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Verga Biografia

Nacque a Catania nel 1840 da una famiglia di origini nobiliari e di tradizioni liberali. Seguì gli studi nella sua città,
dove si iscrisse alla facoltà di Legge, ma non li terminò, tutto preso dalle vicende storico-politiche (dopo lo sbarco di
Garibaldi in Sicilia), e da una precoce attività letteraria che lo portò, nel 1861, alla pubblicazione del suo primo
romanzo di intonazione storico-romantica I carbonari della montagna. Nel 1865, insofferente della vita di provincia,
si trasferì a Firenze (in quel momento capitale del nuovo Regno D'Italia) e, poco dopo, a Milano dove si inserì nei più
brillanti e dinamici ambienti letterari, a contatto con gli artisti più ansiosi di rinnovamento culturale. Intanto
continuava intensa la sua opera di scrittore con romanzi che riproponevano ambienti ricco-borghesi e vicende di
esasperato romanticismo. L'incontro con Luigi Capuana, di cui condivise le teorie sul Verismo, lo indirizzò verso una
più concreta osservazione della realtà tanto che, con idee rinnovate, scrisse le sue opere maggiori, ispirate proprio
alla poetica verista. Dal 1893 il Verga tornò, per periodi sempre più lunghi, nella sua casa di Catania e lì si spense nel
1922. La lingua per lui è strumento essenziale.
Le idee e la poetica
Nell'attività letteraria del Verga si possono distinguere due periodi:
- il primo, cioè quello degli esordi, risente del filone del romanzo storico e della narrativa romantica e passionale, di
ambiente aristocratico e ricco-borghese (I carbonari della montagna, Eros, Eva, Tigre reale, Storia di una capinera,
Una peccatrice);
- il secondo, che ha inizio nel 1874 con la novella Nedda, ha caratteristiche assolutamente nuove, orientato com'è
alla scoperta e alla descrizione del vero. Non più costruzioni della fantasia, ma la realtà diventa molla di ispirazione
per lo scrittore che osserva fatti e personaggi con occhio obiettivo, quasi scientifico, senza lasciarsi coinvolgere a
esprimere giudizi personali: proprio come richiedevano i canoni del verismo. Protagonisti delle nuove opere
verghiane sono gli umili, studiati e descritti con linguaggio scarno ed espressivo nella triste, e spesso inutile, lotta del
vivere quotidiano. Il Verga infatti, è convinto che la vita umana sia dominata dal fato, una forza cieca e
incontrollabile, alla quale gli uomini, a qualunque ceto sociale appartengano, non possono opporsi perché
risulteranno sempre dei Vinti. In questa visione amara della vita consiste il suo pessimismo che dà alle sue opere un
tono desolato e drammaticamente epico. Così il Verga verista risulta non solo il più grande scrittore tra quelli della
sua corrente, ma è sicuramente uno dei migliori prosatori dell'Ottocento italiano, dopo il Manzoni.
Ecco le sue opere maggiori:
Vita dei campi (1879-1891): 8 novelle, tra cui Cavalleria Rusticana (da cui fu tratta l'opera di Mascagni), Jeli il pastore,
La Lupa, Rosso Malpelo, Libertà.
I Malavoglia (1881): è il primo romanzo di una serie intitolata I Vinti, rimasta incompiuta, in cui lo scrittore manifesta
la sua visione amara della vita.
Il romanzo narra le disavventure di un'umile famiglia di pescatori di Acitrezza (Catania) che cercarono di migliorare le
loro condizioni economiche. Infatti il capofamiglia, padron 'Ntoni, compra a credito un carico di lupini per rivenderlo
a Riposto con un modesto guadagno. Ma la barca, la Provvidenza, fa naufragio, causando la perdita dei lupini e la
morte dii Bastianazzo, il figlio di padron 'Ntoni, che lascia la moglie Maruzza e cinque figli. D'ra in poi la malasorte si
accanisce contro i Malavoglia che per pagare il debito sono costretti a vendere la casa. Di li a poco Luca muore nella
battaglia di Lissa. Muoiono anche Maruzza e il nonno. Il primogenito 'Notni, che da quando ha fatto il servizio
militare in continente non si rassegna alla miseria dei pescatori, si dà al contrabbando e finisce in galera dopo aver
ferito un doganiere. Lia, la sorella minore, abbandona il paese e non tornerà più. Mena dovrà rinunciare a sposarsi
con Alfio e rimarrà in casa ad accudire i figli di Alessi, il minore dei fratelli che continuando a fare il pescatore,
ricostruirà la famiglia e potrà ricomprare la <<casa del nespolo>> che era stata venduta. Quando 'Ntoni, uscito di
prigione, tornerà al paese, si renderà conto di non poter restare perchè si sente indegno del focolare domestico di
cui ha profanato le leggi e la sacralità.
Novelle rusticane (1884).
Mastro Don Gesualdo (1889): è il secondo romanzo del ciclo I Vinti, che doveva comporsi di cinque romanzi, ma
l'autore si limitò ai primi due pensando di avere già dimostrato in essi la tesi che si era proposto: l'uomo, qualunque
sia la sua posizione nella vita, è un vinto della vita stessa e deve sottomettersi al destino. Ne è un esempio mastro
Gesualdo, un manovale che è diventato ricco e rispettato a forza di duro lavoro e di sacrifici. Si innalza anche
socialmente, sposando la nobile Bianca Trao che lo sposa per riparare un fallo, ma non lo ama. Nasce Isabella che
non è figlia di Gesualdo, ma egli la considera sua e la fa educare nei collegi più aristocratici. Morta Bianca, che a poco
a poco si era affezionata al marito, Isabella si mostra ostile al padre sebbene egli sia disposto a soddisfare tutti i suoi
capricci, anche quello di sposare un duca squattrinato che dissipa il patrimonio che don Gesualdo ha accumulato in
tutta una vita. Quando Gesualdo si ammala, Isabella lo relega in una stanzetta del suo palazzo dove il povero vecchio
muore solo, sognando la sua casa e i suoi poderi, e rimpiangendo quella roba destinata a scialacquatori che non la
amano. (Continua...)
Don Candeloro E C. (1894).
Pascoli La vita
Pascoli nacque in Romagna da una famiglia numerosa di contadini benestanti, colpita però tragicamente quando il
poeta aveva solo 12 anni dalla morte del padre Ruggero. Conclusi gli studi iniziò una carriera d’insegnante liceale e
poi universitario, senza mai crearsi una famiglia propria, ma vivendo all’ombra del nido familiare, composto da
madre (scomparsa però prematuramente), sorelle e fratelli. In età matura acquistò una casa di campagna in
Garfagnana (alta Toscana), in cui ricreò le condizioni di vita della sua infanzia campagnola. La sua fu un’esistenza
appartata e borghese, lontanissima da quella, per fare un esempio, eccentrica e ambiziosa di D’Annunzio.
Poetica
Pascoli identifica il poeta con il fanciullino: colui che sa scoprire, oltre le apparenze, un mondo segreto e spesso
inquietante, avvolto nel mistero e dominato dalla presenza della morte. Il fanciullino vive nel suo habitat naturale
della campagna e del nido, in cui può trovare rifugio dai mali del mondo e dalle sofferenze della vita adulta. Legati al
simbolo principale del nido sono gli altri motivi tematici pascoliani, in particolare i morti di famiglia e gli animali, ma
anche le piante e i lavori della campagna. Elaborando queste immagini, che tornano ossessivamente nei suoi versi,
Pascoli ha saputo rinnovare in profondità la poesia italiana, avviandola sulla strada aperta dal Simbolismo europeo.
Raccolte poetiche e stile
Le principali raccolte poetiche di Pascoli sono Myriace e Canti di Castelvecchio, ispirate dallo sguardo ingenuo e dal
linguaggio istintivo del poeta-fanciullo. Gli stessi motivi simbolici, accostati però a una dimensione più narrativa,
caratterizzano anche i Poemetti. Un tono più elevato contrassegna i Poemi conviviali, che danno voce alla cultura
classicista di Pascoli. Meno felici altre raccolte, come Odi e Inni, intonate a temi civili e spesso nazionalistici, lontani
dalla poetica del fanciullino. Nelle sue raccolte maggiori Pascoli utilizza il linguaggio di una poesia fanciulla,
fortemente originale e nuova sul piano linguistico ed espressivo.

Poetica di Gabriele D’Annunzio


Molteplici furono i generi letterari praticati da D’Annunzio: poesia lirica e poesia epica, romanzo, novelle, teatro,
scritti di critica, cronaca giornalistica, prosa d’arte. Ciò potrebbe dare l’impressione di dispersività, ma in realtà tutta
la sua opera letteraria s’ispira a uno spiccato sperimentalismo.
Egli infatti seppe accogliere e riproporre gli spunti letterari più diversi, combinando modelli antichi e moderni e
rivisitandoli secondo le proprie tecniche letterarie, in più modi; per esempio, nelle Laudi rifece il verso alla
letteratura francescana tecentesca, rimanendo peraltro lontanissimo dalla sua semplicità e dal suo spirito religioso;
D’Annunzio era poi solito appropriarsi di pagine, idee, spunti altrui: veri e propri furti letterari, più volte
rimproveratigli dai suoi critici, ma di cui non si pentì mai, rivendicando invece le ragioni della propria libertà di
artista.
Da tale sperimentalismo scaturirono sia la varietà dei modi metrici dannunziani sia la ricchezza delle sue scelte
linguistiche, spesso antiche in contesti moderni, (come lo sport e l’aviazione).
Tali manifestazioni rivelano il desiderio del poeta di essere il dominatore della parola (tutte le parole), il
manipolatore della tradizione del passato (tutti gli autori, le forme ecc.): è il D’Annunzio onnivoro. La sua
espansione), non in profondità (nel senso di un arricchimento conoscitivo).
I privilegi dell'esteta
Estetismo (da aistesis, in greco sensazione), la parola chiave della poetica dannunziana, si esprime in tre forme.
1. Estetismo è in primo luogo culto della sensazione, cioè esaltazione di ciò che ricade nella sfera dei sensi,
della corporeità, dell'istinto.
2. Estetismo, per D'Annunzio, è anche panismo e vitalismo.
3. Estetismo, infine, è assenza di gerarchie.
Marinetti Biografia:
Nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1876 e qui studiò presso i padri gesuiti. Nel 1895 si trasferì a Parigi dove conseguì
il baccalaureato in lettere, ma poi, per far piacere al padre dove conseguì il baccalaureato in lettere, ma poi, per far
piacere al padre avvocato, studiò legge a Pavia e a Genova e si laureò nel 1899. Gli anni giovanili li trascorse
prevalentemente a Parigi dove, in francese, pubblicò le prime opere: Les vieux marins (1899) (I vecchi marinai),
Denstruction (Distruzione, 1904), Roi Bombance (Re Baldoria, 1905).
Nel 1909 sul Figaro del 22 febbraio, pubblicò il primo Manifesto del Futurismo, un vero e proprio programma
rivoluzionario in cui si rinnegavano i valori tradizionali per esaltare il dinamismo della vita moderna, i miti della
macchina e della guerra, la violenza come affermazione di individualità. L’anno successivo, nel Manifesto della
letteratura futurista, Marinetti teorizzava i mezzi espressivi di un’arte adeguata ai tempi, scevra dai formalisti
consueti, senza regole, sensazionale. Anche la sua vita si svolse in maniera consona ai suoi programmi: egli fu
costantemente in movimento per diffondere i programmi futuristi che spesso erano aspramente contestati, ma che
trovarono seguaci tra i fanatici della conquista della Libia, fra gli interventisti della Prima Guerra Mondiale, tra i
fascisti. Con l’avvento del Fascismo, infatti, Marinetti divenne un personaggio di rilievo e nel 1929 fu nominato
accademico d’Italia. Morì a Bellaggio (Como) nel 1944.
Le idee e la poetica
Marinetti fu più un teorico che un grande artista: egli seppe dare una svolta all’arte, esprimendo la necessità di
rinnovamento e di impulso verso tematiche ed espressioni più adatte ai ritmi della vita moderna; egli additò alla
letteratura, pur tra paradossi e velleità eccentriche, aspirazioni nuove che furono condivise a livello europeo
soprattutto da artisti francesi e russi. In questo senso l’esperienza futurista, pur con la sua mancanza di profondi
contenuti spirituali, ebbe un valore positivo di svecchiamento della cultura dalla retorica ottocentesca e di
provincializzazione, con aperture verso l’Europa.
Comunque, mentre in alcune opere di Marinetti è evidente l’impegno di creare modelli di futurismo, in altre,
specialmente nelle ultime in cui si è spenta l’esaltazione dei fasti del regime, riaffiora il legame con le poetiche
sentimentali e simboliche dell’area decadente.

Poetica di Luigi Pirandello


Pirandello, nato nel 1867, si formò in una fase segnata da una duplice crisi:
da una parte, la crisi storica e sociale dell’Italia postrisorgimentale;
dall’altra, la crisi della cultura positivistica, corrispondente alla caduta dei valori e delle certezze acquisite.
La crisi storica e sociale era particolarmente avvertita nel Mezzogiorno d’Italia e in Sicilia; già Verga l’aveva
rappresentata nei romanzi e nelle novelle. Sui temi della prepotenza dello stato centralistico e del tradimento di ogni
vera prospettiva unitaria e nazionale, Pirandello darà un vasto e pessimistico affresco, nel 1909, con I vecchi e i
giovani, il suo romanzo storico. Ma ancora più grave è l’altra crisi. Il crollo dei miti della ragione, della scienza, del
progresso, che si esprime nella contemporanea cultura del Decadentismo, trova nell’opera di Pirandello una delle
sue più importanti espressioni: l’uomo non è più in grado di conoscere e di padroneggiare il mondo esterno e,
soprattutto, non conosce più se stesso e non si appartiene più. Da queste riflessioni deriva il relativismo di
Pirandello. Già in un saggio giovanile, Arte e coscienza d’oggi, risalente al 1893, Pirandello denunciava
profeticamente la relatività di ogni cosa: Nei cervelli e nelle coscienze regna una straordinaria confusione. Crollate le
vecchie norme, non ancora sorte o bene stabilite le nuove; è naturale ce il concetto della relatività d’ogni cosa si sia
talmente allargato in noi. Non mai, credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata.
Poetica dell’Umorismo
Quelle che abbiamo esposto sono le idee che Pirandello recepì da molteplici fonti e che rielaborò nel suo personale
relativismo. La traduzione letteraria del relativismo fu l’umorismo, come Pirandello stesso volle battezzare la propria
poetica nel più importante fra i suoi saggi teorici, L’umorismo (1908). In esso l’autore esamina l’arte umoristica che
rese grandi alcuni autori del passato, come Ariosto, Cervantes, Manzoni; ma in realtà vuole parlare soprattutto di sé
e della propria arte. Secondo Pirandello, l’umorismo consiste nel sentimento del contrario, provocato dalla speciale
attività della riflessione che non si cela. La prerogativa dell’umorista è appunto vedere il contrario di tutte le cose
(cioè il loro lato nascosto): nascono di qui i tanti casi paradossali, le stranezze, le situazioni abnormi tipiche delle
pagine pirandelliane. Eppure l’umorista non è lieto di una simile capacità; come le antiche statue (erme) a due facce,
anch’egli è un’erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta. Chiarisce Pirandello: Vi prego di
credere che non può esser lieta la condizione d’un uomo che si trovi ad essere quasi sempre fuori di chiave, a essere
a un tempo violino e contrabbasso; d’un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un
altro opposto, contrario; a cui per una ragione ch’egli abbia di dir sì, subito un’altra e due e tre non ne sorgano che lo
costringano a dir no, immediatamente dopo; e tra il si e il no lo tengano sospeso, perplesso, per tutta la vita.
Poetica di Italo Svevo
Svevo fu tra i primi scrittori del Novecento a concepire la letteratura in modo assai diverso da come la concepiva la
tradizione (per esempio D'Annunzio, in quell'epoca l'autore italiano più letto e influente). Egli infatti ridimensiona
nettamente il ruolo della letteratura e del poeta, allontanandosi notevolmente dalla figura di poeta-eroe dell'età
classica, o da quella di poeta-genio dei romantici. Svevo, al contrario, attribuisce ai letterati molti i difetti: sono lenti
(non possono dare un giudizio sintetico su questa vita che analizzarono con tanta lentezza - Diario, 1893), indecisi
(Sto per giornate intere dinanzi alle mie cartelle e fumo, fumo, fumo - Terzetto spezzato, 1912), perfino immortali
(Bastava perciò non scrivere ed egli diventava l'uomo virtuoso ch'era stato sempre - La novella del buon vecchio e
della bella fanciulla, 1926).
Il punto è che i poeti non possono più conoscere il mondo, non hanno più certezze o valori o ideali da comunicare. Se
vogliono davvero rimanere fedeli alla vita ed essere sinceri, come Svevo auspica, non possono che ridursi a parlare
dell'unica cosa che conoscono, pur se parzialmente: la propria vita interiore. La letteratura, scrive Svevo, è
semplicemente un modo per conoscersi meglio:
L'opera che ne nascerà avrà carattere introspettivo (come avviene nei primi due romanzi sveviani) o diventerà,
addirittura, un'autobiografia, qual'è La coscienza di Zeno.
In tal modo, la letteratura perde la sua aura, non ha più nulla a che fare con il bello, con l'arte; diviene un fatto
privato, che può sopravvivere solo se si rende utile a chi la pratica. Il vecchione del quarto romanzo (appena
abbozzato) affermerà, con forte autoironia, che la letteratura ha per lui il semplice valore di un purgante.
Questa poetica della riduzione della letteratura giunge fino al rifiuto. In un altro famoso appunto di diario, sempre
datato 1902, leggiamo: Io, a quest'ora e definitivamente ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa
che si chiama letteratura. Svevo però non mantenne fede al proposito: dopo i primi due romanzi, sarebbe giunto il
capolavoro della Coscienza.
Il ricordo e la malattia: questi sono i suoi temi prediletti
In quest'ottica privata e individuale, il tema prediletto diviene quello del ricordo, la parte più intima dell'autore, la
più adatta all'autoconoscenza, all'introspezione. Ricordare significa, per i personaggi di Svevo, muoversi nel tempo,
anche se questa è un'operazione difficile: gli occhi presbiti separano Zeno dal passato. Io non so muovermi
abbastanza sicuramente nel tempo. Il tempo fa le sue devastazioni con ordine sicuro e crudele (Il vecchione). Il
tempo che ritorna nel ricordo è sempre soggettivo (Il presente dirige il passato come un direttore d'orchestra i suoi
suonatori, La morte), ovvero, in altre parole, il tempo puro non esiste: nel ricordo rivive un tempo misto com'è il
destino dell'uomo (Il vecchione).
Accanto al tema del ricordo, quello della malattia. Vita, letteratura e malattia s'intrecciano strettamente nell'opera
sveviana. La letteratura non può che ritrarre la vita, ma quest'ultima la vita, ma quest'ultima è malata o inquinata fin
dalle radici, affermerà Zeno; per vivere di meno e, quindi, per essere un po' meno malati. Se queste sono le
premesse, comprendiamo il perché, nell'arco dei suoi tre romanzi, Svevo prospetti un itinerario complessivo di
guarigione: Zeno Cosini, il protagonista della Coscienza di Zeno (1923), riesce a sconfiggere la passione per la vita
mediante lo scetticismo: impara a convivere con i limiti propri e della realtà. Non è perfettamente guarito, ma riesce
perlomeno a tenere la nevrosi e sopravvivere, in tal modo, meglio che può.
Lo stile e la scelta del realismo
Lo stretto contatto fra vita e letteratura porta Svevo a una scelta fondamentale per la sua produzione: quella del
realismo come mezzo di fedeltà alla vita. Svevo rifiuta un'idea classicista di arte: il poeta, secondo lui, deve
testimoniare questa realtà, non crearne un'altra; perciò sceglie uno stile vivo, parlato, un linguaggio fedele alla vita
anche nei suoi momenti bassi e ordinari (in questo senso Montale definì quello di Svevo uno stile commerciale).
Tutto ciò è molto vicino al Verismo di Verga e soprattutto al sincerismo propugnato dal giovane Pirandello. Svevo
rifiuta invece D'Annunzio, perché gli appare il tipico letterato: Da buon letterato egli non diceva mai la verità
(Incontro di vecchi amici).
Ungaretti Biografia
La biografia di Ungaretti si può considerare suddivisa in tre fasi fondamentali, corrispondenti a tre periodi della sua
vita strettamente legati alla sua poetica. La 1ª fase : è quella che definiamo "poesia di guerra" , quando il poeta
raccoglie le sue liriche ne "L'allegria di naufraghi" datata 1919 , poi ripubblicata con il solo titolo di "Allegria" nel
1931 . Sono le poesie in cui Ungaretti scopre la precarietà della vita umana , elabora il sentimento della fraternità . La
guerra invece di separare aveva unito .
Pertanto questa guerra aveva rivelato la fragilità dell'essere umano , e la cruda realtà si traduce per il poeta in poesie
scarne , prive di punteggiatura e ricche di pause ecc. Siamo di fronte "all'uomo di pena", in questa raccolta è
adottato il verso breve ( versicoli)
Poi abbiamo la 2ª fase dal 19 al 35: con la raccolta " sentimento del tempo" e qua si passa al superamento della fase
autobiografica e da "uomo di pena " il poeta diventa "uomo" , o addirittura uomo di fede ; comincia a dare voce ai
conflitti dell'animo , agli interrogativi esistenziali , il valore del tempo del tempo , il rapporto con le divinità e
l'esistenza dei un unico dio . Il Poeta comincia a sentire la vacuità , l'effimero in relazione con l'eterno . Sul piano
stilistico la sintassi cambia , non è più versicolo , non è più mancanza di punteggiatura , abbiamo un verso più piano ,
si ritorna alla tradizione letteraria di una volta , il poeta si ispira a Petrarca a Leopardi e recupera addirittura l'uso
dell'endecasillabo e del settenario ,c'è infine il ritorno ad una corretta punteggiatura . Sono anche gli anni in cui egli
ha perduto il figlio , anni difficili e forse L'ermetismo non colmava più i suoi bisogni per tirare avanti .
Poi infine abbiamo la conclusione , la 3ª fase che va dal 47 fino all'anno della morte . Ungaretti ritorna dal Brasile , il
poeta soffre fino all'inverosimile per la morte del figlio . Ungaretti quindi vive questa tormentata fase fra gli orrori
della morte del figlio e dello scoppio della seconda guerra mondiale . In questo periodo Ungaretti pubblica una
raccolta intitolata per l'appunto "il dolore" , dove prevale un senso di malinconia , commozione profonda , il senso di
abbandono , di un dolore che diventa tutto suo , personale .

Saba Biografia:
Umberto Saba (Trieste 1883-Gorizia 1957) ebbe un'infanzia difficile. La madre, ebrea fu abbandonata dal marito
prima della sua nascita. Umberto, per rivalsa, cambiò il cognome del pare, Poli, con lo pseudonimo Saba che in
ebraico significa pane. Ebbe una carriera scolastica piuttosto breve perché dovette trovarsi presto un lavoro, ma,
dopo le sterminate letture dell'infanzia, lesse per conto proprio i classici italiani. Nel 1903 esordì come poeta
pubblicando a sua spese il volume di versi Il mio primo libro di poesia.
Dopo la partecipazione alla prima guerra mondiale rilevò a Trieste una vecchia libreria antiquaria a cui si dedicò fino
agli anni della vecchiaia, trovandovi sia il sostentamento economico sia un rifugio e la possibilità di dedicarsi alla
poesia. La tranquilla occupazione di libraio fu interrotta dalla persecuzione razziale e dalla seconda guerra
mondiale che lo costrinsero alla clandestinità. Alla fine della guerra, dopo brevi soggiorni a Roma e Milano, rientrò a
Trieste e vi trascorse gli ultimi anni di vita segnati dalla perdita della moglie e da periodiche crisi di nevrosi, ma anche
da riconoscimenti per la sua grandezza poetica e sprazzi creativi da cui nascono le ultime raccolte di versi.
La prima pubblicazione importante è Poesie del 1911, cui seguirono, nel 1912, le liriche Coi miei occhi.
Nel 1921 Saba raccolse nella prima edizione del Canzoniere tutte le poesie scritte precedentemente.
La chiarezza e la profondità sono i due aspetti fondamentali della poesia di Umberto Saba che si apprezza per la
grande semplicità descrittiva anche nella rappresentazione di emozioni e sentimenti profondi, per l'uso chiaro e
univoco delle parole, per il rigore morale.
Saba ama la vita nella molteplicità del suo manifestarsi e ne canta tutti gli aspetti, anche più umili e quotidiani. Solo
apparentemente semplice, la sua poesia è motivo di riflessione sui vari momenti della vita di ogni giorno, la calda
vita a cui il poeta desidera partecipare in una profonda comunione affettiva.
Montale
Montale, nelle sue opere, è stato un autorevole interprete di quella crisi dell'io e della società che caratterizza tanta
letteratura del Novecento. La sua è una visione assai differente rispetto a quella di Giuseppe Ungaretti, l'altro poeta
classico del secolo. Infatti:
• Ungaretti parte da una posizione di dolore e pena, ma giunge poi a un'affermazione, sia pure sofferta, di
fede religiosa e di speranza;
• Montale invece non ha mai abbandonato la convinzione della negatività e aridità della vita: un'idea
magistralmente espressa fin dal suo primo libro di versi, Ossi di seppia (1925) e confermata nelle sue ultime opere.
Così come mancò a Montale il conforto nella fede, gli mancarono anche le speranze e le soluzioni promesse dalle
ideologie (incluso il marxismo), verso cui nutrì sempre diffidenza e freddezza. L'aridità, la negatività montaliane
suonarono, negli anni del fascismo, anche come una denuncia delle false certezze su cui la cultura del tempo
riposava, con i suoi programmi di ritorno all'ordine, con i suoi miti imperiali. Non a caso l'editore degli Ossi di seppia
fu Piero Goberti, uno dei più lucidi intellettuali antifascisti, costretto all'esilio e alla morte precoce a Parigi nel 1926.
Ma anche nel corso degli anni successivi e nelle altre raccolte di versi via via pubblicate, la poesia montaliana non
intende abbellire la realtà o nascondere il male di vivere, né dissimulare quella disarmonia (un non sentirsi a posto,
un inadattamento, come Montale stesso lo definì) che lo scrittore avvertiva in se stesso, nella storia e nell'esistenza
umana. Intende invece dichiararla, senza compiacimenti, ma con la dignità del testimone. E' un atteggiamento
paragonabile al pessimismo di Giacomo Leopardi, e che ha diversi punti di contatto anche con la filosofia tipicamente
novecentesca dell'esistenzialismo.
Tale visione negativa del vivere viene espressa da Montale in un poetare scabro ed essenziale: Avrei voluto sentirmi
scabro ed essenziale, dichiara infatti il celebre inizio di una lirica del suo primo libro, in cui il poeta si rivolge al mare e
alla sua azione purificatrice. Ora, questa essenzialità va intesa a più livelli: filosofico, stilistico e tematico, simbolico.

Levi Biografia
Primo Levi nacque a Torino nel 1919 da una famiglia ebraica di agiata borghesia, originaria delle valli cuneesi. Studiò
al liceo D’Azeglio di Torino e nel 1941 si laureò in chimica. A causa della sua origine razziale fu costretto a impieghi
semiclandestini, prima in una cava di amianto vicino alla sua città, poi alla Wander di Milano; intanto maturava le sue
idee politiche affiancandosi alle formazioni partigiane della Valle D’Aosta. Il 13 Dicembre 1943 fu catturato e
internato nel campo di Fossoli (Vicino a Modena); nel Febbraio 1944 fu deportato ad Auschwitz in Polonia e
assegnato al sottocampo di Monovitz. Vi rimase fino alla liberazione del campo da parte delle truppe russe, gennaio
1945. Il ritorno a casa fu faticoso e Levi rientrò in Italia soltanto nell’ottobre di quello stesso anno, costretto a seguire
itinerari assai complicati a causa della ritirata tedesca dai vari Paesi europei. Una volta a casa si impiegò in
un’industria di vernici e pubblicò subito il racconto della sua esperienza nei lager Se questo è un uomo, ma senza
molto successo. Il successo gli venne nel 1958 con la edizione presso l’Editore Einaudi. Da allora la sua attività
letteraria fu abbastanza regolare, con la pubblicazione di opere di vario genere, sia in volume sia su i giornali e
riviste. Morì suicida a Torino nel 1987.
Le idee e le tematiche
L’esperienza letteraria di Primo Levi (laureato in chimica!) nasce dal bisogno di raccontare le mie cose come egli
stesso dice, quindi di partecipare ad altri, in forma quasi verbale, le sue esperienze. Tutte le sue opere hanno questo
fondo di autobiografismo, più o meno evidente, ma nelle prime, più che nelle successive, l’intento autobiografico
non è disgiunto da un intento morale, dal bisogno cioè di essere ascoltato perché chi lo ascolta si ponga delle
domande e rifletta su certi problemi. Il mettere per scritto l’esperienza del lager è volere indurre tutti a conoscere, a
giudicare, a non dimenticare, affinché quelle tristi vicissitudini siano un riscatto pagato per le generazioni future: che
non debbano mai fare o subire altrettanto!
Opere principali
SE QUESTO E’ UN UOMO (1948): è il racconto dell’esperienza dolorosa del lager scritto, come l’autore confessa, per il
bisogno di far sapere agli altri quello che succedeva in quei campi di concentramento nazisti; per la necessità di
proporre a tutto il mondo la domanda se questo è un uomo, quando lo si costringe alla più assoluta abiezione,
calpestandone ogni senso di dignità. Il libro racconta con misurata pacatezza e con un equilibrio poetico che lo rende
una delle più umane testimonianze della disumana vita dei deportati.
LA TREGUA (1963): anche in quest’opera Levi ritorna alla sua esperienza del campo di concentramento. Racconta,
infatti, della liberazione del lager e della lunga peregrinazione del ritorno, una sorta di pietosa odissea che è anche
tregua, vacanza, periodo di sospensione fra il non vivere di Auschwitz e la paura di vivere del ritorno: dove avremmo
attinto la forza per riprendere a vivere?... Ci sentivamo vecchi di secoli, oppressi da un anno di ricordi feroci, svuotati
e inermi.
Calvino Poetica:
Al contrario la sua opera appare mutevole, sollecitata dal gusto dell’esperimento e dal desiderio di superare gli
ostacoli tecnici del suo mestiere.
Ciò non esclude che in Calvino si possano riscontrare delle costanti:
• da un lato, l’accento di meraviglia e di divertimento con cui egli presenta ogni vicenda; nasce da qui la ricerca
della leggerezza, la prima delle sei qualità che Calvino (nelle sue tarde Lezioni americane) additò quale tratto tipico e
caratterizzante della scrittura letteraria;
• dall’altro, l’osservazione della società e del mondo circostante, quella vena di bonaria quotidianità che
modera l’invenzione e la riavvicina costantemente alla realtà.
Dopo il 1945, davanti ai gravi problemi dell’Italia da ricostruire; quasi tutti gli autori di quegli anni. Dopo il 1945,
davanti ai gravi problemi dell'Italia da ricostruire, quasi tutti gli autori intendevano realizzare una letteratura
impegnata dal punto di vista e sociale; precisamente su tali presupposti era nata la corrente del Neorealismo.
Tuttavia anche in queste opere, che sono le più realistiche di Calvino, affiora il gusto per la pura invenzione, per il
favoloso e il sorprendente; un gusto destinato a svilupparsi nel tempo ma che già trasse lo stesso Calvino nella prima
delle Lezioni americane: Quando ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era
l'impegnativo categorico di ogni giovane scrittore. Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del
mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto
mi sono accorto che, tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l'agilità scattante e
tagliente che volevo animasse la mia scrittura, c'era un divario che mi costava sempre più sforzo superare.
Opera dopo opera, la scrittura di Calvino tenderà ad allontanarsi dai fatti della vita per prediligere invece l'avventura,
la fantasia (ciò che lui chiama il ritmo interiore), spostandosi verso l'invenzione ai limiti del reale e oltre.

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