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Gabriele d’Annunzio
LA VITA
L'esteta
La vita di d’Annunzio può essere considerata una delle sue opere più interessanti:
secondo i princìpi dell’estetismo bisognava fare della vita un’«opera d’arte», e d’Annunzio fu
costantemente teso al conseguimento di questo obiettivo.
Nato nel 1863 a Pescara da famiglia borghese, studiò in una delle scuole più aristocratiche dell’Italia
del tempo.
Precocissimo, esordì nel 1879 con un libretto di versi, Primo vere, che suscitò una certa risonanza.
Raggiunta la licenza liceale si trasferì a Roma per frequentare l’università. In realtà abbandonò
presto gli studi, preferendo vivere tra salotti mondani e redazioni di giornali.
Per alcuni anni, infatti, esercitò la professione di giornalista, collaborando a vari giornali con
articoli di cronaca mondana ma anche di letteratura, arte, costume. Acquistò subito notorietà in
campo letterario, sia attraverso una copiosa produzione di versi e di opere narrative, che spesso
suscitavano scandalo per i contenuti erotici, sia attraverso una vita altrettanto scandalosa, per i
princìpi morali dell’epoca, fatta di continue avventure galanti, lusso, duelli. Sono gli anni in cui
d’Annunzio si crea la maschera dell’esteta, dell’individuo superiore, dalla squisita sensibilità, che
rifiuta inorridito la mediocrità borghese, rifugiandosi in un mondo di pura arte, e che disprezza la
morale corrente.
Il superuomo
Questa fase estetizzante della vita di d’Annunzio attraversò una crisi alla svolta degli anni Novanta,
riflettendosi anche nella tematica della produzione letteraria; lo scrittore cercò così nuove soluzioni,
e le trovò in un nuovo mito, quello del superuomo, ispirato approssimativamente alle teorie del
filosofo tedesco Nietzsche, un mito non più soltanto di bellezza, ma di energia eroica, attivistica.
Per il momento, all’azione si accontentava di sostituire la letteratura ed il superuomo restava un
vagheggiamento fantastico, di cui si nutriva la sua produzione poetica e narrativa.
Nella realtà, d’Annunzio puntava a creare l’immagine di una vita eccezionale, sottratta alle norme
del vivere comune.
In questo disprezzo per la vita comune ed in questa ricerca di una vita d’eccezione, d’Annunzio era
strettamente legato alle esigenze del sistema economico del suo tempo: con le sue esibizioni
clamorose ed i suoi scandali lo scrittore voleva mettersi in primo piano nell’attenzione pubblica,
per vendere meglio la sua immagine e i suoi prodotti letterari. Gli editori gli pagavano somme
favolose, ma quel fiume di denaro non era mai sufficiente alla sua vita lussuosa.
Quindi, paradossalmente, il culto della bellezza ed il «vivere inimitabile», superomistico, risultavano
essere finalizzati al loro contrario, a ciò che d’Annunzio ostentava di disprezzare, il denaro e le
esigenze del mercato: proprio lo scrittore più ostile al mondo borghese era in realtà il più legato
alle sue leggi; proprio lo scrittore che più spregiava la massa, era costretto a solleticarla e a
lusingarla. È una contraddizione che d’Annunzio non riuscì mai a superare.
Ma, in obbedienza alla nuova immagine mitica che voleva creare di sé, d’Annunzio non si
accontentava più dell’eccezionalità di un vivere puramente estetico: vagheggiava anche sogni di
attivismo politico.
La ricerca dell’azione: la politica e il teatro
Per questo, nel 1897, tentò l’avventura parlamentare, come deputato dell’estrema destra, in
coerenza con le idee affidate ai libri, in cui esponeva con veemenza il suo disprezzo per i princìpi
democratici ed egualitari, il suo sogno di una restaurazione della grandezza di Roma e di una
missione imperiale dell’Italia, del dominio di una nuova aristocrazia che ripristinasse il valore della
bellezza contaminato dal dominio borghese. Ciò non gli impedì, nel 1900, di passare allo
schieramento di sinistra: ma non deve meravigliare, perché questa ambigua disponibilità è propria
delle posizioni irrazionalistiche, estetizzanti e vitalistiche, che sono sempre attratte dalle
manifestazioni di forza ed energia vitale, qualunque orientamento ideologico esse seguano.
D’Annunzio a partire dal 1898, con la rappresentazione della Città morta, si rivolse anche al teatro,
che poteva raggiungere un pubblico più vasto che non i libri. Ma i sogni attivistici ed eroici erano
destinati a restare confinati nella letteratura ancora a lungo. Nonostante la sua fama nel primo
decennio del Novecento stesse toccando punte “divistiche”, d’Annunzio, a causa dei creditori
inferociti, nel 1910 fu costretto a fuggire dall’Italia e a rifugiarsi in Francia.
Nell’«esilio» si adattò al nuovo ambiente letterario, scrivendo persino opere teatrali in francese, pur
senza interrompere i legami con la patria “ingrata” che aveva respinto il suo figlio d’eccezione.
La guerra e l’avventura fiumana
L’occasione tanto attesa per l’azione eroica gli fu offerta dalla Prima guerra mondiale. Allo scoppio
del conflitto d’Annunzio tornò in Italia ed iniziò un’intensa campagna interventista, che ebbe un
peso notevole nello spingere l’Italia in guerra.
Arruolatosi volontario nonostante l’età non più giovanile, attirò nuovamente su di sé l’attenzione
con imprese clamorose, la “beffa di Buccari”, il volo su Vienna.
Anche la guerra di d’Annunzio fu una guerra eccezionale, non combattuta nel fango e nella
sporcizia delle trincee, ma nei cieli, attraverso la nuovissima arma, l’aereo.
Nel dopoguerra d’Annunzio si fece interprete dei rancori per la «vittoria mutilata» che
fermentavano tra i reduci, capeggiando una marcia di volontari su Fiume, dove instaurò un
dominio personale sfidando lo Stato italiano. Scacciato con le armi nel 1920, sperò di proporsi come
«duce» di una «rivoluzione» reazionaria, che riportasse ordine nel caos sociale del dopoguerra, ma
fu scalzato da un più abile politico, Benito Mussolini. Il fascismo poi lo esaltò come padre della
patria, ma lo guardò anche con sospetto, confinandolo praticamente in una villa di Gardone, che
d’Annunzio trasformò in un mausoleo eretto a se stesso ancora vivente. Qui trascorse ancora lunghi
anni, ossessionato dalla decadenza fisica, pubblicando alcune opere di memoria, e vi morì nel 1938.
D’Annunzio attraversò oltre un cinquantennio di cultura italiana, influenzandola profondamente in
numerose fasi con la sua produzione sovrabbondante; un influsso altrettanto profondo esercitò
sulla politica, poiché elaborò ideologie, atteggiamenti, persino slogan che furono fatti propri dal
fascismo; un’impronta incalcolabile lasciò sul costume, dando vita al fenomeno del
dannunzianesimo, che segnò il comportamento di intere generazioni borghesi; ma ispirò anche le
forme della nascente cultura “di massa”, come certa produzione letteraria di consumo ed influenzò
il cinema.
L'ESTETISMO E LA SUA CRISI
L'esordio
L’esordio letterario di d’Annunzio avviene sotto il segno dei due scrittori che in Italia, a cavallo degli
anni Ottanta, suscitano maggior eco, Carducci e Verga. Le prime due raccolte liriche, Primo vere e
Canto novo si rifanno al Carducci delle Odi barbare.
Se si esclude Primo vere, che è poco più di un esercizio di apprendistato, il Canto novo offre già
indicazioni molto interessanti. Oltre alla metrica barbara, d’Annunzio ricava da Carducci il senso
tutto “pagano” delle cose sane e forti, della comunione con una natura solare e vitale. Ma questi
temi sono portati al limite estremo e toccano i vertici di una fusione ebbra tra io e natura che fa già
presentire il futuro panismo superomistico. Non mancano però spunti diversi, momenti di
stanchezza, visioni cupe e mortuarie, che, già nel giovane d’Annunzio, fanno intuire come il
vitalismo sfrenato celi sempre in sé il fascino ambiguo della morte. Sono presenti anche spunti
sociali provenienti dal contemporaneo Verismo, l’indugio su figure di reietti al limite del
subumano.
Terra vergine è il corrispettivo in prosa del Canto novo. Il modello è il Verga rusticano di Vita dei
campi: anche d’Annunzio presenta figure e paesaggi della sua terra, l’Abruzzo. Ma nel libro non vi è
nulla della lucida indagine condotta da Verga sui meccanismi della lotta per la vita nelle «basse
sfere», e soprattutto nulla dell’impersonalità verghiana, risultante dall’“eclisse” dell’autore e
dall’immersione del punto di vista narrativo entro la realtà rappresentata.
Il mondo di Terra vergine è sostanzialmente idillico, non problematico: in una natura rigogliosa e
sensuale esplodono passioni primordiali, soprattutto sotto forma di un erotismo vorace,
irrefrenabile, ma anche di una violenza sanguinaria.
Sul piano delle tecniche narrative, questo compiacimento per la ferinità e la barbarie si esprime in
una continua intromissione della soggettività del narratore che è l’opposto dell’impersonalità
verista.
Sulla stessa linea si pongono sostanzialmente le raccolte di novelle successive. Anche questi testi
rivelano l’ambiguo compiacimento per un mondo magico, superstizioso e sanguinario. Se dunque
esteriormente le novelle di d’Annunzio si richiamano al regionalismo veristico, la loro sostanza
profonda è del tutto estranea al gusto documentario, agli interessi sociali, alla visione positivistica
del Verismo, e si collega alla matrice irrazionalistica del Decadentismo.
I versi degli anni Ottanta e l’estetismo
La stessa matrice è evidente nella copiosa produzione in versi degli anni Ottanta, che abbandona la
linea del vitalismo “pagano” del Canto novo e rivela l’influenza profonda dei poeti decadenti
francesi ed inglesi. L’Intermezzo di rime (1883) è giocato sulla confessione della stanchezza sensuale,
della sazietà della carne viziosa. Isaotta Guttadauro (1886) è un esercizio raffinato ed estetizzante di
recupero delle forme poetiche quattrocentesche, la Chimera (1890) insiste su temi di sensualità
perversa, compendiati in immagini di una femminilità fatale e distruttrice.
Queste opere poetiche sono il frutto della fase dell’estetismo dannunziano.
L’arte è il valore supremo, e ad essa devono essere subordinati tutti gli altri valori. La vita si sottrae
alle leggi del bene e del male e si sottopone solo alla legge del bello, trasformandosi in opera d’arte.
Sul piano letterario, tutto ciò dà origine ad un vero e proprio culto religioso dell’arte e della
bellezza, ad una ricerca di eleganze estenuate, di un squisiti artifici formali. La poesia non sembra
nascere dall’esperienza vissuta, ma da altra letteratura. I versi dannunziani pertanto sono fitti di
echi letterari. Come lo scrittore afferma, egli sembra aver bisogno «d’una intonazione musicale
datagli da un altro poeta» per incominciare a comporre.
Questo personaggio dell’esteta è una risposta ideologica ai processi sociali in atto nell’Italia
postunitaria, i quali, in conseguenza dello sviluppo capitalistico in senso moderno, tendevano a
declassare e ad emarginare l’artista, togliendogli quella posizione privilegiata e di grande prestigio
di cui aveva goduto nelle epoche precedenti, oppure lo costringevano a subordinarsi alle esigenze
della produzione e del mercato.
Il giovane d’Annunzio, proveniente dal ceto medio della provincia abruzzese, inserendosi negli
ambienti intellettuali della metropoli non si rassegna ad essere schiacciato da quei processi
oggettivi: vuole il successo e la fama, vuole condurre la vita di lusso aristocratico dei ceti
privilegiati. Il personaggio dell’esteta, costruito nell’opera letteraria, è una forma di risarcimento
immaginario da una condizione reale di degradazione dell’artista.
Però d’Annunzio vuole vivere quel personaggio anche nella realtà. Perciò si preoccupa di produrre
libri di successo, che vendano bene sul mercato, e sa utilizzare economicamente la pubblicità che gli
deriva dalle sue pose, dagli scandali, dagli amori eleganti, dai duelli, dal lusso sfrenato. Sfruttando
abilmente i meccanismi della produzione capitalistica, propone un’immagine nuova di
intellettuale, che si pone fuori della società borghese, e fa rivivere una condizione di privilegio
dell’artista che era propria di epoche passate, e che sembrava definitivamente tramontata.
Il piacere e la crisi dell’estetismo
Ben presto però d’Annunzio si rende conto dell’intima debolezza di questa figura e della costruzione
ideologica che essa presuppone: l’esteta non ha la forza di opporsi realmente alla borghesia in
ascesa.
Egli avverte tutta la fragilità dell’esteta in un mondo lacerato da forze e conflitti così brutali: il suo
isolamento sdegnoso, lungi dall’essere un privilegio, non può che divenire sterilità ed impotenza, il
culto della bellezza si trasforma in menzogna. La costruzione dell’estetismo entra allora in crisi.
Il primo romanzo scritto da d’Annunzio, Il piacere, in cui confluisce tutta l’esperienza mondana e
letteraria da lui vissuta sino a quel momento, ne è la testimonianza più esplicita. Al centro del
romanzo si pone la figura di un esteta, Andrea Sperelli, il quale non è che un “doppio” di
d’Annunzio stesso, in cui l’autore obiettiva la sua crisi e la sua insoddisfazione. Andrea è un giovane
aristocratico, artista proveniente da una famiglia di artisti. Il principio «fare la propria vita, come si
fa un’opera d’arte», in un uomo dalla volontà debolissima quale è Andrea, diviene una forza
distruttrice, che lo priva di ogni energia morale e creativa, lo svuota e lo isterilisce.
La crisi trova il suo banco di prova nel rapporto con la donna. L’eroe è diviso tra due immagini
femminili, Elena Muti, la donna fatale, che incarna l’erotismo lussurioso, e Maria Ferres, la donna
pura, che rappresenta ai suoi occhi l’occasione di un riscatto e di una elevazione spirituale. Ma in
realtà l’esteta libertino mente a se stesso: la figura della donna angelo è solo oggetto di un gioco
erotico più sottile e perverso, fungendo da sostituto di Elena, che Andrea continua a desiderare e
che lo rifiuta. Andrea finisce per tradire la sua menzogna con Maria, ed è abbandonato da lei,
restando solo con il suo vuoto e la sua sconfitta.
Nei confronti di questo suo “doppio” letterario d’Annunzio ostenta un atteggiamento
impietosamente critico, facendo pronunciare dalla voce narrante duri giudizi nei suoi confronti. In
realtà il romanzo è percorso da una evidente ambiguità, poiché Andrea non cessa di esercitare un
sottile fascino sullo scrittore, con il suo gusto raffinato, con la sua mutevolezza «camaleontica» e
amorale, con l’artificio continuo mediante cui costruisce la sua vita. Quindi, pur segnando un punto
di crisi e di consapevolezza, Il piacere non rappresenta il definitivo distacco di d’Annunzio dalla
figura dell’esteta.
Nel suo impianto narrativo il romanzo risente ancora della lezione del realismo ottocentesco e del
Verismo. Sono evidenti le ambizioni a costruire un quadro sociale, di costume, popolato di figure
tipiche di aristocratici oziosi e corrotti. Però d’Annunzio mira soprattutto a creare un romanzo
psicologico, in cui, più che gli eventi esteriori dell’intreccio, contano i processi interiori del
personaggio, complessi e tortuosi, indagati con sottile indugio analitico.
Nel Piacere compare poi un’altra tendenza fondamentale, destinata a caratterizzare la successiva
produzione narrativa: quella di costruire al di sotto dei fatti concreti una sottile trama di allusioni
simboliche.
La fase della “bontà”
La crisi dell’estetismo non approda immediatamente a soluzioni alternative. Al Piacere succede un
periodo di incerte sperimentazioni. La stanchezza sensuale e il disgusto per gli artifici
dell’estetismo inducono d’Annunzio a subire il fascino del romanzo russo, di gran moda nell’Europa
di quegli anni. Nel Giovanni Episcopo, storia di un «umiliato e offeso» che tocca l’estrema
degradazione, arrivando all’omicidio, è evidente l’influsso di Dostoievskij; nell’Innocente si esprime
un’esigenza di rigenerazione e di purezza, attraverso il recupero del legame coniugale e della vita a
contatto con la campagna, sotto vaghe suggestioni tolstoiane, ma si esplora anche una contorta
psicologia omicida, sempre su imitazione dostoievskiana.
È la fase che viene usualmente definita della “bontà”. Essa comprende anche la raccolta poetica del
Poema paradisiaco, percorsa da un desiderio di recuperare l’innocenza dell’infanzia, di ritornare
alle cose semplici e agli affetti familiari; in realtà il libro presenta anche temi più sottilmente
ambigui, provenienti dall’area decadente francese: stati d’animo di languore voluttuoso, atmosfere
sfatte, paesaggi su cui aleggia un senso di estenuazione e di morte, vagheggiamenti di un passato
irreparabilmente perduto.
La “bontà” è però una soluzione provvisoria. Uno sbocco alternativo alla crisi dell’estetismo
scaturirà dalla lettura del filosofo Nietzsche, avvenuta intorno al 1892.
I ROMANZI DEL SUPERUOMO
D’Annunzio e Nietzsche
D’Annunzio coglie alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche, banalizzandoli e forzandoli entro un
proprio sistema di concezioni: innanzitutto il rifiuto del conformismo borghese, dei princìpi
egualitari che schiacciano e livellano la personalità; l’esaltazione di un vitalismo gioioso, pieno,
libero dagli impacci della morale comune; il rifiuto dell’etica della pietà, dell’altruismo; l’esaltazione
della «volontà di potenza», dello spirito della lotta e dell’affermazione di sé; il mito del superuomo,
un nuovo tipo di umanità, liberata e gioiosa.
D’Annunzio dà a questi motivi un’accentuata coloritura antiborghese.
Egli si scaglia violentemente contro la realtà borghese del nuovo Stato unitario, in cui il trionfo dei
princìpi democratici ed egualitari contaminano il senso della bellezza.
Vagheggia perciò l’affermazione di una nuova aristocrazia, che sappia tenere schiava la moltitudine
degli esseri comuni ed elevarsi a superiori forme di vita attraverso il culto del bello e l’esercizio
della vita attiva ed eroica.
Il motivo nietzschiano del superuomo è quindi interpretato da d’Annunzio nel senso del diritto di
pochi esseri eccezionali ad affermare se stessi, sprezzando le leggi comuni del bene e del male. Il
dominio di questi esseri privilegiati al di sopra della massa deve tendere ad una nuova politica
aggressiva dello Stato italiano, che strappi la nazione alla sua mediocrità e la avvii verso destini
imperiali, di dominio sul mondo.
Il superuomo e l'esteta
Il nuovo personaggio del superuomo creato da d’Annunzio, aggressivo, energico, vitalistico, non
nega la precedente immagine dell’esteta, ma la ingloba in sé, conferendole una diversa funzione. Il
culto della bellezza è essenziale nel processo di elevazione della stirpe nelle persone di pochi
eletti: in tal modo l’estetismo sarà strumento di una volontà di dominio sulla realtà. L’eroe
dannunziano si adopera per imporre il dominio di un’élite, violenta e raffinata insieme, su un
mondo meschino e vile come quello borghese.
A ben vedere, il mito del superuomo è sempre un tentativo di reagire alle tendenze, in atto nella
società capitalistica moderna, ad emarginare e a degradare l’intellettuale; ma è un tentativo che va
in direzione opposta rispetto a quella che proponeva il mito dell’esteta, poiché affida
all’artista-superuomo una funzione di “vate”, di guida in questa realtà, ed anche compiti più pratici,
attivi, una missione politica, seppur per ora alquanto vaga.
E mentre la figura dell’esteta era in netta opposizione rispetto alla realtà dominante, la figura del
superuomo, pur con la sua violenta carica antiborghese, offre soluzioni che possono
sostanzialmente accordarsi con le tendenze profonde dell’età dell’imperialismo, del militarismo
aggressivo, del colonialismo.
D’Annunzio non si piega ad accettare la sorte comune, ambisce a rovesciarla, a ritrovare un ruolo
sociale. E poiché l’offerta non gli viene dalla società stessa, egli si conferisce da sé tale ruolo,
attribuendosi il compito di profeta di un ordine nuovo: l’artista, proprio mediante la sua attività
intellettuale, deve aprire la strada al dominio delle nuove élites, che ponga fine al caos del
liberalismo borghese, della democrazia, dell’egualitarismo, e di tali élites deve egli stesso entrare a
far parte. Il risarcimento della declassazione attraverso la letteratura non è più soltanto
immaginario, vissuto nella fantasia e nel sogno, come nella fase dell’estetismo, ma pretende di
calarsi nella realtà, di trasformarsi in azione.
I romanzi del superuomo
Il superomismo caratterizza i quattro romanzi pubblicati tra il 1894 e il 1910: Trionfo della morte, Le
vergini delle rocce, Il fuoco e Forse che sì forse che no.
Le nuove forme narrative
Questi romanzi, nelle loro forme narrative, si allontanano sempre più dal modello naturalistico, che
era ancora presente nel Piacere.
Il Trionfo della morte va risolutamente nella direzione del romanzo psicologico, incentrandosi
tutto sulla visione soggettiva del protagonista, sull’esplorazione della sua coscienza travagliata.
L’intreccio dei fatti si fa oltremodo scarno, sostituito dalla dinamica dei processi interiori: si può
dire che la vicenda si svolga tutta dentro la mente di Giorgio Aurispa, e, se i fatti esterni sono
rappresentati, vengono offerti solo attraverso la particolare coloritura ad essi conferita dalla sua
ottica.
Tale impostazione narrativa è richiesta dalla particolare fisionomia dell’eroe scelto da
d’Annunzio, che nella sua debolezza psicologica rifiuta il mondo sociale e si chiude gelosamente nel
suo io: per questo è inevitabile che la vicenda romanzesca si svolga tutta nella sua mente e che la
realtà esterna non possa più essere fatta oggetto di rappresentazione diretta. La forma del romanzo
rigorosamente soggettivo adottata da d’Annunzio è dunque una soluzione imposta dall’assunzione
del protagonista “inetto”, malato, intimamente corroso nelle sue forze vitali.
In secondo luogo nel Trionfo della morte viene portato al limite estremo l’impianto simbolico che
già era ravvisabile nel Piacere. Il racconto è percorso da una fitta trama di immagini simboliche: si
apre con un suicidio, che è una chiara prefigurazione di quello finale di Giorgio; torna
periodicamente l’immagine della bocca sensuale di Ippolita, paragonata a un fiore, allusiva
all’ossessione di essere inghiottito e distrutto chebassilla l’eroe.
Le vergini delle rocce, invece, alternano parti oratorie a parti giocate sul simbolismo più rarefatto: la
narrazione sfuma in un clima decisamente mitico e favoloso, lontanissimo da ogni riferimento
realistico.
Nel Fuoco si alternano lunghe discussioni e meditazioni del protagonista intorno alla nuova opera
d’arte e al nuovo teatro nazionale, analisi psicologiche del tormentato rapporto con Foscarina,
episodi densamente simbolici.
Forse che sì forse che no riprende moduli più romanzeschi, un intreccio più drammatico, fatto di
forti conflitti, che mette a frutto l’esperienza teatrale nel frattempo compiuta da d’Annunzio; ma
anche qui prevale decisamente la dimensione simbolica.
LE OPERE DRAMMATICHE
L’ideologia superomistica ha un peso determinante nell’approdo di d’Annunzio al teatro, che
avviene a partire dal 1896, con la composizione della Città morta.
Il teatro, rivolgendosi alle moltitudini, può essere un più potente strumento di diffusione del verbo
superomistico e può dare un contributo a rinsaldare la coscienza della stirpe latina, avviata a
destini imperiali.
Al teatro d’Annunzio si accostò anche per la suggestione della grande attrice Eleonora Duse, con cui
intrattenne una lunga relazione.
È ovvio che la drammaturgia dannunziana rifiuti le forme del teatro del tempo, il teatro borghese e
realistico, che metteva in scena con attenta fedeltà gli eventi della vita quotidiana, specie nella
dimensione privata, familiare e coniugale.
D’Annunzio ambisce ad un teatro “di poesia”, che trasfiguri e sublimi la realtà, riportando in vita
l’antico spirito tragico, che rappresenti personaggi d’eccezione, passioni e conflitti psicologici fuori
del comune, ed al tempo stesso si regga su una complessa trama simbolica.
Molte di queste opere attingono gli argomenti dalla storia o dal mito classico, con un
compiacimento archeologico ed esotizzante nel ricostruire le forme del passato, con il
vagheggiamento di un Medioevo o di un Rinascimento sanguinari, violenti e raffinati, una ricerca
verbale estremamente preziosa ed aulica.
Non mancano drammi ambientati nel presente, ma con la preoccupazione costante di creare climi
“poetici”, lontani dalla prosaicità borghese.
In queste “tragedie” ricorre costantemente la tematica superomistica.
Alcuni drammi sono decisamente politici: la Gloria, che insiste sul conflitto tra un
vecchio dittatore ed il giovane che ambisce a scalzarlo; la Nave, ambientata ai primordi di Venezia,
che esalta la conquista imperialistica sul mare.
Ma anche nel teatro la tensione superomistica all’eroismo e all’azione si scontra con forze di segno
contrario, che corrodono lo slancio energico dell’eroe, svuotano la sua volontà o vanificano i suoi
sforzi, prospettando un approdo di sconfitta.
L’eroe come sempre trova nella donna la «Nemica» che ostacola la sua missione, oppure urta
contro una realtà borghese meschina, che frustra la sua ansia di azione eroica.
A parte, rispetto ai drammi “storici” e a quelli “moderni”, si colloca La figlia di Iorio, che d’Annunzio
definisce «tragedia pastorale». Lo scrittore ambienta la vicenda in un Abruzzo primitivo, magico e
superstizioso, mitico e fuori del tempo, e si compiace di insistere minuziosamente su riti, credenze,
oggetti tipici della civiltà arcaica agricolo-pastorale, con un linguaggio che riproduce le formule del
linguaggio popolare. Tutto questo non risponde certo ad un intento documentario, naturalistico: vi
è al contrario il gusto tutto decadente per il barbarico ed il primitivo, il fascino esercitato dal
popolo contadino visto come emblema dell’irrazionale. La tragedia dunque prosegue la linea già
iniziata con le novelle abruzzesi giovanili.
LE LAUDI
Il progetto
L’approdo all’ideologia superomistica coincide con la progettazione di vaste e ambiziose costruzioni
letterarie, che siano commisurate al compito di diffondere il verbo del “vate”. Così, come si è visto,
d’Annunzio disegna cicli di romanzi, che però spesso non porta a termine; con intenti del genere
affronta la produzione drammatica; nel campo della lirica vuole affidare la summa della sua visione
a sette libri di Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi: un progetto di celebrazione totale,
che esaurisca tutto il reale.
Nel 1903 erano terminati e pubblicati i primi tre, Maia, Elettra, Alcyone. Ma anche questa
costruzione rimane incompiuta. Un quarto libro, Merope, viene messo insieme nel 1912. Postumo fu
poi aggiunto un quinto libro, Asterope, che comprende le poesie ispirate alla Prima guerra
mondiale. Gli ultimi due libri, pur annunciati, non vennero mai scritti.
Maia
Il primo libro, Maia, non è una raccolta di liriche, ma un lungo poema unitario
di oltre ottomila versi. L’opera presenta subito un’evidente novità formale: d’Annunzio non segue
più gli schemi della metrica tradizionale né quelli della metrica barbara, ma adotta il verso libero: si
susseguono senza ordine preciso i tipi di versi più vari, dal novenario al quinario, con rime
ricorrenti senza schema fisso. Il fluire libero, irruente e concitato del verso risponde al carattere
intrinseco del poema, che si presenta come carme ispirato, profetico, pervaso di slancio dionisiaco e
vitalistico.
L’intento di d’Annunzio è quello del poema totale, che dia voce alla sua ambizione panica a
raccogliere tutte le infinite e diverse forme della vita e del mondo. Ne deriva un discorso poetico
tenuto su tonalità costantemente enfatiche e declamatorie, gonfie e ridondanti.
Il poema è la trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia realmente compiuto da d’Annunzio nel
1895. L’«io» protagonista si presenta come eroe «ulisside», proteso verso tutte le più multiformi
esperienze, pronto a sprezzare ogni limite e divieto pur di raggiungere le sue mete. Il viaggio
nell’Ellade è l’immersione in un passato mitico, alla ricerca di un vivere sublime, divino, all’insegna
della forza e della bellezza. Dopo questa iniziazione il protagonista si reimmerge nella realtà
moderna, nelle «città terribili», le metropoli industriali orrende ma brulicanti di nuove, immense
potenzialità vitali. Il passato modella su di sé il futuro da costruire.
Il poeta arriva così ad inneggiare ad aspetti tipici della modernità quali il capitale, la finanza
internazionale, i capitani d’industria, le macchine, poiché esse racchiudono in sé possenti energie,
che possono essere indirizzate a fini eroici ed imperiali. Parimenti lo scrittore ora inneggia alle
nuove masse operaie, anch’esse immenso serbatoio di energie, che possono essere docile strumento
nelle mani del superuomo.
Una svolta radicale
È questa l’ultima tappa di quella ricerca di un ruolo dell’intellettuale all’interno della civiltà
borghese moderna, che era iniziata con la crisi dell’esteta e la scoperta del mito superomistico.
Dopo la fuga estetizzante nella bellezza del passato, d’Annunzio aveva affidato
all’intellettuale-superuomo il compito di intervenire attivamente nella realtà, aprendo la strada a
una nuova élite aristocratica, facendo rivivere la bellezza e l’eroismo del passato in un nuovo
Rinascimento e cancellando così un presente infame.
Ora, con Maia, si ha una svolta di centottanta gradi: nel mondo moderno d’Annunzio scopre una
segreta bellezza, un nuovo sublime, l’epica delle grandi imprese industriali e finanziarie, l’orrida,
barbarica grandezza degli apparati tecnologici, delle macchine. Il poeta non si contrappone più alla
realtà borghese moderna, dall’alto del suo esasperato aristocraticismo, ma si propone quale cantore
dei suoi fasti, guida delle sue imprese e “vate” dei suoi destini gloriosi, trasfigurandola in un’aura di
mito.
Ma dietro a questa celebrazione dell’epica eroica della modernità è facile intravedere la paura e
l’orrore del letterato umanista dinanzi alla realtà industriale che tende ad emarginarlo o a farlo
scomparire del tutto.
Paura e orrore sono traditi dal fatto che le realtà moderne, quali le macchine, possono entrare
nell’ambito poetico solo se debitamente esorcizzate mediante la sovrapposizione di qualcosa di noto
e rassicurante per l’intellettuale, le immagini del mito e della storia classica.
In questo, d’Annunzio resta ancora all’interno di una cultura tradizionale.
L’originalità di d’Annunzio consiste nel fatto che egli non si chiude a contemplare vittimisticamente
la propria impotenza, ma reagisce costruendosi sterminati sogni di onnipotenza. Invece di fuggire
dinanzi a ciò che lo aggredisce, esorcizza la paura e l’orrore autoinvestendosi di un ruolo nuovo:
cantare e celebrare proprio quella realtà che minaccia di spazzarlo via. In tal modo l’esteta può
passare dal suo atteggiamento di radicale rifiuto antiborghese alla posizione di cantore entusiasta
della realtà moderna, di apologeta delle sue tendenze più aggressive.
È un tentativo dell’intellettuale arcaico per fare i conti con la modernità, per lottare contro i
processi che tendono ad annientare la sua figura storica, per ritrovare un ruolo.
Il prezzo pagato da d’Annunzio è però alto: in primo luogo egli assume la figura pubblica del
propagatore dei miti più oscurantisti e reazionari; ma soprattutto, per restare sul piano letterario, il
prezzo di questo impegno apologetico e propagandistico è un’arte gonfia, retorica, che oggi appare
insopportabile e illeggibile.
Insopportabile essenzialmente perché falsa. Nello scegliere quella strada d’Annunzio tradisce le
proprie tendenze più genuine e profonde: il d’Annunzio autentico è quello “decadente”, quello che
interpreta il senso di fine di un mondo e di una cultura, che tocca i temi della perplessità,
dell’ambiguità, del tormento interiore, che si avventura ad esplorare le zone della psiche dove
fermentano gli impulsi più oscuri, che esprime una sensualità complicata e torbida, che vagheggia
con disperata nostalgia una bellezza del passato avvertita ormai come mito irraggiungibile.
Elettra
Nel secondo libro, Elettra, l’impianto mitico, le ambizioni filosofiche e profetiche lasciano il posto
all’oratoria della propaganda politica diretta.
Anche qui vi è un polo positivo, rappresentato da un passato e da un futuro di gloria e di bellezza,
che si contrappongono ad un polo negativo, un presente da riscattare.
Una parte cospicua del volume è costituita dalla serie delle liriche sulle Città del silenzio. Sono le
antiche città italiane, ora lasciate ai margini della vita moderna, che conservano il ricordo di un
passato di grandezza guerriera e di bellezza artistica: quel passato su cui si dovrà modellare il
futuro.
Costante è anche la celebrazione della romanità in chiave eroica, che si fonde con quella del
Risorgimento. Cantando questo passato glorioso, d’Annunzio si propone esplicitamente come “vate”
di futuri destini imperiali, coloniali e guerreschi dell’Italia.
Il terzo libro delle Laudi è Alcyone.
ALCYONE
La struttura, i contenuti e la forma
Il terzo libro delle Laudi, Alcyone, è apparentemente molto lontano dagli altri due.
Al discorso politico, celebrativo, polemico o profetico, si sostituisce il tema lirico della fusione
panica con la natura; al motivo dell’azione energica, un atteggiamento di evasione e
contemplazione.
Il libro, comprendente 88 componimenti, è come il diario ideale di una vacanza estiva: le liriche
sono state successivamente ordinate in un disegno organico, che segue la parabola della stagione,
dal commiato piovoso della primavera al lento declino di settembre.
La stagione estiva è vista come la più propizia ad eccitare il godimento sensuale, a consentire la
pienezza vitalistica: l’io del poeta si fonde col fluire della vita del Tutto, si identifica con le varie
presenze naturali, animali, vegetali, minerali, trasfigurandosi e potenziandosi all’infinito in questa
fusione ed attingendo ad una condizione divina.
Sul piano formale succede una ricerca di sottile musicalità, che tende a dissolvere la parola in
sostanza fonica e melodica, con l’impiego di un linguaggio analogico, che si fonda su un gioco
continuo di immagini che tra loro si rispondono. Per questo Alcyone è la raccolta poetica che è stata
più celebrata dalla critica, specie da quella di orientamento idealistico, legata al gusto della lirica
novecentesca: è stata vista quale poesia “pura”, libera dall’ideologia superomistica e dalle sue finalità
pratiche, immune dalla retorica e dall’artificio, rispondente al nucleo più genuino dell’ispirazione
del poeta, il rapporto sensuale con la natura.
Il significato dell’opera
In realtà Alcyone si inserisce perfettamente nel disegno ideologico complessivo delle Laudi.
L’esperienza panica cantata dal poeta non è che una manifestazione del superomismo: solo al
superuomo, creatura d’eccezione, è concesso di «transumanare», di «indiarsi» al contatto con la
natura, attingendo ad una vita superiore, al di là di ogni limite umano; ed il gioco straordinario delle
immagini, la trasfigurazione musicale della parola sono resi possibili, nella visione di d’Annunzio,
solo da una sensibilità privilegiata, più che umana. Solo la parola magica del poeta-superuomo può
cogliere ed esprimere l’armonia segreta della natura, raggiungere e rivelare l’essenza misteriosa
delle cose.
Né manca in Alcyone la ripresa diretta di certi motivi ideologici largamente sfruttati negli altri due
libri delle Laudi: l’esaltazione di una violenta vitalità «dionisiaca», la prefigurazione di un futuro di
rinata romanità imperiale, l’«ulissismo», cioè la febbre di vivere tutte le esperienze, al di là di ogni
limite.
Non solo anche nel linguaggio alla squisita musicalità subentra in molti punti la tensione retorica,
la gonfiezza enfatica fatta di interrogazioni, esclamazioni, enumerazioni ridondanti.
Il peso dell’ideologia superomistica, pur presente, non arriva dunque a guastare interamente il
libro, che offre alcuni dei risultati più alti della poesia dannunziana: una poesia che ha esercitato
un’influenza profonda sulla lirica novecentesca, la quale ha fatto tesoro delle soluzioni musicali,
della magia verbale, del gioco analogico offerti dai componimenti di Alcyone.
IL PERIODO "NOTTURNO"
Dopo Forse che sì forse che no d’Annunzio non scrive più romanzi.
La Leda senza cigno è ancora un’opera narrativa, ma non ha più la complessa struttura del
romanzo, avvicinandosi piuttosto alla novella.
D’Annunzio, dal 1913 in avanti, pubblicherà solo opere di questo genere: la Contemplazione della
morte (1912), la Licenza della Leda senza cigno (1913), il Notturno (1921), Le faville del maglio, il Libro
segreto (1935).
Si tratta di opere diverse tra loro, ma accomunate dal taglio autobiografico, memoriale e dal
registro stilistico più misurato, meno proteso verso i culmini del sublime e meno pervaso da
tensione oratoria.
Per questo furono salutate con favore dalla critica, che vi scorse un d’Annunzio miracolosamente
rinnovato, dopo una così lunga carriera di narratore, di poeta lirico, di drammaturgo, di oratore, un
d’Annunzio finalmente genuino e sincero, senza le solite maschere fastidiose.
Effettivamente queste prose presentano una materia nuova, ricordi d’infanzia, sensazioni fuggevoli,
confessioni soggettive, un ripiegamento ad esplorare la propria interiorità pervasa da inquietudini e
perplessità, e soprattutto dal pensiero della morte, affrontato direttamente.
È quella che un critico ha definito «esplorazione d’ombra», in contrapposizione al d’Annunzio
«solare», vitalistico ed eroico.
Anche la struttura di queste opere è nuova: non più costruzioni complesse ed artificiose, ma il
frammento: un procedere per libere associazioni, un fondere presente e passato attraverso gli
andirivieni della memoria, un mescolare il ricordo alla fantasia, alla visione quasi allucinata, alla
registrazione rapida delle percezioni sensoriali più casuali e slegate.
Quest’ultima stagione della produzione dannunziana viene comunemente definita “notturna”.
Lo stile diviene secco, nervoso, fatto di brevi proposizioni, spesso in forma nominale, cioè senza
verbi.
Riconosciute queste indubbie novità, occorre però osservare che queste prose tarde hanno dietro di
sé tutto un fermento culturale che in quegli anni andava in direzioni analoghe, una tendenza al
frammentismo. Per certi aspetti d’Annunzio precorse queste tendenze, ma per altri aspetti subì
l’influenza dei suoi stessi “discepoli”.
Non solo, ma queste prose rivelano ancora una presenza massiccia di pose narcisistiche, di
autocelebrazioni del proprio «vivere inimitabile» e della propria sensibilità d’eccezione, tutti aspetti
che rimandano in pieno all’ideologia superomistica; e non manca neppure, spesso, la gonfiezza
retorica.
ANALISI
-"La sera fiesolana"
Il cuore dell’Alcyone è la celebrazione dell’estate in ogni suo aspetto e La sera fiesolana è uno dei
componimenti più noti e significativi del libro.
Il fulcro della lirica, di grande intensità, è costituito dalle potenti sensazioni che l’ambiente intorno
provoca nell’animo rapito dell’autore.
Al momento della stesura infatti, nel 1899, il poeta viveva insieme alla compagna Eleonora Duse
nella Villa della Capponcina a Settignano, vicino Firenze, ed è proprio qui che, in una serata di
Giugno, si lascia catturare dalle forti impressioni che la natura è in grado di suscitare sulla parte più
intima e profonda di sé.
Dopo un pomeriggio di pioggia la sera e, precisamente, il momento in cui il crepuscolo lascia il
posto all’oscurità della notte, diventa l’oasi di pace in cui immergersi in un totale abbandono dei
sensi e della mente fra i suoni e i profumi circostanti.
Con il buio la vista viene meno, ma l’udito, il tatto e l’olfatto si acuiscono, riuscendo a cogliere e a
percepire melodie, odori e situazioni altrimenti incomprensibili.
Ne scaturiscono immagini fortemente evocative, di rarefatta ed impalpabile bellezza e dalla
musicalità marcata e limpida, dei dipinti quasi, pervasi da grande luminosità e da sonorità senza
spazio e senza tempo.
Tutta La sera fiesolana è intrisa di un’atmosfera di sogno e misticismo, rinsaldato quest’ultimo dai
tre versi di laudi posti al termine di ogni strofa, il cui chiaro ed evidente modello è il Cantico delle
Creature (o di Frate Sole) di San Francesco d’Assisi (lo vediamo anche nell’espressione "fratelli olivi"
al v. 29).
Come sempre accade in D’Annunzio tuttavia, il tratto caratteristico della lirica è la sensualità, che si
esprime nella scelta di interloquire con una donna (l’amata Duse per alcuni, una presenza femminile
incorporea e simbolica secondo altri critici), nella personificazione della Sera dal "viso di perla", le
"vesti aulenti" e i "grandi umidi occhi" e nel profilo delle colline fiorentine avvolte dal chiarore della
luna che, nella fantasia dell’autore, diventano labbra pronte a pronunciare parole che però, per un
arcano e misterioso motivo, non possono essere profferite.
Il primo aspetto che balza agli occhi di chi legge La sera fiesolana è la splendida resa della fusione
fra paesaggio e stato d’animo, in una compenetrazione uomo/natura che rappresenta uno dei punti
più alti del panismo dannunziano.
Confondersi con il Tutto e con l’assoluto, un concetto chiave del Decadentismo, nel poeta abruzzese
si traduce essenzialmente nel rapporto di osmosi che investe l’uomo e la natura, un processo
attraverso il quale il primo si naturalizza, mentre la seconda si antropomorfizza, proprio come
accade alla sera in La sera fiesolana.
Tutto quanto avviene nell’ambiente, dal fruscio delle foglie al sorgere della luna, dalla pioggia che
cade al trascolorare della campagna, dalle ombre degli alberi all’apparizione delle prime stelle in
cielo, trova piena corrispondenza nello stato d’animo del poeta, che si fonde e si confonde con ciò
che lo circonda, in un crescendo di emozioni e sensazioni che rendono difficile, se non impossibile,
spiegare e tradurre in un linguaggio logico e discorsivo questa lirica, il cui meraviglioso intreccio di
rime ed assonanze, la grazia delle immagini e la sonorità dei versi, rendono un capolavoro assoluto
della letteratura italiana ed europea di fine ’800.
-"La pioggia nel pineto"
Prima strofa: La poesia racconta di una passeggiata del poeta in un giorno di pioggia nella pineta,
accompagnato dalla donna amata che lui chiama Ermione. Il poeta si rivolge alla donna invitandola
al silenzio, per percepire con estrema attenzione i suoni straordinari della natura. La pioggia
cadendo favorisce la fusione con il paesaggio dando inizio ad una metamorfosi che porta il poeta ed
Ermione, a iniziare a perdere le sembianze umane per assimilarsi alla vita vegetale, rigenerando e
purificando il loro amore e i loro pensieri.
Seconda strofa: il rumore costante della pioggia diventa come una musica che cambia di intensità
in base al fatto che le gocce d’acqua vanno a colpire un fogliame più o meno rado. A questi suoni si
uniscono il gracidare delle rane ed il frinire delle cicale come se tutta la natura fosse un’orchestra in
cui ogni elemento naturale rappresenta un diverso strumento che le dita della pioggia suonano. La
metamorfosi panica fa sì che il poeta e la donna non più umani, abbiano una vita vegetale in cui il
volto e i capelli di Ermione, bagnati dalla pioggia non si distinguano più dagli altri elementi del
bosco.
Terza strofa: la pioggia aumenta, il suo crepitio aumenta e copre il canto delle cicale e delle rane,
che progressivamente si indebolisce fino ad estinguersi del tutto. La pioggia pulisce le piante del
bosco e rigenera l’anima del poeta e della donna.
Quarta strofa: La pioggia scende sul volto di Ermione e sembra che stia piangendo, ma non è un
pianto di dolore ma di gioia. Si sta per compiere la metamorfosi vegetale e l’aspetto della donna ora
ha perso ogni sembianza umana: il viso non è più bianco ma è verdeggiante ed ella, come una
ninfea, sembra uscire dalla corteccia di un albero. La metamorfosi trasforma le varie parti del corpo
in forme della natura: il cuore è come una pesca non ancora colta, gli occhi sono come fonti d’acqua
ed i denti sono come mandorle acerbe. Gli amanti corrono nel bosco mentre la vegetazione li
circonda e li avviluppa.
Il tema centrale è quello del panismo ovvero della fusione tra l’uomo e la natura.
La poesia narra di un uomo e una donna colti da un temporale mentre si trovano in una pineta,
avvenimento che porta i due protagonisti a vivere l’esperienza della naturalizzazione panica, cioè
del loro fondersi con la natura fino a perdere le sembianze umane e giungere alla trasformazione in
elementi vegetali.
La lirica ha il suo fulcro nel sentimento mistico di unione con la natura, il panismo dannunziano,
quella metamorfosi che porta alla fusione dell’io con il tutto costituito dall’indistinto naturale.
La trasformazione panica inizia al verso 20 in cui i volti silvani di cui parla d’Annunzio
rappresentano i primi segni della metamorfosi in atto.
Nel processo di trasformazione la pioggia ha un ruolo importante perché purificando favorisce la
rigenerazione dei protagonisti che diventano progressivamente parte del bosco, tanto che il volto ed
i capelli della donna arrivano a non essere più distinguibili dagli altri elementi vegetali.
La poesia si apre con un imperativo (v.1: Taci) rivolto alla donna amata con cui d’Annunzio la invita
ad ascoltare il linguaggio della natura. Non si tratta di un ordine ma è un’esortazione che il poeta
ripete varie volte nel corso della lirica.
L’invito è di immergersi completamente nel paesaggio per riuscire a farne parte attuando la
trasformazione panica. La fusione tra uomo e paesaggio viene resa dal poeta attraverso la
valorizzazione del rapporto sensoriale, in particolare dell’udito con cui vengono evidenziati i suoni
prodotti dal cadere dell’acqua sulle diverse varietà di vegetazione ed il verso di alcuni animali del
bosco, dai vari elementi della natura scaturisce una sorta di sinfonia boschiva. Le gocciole
percuotono i vari elementi naturali come se fossero strumenti musicali producendo un concerto di
suoni armonici.
Il poeta fa leva anche sugli altri sensi per coinvolgere il lettore, l’elemento olfattivo viene sollecitato
attraverso l’emergere di profumi ed umori dalla vegetazione umida di pioggia, le sensazioni tattili e
visive trasmesse con la descrizione particolareggiata dell’ambiente in cui il poeta distingue le
diverse specie di piante e arbusti, specificandone i nomi.
-"Meriggio"
Possiamo dividere il componimento in due parti, una “descrittiva” (le prime due strofe) e l’altra
“panica” (la terza e la quarta strofa).
La parte descrittiva– È una parte particolarmente suggestiva; D’Annunzio dipinge da par suo il
paesaggio che si può ammirare lungo la foce dell’Arno; siamo nelle ore più calde della giornata, tutto
intorno è silenzio, torpore; tutto sembra dissolto nel caldo estivo, non c’è movimento alcuno, non
spira un alito di vento; l’aria è completamente immobile; persino le vele delle barche rivolte verso
Livorno sono del tutto ferme. Il colore del mare ricorda quello dei bronzi che vengono dissepolti
dagli ipogei.
Da qui si possono ammirare Capo Corvo, l’Isola del Tino e le isole Capraia e Gorgona citate da Dante
nel canto XXXIII dell’Inferno nella sua invettiva contro Pisa: muovasi la Capraia e la Gorgona, / e
faccian siepe ad Arno in su la foce, / sì ch’elli annieghi in te ogne persona! . Tutto il paesaggio è poi
dominato dalle imponenti Alpi Apuane, una “marmorea corona”. La foce dell’Arno è simile a uno
stagno d’acqua salmastra, ferma e silenziosa, che tocca le capanne dei pescatori e le loro reti a
bilancia che pendono dalle aste incrociate che sorreggono tali abitazioni.
L’acqua della foce, prima, increspata dal vento, sembrava quasi sorridere; ora, immota, ha assunto
un colore bronzeo e ricorda l’acqua del fiume Lete.
Per chi le vede dalla lunga distanza, le rive dell’Arno sembrano avvicinarsi e unirsi fino a formare un
cerchio di canne, silenziose e totalmente immobili; e poi si vedono i boschi, più cupi quelli di San
Rossore, più azzurri quelli più lontani. Si scorgono anche i Monti Pisani; anch’essi sembrano
immersi nel torpore, sommersi dalle nuvole. Termina qui la parte descrittiva, che come si è potuto
notare è ricca di toponimi.
La parte panica (vv. 55-109) – A partire dal verso 55, inizia la parte dell’estasi panica; è quella che
racchiude il tema centrale di tutta la lirica, ovvero la comunione totale del poeta con la natura;
siamo al momento culminante. I primi due versi riassumono quanto descritto nelle due strofe
precedenti: l’afa, la bonaccia, il silenzio inerte. Inizia adesso un’estatica contemplazione della
natura; il poeta avverte la sua fusione con le cose; lui si fonde nella natura e la natura si fonde in lui;
c’è una sorta, potremmo dire, di antropomorfizzazione; significativa la descrizione dell’estate,
personificata, che ai suoi occhi diventa un frutto a lui solo destinato, è infatti solo il poeta
superumano degno di assaggiarlo. Scompare in lui qualsiasi identità umana; il suo volto è
trasfigurato, assume il colore del meriggio; la sua bionda barba è lucente come la paglia marina; la
sabbia è come il suo palato e come il palmo della mano; particolarmente suggestiva è poi la
descrizione del corpo disteso sulla sabbia e che vi imprime le sue forme; ogni elemento della natura
diventa un elemento umano: il fiume è come il sangue che scorre nelle vene, il monte è la fronte, la
selva è la peluria della zona pubica, le nubi sono il sudore. Il poeta vive ovunque: nelle scaglie della
pigna, nel fiore della stiancia, nel frutto del ginepro, nelle alghe, nella paglia marina, nelle cose più
insignificanti e in quelle immense, nella sabbia a lui vicina e nei monti da lui distanti. E il poeta
ormai si è trasfigurato nell’essenza più pura del meriggio, non ha più un’identità umana; anche
tutte le cose intorno a lui e da lui prima nominate non hanno più un’identità, non hanno più il nome
che comunemente viene loro attribuito dagli uomini; questi versi esprimono al meglio la
“comunione panica” di cui il meriggio è il simbolo; il poeta stesso è il Meriggio; il suo destino non ha
più niente in comune con quello degli altri uomini. La sua condizione è ormai divina; egli si è ormai
spogliato del tutto della sua umanità, la sua metamorfosi è ormai giunta a compimento.

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