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Stanze per la Giostra -Poliziano

Nel poemetto, che è considerato il capolavoro poetico di Poliziano, si declina l’ideale rapporto con le fonti che è alla
base della concezione classicista del poeta. Convivono e si intrecciano, infatti, gli echi di un ampio numero di autori
classici, a volte citati in traduzione, oppure evocati, in una esplicita rete di rinvii. Si viene così a creare un mosaico di
immagini, talora filtrate al secondo livello (come nel caso di citazioni di Petrarca che a sua volta traduceva Catullo o
Orazio): attraverso questi legami intertestuali il poeta (e il lettore) divengono eredi di una lunga tradizione cui allo
stesso tempo rendono omaggio. Nel testo è possibile rilevare l’influenza di Virgilio e Orazio, di Ovidio e Claudiano, ma
anche dei classici toscani, dagli stilnovisti a Dante, Petrarca e Boccaccio.

Il proemio contiene l’argomento del poema (armi e amore), l’invocazione ad Amore e la lode di Lo-
renzo.
Il protagonista è Iulio, giovane cacciatore, che non conosce se stesso e fugge Amore. Il dio, allora, lo
spinge a inseguire una cerva bianca che poi si trasforma in una bellissima fanciulla, Simonetta. Mentre
Iulio la guarda, il dio lo colpisce con una freccia. Iulio innamorato torna dai suoi compagni e il dio
raggiunge la madre Venere.
Segue una lunga descrizione del palazzo e l’esposizione della teoria dell’amore platonico, che innalza
l’uomo a Dio. Il dio loda i Medici e racconta a Venere la conquista di Iulio: Venere approva e invia il
Sonno a Iulio con un sogno in cui Simonetta si difende dall’amore e Iulio è invitato a perseguire la gloria
e a gareggiare in una giostra. Ma si annuncia anche la morte dell’amata. Iulio decide allora di combattere
per la gloria e per l’amore. Il poema si interrompe a questo punto per l’uccisione di Giuliano de’ Medici
nella congiura dei Pazzi.

La lingua poetica è il risultato delle stesse scelte: sul codice linguistico ereditato dalla tradizione, la
lingua degli stilnovisti rivisitata da Petrarca, Poliziano innesta la propria creatività, alimentata
dall’estrema perizia che gli deriva da una frequentazione profonda e appassionata delle due grandi lingue
classiche, nonché dalla pratica dell’élite culturale dei suoi tempi, a Firenze e fuori. Ne risulta un
linguaggio originale ed elegante, chiaro e piacevole.

Vengono qui proposte le prime quattro ottave del poema, in cui l’autore espone il contenuto dell’opera,
cui segue l’invocazione alla divinità, in questo caso il dio d’Amore, e la lode del mecenate, Lorenzo il
Magnifico. L’incontro e l’innamoramento

Giunto nel locus amoenus guidato dalla candida cerva, il giovane assiste alla trasfigurazione
dell’animale in ninfa, mutazione che prepara a sua volta la trasformazione che interesserà il giovane. La
sparizione (della cerva) e l’apparizione (della ninfa) sono segnalati dal colore candido che stabilisce
continuità e dalla rima tra «apparve» e «sparve» (ottave 37,8-38,1), cui fa da eco la ripresa del «la fera
sparve». Il giovane, a questo punto, comincia a rallentare per poi fermarsi, ipnotizzato. Poi presenta una
dopo l’altra tutte le caratteristiche della tradizionale fenomenologia amorosa, caratteristiche che però
sono per lui inedite («nuova dolcezza»): l’immagine di Amore nascosto negli occhi di lei, del cacciatore
cacciato, del «divino» che è in lei. Ci sono Catullo, Virgilio, tutto lo Stilnovo, Dante e poi, soprattutto,
negli ossimori ripetuti, Petrarca. Poliziano sa però rileggere questi spunti e queste citazioni con una
nuova freschezza, perfino quando recupera la domanda di Ulisse a Nausicaa: «Sei tu dea o donna
mortale?» (Odissea, VI, v. 149).

Il poeta descrive minuziosamente l’isola, che assume i connotati del tradizionale locus amoenus della
classicità; l’intera descrizione, ricca di influenze letterarie della poesia greco-latina e della tradizione
letteraria italiana (come Dante e Petrarca) si chiude su questo paesaggio perfetto e meraviglioso il
primo libro delle Stanze.Il secondo libro, incompiuto, si apre con la lode a Lorenzo il Magnifico e alla
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famiglia de’ Medici, come un secondo proemio all’intero dell’opera. Venere stabilisce che Iulio deve
riuscire a far innamorare di sé la giovane Simonetta. Manda, quindi, al protagonista un sogno
premonitore, che ha valore quasi iniziatico per il giovane. Nel visione onirica Iulio vede l’amata legare
Cupido a un ulivo, pianta sacra di Minerva e simbolo della castità; compare la Gloria, che dà le armi di
Minerva a Iulio. Si assiste poi alla morte di Simonetta, che ricorda quella di Beatrice nella Vita nuova di
Dante, e alla sua resurrezione. Una volta sveglio, Iulio decide di mettersi alla prova nel prossimo torneo.
Qui il poemetto si interrompe: . L’opera, profondamente penetrata del clima letterario della corte
medicea, si costruisce allora come un mosaico, in cui il lettore colto può rintracciare e scoprire i segni di
una tradizione condivisa.

La Fabula di Orfeo
Il mito di Orfeo nell’antichità ribadiva il dominio dell’anima sulle cose,dell’arte che incanta ogni
creatura e vince la morte. La grande innovazione di Poliziano è il suo sguardo puntato più che sugli
effetti positivi del canto sulla sconfitta di Orfeo. La trama della fabula di Poliziano coincide con il mito di
Orfeo ed Euridice ma,come è tipico del suo stile,ogni scena viene risolta con misura ed eleganza. Anche
qui non c’è dramma ma,solo nei momenti più toccanti,una nota di malinconia.

DOCTA VARIETA
La posizione di Poliziano

Poliziano confuta la tesi di quanti sostengono l’imitazione di un solo modello stilistico,e li paragona alla
scimmia e al pappagallo, che ripetono meccanicamente gestie parole degli uomini. Accusa gli imitatori
di essere privi di energia creativa, di sacrificare il proprio ingegno e di rinunciare per timore o viltà ad
esprimere se stessi, rifugiandosi dietro lo schermo dell’autorità ciceroniana. Alla posizione di coloro che,
a suo giudizio, si limitano a ripercorrere passivamente la strada segnata da Cicerone, Poliziano
contrappone la tesi della “dotta varietà”: lo studio e la lettura attenta e ripetuta di numerosi autori. La
conoscenza e l’assimilazione di svariati modelli stilistici stimoleranno ad accettare il rischio di porre in
gioco le proprie capacità e alimenteranno il desiderio di comporre opere originali, attraverso cui
manifestare la propria personalità, pur emulando gli scrittori letti e studiati.

Carpe diem, letteralmente "cogli il giorno", normalmente tradotta in "cogli l'attimo", anche se la
traduzione più appropriata sarebbe "vivi il presente" (non pensando al futuro) è una locuzione tratta dalle
Odi del poeta latino Orazio (Odi 1, 11, 8). Viene di norma citata in questa forma abbreviata, anche se
sarebbe opportuno completarla con il seguito del verso oraziano: "quam minimum credula postero"
("confidando il meno possibile nel domani").

Si tratta non solo di una delle più celebri orazioni della latinità; ma anche di una delle filosofie di vita più
influenti della storia, nonché di una delle più fraintese, nella quale Orazio fece confluire tutta la potenza
lirica della sua poesia. La «filosofia» oraziana del carpe diem si fonda sulla considerazione che all'uomo
non è dato di conoscere il futuro, né tantomeno di determinarlo. Solo sul presente l'uomo può intervenire
e solo sul presente, quindi, devono concentrarsi le sue azioni, che, in ogni sua manifestazione, deve
sempre cercare di cogliere le occasioni, le opportunità, le gioie che si presentano oggi, senza alcun
condizionamento derivante da ipotetiche speranze o ansiosi timori per il futuro. Nel binomio
s'intrecciano due concetti profondi, la qualità (carpe) e la temporalità (diem) del vivere. A confermare la
natura serena del godimento oraziano, il verbo carpere, che denota un gusto leggero, un piacere
centellinato e fine, fatto di goduriosa eleganza e sottile diletto catartico. Il giorno invece, il termine diem,
sottolinea la limitatezza, la precarietà dell'esistenza, che può essere bruscamente interrotta da qualsiasi
accidente e che perciò dev'essere vissuta con l'intensità che la consapevolezza della sublimità del mondo
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dona. Il carpe diem è una callida iunctura ossia la singolare giustapposizione di due termini, tecnica
tipicamente oraziana.

Ma anche guardare al semplice godimento di un piacere, pur se responsabilizzato, è mortificante del


profondo senso della locuzione. Orazio volle infondere una serena dignità all'uomo che dia valore alla
propria esistenza sfidando l'usura del tempo e il suo status effimero. Lungi quindi dall'essere un crasso e
materialista invito al bere, od anche un piacere senza turbamento, carpe diem esprime l'angosciosa
imprevedibilità del futuro, la gioia dignitosa della vita e il coraggio della morte; l'espressione di un
valore che spesso nelle odi oraziane si confonde con l'ammirata esplorazione lirica del paesaggio,
talvolta meraviglioso e sublime, talvolta a tinte cupe e fosche: riflesso perenne di un'esistenza complessa,
di un reticolo fittissimo di esperienze ed emozioni che è lecito vivere intensamente prima della morte. Il
tema del carpe diem è stato riproposto (con poesia e vigore) in anni recenti nel film L'attimo fuggente. In
questa pellicola la massima oraziana è esemplificata dal comportamento di Neil Perry (l'attore Robert
Sean Leonard) che, senza lasciarsi condizionare dai timori di un prevedibile rimprovero del padre, ha
seguito il suo sogno di recitare nell'unica occasione che gli si è presentata. Nel Rinascimento, il tema del
Carpe Diem sarà distorto in un invito al godimento effimero finché dura la giovinezza, concezione
mirabilmente esemplificata nella prima strofa della Canzona di Bacco composta da Lorenzo de' Medici e
inclusa nei Canti Carnascialeschi: Quant'è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto,
sia: di doman non c'è certezza.

Ferrara

Il Castello diventa il cuore di Ferrara.


Da trecentesca severa fortezza nel corso dei due secoli successivi si evolve in fastosa dimora di una delle più splendide e
celebri Corti d’Europa .Le altezze delle sue inconfondibili quattro torri sovrastano tutto l’ambiente circostante e rivaleggiano
soltanto con il campanile della Cattedrale.
Le Mura
Le Mura sono un miracoloso connubio tra bellezza monumentale e funzionalità bellica. Comodi percorsi attrezzati e ciclabili
consentono di passeggiare tra il rosso delle pietre e il verde delle essenze locali per oltre 9 chilometri.
Piazza Ariostea
Piazza Ariostea è la “ piazza nuova” dove si affacciano i magnifici palazzi caratterizzati da loggiati con arcate e soffitti in legno,
Palazzo Strozzi Bevilacqua e Palazzo Rondinelli.
Le Delizie Estensi
Le Delizie costituivano lo specchio del potere e della magnificenza della famiglia d’Este che fece edificare queste dimore ai
margini della città o disseminate nei loro possedimenti fino al Delta del Po.
Delizia di Schifanoia, Ferrara (Via Scandiana, 23)
Fatta edificare da Alberto V d’Este nel 1385 come luogo di svago appartato dalla città per “schivar la noia”. Il ciclo di affreschi
del Salone dei Mesi, realizzato dai maestri dell’Officina ferrarese, Cosmè Tura, Ercole de’ Roberti e Francesco del Cossa, mette
in scena la cosmologia del primo Rinascimento italiano traducendo in immagini le idee di Pellegrino Prisciani, astrologo di
Corte.

All'interno del territorio Ferrarese sono ancora visibili le testimonianze della presenza degli Estensi.
Dimore per lo svago chiamate delizie si trovano sparse nella pianura da Ferrara fino a Mesola passando
per l'entroterra.
Nel territorio argentano è presente una di queste dimore, la delizia di Benvignante, e poco lontano,a
Gambulaga e a Voghiera sono presenti altre due splendide delizie trasformate in musei.

BELRIGUARDO
La delizia di Belriguardo è una delle preziose residenze fatte costruire dagli Este ed era considerata la
Versailles degli Estensi. Sorge nel territorio di Voghiera e fu la prima ad essere edificata al di fuori della
città di Ferrara.
Fu voluta dal marchese Niccolò III d’Este ed il suo principale utilizzo fu quello di residenza estiva di
tutta la corte estense e di villa di rappresentanza. La prima pietra fu posata nel 1435, ma nel corso della

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storia la struttura subirà continue rivisitazioni ed ampliamenti ad opera dei successori di Niccolò III. Fu
spesso dimora dei soggiorni di Lucrezia Borgia e, nella seconda metà del Cinquecento, anche del poeta
rinascimentale Torquato Tasso.
Quando nel 1598 il ducato estense passa allo Stato Pontificio, Belriguardo viene lasciata in enfiteusi ai
proprietari terrieri del luogo che la utilizzano principalmente come fattoria, trasformando le magnifiche
sale affrescate dai maestri del ‘500, in stalle e granai; tutto ciò che c’era di prezioso fu venduto.
Malgrado progressivi crolli, riadattamenti e demolizioni Belriguardo giunge fino a noi grazie soprattutto
al fatto che viene frazionata in numerose abitazioni private, anche se questo impedisce però una lettura
corretta del complesso originario che oggi risulta quasi del tutto illeggibile.

Giardini Storici di Ferrara

La grande tradizione dei giardini ferraresi, fra recupero e oblio.


La grande tradizione del giardino rinascimentale ferrarese è di matrice squisitamente storica e letteraria:
è infatti ai consueti splendori dell’epoca estense che bisogna riferirsi per poter ritrovare una natura
divenuta sublime artificio, dove allegorie e percorsi simbolici vengono a comporre ambiziosi quanto
complessi disegni.
L’arte del giardino raggiunge in epoca estense un grado di perfezione estrema, dove il sincretismo fra
diverse discipline – il disegno e l’architettura, la scultura, la meccanica e la filosofia – porta a un
risultato che desta l’ammirazione di ambasciatori e di ospiti illustri della famiglia d’Este.

I magnifici giardini del Castello, con il padiglione dalle colonne marmoree, i pavimenti a intarsi colorati,
le fontane, i fiori e i frutti, descritti da Sabadino Degli Arienti nel 1497, sono da mettere in relazione alla
colta rilettura di un modello medievale che ebbe grande fortuna per tutto il Rinascimento: il “giardino
per un re” tratto dall’opera di Pier De’ Crescenzi.

Nei giardini del Pavaglione del Castello sono chiaramente ripresi dallo schema letterario la disposizione
regolare con padiglione al centro, i percorsi ortogonali e le aiuole a disegni geometrici colme di fiori,
piante officinali, frutti ed ortaggi.

Anche il giardino della delizia di Belfiore, dove Lionello aveva fatto dipingere le famose Muse per il suo
studiolo, mostrava una disposizione di questo genere. Tale organizzazione era mantenuta ancora nella
seconda metà del Cinquecento, secondo quanto ci comunica una pianta recentemente riemersa dagli
archivi.
Agli archivi è infatti affidata la memoria di queste fragili opere dell’uomo e della natura, che sono
rapidamente decadute dopo la devoluzione del 1598 e, quindi, destinate all’oblio.

Ma il ricordo di tali meraviglie doveva essere nonostante tutto molto forte, se ancora qualche decennio
dopo la devoluzione dello stato estense al papato i fasti dei giardini ducali venivano ricordati e
doviziosamente descritti dal cartografo Alberto Penna e dallo storico Marc’Antonio Guarini.
E’ lecito supporre che i modelli ferraresi fossero conosciuti ed apprezzati anche fuori dal ducato: si
pensi all’ammiratissimo giardino di Montecavallo in Roma – ora Quirinale – dove, attorno al 1550,
Ippolito II d’Este, detto il “Cardinal Ferrara”, aveva fatto disporre la sua straordinaria collezione di
antichità dall’architetto e pittore ferrarese Girolamo Da Carpi.

Lo stesso capolavoro del Cardinale, il giardino di Villa d’Este a Tivoli, unico superstite fra almeno
cinque giardini commissionati da Ippolito, fu allestito secondo il progetto dell’antiquario romano Pirro
Ligorio attorno agli anni 1560. Tuttavia questa famosa invenzione, carica di complessi significati
simbolici atti a comporre una sorta di percorso iniziatico, sembra avere un precedente significativo in un
giardino ferrarese scomparso: il giardino della Montagna di Sotto, impropriamente noto come “Bagni
Ducali”, realizzato fra il 1541 e 1555.

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A Ferrara, lungo il viale Alfonso II d’Este, alcuni labili segni indicano ancora la passata esistenza di
questo giardino allegorico – celebrativo, costruito per volontà del duca Ercole II. Elementi principali del
giardino erano la montagna, entro la quale erano scavate due grotte, il palazzetto, quasi una citazione
della domus romana, che ora sopravvive privo di tutte le decorazioni pittoriche, il giardino geometrico, il
boschetto, la fontana e il labirinto, la peschiera e i pergolati.

La contrapposizione fra montagna, grotta e selva da un lato e giardino “geometrico” e palazzetto


dall’altro potrebbe alludere al tema di Ercole al bivio fra vizio e virtù, precipuo significato morale del
giardino di Villa d’Este.
Il labirinto rappresenta la difficoltà dell’itinerario di Ercole mentre la montagna «piantata di vigne
pretiosissime» è riferita, come Parnaso, all’Ercole Musagete assimilato a Dioniso, di cui narra Plinio,
autore studiato da Celio Calcagnini e in seguito anche da Pirro Ligorio.

La raffinatezza di questa invenzione, alla quale certamente contribuirono Girolamo da Carpi e il colto
umanista ferrarese Celio Calcagnini, si può apprezzare in uno degli splendidi arazzi della serie delle
Metamorfosi, intessuto per il duca Ercole II da Giovanni Karcher su cartone dei Filippi nel 1545.
L’arazzo, ora al Louvre, rappresenta con attendibile fedeltà, come ha riconosciuto lo studioso Felton
Gibbons, la topografia del perduto giardino della Montagna di Sotto.
Se quasi nulla rimane, dopo secoli di oblio e distruzioni, dei famosi giardini estensi, non si può d’altra
parte ignorare come anche il patrimonio di verde storico più recente soffra a causa di una evidente
mancanza di quella manutenzione attenta e continua necessaria alla conservazione di queste “opere
d’arte viventi”.

parchi Massari e Pareschi, in cui l’impianto ottocentesco è ancora chiaramente leggibile, nati come
parchi privati e sottoposti da decenni a un intenso uso pubblico, mostrano infatti una improrogabile
necessità di manutenzione, alla quale il comune intende provvedere a breve.

In questi parchi pubblici, come anche in diversi bei giardini privati, sarebbe necessario intervenire con
grande attenzione, seguendo criteri di restauro, da preferire a pericolose quanto vaghe “risistemazioni”
che rischiano in alcuni casi di ignorare o cancellare le stratificazioni storiche in nome di un non meglio
definito valore d’uso.
E’ relativamente recente l’attenzione verso il giardino inteso come bene culturale: la carta del restauro,
documento fondamentale per la conservazione di parchi e giardini storici, redatta a Firenze nel 1981,
prescrive che questi manufatti siano trattati con la stessa attenzione destinata alle altre opere d’arte.
Da questa data fondamentale molto è stato fatto a livello di studi e formazione scientifica, ma molto
resta ancora da fare per la diffusione di queste preziose acquisizioni e professionalità.
Negli ultimi anni a Ferrara le associazioni culturali hanno promosso una nutrita serie di attività che
confermano un nuovo e non marginale interesse dei cittadini verso il problema del verde storico.

Il recupero dei sagrati, curato dalle associazioni Garden Club e Ferrariae Decus con la Circoscrizione
centro cittadino, rappresenta un importante contributo per un particolarissimo tipo di verde pubblico che
forse rischiava di essere trasformato in posti auto e che comunque, così com’era, in stato di abbandono e
degrado, dava una percezione negativa e sgradevole dell’intorno.
Rilevante e di grande civiltà l’apporto dei singoli cittadini per la manutenzione di questi sagrati, di cui
diventano gli orgogliosi custodi e difensori. Fra gli altri ricordiamo i sagrati di San Francesco, San
Girolamo e Santa Maria della Consolazione, al cui misurato e attento recupero si deve un generale e
diffuso miglioramento di tutte le aree urbane circostanti.

A Ferrara il ricordo dei giardini rinascimentali sopravvive in forma per così dire traslata, ed è affidato ai
giardini, di impianto novecentesco, di due prestigiose residenze di epoca estense, ora adibite a uso
pubblico: si tratta di palazzo Costabili, detto di Ludovico il Moro, ora Museo Archeologico Nazionale, e
della palazzina di Marfisa d’Este, attualmente sede di museo comunale.

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Il recente lavoro di manutenzione operato dal Garden Club nel giardino palazzo Costabili ha riportato in
luce la piacevole creazione “in stile”, progettata intorno agli anni Trenta, in occasione del primo
allestimento del Museo di Spina. In questo piccolo giardino si ritrovano tutti gli elementi della tradizione
rinascimentale, ovviamente stilizzati secondo il gusto tardo liberty e senza troppe preoccupazioni
filologiche: il labirinto di bosso, i tassi potati a forma di piramide (ora a cono), il pozzo, i pergolati di
rose, le aiuole geometriche con bulbi e fiori.
Il lavoro di manutenzione del Garden Club è avviato anche presso la palazzina di Marfisa d’Este, dove
il giardino e i campi da tennis furono progettati insieme da Girolamo Savonuzzi, in occasione dei
restauri del 1938 che riconsegnarono a Ferrara la palazzina, ampiamente quanto garbatamente
ricostruita. Anche questo è un giardino in stile neorinascimentale ormai storicizzato e che quindi merita
le migliori attenzioni.

Questi due piccoli giardini, certo modesti se confrontati alla tradizione ferrarese del Rinascimento,
assumono comunque una importante funzione evocativa che nel tempo ha rafforzato il rapporto fra
architettura e giardino, tanto che ora riesce difficile pensare l’una senza l’altro.
Anche il ritorno delle piante di agrumi nel giardino pensile del Castello estense è un episodio
significativo di questa piccola rinascita del verde storico di Ferrara: in occasione dei recenti restauri sono
state infatti spostate le esotiche palme che arredavano lo spazio incantato e sospeso sulla città e al loro
posto sono tornate le mitiche esperidi, tanto legate ai fasti estensi, collocate entro vasi in terracotta
appositamente fabbricati.

Nella topografia del verde ferrarese restano, comunque, almeno due punti dolenti: Piazza Ariostea e i
giardini di viale Cavour. Entrambi i luoghi, infatti, presentano una cattiva manutenzione generale del
verde, della pavimentazione e degli arredi, certo non adeguata all’importanza, sia storica sia attuale, dei
luoghi.
In particolare i giardini di viale Cavour, che per una sorta di terribile contrappasso si trovano a
corrispondere con una parte dell’antica topografia dei giardini del Castello di epoca estense, si
presterebbero bene a un progetto contemporaneo di qualità più che a una semplice manutenzione.
La recente pubblicazione, patrocinata da AGEA, di un volume di saggi dal titolo I giardini di Ferrara, la
giornata di studio sul giardino di palazzo Costabili e quella sul giardino storico promosse dalle
associazioni culturali, le recenti realizzazioni dell’assessorato all’ambiente del Comune di Ferrara, sono
tutti indicatori rilevanti di questo rinnovato interesse della città nei confronti del proprio patrimonio di
verde storico.

Anche la provincia sembra risentire di questo clima, infatti il Comune di Voghiera, nel cui territorio si
trova oggi buona parte di quella che fu la magnifica delizia di Belriguardo, intende promuovere in un
prossimo convegno lo studio del grande giardino di questa residenza estense, del quale sopravvivono
ancora i tracciati dei canali di alimentazione delle grandi peschiere e dei giochi d’acqua.

VILLA MEDICEA CAREGGI

Residenza di Lorenzo de Medici

La villa, acquistata nel 1417 da Lorenzo di Giovanni di Bicci de' Medici, fu ampliata intorno alla metà
del secolo XV su progetto di Michelozzo di Bartolomeo per volere di Cosimo il Vecchio, che vi amava
trascorrere il tempo a curare i giardini, leggere e giocare a scacchi. L'edificio, caratterizzato da un cortile
a pianta trapezoidale, fu arricchito da logge che lo mettevano in diretto contatto con il giardino e il
paesaggio collinare. Del giardino, all'epoca di Lorenzo il Magnifico, sono rimaste alcune descrizioni che
fanno ipotizzare un impianto articolato in una parte con fiori e alberi da frutta e in un'altra parte con
piante sempreverdi, il cosiddetto selvatico.
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La villa di Careggi fu per molti anni un centro culturale di straordinaria rilevanza, accogliendo, tra gli
altri, Pico della Mirandola, Agnolo Poliziano e Marsilio Ficino, che vi compose il De Vita. Fu sede
dell'Accademia Platonica, istituita da Ficino nel 1459 per volere di Cosimo il Vecchio. L'Accademia
ebbe il compito principale di attendere allo studio delle opere di Platone e dei suoi seguaci,
promuovendone la diffusione attraverso la loro traduzione in lingua latina. Intento primario
dell'Accademia fu anche il recupero e la divulgazione di testi scientifici antichi. L'affermazione del
platonismo operata dagli accademici, riconoscendo un fondamento geometrico e numerico alla realtà,
giocò un ruolo determinante nell'evoluzione del dibattito scientifico, favorendo proprio attraverso la
riscoperta di importanti opere matematiche, mediche e naturalistiche del passato, la nascita della scienza
moderna. In particolare, risale a questi anni il ritrovamento e la diffusione delle opere di Archimede, dei
testi di Ippocrate e degli scritti di Plinio il Vecchio, i cui esemplari di proprietà della Famiglia Medici
sono oggi conservati nella Biblioteca Laurenziana. L'attività dell'Accademia raggiunse il suo massimo
sviluppo sotto il governo di Lorenzo il Magnifico, che ne fu socio e protettore. Alla morte del Magnifico,
nel 1492 Bernardo Rucellai accolse l'Accademia nella sua casa, aprendo gli Orti Oricellari ai raduni dei
suoi iscritti.

Con la morte di Lorenzo, la proprietà attraversò un lungo periodo di abbandono, conclusosi quando il
cardinale Carlo, a partire dal 1615, iniziò una serie di lavori che dotarono il lato meridionale di aiuole
rettangolari arricchite da siepi di bosso, piante di aranci in vaso, alberi da frutto.

descrizione = la villa Medicea, con suo parco ed i suoi annessi, occupa la parte occidentale della collina
di Careggi e in basoo, dinanzi a lei, scorre il torrente Terzolle attraverso piu verso tramontana da uno
svelto ponte in muratura. i colli ella Lastra sui quali passa l’antica strada bolognese.L’ambiente e
serenamente bello, la campagna e lussureggiante, l’orizzonte e ampissimo, il clima e delizioso anche nei
tempi rigidi perche i colli fanno barriera all’impeto dei venti freddi e violenti. Il nome di Careggi ci
riporta con pensiero all’epoca romana, giacche Careggi altro non e che la derivazione di Campus Regis.
Colle del Monte de’vecchi.

Leon Battista Alberti e l’estetica

Alberti, Leon Battista (Genova 1404 - Roma 1472), architetto e scrittore italiano, fu il primo importante
teorico dell'arte rinascimentale e autore di progetti improntati ai canoni di uno stile classico puro,
derivato dall'antica architettura romana. La sua figura è da annoverare tra i più fulgidi esempi di uomo
rinascimentale, dalla poliedrica cultura tesa al recupero del sapere del passato e al contempo
all’innovazione pratica e teorica nei campi dell’arte come pure della letteratura.

Santa Maria Novella, Firenze

Il progetto di Leon Battista Alberti per la facciata di Santa Maria Novella fu realizzato fra il 1456 e il
1470, e costituisce un esempio delle migliori concezioni architettoniche del primo Rinascimento.

La partizione geometrica della superficie è tratto caratterizzante anche nella facciata di Santa Maria
Novella (1456-1470 ca.), sempre a Firenze, nella quale la tradizionale decorazione fiorentina a marmi
bianchi e verdi asseconda l'introduzione di elementi classicheggianti: profondo arcone centrale tra
semicolonne corinzie, alta cornice-trabeazione in corrispondenza dell'altezza delle navate laterali,
timpano triangolare alla sommità della navata centrale. A Mantova, nella chiesa di San Sebastiano
(1460) Alberti propose la sua interpretazione della pianta quadrata, realizzando un edificio di grande

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rigore ed estrema semplificazione lineare; mentre in Sant'Andrea (1470) riprese la pianta basilicale,
sostituendo le navate laterali con profonde rientranze ad arcone nell'ampia navata centrale.

Gli studi teorici


La maggiore opera teorica di Leon Battista Alberti, il trattato De re aedificatoria, terminato nel 1452, fu
il primo testo stampato (nel 1485, in dieci libri) sull'architettura del Rinascimento. Alberti scrisse,
inoltre, un trattato sulla scultura (De statua) e un regesto delle più significative opere architettoniche
della Roma del tempo, Descriptio Urbis Romae, opere in cui l’aspetto descrittivo si fonde spesso con
divagazioni di tipo teorico.

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Orlando Innamorato –Boiardo

L’Orlando innamorato, composto a partire dal 1476 circa e pubblicato nel 1483, è un poema
cavalleresco nato dalla penna di Matteo Maria Boiardo. L’opera, secondo il progetto
dell’autore, avrebbe dovuto svilupparsi in tre libri, ma solo i primi due sono completi e vedono
appunto la luce nel 1483; della terza parte si vedrà solo qualche estratto negli anni successivi, e
rimarrà incompiuta. Le vicende dell’Orlando innamorato vengono elaborate dal Boiardo
durante la sua permanenza alla corte estense e, come dedicatario del poema, troviamo infatti
Ercole I d’Este.Già il titolo dell’opera ci indica i modelli adottati dall’autore, che sintetizza così il
ciclo carolingio, ponendo come protagonista del proprio scritto l’eroe carolingio Orlando, con
quello bretone, da cui deriva la preminenza del tema amoroso.

Tipologia descrittiva del giardino in Matteo Maria Boiardo

Monica Fekete,Università degli Studi “Babeş-Bolyai” di Cluj-Napoca/Accademia di Romania in


Roma

Intendo proporre in questa sede una tipologia del giardino nel poema cavalleresco
di Boiardo e valutare quanto venga esso connotato esclusivamente in dimensione
letteraria o non comporti invece elementi riconducibili ai giardini quattrocenteschi reali.
L’elenco dei giardini presenti nell’opera è di fatto piuttosto vistoso: ricordiamo il regno di
Dragontina (Lb. I, C. VI, ott. 43-53; Lb. I, C. IX, ott. 66-79; Lb. I, C. XIV, ott. 32-47), di
Falerina (Lb. I, C. XVII, ott. 8-10; Lb. II, C. IV), della Medusa (Lb. I, C. XII, ott. 30-40),
di Morgana (Lb. II, C. VIII) nonché l’isola del ‘Palazo Zoioso’ (Lb. I, C. VIII, ott. 1-15;
menzionato già nel C. V, ott. 55-56), per citare solo gli esempi più cospicui. Essi vengono
strettamente collegati alla quête, alla ‘ricerca’, boiardescamente intesa1[1], che
perseguono i vari eroi. La presenza magari addirittura eccessiva di tali spazi, per
definizione chiusi, non trova però una corrispondenza adeguata in una analoga varietà e
diversità contenutistica (dal momento che prevale la peculiare esperienza amorosa) e
stilistico-compositiva all’interno del poema.

Ciò che colpisce subito è una certa parsimonia del poeta nella descriptiodei luoghi,
in un’epoca in cui l’amplificatioera un procedimento retorico sempre in voga, così da
stimolare lo sfarzo descrittivo (rintracciabile già in Boccaccio, in Petrarca, in Poliziano e
presente poi nei due grandi seguaci di Boiardo, Ariosto e Tasso). L’autore dell’Orlando
Innamorato opta, paradossalmente, per una descrizione concisa, quasi schematica, e
convenzionale, come se il sopravvento che l’arte del giardino reale stava assumendo
rispetto a quello ideale venisse ignorato in questi luoghi appartenenti all’imagerie
poetica, deputati di fatto, grazie al forte sostegno di una lunga tradizione, a illustrare la

9
felicità e la perfezione edenica. I suoi predecessori avevano tendenzialmente creato dei
giardini che racchiudevano in sé la quintessenza della natura, una rivisitazione

p. 380

quindi dell’Eden ovvero del Paradiso, del cui senso primigenio si connota anche la
creazione boiardesca.

La ricomposizione letteraria del giardino sarebbe difficilmente concepibile,


d’altronde, senza la ripresa di quanto avevano scritto i predecessori. Il poeta, seguace
abbastanza fedele del canone ciceroniano dell’imitatio, così caro alla cultura
dell’Umanesimo e quindi del Rinascimento, attualizza ancora una volta il topos del locus
amœnus, magistralmente investigato alla metà del XX secolo da Ernst Robert
Curtius2[2].

La costruzione boiardesca scaturisce da reminiscenze bibliche –è implicita la dipendenza


dal giardino edenico–, classiche e medievali, e realizza un’armonia perfetta, derivante
dalla pittoresca fusione del topos del locus amœnus con gli echi del giardino di corte,
qual era già rappresentato nel ciclo bretone (ad esempio, in Chrétien de Troyes). Il tutto
viene naturalmente trasposto, sulla scia della narrativa amorosa in versi, in una forma che
non ha più nulla del primitivo elemento sacrale. La varietà delle fonti conferisce al
quadro d’insieme un che di favoloso, eppure possiamo dire che ne è uscita una sintesi
coerente.

L’essenzialità della descrizione di cui parlavamo si evidenzia, ad esempio, nella


“dolce prigione” della maga Dragontina:

Davanti della loggia un giardin era,

Di verdi cedri e di palme adombrato,

E de arbori gentil de ogni maniera.

Di sotto a questi verdeggiava un prato,

Nel qual sempre fioriva primavera:

Di marmoro era tutto circondato;

E da ciascuna pianta e ciascun fiore

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Usciva un fiato di suave odore.3[3]

e racchiude in sé le collaudate denotazioni della tradizione: fontana, fiori,“fresca


verdura”, alberi, prato verde – tutti elementi che, configurandosi come ben delimitati o
recintati, e dunque isolati dal contesto reale, fungono da alternativa fittizia e insieme
fallace, quale improbabile fuga dal mondo e dal tempo presenti. L’accesso ad essi
parrebbe precluso o quantomeno arduo:‘occorre’ bere un sorso d’acqua dalla “riv[i]era”
posta oltre le mura di cinta, la cui dote miracolosa è quella di infondere l’oblio, di rendere
i cavalieri immemori. Di certo Boiardo non concede qui molto spazio all’immaginazione
del lettore e rivela abbastanza presto il segreto del divieto: è l’anello incantato di Angelica
a rendere invisibile chi lo porti, motivo che risale indubbiamente al ‘meraviglioso’ del
ciclo bretone.

Riesce piuttosto esigua e disseminata nel testo l’enumerazione delle specie di


alberi che ornano il giardino in cui “sempre fioriva primavera”. L’autore parla di “arbori
gentil de ogni maniera” e si limita a denominare singolarmente solo cedri, palme e pini

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(Lb. I, C. VI, ott. 48, v. 2 e C. XIV, ott. 40, vv. 3, 6). L’essenza del pino sarà tra quelle
predilette nel giardino all’italiana, dato che il suo fogliame sempreverde, suggerendo
l’idea della perennità, poteva agevolmente riallacciarsi, per processo metonimico,
all’ideologia dei principi o dei duchi, sostenitori appassionati e promotori appunto dei
giardini. Stranamente l’autore non sviluppa affatto quel che viene occultato sotto
l’arcilessema generico “fiori”, salvo l’unica circostanza in cui evoca Orlando, che lega il
suo destriero Brigliadoro “tra le rose ad una spina” (Lb. I, C. IX, ott. 75, v. 4). La cosa è
alquanto curiosa, dal momento che il poeta tralascia vari altri tipi di fiori, né pare prestare
attenzione alle descrizioni mitologico-letterarie, particolarmente stilizzate e raffinate, già
esistenti in Petrarca o in Poliziano. Non si può ignorare invece il fatto che i fiori vengano
relegati, anche all’interno del giardino reale, in appositi spazi circoscritti o in giardini
‘segreti’4[4]. Un aspetto, d’altronde, questo, che si inserisce perfettamente nella nuova
tipologia del giardino, in cui si ripristina l’archetipo del paradiso terrestre coniugato con
la mitica età dell’oro: tra i punti comuni emerge quello dell’atemporalità, che si cerca
indubitabilmente di conseguire. In questo senso, pare piuttosto naturale che i fiori, tanto
eternizzabili in un mondo immaginario, quanto però effimeri nel mondo reale, vengano
allontanati (ma non esclusi del tutto) per non rovinare il quadro generale. Abbiamo già

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notato come, proprio per ragioni siffatte, la preferenza dei committenti va nella direzione
delle piante sempreverdi, con l’introduzione quindi dell’elemento architettonico che è in
grado di infondere un aspetto duraturo o magari perenne a tali opere.

Dentro lo spazio chiuso del giardino viene ubicato il palazzo, il cui scopo
complessivo è evidentemente quello di destare la meraviglia del visitatore e, ad altro
livello, del lettore, per la preziosità, la magnificenza, la ricchezza delle opere, di attestare
la supremazia costruttiva dell’uomo sulla natura (si pensi, ad esempio, al coté biografico
dell’Alberti). La presenza del palazzo è uno degli ingredienti costitutivi del ‘giardino
d’amore’: basti pensare a quello di Déduit (nel Roman de la Rose) oppure all’edificio
tempestato di gemme della Venere di Poliziano (nelle Stanze per lagiostra) oppure a
quello molto più terreno in cui trovava riparo la brigata del Decameron boccaccesco. In
Boiardo agisce in maniera esclusiva, dunque, un’impronta di matrice letteraria? O non è
forse da rintracciare nella sua opera il filo di una realtà ferrarese, che abbia rivestito in
qualche modo il ruolo di possibile modello?

Se si va al di là delle astrazioni letterarie, di numero peraltro ridotto, dei palazzi


boiardeschi (nel giardino di Dragontina o sull’isola del ‘Palazo Zoioso’, eccezion fatta
per quello di Falerina, interamente affidato al fantastico poetico), si ripristinano, in un
senso piuttosto vago e velato, le cosiddette ‘delizie’ estensi: Belriguardo 5[5], Belfiore6[6],
Schifanoia7[7].

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Boiardo correda i suoi edifici di varie logge, con una presenza che suona
innovatrice all’interno dei giardini incantati, e a queste concede, sorprendentemente, delle
descrizioni piuttosto minuziose, il che, come si è già notato, non è un tratto stilistico
caratterizzante della sua creazione letteraria, propensa quasi esclusivamente al plot,
all’intreccio, in cui è la narrazione delle innumerevoli vicende del poema (con
sospensioni e riprese di grande rilevanza sul piano romanzesco-narrativo) a tenere desta
la tensione dell’opera. Ecco, ad esempio, un passo dal canto VI del libro primo, in cui
troviamo la descrizione della loggia del giardino di Dragontina:

Sopra a colonne de ambro e base d’oro

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Una ampla e ricca logia se posava;

Di marmi bianchi e verdi ha il suol distinto,

Il cel de azurro et ôr tutto è depinto.

[…] Davanti della logia un giardin era,

[…] Posesi il conte la logia mirare

Che avea tre facce, ciascuna depinta.

Si seppe quel maestro lavorare,

Che la natura vi sarebbe vinta.

Mentre che il conte stava a riguardare,

Vide una istoria nobile e distinta.

Donzelle e cavallieri eran coloro:

Il nome di ciascuno è scritto d’oro.8[8]

Benché tutto sia opera di magia, e per ciò destinata inevitabilmente alla
dissoluzione, sembra abbastanza naturale che la ricorrenza della loggia s’ispiri alle
tendenze architettoniche che presiedevano alla costruzione del giardino quattrocentesco.
L’affermazione trova facilmente giustificazione sulla base delle indicazioni, diventate poi
canoniche per le costruzioni rinascimentali, suggerite dal grande umanista Leon Battista
Alberti. Nel trattato De re aedificatoria, affrontando la problematica della collocazione
del giardino nel contesto del paesaggio e dell’ambiente (opinione condivisa

p. 383

dall’architetto a lui contemporaneo Francesco di Giorgio Martini 9[9]), egli postulava che
l’esito pratico si concretasse nell’unione diretta del palazzo con il giardino attraverso
8

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portici, logge, scale.10[10]Tale invenzione viene valutata come una delle acquisizioni
maggiori che il giardino abbia avuto ai suoi esordi in età moderna, pur rimanendo ancora
parzialmente ancorato alle tradizioni medievali. Tuttavia il suggerimento albertiano è
tributario di concezioni risalenti a epoche remote: di sicuro egli lo riprende dalla
pianificazione del giardino di età romana, che mostrava una predilezione per il tema del
padiglione, soggetto architettonico penetrato nella cultura occidentale dal mondo egizio,
attraverso la filiera della pittura parietale greca di paesaggio, in un certo senso, quindi,
desacralizzata.11[11]Si tratta in genere di elementi già collaudati presso varie civiltà, che
confluiscono ora nell’estetica umanistica e rinascimentale, godendo di un’incredibile
fortuna. La corte di Ferrara, grazie alla forte impronta impressale dal mecenatismo
estense, si configura quale uno dei più prestigiosi ambienti culturali, in cui le arti
godevano di un vigoroso sostegno ed erano delegate a rispecchiare, in senso proprio e
traslato, l’immagine della potenza ducale (si pensi alla ricchezza del ciclo pittorico dei
Mesi, di Palazzo Schifanoia). Ed è pure degli Estensi la volontà di formulare progetti e di
realizzare ville e palazzi, destinati a estendere nel territorio del circondario la vita di corte,
collocandoli in mezzo a giardini che si tramutavano in una sorta di paradiso terrestre. Il
loro destino, a differenza dei giardini boiardeschi, creati dalla fantasia del poeta anche
mediante il ricorso all’elemento magico, si rivela però piuttosto drammatico: essi
scompariranno infatti quasi completamente già nel Cinquecento, quando il ducato
passerà sotto il controllo del potere pontificio. Le testimonianze della loro florida
esistenza vengono conservate da pochissimi trattati e, al contempo, da un’opera
encomiastica, la cui autorevolezza concorre con quella della trattatistica del tempo. Il De
triumphis religionis di Giovanni Sabadino degli Arienti, scritto nel 1497 e dedicato ad
Ercole I d’Este,12[12]ci restituisce la lussureggiante immagine dei giardini estensi nonché
il fasto, la ricchezza e la raffinatezza che caratterizzavano l’architettura dei palazzi e in
genere l’ambiente tutto della corte ferrarese. Dalla descrizione dell’Arienti si evidenzia
facilmente la forte interazione vigente tra le varie arti (architettura, pittura e arte del
giardino), e grazie ad esse le grandiose costruzioni estensi destavano una meraviglia pari
a quella esercitata sul lettore dai luoghi descritti dalla fantasia boiardesca. La lettura
dell’Arienti viene dunque a confermare il consistente numero di palazzi, di logge e di
giardini, da quelli segreti, di cui non è esente nemmeno il giardino di Falerina, a quelli di
più ampio respiro, destinati al piacevole ozio e a varie attività preposte a liberare il corpo
e lo spirito dalle cure quotidiane, che vennero costruiti nel corso del Quattrocento.
Secondo Bruno Basile, l’Arienti descrive in sostanza i giardini di corte quali “spazi

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10

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14
privilegiati che appaiono intermedi fra le architetture fantastiche dell’archeologismo
rinascimentale” –rinviando alla Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, al De
triumphis religionis e alla Descrizione del Zardin Viola dello stesso Arienti– “e la prima
creazione di luoghi di delizia divenuti elysiadi un’aristocrazia tanto raffinata da coniugare
la razionalizzazione urbanistica cittadina attorno al castello di origine feudale con luoghi
di un’evasione arcadica”13[13].

Boiardo non solo arricchisce i suoi palazzi incantati di logge, ma ricorre al tempo
stesso alla presenza di affreschi vari, e alla loro descrizione, per ornarne le pareti. Mentre
gli autori precedenti facevano trasparire dalle loro opere la frequente iterazione di
sontuose effigi o di raffinati intarsi che decoravano elegantemente le porte delle stanze, 14
[14]con la rivisitazione di famose vicende mitologico-amorose, il nostro poeta viene
sostenuto, nell’impresa di impreziosire le sue costruzioni narrative, dalla pittura, che
trattava i medesimi temi mitologici: la loggia dipinta ubicata nel giardino di Dragontina,
ad esempio, rievoca la storia della maga Circe e di Ulisse.

La possibile associazione fra scrittura epica e iconografia quattrocentesca, su cui


intendiamo fissare la nostra attenzione, porta in sostanza a postulare un piuttosto
verosimile legame fra la creazione di Boiardo e l’attività dell’“officina ferrarese” 15[15]
(secondo la fortunata formula coniata dal critico d’arte Roberto Longhi), da un lato, e tra i
giardini boiardeschi e i sontuosi affreschi dei palazzi di Belriguardo e di Belfiore, che
sono andati perduti, dall’altro. La memoria di questi ultimi rivive però intensamente nelle
preziose pagine dell’Arienti, in cui vengono descritti, con dovizia di particolari, i diversi
cicli decorativi, la cui tematica risaliva, in buona misura, alla stessa antichità classica, ma
nel contempo delineava la vita di corte e più precisamente la personalità di Ercole I,
ritratta in varie circostanze. Se i due palazzi, collocati in prossimità di Ferrara, erano
diventati emblematici per la civiltà ducale sotto Ercole I, il palazzo urbano di Schifanoia
–che aveva assunto anch’esso, probabilmente, una funzione di modello per il nostro
poeta– aveva già avuto un valore paragonabile e paradigmatico per celebrare le imprese
del suo predecessore, Borso d’Este. Il famoso ciclo pittorico del Salone dei Mesi, delle
cui dodici raffigurazioni ce ne sono conservate solo sette, viene definito da Ranieri
Varese come “modello cavalleresco tratto dai romanzi cortesi che si intreccia con
l’interesse per l’antichità classica”16[16]. Il trionfo di Venere, che sta ad illustrare il mese
di Aprile, parrebbe concettualmente e idealmente assai vicino ai giardini boiardeschi. Il

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quadro naturale acquisisce qui le connotazioni del giardino d’amore per eccellenza, dove
trovano riparo, accanto a personaggi mitologici, anche coppie in lieti conversari e amanti

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appartati nei più segreti recessi di un boschetto di melograni. L’intera natura, cioè la
vegetazione a cui fanno riscontro gli uccelli e i conigli, pare aprirsi all’amore. Il gusto
profano, sensuale e realistico che si desume dagli affreschi, e che avrà una forte influenza
sulla cultura artistico-letteraria del Cinquecento, rispecchia, certamente con un tocco
idealizzante, la vita della corte ferrarese. Di conseguenza, tali cicli pittorici potrebbero
fungere come una sorta di filtro tra il giardino reale e quello simbolico-letterario di
Boiardo. Il nesso tra pittura e giardino viene illustrato da Gianni Venturi, secondo il quale
Boiardo celerebbe dietro il velo della descrizione fantastica una “spiccata predilezione
per l’accumulazione retorica, secondo un processo che deforma e irrigidisce
espressionisticamente il particolare in una fissità allucinata e lo estende senza più limiti
nell’enormità del fantastico fabulatorio”17[17], come avviene, per l’appunto, con
l’iconografia di Palazzo di Schifanoia.

A guisa di conclusione, vorremmo soffermarci velocemente su alcuni elementi


che servono ancora a definire la tipologia del giardino boiardesco e che si rivelano adatti
a creare esili ponti tra l’immaginario autoriale e la realtà. La grotta, motivo
tradizionalmente letterario, appare quale elemento costitutivo del regno subacqueo di
Morgana (Lb. II, C. VIII, ott. 5 e sgg.). La sua descrizione si allontana da ogni traccia di
realtà: la grotta è fatta di gemme e di roccia lucente, e la sua porta d’accesso, intagliata in
pietre preziose, raffigura il mito di Teseo e Arianna, cioè a dire la storia del labirinto.
Eugenio Battisti ha sostenuto che la grotta, intrinsecamente legata all’idea del labirinto, è
una“componente essenziale della letteratura cavalleresca” e che il percorso all’interno di
essa implicitamente “comporta una trasformazione spirituale” 18[18]. Una tale
connotazione morale non può ovviamente trovare in Boiardo quel riscontro forte che farà
invece da sfondo al poema cristianizzato scritto da Torquato Tasso, e quindi riscritto, nel
cupo periodo della Controriforma e del manierismo. Ciò che connette invece una certa
tematica letteraria alla realtà del giardino, anche se ci riferiamo qui ora a quello
cinquecentesco, è proprio l’irrompere di motivi meraviglioso-fantastici nella
pianificazione architettonica del giardino. La presenza della grotta e del labirinto, insieme
con la forte simbologia che li accompagna, acquisterà un peso notevole nei grandi
giardini allegorico-iniziatici, quali quelli di Pratolino, di Bomarzo e via dicendo. La realtà

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16
del giardino viene così permeata dall’aspetto meraviglioso, e allo stesso tempo
perturbante, di un modello di ascendenza letteraria.

È opportuno fare almeno un rapido cenno al tema delle cosiddette “scritture


esposte” (secondo una definizione proposta dal paleografo Armando Petrucci), 19[19]con
cui si indicano le iscrizioni e le lapidi intenzionalmente disposte all’interno di un
determinato spazio. Nel giardino incantato di Falerina, Boiardo colloca una fontana, la
cui particolarità risiede nel fatto che ha al centro una figura in pietra, dal cui petto sgorga

p. 386

dell’acqua, che reca l’iscrizione: “Per questa fiumana/ al bel palagio del giardin se
ariva”(Lb. II, C. IV, ott. 20, vv. 5-6). L’informazione in sé è utile al solo Orlando,
deputato a distruggere la grandiosa opera di magia, ma il ricorso a tali forme scritte
diverrà uno dei tratti fondamentali dell’architettura del giardino cinquecentesco. Maurizio
Calvesi, in un saggio incentrato sul Bosco Sacro di Bomarzo, mette in risalto il forte
influsso dei poemi cavallereschi sull’ideazione dello strano e singolare giardino
orsiniano, influsso che parrebbe determinato dalla fascinazione che la materia
romanzesca esercitava sulla fantasia di Vicino Orsini. L’esame delle numerose iscrizioni
di ascendenza specificatamente ariostesca e tassiana, che corredano le enormi grottesche
figurazioni mitologiche presenti nel giardino di Bomarzo, “porta in luce –secondo il
critico d’arte– una serie di riscontri da cui sembra emergere la centralità […] di questo
genere letterario, congeniale alla poetica del bosco incantato”20[20].

Se sul piano letterario le grotte vengono descritte come elementi della morfologia
naturale o come risultato meraviglioso conseguito grazie al ricorso all’elemento magico,
nel giardino reale ritroviamo sicuramente anche delle grotte artificiali che erano, in buona
misura, collegate alla presenza di una fonte d’acqua sul cui corso interviene la mano
dell’artista. Sono molteplici, infatti, le forme entro cui l’elemento acquatico viene
disciplinato, addomesticato, costretto a chiudersi al fine di evidenziare gli effetti della
volontà e dell’estro umano: vasche, fontane, ruscelletti zampillanti, canali, peschiere,
laghetti, ninfei. L’esistenza del giardino, sia esso reale o immaginario, viene
sovraordinata dalla centralità della fontana. Anche se ubicata nel mondo profano, questa
non tradisce le proprie origini, che vanno fatte risalire alla Fons vitae, la cui sacralità
rimaneva determinante per il giardino monastico medievale: Pierre Grimal sostiene che è
appunto tale elemento architettonico a conferire l’idea di “continuità del giardino
medievale ai tempi del Rinascimento.” 21[21]In Boiardo le fontane sono chiaramente
presenti, è tuttavia quasi pressoché improbabile una confutazione della loro funzione
19

20

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squisitamente topica. La loro presenza viene segnalata, in maniera quasi scontata, in
quanto confacente al gusto retorico del locus amoenus: ricordiamo una fontana nel
giardino di Dragontina, le “chiare fontane e fresche a dismisura” (con una chiara eco
petrarchesca) nell’isola del‘Palazo Zoioso’, mentre nel regno di Morgana “Vidde da lato
adorna una fontana/ D’oro e di perle e de ogni pietra fina” 22[22]o ancora, in una forma
più raffinata, nel giardino di Falerina: “[…] una fontana,/ Spargendo intorno a sé molta
acqua viva;/ Una figura di pietra soprana,/ A cui del petto fuor quella acqua usciva.” 23[23]

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La tipologia generale del giardino rinascimentale, offertaci da Franco


Cardini24[24]e condivisa da Mark Laird25[25], distingue tre aree fondamentali, che
comportano evidentemente una forte possibilità di variazione anche combinatoria:

– il giardino segreto, che in Boiardo si ritrova sull’isola del ‘Palazo Zoioso’ e la


cui descrizione trova palesi raffronti con quella arientesca di Belriguardo, non priva,
forse, di accenti idealizzanti;

– il prato in mezzo al quale viene collocata la fontana: nel poema compare varie
volte, insieme con l’albero della vita, la centralità dell’elemento plastico-architettonico
della fontana, che, spogliatosi del senso originario, si trasforma nel principio che scioglie
la magia del giardino di Falerina (è appena il caso di ricordare che siamo qui in presenza
di un fortunato elemento topico);

– il bosco: ancora nel giardino di Falerina, incontriamo boschetti di pini e di abeti,


che verranno poi echeggiati nei “vaghi boschetti” ariosteschi.

L’intento del progetto, di più ampio respiro, di cui si presenta qui un primo saggio, si colloca
giusto all’incrocio di reciproci, sostanziali influssi tra il modello letterario, l’arte del giardino, la
pittura e l’architettura rinascimentali, tutti elementi di cui ci parrebbe che l’opera di Boiardo non
sia rimasta immune.

Il “giardino” incantato della giovinezza e il giardino di Venere

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Monica Fekete

Se l' ideale rinascimentale si concretizza in due momenti, come suggeriva W. Tatarkiewicz[1],


cioè in una renovatio hominis intesa come movimento verso un livello superiore, e una
renovatio antiquitatis come risurrezione del mitico passato e della cultura classica, Poliziano
realizza perfettamente questo ideale.

L’intento delle Stanze per la giostra corrisponde perfettamente a un diffusissimo costume


letterario quattrocentesco, quello encomiastico: Poliziano ripropone di celebrare le prodezze di
Giuliano de’ Medici. Lo stesso stampo umanistico viene impresso nel motivo della poesia come
unica possibilità di sottrarre al potere del tempo, le grandi imprese. Accanto, però, al tema delle
armi si affianca subito quello dell’amore (che prenderà il sopravvento, grazie anche
all’incompiutezza dell’opera): il celebre binomio armi-amore, già consacrato dalla tradizione e
rivisitato, con vigore sostenuto, nel Cinquecento epico da Ariosto e Tasso, spunta, secondo
Ruggero M. Ruggieri[2], in Poliziano con forme epico-cavalleresche, anhe se non integralmente
riconducibili all’autentica tradizione.

L’humanitas scoperto da Petrarca conoscerà una fioritura particolare nel Quattrocento: gli
autori classici tornano alla vita con tutti gli ideali di una esistenza virtuosa. Si propone
l’immagine del perfetto cavaliere-cortigiano, i cui tratti devono apparire non soltanto dalle
opere letterarie, ma nella vita reale. L’ideale dell’educazione rinascimentale risiede
nell’educazione armoniosa del corpo e dello spirito. Lo scopo della cultura diventa la
formazione dell’uomo. Il rapporto stretto con i classici è il fondamento della nuova concezione,
e le loro opere vengono esaltate quali fonti per la formazione dell’uomo nell’armonia perfetta
delle sue facoltà, fonti che fanno di lui una creatura privilegiata, separata dal mondo dei bruti.
Si tratta di nozioni ben conosciute, ma vale la pena di ricordarle ome premessa essenziale
all’opera di Poliziano, nella quale appaiono sia in maniera palese sia in form idealizzata e
filtrata.

La prima tappa dell’educazione di Iulio si concentra nell’esercizio del corpo, rappresentata


nella scena della caccia. Questo primo momento fissa la dimensione spaziale idonea all’attività:
la campagna e il bosco, che si trovano in netta contrapposizione con la città (uno spazio che
viene decodificato tramite l’immagine della corte e, implicitamente, come territorio
dell’amore). È una sorta di fuga, di evasione; si va fuori delle mura della città (mura-amore, cioè
costrizione) verso l’aperto, verso uno spazio sconfinato, verso la libertà tanto del corpo quanto
dello spirito.

Dunque l'aspirazione di evadere dalla squallida realtà quotidiana per rifugiarsi nel clima di
eterna ed ideale bellezza, creato dai poeti classici, rappresenta non soltanto la meta del poeta

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ma anche del suo personaggio maschile. L’ attività che permette questa fuga si rivela essere
esclusivamente la caccia, che unisce tre motivi basilari: la virilità, il piacere e la libertà. È l'unico
modo di vita paragonabile, anzi identificabile, con l' esistenza mirabile dell' età dell' oro. Il
sentimento idillico è uno dei sentimenti naturali del mondo polizianesco: la pace, il ritiro dal
mondo, il contatto con la natura vergine sono i motivi indispensabili per l’elogio della vita
rusticale, che avviene attraverso l’immersione nostalgica nel passato:

"veder la valle e'l colle e l'aier puro,

l'erbe e' fior, l'acqua viva, chiara e ghiaccia;

udir li augei sventar, rimbombar l'onde,

e dolce al vento mormorar le fronde!

Quanto giova a mirar pender da un'erta

le capre, e pascer questo e quel virgulto;

e'l montanaro all'ombra più conserta

destar la sua zampogna e'l verso inculto;

veder la terra di pomi coperta,

ogni arbor da suoi frutti quasi occulto

veder cozzar monton, vacche mugghiare

e le biade ondeggiar come fa il mare!"[3]

Tramite i motivi fondamentali del topos del locus amoenus, fissati poi da Curtius[4], il poeta
intona un vero e proprio inno e glorifica, al contempo, gli ideali di bellezza e giovinezza. L'
evocazione dell' età primitiva e della natura verginale viene avvolta in un' aura mitica e,
sebbene si tratti di imitazione palese (Poliziano fa ricorso a un’ampia tradizione georgica e
bucolica[5]), come è nel canone del Rinascimento, il poeta ci si rivolge per il bisogno assoluto di
isolare la propria realtà sentita diametralmente opposta a quella esistente. La nota
fondamentale di Poliziano, secondo L. Malagoli, non è tanto “l’ispirazione mitica come carattere
della poesia ma l’ideale mitico come sostegno del suo mondo: piuttosto l’ideale mitico è la
realtà concreta, Poliziano sottopone tutto a quel suo modo lieve di considerar le cose, che dà
una tinta d’irrealtà anche alle cose più vive, ma pur così restan in lui concretissime”[6]. Quindi il
mondo polizianesco trova la propria interpretazione e definizione all' interno di termini
leggermente paradossali, cioè nell'idealizzazione di un mondo già ideale. È un mondo ancora

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immune dal peccato, in cui regnano la giustizia e il piacere innocente. Come ricorda Harry
Levin[7] la purezza caratterizza l' età dell' oro soltanto sotto la direzione di Saturno, però il male
vi penetrerà nel momento in cui Giove e i falsi dei disperderanno l’ armonia e la pace perfette,
tramite l' ingerenza dei vizi.

Il protagonista fa la sua lucida scelta per una vita agreste, libera da ogni costrizione amorosa,
priva dunque di lussuria, di invidia. Nella lunga descrizione volta a rappresentare un sogno
contemplativo, le varie reminiscenze classiche (Virgilio, Ovidio, Seneca) riportano la vagheggiata
età dell’oro, senza però una concreta determinazione. Tutto ciò viene sostenuto, come si è
sottolineato prima, da un chiaro richiamo alla retorica, all’uso del locus amoenus, senza la quale
ogni tentativo di ricostruzione sarebbe destinato a fallire. Le finissime allusioni al periodo della
felicità semplice, perfetta e suprema si convertono nelle stanze seguenti (stanze 20-22) nella
sua vera e propria definizione e descrizione. Accanto ai modelli classici rappresentanti il canone
da seguire, già ricordati, Poliziano si attinge anche a due insigni autori del Trecento volgare:
Boccaccio e Petrarca. Boccaccio, a cui Poliziano fa un ricorso sostanzioso, nell’Elegia di
Madonna Fiammetta, aveva messo in bocca della sua protagonista la stessa distinzione tra la
vita cittadina e quella campestre: mentre la prima è implacabilmente insidiata dal distruttivo
furore amoroso, la seconda rispecchia la felicità pura e la vita primitiva ma ricca del secolo
d’oro. Nelle Stanze si possono identificare in filigrana le stesse idee e descrizioni. Per avere un
breve confronto tra i due testi, ne riporteremo in nuce i brani in questioni: “Oh, felice colui il
quale innocente dimora nella solitaria villa, usando l’aperto cielo! Il quale, solamente
conoscendo di preparare maliziosi ingegni alle selvatiche fiere […] e se greve fatica per
avventura sostiene, incontanente sopra la fresca erba riposandosi la ristora, tramutando ora in
questo lito del corrente rivo, e ora in quell’altra ombra dell’alto bosco li suoi luoghi, ne’quali
ode i queruli uccelli fremire con dolci canti, e i rami tremanti e mossi da lieve vento”.[…]
“Ohimè! Niuna è più libera né senza vizio o migliore che questa, la quale li primi usarono […] Oh
felice il mondo, se Giove mai non avesse cacciato Saturno, e ancora l’età aurea durasse sotto
caste leggi! […] Ohimè! Che chiunque è colui li primi riti servante, non è nella mente infiammato
dal cieco furore della non sana Venere […]; né è colui che sé dispose ad abitare ne’colli
de’monti, suggetto ad alcun regno: […] non all’infido vulgo, non alla pestilenza invidia….”[…]
“Ohimè! Che l’empio furore del guadagnare, e la strabocchevole ira, e quelle menti, le quali la
molesta libidine di sé accese, ruppono li primi patti così santi […], dati dalla natura alle sue
genti”.[8]

“In cotal guisa già l’antiche genti

si crede esser godute al secol d’oro……………………

lor case eron fronzute querce e grande,

21
ch’avean nel tronco mèl, ne’ rami ghiande.……………………..

Non era ancora la scelerata sete

del crudele oro entrata nel bel mondo;

viveansi in libertà le genti liete,

e non solcato il campo era fecondo.

Fortuna invidiosa a lor quiete

ruppe ogni legge, e pietà misse in fondo;

lussuria entrò ne’ petti e quel furore

che la meschina gente chiama amor.”[9]

Anche Petrarca aveva separato nel De vita solitaria la vita cittadina (corruzione, inferno) da
quella isolata nella valle della Sorga (pace, serenità, paradiso), quest’ultima dedita agli studi. G.
Getto[10], sottolineando il contrasto fra città e campagna, tra spazio chiuso e aperto, tra civiltà
e cultura, afferma che il Quattrocento ha riscoperto la natura. Quest’opinione era già stata
espressa da A. Momigliano, secondo il quale “le Stanze e le ballate dell’uccello e delle rose
fanno parte di questa scoperta della natura, di questo movimento della Rinascenza che
aggiunge all’uomo come motivo di poesia la natura”[11]. È evidente che le descrizioni naturali,
piuttosto rare e limitate a pochi elementi nel Medioevo, irrompono sul palcoscenico
rinascimentale e si sottomettono alla richiesta amplificatio. In Poliziano si riconosce una natura
ultrastilizzata, un luogo retorico,difficile da associare, a dire la verità, al sentimento della natura
vero e proprio. Tanto più che, per il poeta, la natura reale in quanto referente non esiste. Si
tratta in Poliziano di un luogo astratto, mentale, un processo di ri-creazione poetica. Nemmeno
Petrarca d’altra parte aveva goduto veramente del sentimento della natura, anche se aveva
cantato la bellezza di Valchiusa: in lui la natura era sublimata, diventava una bella metafora
della sensibilità e dell’ingegno artistico.

Poliziano segue, di conseguenza, fedelmente il canone dell’imitazione, che lui stesso teorizza, in
una lettera indirizzata a Paolo Cortese[12], come singolo procedimento da cui traspare la docta
varietas. Fonde armoniosamente e sapientemente la tradizione classica e quella romanza,
creando la propria poesia infusa di originalità. La sua imitazione viene definita in quanto una
maieutica da una lunga serie di studiosi –E. Garin, L. Russo, Ruggero M. Ruggieri – quest’ultimo
dà una definizione suggestiva in questo senso, riferendosi alla lingua delle Stanze: maieutico
vuol dire “essenzialmente mnemonico, perciò di necessità limitato; tanto più limitato quanto
maggiore è il numero degli auctores”[13], un’opinione con cui non si può che concordare.

22
Questa ekphrasis mitica che coincide con la continenza, in senso traslato, si identifica,
secondo G. Costa, con il periodo della “casta gioventù del protagonista”[14]. Segna, come si è
affermato, la prima tappa della sua formazione, e l’immagine della caccia non traduce
esclusivamente l’idea di un regresso verso il modello letterario, bensì pure quella di un
“viaggio” iniziatico, formativo, richiesto dall’esigenza della compiutezza, della perfezione del
personaggio encomiato, che viene proiettato in un mondo ideale che trasgredisce i confini della
realtà storica.

I mali, che corrompono la serenità del secolo d’oro, a cui alludeva Boccaccio, non toccano
però la perfezione del mondo polizianesco e l' unico sapore terreno, che lascerà dietro di sé un
certo sentimento di scontentezza, sarà la malinconia che penetrerà nell' anima giovane di Iulio,
all’idea della fugacità dell' età privilegiata. Perciò l’ esortazione classica di cogliere il momento
opportuno si rivelerà immancabile, e si accentuerà tramite l' apparizione miracolosa della
donna - dea. La compenetrazione del senso umano e di quello divino della bellezza femminile
rinvia direttamente a scorci petrarcheschi e stilnovistici. Infatti l' amore si presenta nella sua
forma raffinata di compimento spirituale. L' idea di carnalità, così pervasiva nei poemi
cavallereschi cinquecenteschi, qui è del tutto assente. L’ incontro stupendo, avvenuto nella
radura luminosa di una natura idillica esemplare, è una sorta di prefigurazione del regno di
Venere, al quale però è vietato l' accesso umano. Quello che vuole suggerire il poeta, in questa
prima rappresentazione, è proprio la possibilità di un innalzamento spirituale, attraverso l'
amore puro e casto, anche all' interno della realtà terrena, a sola condizione che sia progettata
in un mondo decisamente particolare e nobile. Sembra logico quindi che l' accesso a questa
nuova dimensione sia limitato alle sole persone elette secondo criteri di età e di bellezza.

Se fino a questo punto l' idillio naturale esaltava la libertà panica, la "parvenza" magica
arricchisce l' apertura paesaggistica di una sfumatura, forse un po' costrittiva, a prima vista, alle
leggi inelluttabili dell' amore sovrano, ma, in realtà, non fa altro che dare il tocco finale di
perfezione, provveduto dalla forza "trascendentale" della fantasia poetica. Infatti la natura
vivente in un' aura quasi immortale coincide con la perfezione artistica del poeta stesso.

A. Momigliano[15] ha certamente ragione quando identifica Simonetta con l' immagine del
paesaggio stesso. L' eco petrarchesca diventa ovvia, ma in fusione con le altre reminiscenze,
conferisce un’armonia ed un’idealità al quadro che non c’erano nell’inquieto Petrarca. Nel caso
di Petrarca, Valchiusa non riusciva a conferire la solitudine ideale, poiché l’epifania della donna,
proprio di una Laura stilnovistica, s’insinuava negli elementi della natura esemplare, e
trasformaba, abbelliva e al contempo rendeva tormentoso il ritiro scelto. In un certo senso,
sulla scia petrarchesca, il luogo ameno di Iulio si lascia penetrare, in modo abbastanza
consimile, dalla stessa forza prepotente davanti a cui l’unico atteggiamento è quello di
arrendersi. Simonetta, sotto l’aspetto ambiguo di un essere terreno e divino, incarna la musa

23
collaudata dagli stilnovisti e da Petrarca: è bella, giovane, virtuosa, gentile, “umilmente
superba” (Petrarca, 126, ”umile in tanta gloria”), segue cioè il canone di bellezza imposto già da
tempo. In un certo senso raffigura la donna angelicata che a sua volta ingentilisce l’uomo,
teorizzata da Guinizzeli (Io voglio del ver la mia donna laudare, vv. 9-11: Passa per via adorna, e
sì gentile/ ch’abassa orgoglio a cui dona salute,/ e fa’l de nostra fé se non la crede) e da Dante
(Donne ch’avete intelletto d’amore, vv. 33-36: gitta nei cor villani Amore un gelo,/ per che onne
lor pensero agghiaccia e pere;/ e qual soffrisse di starla a vedere/ diverria nobil cosa, o si
morria, v. 42: che non pò mal finir chi l’ha guardata), che non può essere guardata da anima
villana “se pria di suo fallir doglia non have” (I, 45, 6). Simonetta gode di un’essenza miracolosa,
ma è escluso l’aspetto mistico. Se le donne stilnovistiche erano di origine paradisiaca, in senso
cristiano, in Poliziano l’idea del paradiso si mantiene, però viene privata dall’elemento religioso.
All’apparizione evanescente di Simonetta pare “s’aprissi un paradiso” (I, 50, 4): ma è
decisamente un paradiso laico, che ci fa pensare al motivo del giardino delle delizie. L’intertesto
petrarchesco dimostra anche qui la sua potenza: 126, v. 55, “Costei per fermo nacque in
paradiso”.

Tutto è immerso in un' armonia pura: canti d' uccelli, sussurio di foglie, fiori variopinti, cioè un
intreccio stupendo di elementi visivi, auditivi ed olfattivi, ma sopra di essi regna l' immagine
della donna o piuttosto della dea. Così la sua belleza riesce a conferire anche al topos del locus
amoenus un' aura di sovrannaturale. Tutto è bello perché la ninfa anima ed abbellisce la natura,
che viene interamente dominata dalla creatura quasi irreale:

"Rideli a torno tutta la foresta,"

"l'aer d'intorno si fa tutto ameno

ovunque gira le luce amorose.

Di celeste letizia il volto ha pieno,

dolce dipinto di ligustri e rose;

ogni aura tace al suo parlar divino,

e canta ogni augelletto in suo latino."[16]

Sempre allo stampo petrarchesco[17] si riconduce la trasformazione della natura nell' eco
persuasiva della bellezza femminile, elemento importante che porta ad una osservazione
altrettanto essenziale: il rapporto spazio-personaggio, stabilito da Wolfgang Kayser[18], sarà
completamente capovolto. Se lo spazio modellava secondo la sua immagine il personaggio, in
Poliziano (ma non esclusivamente, anzì lungo l' intero Rinascimento, anche se con la

24
concorrenza di un motivo sconosciuto al poeta, cioè la magia nera) è proprio la figura femminile
che illumina la natura con una nuova aura di bellezza.

A questa creatura misteriosa si addice, si impone addirittura dal canone, il quadro naturale
primaverile e splendente, con cui pare di confondersi. Non sorge dunque il filo dell’innovazione:
la donna diventa dea del suo spazio, dominatrice della natura e dell’uomo; lei si trasforma in un
giardino tramite le associazioni della sua bellezza e delle sue membra agli elementi vegetali. La
donna stilnovistica e Laura rinascono in Simonetta, e indubbiamente rifiorisce nella sua figura la
fonte comune di questi poeti: la donna del Cantico dei Cantici, la bella sposa che si tramuta in
hortus conclusus, in un giardino lussureggiante, un eden femminile in cui l’amante ritrova la
conoscenza che illumina. La dimensione temporale si ancora nella stagione più bella, prediletta
e canonizzata, la primavera: è il momento in cui la natura rinasce e sboccia insieme al
sentimento amoroso. E crea la perfezione.

L’apparizione sovrannaturale di Simonetta richiama dunque i moduli della tematica amorosa,


tuttavia la contemplazione della bellezza femminile in Poliziano è sostanzialmente distante
dallo spirito degli stilnovisti, di Dante o di Petrarca: vi è assente ogni costruzione intellettuale e
ogni tormento mistico. Questi elementi vengono elegantemente sostituiti dai concetti platonici
idealizzanti, che esaltano e spiritualizzano la bellezza, da un lato, e da quelli naturalistici
dell’amore (presenti già in Boccaccio) come sentimento primordiale a cui non si può resistere,
che dev’essere colto nel momento del suo fiorire. Ci si trova in pieno Rinascimento, e non si
perde mai l’occasione dell’esortazione edonistica, talvolta infusa da una vena malinconica, al
carpe diem, molto spesso rivitalizzata tramite la sua forma più raffinata del carpe rosam (in
Poliziano nella descrizione del regno di Venere e nelle sue celebri ballate, in Lorenzo de’ Medici,
in Boiardo, in Ariosto, in Tasso).

La narrazione s’interrompe e tutto diventa descrizione e contemplazione, mentre il sentimento


d' amore scende in mezzo alla natura e si oggettiva nella rappresentazione della bellezza,
esaltata tramite paragoni mitologici (I, 46) e personificazioni delle qualità (I, 45) mirabili della
donna-ninfa, che racchiude in sé la donna stilnovistica, ma anche un evidente richiamo
medievale, quello del Roman de la rose, con le sue note allegorie a cui si rifanno forse anche i
Trionfi di Petrarca:

"Con lei sen va Onestate umile e piana..........................con lei va Gentilezza in vista umana,

e da lei impara il dolce andar soave.

Non può mirarli il viso alma villana,"[19]

Si riattualizza non soltanto la concezione stilnovistica, ma anche il suo linguaggio essenziale.

25
Se la maga ariostesca comporta in sé le tracce evidenti del topos dell' hortus deliciarum del
Cantico dei Cantici, nella sua forma laicizzata, nemmeno Simonetta ne è esente, anche se il
topos è sottoposto a un procedimento di elaborazione idealizzata.

La natura, umanizzata da sentimenti di felicità e fissata in un atteggiamento estatico di


contemplazione della persona discesa quasi da un' altra sfera, si fa partecipe anche del lutto
risentito dal giovane alla sua partenza:

“Feciono e boschi allor dolci lamenti

e gli augelletti a pianger cominciorno;

ma l’erba verde sotto i dolci passi

bianca, gialla, vermiglia e azurra fassi.”[20]

Cioè in un certo senso la natura specchierà o raddoppierà gli stati d' animo di Iulio. L’intertesto
petrarchesco s’inserisce un’altra volta, sottilmente, nella poesia delle Stanze: Canzoniere, 279,
1-4 (Se lamentar augelli, o verdi fronde/ mover soavemente a l’aura estiva,/ o roco mormorar di
lucide onde/ s’ode d’una fiorita e fresca riva), 301, 1-7 ( Valle che de’lamenti se’ piena,/ fiume
che spesso del mio pianger cresci,/ fere selvestre, vaghi augelli, e pesci/ che l’una e l’altra riva
affrena.// aria de’ miei sospir calda e serena,/ dolce sentier che sì amaro riesci,/ colle che mi
piacesti, or mi rincresci,) ossia 353, 1-2 (Vago augelletto, che cantando vai,/ o ver piangendo, il
tuo tempo passato).

L’incontro tra Iulio e Simonetta avviene in mezzo al bosco, in un “fiorito e verde prato” (I,
37,6); la presenza della fitta foresta si rivela necessaria sia per la caccia sia per la forza
dell’amore che vi s’insidia, ma allo stesso tempo offre anche protezione dagli sguardi curiosi e
non iniziati. È una sorta di recinto naturale che difende gelosamente il luogo ameno; il motivo
viene ripreso, e in un certo senso riformulato, da Ariosto, nell’episodio della fuga di Angelica nel
bosco adorno, dal quale invece si esclude ogni allusione al sentimento amoroso. Di
conseguenza la fiorita radura custodita e recintata si tramuta in una specie di giardino

incantato, quello dell’amore, della bellezza, dell’armonia e della giovinezza. Huguette


Legros[21] parla di una simile trasposizione anche nel romanzo di Tristano e Isotta; il secondo
incontro della coppia avviene sempre in mezzo alla foresta,in una radura, in una “loge de
feuillage”, un “berceau”, che nel senso stretto della parola non è un giardino. Tuttavia se il
momento si collega al primo incontro, avvenuto nel giardino, la forza del binomio natura
amena-amore vi s’incide e si allarga al secondo incontro, anche se esistono solo gli elementi
minimi del locus amoenus. L’importanza risiede nel senso di felicità. [U1] La stessa operazione si
realizza in Poliziano nel quale, in senso metaforico, la radura corrisponde al giardino dell’età

26
privilegiata, che preannuncia quello vero e proprio di Venere. Dunque, Iulio, per un istante,
intravede ed assaggia la dolcezza, e, nello stesso tempo, la malinconia dell' amore: una
schematica prefigurazione del regno di Venere che sarà il vero sogno umanistico del poeta.

Il regno della dea è l' illustrazione più eloquente dell' idealità platonica della civiltà umanistica,
traducibile in una ricerca di armonia e bellezza, raffinamento di gusto e sogno di un' umanità
perfetta. Se la ricerca di un modello ed il tentativo di emularlo caratterizzava il primo momento
paesaggistico, Poliziano cede il posto, in questa descrizione, secondo L. Malagoli[22] all'
immersione nel mito vero e proprio. La sua creazione si libera da ogni sottomissione o
costrizione ad esso. Lo sprofondarsi negli abissi mitici si palesa sin dalla collocazione del regno
nell' isola Cipro (Cipri), isola reale ma anche mitica, patria di Venere, la cui evocazione segna la
distanza incolmabile (condizione sine qua non del topos del locus amoenus) tra la realtà
esistente e la fantasia idealizzatrice del poeta. La sacralità del luogo viene confermata ed
incrementata dal divieto di penetrare nel giardino, interdizione che aspira all' esclusione totale
della minima traccia umana. A questo livello non esistono persone elette e privilegiate, pronte,
né secondo criteri estetici né magici, a varcare i confini interdetti. L' esperienza del giardino,
frequentemente incontrata nel Quattrocento e Cinquecento epici (Boiardo, Ariosto, Tasso) ne
sarà assente, poiché tutto viene fissato una volta per sempre sul piano del rito, o
indirettamente e staticamente presente sotto la forma degli intagli sulla porta, che ritraggono
suggestivamente le varie storie d’amore. D' altronde qui risiede anche il senso allegorico di
questo spazio, in cui manca la possibilità di ogni variazione e di novità, sicché il giardino
configura in questa grandiosa allegoria fra terra e cielo una "progressiva elevazione da valori
terreni a valori metafisici"[23]. Alla stessa conclusione arriva anche Gh. Ghinassi, sostenuto da
E. Bigi[24]: la tecnica della varia e squisita erudizione serve come “mezzo per trasfigurare la
realtà e immetterla in un sopramondo umano”.

La descrizione del giardino viene edificata sull’ archetipo convenzionale del topos, il quale però
viene sottomesso ad un processo di arricchimento spettacolare, che rispecchia il procedimento
retorico, tipicamente rinascimentale, dell' amplificatio. Di conseguenza il topos racchiuderà in
sé la quintessenza della natura che, secondo la critica, soffrirà una metamorfosi che secondo
alcuni è di umanizzazione (D. Puccini), per altri di divinizzazione (R. Ramat)[25]. La prima
opinione viene condivisa da numerosi altri studiosi, come Ruggieri[26], Malagoli che parla di
mito umanisticamente rivissuto e concepito: “un mito che dà sentimenti quasi umani alle cose
della natura e attributi quasi divini alle cose umane”[27]; o Ghinassi che parla, a questo
proposito, di “visione quasi animistica della natura”, in cui la metafora “confina con la
personificazione e rischia continuamente di confondersi con essa”[28].

Tutto viene rappresentato in un perpetuo clima primaverile, in cui la presenza dei fiori
variopinti apre la visione fantasiosa del poeta e prepara l' estasi contemplativa del lettore:

27
"Zefiro il prato di rugiada bagna,

spargendolo di mille vaghi odori:

ovunque vola, veste la campagna

di rose, gigli, vïolette e fiori;"[29]

La descrizione continua sempre in una forma elencativa, e nemmeno la compresenza di specie


incompatibili tra loro intacca la grandiosità di questo giardino, la cui importanza maggiore
risiede nell' eleganza e nell’ espressività della parola. La realtà dell’arte vince la realtà di questo
mondo. Il giardino è il frutto di un' armonia perfetta, all’ interno del quale alternano colori
delicati ed intensi, ma anche la finezza e la sensualità. Ad esprimere la dolcezza e l’allegria
perenni degli elementi naturali, il poeta ricorre ad una frequente diminutivizzazzione: dilettoso
monte, lieto pratel, aurette, erbette, arbuscelli, ghirlandetta, fiumicello. L’altro aspetto costante
e dominante - inerente d’altronde all’essenza del giardino dell’amore, la sensualità, irrompe sin
dall’inizio della descrizione. Un’aria di profusa voluttà invade le componenti del locus amoenus:
“lascive aurette/ fan dolcemente tremar l’erbette” (I, 70, 7-8), “cantano i loro amor soavi
augelli” (I, 71, 4). L’umanizzazione della natura diventa evidente, tutti gli elementi vi sono
sottomessi: la fontana (I, 80-81) e la sua acqua “dalle cui labra un grato umor distilla” (I, 81, 5);
la vite (I, 84) che versa il suo dolce vino, chiaramente quello dell’ebbrezza amorosa (il motivo
del vino riappare in Ariosto, in una forma molto più palese).

L' elevatezza del lavoro artistico si manifesta continuamente tramite le figure mitologiche che,
in realtà, nascondono personificazioni stupende alludenti a fiori (in questo caso l’umanizzazione
e la divinizzazione si sovrappongono), e denotano, nello stesso tempo, strutture figurali a
doppio senso, in quanto fiori ed in quanto vittime d' amore. Si riattua così il modello
petrarchesco: nell’epistola I, 4 delle Familiares, Petrarca aveva adoperato lo stesso
procedimento, richiesto dall’ingegno artistico, per lo stesso arricchimento del suo giardino. Ma
era ricorso alla preziosità mitologica solo per elencare raffinatamente le specie di fiori, alberi,
animali. Il duplice senso, che acquistano in Poliziano, gli è interamente estraneo. Così i miti
riattuati di Narciso, di Clizia, di Adone acquistano una dimensione di grande freschezza e
vivacità, anche se simboleggiano solo i fiori eterni del giardino, fiori che hanno sofferto però
l’esperienza amorosa:

"L'alba nutrica d'amoroso nembo

gialle, sanguigne e candide vïole;

descritto ha'l suo dolor Iacinto in grembo,

Narcisso al rio si specchia come suole;

28
in bianca vesta con purpureo lembo

si gira Clizia palidetta al sole;

Adon rinfresca a Venere il suo pianto."[30]

Le costanti vegetali del topos soffrono la trasformazione, di cui ho già accennato, e la


divergenza dell’opinione della critica sembra piuttosto attuarsi in una simbiosi perfetta, poiché i
fiori rivelano, tramite la personificazione dei lati umani, ma si connotano indubbiamente anche
da caratteri divini per il sostanziale richiamo mitologico, che proietterà tutto in una dimensione
immobile. Secondo R. Ramat[31] la natura appare nella sua forma divina, primigenia, plasmata
tutta dal divino artista. Sembra quasi che il poeta riprenda l' opera creatrice di Dio, rivestendosi
della sua onnipotenza. La natura preziosa ed eterna viene attentamente protetta non più dal
bosco denso, bensì da un muro d’oro. E un momento importante, visto che la corposa presenza
delle gemme (la derivazione dantesca è palese: Purgatorio, VII, la valletta amena dei principi
negligenti) non sarà affatto trascurabile. Le gemme conferiscono preziosità alla descrizione, in
ogni caso già traboccante di ricercatezza.

Il giardino è sprofondato nell’atemporalità (I, 72), la “lieta Primavera mai non manca”, le
stagioni e gli anni non si succedono. La tradizione classica (Omero, Virgilio, ecc.) e quella
romanza (Roman de la rose, Boccaccio, Dante) hanno fissato l’archetipo del giardino eterno,
che viene rivisitato qui dal poeta delle Stanze. Ma Poliziano introduce l’aspetto paradossale,
che corrompe il tempo mitico immemore, tramite la stupenda ottava della rosa, il fiore
“eterno” e prediletto di Venere:

“ma vie più lieta, più ridente e bella,

ardisce aprire il seno al sol la rosa:

questa di verde gemma s’incappella,

quella si mostra allo sportel vezosa,

l’altra, che’n dolce foco ardea pur ora,

languida cade e’l bel pratello infiora.”[32]

Dietro la metafora si nasconde l’immagine del tempo umano; i tre momenti, che si presentano
– sboccio, fioritura, appassire, richiamano l’arco della vita, e non esclusivamente quello del
fragile fiore. Nelle deliziose immagini si intuisce elegantemente la psicologia femminile. In un
certo senso si annulla o almeno si turba l’atemporalità del giardino, la cui atmosfera si tinge,
per un attimo, di malinconia, di quella malinconia classica per l’attimo sfuggente. Ma la
fugacità, così evocata, della vita, si esalta la vita, e mette in primo piano il periodo prediletto

29
della giovinezza che dev’essere sfruttato pienamente. È il classico carpe diem, più esattamente
la sua forma squisita, il carpe rosam, che a partire da Poliziano è destinato a ricorrere più volte.
Eccone due esempi, solo per una brevissima illustrazione: nello stesso Poliziano appare nella
famosa ballata delle rose (“quale scoppiava della boccia ancora;/ qual’eron un po’ passe e qual’
novelle./ Amor mi disse allor: - Va’, cô’ di quelle/ che più vedi fiorire in sullo spino –“ e la
celebre esortazione nella chiusa, che nelle Stanze è solo sottintesa: “cogliàn la bella rosa del
giardino.”[33]) oppure, in maniera sorprendentemente analoga, in Lorenzo de’ Medici, nel
Corinto (“Eranvi rose candide e vermiglie:/ alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,/ stretta prima,
poi par s’apra e scompiglie;/ altra più giovanetta si dislega/ a pena dalla boccia; eravi ancora/
chi le sue chiuse foglie ll’aer niega;/ altra, cadendo, a pie’il terreno infiora.” E la stessa
esortazione finale: “Cogli la rosa o ninfa or che è bel tempo.”[34]). Ma numerose ottave
saranno dedicate alla descrizione dell’effimerità della rosa da parte di Boiardo, Ariosto e Tasso.

L' impressione sontuosa e lussuosa, e al contempo lussureggiante del giardino scaturisce


proprio dall' enumerazione pressoché esaustiva degli esemplari botanici, dietro cui si svela il
pretesto polizianesco di rivelare una magnifica filologia poetica. La pomposità descrittiva
particolareggiante delle piante comporta in sé l' aspetto allegorico della perfezione della forma
letteraria. E si pensi anche al vasto catalogo di alberi, che stupisce per la varietà delle forme e
dei colori. Lo sfarzo descrittivo predomina anche nell’ elenco degli animali che popolano il
giardino, animali che vengono colti nella loro naturale istintività e sensualità. L' immersione
mitica atemporale concede ad essi una convivenza pacifica, sebbene si trattasse delle più feroci
fiere (tigri, leoni, serpenti) che vivono accanto ad animali mansueti (conigli, lepri,
cervi,giovenchi). I ritratti vengono raffigurati con tinte abbastanza realistiche da rischiare di
compromettere “leggermente” l’atmosfera di spettacolo sovrannaturale. Ma l' apparizione degli
uccelli ristabilisce l' aria di festa continua della natura. Tramite la loro veste acceccante a colori
intensi, gli uccelli conferiscono al paesaggio un aspetto paradisiaco, che si estende
naturalmente al giardino di amore, sprofondato sempre nell' aura dell' eternità.

La forza che insufla una vita pacifica e imbevuta di sensualità al mondo vegetale e animale, è
Amore; la funzione aperta della descrizione coincide con la rappresentazione mitica della sua
onnipotenza e onnipresenza. In questa direzione si può spiegare, secondo F. Tateo, la centralità
ideale del giardino di Venere nell’economia delle Stanze e, implicitamente, il naturalismo del
poeta, dato che, continua lo stesso studioso, si raffigura così l’aderenza consapevole della
natura “alla dottrina dell’amore come cosmica potenza generatrice e rigeneratrice, che circola
nella cultura filosofica del Quattrocento”[35].

L’operazione fondamentale che Poliziano compie è quella dell’imitazione della natura, una
natura che, afferma giustamente Venturi, non ha bisogno del modello “reale”: “il modello
letterario è autosufficiente”[36]. Si è parlato della cosiddetta “scoperta” della natura, ma si può

30
affermare un’altra volta, sostenuti dalle lucide spiegazioni di Venturi, che essa si sovrappone,
con la riscoperta della descriptio, con la rivisitazione di una natura artificiale, perfetta che serve
da sfondo ideale per la favola altrettanto idealizzata e mitizzata. L’esigenza della descrizione
risponde al bisogno platonico della bellezza e dell’armonia. In compenso la narrazione è scarsa,
prevale la rappresentazione dei primi piani naturali. Tutto diventa poesia (arte) sostenuta dal
canone della bellezza. Si scandisce consapevolmente la parola artistica che fa contaminare le
fonti, che definisce il giardino come una collezione di miti, come un’eclettica accumulazione
delle fonti e dei modelli. Di conseguenza il giardino offrirà la forma suprema della natura, la sua
quintessenza, che sancisce al contempo la poesia.

Lo stesso Venturi[37] definisce il giardino lussureggiante di Venere come un “giardino mentale”,


che a partire dal nostro poeta conoscerà una grande fortuna, poiché il motivo si sottomette ad
un processo di astrazione, il referente (la natura) implicitamente scompare. Rimane
esclusivamente la cultura letteraria, la dotta fusione delle fonti. Il giardino coinciderà con vari
luoghi mnemonico-descrittivi. I celebri giardini epici tardo quattrocenteschi e cinquecenteschi
saranno tutti debitori intrisi del modello polizianesco, mentre l’elemento distintivo sarà fornito
dal ricorso alla magia. Per Poliziano basta l’immersione nel mito, mentre Ariosto e Tasso, che lo
seguono fedelmente nel processo d’astrazione, nella ri-costruzione del loro eden
tendenzialmente profano, faranno anche appello alla magia nera. Proprio per questo fallisce il
loro tentativo, o è destinato a una breve vita. Dopodiché l’Eden originario è svanito per il
peccato originario, l’uomo ne può recuperare solo una copia profana e perciò caduca. La natura
di questo nuovo Eden diventa il sigillo inequivocabile della sua labilità e illusorietà. In questo
senso Poliziano eccella nella ri-costruzione, poiché ignora la presenza umana, riuscendo ad
illustrare il proprio alto ideale, che d’altronde si sovrappone a quello di un gruppo eletto e
raffinato che si costituisce alla corte medicea. È altrettanto vero che la figura dell’intellettuale
cortigiano diverge fondamentalmente da quella due-trecentesca: almeno nella
rappresentazione idealizzata l’impegno politico e sociale mancano. Di conseguenza l’aspirazione
laica verso l’alto, l’evasione da una realtà talvolta sopraffacente, non farà altro che isolare i
poeti rinascimentali in una dimensione spesso irreale, favolosa.

Il sentimento dominante di quest'ambiente idillico si traduce nella felicità immacolata e nella


suprema armonia della natura pura. L’esemplarità naturale si sposa con la perfezione della
poesia come forma suprema di bellezza e di armonia. Il topos si realizza per mezzo della
virtuosità poetica e si arricchisce di un sistema metaforico e stilistico elegante e raffinato.
L’amore per la parola rara, dotta, il frequente ma anche raffinato ricorso alle figure retoriche
svelano l’”anima filologica”, cioè umanistica di Poliziano, in cui questa passione diventa,
conformemente quanto scrive Ghinassi, “la restituzione ai dotti di un cimelio storico gravido di
memorie”[38].

31
La descrizione del giardino segue l' ideale platonico dell' epoca per ciò che riguarda l' ordine e
l' armonia che vi regna. Poliziano ci rivela una natura perfetta con cui rivalizzerà l' arte perché
poi i due termini diventino intercambiabili.

L' unico motivo che compete con l' esemplarità naturale è il palazzo alla cui rappresentazione
Poliziano dedica tutta la maestria dell’ artista. Il fasto ornamentale dell' edificio (le sole pietre
utilizzate sono le gemme: “d’oro e di gemme un gran palazzo folce”, I, 93, 3; “La regia casa il
sereno aier fende,/ fiammeggiante di gemme e di fino oro,/ che chiaro giorno a meza notte
acende;/ ma vinta è la materia dal lavoro”, I, 95, 1-4; “Le mura a torno d’artificio miro/ forma
un soave e lucido berillo;/ passa pel dole oriental zaffiro/ nell’ampio albergo el dì puro e
tranquillo;/ ma il tetto d’oro”, I, 96, 1-4) aderisce mirabilmente all' aura speciale che circonda
chi vi dimora: la dea dell' amore. L’ elemento favoloso, che è stato sopraffatto dalla profusione
descrittiva del giardino riprende, per un istante, la posizione sovrana, per dissolversi di nuovo
nelle "astrazioni fastidiose", secondo Giuseppe De Robertis[39], del lungo corteggio degli amori,
cioè delle varie trasformazioni sofferte dalle più illustri figure mitologiche.

Il preziosismo mitologico irrompe dunque nella scena per dare la pennellata mancante alla
perfezione del quadro. Le minute descrizioni mitologiche, che risalgono a Ovidio e ai Triofi di
Petrarca, nascondono lo stesso ideale enciclopedico già scandito nel caso dei lunghi cataloghi
vegetali, animali e di pietre preziose, che danno risalto alla stravagante ricchezza del giardino.
La superiorità dell’arte viene convalidata dunque dalle eterne storie d’amore effigiate e,
soprattutto, dal lavoro dell’artista. Sebbene fissati nei bassorilievi che ornano le porte, le
illustrazioni si animano di vita e di naturalezza, conferite proprio dall' esemplarità della materia
intagliata. L' elenco fastoso (le varie metamorfosi di Giove, di Nettuno, oppure le note storie di
Apollo e Dafne, di Teseo e Arianna, di Proserpina e Pluto, ecc.) culmina nella raffigurazione della
nascita di Venere, che sembra la vittoria dell’arte sulla natura, tanto la prima sembra imitare a
perfezione la seconda:

"Vera la schiuma e vero il mar diresti

e vero il nicchio e ver soffiar di venti;

la dea negli occhi folgorar vedresti

e'l cel riderli a torno e gli elementi;.........................

Giurar potresti che dell' onde uscissi

la dea premendo colla destra il crino,

coll' altra il dolce pome ricoprissi;"[40].

32
L' anafora raddoppiata ed i verbi "veder" e "giurar" non fanno altro che confermare la vivacità
autentica e spontanea del ritratto. L’iconicità, l’istanza alla visualizzazione della perfetta
bellezza della dea vengono colte, com’è ben noto, da Botticelli, che nella sua pittura offre una
visione affine. Secondo Gombrich[41], “La nascita di Venere” si nutre di due tipi di correlazione:
degli interessi filosofici di M. Ficino, e delle “Stanze” di Poliziano, il celebre pittore essendo
l’iniziatore dei monumentali dipinti mitologici. Lo stretto legame tra Poliziano e Botticelli, del
resto arcinoto, viene confermato anche da P. Francastel, il quale afferma che lo spazio del
Rinascimento è “il prodotto di un’attitudine dello spirito umano e non della scoperta di un
sistema di rappresentazione oggettiva del mondo”, è la “conquista di uno spazio fittizio”[42]. Ed
è proprio quello che fa non solo Botticelli, ma direi, anche Poliziano.

Il regno di Venere simboleggia dunque la forma più alta della vita, cioè quella contemplativa.
A questa conclusione arriva anche Rosario Assunto[43], secondo il quale la bellezza del
giardino, che si scopre al contemplatore, è una bellezza ideale che si manifesta come ordine,
eleganza e simmetria e la cui estetica si definisce come elevazione poetica della natura all' Idea.

http://www.oocities.org/marin_serban/fekete3.html

Il locus amoenus in Petrarca ossia la metafora di uno spazio


Monica Fekete

Valchiusa! Il nome che si associa spontaneamente a questa località della Provenza è quello del
poeta, studioso, trattatista Petrarca. Ma che cos’è Valchiusa? Rispondere alla domanda si rivela
difficile. Non credo esista un’unica risposta, dubito che questo spazio talmente aperto e
contemporaneamente tanto chiuso, che sovrasta a tanti altri possibili ritiri, abbia un solo
significato. Si tende verso la polivalenza che permette il connubbio tra reale e immaginario. Ma
esiste un confine determinabile tra i due estremi? È veramente Valchiusa per Petrarca la grande
scoperta della natura? O è un semplice scenario della solitudine? Oppure è la condizione sine
qua non dell’otium letterario, o la cornice oltremodo stilizzata, idonea alla bellezza femminile?

Indifferentemente dal senso attribuito alla terra petrarchesca, rimane indubbio il fatto che il
paesaggio provenzale si converte in un locus amoenus, nettamente definibile in quanto tale non
esclusivamente nel Canzoniere, ma anche nel De vita solitaria, in alcune delle Familiari, in
numerose epistole metriche, e nei Trionfi. La presente relazione si soffermerà sulle prime due
opere menzionate nonché su alcune epistole metriche.

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Il De vita solitaria regala al lettore luoghi indimenticabili per comprendere il significato
profondo della solitudine in cui si ritira deliberatamente Petrarca. Infatti non si può che
concordare con l’opinione di Giorgio Ficara che immagina Valchiusa come il "teatro della
solitudine" [1] considerandola il più raffinato, bello, armonico palcoscenico dell’umanista,
ansioso di rifugiarsi in mezzo alla natura e di tornare indietro nel tempo per scoprire la serenità
degli antichi, per penetrare nella profondità della cultura classica.

In un certo senso Petrarca rifà qui l’iter della "bella scuola" (il sintagma dantesco rafforza la
necessità dell’esistenza di un canone degli auctores e l’obbligo a ricorrervi), anche se gli intenti
dei due poeti differiscono. Ma perdura sia in Dante sia in Petrarca l’ammirazione per gli spiriti
magni e, non esclusivamente, dato che la loro collocazione in un luogo ideale, anzì in un’utopia
personale, diventerà un saldo punto comune che collegherà le loro affinità nella predilezione
per un mondo letterario scomparso ma rinato per la forza della riscoperta e della fantasia.
Sebbene Dante collochi idealmente il suo primo locus amoenus nel luogo consacrato alla
punizione umana, cioè nell’ Inferno, nonostante questa sistemazione curiosa, è ben presente
tutto l’armamentario tipico del topos:

Venimmo al piè d’un nobile castello

sette volte cerchiate d’alte mura,

difeso intorno d’un bel fiumicello

Giugnemmo in prato di fresca verdura [2].

riuscendo ad illuminare le tenebre infernali grazie alla luce della sapientia, e al tempo stesso a
conciliare la dualità del poeta e quella del cristiano. Sebbene il dissidio interiore non sia
estraneo neppure a Petrarca, le sue ragioni di ‘creare’ uno spazio ideale si allontanano da quelle
dantesche. Il termine ‘creare’ può essere giudicato sbagliato da un certo punto di vista, poiché
Valchiusa esiste, è uno spazio concreto, rintracciabile sulla carta geografica – una piccola valle
solitaria e amena, a 15 miglia da Avignone, dove nasce la Sorga; le descrizioni fatte dal poeta
stesso sono numerose, ne riporto due: "in quella mia campagna che t’ho detto, che si nasconde
presso la sorgente limpida e sonante della Sorga a una distanza di quindici miglia" [3] o "[…] su
un’orrida rupe, Avignone, una volta Avenione, dove oggi il Romano Pontefice Massimo,
abbandonata la propria sede e a dispetto della stessa natura, si sforza di costruire immemore
del Laterano e di Silvestro, la capitale del mondo. Di qui, sempre risalendo la corrente tre miglia
o poco più, ti verrà incontro, a destra, limpido come argento, un altro corso d’acqua; piega il
tuo cammino: è la Sorga, il più tranquillo dei fiumi" [4]. Ma questo spazio viene rivestito da
artifici poetici che lo proiettano in una dimensione idealizzata. Petrarca è alla ricerca di una

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conferma. Perciò ricorre ad un lungo elenco di nomi dei diversi "solitari" (scrittori, filosofi,
religiosi, imperatori, settanti esotici appartenenti a terre lontane, mitiche) disposti ad
autorizzare la sua propria solitudine, mai minacciata dall’anxietas, dal tedium e dall’assenza
della cultura. Di conseguenza Valchiusa si trasforma nella cornice adatta al ritiro dal mondo, in
un locus amoenus che propone l’alternativa, che diventa l’"altrove" tanto desiderato in mezzo
al caos, alla "confusione infernale" [5]. Alla fuga dalla curia avignonese subentra l’"angelica
solitudine" [6] e la libertà conquistata. La netta contrapposizione tra città e campagna [7] (in
quanto luogo appartato) viene dichiarata sin dal proemio; vengono palesati tanto gli effetti
malefici della prima quanto quelli benefici della seconda: "infelice abitatore delle città"/"l’uomo
solitario e libero da affari, sereno"; il cittadino viene "trascinato, spinto, accusato, diffamato"/ il
solitario, allegro, si reca "nel bosco vicino, libero e tranquillo", e si ferma "non appena raggiunto
un sedile di fiori" e "prorompe con devozione, nelle quotidiane lodi di Dio (tanto più
amabilmente se il lieve mormorio di un ripido torrente o dolci richiami di uccelli si
accompagnano ai sospiri devoti)" [8].

Petrarca si reca a Valchiusa nel 1337 e acquista una casetta presso la Sorga; la le necessità del
ritiro a 34 anni (quasi "Nel mezzo del cammin di nostra vita") sorge da motivi personali, che il
poeta fa coincidere con la nascita di suo figlio da una donna che rimane sconosciuta e con la
morte della donna amata da Gherardo. Le vere ragioni invece sembrano dipendere piuttosto
dal bisogno urgente dell’otium dedicato alle lettere, di reperire "un luogo di pace adatto alla
missione dell’intellettuale e dell’umanista" [9]. Il rifugio presso la Sorga, lontano dal chiasso
cittadino, si offre al poeta come l’unico luogo veramente propizio per il compimento degli studi
e per la scrittura, poiché la sua attività letteraria risalente ai vari soggiorni valchiusani è
impressionante (Africa, Bucolicum Carmen, Epystole, De viris illustribus, De vita solitaria, De
otio religioso, Rime). Perciò l’alternativa non soltanto si fa possibile, bensì diventa reale e
duratura. Non si tratta solo di un mero artificio poetico alla ricerca dell’idillio e destinato ad una
vita effimera, atto a proporre l’ 'altro mondo', contrapposto a un presente ingombrante che
schiaccia l’individuo. Quasi sempre l’alternativa contiene in sé, sin dall’inizio, i germi della sua
scomparsa imminente. Eppure, paradossalmente, non ne è esente nemmeno Petrarca: si tratta
del Petrarca poeta dell’amore risentito per Laura (è un discorso però che deve esser fatto
quando tratteremo del Canzoniere) e dell’io diviso e frammentato che sta alla base delle sue
rime (si parla addirittura dell’assenza della natura e della presenza esclusiva degli stati d’animo
che modulano il paesaggio già stilizzato).

Riprendendo il filo del nostro discorso, la vita solitaria si offre come una sorta di medicina per
l’anima sopraffatta dal chiasso cittadino, è il conforto che necessita per acquisire la libertà
spirituale. Siccome Petrarca abbandona fisicamente il frastuono, si rende urgente la scoperta di

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un altro luogo: come la solitudine sine literis è simile alla morte (afferma lo stesso Petrarca nelle
Seniles, 82, 4), allo stesso modo diventerebbe angosciosa una solitudine senza un luogo sicuro
di approdo. A questo punto si apre un gran divarico tra Petrarca e i suoi cari antichi; secondo
questi ultimi (certamente si tratta solo di una parte di loro) la solitudine si può godere, anzì si
deve godere dovunque: può esistere un ritiro immaginario possibile sia in mezzo al caos sia nel
seno della natura. L’atmosfera inquinante si può allontanare tramite un semplice distacco
mentale. La contraddizione diventa palese, se si confrontano le opinioni di Quintiliano con
quelle petrarchesche. Nonostante tutti e due accettino l’idea di una solitudine proficua e adatta
ai dotti, realizzata in un luogo appartato, "non si deve – secondo Quintiliano - […] dare ascolto a
quanti ritengono luoghi adattissimi per questa attività boschi e selve, perché il cielo aperto e
l’amenità dei luoghi innalzano l’animo e rendono più lieto lo spirito; questo genere di ritiro mi
sembra davvero piuttosto una cosa piacevole che un incentivo agli studi" […] "Pertanto
l’amenità delle selve e il vicino scorrere dei fiumi e il fruscio del vento tra i rami degli alberi e il
canto degli uccelli e la stessa libertà di guardarsi attorno […] attraggono a tal punto che questo
piacere mi sembra che attenui più che aumentare la concentrazione del pensiero" [10].
Petrarca confuta questa tesi, servendosi sempre dei classici per cui il luogo ameno si rivelava
tutt’altro che dannoso allo studio. In questo senso bastano due nomi a convincerci: Marco
Tullio e Virgilio Marrone, il primo cercava "querce frondose e ameni recessi […], un isolotto
posto nel mezzo di un fiume", mentre il secondo si recava spesso "sui monti e nei boschi,
aggirandosi tra il denso fogliame" [11].

Infatti secondo Petrarca nulla è più caro alle Muse che il ritiro nei boschi, "in luoghi verdeggianti
e in riva a un gorgogliante ruscello" [12] (Valchiusa!). Di conseguenza, garantita sempre
dall’autorità degli antichi, Petrarca propone la propria "alleanza tra bellezza dei luoghi e
bellezza dell’anima" [13], un compromesso ideale perché l’uomo possa realizzare le sue più
autentiche aspirazioni, perché possa liberarsi dall’alienazione e possa sentirsi più vicino a Dio e
a se stesso.

La grande difesa della solitudine e, conseguentemente, del locus amoenus, continua trovando
conferma in un lungo elenco di nomi illustri. Petrarca combatte con veemenza l’opinione
secondo cui la solitudine non sarebbe altro se non un nido di azioni malvagie, di empie passioni.
La conclusione è che la solitudine è una condizione sina qua non del dotto, dello studioso, del
poeta perché goda di uno stato di dedizione totale allo studio delle lettere. Ovviamente si tratta
di un topos ricorrente della letteratura latina; la condanna della vita affannosa della città e
l’esaltazione della vita semplice della campagna torna più volte nelle pagine di Virgilio, Orazio.
La differenza risiede nella prospettiva: Petrarca non si limita a riprendere quella classica, ma
anche quella cristiana. Si ristabilisce così, in un certo senso, sulle tracce dantesche, la continuità
tra classici e verità cristiana. Se Dante affidava a Virgilio il compito d’ illuminare la strada dei
suoi successori, in Petrarca, la stessa parte sarà recitata da un coro intero di dotti.

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Petrarca propone un processo d’ interiorizzazione assoluta della sapienza, attuabile solo,
secondo Marco Ariani, tramite "l’elezione di un luogo segreto del cuore in cui conversare con gli
antichi, lontano dagli smodati desideri, dal tempo, in cui si plachi l’inquietudo animi e rinasca
dal profondo di una vocatio assoluta, l’angelicus homo" [14].

Tuttavia, per creare la disposizione necessaria al colloquio con gli antichi nonché alla
composizione letteraria propria, la sola cornice idillica non si rivela sufficiente; Petrarca vi
aggiunge ancora due elementi non trascurabili: la presenza indispensabile degli amici, e la
sottrazione alle lusinghe femminili. Le visite degli amici con cui condividere i propri pensieri e la
dotta conversazione con la folla degli auctores, diventano fattori essenziali al poeta solitario,
che, pure isolato dal male cittadino, non può rinunciare alla comunicazione. Egli non si
trasforma in un selvaggio, mantiene invece la "giusta misura" ciceroniana. Ma ovviamente si
tratta di un universo chiuso e il criterio di selezione è severo – si tratta di un gruppo di amici,
una sorta di élites che si rendono compartecipi degli stessi gusti. Proprio quella mancanza della
giusta misura viene rimproverata ai bramani che, sebbene siano citati come modello di una
razza che vive in una regione solitaria, oltre il Gange, dove "l’aria è assai salubre, non molto
lontano […] da quei luoghi in cui si crede sorgesse il paradiso terrestre" [15], mena una vita
paragonabile a quella degli animali. Pare si tratti di una setta che ha addirittura scoperto il
paradiso: filosofavano andando nudi per le più remote solitudini, "il loro cibo è costituito da
erbe o bacche, le loro vesti, se pure ne hanno, sono fatte di fronde; le loro case infine sono di
rami, i letti di fiori; si dissetano alle sorgenti" [16]. Il giardino edenico sembra rinascere in
questa terra lontana, proprio dalle costanti del locus amoenus, costanti tutte presenti e tali da
portare chi ci vive a un modo di vita primigenia, anche se paradossalmente non priva però di
cultura. Petrarca avverte i lati positivi dei bramani, ma non si può astenere da un giudizio
negativo che accusa i settanti di una trascuratezza rozza e disumana, che si manifesta nella loro
nudità e nella loro indifferenza al cibo. Ci si imbatte in una sfumatura di contraddizione nelle
affermazioni di Petrarca, dato che lui rinuncia al lusso cittadino, considerato contrario alle sue
preoccupazioni, tuttavia in mezzo alla cornice idillica valchiusana Petrarca trasferisce un minimo
di conforto, concretizzato nella casetta e pure nel cibo, anche se frugale e sobrio.

L’altro elemento costitutivo della vita solitaria – la mancanza della presenza (forse tentazione)
femminile provocherà un altro contrasto. L’affermazione che le persone per cui il principale
diletto sono i boschi e i prati devono assolutamente evitare le lusinghe femminili perché "chi
trascurerà di fare ciò, sappia che dovrà essere scacciato dal paradiso della solitudine per quella
stessa ragione per cui il primo uomo fu cacciato dal paradiso della gioia" [17]; non farà altro che
urtarsi violentemente contro il senso originario di Valchiusa, contro a quello che suppone la sua
esistenza, cioè Laura. La teoria sarà dunque lodevole, ma la messa in pratica invece viene

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spesso intrappolata dal dissidio interiore. Benché Laura manchi nell’elogio della vita solitaria, il
suo nome è indissolubilmente legato ai dintorni della Sorga e, implicitamente, non di rado, il
rifugio isolato del poeta sarà affollato dai fantasmi e dalle epifanie della donna. In un certo
senso Valchiusa diventa un vero e proprio paradiso grazie all’assenza-presenza femminile.

Nonostante la compagnia scelta degli amici e il fantasma femminile, Valchiusa resta un nido
della solitudine. Come paesaggio, stilizzato, il locus amoenus esteriore ("Ti scorre accanto il tuo
Sorga, re delle sorgenti, […] vicino a te è il rifugio di Valchiusa, assai vasto e ameno; così infatti
la chiama la gente del luogo, così la natura ha voluto che si chiamasse quando, circondata da
colline, l’ha posta fuori da ogni strada e da ogni concorso d’uomini" [18]) è trasfigurato in uno
interiore, dell’anima. Desiderato da molti, è raggiungibile da pochi eletti. Gli ingredienti di
questo giardino mentale lussureggiante sono "un buon numero di libri, una dolce passione per
la lettura e la capacità di comprendere e di ricordare accordatati dal Cielo e sviluppata da uno
studio che non conosce soste" [19].

Il paradiso interiore, rafforzato e rallegrato dalle bellezze della natura, si impegna a compiere la
via purificativa tramite la meditazione e la preghiera, e a far raggiungere allo stesso tempo
l’intento massimo del Petrarca umanista e cristiano, vale a dire quello dell’elevazione
dell’anima mediante lo studio dei classici e il virtuosismo della poesia, un’esperienza unica e
personale, condivisa con il cerchio ristretto degli amici eletti.

La barriera che si apre e si chiude a seconda del criterio dell’amicizia e che permette l’accesso al
mondo culturale e interiore di Petrarca, funziona anche a livello dello spazio. Quest’ultimo si
configura come un luogo chiuso, cioè un giardino. Se tutto il libro contiene allusioni in questo
senso, esse si trasformeranno in chiusura del trattato in una vera e propria affermazione: "lì nel
mio giardinetto" [20]. Il fatto è essenziale. Non si può negare in Petrarca una grande novità: è
lui che scopre veramente, da un certo punto di vista, la natura, più concretamente il paesaggio
del giardino. Si riconosce in lui uno degli anticipatori del grande mito del giardino, così caro al
Rinascimento.

Che il giardino del De vita solitaria sia popolato dai fantasmi del passato, dagli spiriti antichi che
elogiavano la sapienza, è innegabile, però il Petrarca cristiano non può chiudersi nel cerchio dei
dotti e trascurare un altro lato, non meno importante, che viene varie volte esplicitato nel libro.
Il Parnaso solo è insufficiente, la perfezione viene offerta da una sorta di dedica: Petrarca
investe il suo giardino di sacralità e lo offre, solenne e reverente, a Maria, "il cui parto ineffabile
e la cui feconda verginità abbatterono tutti gli altari e i templi degli dei" [21]. La lode della vita
libera di incombenze e della sua componente essenziale, il giardino, si conclude in chiave
cristiana. La fede di Petrarca, definibile come ascesi alle verità eterne tramite la cultura e
l’esercizio poetico, acquista in questo modo la sua maggiore intensità.

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Se il paesaggio di Valchiusa viene circoscritto nel De vita solitaria in quanto giardino, sempre in
questa direzione vanno varie altre definizioni estratte dai suoi scritti. Ne offriamo un assaggio
brevissimo, ma altrettanto squisito:"orto pieno di fiori" (Epistole metriche, III, 3); "questo mio
orticello", "mio orto" (Epistole metriche, III, 1); "piccolo ombroso giardino" (Le Familiari, VI, 3).

Per guadagnarsi il luogo privilegiato c’è da percorrere una strada abbastanza lunga e difficile. La
natura non si offre di per sé come locus amoenus, come giardino meraviglioso, tutt’al contrario,
le forze naturali si oppongono acerbamente ai vari tentativi di appropriazione, intrapresi del
poeta, di quella intima parte dell’immensità naturale. Petrarca si trasforma in un vero e proprio
guerriero e compie delle gesta straordinarie, che si concretizzano in ripetute battaglie,
combattute al fine di domare la natura. Una delle epistole metriche rende mirabilmente questo
sforzo sovrumano: si tratta della III, 1, indirizzata al cardinale Giovanni Colonna, generoso
prottetore di Petrarca. Vi si narra della lotta con le Ninfe della Sorga, deputate a raffigurare gli
elementi naturali che resistono alla volontà ricreatrice. Il paesaggio di Valchiusa comporta in sé
l’aspetto essenziale dell’evasione: si configura come uno spazio appartato, desiderato tanto
dall’anima irrequieta e malata, nauseata dal tumulto cittadino. Ma era contemporaneamente
un luogo selvaggio che disponeva delle proprie leggi. Nel momento in cui le leggi della natura
vengono infrante, la dura e intempestiva replica non tarda a venire.

Un giardino mentale preesiste nella mente del poeta-costruttore, e quest’immagine si


sovrappone a quella reale: Petrarca scopre e visualizza. Quello che gli si affaccia agli occhi è un
"campicello irto di sassi" [22] su cui viene proiettato un paesaggio ideale. Il piccolo campo
diventa motivo di lite, di guerra, dato che la fantasia poetica avverte l’unicità del luogo,
prescelto a servire il ritiro del poeta insieme al coro delle Muse. La lotta sta per iniziare: la
resistenza della natura-nemica dev’essere stroncata per rendere questo paesaggio, che
rispondeva alle necessità del poeta, da selvaggio e aspro a mite, cioè per trasfigurarlo in un
giardino inaccessibile, nascosto allo sguardo del volgo sciocco e, nello stesso tempo, capace di
ridiventare un nuovo paesaggio edenico. La battaglia dunque non si può mancare, e si rivela
molto acerba; la natura non si lascia vincere facilmente. Tutto si configura in attacchi rinnovati
fino alla vittoria definitiva del poeta e, sostanzialmente, fino alla grande rivincita dell’antichità. Il
linguaggio guerriero, adoperato nei tentativi di adattare la natura alle esigenze di un
appassionato letterato-umanista, si contrappone a quello celebrativo della vittoria, il cui frutto
intensamente desiderato consiste nella creazione-ricreazione di un giardino edenico, tutto suo
e delle sue care Muse (il suo Elicona, il suo Parnaso), dove "celebrare i trionfi della sacrosanta
antiquitas" [23].

Petrarca lancia un caloroso invito a Giovanni Colonna per convincerlo dell’esistenza di un


mondo ideale e un eterno presente, lontani e separati dal tempo storico con le sue ostilità,

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generati con e per gli antichi come "scena di un rito del e per l’antico" [24], e dallo stesso
impeto di sconfinata ammirazione, espressa nel De vita solitaria.

Il giardino assume tutte le caratteristiche di un luogo ameno: "Un giaciglio ti darà l’erba, un
tetto gli alberi coi loro verdi rami, e la cetra l’usignolo, che non ancora cedé all’amore e
gorgheggiante canta […] Io, se vuoi, ti offro i miei facondi libri e i cori dele Muse e un sedile che
sovrasta le domate Ninfe, anche ti offro colli coperti di pampini e di gremiti grappoli, e dolci
fichi, acqua or ora attinta dal mezzo della fonte e canti d’uccelli innumerevoli e rifugi tra i monti
e curvi recessi e la fresca ombra dei boschi nelle valli irrigue" [25]. Ma per poter acquisire
questa natura ‘aggiustata’, lo scontro tra uomo-natura, tra inverno-estate si rinnova ogni anno.
La motivazione è talmente forte che cancella i dubbi e le esitazioni: le lotte ripetute si
giustificano, dato che l’esito è chiaro: le stagioni scompaiono e si raggiunge la primavera eterna,
fissata già dentro lo spazio del locus amoenus da Virgilio e da Teocrito. Si prefigura l’arte del
giardino, a cui si concedono presenze e sfumature diverse nel Medioevo italiano, anticipando
l’immensa fortuna di cui goderà nell’Umanesimo e nel Rinascimento; essa è d’altronde
inseparabile dall’arcadia letteraria, dal luogo di delizie degli dei e delle ninfe. Petrarca scaccia le
presenze tradizionali e vi colloca i propri dei. È interessante vedere quanto siano complessi i
rapporti che si stabiliscono tra la parola letta, da una parte, e la visualizzazione, dall’altra;
quanto sia importante ricorrere al modello dell’innocenza, della pace di questi giardini nei quali
tutto diventa possibile perché qualcuno si ritira dal mondo per poter godere di quello che gli
altri ignorano. Nel momento in cui la scrittura-modello coincide con la visualizzazione ideale
nasce l’arte del giardino. Come scrive Giulio Carlo Argan: "l’idée selon laquelle le jardin est un
lieu naturel modifié par l’intervention de l’homme à des fins esthétiques naît du concept de la
propriété privée des biens naturels et de la convinction que le beau naturel peut être
perfectionné par l’action humaine" [26]. Pure in Petrarca il giardino concorre alla perfezione del
luogo, attuando il sogno umanistico dell’evasione, sempre contrapposto alla malvagità della
città. La separazione è sorprendentemente forte e rafforzata non solo spiritualmente, ma anche
materialmente, dato che il suo "orto pieno di fiori vari" è recintato "una parte […] dal fiume
profondo, un’altra dalle rupi scoscese di un freddo monte.[…] Un altro lato […] da un rustico
muro, che impedisce l’accesso agli animali e agli uomini " [27]. L’ingresso è chiuso, la proprietà
è davvero privata e vengono protetti i beni naturali, ma quest’ultimi non rendono il senso a cui
allude Argan. I beni materiali sono ignorati, la fortuna è quella spirituale, che può essere, sì,
condivisa, ma solo dagli iniziati.

In un’altra epistola, indirizzata allo stesso Giovanni Colonna, in ringraziamento per avergli
regalato un cane, Petrarca con il pretesto della bestiola, torna al suo argomento prediletto:
Valchiusa. Riappaiono nello stesso cumulo tempestoso le fresche fonti, gli uccelli, i prati, il

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limpido fiume che preservano l’armonia, la letizia, la pace e la solitudine dello studioso.
Sorprendentemente quel cane non diventa solo il suo compagno perfetto, ma si rallegra di
quello spazio, ci vive felice e libero, e si trasforma in un vero e proprio cerbero, in un guardiano
arcigno che pare aver compreso i pensieri del padrone che vuole conservare intatto l’eden
ricreato, cioè il luogo deputato dello studio e dello scrivere.

Nello stesso discorso si può inserire anche la III, 3 delle Metriche, inviata a Guglielmo da
Verona, celebre oratore a cui lo legava un’affettuosa amicizia. Benché la ragione della lettera
sembri essere l’incontro di Petrarca con la donna che l’amico aveva amata ad Avignone dieci
anni prima, l’incipit, che mette in rilievo per l’ennesima volta l’opposizione città-campagna
(torbida la prima, amena la seconda), introduce il sempre vaggheggiato sogno umanistico: "le
mie lucide fonti e la mirabile sorgente del Sorga, che suol essere di valido sprone ai poeti e
crescer l’ali al loro estro" [28], Valchiusa un’altra volta, cioè indelebilmente il più amato dei suoi
piacevoli rifugi. La sua avversione per la città provoca necessariamente l’alternativa
dell’evasione, e si esprime nell’odio risentito verso Avignone, un luogo-inferno (c’è un ossimoro
velato – la città provenzale era pur sempre la sede papale) senza il quale Petrarca si sarebbe
trovato sprovvisto tanto dei vari e noti incontri con studiosi e scrittori che venivano da tutta
l’Europa, quanto delle occasioni di studio e di lettura che gli offrivano le biblioteche private –
due aspetti determinanti per la sua attività intellettuale. Petrarca deve tanto ad Avignone, ne è
cosciente eppure la rigetta con ostinazione ed ostilità, parzialmente sofferta, parzialmente
metaforica.

Di conseguenza si leggittima un’altra volta il rifugio del solitario in mezzo al giardino


inattaccabile e lontano dalle insidie. La libertà e la pace vengono offerte, come al solito, dalle
costanti del locus amoenus seminatevi con tanta cura e passione da suscitare l’estasi
contemplativa al veder e al sentir dello spettacolo naturale estremamente coinvolgente.
L’anima si rende subito compartecipe della gioia, non può rimanere indifferente di fronte a
tante bellezze. E la rimembranza di un giorno passato insieme, soggiogati dall’otium letterario,
si addolcisce sempre più. Tutti gli elementi naturali sembrano rispecchiare il volto dell’amico e il
ricordo del dolce incontro: "Su questo balzo stanchi sedemmo, su queste erbe taciti ci
adaggiammo; qui piacevolmente ragionammo mentre le pure onde scorrevano sotto di noi; qui
ci fu dolce richiamare dal lungo esilio le Muse e insieme confrontare tra loro i greci e i latini
poeti, e ricordare le loro sacre fatiche, dimentichi delle nostre […] l’uno e l’altro ristorandoci
con alterno colloquio" [29]. Al paesaggio di Valchiusa si affida il valore di simbolo dell’attività
spirituale indipendente, libera da condizionamenti, dedita al culto della poesia, alla
"riconsacrazione" dell’immortalità della letteratura classica. In essa e nei suoi autori Petrarca
avverte un modello insuperabile di sapienza, di perfezione stilistica. Perciò li guarda con un
sentimento misto di venerazione e di nostalgia, perché vede quanto quel modello sia distante
dalla realtà ingombrante del presente. La stessa lontananza e il rimpianto per un mondo

41
perduto vengono espressi nello sforzo di ricreare mediante l’arte della retorica un luogo
paradisiaco che funga da cornice idonea all’appuntamento col Modello. Dalle epistole
scaturisce dunque lo stesso significato, concesso già al paesaggio-giardino nel De vita solitaria,
dell’utopia petrarchesca. Ma è il profondo senso del giardino che conduce le ripetute
raffigurazioni oltre il mero artificio e la vuota stilizzazione.

La più stupenda esaltazione del suo rifugio ci viene tuttavia da un’altra epistola (I, 4) mandata a
Dionigi da Borgo di San Sepolcro, col motivo di invitarlo a visitare Valchiusa. La lettera offre la
più sostenuta descrizione del paesaggio, nella quale, anche se ci sarà una forte stilizzazione
della natura, si avverte paradossalmente anche la grande scoperta protoumanistica e
umanistica del paesaggio. Petrarca diventa veramente un promotore: "Se non ti alletta il
limpido specchio di questa fresca sorgente; o gli arcani recessi di questi boschi chiusi in
ombrose valli, ma ben nota dimora alle mansuete fiere e alla schiera delle Driadi e dei Fauni; o
questi antri così cari ai sacri poeti che si aprono sotto apriche rupi; se non ti attrae quest’aria
così clemente […]; se no ti piace la bacchica vite o l’albero caro a Minerva o a Venere; se
l’occhio tuo non muovono i prati che cuoprono l’una e l’altra riva, ombrati dall’albero sacro a
Ercole e costellati di mille fiori e d’erbe soavemente verdeggianti; o questo fiume che attraversa
i campi e scendendo da fonte perenne riempie Valchiusa del suo mormorio che invita al sonno,
vedendo qua e là mille danze di Ninfe e ascoltando il canto delle Muse; o la tortora che piange
la morente amica […]; o Filomela, che canta il suo triste fato […]; o la rondine, che appena fa
giorno s’alza a volo e piange la ferocia del marito […]; se tutto ciò non ti alletta, e neppure i
molti fiori del giovinetto Narciso, che pieno di stupore ammira nel fonte il suo bel viso e
innamorato si china sullo specchio delle acque; o Atteone che, alte le corna, per aspri selvosi
sentieri fugge i compagni e i cani; o colei, cui si dice spiccasse dalla testa del padre il purpureo
capello e col suo tremulo canto s’alza fino alle nubi per osservare dall’alto Niso vendicatore […]
tutte le mie preghiere furono vane!" [30].

Il gusto della contemplazione è fatto qui più vivo che mai: ci si immerge nella vera e propria
estetica del paesaggio, la cui bellezza acquista senso di per sé. Mancano i significati nascosti, il
giardino-paesaggio offre uno spettacolo naturale in cui niente si inserisce a turbare la bellezza
immemore ed arcana. Il tempo viene cancellato, o piuttosto sostituito con la dimensione
estetica. Valchiusa si tramuta in un giardino dei sensi, la vista, l’udito, l’olfatto sfruttano
massimamente le meraviglie sciorinatevi. È un paesaggio reale o ideato? Né l’uno né l’altro,
oppure tutti e due? Non è facile rispondere. In un certo senso lo stesso dubbio assaliva la nostra
mente anche nel caso del De vita solitaria, e non si può che riconfermare l’esistenza concreta di
Valchiusa e il suo combaciare con la sua bellezza naturale. Petrarca celebra la realtà, però
intesse il suo inno con un sostegno stilistico: il locus amoenus è sottoposto al procedimento
retorico, caro al Rinascimento, dell’ amplificatio. E c’è la presenza, altrettanto gradita dagli
stessi rinascimentali, della mitologia. La descrizione è cosparsa, come si può notare, di ripetute

42
presenze mitologiche, il cui compito essenziale coincide con l’esaltazione della ricchezza
vegetale e animale dello spazio prediletto. Petrarca non si limita a un semplice elenco dei
personaggi mitologici, ma si addentra nella profondità del mito, che espone con i vari dettagli.
L’elevatezza del lavoro artistico si manifesta tramite queste figure che nascondono
personificazioni di fiori, alberi, animali. Vengono riattuati i miti di Narciso; di Procne, e Filomela
trasformati in rondine e usignolo; di Atteone trasformato in cervo da Diana per averla sorpresa
mentre si bagnava nuda; di Ciris trasformata in allodola; di Esaco, colpevole della morte della
ninfa Esperia, subendo la metamorfosi in uccello marino che porta il nome della ninfa ecc [31].

La stessa modalità della descrizione del giardino-locus amoenus sarà ripresa poi da Poliziano nel
suo giardino di Venere. La differenza che lo separa da Petrarca si palesa al livello delle
sfumature. Anche le personificazioni polizianesche celano i fiori del giardino – Narciso, Clizia,
Adone -, però denotano allo stesso tempo il loro statuto di vittime d’amore. Nel caso di
Poliziano, dato che il giardino di Venere rappresenta il mito stesso, questa tecnica mi sembra
più plausibile, mentre in quello di Petrarca, anche se si rivelano indubbiamente il gusto estetico
e l’impegno artistico, mi sembra forse un po’ forzato. Voglio dire che in Petrarca da un lato si
conservano gli elementi naturali, dall’altro, la stilizzazione è estrema. Antonio Prete affermava
[32] che l’arte occidentale dei giardini si esprimeva in forma artificiale: aiuole, prospettive,
giochi d’acqua, fontane, grotte, simmetrie, decodificabili in analogia a quello che nella retorica
sono gli stili. Si trattava cioè di una "coltivata disciplina del piacere e del naturale".
L’osservazione è giusta se prendiamo in considerazione Poliziano, Ariosto, Tasso. Mentre
Petrarca si trova a metà strada, poiché nella sua epistola si ritrova un paesaggio naturale,
concreto e reale che viene investito parzialmente dell’artificio. I grandi poeti rinascimentali
emulano solo la parte dell’artificio, visto che i loro giardini sono ricostruzioni di varie isole
mitiche; l’eccezione si fa sentire solo in Ariosto e nella descrizione dell’isola di Belvedere
(un’isola veramente esistita, creata dalla casa D’Este, e resa in modo raffinato dal poeta nel suo
Orlando Furioso). Menzionando Ariosto, pare doveroso metter in risalto un altro possibile
legame tra lui e Petrarca: nello spazio dedicato al locus amoenus si ricrea la corte imperiale. Se
si continua la lettura della stessa epistola inviata a Dionigi, si nota un’interessante allusione:
Petrarca, dopo il tentativo di attirare il destinatario con il miraggio di un paesaggio allettante,
dichiara che le lodi di Valchiusa sono state già stese dal "gran" Roberto d’Angiò, che vi aveva
fatto una sosta con il suo corteo. L’immagine del re è quella stessa di Petrarca, solitario,
pensieroso, appartato dal gruppo rumoroso e giocondo che riempie il silenzio del paesaggio con
il rumore dei giochi mondani. Quello che si trova in germe qui, acquisterà una grande voga alle
corti cinquecentesche: crearsi rifugi naturali, giardini per evadere dalla città, dai doveri. In
pratica si realizzava non la solitudine, ma solo il trasferimento della vita mondana in mezzo ad
una natura idillica. L’esito differiva dall’intento: l’essenza edenica del giardino si trasformava
nell’elogio della vita in villa. In un certo senso questo è valido anche per Petrarca, che dispone

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di un suo intimo e chiuso giardino e, al tempo stesso, di una villa, anche se di modeste
condizioni in confronto a quelle cinquecentesche.

Se due delle possibili accezioni di Valchiusa sono state esplicitate mediante il De vita solitaria e
le varie epistole selezionate, non si può fare a meno della terza che inserisce all’interno del
topos del locus amoenus l’idillio amoroso. Prima di avviare il discorso sul Canzoniere che
realizza questa terza fase, lasciamo che l’ epistola Al suo Lelio (I, 8) ci faccia da tramite: "Questo
mio orticello risveglia in me l’estinto amore, rinnovando i dolci sospiri del tempo passato, ora
con i fiori primaverili che ne dipingono le aiuole, or con folte ombre estive […] e più, con i dolci
lamenti degli uccelli variopinti nascosti tra i rami. Ivi modula il suo canto l’usignolo […]" [33]. Un
grande pericolo minaccia il luogo prediletto del solitario, e la minaccia latente si trasforma in
una forza travolgente che annienta lo status quo iniziale. L’angolo felice e isolato dalle insidie
sta per scomparire: si preannuncia la rinascita imminente del sentimento amoroso, creduto
spento. Il giardino gode della stessa forza evocatrice, però non rinvia più alla rassicurante vita
campestre, ai pacati colloqui con gli antichi, soffre invece un cambiamento notevole e allude a
un ben diverso connubbio: Valchiusa-Laura. Se il compito di Valchiusa era quello di far
dimenticare le antiche ferite e di offrire la cornice adatta allo studio, adesso traspare solo un
fallimento doloroso, perché invece di fornire il rimedio, concede solo una medicina amara. Il bel
giardino rinnega il proprio padrone, la coesistenza amichevole sparisce dietro l’ostilità. Un
nuovo sovrano invade il palcoscenico, la cui potenza è sconfinata, sottomettendo alla propria
volontà paesaggio e poeta. Non si può fare a meno di ubbidirgli. L’orto di Valchiusa sarà
dominato non da Petrarca, bensì da Amore che pare sia adesso l’unico signore del luogo
ameno. Il giardino, diventato cornice della presenza della donna, tormenta, tortura il poeta e,
sotto l’influsso del nuovo padrone, Amore, raddoppia gli assalti. Amore con i suoi nuovi alleati
riapre l’antica ferita "tanti sono gli alleati che combattono in suo favore: lo stesso aspetto dei
luoghi invita alla contesa; così gareggiano il mormorio dei venti col canto degli uccelli, i bei
colori con i grati odori, le erbe con le fronde, i fiori con le erbe, i gigli con i narcisi, le rose con le
viole. Che dirò dei dolci riposi sulle verdi sponde dei rivi, e dei leggeri sonni sull’erba, e del
mormorio delle acque fuggenti e dei gorghi sonori" [34].

Gli elementi naturali sembrano trasformarsi in altrettanti dardi lanciati da Cupido. Lo stesso
paesaggio è già stato colpevole delle ferite provocate, e sembra addirittura una fonte perenne e
responsabile di quelle sempre rinnovabili. Giorgio Ficara definiva giustamente la presente
epistola una "palinodia del locus amoenus, reo di evocare al solitario l’antica passione amorosa"
[35].

La natura amena e primaverile pervade il Canzoniere, perdendo del tutto le connotazioni


allegoriche che prevalgono in Dante o Boccaccio. Il paesaggio non acquista indipendenza, visto
che la sua esistenza è strettamente legata alla presenza della donna, implicitamente quindi dell’

44
amore. Il locus amoenus è ora una cornice, un’eco della bellezza femminile, forse un semplice
elemento costitutivo del mito di Laura. Ma si tratta veramente di una mera cornice, di un
elemento che contribuisce all’aura mitica della donna, distante, evanescente, che, dopo la
morte, darà vita ad una donna più sensibile, se non sensuale, almeno consolatrice? L’amore
non è l’unico "errore" della giovinezza del poeta, ma nel Canzoniere è certamente il più
rilevante. L’innamorato è diviso perchè in preda alle oscillazioni interiori – speranza, paura,
gioia, e così la sua anima viene frammentata a seconda degli impulsi, di sentimenti talmente
contrari. Tutte queste perturbazioni dell’anima si riflettono nella natura circostante, cioè il
rapporto amante-natura riflette il dissidio interiore, i sentimenti avversi del giovanile errore. Si
forma in questo modo un triangolo, reso immortale, tra poeta-natura-donna, che differisce da
quello classico, dato che il poeta potrebbe recitare piuttosto la parte dell’uomo tradito o
escluso, considerando la sua gelosia risentita per l’invidiato rapporto intimo che si stabilisce tra
bella donna e natura fiorente.

Un primo contatto con la natura primaverile si ha nel sonetto 68 e nella canzone 71,
componimenti in cui prevale il ricordo. Il poeta, trovatosi solo in un paesaggio estremamente
stilizzato e artificioso, richiama in un rapido e conciso elenco gli elementi naturali a
testimoniare la propria vita travagliata. Boschetti, colli, erbe, valli, fiumi, selve, campi
impersonano altrettante figure che testimoniano il tormento provocato dalla sua assenza. Basta
un’unica apparizione della donna perché la sua essenza si incida profondamente ed
irrevocabilmente sul paesaggio di Valchiusa. Pare un essere divino che sovrasta tanto la natura
quanto il cuore dell’innamorato; la sua forza è tale che dominerà tutto. Difficilmente rimarrà
riconoscibile il paesaggio valchiusano da cui influiva quella serenità e quasi santità tanto
indispensabili alla vita solitaria. Il fugace richiamo derivato dalle due poesie anticipa proprio la
situazione contraria: da un lato si immagina la bellezza di Laura (solo una bellezza straordinaria
si suppone abbia una tale forza evocatrice), dall’altro la bellezza del luogo. Un simile fascino
femminile esige un ambiente naturale della stessa proporzione. Ed un unico luogo, quello
ameno, potrà adempire ai criteri necessari.

L’immagine fantasmatica di Laura assente all’interno dell’ambientazione campestre continua


pure nelle canzoni 125, Se’l pensier che mi strugge; 126, Chiare fresche et dolci acque; 127, In
quella parte dove Amor mi sprona. Prosegue dunque l’evocazione della natura provenzale
sacralizzata dalla presenza di Laura:

"Qui percosse il vago lume.

Qualunque herba o fior colgo

credo che nel terreno

aggia radice ov’ella ebe in costume

45
gir fra le piagge e’l fiume,

et talor farsi un seggio

fresco, fiorito et verde [36].

Chiare fresche et dolci acque,

ove le belle membra

pose colei che sola a me par donna;

gentil ramo ove piacque

(con sospir’ mi rimembra)

a lei di fare al bel fiancho colonna;

herba et fior’ che la gonna

leggiadra ricoverse

co l’angelico seno,

aere sacro, sereno,

ove Amor co’ begli occhi il cor m’apperse:" [37]

Sono componimenti di carattere idillico che si riportano, secondo Marco Santagata, alla
pastorella provenzale e a quella stilnovistica (ambiente primaverile e contenuto erotico). Lo
stesso Marco Santagata [38] ne addita anche lo scarto intervenuto per una trasformazione
interna operata mediante la negazione dell’elemento costitutivo della pastorella, cioè
l’esplicitazione del desiderio. L’opinione del critico è da condividere poiché l’allusione sensuale
traspare dal supposto bagno della donna, che potrebbe in realtà indicare un gioco mondano,
tipico ai gruppi di gentildonne e gentiluomini. Poi la continua presenza-assenza della figura
femminile (lei è sempre altrove, il primo incontro con Laura nell’ambiente di Valchiusa dimostra
pienamente la sua forza per gli ulteriori richiami) riesce talmente rarefatta che i vari particolari
riferiti alla bellezza fisica sembrano proiettati su un piano puramente stilistico. I già arcinoti
tratti fisici: i "capei d’oro", il "vago lume" dei "begli occhi", il "dolce riso", le "rose vermiglie"
delle labbra, la "neve" del viso, il "giovenil petto", il "bel fianco", il "bel piè" ecc. non
costituiscono un ritratto definito, ma rispondono ad un esemplare processo di stilizzazione
dietro il quale si dissimula la lunga tradizione della poesia d’amore. Convenzionalità della donna
che implicitamente tralascia la convenzionalità del paesaggio. Con la stessa arte dissimulatoria,

46
dovuta sempre alla tradizione, Valchiusa si nasconde dietro le componenti abituali del locus
amoenus: erbe, fiori, fronde, acque ecc.

La definizione che ne deriva, non può essere diversa da quella offerta da Roberto Antonelli che,
seguendo la divisione bipartita delle Rime, stabilisce in una delle definizioni più concise, ma al
tempo stesso più esatte che il Canzoniere è: un "libro-canzoniere unitario […] per la palinodia
che lo bipartisce e disloca lungo l’asse della memoria della poesia (tutto ciò che precede la
morte di Laura) e lungo quello della poesia della memoria (tutto ciò che segue)" [39]. Ed è
proprio quello che succede: la natura oltremodo stilizzata richiama alla memoria un paesaggio
consacrato e collaudato da una lunga serie di poeti (prima parte) per poi sfumarsi
delicatamente nella realtà naturale, evidentemente quella valchiusana, recuperata dalla
memoria dei tanti amati luoghi solitari, che è in grado di proporsi quale rimedio e conforto
(seconda parte).

La donna si connette indivisibilmente al locus amoenus, anzì lei stessa diventa un hortus
deliciarum, poiché la sua presenza, il più delle volte, non viene suggellata dal nome stesso,
bensì da vari senhal, derivati sempre dalla tradizione provenzale e stilnovistica. Lei è l’aura,
l’aurora e il lauro [40]. Di conseguenza l’ambiguità di cui il nome s’investe, porta alla possibilità
di una decodificazione altrettanto variegata. Il gioco linguistico che mette in rilievo un Petrarca
raffinato ed intellettualistico, ci porta ora all’identificazione della donna con la poesia (lauro),
ora a quella con la natura idillica (aura, aurora costituiscono praticamente degli elementi
consacrati del topos). Un simile gioco letterario si rinnova anche al livello delle confluenze di
modelli e della molteplicità delle forme paesaggistiche amene, a seconda delle quali la figura
femminile diventa locus amoenus e, forse, paradiso. Sembra esser nata nel Paradiso [41],
godere di un’essenza divina ossia di una bellezza divina in grado di conferire al quadro naturale
un’aura di divinità investendosi di sovranaturale. È una Dea che regna magistralmente sullo
spazio; sono queste le idee desanctisiane [42] che possono essere sostenute dai versi
petrarcheschi:

"Lieti fiori et felici, et ben nate herbe

che madonna pensando premer sole;

piaggia ch’ascolti sue dolci parole,

et del bel piede alcun vestigio serbe;

schietti arboscelli et verdi frondi acerbe,

amorosette et pallide viole

o soave contrada, o puro fiume,

47
che bagni il suo bel viso e gli occhi chiari

et prendi qualità dal vivo lume" [43]

ossia

"L’erbetta verde e i fior’ di color’ mille

sparsi sotto quel’elce antiqua et negra

pregan pur che’l bel pe’ li prema o tochi" [44]

Tutto è immerso in un’armonia pura: canti d’uccelli, fruscio d’erbe, sussurio di foglie, fremiti di
rami, fiori variopinti, cioè un intreccio perfetto di elementi visivi, uditivi e olfattivi. Tutto è bello,
pare, perché Laura anima e abbelisce la natura che diventa in seguito all’azione benefattrice
semplice scenario. Le parti sono cambiate: la natura idillica perde il suo statuto di modello di
perfezione da seguire, e lo perde a favore della donna. Infatti è adesso la donna che diventa
l’elemento vagheggiato dalla natura, ma proprio questo dominio della bellezza femminile sulla
natura amena mette in dubbio l’origine paradisiaca dello scenario naturale. Si tratta di una
dimensione esclusivamente profana, e le allusioni al paradiso denotano una metafora svuotata
da ogni connotazione teologica (a differenza di quanto avveniva in Dante e, implicitamente,
Beatrice): Laura è una bella donna, un paradiso piuttosto terreno (v. son. 173).

Secondo Antonio Prete due movimenti contrari sovrastano la rappresentazione naturale: da


una parte, "ogni elemento è compendiato e riflesso nel viso della donna", "il visibile si dispiega
come un eden lussureggiante, multiforme osservato prima e dopo la caduta" [45]. Perciò il
paesaggio valchiusano serba e riflette dappertutto le impronte così care di Laura, perciò gli
elementi naturali vengono invidiati dal poeta; lo spazio custodisce dunque gelosamente
l’intimità goduta, tanto desiderata e mai raggiunta dall’amante:

"Come’l candido pié per l’erba fresca

i dolci passi honestamente move,

vertù che’ ntorno i fiori apra et rinove,

de le tenere piante sue par ch’esca.

Di tai quattro faville, et non già sole,nasce’l gran foco, di ch’io vivo et ardo,

In questa nuova prospettiva lo statuto di ornamento della natura, che è pure innegabile,
acquista anche un senso positivo, perché questo scenario non è inteso in senso passivo, visto
che la natura non è solo un quadro meramente inerte, ma si anima sotto l’influsso benefico

48
della donna. Significativi sono gli esempi citati, che illustrano perfettamente il rapporto
profondo stabilito tra natura e donna. Rimane però indelebile anche il rapporto di dipendenza.
La natura amena viene condizionata dall’esistenza della donna. L’altro rapporto, quello tra
uomo e natura, è sostanzialmente definibile anch’esso in chiave di dipendenza. Si può
richiamare il passo di Amiel: "Un paysage quelconque est un état de l’âme […]" e proprio nella
sua accezione "sbagliata", secondo Andrei Pleşu [47]. Il paesaggio sarebbe lo specchio degli stati
d’animo del contemplatore, ed è esattamente quello che fa Petrarca, perché le visioni di Laura
rappresentano i moti dell’anima destati dalla figura splendente della donna. Petrarca rende così
la natura partecipe delle sue emozioni. Gli elementi naturali assumono la funzione di "segni
allusivi di un segreto codice di emozioni, di stilizzati e preziosi emblemi" [48].

L’assiduo e incessante richiamo a piagge, fiori, erbe, fiume, valli prosegue anche nella seconda
parte del libro, e mediante questo gesto reiterativo si affida al paesaggio idillico la funzione di
apportare l’"unità di luogo alla storia d’amore", affermava a ragion veduta G. A. Cesareo. E
continuava lo stesso critico, "il carattere stesso dell’amore che [Petrarca] intendeva
rappresentare, puro, contemplativo ed idillico, s’accordava meglio con la freschezza e
selvatichezza d’un paesaggio rurale" [49] tale Valchiusa.

La bella statua refrattaria a tutti gli atti benevoli e adulatori dell’innamorato si sottomette a un
notevole cambiamento nella seconda parte del libro, in un certo senso diventa più umana,
quasi affettuosa. Ma la grande svolta è possibile solo quando Laura è morta:

"Se lamentar augelli, o verdi fronde

mover soavemente a l’aura estiva,

o roco mormorar di lucide onde

s’ode d’una fiorita et fresca riva,

là’ v’io seggia d’amor pensoso et scriva

"Deh, perché inanzi’l tempo ti consume?

- mi dice con pietate – a che pur versi

degli occhi tristi un doloroso fiume?" [50]

È un sonetto di consolazione che si apre con un paesaggio idillico, evocato, con linee
estremamente stilizzate, che richiama tanti altri paesaggi. La novità si deve cercare nel fatto
che, se fino a questo punto il paesaggio portava, sì, i segni palesi della figura femminile, adesso

49
la sua forza viene talmente rinvigorita da far scaturire una vera e propria visione. Per la prima
volta la donna appare, benigna, al poeta, anzì gli parla, lo conforta per la perdita sofferta. Si
tratta dell’accettazione della morte da parte di Petrarca, una presa di coscienza che circoscrive
la vera essenza del trapasso: morire significa rinascere in una vita più autentica.

Il poeta riesce a rivedere Laura meglio con l’immaginazione solo a Valchiusa, la sua Valchiusa
che supera in bellezza la mitica isola di Cipro (la cui descrizione nei Trionfi [51] ricalca
manifestamente l’elogio allettante del suo paesaggio-giardino dell’epistola metrica inviata a
Dionigi da Borgo di San Sepolcro). Tutto ciò perché:

"L’acque parlan d’amore, et l’ora e i rami

et gli augeletti e i pesci e i fiori et l’erba,

tutti insieme pregando ch’i’ sempre ami." [52]

Il sonetto è decisamente d’ambientazione valchiusana poiché il topos della natura che invita ad
amare pervadeva un’altra delle sue epistole (Al suo Lelio, I, 8), in cui tutto il paesaggio era
letteralmente soggiogato dalla forza travolgente di Amore, il quale ha stretto un così saldo
patto con i suoi alleati della natura che l’uomo solitario alla ricerca della tranquillità non poteva
che capitolare.

Benché sembrasse che l’innamorato avesse accettato la morte dell’amata, il dolore e la


sofferenza tornano, e sconvolgono l’anima del poeta. Il conforto viene cercato invariabilmente
all’interno del luogo ameno, il quale, anche se non si spoglia delle stilizzazioni richieste,
comincia ad acquistare sempre più impronte alludenti alla realtà del paesaggio di Valchiusa, le
cui componenti continuano a recitare la loro parte di testimoni, una volta servi felici della
donna, ora quelli della sofferenza del poeta:
"Non è sterpo né sasso in questi monti,

non ramo o fronda verde in queste piagge,

non fiore in queste valli o foglia d’erbe,

stilla d’acqua non vèn di queste fonti,

né fiere àn questi boschi sì selvagge,

che non sappian quanto è mia pena acerba." [53]

Gli elementi del locus amoenus sono i testimoni per eccellenza di tutta la vicenda amorosa. Il
poeta, malato e infastidito dichiara:

50
"Valle che de’ lamenti miei se’ piena,

fiume che spesso del mio pianger cresci,

fere selvestre, vaghi augelli et pesci,

che l’una et l’altra verde riva affrena,

aria de’miei sospir’ calda et serena,

dolce sentir che sì amari riesci,

colle che mi piacesti, or mi rincresci." [54]

La stessa bipartizione antitetica che rafforza l’incapacità della forza consolatrice della natura
rinnovata, bella e felice, si delinea anche nel notissimo sonetto Zephiro torna. La ressurezione
ciclica del cosmo in primavera concede al paesaggio la medesima gioia e serenità di sempre, ma
il poeta pare esserne escluso. La sua sofferenza viene acutizzata dallo slancio vitale della natura.
La rappresentazione del paesaggio primaverile sale alle vette massime di stilizzazione e si
impreziosisce ancor di più tramite i rimandi mitologici:

"Zephiro torna, e’l bel tempo rimena

e i fiori et l’herbe, sua dolce famiglia,

et garrir Progne et pianger Philomena,

et primavere candida et vermiglia." [55]

E l’esclusione diventa totale ed irremediabile, espressa stupendamente sotto la forma di un


plazer rovesciato, che coincide piuttosto con un locus amoenus negato:

"né d’aspettato ben fresche novelle

né dir d’amor in stili alti et ornati

né tra chiare fontane et verdi prati

dolce cantare honeste donne et belle;

né altro sarà mai ch’al cor m’aggiunga." [56]

Petrarca sceglie Valchiusa per liberarsi dal giogo amoroso; il suo intento è esposto in una lettera
indirizzata a Giovanni Colonna (Epist. Metr., I, 7). Ma l’esito non sembra affatto accordarsi

51
all’idea iniziale, la soggezione all’amore non pare diminuire nella solitudine dei luoghi ameni,
anzì secondo Enrico Carrara "la solitudine campestre è un rimedio peggiore del male" [57].

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La Gerusalemme Liberata di T. Tasso

 I Discorsi dell’arte poetica


Accanto alla stesura delle sue opere, Tasso affiancò anche la riflessione teorica intorno alla poetica.
Nel corso della vita aveva scritto tre Discorsi della’arte poetica e in particolare del poema epico.
La creazione in concomitanza di opere tendeva ad arricchire la teoria, e viceversa, la teoria tendeva a
stimolare la stesura.
Più tardi Tasso riprese questi discorsi, pubblicandoli con il nome di Discorsi del poema epico, senza
apportare sostanziali modifiche.

 La poetica: il verisimile, il giovamento e il diletto


Il verisimile

Tasso ha un idea di poema “eroico” più vicino ai valori precettistici del suo tempo e quindi un poema diverso
da quello ariostesco, ritenuto troppo libero e irregolare. Partendo da Aristotele, Tasso afferma che al
contrario della storiografia, che narra di fatti realmente accaduti, la poesia tratta di ciò che sarebbe potuto
accadere.
Per ottenere l’effetto del verisimile, il poema deve ispirarsi alla storia, ma affiancando elementi di finzione,
per cui non deve trattare né di fatti troppo recenti, né troppo remoti, per non causare distacco nel lettore.

Il giovamento e il diletto

Nell’età della Controriforma, alla poesia era affidato un compito pedagogico e morale.
Tasso però sostiene che dalla poesia non possa essere separato il diletto. Per risolvere la questione, dunque,
Tasso parla di un diletto finalizzato al giovamento, ovvero cerca di rendere gradevole al lettore i discorsi
morali e religiosi, facendo anche riferimento all’”utile” e al “dilettevole” di cui parla Orazio. Il compito del
diletto è affidato al meraviglioso. Ma quello di Tasso non è il meraviglioso del poema cavalleresco, poiché
comprometterebbe il verisimile, bensì il meraviglioso cristiano (interventi da parte di Dio, degli angeli, di
potenze infernali, …).

 La poetica: unità e varietà, lo stile sublime


Per la costruzione formale del poema, Tasso respinge il modello ariostesco, per la molteplicità di azioni
intrecciate tra loro che comprometterebbero il principio dell’unità dell’opera.
Riconosce, però, che la varietà è indispensabile per il diletto. Trova quindi un compromesso: il poema sarà
vario e ricco di realtà differenti, ma il tutto deve essere legato in una struttura unitaria (Tasso paragonerà in
un verso dell’opera il poema al mondo, che, nonostante sia vario, è comunque il risultato della mente
unificatrice di Dio).
Per quanto riguarda lo stile, Tasso userà, tra quello sublime, mediocre ed umile, ovviamente il primo, cioè
uno stile che possa addirsi a temi come quelli di Dio, degli eroi, delle gesta straordinarie.
Tasso userà anche il mezzo dell’”asprezza”, che consiste in pause nel verso, enjambements, contrasti di
consonanti e vocali.

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 L’argomento ed il genere
Tasso si discosta dai temi cavallereschi e romanzeschi adottati da Ariosto, per fare spazio ad una materia
storica, ovvero la conquista del Santo Sepolcro ad opera dei crociati nel 1099.
La prima crociata, inoltre, consente al Tasso di introdurre un meraviglioso che sia più credibile, a differenza
di quello fiabesco dei romanzi.
Inoltre, essendo una materia storica lontana, consente più libertà al poeta nell’invenzione, ma una materia
non troppo lontana da non interessare il lettore.
Con la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi nel XV secolo, era sentita la necessità di una nuova
crociata, ancor di più con l’avanzata dei Turchi nel Mediterraneo nella seconda metà del 500.
La materia della prima crociata affrontata da Tasso, quindi, stimolava anche il lettore a nutrire maggiore
coscienza davanti a problemi seri e urgenti come quello e, trattando la vittoria dei fedeli cristiani sugli
infedeli, cercava di spingere l’Occidente ad una riscossa.
Tasso, per la stesura della Gerusalemme liberata, non guarda ai poemi moderni, ma a quelli classici
dell’Iliade e dell’Eneide, abbandonando quindi lo stile “medio” del Furioso e puntando al sublime, sia
nell’argomento, che nello stile.
Oltre ad avere il fine di celebrare la Chiesa e la religione, questo poema mira anche ad avere un fine
didascalico e pedagogico, per uniformarsi ai canoni della sua epoca.

 L’organizzazione della materia


Possiamo notare il carattere tradizionalistico dell’opera anche dalla sua struttura che è chiusa. La struttura
chiusa è in pratica tipica dei poemi tradizionali e consiste nel conoscere, da parte dell’autore, già all’inizio
della composizione, quale sarà l’inizio, lo svolgimento e la conclusione delle vicende narrate.

 Gli intenti dell’opera

Gli intenti di Tasso sono prevalentemente pedagogici.


Tasso si presenta come il perfetto poeta cristiano, fedele agli ideali della Controriforma, che celebra la
religione, il potere della Chiesa e quello regale donatole da Dio.
Questa celebrazione dà vita all’interno del poema a scene sfarzose e magnifiche, proprie del gusto
controriformistico.
Ma Tasso non si adegua solo dal punto di vista della materia ai canoni della sua epoca, bensì anche nella
forma: con quest’opera non vuole solo offrire il perfetto poema cristiano, devoto alla religione, ma anche il
perfetto poema epico in virtù di Aristotele e delle leggi della sua Poetica.

 La realtà effettiva del poema

Nel poema sussiste un’ambivalenza per quanto riguarda gli atteggiamenti di Tasso nei confronti della corte.
Se da un lato celebra la sfarzosità di questo ambiente e la maestà del potere, dall’altro egli si dimostra
contrario nei confronti della falsità, dei conflitti e degli intrighi della corte.
Questo atteggiamento di contrarietà si concretizza nell’episodio di Erminia, la quale incontra un pastore che
le parla della sua esperienza all’interno della corte e dell’iniquità che sussiste in essa. Questo episodio, in
concomitanza con quello della guerra, apre una parentesi distaccata e introduce una nota di quiete.

In secondo luogo in contrapposizione con l’esaltazione della fedeltà dei guerrieri nel raggiungere i loro fini,
abbiamo l’attrazione per il voluttuoso, per un amore rivolto solo ad un piacere dei sensi.
L’episodio cardine è quello del giardino di Armida, dove si avverte una nostalgia per l’edonismo, impossibile
nel clima della Controriforma.

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In altri casi troviamo anche l’amore come sofferenza, rappresentato dagli amori impossibili (Erminia per
Tancredi, Tancredi per Clorinda, Armida per Rinaldo).
La sofferenza d’amore tuttavia non è rappresentata con tragicità, ma con un leggero patetismo.
In entrambi i casi comunque, l’amore compromette il poema epico, perché allontana i guerrieri dai loro
doveri.

La stessa ambivalenza si trova nel tema della guerra, da un lato vista come manifestazione di eroismo, ma
dall’altra, vista in modo più doloroso, portatrice di sofferenza e morte.
I personaggi stessi, come Solimano e Argante, nel poema, fanno considerazioni sulla guerra e sui danni che
essa porta e, nell’ultimo assalto, anche il poeta dimostra compassione per i vinti.
Si pensi invece all’Orlando Furioso in cui le stragi compiute dagli eroi sono contemplate, come se volesse far
percepire al lettore, attraverso lo straniamento, che ciò che racconta è pura finzione e che solo attraverso
tale straniamento si arriva a riflessioni più serie.

 Religiosità esteriore e inquietudine intima


Contraddizioni si rivelano anche dal punto di vista religioso. Alla celebrazione della maestà religiosa, si
contrappone una religiosità più intima e sofferta, a causa dell’avvertimento della precarietà dell’esistenza
causata dal peccato e del bisogno di purificazione (episodio collegato è quello di Rinaldo sul Monte Uliveto
nell’atto di penitenza per purificarsi, collocato in antitesi con la fastosità della processione che si svolge nello
stesso luogo).
Poi, alla religione fondata su verità teologiche, si contrappone un’attrazione per un sovrannaturale magico e
demonico, come negli episodi in cui intervengono forze infernali.

 Il “bifrontismo spirituale” di Tasso


Queste ambivalenze si trovano anche a livello formale: se Tasso aspira ad un’opera stilisticamente sublime,
ciò è comunque negato dalle note idilliche e da forze che, dal centripeto, tendono al centrifugo, come nelle
vicende di Rinaldo e Tancredi, i quali si allontanano dalla guerra per seguire i loro impulsi.
La struttura unitaria, perciò, sembra sul punto di dissolversi, proprio come accadeva nei poemi cavallereschi,
che Tasso si proponeva di superare.
Ciò va sotto il di “bifrontismo spirituale”, ovvero contraddizioni che non riguardano esclusivamente il Tasso,
ma sono di tutta un’epoca, che sta vivendo un periodo di transizione.

 L’opposizione tra visione rinascimentale e visione controriformistica


Questo “bifrontismo” si rileva anche nello scontro tra pagani e cristiani.
In realtà non si tratta dello scontro tra due religioni diverse, ma tra due codici morali diversi.
I pagani sono portatori dei valori rinascimentali: l’individualismo, la forza dell’uomo, che è artefice del
proprio destino, esclusione di un’ottica trascendente, pluralismo delle concezioni, edonismo.
I cristiani invece sono portatori dei valori controriformistici: ogni cosa ha un fine religioso, imposizione di
un’unica verità, respinta del pluralismo, repressione dell’edonismo.
L’antagonista quindi della religione cristiana non è tanto la religione musulmana, ma il male in sé. Infatti,
contro Dio non vi è Maometto, ma Satana, e i valori rinascimentali vengono visti come prodotti di forze
demoniache, che minacciano il mondo cristiano.
Infatti, questi valori sono presenti anche nel campo cristiano: alcuni eroi si allontanano dai loro scopi
primari, per perseguire gli scopi individuali al fine del piacere dei sensi.
A riportare sulla retta via i cristiani cosiddetti “erranti” vi sono i rappresentanti dei valori religiosi cristiani,
Goffredo, che aiuta Rinaldo a difendere il suo onore dopo un omicidio e che lo perdona per perseguire la
missione cristiana, e Pier l’Eremita, che aiuta Tancredi sofferente a rimettersi in sesto dopo aver ucciso
Clorinda.

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Cedendo ai loro impulsi, i cristiani si collocano in un certo senso nel campo della paganità.

 Uno e molteplice nella struttura ideologica della Gerusalemme


Nel poema è in atto uno scontro che si svolge su tre piani:
1) Cielo contro Inferno
2) Cristiani contro pagani
3) Il “capitano” contro i “compagni erranti”: Goffredo che riporta sulla retta via i “devianti”
Il rapporto che si stabilisce tra questi piani è un processo di riduzione dal molteplice all’uno.
Il mondo pagano e quello dei cristiani “erranti” rappresenta il campo del vario e del diverso; a questa
molteplicità si contrappone l’unità rappresentata da Goffredo, ovvero il personaggio in cui si incarnano gli
ideali controriformistici di autorità e unità.
La contrapposizione molteplice-uno ha radici profonde nel poeta. In Tasso sussiste un convinto
atteggiamento conformistico, di adeguazione ai canoni politici, religiosi e letterari della sua epoca, che
negano ogni tipo di devianza e diversità, ma si contrappongono anche atteggiamenti insofferenti nei
confronti dell’autorità.
Tasso, anzi, è attratto dalla devianza, quindi da quelli che sono i valori rinascimentali, la molteplicità,
l’individualismo (affermazione di sé), l’edonismo.
Questa attrazione si manifesta anche con un atteggiamento di simpatia verso i “devianti”, ovvero i nemici e
gli sconfitti, ma che sono ricchi di dignità, come ad esempio gli eroi “erranti” Rinaldo e Tancredi.
Insomma, anche se il Tasso condanna questi valori, la condanna pesa comunque su quelli che
rappresentano le forze dispersive del poema, unico modo per ammettere quei contenuti nell’opera.

 La struttura narrativa
La struttura narrativa è uguale a quella ideologica: vi è una tensione tra molteplicità e unità.
Tasso respinge la struttura del poema cavalleresco, per costruire, in virtù della poetica aristotelica, un’opera
unitaria; ma in realtà dalla vicenda principale divergono molto altri fili narrativi, costituiti dalle forze
individuali di desiderio da parte dei personaggi.
Tuttavia la struttura unitaria non si disgrega mai veramente.
Come Goffredo riesce a contrastare le forze dispersive, così il poeta fa dal punto di vista narrativo.
Il rapporto molteplicità-unità della Furioso è diverso da quello del Gerusalemme: nel primo la molteplicità
delle azioni è prevista fin dall’inizio ed è comunque alla base di un equilibrio armonico, mentre nella
Gerusalemme questa molteplicità è negata, ma non è alla base di nessun equilibrio ed è in continua
tensione con l’unità.

 Il punto di vista
Il “bifrontismo” è presente anche nel punto di vista. Anche se il poema vuole celebrare la religione cristiana,
più che quella pagana, il punto di vista non è unico, ma si alterna sia nel campo cristiano, che in quello
pagano.
Anche il punto di vista degli eroi si alterna tra cristiani e pagani, a riprova di come Tasso conferisca a questi
ultimi un profondo spessore psicologico e un’alta dignità.
Questa alternanza di punti di vista conferma ancora una volta che il codice controriformistico non è assoluto
e si traduce con quella “simpatia” che il poeta rivolge per i nemici e gli sconfitti, quindi come un’accettazione
di quelli che sono i valori laico-rinascimentali.
Quindi nel poema il ruolo che ha il codice cristiano-controriformistico assume circa lo stesso valore di quello
laico-rinascimentale.

 L’organizzazione dello spazio

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Il “bifrontismo” è presente anche nella struttura spaziale: si alternano uno spazio orizzontale, ovvero il
campo dello scontro tra cristiani e pagani, e uno verticale, diviso in due piani contrapposti, il cielo e l’inferno,
che rappresentano il bene e il male, Dio e Satana.
Questa contrapposizione tra bene e male rappresenta quello tra uno e molteplice: il cielo è portatore dei
codici cristiani e unificatori, l’inferno rappresenta la dispersione e la molteplicità.
Lo spazio orizzontale è dato da Gerusalemme, dove risiedono i pagani, e il campo dei crociati, che anche qui
rappresenta una contrapposizione tra bene e male, uno e molteplice.
Lo spazio terrestre è limitato: non si ha più, come nel Furioso, lo spazio labirintico, ma uno spazio ristretto,
come a voler indicare la tendenza del poeta all’unità. Ma a queste tendenze si oppongono le forze
centrifughe: gli spazi centrifughi sono quei luoghi dove si dirigono i personaggi spinti dal desiderio
individuale e che quindi si allontanano dal centro della guerra.
Maggiore è la trasgressione del personaggio, maggiore è la distanza del luogo dove si dirige il personaggio
“deviante” rispetto al teatro della guerra.
Lo spazio della devianza, oltre ad essere lontano fisicamente, è diverso da quello della guerra, come quello
di Erminia o Armida, che sono spazi idillici e ameni.
Questi spazi, però, come anche le azioni centrifughe, a differenza del Furioso, non disgregano l’unità
spaziale e finiscono per essere neutralizzati o eliminati.

Confronto tra Orlando furioso e Gerusalemme liberata


Il genere
Il poema di Ariosto è di genere epico-cavalleresco, scritto in ottave e volto a celebrare la casa d’Este.
Questo genere presenta una forma aperta (le vicende si snodano le una dalle altre e l’autore decide di
porre fine alle avventure, anche se potrebbero continuare all’infinito) e priva di schemi precostituiti,
dominata dalle azioni e dai comportamenti umani soprattutto soggetta alla casualità e imprevedibilità
degli eventi. Attribuisce pari importanza alle avventure cavalleresche e alle passioni amorose, mette in
risalto i valori individuali e soggettivi, presentando più punti di vista. L’epico-tradizionale di Tasso,
anch’esso in ottave, propone una struttura chiusa e, diversamente dal primo, appare regolata dal precise
direttive, alla soggettività romanzesca subentra l’oggettività e i valori individuali non contano quanto
quelli collettivi.

Il meraviglioso
Tasso abbandona il modello ariostesco, ritenuto troppo libero ed irregolare, rivolgendosi alla storia,
l’unica che possa garantire la verosimiglianza richiesta (riservando anche un margine di finzione). Questi
respinge il meraviglioso fiabesco e fantastico del romanzo cavalleresco e propone come soluzione il
meraviglioso cristiano, dove gli interventi soprannaturali sono tutti derivanti dalle potenze paradisiache
ed infernali.

I modelli
I modelli ariosteschi sono i poemi cavallereschi medievali e i cantari popolari. L’Orlando furioso, però,
presenta reminescenze classiche: in base al principio d’imitazione umanistico rinascimentale, egli trae
per intero episodi da autori come Virgilio ed Ovidio, questi sono mitologici e sono riportanti anche alcuni
versi delle opere originali, presentando come risultato un’opera che assume un rivestimento di forme
classiche rielaborate secondo la visione della vita rinascimentale. Ariosto, inoltre non creò un’opera del

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tutto originale, ma un continuazione dell’Orlando innamorato, opera interrotta di Boiardo. Tasso utilizza
come modello l’epica classica dell’Iliade e dell’Eneide.

Gli scopi
Ariosto pare aver scelto il poema cavalleresco aveva come scopo l’intrattenimento del pubblico e mirava
ad un successo rapido e ad una facile conquista della corte, ma la sua è stata anche una scelta basata su
ragioni più profonde e per fini artistici: questo genere gli permetteva di soddisfare le sue esigenze di
narrativa avventurosa e molteplice e la disponibilità inesauribile di intrecci. Tasso, oltre allo scopo
dell’intrattenimento, presenta quello dell’insegnamento morale; questi presenta, inoltre, una volontà di
totale conformazione ai codici dominanti dell’epoca sia a livello di contenuti, sia di forme. Con la sua
opera desidera creare il perfetto poema cristiano, secondo i canoni controriformistici, ma anche il
perfetto poema epico, in obbedienza alle direttive di Aristotele.

Il proemio
Il proemio tassesco presenta una struttura somigliante a quello di Ariosto, da cui proprio prende spunto.
Questo presenta l’argomento dell’opera, l’invocazione delle muse e la dedica al signore. Tra le
differenze, il Tasso si mostra fortemente legato al mondo classico, mentre Ariosto si rifà anche al poema
cavalleresco. Il primo non presenta tipi differenti di linguaggio come nel proemio ariostesco, che
desidera indicare chiaramente i riferimenti al mondo cavalleresco e a quello classico, rispettivamente
con un linguaggio semplice e uno più curato ed elaborato.

L’aspetto formale
Unità d’azione
Tasso rispetta il l’unità d’azione aristotelica (tempo, luogo ed azione): tutta l’organizzazione e l’intreccio
è basata sull’assedio di Gerusalemme e sulla conquista del Santo Sepolcro. Ogni avventura secondaria è
comunque sempre dominata dall’azione principale; vi è un unico eroe principale, Goffredo di Buglione.
Ariosto propone, invece, tre filoni narrativi: la guerra dei mori contro Carlo Magno, l’amore di Orlando
per Angelica e la sua successiva pazzia e la storia tra Ruggero e Bradamante. Nell’ Orlando furioso di
Ariosto viene a crearsi un pluralismo prospettico (vari voci portatrici di varie prospettive); esso possiede i
caratteri formali tipici della narrazione polifonica. Tasso invece respinge il modello ariostesco al fine di
non compromettere il principio dell’unità dell’opera, ma d’altro lato egli riconosce che la varietà è
indispensabile per il diletto. Questi ritiene che la varietà e l’unità possano conciliarsi, quindi, il poema
epico deve essere come il mondo che presenta una grande varietà di aspetti, ma che rimane uno nella
sua forma.

Lo straniamento
Questo procedimento impedisce l’immedesimazione emotiva del lettore costringendolo a guardare i
personaggi con atteggiamento critico. Ariosto interviene all’inizio di ogni canto interrompendo la
narrazione, Tasso conserva un andamento più impersonale, evitando di intervenire nella narrazione.

Spazio e tempo
L’organizzazione spaziale di Ariosto è del tutto orizzontale, in quanto il movimento dei cavalieri avviene
in una dimensione puramente terrena, il bifrontismo di Tasso si riflette nella struttura spaziale
dell’opera, presentando uno spazio orizzontale, teatro dello scontro tra cristiani e pagani, che si va ad
intersecare con uno spazio verticale, diviso tra cielo ed inferno. Il tempo ariostesco non è lineare, ma
labirintico, poiché torna costantemente su se stesso; al contrario Tasso presenta una linearità temporale
nella quale si inseriscono solo brevi flash-back.

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Lo stile
Ariosto crea un’immagine di ordine armonico ed equilibrato attraverso la lingua e la metrica. Egli
propone un nuovo stile percorso da tensioni interne, ricco di colore e musicalità, che rispecchi il
complesso mondo interiore. Lo stile è medio, tendente al realistico, quotidiano e comico.
Tasso caratterizza la propria poesia con una perenne compresenza di contrasti: il livello stilistico riflette
anch’esso il bifrontismo tassesco, il suo criterio linguistico è ispirato ad un’idea di classicistica di
uniformità, compostezza ed equilibrio. Lo stile è sublime.

Le tematiche
La tematica principale ariostesca è quella amorosa, a cui però anche integrata quella della follia (per
amore), la sua opera si basa sulle leggende carolingie. Tasso, al contrario celebra la chiesa, l’eroismo
guerresco e le identità religiose. Materia dell’Orlando è la guerra tra Carlo Magno e i Saraceni, la
Gerusalemme narra la conquista di Gerusalemme e la liberazione del Santo Sepolcro, durante le prima
crociata. Questa non è una storia leggendaria, ma si basa su fatti storici realmente accaduti in un tempo
lontano, al fine di poter inserire fantasia e finzione. L’episodio trattato da Tasso è attuale, dato
l’avanzamento turco nel Mediterraneo.

La guerra
La guerra di Ariosto fa da sfondo e ha funzione strutturale di controbilanciare gli avvenimenti dei
cavalieri. È una guerra cavalleresca, che segue i valori cortigiani della generosità, dell’onore e della
fedeltà al signore. L’autore ingentilisce la guerra, rendendola poetica e cavalleresca, i duelli sono poco
descritti nell’Orlando, vi è un maggior interesse per la trama, in quest’opera si combattono più guerre
(contro i mori e per la conquista di Angelica, tra follia ragione). Tasso la presenta vera e violenta, i duelli
sono molto dettagliati, realistici e cruenti ed è proposto il forte conflitto tra anima e corpo. Nella guerra
ariostesca gli eroi sono motivati soltanto dai propri amori e desideri, è una battaglia ideale governata dai
valori cortesi anche se Ariosto riconosce la loro caduta e ne propone, quindi, un abbassamento. La
guerra di Tasso si presenta, invece, come il motore di tutto, è il motivo reale degli eroi. Vi è anche una
diversa concezione della guerra tra i pagani e cristiani di Tasso. I primi credono che la vittoria sia dono
del cielo e vi è la contestazione della glorificazione mondana, i secondo sono animati a combattere per
l’onore personale. Questa si configura come una battaglia non tra cristiani e pagani, ma come uno
scontro tra i valori rinascimentali (i pagani) e quelli controriformistici (i cristiani).

La visione dell’amore
Ariosto si ricollega alla tradizione cavalleresca: Orlando è un perfetto amante cortese, questi idealizza
Angelica, trasformandola in creatura di assoluto perfezione, da adorare e servire con umiltà devota. La
follia del protagonista, però, rovescia le concezioni cortesi presentando l’amore non come
l’innalzamento spirituale dell’uomo, ma l’abbassamento ad una condizione animale. Tasso presenta
come dominante il progetto dell’impresa militare, comprimendo ogni altro valore. L’amore è mostrato
come una forza essenzialmente negativa, che si oppone al compito eroico dei guerrieri.

La religione
Ariosto ha una visione abbastanza positiva del mondo e da buon rinascimentale vedeva nell’uomo e
nella religione la capacità di capire il mondo e la natura e la possibilità di piegare quest’ultima al proprio
volere. La fede in Ariosto non è fondamentale, essa è solo un dato storico che ha visto contrapposti Mori
e francesi; quella narrata non è una guerra santa ma una guerra territoriale. Per Tasso la fede è
l’argomento centrale del poema, questa dirige le azioni dei personaggi. Questi vede nella religione e
nella fede la vera interpretazione del mondo, gli unici valori ideali da seguire erano quelli religiosi e non
quelli rinascimentali; quelli cristiani obbligavano l’uomo all’eterna fedeltà, mentre i valori classici, legati

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alla materialità, lasciavano l’uomo libero di decidere ed agire secondo la propria volontà. Questi valori si
rispecchiano nelle due opere: in Ariosto vi sono molti eroi, mentre Tasso ne presenta uno solo.

I personaggi
Il protagonista dell’Orlando è Orlando, ma questo non è storicamente il più importante. Il protagonista,
invece, più storicamente importante della Gerusalemme è Goffredo. Ariosto non presenta per nessun
personaggio un complesso sviluppo psicologico individuale, poiché l’autore intendeva creare figure che
riflettessero solo un aspetto della natura umana. Egli si limita ad abbassare la dignità epica ed eroica dei
personaggi, portandoli ad un livello familiare, facendo emergere al di sotto delle apparenze i limiti e gli
errori. Tasso, al contrario, apre una nuova dimensione psicologica. Ariosto presenta anche i pagani
come nobili d’animo, mentre Tasso attribuisce le qualità umane solo ai cristiani, mentre quelle pagane
sono animalesche.

Syllabus

VI. Planificarea întâlnirilor şi a examinărilor intermediare:


A. Curs
Săpt.1. - Prezentarea toposului locus amoenus. Modele din literatura clasică şi medievală. Cântarea
Cântarilor şi grădina desfătării. Paradisul terestru. Evoluţia grădinii reale ce aparţinea burgheziei
mercantile în sec. XIV.
Săpt.2. - Petrarca, constructor de grădini. Canzoniere: Valchiusa: peisaj real - peisaj ideal; peisajul –
element constitutiv al mitului Laurei.
Săpt.3. - Petrarca: grădina sufletului (De vita solitaria); Boccaccio şi bogăţia cadrelor naturale în operele
minore.
Săpt.4. - Boccaccio, Decameron: grădina între tradiţie şi inovaţie; forme, modele, simboluri; experienţa
grădinii.
Săpt.5. - Prezentarea Curţii lui Lorenzo de’ Medici din Florenţa. Lorenzo de’ Medici: suveran, literat,
mecena. Echilibru ideal. Modelul mitologic Ambra şi Corinto. Grădina din Careggi.
Săpt.6. - Poliziano, Le Stanze per la giostra: elaborarea unei noi noi mitologii; docta varietas; idealul
edenic, sacralitatea grădinii - sacralitatea Curţii. Orfeo: fabula pastorală. Balade: motivul carpe diem.
Săpt.7. - Curtea din Ferrara şi aşa-zisele „delizie” ale ducatului D’Este. Prezentarea grădinilor şi palatelor
(vilelor) mai importante: Schifanoia, Belriguardo, Belfiore, Belvedere.
Săpt.8. - Teoriile lui Leon Battista Alberti şi descrierile lui Giovanni Sabadino degli Arienti.
Săpt.9. - Boiardo Orlando innamorato: tipologia grădinii renascentiste - grădina secretă, pajiştea, crângul;
Palazo Zoioso - emularea perfectă a vieţii curteneşti, elemente arhitectonice (palat, loggia cu fresce).
Săpt.10. - Ariosto, Orlando Furioso: noul poem cavaleresc: structură, modele. Concatenaţie logică şi
invenţie fantastică. Ironia. Geografia lui Ariosto.
Săpt.11. - Ariosto, Orlando Furioso: „addizione erculea”; grădina ca şi context cultural şi politico-
simbolic al Ferrarei; grădina Alcinei.
Săpt.12. - Tasso, Gerusalemme liberata: structură, modele. „Il meraviglioso” şi magia. Manierism.
Contrareformă.
Săpt.13. - Tasso, Gerusalemme liberata: conotaţia politică a grădinii - metafora Creatorului; grădina
Armidei - oglindă a iluziei de perfecţiune (realitate şi literatură);
Săpt.14. - Marile grădini alegorice din Cinquecento: Pratolino, Bomarzo, Villa d’Este.

B. Seminar
Săpt.1. - Prezentarea seminarului, a bibliografiei, a tematicii.
Săpt. 3. - Poliziano, Le Stanze: Grădina lui Venus alias olimpul modern; sacralitatea grădinii - sacralitatea
curţii; canonul de imitaţie; idealul platonic: ordine şi armonie.

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Săpt. 5. - Boiardo, Orlando innamorato: tipologia grădinii renascentiste - grădina secretă, pajiştea,
crângul; Palazo Zoioso - emularea perfectă a vieţii curteneşti, elemente arhitectonice (palat, loggia cu
fresce).
Săpt. 7. - Ariosto, Orlando Furioso: „addizione erculea”; grădina ca şi context cultural şi politico-
simbolic al Ferrarei; grădina fermecată a Alcinei; seducţia şi tentaţia grădinii; elemente corozive;
tripartiţia grădinii.
Săpt. 9. - Ariosto, Orlando Furioso: regatul Logistillei în antiteză cu sensul de desfătare şi de falsitate
care constituie baza grădinii Alcinei, dar şi cu esenţa vieţii de curte, desfăşurate printre palate, vile şi
grădini; ironia puternică; grădina suspendată; metafora grădină-fortăreaţă; insula Belvedere - minunea
Italiei.
Săpt. 11. - Tasso, Gerusalemme liberata: elemente manieriste - labirintul, vrăjitoarea ca imagine
speculară, mirajul; grădina Armidei - oglindă a iluziei de perfecţiune (realitate şi literatură).
Săpt. 13. - Tasso, Gerusalemme liberata: eroul în grădină; hipogamia feminină; Armida între Circe şi
Calipso.

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