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LOMUSCIO ILENIA

5AC

MEDEA E DIDONE: DUE MODI DI VIVERE L’AMORE


(EURIPIDE E VIRGILIO)
EURIPIDE: nasce nel 485/484 a.C. a Salamina. Non partecipò alla vita politica di Atene, nonostante mostri
una viva adesione, sia pure critica e polemica, alla realtà contemporanea e lucida consapevolezza dei
problemi che travagliavano la democrazia periclea. Muore tra il 407 e il 405 a.C. E’ ricordato per il suo
carattere razionale, per questo definito provocatore e punto di partenza della crisi etica del tempo: mise in
discussione i valori tradizionali dell’epoca, adottando la didattica del dubbio, dell’assenza di certezze e della
sospensione di giudizio.

VIRGILIO: nasce nel 70 a.C. presso Mantova. A Roma frequenta la scuola di retorica e a Napoli si dedica
alla filosofia. Conduce una vita quieta e ritirata, confortato dall'affetto di pochi. Muore a Brindisi nel 19 a.C.
È considerato come profondo e raffinato innovatore dell’epica classica, lasciando un’impronta della sua
forte personalità e di una potente originalità, venerato nel Medioevo come sommo poeta o sommo
sapiente e non a caso, scelto da Dante come simbolo della ragione umana e delle sue più alte realizzazioni.

Euripide e Virgilio affrontano una delle passioni che più divorano l’uomo, l’ eros, vissuto da due donne
(Medea in Euripide e Didone in Virgilio) entrambe folli e passionali, grazie in particolar modo alla scelta del
poeta latino Virgilio di prendere come modello non solo Apollonio Rodio, il quale aveva inserito nella sua
opera “le Argonautiche” un epillio d’amore, rappresentando la nascita e il divampare della passione di
Medea per Giasone, ma anche la tragedia stessa di Euripide.

Euripide presentò la tragedia Medea negli agoni drammatici del 431 a.C., in tetralogia con le tragedie
Filottete e Ditti e il dramma satiresco i Mietitori.

ARGOMENTO: Medea, figlia del re della Colchide e nipote della maga Circe, è stata ripudiata dallo sposo
Giàsone, il quale le ha preferito Glauce, la figlia del re Creonte, re di Corinto. Giasone cerca di giustificare
inutilmente il ripudio sostenendo di aver pensato al future dei figli e del ghenos, ma dopo averlo accusato
di essere un mistificatore, Medea prepara la sua vendetta. Fingendo di riappacificarsi con Giasone e con la
famiglia regnante, decide di donare un peplo e una corona imbevuti di filtri magici a Glauce, portati a
quest’ultima dai suoi figli: nonostante l’amore materno bruciasse in lei, vince la brama di vendetta e compie
l’infanticidio. Dopo aver ucciso Creonte, Glauce e i suoi figli, decide di portare con sé i figli al fine di
sottrarre a Giasone anche l’ultima consolazione: la loro sepoltura.

L’Eneide invece fu scritta negli ultimi dodici anni della vita di Virgilio (dal 30 al 19 a.C.) e pubblicata
postuma dagli amici Vario e Tucca, contro la volontà dell’autore, per volere di Augusto. È un poema epico
diviso in 12 libri, in esametri, pervenutoci in una forma che l’autore riteneva incompiuta (ben 58 versi
incompiuti che l’autore chiamava “tibicines”, cioè puntelli-sostegni provvisori, che dovevano tenere su
l’opera in attesa che fosse ultimata).

ARGOMENTO: L’Eneide inizia in medias res: è la storia di Enea, eroe troiano, figlio di Venere e di Anchise,
progenitore di Romolo e capostipite della Gens Julia (antichissima gens romana alla quale appartenevano i
personaggi più influenti dello Stato, tra cui Giulio Cesare Ottaviano Augusto). I troiani sono sorpresi durante
la navigazione di una furiosa tempesta scatenata contro di loro dalla dea Giunone e, scampati al naufragio,
giungono a Cartagine, accolti dalla regina Didone. Durante un banchetto, la donna chiede ad Enea di
raccontare la storia delle sue vicissitudini (analogamente a quanto accade nel’Odissea, dove Ulisse racconta
al re e alla regina dei Feaci le proprie avventure, avendolo accolto a seguito di un naufragio). Riprendendo
come modello Omero, nei primi sei libri (parte definita “odissiaca”) ritroviamo il racconto del viaggio
dell’eroe protagonista reduce da Troia analogo al viaggio di Odisseo; mentre, nell’ultima esade (detta
“iliadica”) si racconta la guerra tra due popoli Troiani e Latini, come accade nell’Iliade tra Troiani e Greci,
con l’uccisione da parte dell’eroe protagonista Enea del più forte tra i suoi nemici, Turno (come Achille con
Ettore).

Dall’argomento, si coglie già una prima differenza: la statura drammatica e psicologica di Medea occupa
l’intero dramma e tutti gli altri personaggi presentati ruotano attorno a lei (differentemente da quanto
accade nelle altre due tragedie femminili di Euripide), un eros folle e irrazionale che occupa tutto lo spazio
scenico. Al contrario, in Virgilio, l’eros passionale della regina Didone occupa solo una piccola parte del
poema, appare infatti solo nel I e IV libro, dedicato a questa donna e attinge dalle leggende della
fondazione di Cartagine, narrate dagli storici greci e dai primi storiografi romani.

Entrambi si propongono come due innovatori su ogni piano.

EURIPIDE VIRGILIO
 Tragediografo moderno  Innovatore dei modelli delle sue opere
 una sempre nuova organizzazione  compete con il grande modello epico del
dell’intreccio passato, Omero, in un complesso rapporto di
 il prevalere di una trama “d’intrigo” e la emulazione, ma il poeta rinnova i materiali
presenza di un deus ex machina che permette poetici, fondendoli con altri elementi desunti
la risoluzione dell’intreccio da altre fonti, greche e romane, in funzione del
 sceglie di colorare le sue tragedie con l’ analisi significato dell’opera
dell’interiorità dei personaggi e dei loro  sviluppa la prospettiva del racconto
impulsi irrazionali, con particolare attenzione dall’interno del mondo psicologico e
agli sconvolgimenti prodotti dall’eros affettivo del protagonista
 sceglie di denunciare il disagio esistenziale  dà spazio e voce anche alle “ragioni dei vinti”
dell’uomo e sceglie come protagonisti i  abbandona l’oggettività del racconto epico di
deboli, gli umili, per eccellenza le donne, Omero per adottare una narrazione soggettiva
coloro che accettano il loro destino di morte (spesso interrompe la narrazione per
 il tono patetico è dominante, al fine di intervenire nelle vicende)
sottolineare la condizione di disagio dell’uomo  affiorano il dubbio e l’inquietudine religiosa,
 la narrazione è soggettiva, infatti è ma lascia che le vicende seguano la volontà
considerato un provocatore, poiché propone divina
un’immagine della realtà distorta e priva di
certezze
 un demistificatore dei valori tradizionali:
sceglie una forma di scetticismo nei confronti
delle divinità (indecifrabili) poiché consapevole
della casualità o la Tuke che regola le vicende
umane

Infatti, nonostante Virgilio abbia attinto la figura di Didone dalla Medea rappresentata prima in Apollonio
Rodio e poi in Euripide, egli rinnova i materiali poetici in funzione del significato che ha la vicenda
all’interno del poema: la passione estrema tra Didone e Giasone conclusasi nell’odio, serve a spiegare
l’origine dell’amicizia storica tra Roma e Cartagine. Per l’appunto, l’Eneide è un’opera epico-celebrativa,
non epico-storica di argomento temporaneo: il mito è il nucleo primario della vicenda e la storia è
recuperata o sotto forma di profezia del futuro o come procedimento eziologico, individuando
nell’antichità mitica la causa remota (àition) di avvenimenti, riti, costumi moderni (come lo è in questo caso
la vicenda amorosa).

In Euripide, la tragedia parte con il prologo che ha una funzione di tipo espositivo, in quanto si descrive
subito l’antefatto e si riassumono i contenuti, ma la narratrice dell’antefatto è la nutrice di Medea, che è
emotivamente coinvolta nella vicenda e percepisce il dissidio interiore della sua padrona. Della donna, si
sottolinea subito il suo continuo barcollare tra follia e razionalità, tra pathos e compostezza; infatti, mentre
la nutrice descrive la vicenda e l’amore che distrugge Medea, la donna non appare sulla scena, gli spettatori
odono solo i suoi lamenti altamente patetici. Ella appare nella parodo, perfettamente padrona di sé, non
più in preda ai suoi scomposti stati d’animo che la prosciugano, ma è in grado di riflettere sulla situazione.

225. ἐμοὶ δ΄ ἄελπτον πρᾶγμα προσπεσὸν τόδε

226. ψυχὴν διέφθαρκ΄· οἴχομαι δὲ καὶ βίου

227. χάριν μεθεῖσα κατθανεῖν χρῄζω͵ φίλαι.

Afferma sopraffatta dal dolore, ma in totale compostezza.

Rivolgendosi al coro composto da sole donne (non a caso), riflette sulla condizione collettiva delle
donne, condannate alla subordinazione agli uomini nel chiuso contesto domestico. Infatti, uno dei
principali obiettivi di Euripide nelle sue tragedie è quello di denunciare il disagio esistenziale dell’uomo:
nelle tragedie delle grandi eroine, discute da un punto di vista insolito (quello di una donna diversa per
eccellenza), contrapponendoli ai privilegi del γένος difesi da Giasone. Ma Euripide, attraverso la sua
provocatoria originalità, usa un espediente: Medea è una donna straniera, barbara, esule, senza madre,
padre o fratelli ai quali aggrapparsi per il dolore, e questa condizione permette di suscitare una certa
solidarietà da parte delle donne del coro che sono corinzie, senza che questo possa essere percepito come
un pericolo per la tradizionale società androcentrica del tempo che privilegiava la tutela dei diritti del γένος.

Ma Medea, in tutto il suo strazio, ha sete di vendetta, è determinata a distruggere suo marito che le ha
inflitto un tale dolore. Infatti negli ultimi versi del suo monologo nella parodo, afferma:

263. γυνὴ γὰρ τἄλλα μὲν φόβου πλέα Una donna, per il resto è piena di paura

264. κακή τ΄ ἐς ἀλκὴν καὶ σίδηρον εἰσορᾶν· e vile difronte alla forza e alla vista di un’arma;
265. ὅταν δ΄ ἐς εὐνὴν ἠδικημένη κυρῇ͵ ma quando le accade di subire giustizia riguardo al suo letto
266. οὐκ ἔστιν ἄλλη φρὴν μιαιφονωτέρα.
non vi è un animo più sanguinario.

La complementarietà di fattori irrazionali e razionali nella figura di Medea emerge in particolar modo
nella rhesis del quinto episodio, momento che precede l’uccisione dei figli: l’ analisi razionale
(βουλεύματα) della sua situazione che conduce alle decisioni, conferma la necessità di compiere quella
vendetta, alla quale è irresistibilmente spinta anche dal suo impulso irrazionale (θυμός). Quindi, questa
conoscenza razionale è completamente svalutata e rovesciata poiché anziché essere conoscenza del bene
e sua conseguente attuazione secondo le prospettive dell’insegnamento socratico (Socrate: “l’uomo è
cattivo poiché non conosce il bene, se lo conoscesse, sarebbe buono), è strumento per rafforzare un
impulso irrazionale al male. E, dopo aver indugiato, con una descrizione patetica immersa nel dolore (molti
interrogativi), con determinazione la donna lascia andare i suoi figli affermando:

1076. Χωρεῖτε χωρεῖτ᾽· οὐκέτ᾽ εἰμὶ προσβλέπειν Andate, andate. Non più sono capace di guardarvi,

1077. οἵα τε †πρὸς ὑμᾶς† ἀλλὰ νικῶμαι κακοῖς. ma sono vinta dai mali.

1078. Καὶ μανθάνω μὲν οἷα τολμήσω κακά, E comprendo quali mali sto per compiere,

1079. θυμὸς δὲ κρείσσων τῶν ἐμῶν βουλευμάτων, ma la passione è più forte dei miei desideri,

1080. ὅσπερ μεγίστων αἴτιος κακῶν βροτοῖς. che è causa per i mortali dei più grandi mali
Quindi, l’offesa di una donna è riuscita a cancellare l’amore di una madre.

Qui, si comprende tutto lo strazio di Medea, in una vendetta che non riesce in alcun modo a riscattare:
l’infanticidio non può costituire una risposta all’αδιχία (“ingiustizia”) di Giasone, ma piuttosto si traduce in
una estrema forma di autopunizione.

Nel IV libro dell’Eneide, Virgilio descrive Didone che si unisce ad Enea in una folle passione, della quale
sono descritti i sintomi: la regina perdutamente innamorata, confessa alla sorella i propri sentimenti. Come
una cerva che fugge inutilmente con la freccia conficcata nel fianco, Didone soccombe all’amore.
Si sottolinea l’inutilità di qualsiasi preghiera se si è vittime dell’amore. Le parole che descrivono lo stato
d’animo di Didone appartengono alla sfera del fuoco, della follia, della ferita e dell’afflizione e sono usate
parole e immagini appartenenti a questa sfera per sottolineare la pericolosità di questo sentimento
travolgente.

65. Heu vatum ignarae mentes! Quid vota furentem Ah, menti ignoranti degli uomini! A che cosa giovano le follie,
66. quid delubra iuvant? Est mollis flamma medullas a che cosa giovano i templi? La dolce fiamma divora le midolla

67. interea et tacitum vivit sub pectore volnus. e la ferita silenziosa vive sotto il petto.
68. Uritur infelix Dido totaque vagatur Brucia l’infelice Didone e si aggira per tutta la città
69. urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta, In preda alla passione, come una cerca colpita da una freccia,
70. quam procul incautam nemora inter Cresia fixit che il pastore ha trafitto da lontano con una freccia
71. pastor agens telis liquitque volatile ferrum inseguendola incauta tra i boschi di Creta e le ha lasciato
72. nescius: illa fuga silvas saltusque peragrat conficcata la freccia senza accorgersene: quella in fuga attraversa
73. Dictaeos, haeret lateri letalis harundo. le selve e le macchie del Dicte, la freccia letale è infitta nel fianco.

 La parola furor (che ha la stessa radice del verbo furere “essere fuori di senno”) indica una
manifestazione esasperata e patologica di sentimenti, che sfocia in ira e ferocia;

 La parola flamma è una metafora tradizionale del fuoco che divampa dirompente e allude al
carattere improvviso della passione e alla sua violenza distruttiva;

 La parola vulnus contiene una radice indoeuropea che significa “lacerare”, comune anche ai verbi
vulnerare (“ferire”) e vellere (“strappare”). Il termine è usato nella tradizione letteraria amorosa
per indicare il corpo inferto da Amore, dio dotato di arco e di frecce, che trafigge in modo
imprevisto.

Come anche i termini “dementia” e “insanus”, si sottolinea la condizione della donna, travolta da un
amore che rende folli, deliranti e annulla le capacità razionali, senza più controllo di sé.

Nonostante nel I libro Virgilio presenti Didone ed Enea con la stessa statura eroica (entrambi avevano
perso un compagno, Creusa e Sicheo, entrambi avevano affrontato un lungo viaggio in cerca di un nuovo
regno di cui essere capostipiti), nel IV libro non riescono a comunicare poiché ciascuno è portavoce delle
proprie ragioni che l’altro non può comprendere.
Didone esplode dalla rabbia dopo aver colto la partenza di Enea e lo accusa di essere perfidus, cioè di aver
violato la fides del loro rapporto d’amore, di aver dissimulato un nefas, cioè un atto empio contro le leggi
sacre dell’ospitalità e di aver dimenticato il loro amore con impegni che comporta. In seguito, all’invettiva
subentra la supplica della donna per amore; ma, di fronte all’irremovibilità di Enea e Didone, non resta che
esprimere il rimpianto per una maternità mancata che l’avrebbe resa meno sola.

La situazione è analoga a quella che vive Medea: al principio addolorata, accusa il marito di aver
tradito la fides del loro matrimonio, rimpiange di aver abbandonato la sua famiglia per lui, i valori del γένος
difendono i diritti dell’uomo (società androcentrica) e tralasciano quelli della donna, in particolar modo una
barbara quale è. Quindi, la supplica di Didone diventa desiderio di vendetta in Medea e l’unico modo per
arrecare dolore a Giasone lo ha trovato nell’infanticidio, nell’uccisione dei suoi stessi figli, che tanto Didone
desiderava.

Per questo, entrambe sono vittima dell’eros, della passione, ma in modo differente: Didone è divorata
dall’amore per Enea, mentre Medea è guidata da un senso vendicativo.

Infatti, Didone cambia nel corso dell’opera: nel I libro appare splendente e raggiante nelle vesti di regina,
nel IV diventa “infelix Dido”, in preda al furor. Al contrario, Medea è descritta sin dal principio come colei
che si muove per il solo desiderio di vendetta a causa del tradimento.

Di Didone, si descrive l’eros che la travolge nei confronti di Enea, uomo pius, barbaro ed esule, il quale
non solo ha violato la ξενία (“ospitalità”), un valore molto importante ai tempi greci, ma ha ripudiato anche
la donna stessa che lo ha ospitato, sottraendole ogni cosa: dal pudor che la innalzava alle stelle,
all’autorevolezza sui suoi sudditi e infine la sua stessa vita. Il suo cedimento all’amore è una culpa, perché
ella viene meno ai doveri sia verso se stessa sia verso il popolo di cui è regina; Didone rinuncia infatti a
difendere il suo onore e trascura il compito di artefice di nuova civiltà e tutto nella città si blocca.

Di Medea, invece, si descrive la sua condizione di barbara e si giunge direttamente alle conseguenze di
questo eros passionale tradito, per il quale aveva abbandonato la sua patria e la sua famiglia uccidendo
anche suo fratello, che si è già trasformato in ira e sete di vendetta, un odio che vince sull’eros non solo
coniugale, ma anche l’amore nei confronti dei suoi figli, uccisi per il solo desiderio di arrecare dolore,
nonostante le si ritorcesse contro.

Possono essere definite entrambe personaggi della coincidentia oppositorum: fanno coincidere l’odio
e l’amore, la passione e la vendetta.

Ma scelgono due modi differenti di punire l’uomo che non è rimasto fedele: Didone ha scelto il suicidio,
ha scelto di punire se stessa; Medea decide di punire Giasone con l’uccisione dei suoi stessi figli.

Nessuna delle due riesce a colmare totalmente il desiderio di vendetta, poiché esso si trasforma in
un’autopunizione.

La punizione scelta nasce da un fattore determinante: la concezione sulle divinità da parte dei due
poeti. Per quanto concerne il pensiero religioso, infatti, Euripide, non negò l’esistenza degli dei da posizioni
di ateismo, la sua fu una religiosità tormentata, tesa a cogliere i segni degli dei e l’eticità della loro azione
nel mondo degli uomini: messe da parte le certezze religiose e constatato che le vicende umane procedono
senza ordine e senza direzione, l’autore si attestò su una concezione casualistica del mondo individuando
nella sorte, la Τύχε, il principio di organizzazione dell’esistenza.

Nell’Eneide, Virgilio non si muove in modo radicale come Euripide, ma fa emergere la sua perplessità
riguardo alla volontà divina che è imperscrutabile e incomprensibile per l’uomo, il quale senza ribellarsi,
accetta il Fato (Enea deve lasciare Cartagine per raggiungere l’Italia secondo il volere degli dei), ma non
nasconde il suo turbamento di fronte al mistero. Infatti, lui stesso affermerà di desiderare una religione più
autentica.
Per questo, Medea si vendica eliminando non se stessa, ma ciò che Giasone poteva avere di più caro (i suoi
figli) poiché egli la tradisce per ambizioni politiche, giustificando il ripudio sostenendo di aver pensato al
futuro dei figli e del γένος; mentre Didone si suicida poiché cosciente dell’ανάγκη (necessità) di Enea di
raggiungere l’Italia poiché non può sottrarsi al Fato e al volere degli dei.

Per questo, Didone è destinata alla sconfitta a causa di un volere superiore: tra Didone ed Enea non c’è
comunicazione poiché ognuno resta fermo sulla propria realtà (si tratta anche di una logica dell’Eneide in
cui la dimensione individuale deve lasciare spazio a quella collettiva).

Medea, invece, è mossa dal solo obiettivo di rendere reale quella vendetta, qualcosa che gioverà solo a se
stessa, che in realtà la porterà ad un’autodistruzione (esaltazione della dimensione individuale con
obiettivo di denuncia del disagio sociale dell’uomo).

Il messaggio delle due opere è opposto: Virgilio ha come obiettivo quello di rappresentare il vittorioso
imporsi della ragione sul disordine distruttivo delle passioni (la pietas, cioè la devozione e il rispetto per la
patria, la famiglia e gli dei, sull’amor) e spiegare sul piano storico-politico, la causa della fine del disordine
causato dalle guerre civili grazie all’ordine imposto dal regime augusteo; Euripide si propone come
difensore del disagio sociale dei più deboli, in particolar modo le donne, e soprattutto come demistificatore
dei valori tradizionali.

Due autori appartenenti ad epoche lontane, in grado ancora di emozionare poiché porta-voci di valori,
passioni, sentimenti che avvolgono l’uomo non collocato in uno spazio o in un tempo, ma appartenente ad
una specie, in quanto esseri viventi che vivono una condizione elitaria rispetto agli altri poiché dotati di una
sensibilità eterna e incondizionata.

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