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La trincea avanzata

Massimo Bontempelli riprende il lessico militare per dire che i futuristi, in quanto avanguardia (cioè primi a sondare
nuovi territori finora inesplorati dell'arte e della letteratura) hanno scavato le trincee più avanzate (cioè si sono
stanziati molto più in avanti - da un punto di vista artistico e letterario - rispetto ad altri). Dietro queste trincee è ora
di costruire delle vere e proprie città (definite "città dei conquistatori"): il futurismo ha fatto il suo tempo, ha posto
le basi, ma adesso occorre superare l'avanguardia storica. Bontempelli infatti realizzerà il "realismo magico", dove
elementi magici si fondono con un contesto realistico.
1 IL MITO DELLA RIGENERAZIONE NEL PRIMO MANIFESTO FUTURISTA.
Marinetti nel primo manifesto del futurismo, pubblicato su “Le Figaro” (giornale francese) il 20 febbraio 1909
diviso in due parti ripropone la mitologia in chiave moderna. La prima parte somiglia a un racconto, infarcito di
elementi mitologici, la seconda parte è invece tecnica e programmatica. La mitologia presente nel manifesto
richiama alla memoria i cerimoniali iniziatici. Ci si ricollega al primordiale, all'istinto, alle pratiche mitico-magiche:
Furio Jesi ha illustrato bene come gli elementi formali di pratiche mitiche o magiche comprendano spesso
immagini appartenenti a precedenti patrimoni culturali, riproposte secondo rinnovate connessioni archetipiche:
le immagini, insomma, non sono più comprese nel loro significato originario ma assumono nuovi significati. Ed è
proprio quello che fa Marinetti: ripropone il mito antico ma con immagini ricavate dalla modernità.
Marinetti insiste su una questione, quella della rifondazione, della rinascita. L'etnologo Van Gennep sottolinea che
il rito della “prima volta” (come si legge nel manifesto: “i primi Angeli, la primissima aurora, lo splendore della
rossa spada che schermeggia per la prima volta”…) sottolinea questa fase di passaggio, di rinascita tanto caro a
Marinetti. La mitologia racconta le origini: il “nuovo inizio” della modernità, Karoly Kerenyi dirà che un tratto
fondamentale di ogni mitologia è risalire alle origini. La mitologia racconta sempre le origini. Marinetti ne è
consapevole e pone la tecnologia a servizio del mito: è per questo che tutte le azioni rituali che riporta si basano
su precedenti mitologici. È attraverso il mito che Marinetti intende parlare di un nuovo inizio: l'avvento
traumatico della modernità.

2. tra le ritualità più ricorrenti usate dai futuristi c’è quella legata al simbolismo dell’ascensione e dell'altitudine: la
montagna come collegamento tra umano e divino. La volontà dell'uomo di scalare le vette è uno slancio
superomistico.
Fondamentale in Marinetti è il mito dell'ascensione. Basti pensare all'explcit del primo manifesto (“Ritti sulla cima
del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle”) o all'assalto al monte Gorisankar, vetta del
mondo, nonché tema del secondo manifesto, “Uccidiamo il Chiaro di Luna”, il cui discorso ricomincia proprio sulla
“cima del mondo”, là dove era terminato il primo manifesto. Mircea Eliade ha dimostrato come il monte, in
quanto punto di incontro del cielo con la terra, sia per la sua stessa natura “sacro”. L'altitudine è quindi attributo
della divinità, in quanto la montagna è più vicina al cielo ed è dimora degli dei per eccellenza.
Le regioni superiori sono infatti inaccessibili all'uomo e solo alcuni privilegiati riescono a penetrarvi da vivi: è quel
che succede nell'ascensione narrata nel secondo manifesto dal gruppo dei “grandi poeti incendiari”, spinti allo
Zenit dal loro eroismo titanico. L’alto, per riprendere ancora le argomentazioni della Eliade, è una categoria
assoluta inaccessibile all’umano, colui che si innalza cessa di essere uomo. L'ascensione rappresenta quindi una
rottura di livello, un superamento della condizione umana. Non è quindi un caso che Marinetti, nel primo dei
cosiddetti “manifesti tecnici”, dichiarerà di sentire “ridicola la vecchia sintassi ereditata da Omero” e il
conseguente bisogno di dar corso alla formulazione del paroliberismo: in alto in uno spazio come l'aeroplano che
ha desacralizzato lo spazio celeste.
Anche i personaggi dell'antica mitologia entrano nel discorso futurista. Prometeo, colui che rubò il fuoco agli dei
per farne dono agli uomini è il modello mitologico dell'eroe futurista. Con Prometeo si riafferma il tema
dell'origine: per i greci Prometeo è il “protanthropos”, il primo uomo divino, un “uomo primordiale” che si eleva
sopra gli innumerevoli piccoli “uomini primordiali” che però prende partito per loro (donando il fuoco) e
identificandosi con loro. La luna, così simile all'uomo. Muore e rinasce continuamente. Nella produzione francese
precedente agli anni del futurismo, Marinetti dimostra di avere presenti i miti di rigenerazioni legati al simbolismo
degli elementi naturali: il mare, le stelle, la luna. Nei “Poemes lyriques” di “Destruction” (1904), il prologo celebra
il rito di ricongiunzione con il Mare: dal connubio con quell'immensa forza primordiale, il poeta attinge l'energia
necessaria a conquistare le stelle. Anche in “La Momie sanglante” (1903) è protagonista la Luna. Marinetti,
ridiscendendo nell'Egitto delle proprie radici culturali (Marinetti nasce proprio ad Alessandria d'Egitto) narra le
vicende di una mummia, la figlia del faraone Bocchoris che, rianimata dalla Luna, rievoca la storia del suo infelice
amore. Nel discorso della fanciulla la luna appare ora come sorella protettrice dell'amore ora come divinità gelida
che separa per sempre i due amanti. Il discorso si chiude con la richiesta alla luna di trovare ed aprire la tomba
dell'amato. La luna è legata alla legge universale del divenire, alla nascita e alla morte. Come l'uomo, la luna ha
una storia patetica perché la sua decrepitezza, come quella umana, termina con la morte. Ma la morte è seguita
da una rinascita: la “luna nuova”. La luna infatti scompare nell'oscurità, ma la sua morte non è mai definitiva. Vi è
un eterno ritorno alle sue forme iniziali, una periodicità senza fine. Nella sua fase futurista, Marinetti considererà
la luna come un idolo polemico: la rifiuta proprio perché la condizione lunare riflette quella dell'uomo, condizione
che il futurismo sogna e si sforza di superare.
Nella fase pienamente futurista, Marinetti utilizza un altro paragone mitologico. Nel 1905 pubblica su “Poesia” “A
l'automobile”, ristampata poi nel 1908 col titolo “A mon Pègas” (“al mio Pegaso”). L'automobile è paragonata a
Pegaso, il cavallo alato, di cui la tradizione mitologica ci dice che nascendo volò verso l'Olimpo, portando il
fulmine a Zeus. Pegaso simboleggia il dinamismo, la volontà desiderante, la tensione ascensionale. Le narrazioni
mitologiche facevano derivare il nome “Pegaso” dalla parola greca che significa “sorgente” (peghè) e
raccontavano che Pegaso era nato alle fonti dell'Oceano, cioè nell'estremo Occidente. Di nuovo, quindi,
incontriamo il tema dell'origine. Il gruppo futurista ha un primo contatto quasi erotico con le macchine. Marinetti
muore nel grembo della macchina per rinascere al suo interno. Iniziazione: morte e rinascita nel grembo della
macchina. Solo Marinetti partecipa
La volontà di realizzare una “mitologia tecnologica” porta Marinetti a divinizzare la macchina. Le cerimonie di
iniziazione consistono sempre in una morte rituale seguita da una rinascita. Mircea Eliade, storico delle religioni,
ci dice che per Plutarco, grande narratore di miti, esiste una stretta analogia tra i termini greci che significano
morire e iniziare. La prima cosa che fa Marinetti, quindi, è indicare tale analogia:
“Ci avvicinammo alle tre belve sbuffanti, per palparne amorosamente i torridi petti. Io mi stesi sulla mia macchina
come un cadavere nella bara, ma subito risuscitai sotto il volante, lama di ghigliottina, che minacciava il mio
stomaco.”
Il mezzo meccanico è il luogo di una rituale messa in scena in cui si celebra la sepoltura dell'uomo passatista e la
sua rinascita come superuomo votato al feticcio del futuro. L'uomo si congiunge carnalmente alla divinità-
macchina, per annullarsi, per morire nel suo grembo, ma per poi rinascere da esso. È significativo il passaggio
dalla prima persona plurale (“Ci avvicinammo”) alla prima persona singolare (“Io mi stesi”), che fa intuire come
tale rito è compiuto dal capo del movimento, mentre gli altri si limitano ad assistere e a partecipare ai preliminari
della stimolazione erotica (“Ci avvicinammo alle tre belve sbuffanti per palparne i torridi petti”). Marinetti è quindi
l'officiante e il destinatario del sacrificio rituale.
Le automobili sono assimilate a “belve sbuffanti”: ciò conferma che la creazione della stirpe futurista dipende
dall’esuberanza animale per cui l’uomo nuovo, immerso nell’organismo tecnologico, assume la configurazione
fisica di un moderno Centauro.
Questo rito di passaggio è organizzato attraverso una sequenza cerimoniale che, secondo lo schema di
classificazione proposto da Van Gennep, prevede riti preliminari che segnano la separazione dell’ambiente
precedente, riti liminari eseguiti durante lo stadio del margine e riti postliminari di assimilazione al nuovo
ambiente.
L’esperienza di iniziazione futurista si traduce in un rito di rimozione di un tabù ovvero quello della morte.
Assistiamo ad una frenetica corsa automobilistica che ha come posta in gioco l’esorcizzazione della morte che
coinvolge tutti i membri del gruppo di futuristi come evidenziato dall’utilizzo della prima persona plurale.
L’immagine di “giovani leoni” rimanda al gruppo contestatario dei fauves francesi e ripropone lo scontro con la
morte. La morte che Marinetti e i futuristi vogliono sfidare è identificabile con la morte dell’arte che i poeti del
simbolismo francese avevano percepito in termini di angosciosa denuncia.
Il mito deve pulsare insieme con la vita e salvare l’uomo e l’artista dalla sterilità espressiva e di fare della morte è
l’ultima occasione vitale.
La religione della macchina disinnesca la negatività della morte. Roberto Tessari dedica il mito della macchina un
discorso letterario, in cui analizza la ripresa del modello dantesco del viaggio del neofita futurista scrive che
Marinetti intende raggiungere la morte per trasformarla in una compagna eterna, mentre Dante cerca
nell’esperienza della morte spirituale un modo per potersene liberare attraverso la ragione.
La soglia decisiva che i futuristi devono superare è il “fossato d’officina”, ricompare la prima persona singolare, è
richiamato all’ultimo rito di purificazione solo Marinetti, ma insieme a lui è richiamata anche la macchina. Il
fossato è colmo d’acqua e terra. Nei miti e nei riti antichi, l’immersione nell’acqua non lascia nessuna traccia di
quanto esisteva prima. Quello che è importante sottolineare è la presenza del fango nell’acqua del fossato, la
dimensione mitica me ne riproposta di potenziata attraverso un’immersione nelle acque fangose della storia, nel
fossato in cui si depositano le scorie di quella civiltà tecnologica. La melma di cui è pieno il fossato d’officina
acquista il valore del liquido amniotico che prepara la figurazione del parto.
Per Marinetti solo la morte può garantire il futuro.
Successivamente la macchina riappare con le sembianze mitiche di un grande pescecane, riprendendo così
l’immagine di apertura del quinto canto del primo libro in versi di Marinetti dove domina la figura della balena-
auto. Viene completato il lavoro del mitologo Marinetti che al racconto mitico aggiunge all’oggetto dato dalla
rappresentazione la parola che persuade.

4. Secondo Eliade le cerimonie di iniziazione rendono evidenti la scomparsa e le riapparizioni cicliche, l’eterno
ritorno. Marinetti esibisce nel formulare l’ottava delle 11 dichiarazioni programmatiche, il desiderio di abolire il
tempo profano e di vivere nel tempo sacro, ovvero di vivere in un eterno presente.
Marinetti puntualizza la sua teoria del fare artistico come atto incessante di procreazione che si nega la
ripetizione. Marinetti afferma che ogni prodotto dell’ingegno è come un figlio che divora il padre ed è destinato a
propria volta ad essere divorato, l’arte per sfuggire alla morte deve essere assorbita perché è destino di tutte le
forme culturali dissolversi allo scopo di poter riapparire sotto forma nuova.

2 LE METAMORFOSI DEL GENERE-MANIFESTO


Si dice che Marinetti teorizza ma non inventa. Questo luogo comune può essere ragionevolmente confermato e
insieme smentito. Marinetti elabora poetiche, e questa è senz'altro una sua qualità. Per diffondere queste
poetiche usa i manifesti, nei quali teoria e invenzione vanno a fondersi. Il manifesto è il campo privilegiato delle
trasformazioni del genere narrativo, per Marinetti. Il manifesto come genere artistico.
Per Marinetti è “l'arte di far manifesti”: comunicare alla massa in maniera diretta e violenta. La storia del
movimento Marinettiano è scandita da una lunga serie di manifesti (oltre 300) che riguardano molteplici campi di
interesse. Tuttavia, ogni singolo manifesto mira al suo interno a mettere in discussione le tradizionali barriere che
tengono distanti creatività artistica e realtà vissuta. La forma-manifesto assume quindi la dignità di un vero e
proprio genere artistico. Per Marinetti si parla di una vera e propria “arte di far manifesti”: Marinetti,
comprendendo che i tempi sono cambiati, pensa a un prodotto che possa comunicare alla società di massa in
maniera diretta e violenta.
Confronto tra i manifesti futuristi e gli altri manifesti di fine '800. Quelli futuristi hanno toni molto più lirici e
aggressivi. Se confrontiamo i manifesti del futurismo con quelli di altri movimenti redatti alla fine dell'800
scopriamo interessanti differenze. Sullo stesso giornale “Le Figaro”, sul quale il 20 febbraio 1909 apparve
“Fondazione e Manifesto del futurismo”, furono pubblicati anche il “Manifesto del simbolismo” di Jean Moreas
del 1886, il Manifesto naturalista di Saint Georges de Bouhelier del 1897 e il Manifesto umanista di Fernand
Gregh del 1902. Tutti questi manifesti presentano toni molto più didascalici e pacati di quelli che
caratterizzeranno i manifesti del futurismo, molto più lirici e aggressivi.
I manifesti del futurismo non sono solo un supporto teorico alla produzione artistica del movimento ma dei veri e
propri medium pubblicitari, di tipo spettacolare, strumento che punta a gridare piuttosto che a dire. Come viene
detto da Giacomo Balla e Fortunato Depero in “Ricostruzione futurista dell'universo” (1915), il manifesto
allestisce l'immagine della funzione artistica come “presenza”, fine del rimpianto: col futurismo l'arte diventa
azione e volontà, diventa presenza. Le mani dell'artista passatista soffrivano per l'oggetto perduto, le mani dei
futuristi spasimavano per un nuovo oggetto da creare.

2. La diffidenza nutrita dalla cultura italiana nei confronti del manifesto futurista è soprattutto avversione nei
confronti della combinazione di propaganda e di manovra narrativa su cui è intessuto il codice comunicativo di
Marinetti. Illuminante, a tal proposito, è la testimonianza di Giovanni Papini, che nel 1913 dice che vi era
un’antipatia per i manifesti e che i grandi artisti non avevano bisogno mettere per iscritto le loro teorie per fare
dell’arte e che i manifesti non hanno mai creato un grande scrittore. La mania dei manifesti è stata interpretata,
secondo Papini, come esibizionismo, tipico degli scrittori francesi che vogliono mettersi in vista senza aver fatto
nulla di buono. I diversi manifesti che si sono succeduti a Parigi non hanno dato una grande opera. Il Futurismo,
cominciando con un manifesto, riconfermava l'etichetta. Entrare nell'orbita dell'avanguardia futurista significa per
Papini radicalizzare alcuni orientamenti ideologici come l'immediatezza pragmatica, il culto provocatorio di
un'incontrollata originalità, la tendenza a costituire un fronte di eversione intellettuale, messi in atto con
frastornante impeto dall'abilità di Marinetti ma già presenti nel suo programma letterario fin dai tempi in cui
dirigeva la rivista “Leonardo” (1903-1907). La rivista fiorentina “Lacerba”, fondata proprio da Papini (insieme a
Soffici), si allea col futurismo dal momento che l'intesa e le esigenze tattiche sono reciproche. Chiaramente
Marinetti è d'accordo all'alleanza, vedendo il connubio con altri intellettuali un modo semplice per diffondere le
sue idee senza ricorrere esclusivamente alle serate futuriste. Papini quindi, seppur non dimentica le critiche ai
manifesti, dice che Marinetti in alcuni manifesti è stato veramente geniale. Ma Papini rimarca spesso sul “suo”
futurismo, fino al 1915, anno in cui si consumerà la rottura definitiva col futurismo nell'articolo “Futurismo e
Marinettismo” (14 febbraio 1915). Papini (insieme a Palazzeschi e Soffici) dichiara di rifiutare la nozione di un'arte
come “ricetta precisa”, “metodo imposto sotto pena d'eresia”, “marca di fabbrica”. I tre futuristi fiorentini si
dichiarano gli unici autentici futuristi, mentre i futuristi milanesi sono etichettati come “marinettisti”.
I manifesti futuristi sono narrativi e normativi. Il genere del manifesto è inteso come spostamento di testualità,
come processo di trasmigrazione di un genere in un altro genere. In questo senso, nella storia delle forme
espressive novecentesche il manifesto futurista si accampa come un genere totalmente nuovo, edificato
sull'accumulo intrecciato di generi. Pensiamo ad esempio al manifesto di fondazione: il suo prologo ha
un'evidente fisionomia narrativa, piena di metafore. La morte dell'uomo passatista, la nascita del movimento
futurista e del nuovo uomo sono narrate con le forme letterarie e narrative proprie del racconto mitico. Fin dal
suo approdo, il futurismo impone il mito della rinascita: l'arte deve dissolversi e rinascere. Alla fine della prima
sezione del testo, però, il manifesto abbandona la forma narrativa e assume la forma teorica riportante
l'endecalogo futurista. Tuttavia, non manca in questa seconda sezione l'inserimento di brani narrativi come quello
messo in opera per circoscrivere la metafora dell'avanguardia che promette di superare sé stessa.
Ecco quindi che per i futuristi l'arte deve morire e rinascere continuamente, per evitare che la perdita di legami
con la tradizione diventi essa stessa tradizione. Chiaramente, Marinetti non si auspica la morte del futurismo, ma
attraverso il genere-manifesto privilegia come campo di sperimentazione una pluralità di forme espressive, ogni
volta impiegate secondo inedite modalità. Il manifesto risponde quindi al criterio di nuovo e originale, cioè di
diverso rispetto alla merce in circolazione sul mercato letterario corrente.

3. Nel secondo manifesto del futurismo, “Uccidiamo il chiaro di luna”, la dimensione narrativo-allegorica non si
limita, come nel manifesto fondativo, a fare da prologo alle dichiarazioni programmatiche ma occupa la totalità
della superficie testuale. L'incipit consiste in un programmatico appello alla distruzione rivolto dal capo al
drappello dei suoi adepti, che sono citati per nome e definiti “grandi poeti incendiari” (parliamo di Palazzeschi,
Severini, Pratella, Boccioni, Govoni, Balla, Russolo e altri). Il chiamarli per nome ricorda un'adunata militare. Essi
diventano personaggi di una narrazione che ha il timbro della peripezia romanzesca tipica dei romanzi di
appendice. Il manifesto si struttura infatti come una sorta di racconto esotico simile ai romanzi di Salgari: il poeta
che esce dalla città circondato dai suoi fidi alla conquista del mondo, il bivacco notturno con i “fratelli dormienti”
e l'eroe che veglia, l'assedio del manicomio con l'uccisione dei guardiani e la liberazione dei prigionieri, l'avanzata
alla conquista della “Capitale”… tutto sembra rinviare alle giungle dei romanzi di Sandokan, dei corsari e degli
indiani. Il viaggio raccontato in “Uccidiamo il chiaro di luna” ha come finalità la regressione alla Madre, la rimessa
in moto di un'origine: quel viaggio è rivolto al distacco dall'Occidente “fradicio di saggezza”, all'azzeramento della
memoria, e all'avanzata verso l'Oriente, la culla del mondo (ancora una volta, c'è la metafora dell'abbandono del
vecchio per una rinascita).

4. L'impostazione di questi primi manifesti, a metà tra il narrativo e il programmatico, muta con i tre manifesti
tecnici redatti negli anni 1912-1914. Coi tre manifesti tecnici finisce l'esperienza del verso libro e inizio del
paroliberismo attraverso la quale liberare le parole slegandola e dai vincoli della sintassi.
1. Primo manifesto tecnico (“Manifesto tecnico della letteratura futurista”, 1912) annuncia le parole in
libertà. Adesso anche l'arte è considerata una merce come qualsiasi altra e il manifesto toglie sacralità
all'oggetto-libro, assimilandolo all'universo della pubblicità e della propaganda. Il “Manifesto tecnico della
letteratura futurista” riduce a poche righe di esordio l'elemento narrativo: è evidente l'intenzione di
Marinetti di privilegiare la produttività teorica del suo discorso. Il manifesto riporta anche brani tratti da
opere narrative di Marinetti, precisamente dalla “Battaglia di Tripoli” e da “Mafarka il futurista”, ad
esemplificazione di catene di analogie ancora mascherate e appesantite dalla sintassi tradizionale. Mostra
quindi di voler demolire e superare il proprio passato.
2. Secondo manifesto tecnico (“Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili. Parole in libertà”, 1913),
il prologo narrativo qui è del tutto scomparso. Al suo posto, Marinetti propone una serie di considerazioni
sugli effetti sociali e antropologici indotti dalle diverse forme di comunicazione, di trasporto e di
informazione, e indica il modello della scrittura della velocità e della simultaneità come il più in sintonia
con il nuovo gusto, la nuova sensibilità estetica prodotta dal tempo delle macchine. Nel manifesto, dopo
un primo capitolo intitolato “La sensibilità futurista”, il testo si organizza intorno a capitoletti, i cui titoli
scandiscono (come in una sorta di 'racconto' critico) le parole d'ordine già lanciate nel “Manifesto tecnico
della letteratura futurista”. In questo manifesto interviene il gioco dell'autointertestualità (Marinetti cita
cose che ha scritto e sue precedenti innovazioni), citando anche il manifesto del '12 e creando così una
situazione di metamanifesto.
3. Terzo manifesto tecnico (“Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica”, 1914),
Marinetti riassume le tesi parolibere e le consegna a una più avanzata formulazione. Per ottenere il
lirismo antinarrativo si richiede una scrittura tipografica attraverso la quale distribuire i segni in nuove
visualizzazioni grafiche, rendendo così praticabile l'interazione di linguaggio letterario e arti visive. Le
parole in libertà si trasformano in autoillustrazioni: nel manifesto è riportata una di queste parole,
realizzata da Cangiullo, che consiste nella parola “fumare” disegnata in modo da rendere l'immagine del
fumo con corpi tipografici differenti, messi in fila secondo un ordine di crescente grandezza al fine di
realizzare l’immagine del fumo che si spande nell’area.
Nasce così l’idea delle tavole parolibere, campo di sperimentazione della compresenza di segni
linguistiche e segni iconici.

3 MARINETTI E LA DISTRUZIONE DELL’IO.


Nel primo dei tre manifesti tecnici scritti da Marinetti tra il 1912 e il 1914 ai quali affida la codificazione del
paroliberismo, cioè di una nuova forma di scrittura creativa destinata a soppiantare il verso libero. Distruggere
nella letteratura l’io, cioè tutta la psicologia, è l’undicesimo punto del manifesto. Marinetti proclama che affinché
ci sia l’avvento delle parole in libertà bisogna: distruggere la sintassi, l’uso del verbo all’infinito, il ruolo privilegiato
del sostantivo, l’abolizione dell’aggettivo, dell’avverbio e della punteggiatura, impiego dei segni matematici e
musicali, soppressione della similitudine, attivazione di legami per analogia.
La distruzione dell’io si offre come l’approdo delle dieci enunciazioni programmatiche precedenti ma anche come
punto di avvio di altre norme che si designano proprio a partire da questa, ovvero l’ossessione lirica della materia,
introduzione nella la letteratura del rumore, del peso e dell’odore, psicologia intuitiva della materia,
immaginazione senza fili, desacralizzazione dell’arte, creazione dell’uomo meccanico dalle parti cambiabili.
L’eliminazione della soggettività porta alla conseguenza obbligata del recupero dell’analogia; il procedimento
analogico proposto è l’accostamento di due sostantivi non collegati da elementi di congiunzione o assimilando
cose distanti e diverse.
Distruggere nella letteratura l’io vuol dire disattivare ogni legame logico-sapienziale e eliminare l’uomo avariato
dalla biblioteca e dal museo, luoghi che già nel manifesto fondativo Marinetti indicava come luoghi da
smantellare.
Già nel manifesto fondativo al comma 8 si predicava la soppressione del tempo e dello spazio, e l’arrivo della
velocità onnipresente. Ora nel teorizzare il paroliberismo, Marinetti vede nell’espansione del presente l’unica
temporalità idonea a rappresentare tutti gli aspetti del dinamismo contemporaneo.
Il paroliberismo infatti impone l’uso del verbo all’infinito, in modo tale che il verbo si adatta al sostantivo e non lo
sottopone all’io dello scrittore che osserva o immagina. L’infinito nell’ottica futurista propone l’agire, la forza
dell’azione.
Tempo e soggetto sono al centro del discorso futurista, l’io in questa ottica, inteso come entità psicologica è da
eliminare al pari di altri nessi intermediari poiché implica un’interruzione che ostacola il rapporto diretto con la
realtà fenomenica, la fusione tra l’oggetto e l’immagine da esso evocata, ovvero la coincidenza tra la parola e la
cosa e quindi l’azzeramento di ogni distanza tra arte e vita. Nell’ultimo manifesto tecnico, Lo splendore
geometrico e meccanico e la sensibilità numerica, Marinetti indica come nuovo procedimento di scrittura le
autoillustrazioni in cui l’autonomia del significante diventa assoluta perché quel significante è reso identico al
significato.
Si tratta di sopprimere l’io e la psicologia umana come oggetti tematici, che sono inadatti a produrre la liricità.
Salaris afferma che il principio di simultaneità, avocato dalla figura allegorica dell’elica, il cui movimento rotatorio
diviene il simbolo di un vortice ideale, che macina al suo interno l’ordine del discorso, l’unità di tempo e di spazio
ed il periodo latino.
Nel manifesto tecnico della letteratura futurista, la visione di Milano, della città-simbolo della trasformazione
tecnologica, trasforma i modi di percepire la realtà. In volo dalla macchina il soggetto futurista guarda e domina il
mondo esterno da una prospettiva sopraelevata, assumendo le qualità della materia, il soggetto può penetrare in
essa fino a cogliere il filtro dei sensi, il rumore, il peso e l’odore degli oggetti.

2. Si sostituisce la psicologia dell’uomo ormai esaurita con l’ossessione lirica della materia.
Marinetti opera una sorta di ossimoro coniugando i due concetti bergosoniani di vita e materia che in Bergson
sono opposti tra loro. Marinetti puntualizza che la materia non va umanizzata: dare al nuovo soggetto inumano la
parola vuol dire trasferire sulla pagina la sua psicologia intuitiva e dare spazio alla creazione di una stilistica della
materia.
Nel manifesto tecnico, Marinetti afferma che prima dell’avvento del futurismo esiste un io distaccato e freddo, un
io incapace di adeguare il linguaggio alla liricità della materia. La letteratura muta, si distrugge e si rinnova di volta
in volta, desacralizzandosi. Il manifesto si conclude con l’esigenza di liberare l’uomo dall’idea della morte, e dalla
morte stessa; il risultato è l’uomo non umano, la creazione di un uomo meccanico dalle parti cambiabili. Di fronte
allo spezzettamento di cui l’avvento della modernità costringe il corpo e l’anima, il futurismo non prova
smarrimento come accade con Pirandello, ma prefigura le possibilità che la macchina offre di smontare e
ricomporre. Sulla sospensione dell’io Pirandello costruisce la figurazione dell’assenza, mentre Marinetti quello di
una nuova presenza.
In questo contesto Marinetti colloca l’interesse che per un poeta futurista costituiscono l’agitarsi della tastiera di
un pianoforte meccanico e le possibilità che il cinematografo offre mostrare la danza di un oggetto che si divide e
si ricompone senza intervento umano: due modelli di automatismo desoggettivizzante che si ritrovano nel
romanzo di Pirandello, Si gira, emblema dell’alienazione da cui è travolto il vecchio tipografo-musicista, al quale
viene proposto di intrecciare, durante la proiezione di una pellicola filmica, il suo del suo violino con quello
azionato da un pianoforte automatico.
Il corpo di Serafino Gubbio è smembrato come i pezzi della macchina da presa. Le sostituzioni delle parti
dell’anima con ordigni artificiali inducono Pirandello allo sgomento; in Marinetti, al contrario è indice di una
soggettività finalmente liberata dall'immobilità.

3. Il critico letterario Luciano De Maria ha detto che per quanto concerne la distruzione dell'io, si passa da un
oggettivismo assoluto del primo manifesto tecnico a un soggettivismo relativo degli altri due manifesti. Dunque si
parte da un'abolizione dell'io a un ritorno dell'io, a un vero e proprio recupero della soggettività. In realtà la
questione è diversa. Negli altri due manifesti tecnici, Marinetti precisa le tesi del paroliberismo, e anche la
questione dell'io viene precisata. Nel manifesto “Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili. Parole in
libertà” (1913), Marinetti lega la genesi del futurismo al rinnovamento della sensibilità umana avvenuto grazie alle
scoperte scientifiche e alla consapevolezza di nuove forme di comunicazione e di trasporto che hanno influenzato
la psiche umana. Tutto ciò ha portato a una compresenza di “coscienze molteplici e simultanee in uno stesso
individuo”. Confrontando con Pirandello: Marinetti ci parla di un uomo meccanico dalle parti cambiabili, di un
“uomo moltiplicato”, la cui frammentazione dell'io riesce a dargli vitalità ed egemonia; Pirandello parla, nel “Fu
Mattia Pascal” di un uomo con più identità coincidenti che però non ha vitalità ed egemonia, al contrario.

4. Nel manifesto del 1914 dal titolo “Lo splendore geometrico e meccanico e la nuova sensibilità numerica” si
completa la trilogia dei manifesti tecnici. Qui Marinetti afferma che nulla è più bello di una grande centrale
elettrica ronzante che contiene la pressione idraulica di una catena di monti e la forza elettrica di un vasto
orizzonte, asserendo che questi sono i modelli della poesia futurista. Lo “splendore geometrico” (che si raggiunge
in poesia con le parole in libertà) è per i futuristi molto più interessante della psicologia dell'uomo. Ancora una
volta si pone l'accento sulla distruzione dell'io affinché l'io stesso si sparpagli nella vibrazione universale e si
giunga ad esprimere l'infinitamente piccolo e le agitazioni molecolari. Il riferimento che occorre fare è quello alle
pagine finali di “Uno, nessuno e centomila” di Pirandello, che registrano l'approdo di Vitangelo Moscarda
nell'alterità della natura, il suo disporsi a diventare come una cosa sparsa nelle cose. La fuoriuscita del soggetto
pirandelliano verso la natura esterna non è intonata con l'oggettivismo di Marinetti. In Pirandello non c'è il
“dominio”; in Marinetti la frammentazione dell'io permette di padroneggiare sulla realtà. *L'idea classica
dell'individuo creatore del proprio destino e dominatore del proprio mondo, che era alla base della cultura
borghese ottocentesca, è tramontata: in una prima fase si rifiuta la realtà oggettiva e ci si richiude nella
soggettività, ma poi si arriva alla fase opposta: l'individuo non conta più, perde la sua identità, si frantuma. La
presa di coscienza di questa inconsistenza dell'io suscita nei personaggi di Pirandello smarrimento e dolore.
L'avvertire di non essere “nessuno” provoca angoscia e genera un tremendo senso di solitudine. Viceversa,
l'individuo soffre anche ad essere fissato dagli altri in “forme” in cui non può riconoscersi. In “Uno, nessuno,
centomila”, il protagonista Vitangelo Moscarda scopre che gli altri si fanno un'idea di lui diversa da quella che lui
ha, scopre di non essere “uno” ma di essere “centomila” e dunque “nessuno”. Decide quindi di distruggere tutte
le immagini che gli altri si fanno di lui, in particolare quella dell'usuraio (ha infatti ereditato una banca e vive di
rendita). Alla fine, cede tutti i suoi averi per fondare un ospizio per poveri e vi si fa ricoverare lui stesso,
estraniandosi dalla vita sociale. In questa scelta trova una sorta di guarigione dalle sue ossessioni, rinunciando ad
ogni identità e abbandonandosi pienamente al puro fluire della vita, rifiutando di fissarsi in alcuna forma e
rinascendo nuovo in ogni istante, vivendo tutto fuori di sé e identificandosi di volta in volta nelle cose che lo
circondano, alberi, vento, nuvole. Una prospettiva, questa, quasi di sconfitta, molto amara, diversa dal vitalismo
dei futuristi, nei quali la disgregazione dell'io si traduce invece in una sorta di dominio, di controllo della realtà con
la quale ci si fonde.
Papini, un anno prima dell'apparizione del manifesto dedicato allo “Splendore geometrico e meccanico”, in un
passo de “L'uomo finito”, dice che per mutare la realtà non basta conoscerla dal di fuori, ma bisogna entrarci
dentro, diventare parte di lei, penetrarla e farsi penetrare. L'uomo deve separarsi dal reale ma non disfarsi nel
reale, per non perdersi nell'universo. L'unico modo per impadronirsi della materia è, per Marinetti, attraverso il
paroliberismo ma anche mediante l'utilizzo di numeri e segni matematici: ad esempio per dire “Questa campana
si può udire dal villaggio tale a tal altro” si dirà “campana rintocco ampiezza 20kmq”.
Nel manifesto del '14, Marinetti torna a sottolineare l'importanza del verbo all'infinito, associandolo alla
questione dell'io. Con il verbo all'infinito si afferma un io integrale e totalizzante.
Fondamentale è anche la trasformazione delle parole in libertà in tavole parolibere: si creano delle tavole
sinottiche di valori lirici che ci permettono di seguire leggendo contemporaneamente molte correnti di sensazioni
incrociate o parallele. Queste tavole sinottiche non devono essere però uno scopo, bensì un mezzo per
aumentare la forza espressiva del lirismo. Bisogna dunque evitare ogni preoccupazione pittorica.
5.La questione dell'io si affaccia anche in altri testi propagandistici coevi o di poco successivi ai tre manoscritti
tecnici (redatti tra il 1912 e il 1914). Si pensi ad esempio alla “Nuova religione-morale della velocità”, nel quale è
stabilita la doppia equazione: genio creatore = velocità e velocità = sparpagliamento + condensazione dell'io. La
polverizzazione dell'io è l'obbligato passaggio per una sua rinnovata divinizzazione, cosa confermata dal passo
successivo che celebra la supremazia della velocità aerea identificata nell' “ascensione dell'io verso il Nulla-Dio”:
nichilismo e sovranità sono le due immagini speculari del soggetto contemporaneo trasformato dalla tecnica.
L'interrelazione tra lirismo, velocità e rigenerazione dell'io è presente anche nel testo “Noi rinneghiamo i nostri
maestri simbolisti ultimi amanti della luna” raccolto in “Guerra sola igiene del mondo” (1915). Marinetti coglie
l'ambivalenza che i suoi “padri intellettuali” (i geni simbolisti Edgar Poe, Baudelaire, Mallarmé, Verlaine) nutrivano
nei confronti della modernità di cui pure erano stati fondatori. Essi hanno riconosciuto la modernità ma le hanno
resistito, si sono ostinati a volgere continuamente la testa al passato, coltivando una poesia della memoria, della
nostalgia, della distanza.
In “La declamazione dinamica e sinottica” (1916) si legge che il declamatore futurista deve sparire, deve
disumanizzare la voce, la faccia, evitare ogni smorfia.
Marinetti sottolinea l'esigenza che i testi paroliberi siano elaborati in funzione della loro esecuzione, che la loro
qualità sonora trovi attuazione al momento della loro declamazione. Il futurista russo Benedick Livsic, dopo aver
sentito recitare Marinetti in occasione del suo viaggio in Russia nel 1914, noterà che la performance declamatoria
restituisce quei vincoli logico-sintattici che la tecnica parolibera si propone di sottrarre alla creazione letteraria. Si
domanda quindi se vale la pena condannare la proposizione tradizionale se poi la si riabilita restituendole con i
mezzi del gesto, della mimica, dell'intonazione e dell'onomatopea il predicato che le è stato tolto.
In “Zang Tumb Tumb” l'autoesibizione dell'io autoriale funziona da cornice di quello che è il primo libro
parolibero, dopo il prototipo dal titolo “Battaglia Peso + Odore” posto in calce al “Manifesto tecnico della
letteratura futurista”. Il capitolo introduttivo di “Zang Tumb Tumb” dal titolo “Correzione di bozze + desideri in
velocità” mette in scena una situazione metanarrativa: l'autore rappresenta sé stesso alle prese con le bozze del
suo libro, cioè di “Zang Tumb Tumb”; smetterà, tuttavia, di correggerle per lasciarle “come sono per RIPULIRE IL
[…] CARO carburatore superstite”. L'io narrante si mostra quindi sulla scena del testo nell'atto di orchestrare
colori, odori, suoni. Solo la struttura parolibera permette di percepire e di comunicare le forze che si intersecano
al traguardo cosciente del nostro io creatore. In chiusura, l'io del poeta riappare nella veste di autore della
sperimentazione collagistica messa in atto nel libro. All'interno della cornice disegnata dalle intrusioni dell'io,
nell'incipit e nell'explicit del libro, si svolge il vero e proprio “poema”, in cui la simultaneità degli eventi bellici è
ritrascritta dal montaggio di una pluralità di caratteri, di corpi tipografici: autoillustrazioni, tavole sinottiche,
somme di analogie, onomatopee. Si riproducono nella loro totalità tutti gli elementi dell'universo molecolare,
creando una sorta di paradossale monologo interiore degli atomi, riprodotto in corsivo.
Qualche anno dopo esce il “romano esplosivo” dal titolo “8 anime in una bomba” (1919), in cui Marinetti rievoca
vicende autobiografiche sullo sfondo della prima guerra mondiale, smembrando la struttura romanzesca,
disseminandola tra diversi generi espressivi: diario, epistolario, racconto, poemetto in prosa, poemetto
parolibero, tavola parolibera. L'opera mette in scena un io narrante che individua all'interno della propria psiche
otto stati d'animo, ognuno dei quali trascritto ed evidenziato visivamente mediante un diverso carattere
tipografico. Alla fine, dopo essersi riunificate nella simultaneità di un “coro”, le “8 anime esplosive chiuse nella
bomba da 92 chili ditta Marinetti” formeranno sulla pagina l'onomatopea di una grande esplosione: un ulteriore
annuncio dell'incessante intreccio di origine e di dissoluzione, di apocalisse e di rinascita che investe le pratiche
della sperimentazione artistica.
4 FIGURAZIONI DEL PERSONAGGIO INCENDIARIO: MARINETTI E PALAZZESCHI.
L’Incendiario è il titolo di due opere in versi di Aldo Palazzeschi. Il primo pubblicato nel 1910 e il secondo
pubblicato nel 1913 presso le Edizioni di Poesia, casa editrice di Marinetti. Le due opere insieme al Codice di
Perelà, consacrano Palazzeschi come esponente del movimento futurista. Incendiario è il titolo anche del
poemetto che inaugura l’opera.
Guido Guglielmi afferma che il mito dell’incendiario diventa il mito che rende nostalgica la parola del poeta. Il
personaggio incendiario e la figurazione dell’arte come conflittualità ignifera, Palazzeschi li aveva rinvenuti
trascritti nel manifesto di fondazione del futurismo e nel manifesto Uccidiamo il chiaro di luna, entrambi apparsi
nel 1909, cioè l’anno precedente alla pubblicazione del primo Incendiario.
Il manifesto di fondazione del futurismo riconferma l’idea di Marinetti dell’arte come merce effimera, novità
sperimentabile all’infinito, da consumare e rinnovare perennemente.
Nel secondo manifesto Uccidiamo il chiaro di luna, Marinetti esce da Paralisi con l’obiettivo di distruggere
Podagra, entrambe le città simbolo dell’immobilismo passatista, circondato dai suoi fedeli, definiti poeti incendiari
e chiamati per nome ad uno ad uno come nel raduno di un reparto militare.
Alla guida dei suoi incendiari, Marinetti apostrofa gli abitanti di Paralisi con preannunci di fuoco e va a sopprimere
il chiaro di luna e tutte le tradizioni culturali ad esso collegate. Come un Prometeo rinnovato dalla tecnologia egli
capirà e trasmetterà il fuoco della modernità.

2. L’incendiario era un topo presente anche nel Marinetti non ancora futurista, scrittore in lingua francese,
esso è anche contenuto nel titolo dell’opera Distruzione del 1904, qui Marinetti punta a fabbricare
immagini di devastazione che siano in grado di far sprofondare il passato. Marinetti ripropone l’opera
tradotta in lingua italiana nel 1911, con il sottotitolo poema futurista.
Viazzi vede nel gesto distruttivo il contrassegno genetico dell’avanguardia futurista.
Le immagini di combustione apocalittica trovano spazio nell’opera Mafarka le futuriste (1910), la cui
traduzione italiana appare nello stesso anno e Palazzeschi ha l’occasione di leggere mentre sta ultimando
l’incendiario.
Le pagine conclusive del romanzo di Marinetti che si apre con una dedica ai gradi poeti incendiari, fratelli
miei futuristi, si riallaccia al Chiaro di luna: Gazurmah, superuomo meccanico e alato costruito da Mafarka
con le qualità di un nuovo Icaro affrancato dal passato e dalla morte, s’invola trionfante verso l’infinito
abbandonando la superficie terrestre mentre c’è in atto un cataclisma, la città sprofonda nel mare, si
formano nuovi vulcani e tutto crolla. L’evento raggiunge il suo apice con la rappresentazione del baratro
che si apre al centro dell’Oceano. La scena del disastro è descritta dall’alto. Dietro il gesto distruttore dei
futuristi compare l’oggetto trasformato in spettacolo da consumare.
Dall’incenerimento del vecchio mondo scaturiscono nuove possibilità di consumo dell’arte, resa più fluida e
dinamica dalla seduzione del fuoco futurista.
Dietro Gazurmah che sale a detronizzare il Sole si forma uno stormo che lo segue per il cielo.

3.Scene di fuoco e personaggi piromani sono allestiti sin dalle primissime sillogi di Palazzeschi. Nel capitolo
Stampe dell’800, il debutto poetico è collegato ad un piccolo gesto incendiario di cui era stato protagonista lo
scrittore da bambino.
Nell’opera Cavalli Bianchi, in cui si trova il componimento Pastello del sonno, il termine fiamma viene replicato tre
volte, significante un folle gesto incendiario.
Nella seconda raccolta Lanterna le occorrenze del fuoco e delle fiamme sono maggiori. Nella poesia Palazzo
Mirena delle fiamme terribili avvolgono la dimora dove gli ospiti di una sera di festa si sono riuniti per una veglia.
L’apocalisse riduce in cenere una magica felicità. In Lanterna viene introdotto il gioco metonimico condotto con
l’aggettivo rosso, del tutto assente nell’opera Cavalli bianchi in cui ricorrono di più il bianco e il nero, con rari
riferimenti al viola e al giallo che erano i predicati che connotavano le fiamme del Pastello del sonno. Il rosso
ricorre in Lanterna a segnare l’eccentricità, il peccato, la minaccia del fuoco ma anche lo strumento repressivo che
punisce la trasgressione.
Nella Storia di Frate Puccio, penultima poesia di Lanterna, l’oggetto dell’infrazione, il fantoccio avvolto in stracci
rossi adorato in segreto dal protagonista è condannato ad essere annientato dalle fiamme. Il fuoco penitenziale
distrugge il fuoco della ribellione. Anche in Palazzo Mirena il fuoco sospendendo una non innocente veglia si
consegna implicitamente ad una finalità repressiva.
La tematica incendiaria attiva da Palazzeschi prefuturista è ravvisabile anche nella prosa narrativa :riflessi,
pubblicata nel 1908. Il protagonista, Valentino Kore, racconta in forma epistolare l’idea di voler appiccare il fuoco
ai tre pagliai che sono poco distanti dalla sua villa. Valentino riaprirà la villa, ne illuminerà tutte le sale in vista di
una grande festa. Incendio dà luogo ad una significazione di luce e di fuoco. L’illuminazione equivale ad una
festosa combustione che prelude l’uscita del soggetto narrante.
Nel terzo libro in versi Poemi, Palazzeschi in chiave comico-grottesca cambia prospettiva che ora subisce anche il
tema del personaggio incendiario. Confrontando la Storia di Frate Puccio e il Frate Rosso, che è l’opera più
prossima all’Incendiario. Il rosso qui che è il colore della veste del frate, simbolo di estraneità, diventa il fuoco che
brucia l'altare. Rispetto a Frate Puccio si assiste alla glorificazione delle fiamme e del loro potere di liberazione. In
Poemi il soggetto, mette fine all’autooccultamento che caratterizza le prime due raccolte e dice io sin dal primo
componimento: si offre alla vista della folla, si indentifica al centro dello spettacolo, focalizzando la propria
coscienza da una prospettiva esteriore mettendo a nudo la sua liricità e psicologia, ma ne rivela autoironicamente
la deformazione clownesca.
Ma da Frate Puccio a Frate Rosso, bisogna citare una tappa intermedia, ovvero l’opera Lo Specchio,
componimento di Poemi. Nella trama di trasformazioni che si sviluppa entro lo specchio, l’io poetante vi scopre
riflessa l’immagine di un uomo tutto rosso. Lo specchio disvela sotto le maschere della soggettività una realtà
satanica: la figura dell’incendiario insieme allo specchio che lo riflette è oggetto di un rapporto amore-odio, di
attrazione e di repulsione, di identità e di sdoppiamento.

4.Le figurazioni elaborate dal futurismo, prima tra tutte quella dell’incendiario, coinvolgono anche la poetica di
Palazzeschi. Il poemetto L’Incendiario al pari dell’intero volume che da esso prende il titolo si configura come un
vero e proprio manifesto, in cui si mette in opera un’autodichiarazione letteraria.
Se si analizza la dedica posta in epigrafe al poemetto: “A F.T.Marinetti/anima della nostra fiamma”, si possono
trarre alcune conseguenze interpretative:
1. Il dedicatario, in quanto animatore del fuoco da cui è animato il dedicatore, è identificabile con il
personaggio incendiario di cui parla l’opera dedicata.
2. Quella fiamma riassume la motivazione intrinseca della militanza futurista del soggetto poetante e in
quanto definita nostra certifica che quella militanza e imprescindibile dall’esigenza di praticare sotto il
patrocino di Marinetti la volontà incendiaria di un gruppo d’avanguardia.
Accanto a queste due osservazioni se ne può aggiungere una terza che riguarda il termine anima, parola chiave
del vocabolario crepuscolare, ma che già in Poemi era stata sottoposta allo straniamento parodico della maschera
dell’artista saltimbanco. Secondo quanto recita una delle tante voci anonime convocate nel testo ad inscenare
l’atteggiamento di ostilità della folla, l’incendiario è uno che brucia per divertimento.
Il testo che subentra all’epigrafe dedicatoria si apre sulla scena di un incendiario imprigionato in una gabbia ed
esposto al dileggio della gente. Segue una filza di dialoghi, interrogazioni ed esclamazioni corali emesse da voci
anonime. A spezzare questa aggressività verbale creato dalla folla interviene il poeta che si assegna un ruolo
antagonista nei confronti della società e solidale con la trasgressione del piromane imprigionato. Da questo punto
in poi il testo è riempito da un “io” che impone la propria identità poetica, con un’intonazione imperativa e
declamatoria del linguaggio futurista.
Il poeta configura il suo rapporto con l’incendiario attraverso la messinscena di una duplice maschera: di padre di
quel personaggio condannato alla sbarra dalla società e simultaneamente di figlio sottomesso e di fedelissimo
adepto e celebratore della nuova religione incendiaria. Il poeta occupa da solo la scena linguistica, egli recita
l’invettiva contro il pubblico e solennizza l’incendiario in gabbia.
Fausto Curi, ha notato che in questi versi si mette in atto la freudiana fantasia di salvataggio; egli osserva che il
personaggio da salvare che in origine è il padre, diventa successivamente il figlio. L’identificazione e lo
sdoppiamento del personaggio dell’incendiario si perfeziona man mano che si va avanti nella narrazione.
Il personaggio dell’incendiario è un personaggio linguisticamente assente, privo della marca di un io locutore,
presente come provocatore di voci prima di quelle anonime della gente che si aggira intorno alla gabbia e poi di
quella soggettiva del poeta.
Si può trovare un richiamo alla poesia Lo specchio, in particolare con i versi in cui lo specchio trasforma il soggetto
che si specchia in una figura demoniaca. Il soggetto si identifica nelle proprie proiezioni, ma nello stesso tempo se
ne distacca. L’incontro con lo specchio si conclude con un’interrogazione relativa alla propria identità senza però
alcuna risposta. Savoca afferma che la confessione di cecità del poeta di fronte al doppio, lo specchio al pari della
gabbia dell’incendiario è una prigione. Palazzeschi nei suoi testi futuristi dà molta importanza all’atto di vedere, si
parla di funzione attiva dello sguardo. Nell’incendiario in gabbia si può individuare da un lato Marinetti, ma
dall’altro anche la figura del poeta Palazzeschi.
Palazzeschi dopo essersi autodefinito incendiario della poesia si preoccupa di sottolineare la propria modesta nei
confronti del super incendiario che è Marinetti.
Il poeta ammette la sua incapacità ad impersonare il ruolo di un vero piromane, ma comunica che il suo operare
artistico è governato dal desiderio esclusivo di rimodellare se stesso nelle metafore liberanti del fuoco.
Il poeta apre la gabbia, mette in libertà l’incendiario, godendo dello spavento che la scarcerazione del pericoloso
piromane provoca tra la folla e così facendo si emancipa della sua remota fisionomia letteraria, per rinascere
come poeta futurista.
L’incendiario dell’antico repertorio poetico e l’invito declamatorio di dare fuoco al mondo e alle sue strutture nei
versi conclusivi, autorizza la gestualità apocalittica dei futuristi, riconfermando e riconoscendo la loro funzione
trasgressiva. La rottura tra l’artista e la società, dalla presa d’atto della fine di ogni rappresentatività sociale è
alimentata la richiesta di divertimento espressa nella canzonetta dell’Incendiario, E lasciatemi divertire!.

5.Il Codice di Perelà, è un romanzo futurista, così come recita il frontespizio 1911, presenta personaggi incendiari.
Perelà ha imparato a convivere con il nulla costruendo su quel nulla la sua disincantata saggezza.
La sua storia si conosce dai brevi dialoghi con le persone che incontra sul suo cammino.
Il destino glorioso di Perelà si ribalta dopo un gesto incendiario, quello del servitore Alloro, impazzito e voglioso di
imitare Perelà, si dà fuoco per diventare anche lui fumo. Perelà viene accusato di questa morte e tutta la folla lo
insulta. La sua figura appare di una creatura demoniaca scappata dall’inferno e viene apostrofata con l’appellativo
incendiario. Il re dà ordini che venga processato e condannato ad essere rinchiuso in una minuscola cella in cima
al monte Calleio. Durante il processo le parole utilizzate dall’arcivescovo esprimono la consapevolezza che
l’incendiare equivale a mandare in fumo ogni fondamento.
La marchesa di Bellonda, nel difendere Perelà esalta la verità del fuoco riconoscendo nel gesto di Alloro il potere
del superuomo del fuoco. La marchesa ottiene dal re che Perelà possa avere nella sua cella un caminetto e legna
da ardere. Questa si dimostrerà la salvezza di Perelà il quale, dopo aver attraversato per l'ultima volta la città tra
gli sputi e gli insulti della folla, appena rinchiuso nella cella, si toglie gli stivali e, attraverso il camino, scompare nel
cielo sotto forma di una nuvola di fumo.
Il critico Luciano De Maria comparava la storia di Perelà a quella di Cristo trovando così molti punti in comune:
trentatré anni per l'uno e per l'altro; l'arrivo improvviso nel mondo, senza intervento paterno; l'ascesa fra la gente
che termina in un processo e una condanna; la riflessione sulla collina fuori città simile all'orto degli Ulivi, il monte
Calleio che richiama il monte Calvario, l'ascesa al cielo e il messaggio lasciato agli uomini: Il codice di Perelà.

5 PRIMORDI DELL’ITALIA FUTURISTA”: CORRA, SETTIMELLI E LA “MISURAZIONE”


DELL’OPERA D’ARTE.
L'Italia futurista è stata una rivista, pubblicata per la prima volta il 1º giugno 1916 sotto la direzione di Emilio
Settimelli e Bruno Corra.
Nacque da un gruppo di futuristi fiorentini che, riunitisi attorno alla rivista letteraria «Lacerba» se ne
allontanarono a partire dal 1915 per seguire il nuovo movimento fondato da Filippo Tommaso Marinetti.
I giovani italiani futuristi che scrivono su "L'Italia futurista" divergevano da "Lacerba" sul piano artistico-letterario
ma concordavano con il foglio papiniano sul piano politico.
I due firmatari partono dall’idea che l’atto creativo è un prodotto di energia nervosa e che non vi è alcuna
differenza tra il cervello umano e la macchina. L’energia nervosa, quando è utilizzata in un lavoro intellettuale,
trova relazioni e combinazioni inedite.
Il valore di ogni creazione artistica non è determinato da valutazioni estetiche soggettive e incontrollate. È una
concezione dell’arte moderna che ha come finalità l’abbattimento della sacralità passatista dell’arte con la A
maiuscolo. Ogni artista potrà inventare un’arte nuova la quale permetterà tutte le sue pazzie, stranezze e
illogicità. Il compito del misuratore futurista sarà quello di calcolare la rarità del genio artistico, di fissarne pesi e
prezzi. L’esito sarà la perfetta socializzazione del fare artistico, la sua integrazione alla dinamica del mercato. Le
quotazioni commerciali dell’arte, declinate sul ritmo di una società produttrice di merci, sono determinate dal
criterio di valorizzazione della produttività sociale, ovvero il denaro.
Accanto agli organigrammi ufficiali del movimento ci sarà quella intitolata “Misurazione”. Propongono di
cambiare anche la parola “circuiti di poesia” al posto di premi e sostituire la parola “prefazione” con “collaudo”,
parola che rinvia al testo come macchina letteraria, struttura produttiva che richiede un collaudo, cioè una
certificazione di idoneità.

2.Settimelli aveva già illustrato la teoria della misurazione in un polemico giornaletto fiorentino, La difesa
dell’arte. Settimelli insieme a Scattolini e Carli screditano l’estetica crociana, in quanto soggettiva e sprovvista di
scientificità.
Corradini nel 1912 scrive uno scritto intitolato Liberismo, in cui propone di liberare l’arte e anche la critica da ogni
classificazione estetica e valutarla nei suoi esiti operativi, secondo criteri oggettivi e scientifici. Il gruppo dei
liberisti comprende già nel 1912 molti esponenti della futura équipe dell’Italia futurista, il gruppo si fa portavoce
di una cultura d’avanguardia segnata dal positivismo e dal simbolismo francese. Questo gruppo ruota attorno a
due riviste: “Il Centauro” e “La Rivista, Settimanile d’arte, di scienza e di vita” edite entrambe a Firenze.
Essi non sono ben disposti inizialmente verso il futurismo per la conversione al futurismo di Papini e Soffici,
concorrenti temibili per Settimelli e soci.
Dopo l’entrata in crisi del sodalizio stabilito tra il nucleo dirigente di “Lacerba” e Marinetti, i futuristi milanesi
avranno come interlocutori fiorentini i rappresentanti, i liberisti. A rafforzare l’intesa destinata a generare l’Italia
futurista interviene anche il comune interesse per il teatro sintetico. Ma il manifesto Pesi, misure e prezzi è l’atto
ufficiale che sancisce l’adesione al movimento di Marinetti, ma anche l’accettazione del paroliberismo, la fusione
tra le arti, l’identificazione tra arte e vita.
Il manifesto La scienza futurista firmato da Corra, Giannini, Chiti, Settimelli, Carli, Mara, Nanetti man non quella di
Marinetti. La scienza futurista deve percorrere i sentieri dell’ignoto.

6 IL FUTURISMO NEL RACCONTO DELLA NEOAVANGUARDIA


1.In un articolo del 1919 apparso sulla rivista “La Ronda” Emilio Cecchi (autore di Pesci rossi) finge di essere un
filologo di un futuro remoto e di aver trovato delle opere letterarie che sono scritte in una lingua che si distacca
sia dall’italiano che dal dialetto di cui contiene solo alcune voci, propone l’ipotesi secondo la quale nell’Epoca dei
Grandi Affari (il tempo a cui risalgono le reliquie oggetto di studio) ci fu un distacco dalla massa civile.
Cecchi descrive tutto ciò in chiave ironica e sarcastica in sintonia con il classicismo della rivista “La Ronda”;
l’autore nel descrive il futuro dopo il futurismo pone una questione che viene già affrontata nel manifesto
fondativo del futurismo. Nella parte conclusiva del manifesto Marinetti, partendo dal principio tipico del
futurismo che bisogna rompere con il passato, afferma che i successori dei futuristi seguiranno le modalità di
distruzione utilizzate dagli stessi futuristi per poter creare il nuovo fare artistico.
Con questo Marinetti non auspica all’estinzione del suo movimento, ma prevede la distruzione nel momento in
cui entra nel museo, ma è in questa distruzione che si aprono le porte al suo futuro, cioè alla sua rinascita.
Nel volumetto Les mots en liberté futuristes (1919), Marinetti raccoglie manifesti tecnici, testi di parole in libertà e
tavole parolibere; nell’introduzione parla della rivoluzione parolibera che ha segnato il passaggio al tempo della
modernità.
Marinetti nota che le parole in libertà hanno conquistato i maggiori scrittori: Gabriele D’Annunzio che in alcune
pagine del Notturno ha utilizzato gli espedienti tecnici futuristi liberando la parola dalla soggezione alla sintassi,
così come anche i mezzi di informazione di massa iniziano ad utilizzare il paroliberismo.
In questo volumetto Marinetti riconferma il massaggio del futurismo e afferma che ormai in Europa si stanno
creando nuovi movimenti avanguardistici.

2. Negli anni Sessanta sulla scena letteraria italiana si sviluppa un nuovo movimento di avanguardia, questo
gruppo scrive sulla rivista “Il Verri” già nella seconda metà degli anni Cinquanta, e successivamente uscirà una loro
antologia, I Nuovissimi, che raccoglie, grazie Alfredo Giuliani, testi poetici degli esponenti di questo gruppo: dello
stesso Giuliani, di Elio Pagliarani, di Edoardo Sanguineti, di Nanni Balestrini e di Antonio Porta. Il libro contiene
anche lo scritto introduttivo di Giuliani e le dichiarazioni di poetica dei singoli autori.
I Nuovissimi, successivamente chiamato gruppo ’63 si esibiscono come una vera e propria avanguardia. La nuova
avanguardia non ha un leader ufficialmente riconosciuto come tale, non ha interesse extrartistici, non elabora veri
e propri manifesti. Autonominandosi “novissimi”, oltre ad essere un modo di emanciparsi da quella “lirica nuova”
a cui Luciano Anceschi diciotto anni prima aveva intitolato una antologia (segno della poetica ermetica), vogliono
cercare di essere portatori di “novità”, concetto ripreso dai futuristi.
Nell’introduzione dei Nuovissimi, Giuliani afferma che questo nuovo gruppo intende allontanarsi dalla poetica
dell’ermetismo e dall’ideologia neorealistica a favore di un impegno verso i problemi del linguaggio e dei mezzi
espressivi.
Giuliani definisce la poesia di questo gruppo “schizomorfa”, declinata in forme discontinue, dissociate e
asintattiche. Partendo dall’evoluzione e dall’importanza che i quei anni hanno avuto le modalità della
comunicazione di massa, adoperano un linguaggio sperimentale che si disfa di ogni esperienza poetica di tipo
contemplativo. La poesia di questo gruppo si articola intorno a due formule: “accrescimento della vitalità” e
“riduzione dell’io”, che radicalizzano la “poetica degli oggetti”. La soggettività lascia il posto all’oggetto, inteso
come cosa e come significante linguistico.
Il discorso di Giuliani si rifà a tipico dei futuristi contenuto nel primo dei tre manifesti tecnici, ovvero la distruzione
dell’io nella letteratura, cioè tutta la psicologia. Le parole in libertà puntano a registrare il dinamismo analogico
della realtà esterna all’io.
Sempre nell’introduzioni, Giuliani mette in discussione il termine di avanguardia, inadatto a suo parere al gruppo
63, affermando che l’unione di questo gruppo dipende esclusivamente da piacere di scrivere versi.
Giuliani nel saggio raccolto nell’Appendice Dietro la poesia, posta nell’antologia Nuovissimi, afferma che il gruppo
63 non voleva ricadere di nuovo nel paroliberismo e spiega come il loro rapporto con la tradizione cambia;
mentre per Marinetti la tradizione un’operazione di violenza rottura e il passato doveva essere azzerato, per loro
il passato non va ripudiato ma contaminato e sottoposto ad una mescolanza con il presente.

3. Anceschi, nell’intervento di presentazione a Metodologia del nuovo, raccoglie la documentazione del primo
Convegno del Gruppo 63 tenuta nel ’64, rimarca l’avvento del nuovo gruppo di intellettuali.
Anceschi oltre ad alcune elementi di rottura individua anche degli elementi di continuità con la letteratura della
vecchia avanguardia.
Angelo Guglielmi in Avanguardia e sperimentalismo afferma che accanto al comportamento polemico e di rigetto
verso il passato ormai devitalizzato, vi è la scoperta di nuove possibilità espressive. Egli afferma che ci sono due
momenti: il primo, quello della rottura del passato, e il secondo, quello dell’invenzione dell’inedito. Il secondo
elemento assorbe ed annulla il primo, sottraendogli ogni possibile autonomia.
Al termine avanguardia Guglielmi preferisce il termine sperimentalismo. Nello sperimentalismo è identificabile lo
stile del nuovo contesto culturale; l’arte sperimentale non può più fondarsi sulle vecchie avanguardie.
Anceschi sul gruppo 63 dice che il termine gruppo non pareva la sigla di un movimento, associazione ma quella di
un incontro che si tenne a Palermo o quello di una serie di incontri. Il nuovo gruppo rifiuta la trincea avanzata, la
fuga in avanti tipiche idee del futurismo e di avanguardia, favorendo un ammodernamento artistico.
Guglielmi afferma che l’avanguardia futurista faceva ricorso dei termini decisione e successo mentre il nuovo
gruppo fa ricorso dei termini cautela e laboratorio. Il giudizio i Guglielmi nei confronti del movimento di Marinetti
è molto severo, egli afferma che il movimento marinettiano nasce su pretesti polemici e le rivoluzioni linguistiche
introdotte dai futuristi sono chiassose e superficiali. In Marinetti le emozioni occupano uno spazio secondario
manca una correlazione tra significante e cosa significata.
Guglielmi nota inoltre anche una differenza di atteggiamento per quanto riguarda i problemi di politica culturale,
gli scrittori sperimentali assumono un atteggiamento di distacco diverso da quello degli scrittori dell’avanguardia.
Renato Barili nell’intervento che segue quello di Guglielmi discutendo delle strutture del nuovo romanzo indica in
Grillet, Grass, Sanguineti i rappresentati dell’avanguardia del secondo Novecento. Il nuovo romanzo rappresenta
un elevare l’avanguardia alla seconda potenza e vi è un superamento delle vecchie rivolte avanguardistiche.
Nell’intervento La generazione di Nettuno, Eco, incluso anche lui nel volume che raccoglie gli atti del Convegno del
Gruppo 63, attraverso l’immagine di Nettuno opposta a quella di Vulcano, sottolinea i connotati freddi di un gesto
artistico con cui l’avanguardia seconda si distingue dalla prima, dalla sua offensiva diretta e palese. Eco afferma
che questa generazione ha compreso che il gesto di rivolta pubblico ha perduto ogni funzione, ma che non
rinunciano al progetto di cambiamento ma che sostituiscono il gesto rivoluzionario con una lenta ricerca.

4. Sanguineti afferma che il momento eroico e quello cinico sono i modi in cui l’avanguardia reagisce alla
mercificazione e alla neutralizzazione del fatto estetico, che nella società borghese corrispondono agli ambiti del
mercato e del museo. Nella polarità museo-mercato Sanguineti individua il destino dell’avanguardia storica e la
parabola della neoavanguardia. Ogni avanguardia si rivolge contro queste due incarnazioni dell’ordine artistico
borghese esprimendo la verità del fatto estetico come fenomeno sociale.

5. Elio Pagliarani, componente dei nuovissimi, propone di sostituire la domanda che cos’è l’avanguardia con la
domanda che cosa caratterizza i movimenti d’avanguardia. Pagliarani, in Per una definizione di avanguardia,
afferma che i movimenti di avanguardia sono caratterizzati: dalla critica dei mezzi espressivi, dalla critica della
funzione dell’operatore e del rapporto operatore- consumatore e dalla critica dell’opera e dalla funzione dell’arte.
Fausto Curi, nel saggio Tesi per una storia delle avanguardie apparso nello stesso anno della costruzione del
Gruppo 63, sostiene che la contemporanea arte d’avanguardia ha perduto ogni connotazione di asocialità, in
modo tale che c’è stata la reciproca accettazione tra arte d’avanguardia e società neocapitalista.
I futuristi prediligevano l’esterno, la piazza, il piano diretto dell’azione, la nuova avanguardia opta per la
biblioteca.
Curi fa una distinzione tra l’avanguardia dell’Ottocento e del primo Novecento, affermando che questi ultimi
hanno negato la funzione artistica come consolazione o evasione.

6. Curi fa una distinzione tra l’avanguardia dell’Ottocento e del primo Novecento, affermando che questi ultimi
hanno negato la funzione artistica come consolazione o evasione.
I membri del gruppo della neoavanguardia mostrano un duplice atteggiamento nei confronti dell’avanguardia
futurista, da un lato li individuano come i precursori di quella tradizione sperimentale a cui essi si sentono di
appartenere e dall’altro lato cercano di mettere in mostra le differenze dal punto di vista poetico. I nuovissimi
sono riusciti attraverso l’invenzione di un nuovo linguaggio a ricucire il contatto con il reale.

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