturalizza, divenendo una creatura silvana. Il poeta trova nel contatto con la natura una certa familiarità, si
fonde con essa, si identifica con le varie presenze naturali, animali, vegetali, minerali, trasfigurandosi e
potenziandosi. L'esperienza del panismo non è che una manifestazione del superomismo: solo al superuomo,
creatura d'eccezione, è concesso di trasformarsi al contatto con la natura, attingendo ad una vita superiore al di
là del limite umano. Solo il superuomo può cogliere ed esprimere l'armonia segreta della natura.
Analisi:
La poesia La pioggia nel pineto viene composta dal poeta a cavallo fra il luglio e l’agosto del 1902, ed
appartiene alla sezione centrale di Alcyone (il terzo libro delle Laudi, uscito alla fine del 1903, e composto dal
poeta tra il 1899 e il 1903). La raccolta è costituita da una serie di liriche che rappresentano «un susseguirsi di
laudi celebrative della natura – e soprattutto dell’estate, dal rigoglioso giugno al malinconico settembre – nella
quale il poeta si immerge mirando a realizzare una fusione panica: a sprofondare e a confondersi con tutto –
mare, alberi, luci, colori – in un sempre rinnovato processo di metamorfosi che si risolve in un ampliarsi della
dimensione umana».1
Sono lodi che celebrano la natura osservata in una vacanza ideale, che inizia a fine primavera nelle colline di
Fiesole e termina a settembre sulle coste della Versilia.
Il poeta racconta in versi come avviene la fusione dell’uomo con la natura attraverso il superamento della
limitata dimensione umana.
La lirica più nota e più rappresentativa della raccolta è La pioggia nel pineto, leggendo la quale riusciamo a
capire come l’uomo entri in simbiosi con la natura, sottoponendosi a un processo di naturalizzazione, e come la
natura subisca a sua volta un processo di antropomorfizzazione.
Il poeta e la sua compagna entrano in empatia con la natura e arrivano a condividerne la sua anima segreta:
D’Annunzio contempla la metamorfosi delle cose e la sua compagna si trasforma in fiore, pianta, frutto, mentre
la pioggia cade.
La poesia inizia con un punto fermo dopo l’imperativo Taci (v.1), che indica un momento di preparazione e di
attesa. Comincia il rito d’iniziazione, al quale sono invitati tutti i lettori, e non solo la donna: si tratta di un
momento quasi liturgico che per essere vissuto fino in fondo necessita di un silenzio assoluto. Il poeta esorta la
sua compagna a restare in silenzio, al fine di ascoltare con la dovuta attenzione i suoni inusitati (le parole più
nuove) emessi dalla natura: le parole sussurrate da gocce e foglie lontane, avvertite sin dalle soglie del bosco.
Sta piovendo e la pioggia altro non è che una manifestazione della natura, che avvolge e riveste tutto.
Il poeta invita più volte la sua compagna ad ascoltare (v. 8: Ascolta; v. 33: Odi?; v. 40: Ascolta; v. 65: Ascolta,
ascolta; v. 88: Ascolta) la musicalità della pioggia e i suoni emessi dalla natura. Alla donna in questione viene
attribuito il nome di Ermione, il nome della figlia di Elena e Menelao della mitologia greca con il quale il poeta,
probabilmente, si riferisce a Eleonora Duse (una grande attrice della sua epoca, con la quale visse un’intensa
storia d’amore).
Il processo di naturalizzazione e di metamorfosi viene messo in atto sin dai primi versi della lirica, in cui
vengono elencati diversi tipi di piante e di fiori, al fine di creare una premessa per la fusione tra gli uomini e la
natura che viene esplicitata già nei versi 20-21, attraverso i quali si nota che i volti del poeta e di Ermione sono
diventati silvani, permettendo ad entrambi di trasformarsi in creature silvestri, dello stesso colore e quasi della
stessa sostanza del bosco. Successivamente la donna è paragonata agli elementi della natura: il suo volto è
come una foglia (vv. 56-58) e i suoi capelli emanano lo stesso profumo delle ginestre (vv. 59- 61: le chiome
come le ginestre). Gradualmente, arrivano entrambi a fondersi con la natura e a sentirsi parte di essa, tanto è
che il poeta, attraverso l’uso delle similitudini, mostra come la donna sembri aver assunto l’aspetto di una pianta
verdeggiante e sembri uscita dalla corteccia di un albero come una ninfa (vv. 99-101), il suo cuore sembri
vivere di una nuova vita e sia simile al frutto della pèsca (vv. 104-105) e mostra come persino gli occhi (vv. 106-
107) e i denti (vv. 108-109) si trasformino e rendano esplicito il senso d’immedesimazione delle due creature
umane nella vita del bosco.
D’Annunzio descrive minuziosamente il temporale estivo e lo rende estremamente musicale, attraverso l’uso di
onomatopee e di un lessico particolare, ma non si limita a registrare il semplice cadere della pioggia al livello
più esterno, ma mette in evidenza, in particolare, la metamorfosi panica sulla quale si basa tutta la lirica: la
trasformazione sua e della sua compagna in elementi vegetali e arborei, via via che riescono a fondersi con la
natura. La pioggia nel pineto colpisce, infatti, per il tema panico-metaforico, per la trasformazione vegetale del
poeta e di Ermione. Il termine panismo deriva da Pan (dio greco della natura, per metà uomo e per metà
caprone) e si riferisce all’identificazione dell’uomo con la natura, con la vita vegetale.
Attraverso i versi 53-55, il poeta ci fa capire che la metamorfosi è ormai al suo culmine:
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi (vv. 53-55).
Il panismo dannunziano è peculiare, perché tende ad umanizzare la natura.
Un altro tema molto importante della lirica è quello dell’amore, in quanto il poeta parlando della pioggia estiva
refrigerante sottolinea come questa rigeneri non solo la natura, ma rinvigorisca anche l’anima dei due
innamorati, i quali continuano ad abbandonarsi alla forza dei sentimenti e dell’amore, ma con la
consapevolezza che si tratti soltanto di una favola bella (v. 29) che li ha illusi in passato e continua ad illuderli
(vv. 29-32).
Colpisce, inoltre, la musicalità che caratterizza l’intera lirica e che è ottenuta attraverso la frantumazione del
verso e il ricorso alle rime interne e alle assonanze.C’è un vero e proprio studio del poeta, un virtuosismo
basato anche sul principio della ripetizione, che provoca degli effetti ritmico-musicali particolarmente
interessanti. Il poeta tende ad imitare i suoni della pioggia e a inventare delle vere e proprie melodie: le parole
più nuove a cui fa riferimento il poeta al v. 5 sono anche le parole che creano una musicalità nuova. Per riuscire
ad entrare in empatia con la natura il poeta trasforma le sue parole in musica, utilizzando un lessico piuttosto
ricercato e musicale, dimostrando di aver fatto suoi gli insegnamenti dei Simbolisti francesi.
IL PERIODO “NOTTURNO”
Dopo forse che sì forse che no D’Annunzio non scrive più romanzi. La lega senza cigno è ancora un’opera
narrativa, ma non ho più la complessa struttura del romanzo, avvicinandosi piuttosto la novella. A partire dal
primo decennio del novecento la tendenza della cultura italiana e di sperimentare nuove forme di prosa, una
prosa lirica, evocativa, di memoria, frammentaria. Pubblicherà varie opere di questo genere: la contemplazione
della morte, la licenza della leda senza cigno, il notturno, le faville del maglio, il libro segreto. Si tratta di opere
diverse tra loro, ma accomunate dal taglio autobiografico, memoriale e da registro stilistico più misurato. Furono
salutate con favore dalla critica che vi scorse un D’Annunzio finalmente genuino e sincero. Queste prose
presentano una materia nuova, ricordi d’infanzia, sensazioni fuggevoli, confessioni soggettive, un ripiegamento
ad esplorare la propria interiorità pervasa da inquietudini e perplessità. Anche la struttura di queste opere
nuova: il frammento. Quest’ultima stagione della produzione dannunziana viene comunemente definita
notturna, in un periodo in cui lo scrittore era costretto ad un’assoluta immobilità e al buio totale per un distacco
di retina provocato da un incidente di volo. A causa della provvisoria cecità completa, tutta l’esperienza vitale si
concentra sugli altri sensi, o nell’auscultazione della propria interiorità. Queste prose tarde hanno dietro di sé un
fermento culturale che in quegli anni andava in direzione analoghe, una tendenza al frammentismo. Queste
prose, lette oggi è un atteggiamento meno complice, rivelano ancora una presenza massiccia di pause
narcisistiche, di autocelebrazione del proprio vivere inimitabile e della propria sensibilità dei eccezione, tutti
aspetti che rimandano in pieno all’ideologia superomistica, e non manca neppure spesso la gonfiezza retorica.
La prosa “notturna”
In questi due passi del componimento D’Annunzio è a Venezia.
Primo passo
Il poeta avverte tutti i rumori esterni senza vedere nulla e li registra. Questi rumori si mescolano con le sue
fantasie e i suoi ricordi che lui riporta alogicamente (in modo disordinato), secondo l’esempio del “flusso di
coscienza” novecentesco.
Tutto ciò che D'Annunzio sente lo registra. Lui non può vedere, per cui la sensazione fondamentale è quella
uditiva che si mescola con impressioni interiori: “afa di marzo”, “La primavera entra in me come un nuovo
tossico”, all’improvviso cambia argomento: “ho le reni dolenti”, poi ascolta, riportando tutto ciò che sente e
abbondano:
• termini fonosimbolici: “sciacquio…colpi sordi…grida rauche…scrosci chiocci…risse stridenti…chioccolio
sciocco”;
• Frasi senza verbo: “battito di un motore marino”, “chioccolio sciocco del merlo”, “ronzio lugubre”;
• Manca una logica ordinatrice: tutto è registrato come viene avvertito dal poeta;
• Uso di scelte stilistiche moderne: fonosimbolismo che vuole registrare le sensazioni.
Queste scelte stilistiche vengono definite “moderne”, perché anticipano il romanzo moderno per l’uso di:
• frasi brevi;
• Mancanza del verbo;
• Linguaggio fonosimbolico.
Secondo passo
Il poeta enuncia le allucinazioni causate dai dolori atroci.
Una delle caratteristiche del romanzo del 1900 sarà prestare attenzione e registrare le sensazioni presenti
all’interno dello scrittore e nello stesso istante, non nel prolungarsi del tempo.
D’Annunzio vede nel fondo dell’occhio una figura che sembra un fiore “il giacinto violetto”, poi avverte un dolore
fortissimo che causa un “grido folle”, sente il liquido colare dalla compressa di garza sull’occhio, vede ancora
nero in fondo all’occhio, in seguito rispunta il dolore e infine dichiara di non avere più l’immagine del fiore
nell’occhio.
Il poeta descrive le immagini di un delirio onirico, figure create nel fondo dell’occhio dalla malattia.
Queste figure si alternano liberamente, caoticamente, sono le fantasie, le allucinazioni e i ricordi che
rappresentano il “flusso di coscienza”.
Lo stile
Lo stile non è retorico, ma sintetico e lapidario. Non si trova la prosa aulica, sontuosa, composta da periodi
ampi e complessi tipici di D’Annunzio, ma sono presenti periodi molto brevi, rapidi e incalzanti.
In questo testo si ha un D'Annunzio nuovo, anche se queste “novità” potrebbero non essere del tutto nuove,
poiché non si riesce a capire fino a che punto il poeta abbia operato per la sua intimità oppure quanto ha
assorbito da esperienze antecedenti a lui. Infatti, una prosa simile era stata utilizzata dai vociani e dai futuristi.