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PURGATORIO
- CANTO I
La navicella di Dante solca «migliori acque»
di Luciano Canfora
LA GUIDA
Purgatorio
Canto I
E’ del tutto coerente con l’impianto del poema che la seconda Cantica, il
Purgatorio, si apra con un ben costrutto prologo, diversamente dalla prima che
immette drammaticamente il lettore in medias res e lo pone immediatamente di
fronte ad un teso racconto di eventi. Con la seconda Cantica incomincia il regno
del bene. Le immagini che si susseguono sono tutte coerenti con questo
affrancamento dal regno del male, finalmente compiuto: «correr migliori acque»,
«che lascia dietro a sé mar sì crudele», «di salire al ciel diventa degno», «la morta
poesì resurga»; e finalmente l’apostrofe molto significativa: «o sante Muse». Le
Muse, creazione pagana e classica per eccellenza, sono qui «sante».
Protagonista delle prime terzine oltre che dell’ingresso in un regno di luce è «la
navicella del mio ingegno». La nave è metafora usuale nella poesia antica: con un
valore politico (da Alceo a Orazio, etc.). È una metafora che ritorna anche al
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principio del Paradiso, nell’ammonimento di Dante ai lettori: «dietro al mio
legno che cantando varca»; «o voi che siete in piccioletta barca». È dunque nel
segno di un perfetto intreccio tra memoria classica e squadernamento della fede
cristiana che il lettore entra nel regno della luce. La densità di richiami classici
(«Calliopé», «le Piche misere») è coerente con la nota dominante di questo
secondo inizio. E anche l’apparizione del primo «protagonista» del Purgatorio,
Catone Uticense, è conforme a tale scelta.
Catone, l’intransigente «repubblicano», la cui morte per suicidio in Nordafrica
era stata l’immediata, ed estrema, risposta alla vittoria cesariana (46 a.C.). «Vidi
presso di me un veglio, solo». La sua dignità esteriore è subito enfatizzata:
«degno di tanta reverenza in vista che più non dee a padre alcun figliolo».
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Per Dante, Catone è colui che «vita rifiuta» per la libertà. Dunque è proprio quel
gesto estremo che lo spinge a dare a Catone un ruolo primario all’ingresso del
regno della luce. Come si giunge, nel dialogo, a questa rivelazione? Emersi dal
lungo percorso infernale, Dante e Virgilio sono approdati sulla spiaggia della
montagna del Purgatorio. La prima visione che essi hanno è quella di quattro
stelle (le virtù cardinali) e subito dopo quella del «veglio», Catone appunto, che li
apostrofa con durezza, così come con durezza richiamerà all’ordine - nel II
Canto - le anime appena sbarcate alla spiaggia del Purgatorio.
Catone è aspro con i due: come hanno potuto quei due «viandanti» approdare
dall’Inferno - donde nessuno dovrebbe poter evadere - in Purgatorio: sono state
infrante le leggi che regolano il mondo ultraterreno? «È mutato in ciel novo
consiglio?». Prima di rispondere, Virgilio impone con modi gagliardi («mi dié di
piglio») a Dante di inginocchiarsi davanti al vegliardo. Quindi parla in tono
deferente e, nei limiti del possibile, cattivante. Spiega in brevissimi cenni il perché
di quel viaggio: «Mostrata ho lui tutta la gente ria (l’Inferno); / e ora intendo
mostrar quelli spirti / che purgan sé sotto la tua balìa» (tutti coloro che sono nel
Purgatorio sono dunque sotto il «governo», «balìa», di Catone, che non è perciò
semplice «guardiano»).
Il rifiuto della vita, atto estremo e, per la precettistica cristiana, empio, è qui il
suggello della dedizione totale alla libertà. Certo Dante ha in mente il raffronto
con i martiri della fede, anch’essi - nella sostanza - dei suicidi. Ma l’anomalia in
materia di fede resta. Va poi osservato che Catone era stato il compagno di fede
di Cassio e di Bruto - i quali invece «latrano» come cani in fondo all’Inferno - ed
il nemico irriducibile di Cesare, il quale incarna quell’ideale dell’impero cui
inneggia trionfalisticamente Giustiniano nel VI Canto del Paradiso. In quel
Canto, che racchiude un mirabile compendio dell’intera storia di Roma, l’impero
- il cui simbolo, l’aquila, è definito «uccel di Dio» - si identifica con la storia di
Roma ab origine . Giulio Cesare ne è la figura centrale: campeggia in un gruppo
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di memorabili terzine (Paradiso VI, 55-72) che ne ripercorrono l’intera carriera
culminante proprio nella vittoria di Tapso che indusse Catone al suicidio.
L’impero romano è parte essenziale di un disegno divino e Cesare ne rappresenta
il motore principale. Catone però si uccide per non sottostare al dominio di
Cesare, e con ciò testimonia al grado più alto il valore della libertà. La
contraddizione non potrebbe essere più lancinante se la chiave dell’enigma non
fosse appunto nella nozione di libertà.
La libertà è quella alla cui ricerca è proteso il protagonista della Commedia, cioè
Dante stesso: «libertà va cercando». Tutto il poema dunque, conviene ricordarlo,
ha come oggetto precipuo e fine supremo il conseguimento della libertà. Ma la
libertà è libertà-virtù, non certo libertà individuale (cioè libertà-arbitrio). L’intero
poema ha in quel verso («libertà va cercando») la sua vera chiave, e libertà ne è la
parola-emblema.
Catone perciò non è che un pezzo di storia «classica» riutilizzato, al pari delle
«sante Muse», per esprimere altri e più profondi valori. È questa idea feconda e
alta di libertà, ben diversa dalla banale libertà «liberale» il lascito, e la sfida,
racchiuso in questo immane e, al di là della «scorza» teologica, attualissimo
poema.