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Chrétien de Troyes e il romanzo


di Mario Mancini

1. «Erec et Enide», primo romanzo arturiano

Sulla scena del romanzo francese medievale spicca, senza rivali, la figura Chrétien de Troyes
di Chrétien de Troyes – legato alla corte di Maria contessa di Champagne
(1145-1198), a cui è dedicato il Chevalier de la charrete, e poi a quella di Filip-
po d’Alsazia, conte di Fiandra dal 1168 al 1191, a cui è dedicato il suo ultimo
romanzo, Le conte du Graal – che gode subito di uno straordinario prestigio.
L’uso dell’intreccio e delle immagini, il contorno dei personaggi, i movimen-
ti della sua scrittura sono singolari, originalissimi, e i romanzieri che vengono
dopo di lui cercano esplicitamente di distanziarsi – «Ne dira nus hon que je
robe / les bons dis Crestïen de Troies» [Nessuno potrà dire che io rubi / i bei
detti di Chrétien de Troyes] leggiamo nell’anonimo Hunbaut (vv. 186-187)
– nel momento stesso in cui ne riconoscono l’eccellenza. Per Huon de Méry,
nel Tournoiement Antéchrist (1236), Chrétien appartiene, insieme a Raoul de
Houdenc, a un periodo d’oro, insuperabile, della letteratura francese:

Molt mis gran peine a eschiver


les diz Raol et Crestïen,
c’onques bouche de crestïen
ne dist si bien com il disoient.
Mes quant qu’il dirent il prenoient
le bel françois trestot a plein
si com lor venoit a mein,
si c’aprés eus n’ont rien guerpi.
(vv. 3534-3541)

[Ho fatto ogni sforzo per evitare / i modi di Raoul e di Chrétien, / che mai bocca
di cristiano / parlò così bene come loro. / Perché scrivendo prendevano / al volo il
bel francese così / come veniva nelle loro mani, / e dopo non hanno lasciato nulla.]

Wolfram von Eschenbach, pur dissentendo con lui sul vero significato del-
la storia del Graal, lo nomina con rispetto come von Troys meister Cristjân
(Parzival, 827,1).

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La letteratura francese medievale

La «materia I suoi romanzi – Erec et Enide (1170 ca.), Cligès (1176 ca.), Le chevalier de la
di Bretagna charrete (Lancelot) e Le chevalier au lion (Yvain), composti parallelamente
negli anni 1177-1181, Le conte du Graal (Perceval), scritto tra il 1182 e il 1190
– insieme ai Lais di Maria di Francia, consacrano in modo clamoroso la for-
tuna della «materia di Bretagna», della corte di re Artù e dei suoi cavalieri,
legandola inscindibilmente ai nuovi rituali amorosi e mondani della cortesia
e a una raffinatissima arte del narrare. Impongono al romanzo medievale una
svolta decisiva, di cui Chrétien, già nel prologo dell’Erec, si mostra orgoglio-
samente consapevole: «Des or comancerai l’estoire / qui toz jorz iert an mi-
moire / tant con durra crestïantez; / de ce s’est Crestïens vantez» (vv. 23-26)
[Ora comincerò una storia / che resterà nella memoria per sempre / finché
durerà la Cristianità: / di questo si è vantato Chrétien].
La via indicata dai romanzi antichi – Roman de Thèbes, Roman d’Eneas, Ro-
man de Troie – pure così importanti nel dare alla classe cavalleresca, attraver-
so lo sfarzo scenografico e il preziosismo della casuistica amorosa, una nuova
coscienza della propria distinzione e dei propri destini, sembra improvvisa-
mente esaurirsi. Le loro descrizioni sontuose di vesti, di oggetti d’arte, di fe-
ste, vengono puntualmente imitate dai narratori successivi, che lasciano però
trasparire, Chrétien per primo, un gusto per il pastiche e una certa dose di iro-
nia. Sopravvive un’Antichità legata all’esotismo, alla scoperta illimitata del
mondo (vedi la fortuna del Roman d’Alexandre) o allo sviluppo vertiginoso,
ellenistico dell’intreccio, ricco di rovesci di fortuna, di travestimenti, di inco-
gniti e di agnizioni (Floire et Blancheflor, Roman d’Apolloine).
L’anima celtica Il trionfo della materia di Bretagna è legato alle sue straordinarie possibilità
di atmosfera, di mistero, alla sua capacità di aprirsi alle sorprese e al rischio
dell’esistenza, di farsi «racconto». Essa attinge a una ricchissima tradizione
celtica di leggende e di storie – a diffusione orale, ma sono giunti fino a noi,
raccolti in manoscritti del xiii-xiv sec., i racconti gallesi dei Mabinogion,
i cicli eroici irlandesi del re Conchobar e di Cuchulainn... – caratterizzate
dal meraviglioso, dal viaggio iniziatico, da un rapporto costante con l’Altro
Mondo. Con le parole di Ernest Renan che, sulla scia di Chateaubriand, si
china affascinato sui segreti dell’«anima celtica»:

L’elemento essenziale della vita poetica del Celta è l’avventura, come ricerca dell’i-
gnoto, come corsa senza fine dietro l’oggetto sempre in fuga del desiderio. Questo
sognava san Brandano al di là dei mari, questo domandava il cavaliere Owenn al-
le sue peregrinazioni sotterranee. Questa razza vuole l’infinito: ne è assetata, lo
insegue a ogni costo, al di là della tomba, al di là dell’inferno (La poésie des races
celtiques, pp. 258-9).

Wace, nel Brut, aveva già portato sulla scena i personaggi principali di que-
ste storie destinate a così grande fortuna, Artù, Ginevra la regina, Galvano,
nipote del re, Keu, il suo siniscalco, ma in una dimensione ancora cronachi-

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stica: l’originalità di Chrétien si manifesta nei modi di strutturazione dello


spazio e del tempo, nell’architettura della narrazione.
Già le prime scene di Erec et Enide ci offrono un bell’esempio di abilità com- Erec et Enide
positiva, intrecciando e quasi sovrapponendo due usanze, due costumes di-
verse, quella arturiana della caccia al Cervo Bianco e quella dello Sparviero.
Nella prima usanza, antichissima, perché trasmessa a Artù dai suoi avi, ma
rischiosa, perché mette in gara i cavalieri della Tavola Rotonda tra di loro –
«Chascuns vialt par chevalerie / desresnier que la soe amie / est la plus bele
de la sale; / molt est ceste parole male» (vv. 295-298) [Con le armi ciascuno
vuole / sostenere che la sua amica / è la più bella della corte: / corrono parole
pericolose] – l’uccisore del cervo potrà scegliere a piacimento una dama, che
sarà proclamata come la più bella. Nella seconda usanza, che si svolge fuori
dal mondo arturiano, uno sparviero, posto sopra un’alta pertica, viene ogni
anno offerto in omaggio a una dama: chi si fa avanti per rivendicarlo dovrà
affrontare in duello gli eventuali sfidanti. Il giovane eroe del romanzo, Erec,
conquista valorosamente lo sparviero – strappandolo al misterioso e arro-
gante cavaliere che l’aveva oltraggiato il giorno prima nella foresta, e vendi-
cando quindi anche l’offesa subita – e lo offre alla bellissima fanciulla che ha
appena conosciuto, Enide. Giunge poi alla corte in tempo perché Artù, che
ha ucciso il cervo, su invito della Regina possa baciare proprio Enide, la sua
promessa sposa. Davvero un ben combinato intreccio!
Il motivo del Cervo Bianco viene dal folklore celtico, dove suole introdur- Il Cervo Bianco
re l’incontro con una donna misteriosa e sovrana – vedi il lai di Guigemar
di Maria di Francia, i lais anonimi di Guingamor e di Graelent– nell’anti-
chità classica la caccia al cervo si lega ai destini funesti di Atteone, di Adone.
Chrétien ne fa un’«usanza», dandogli uno sfondo sociale, cortese, ne fa una
gara per la supremazia: «qui le blanc cerf ocirre puet / par reison beisier li
estuet / des puceles de vostre cort / la plus bele, a que que il tort» (vv. 45-48)
[Chi uccide il cervo bianco / ha il diritto di baciare / delle fanciulle della vostra
corte, / a sua scelta, la più bella]. Nella nuova costellazione tematica, nell’in-
treccio delle due usanze, si realizza la consacrazione del valore cavalleresco e
insieme della bellezza femminile – la costume dello Sparviero comporta un
duello, e l’«offerta dello Sparviero» che il guerriero fa alla dama è un segno
inequivocabie della sua sottomissione (Fassò) – a fondare una nuova poetica.
Il giovane Enec, figlio di re Lac, è destinato a divenire a sua volta re, ma prima Incontro con Enide
deve trovare una sposa: il tema della sovranità si lega a quello matrimoniale.
L’avventuroso incontro con Enide, la bellissima figlia di un povero valvasso-
re, si conclude, rapidamente, nella felice unione di due esseri che sono fatti
l’uno per l’altro: «molt estoient igal et per / de corteisie et de biauté / et de
grant debonereté» (vv. 1484-1486) [Erano proprio uguali e pari / per la cor-
tesia e la bellezza / e per la grande nobiltà]. Tutto questo è solo una sorta di
preambolo al romanzo vero e proprio – Ici finist li premiers vers, «Qui finisce
la prima parte» scrive Chrétien al v. 1796 – costituisce un «petit noman

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idyllique» (Frappier, Chrétien de Troyes, p. 63), dai fragili anche se incan-


tevoli tratti fiabeschi. Il racconto procede con la sobria indicazione di gesti
significativi, a tracciare i carattere dei protagonisti: Erec, elegante, impulsivo,
risoluto, un po’ ombroso, Enide, bellissima, modesta, ubbidiente, devota, a
tratti vergognosa, abbandonata tranquillamente alla sua nuova felicità.
La crisi L’idillio è perfetto, ma di breve durata. Negli agi amorosi della vita coniugale
Erec dimenticherà ogni altra cosa, i compagni, i tornei, il valore cavalleresco
– «Mes tant l’ama Erec d’amors, / que d’armes mes ne li chaloit...» (vv.
2430-2431) [Ma così amorosamente l’amò Erec / che più non si curava delle
armi] – incorrerà nelle accuse di viltà, di recreantise, e sarà la stessa Enide,
sgomenta, in lacrime, a rivelargli la verità. Se rileggiamo a questo punto, a
partire dalla scena della crisi, il premier vers, lo troviamo disseminato di tratti
inquietanti. La bellezza di Enide, così straordinaria da apparire quasi un trat-
to fiabesco, magico, è una sorta di «specchio» pericoloso – «Que diroie de
sa biauté? / Ce fu cele por verité / que fu fete por esgarder, / qu’an se poïst an
li mirer / ausi com an un mireor» (vv. 437-441) [Che dire della sua bellezza?
/ Era una donna fatta / per essere guardata: / in lei uno poteva specchiarsi
/ proprio come in uno specchio] – e questo collega subliminalmente la sua
figura, che Erec sembra dominare completamente, a costellazioni fascinose
e fatali, gli occhi-specchio della dama nella canzone della lauzeta di Bernart
de Ventadorn, la fontana di Narciso... Non solo, dietro l’immagine dell’in-
cantevole ma ancora inesperta eroina, traspare Ginevra, ammantata del suo
fascino imperioso di Regina. Nel duello dello Sparviero la sua figura si so-
vrappone a quella di Enide, da cui pure il cavaliere attinge forza e fierezza
per combattere: «remanbre li de la reïne» (v. 913) [si ricorda della regina].
Saranno le sue sontuose vesti regali a sostituire la tunica consunta con cui la
fanciulla, per l’ostinazione di Erec, fa il suo ingresso alla corte.
Erec sembra quasi annegare nell’immagine di una donna irreale, costruita,
frettolosamente, per le sue ambizioni narcisistiche, e per il suo piacere. Ab-
bandona la regina, con cui lo vediamo passeggiare nella primissima scena, ma
solo per andare in cerca di una donna «assoluta», Enide, da portare nella
corte nuda, senza le «sue» vesti, da costruire sul modello della regina, così
da farne il suo sostituto. In tutta la prima parte del romanzo aleggia il fanta-
sma della Regina, perché è lei la donna che detiene la dominanza, la maîtrise
(Rey-Flaud).
Moglie e amica Nella seconda parte del romanzo, che cresce su queste contraddizioni, un
precipitoso accumularsi di avventure, di duelli, di intrighi – la straordinaria
bellezza di Enide, come un dono maledetto, attira su di lei ammirazione e
sfrenate bramosie – arriva a creare nella coppia una nuova, diversa complici-
tà. Dopo una serie di prove, rese ancora più dure dal comportamento freddo
e imperioso di Erec, che le impone l’obbligo del silenzio – certo una sorta di
contrappasso per la sua parole di biasimo che ha aperto la crisi, ma anche un
sottile gioco di teatro, perché la salvezza di entrambi richiede, ripetutamente,

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che il silenzio venga infranto... – Enide si sentirà finalmente moglie e amica,


fame e amie (v. 4650).
Su questo nuovo raggiunto equilibrio – che qualcuno ha proposto di riassu-
mere nella formula di «amour courtois conjugal» (Frappier, Vues sur les con-
ceptions courtoises, p. 144) – la critica si è interrogata a lungo. Erec riceve Eni-
de dalle mani del padre di lei, come un «oggetto» prezioso che appartiene a
loro due, e che cambia solo di padrone: «tot a vostre comandemant / ma bele
fille vos comant» (vv. 675-676) [del tutto al vostro potere / affido a voi la mia
bella figlia]. È stato notato come questa complicità patriarcale debba necessa-
riamente escludere lo zio materno di Enide, il conte di Laluth: prima il padre
di Enide, nonostante sia ridotto in povertà, e poi Erec rifiutano esplicitamen-
te i suoi doni (Maddox). Enide viene accuratamente tenuta separata dalla
sfera matriarcale, che la renderebbe più forte. Crescerà la sua autonomia, nel
corso del romanzo? Erec, dopo la riconciliazione, si dice pronto a obbedir-
le, usando, un po’ sibillinamente, i linguaggio dell’amore cortese: «Or voel
estre d’or en avant, / ausi com i estoie devant / tot a vostre comandemant»
(vv. 4888-4890) [D’ora in avanti voglio essere, / così come lo ero prima, /
del tutto ai vostri ordini]. Ma l’occasione di obbedirle, come ha fatto notare
Barbara Nelson Sargent-Baur, non si presenta: quello che il testo ci mostra è
solo Erec nell’esercizio della sua autorità maritale. Il loro amore potrà essere
ora «cortese», secondo le convenzioni della fin’amor, ora «coniugale», se-
condo le regole della società reale, in una continua oscillazione: «Erec non è
né insincero né incoerente: si muove soltanto, in modo alterno, in due sfere
diverse» (Sargent-Baur, Erec’s Enide: «sa fame ou s’amie»?, p. 387).
La ricchezza di Erec, figlio di re, il suo potere sembrano giocare sino alla fine Erec, figlio di re
del romanzo un ruolo dominante. Se Enide rifiuta il matrimonio e le ric-
chezze di potentissimi e brutali pretendenti, restando fedele alla memoria di
Erec, creduto morto, essa resta sempre un po’ prigioniera della sua clamorosa
ipergamia, ancora alla fine del romanzo, quando recita alla cugina:

Il m’ainme molt, et je lui plus,


tant qu’amors ne puet estre graindre.
Onques ancor ne me soi faindre
de lui amer, ne je ne doi:
voir, mes sires est filz de roi,
et si me prist et povre et nue;
par lui m’est tex enors creüe
qu’ainz a nule desconseilliee
ne fu si granz apareillliee.
Et s’il vos plest, jel vos dirai,
si que de rien n’an mantirai,
comant je ving a tel hautesce.
(vv. 6254-6265)

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[Lui mi ama molto, io ancora di più, / non ci può essere amore più grande. / Finora
non ho fatto finta / di amarlo, non devo fingere: / il mio signore è figlio di re / e
mi ha presa povera e nuda, / in lui è tutta la mia fortuna / e mai a una miserella / ne
toccò una così grande. / Se vi fa piacere, vi dirò, / senza una parola che non sia vera,
/ come sono giunta così in alto.]

Sarà un caso che nella ricezione trobadorica Enide compaia una volta proprio
sotto questo segno, come colei che è stata «enrequida» [«Enquer er miels
que d’Enida, / can Erecs l’ac enrequida» [Starà ancora meglio di Enide, /
che Erec fece ricca e potente]. (Guilllem Raimon de Gironela)?
Ma è anche vero che Erec, così legato al matrimonio come istituzione pa-
triarcale e alla sua sovranità di marito, non è per nulla insensibile alla strana
mescolanza dei ruoli (moglie e amie) che il romanzo mette in scena, e sembra
disposto, nel corso degli avvenimenti, a «rivedere il suo problema ad un livel-
lo più alto di esperienza e di astrazione» (Adler, Sovereignity as the principle
of unity in Chrétien’s «Erec», p. 929).
La parole Ed è anche vero che Enide, dalla devota timidezza iniziale, dall’angoscia pie-
na di colpa della scena della crisi, cresce impetuosamente su se stessa. Il segno
della mutazione del personaggio è scandito, nelle pieghe stesse del testo, dalla
sua parole. Prima la parole di rimprovero, che le sfugge dalle labbra, contro
la sua stessa volontà, nella scena della crisi, e di cui si pente ripetutamente e
amaramente, poi la parole testarda e fiera con cui sfida più volte l’obbligo del
silenzio impostole da Erec – «Ancor le vos pardonrai ore; / mes autre foiz
vos an gardez, / ne ja vers moi ne regardez, / que vos ferïez molt que fole, /
car je n’aim pas vostre parole» (vv. 3002-3006) [Ora ve lo perdono, / ma
un’altra volta badate / a non guardare verso di me: / fareste una grande follia,
/ perché non amo la vostra parola] – fino alla parole astuta con cui sfida la
tracotanza omicida del più pericoloso dei suoi indesiderati corteggiatori.
Nella grande scena con il conte Caloain (come è chiamato nel manoscritto
R), Enide finge di odiare Erec, per salvargli la vita, finge abilissimamente di
cedere alle proposte del conte, che ha deciso di uccidere Erec per fare di lei
m’amie chiere e la dame de tote ma terre. Sofisticata, cinica, ma per finzione,
come il narratore subito ci rassicura, Enide assurge qui a una insospettata
grandezza, fatta di sangue freddo, di retorica, di amore e di ruse:

Trop ai menee ceste vie,


je n’aim mie la compaignie
mon seignor, ja n’an quier mantir.
Je vos voldroie ja santir
an un lit certes nu a nu.
[...]
Bien sot par parole enivrer
bricon, des qu’ele i met l’antante:

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4. Chrétien de Troyes e il romanzo

mialz est asez qu’ele li mante,


que ses sire fust depeciez.
(vv. 3390-3413)

[Sono stanca di questa mia vita / perché non amo, vi assicuro, / la compagnia del
mio signore. / Non vedo l’ora di stringervi, / nudi, dentro un letto. / ... / Con la
parola sa bene ubriacare / un furfante, quando vuole: / meglio questa menzogna,
piuttosto / che il suo signore sia fatto a pezzi.]

Il crescendo delle prove rende Erec, insieme alla sua sposa, degno della regali-
tà. Non senza conflitti e rivalità possibili, sia pure nel quadro di una trasposi-
zione onirica, con la regalità arturiana, tanto che si è potuto parlare di «lotta
con il re-padre» (Fassò).
L’innegabile trionfalismo dell’intreccio, che culmina con l’episodio del- La Gioia della Corte
la Gioia della Corte – dove Erec vince in duello Maboagrain e lo sottrae
all’incantesimo dell’imperiosa damigella del Giardino – e con la fastosa sce-
na dell’incoronazione del giovane re e della sua sposa, non toglie nulla alla
godibilità della storia: è compensato da vistosi, calcolatissimi colpi di scena,
da romanzo di cappa e spada, dal senso delle sfumature, da un patetico non
privo di affettuosa ironia, da una verve leggera e divertita.
Il manto che Erec indossa all’incoronazione, dove quattro fate hanno rica- La ricerca
mato con fili d’oro le arti del Quadrivio – Aritmetica, Geometria, Musica e della felicità
Astronomia – è un po’ l’emblema della poetica del romanzo. Rappresenta il
ricordo del mondo celtico delle fate – ai vv. 1907, 2358, 4194 compare Mor-
gant la fee – ma anche lo spazio riconosciuto alle discipline dello spirito e alla
dignità di una nuova cultura. Con Erec et Enide Chrétien vuole celebrare l’e-
leganza, lo sfarzo, la raffinatezza a volte un po’ manierata della nuova civiltà
cortese, ma soprattutto la generosità dell’animo, il rischio, la ricerca ostinata
e consapevole della felicità, al di là di ogni ostacolo e di ogni convenzione.
La luminosità di questo romanzo è fatta anche delle sue ombre, la Gioia è
perduta e ritrovata – gli aspri duelli del passato cedono ora al combattimento
amoroso – in un itinerario di «penitenza», purgatoriale, che è stato anche
un’iniziazione:

Ansanble jurent an un lit,


et li uns l’autre acole et beise:
riens nule n’est qui tant lor pleise.
Tant ont eü mal et enui,
il por li et ele por lui,
c’or ont feite lor penitance.
Li uns ancontre l’autre tance
comant il li puise pleisir:
del sorplus me doi bien teisir.

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La letteratura francese medievale

Or ont lor dolor obliee


et lor grant amor afermee,
que petit mes lor an sovient.
(vv. 5200-5211)

[Insieme giacquero in un letto, / e si abbracciano e si baciano, / non c’è cosa che


piaccia loro di più. / Tanto fu il male e la pena che ebbero, / lui per lei e lei per lui, /
che ne hanno fatto penitenza. / L’uno combatte con l’altro / solo cercando di pia-
cergli: / dell’ultima gioia devo tacere. / Il loro dolore è dimenticato / nella forza del
loro amore, / è solo un pallido ricordo.]

2. La dominanza della dama

Amie e chevalerie, che compaiono in rima nel Roman de Brut di Wace – «Por
amistiez et por amies / font chevalier chevaleries» (vv. 1077 1-10772) [Per
amore e per le loro amiche / compiono cortesie cavalleresche i cavalieri] – in
Erec et Enide – «Chascuns vialt par chevalerie / desresnier que la soe amie /
est la plus bele de la sale» (vv. 295-297) [Con le armi ciascuno vuole / soste-
nere che la sua amica / è la più bella della corte] – poi qua e là, come un’eco,
nei testi romanzeschi successivi, hanno un valore emblematico, segnano la
coincidenza necessaria che si instaura tra l’amore, la presenza dell’amie, e i
nuovi ideali cavallereschi e cortesi.
Certo l’autorealizzazione del cavaliere, il dispiegarsi di tutte le sue potenzia-
lità interiori, e anche sociali, la stessa felicità dell’amore possono venire mi-
nacciati dalla predominanza della figura femminile, come ammonisce pro-
prio Erec et Enide, presentandoci la felicità idillica ma instabile e imperfetta
del premier vers, e, con più elaborata scenografia, facendo culminare tutte le
avventure nell’episodio della Gioia della Corte.
Maboagrain La storia di Maboagrain, il cavaliere «grande a meraviglia» chiuso in un
giardino incantato con la sua amica, per volontà di lei, è infatti la storia esem-
plare dell’assoluta sottomissione di un fedele d’amore alla sua dama. Sono le
nuove regole della cortesia, portate all’estremo: «Qui veheroit neant s’amie?
/ N’est pas amis qui antresait / tot le boen s’amie ne fait, / sanz rien leissier
et sanz faintise, / s’il onques puet an nule guise» (vv. 6008-6012) [Come
rifiutare qualcosa all’amica? / Non è un amico chi subito / il desiderio dell’a-
mica non compie / senza riserva e senza inganno, / per quanto gli riesce pos-
sibile]. E Maboagrain, senza protestare, devotamente e fatalmente, compie
la volontà della sua amica: restare con lei prigioniero (an prison, v. 6047) in
un giardino inaccessibile, affrontando tutti i cavalieri che si presentano, per
uccidere o per essere ucciso. Erec lo vince, in un terribile duello, gli fa grazia
della vita, libera la corte dalla pesante atmosfera che vi regna e la restituisce
alla Joie, sopprimendo una costume negativa e reinserendo la coppia nella so-
cietà cortese.

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4. Chrétien de Troyes e il romanzo

In questo episodio Chrétien costruisce sapientemente un’atmosfera di stra-


nezza e di mistero, di vera magia nera:

El vergier n’avoit an viron


mur ne paliz, se de l’air non;
mes de l’air est de totes parz
par nigromance clos li jarz,
si que riens antrer n’i pooit,
se par un seul leu n’i antroit,
ne que s’il fust toz clos de fer.
(vv. 5689-5695)

[Intorno al verziere non c’era / muro o steccato, solo aria; / dall’aria, da ogni parte,
/ per negromanzia è chiuso il giardino, / e nulla vi poteva entrare / se non da un solo
luogo, / come se fosse chiuso dal ferro.]

Un locus amoenus delizioso e fecondo, con fiori e frutti d’estate e d’inverno, Il Giardino magico
allietato dal canto degli uccelli, ma che la fila dei teschi piantati su una paliz-
zata – quelli dei guerrieri sconfitti e uccisi: e un palo ancora vuoto attende
la testa del nuovo sfidante, di Erec... – rivela come un luogo di barbarie e di
morte. La signora del giardino, che subitamente appare, è distesa su un letto
d’argento, coperto da un ricco drappo ricamato in oro, all’ombra di un albe-
ro, di un sicomoro (desoz l’onbre d’un siquamor, v. 5832). Per decifrare questo
scenario, densamente simbolico, è stato proposto un accostamento al giardi-
no sterile, popolato di salici e sambuchi, che compare in Al departir del brau
tempier di Marcabru, e più in particolare alla tradizione dell’esegesi scrittu-
rale e dell’enciclopedia, dove il sicomoro (da Rabano Mauro a Bartolomeo
Anglico) ha una connotazione fortemente negativa: sycomorus est ficus fatua
(Meneghetti). Più propriamente, a livello archetipico, il Giardino è un luogo
sacro, dove l’albero è l’asse dell’universo, l’Albero del Mondo – «Il simboli-
smo dell’Albero del Mondo è complemento di quello della Montagna centra-
le. Talvolta i due simbolismi interferiscono; in genere, l’uno integra l’altro.
Ma l’uno come l’altro non sono che formule mitiche più elaborate del tema
dell’Asse Cosmico. [...] Esso rappresenta l’Universo in continuo processo di
rigenerazione, la sorgente inesauribile della vita cosmica, il ricettacolo per
eccellenza del sacro, perché è nel “Centro” che si raccoglie il sacro celeste»
(Eliade) –: qui però i rituali di possessione, di violenza e di morte che vi si
consumano ne fanno una sorta di Tempio del Male.
Chrétien mescola cosmologia e féerie. Il letto d’argento, la ricchezza dei drap- La fata
pi, la straordinaria bellezza della dama evocano un’atmosfera fatata – basti
pensare all’apparizione della fata nel lai di Lanval: «Ele jut sur un lit mut
bel / li drap valeient un chastel. . .» (vv. 97-98) [Stava sdraiata su un letto
bellissimo, / i drappi valevano un castello...] – e del resto tutta la storia di Ma-

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La letteratura francese medievale

boagrain riprende chiarissimamente il tema folklorico del «cavaliere prigio-


niero di una fata». La fata trattiene presso di sé, per incantesimo e per amore,
un mortale, obbligandolo ad affrontare e a uccidere i rivali che si inoltrano
nello spazio interdetto. Se sconfitto, il cavaliere viene a sua volta ucciso ed è
sostituito dal vincitore nel suo triplice ruolo di amante, di prigioniero e di
guardiano di una costume funesta.
Renaut de Beaujeu Nel romanzo Le bel inconnu (1200 ca.) di Renaut de Beaujeu, che del resto
si rifà ad Erec et Enide, imitandolo abbondantemente, troviamo un episodio
analogo – invece che in un giardino siamo nel castello della Fata dalle Bian-
che Mani – con la menzione esplicita e circostanziata della trafila amorosa e
barbarica:

Li usages itels estoit:


quant nus de ses amis moroit,
quant il estoit mors en bataille,
celui prendroit sans nule faille
qui son ami ocis avoit;
de celui ami refaisoit
por qu’il peüst set ans tenir,
l’usage faire et maintenir.
Et qui set ans i puet durer
a celui se veut marïer,
de li ert sire et del manoir;
en cele guisse le doit avoir.
(vv. 2013-2024)

[Siffatta era la consuetudine: / allorché uno dei suoi pretendenti moriva / ucciso in
combattimento, / ella era tenuta a trattenere / chi avesse ucciso il suo spasimante; /
lo eleggeva a suo nuovo amico / acciò che provasse per sette anni / a garantire e man-
tenere la consuetudine. / Chi avesse resistito sette anni / l’avrebbe sposata, / sarebbe
divenuto signore suo e del castello; / in questo modo lo deve avere.]

Il «dono obbligante» Con tutta l’amabilità cortese con cui inscena la storia – Maboagrain dialo-
gando con Erec si rivelerà persona di delicati sentimenti, l’incantesimo della
fata è sostituito dal servizio cavalleresco – Chrétien non attenua la dominan-
za della dama, radicando la sua capricciosa tirannide nel motivo, ben noto al
folklore celtico, del «dono obbligante», del don contraignant. L’amica gli
ha chiesto un dono, che otterrà, ma senza specificarlo – «Tant que ele me
demanda / un don, mes el nel noma mie» (vv. 6006-6007) – ponendosi
come luogo della domanda illimitata, che esclude ogni reciprocità e sfugge
a ogni legge, della domanda folle: «D’ora in poi il cavaliere è condannato a
rimanere prigioniero del giardino incantato, i cui confini sono disegnati dal
desiderio della dama: impietrito sotto lo sguardo di lei, egli è schiavo della

186
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

propria parola alienata ed è consapevole, pur se di un sapere non saputo, che


la sconfitta e la morte sono il prezzo da pagare per la libertà» (Rey-Flaud, La
nevrosi cortese, p. 97).
L’episodio della Joie de la Cort è davvero centrale per Chrétien e per la cultu- La dominaza
ra cortese, mettendone a fuoco, attraverso un calcolato e misterioso ricorso dalla dama
alle tradizioni folkloriche, uno dei motivi originari: la figura della dama, la
sua potenzialità di fascinazione e di morte, la sua dominanza. Cavalieri famo-
si come Lancillotto, l’amante estatico della Regina – «Questo amore è una
sorta di fascinazione e nello stesso tempo di idolatria: lo prende tutto, non
lo lascia più padrone di nessuna parte del suo essere...» (G. Paris) – come
Tristano entrano nella leggenda insieme alle donne che hanno dominato i
loro pensieri, e i loro destini. Chrétien scriverà un romanzo su Lancillotto,
Le chevalier de la charrete, di cui avremo modo di parlare, e nel suo secon-
do romanzo, Cligès, sceglie di misurarsi esplicitamente e frontalmente con
la leggenda di Tristano, per il Medioevo certo il culmine della fascinazione
amorosa, nel segno del filtro fatale, della sofferenza, dell’unione simbiotica
in vita e in morte.
Alla materia tristaniana Chrétien – autore, non si dimentichi, del romanzo Il mito di Tristano
perduto del roi Marc et d’Iseut la blonde, com’egli stesso ci dice nel prologo
del Cligès – ritorna ossessivamente, come a una sfida, come a un ineludibile
e periglioso vortice. Gli sparsi accenni nell’Erec et Enide – Isolz al v. 424,
Tristan al v. 1242, Brangiens al v. 2023, ancora Isolz al v. 4943 (solo nel testo
dell’ed. Foerster) – sono già significativi, perché non sono semplici parago-
ni, ma servono a far risaltare la superiorità delle azioni e dei sentimenti dei
personaggi del romanzo rispetto ai personaggi tristaniani. La distanza appa-
re, a tutte lettere, nella canzone D’Amors, qui m’a tolu a moi, dove Chrétien
scrive:

Onques del bevraje ne bui,


don Tristans fu anpoisonez,
mes plus me fet amer que lui
fins cuers et bone volantez.
Bien an doit estre miens li grez,
qu’ains de rien esforciez n’an fui,
fors de tant que mes iauz an crui,
par cui sui an la voie antrez,
don ja n’istrai, n’ains n’i recrui.
(vv. 28-36)

[Mai ho bevuto goccia di quel filtro / che avvelenò Tristano, / ma più di lui mi fanno
amare / cuore fino e nobile volere. / Ho seguito solo la mia inclinazione, / senza
che nulla mi facesse forza, / volli solo credere ai miei occhi, / entrando per loro nel
cammino / che mai lasciai, che mai non lascerò.]

187
La letteratura francese medievale

Cligès La polemica riprende, con tutto il respiro concesso da un intreccio romanze-


sco, nel Cligès, l’opera più costruita di Chrétien, quella più cerebrale e teorica,
quella più letteraria e retoricheggiante, e questo proprio perché si propone di
essere una risposta per le rime, punto per punto, al mito di Tristano, con ogni
probabilità al Tristano di Thomas. Chrétien decostruisce sistematicamente i
nodi cruciali della storia, per rovesciarli, abolisce la «divisione» del corpo di
una donna tra due uomini, disinnesca la maledizione della fine tragica. Ecco,
precisa e violenta, la denuncia di Fenice, sposata all’imperatore di Costantino-
poli ma innamorata di Cligès (e quindi esattamente nella situazione di Isotta):

Mialz voldroie estre desmanbree


que de nos deus fust remanbree
l’amors d’Ysolt et de Tristan,
don mainte folie dit an,
et honte en est a reconter.
Ja ne m’i porroie acorder
a la vie qu’Isolz mena.
Amors en li trop vilena,
que ses cuers fu a un entiers,
et ses cors fu a deus rentiers.
Ensi tote sa vie usa
n’onques les deus ne refusa.
(vv. 3105-3116)

[Preferirei essere squartata / piuttosto che per noi si ricordasse / l’amore di Isotta e
di Tristano, / di cui si raccontano tante follie / che è una vergogna parlarne. / Mai io
potrei acconsentire / alla vita che condusse Isotta. / In lei Amore si fece cosa vile: / il
suo cuore fu tutto di uno / e a due appartenne il suo corpo. / Così fu per tutta la sua
vita, / non si rifiutò a nessuno dei due.]

Magia del filtro Chrétien riprende il motivo del filtro, ma ne scinde gli effetti, sdoppiandolo.
Da un lato preserva la nuova Isotta da ogni rapporto con il marito grazie
a una bevanda allucinogena che gli procura solo un possesso immaginario.
Dall’altro, un potente narcotico permette a Fenice di simulare la morte, sfi-
dando gli esperimenti che i medici imperiali praticano su di lei: potrà così
nascondersi e poi ricongiungersi, in un giardino fuori dal mondo, all’amato
Cligès. I due farmaci, preparati dalla fida nutrice Tessala, deus ex machina
della vicenda, palesano il duplice rapporto della magia con la sessualità (pri-
ma pozione) e con la morte (seconda pozione) e insieme spezzano la forza
mitica e passionale del filtro d’amore, del lovedrink irlandese. (Poirion, Il me-
raviglioso nella letteratura francese del Medioevo, p. 69)
Motivi ovidiani L’amore resta, ovidianamente, una malattia, e i protagonisti – Fenice e Cligès
e, prima di loro, Soredamors e Alessandro, i genitori di Cligès – si interroga-

188
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

no, in lunghi preziosi monologhi, sugli effetti e sui rimedi. Le alternanze tra
stati di passività e momenti deliberativi sono notate con appassionata e mali-
ziosa finezza. Tra sgomenti, oscillazioni, tentativi di resistenza, finalmente si
arriva alla consapevolezza e alla lucidità di una libera scelta, con Soredamors,
che esclama: «Ora voglio amare», «Or vuel amer» (v. 938).
La tradizione ovidiana e insieme le sottigliezze psicologiche del modello tri-
staniano impegnano Chrétien nelle vie tortuose e affascinanti della casuistica
amorosa. Ma con intenti profondamente diversi da Thomas: per cercare di di-
stinguere, tra le parole della convenzione, della politesse mondana, la voce del-
l’«amore vero», per inseguire, al di là del mito simbiotico dei due cuori uniti
in uno stesso corpo, un’intesa amorosa diversa, che coinvolga i «voleri»:

Ne dirai pas si com il dïent


qui an un cors deus cuers alïent,
qu’il n’est voirs, n’estre ne le sanble
qu’an un cors ait deus cuers ansanble;
et s’il pooient assanbler,
ne porroit il voir resanbler.
Mes s’il vos pleisoit a entandre,
bien vos ferai le voir antandre,
comant dui cuer a un se tienent,
sanz ce qu’ansanble ne parvienent.
Seul de tant se tienent a un
que la volonté de chascun
de l’un a l’autre s’an trespasse.
[…]
Bien pueent lor voloir estre uns,
et s’a adés son cuer chascuns,
ausi com maint home divers
pueent an chançons et an vers
chanter a une concordance.
(vv. 2783-2805)

[Non parlerò come parlano quelli / che uniscono due cuori in un corpo: / non è
vero, non si è mai visto / che un corpo solo contenga due cuori, / e anche se potessero
congiungersi / non potrebbe sembrare vero. / Ma se vi piace ascoltarmi, / vi dirò io la
verità, / di come due cuori siano uno / senza essere uniti insieme. / Solo per questo
sono uno, / perché passa il volere / di ciascuno dall’uno all’altro. / ... / I loro desideri
sono una cosa sola, / eppure ciascuno ha il suo cuore, / così come molte persone
diverse / possono in canzoni e poesie / cantare in una concordanza.]

Se, nel tentativo di venire a capo delle clamorose e sconvolgenti aporie del Fenice come
Tristano, Chrétien non esita a servirsi del filtro alla stregua di uno strata- la «fenice»

189
La letteratura francese medievale

gemma da fabliau, abbassando e rovesciando la sublime materia, dall’altro


lato mitizza a sua volta, suggerendo misteri e iniziazioni. Indifferente al fasto
imperiale, rigorista nell’ordine dei sentimenti, intrepida davanti alla morte,
Fenice appare come un’eroina della libertà interiore. Vive nella coscienza
dell’amore, dei suoi diritti, come dei suoi doveri. La sua falsa morte, liberan-
dola dai compromessi di una vita falsa, è una sorta di iniziazione. Che la fa
morire al mondo per nascere alla sua vera vita, per risorgere come la «feni-
ce» di cui porta il nome.
Certo, con questa commedia bizantineggiante e sensazionale, l’incantesimo
tristaniano non è tolto e superato, non è aufgehoben. È Chrétien il primo a
saperlo, e con il grande mito si confrontenà ancora, con meno retorica, in
modo più mimetico e radicale, nel romanzo di Lancillotto, nel Chevalier de
la charrete.

3. La carretta di Lancillotto

Nomi simbolici Con le storie di Lancillotto, di Ivano, nel terzo e nel quarto romanzo di
Chrétien, non sono più in primo piano i nomi dei protagonisti, quando le
opere vengono evocate – d’Erec, le fil Lac, est li contes nel prologo del roman-
zo, Cil qui fist d’Erec et d’Enides nel prologo del Cligès – e quando i perso-
naggi agiscono, ma dei nomi simbolici: il cavaliere della carretta (del chevalier
de la charrete / comance Crestïens son livre), il cavaliere del leone (Del chevalier
au lyeon fine / Crestïens son romans ensi). E anche l’atmosfera, il respiro della
narrazione si fanno più misteriosi, più carichi di suspense e di ambiguità. La
somiglianza dei titoli, più che un’affinità sostanziale, suggerisce un paralleli-
smo, ci invita a cogliere la profonda differenza delle storie, dei caratteri e dei
destini dei due eroi.
Le Chevalier Lancillotto, il protagonista del Chevalier de la charrete – il romanzo rimane
de la charrete interrotto intorno al v. 6150 ed è concluso in un migliaio di versi da Goffredo
di Lagni, che si firma alla fine, con il consenso di Chrétien (par le boen gré /
Crestïen, qui le comança, vv. 7106-7107) – è il tipo più compiuto del perfetto
amante: alla sua cortesia si accompagna un’assoluta sottomissione alla sua
dama, la regina Ginevra, la cui immagine lo accompagna sempre, come in
un sogno da svegli, come in un incantesimo, i cui desideri, i cui capricci sono
legge. In una serie di grandi episodi – la scena della carretta della vergogna, le
ripetute estasi provocate dal pensiero d’amore, il passaggio del demoniaco e
terribile Ponte della spada, i tornei combattuti secondo il volere della dama,
anche al peggio, sprofondando nel disonore – Chrétien riesce a creare una
figura sfavillante e tenebrosa insieme, carica di una magia particolare.
Un amore fatale Per il Medioevo e ben oltre Lancillotto diventa l’amante cortese e temerario
per antonomasia, come Tristano: erano due eroi della stessa tempra, stregati
per tutta la vita dalla moglie del proprio signore – la regina Ginevra, la regina
Isotta – dannati e benedetti dal fato della passione proibita. Un famoso epi-

190
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

sodio del Tristan en prose racconta come una volta si scontrarono, senza co-
noscersi, in un grande duello, combattendo in campi avversi, e nessuno riuscì
a prevalere sull’altro, tanto che alla fine si abbracciarono e si scambiarono le
spade. Tra loro nacque un’eterna amicizia, anche perché erano attratti l’uno
verso l’altro dall’identità delle loro nature, governate da un solo, straordina-
rio incantesimo. Nel canto quinto dell’Inferno dantesco, prima che Francesca
da Rimini rievochi la lettura avventurosa e fatale che allaccerà il suo destino
con quello di Paolo, il fratello del marito – Noi leggiavamo un giorno per di-
letto / di Lancialotto come amor lo strinse... – compare anche Tristano, insie-
me a Paride di Troia, nella «rapina» del desiderio inestinguibile.
Il motivo della quête – la ricerca della Regina, che un arrogante e minaccioso La ricerca
cavaliere ha rapito dalla corte di re Artù, sfidando a duello chi vorrà tentare della Regina
di liberarla – motivo ancora assente nell’Erec e nel Cligès, dà al racconto un
che di sospeso e di enigmatico, lo scandisce con segni, con prove, tutte volte
a confermare, una volta decifrati o superate, i destini straordinari dell’eroe.
Questo intreccio conserva, nitidissimi, i tratti di un mito celtico: un miste-
rioso cavaliere rapisce una donna sposata, di alto rango, ottenendola con l’a-
stuzia (attraverso il «dono obbligante» che chi ha concesso non può più
rifiutare) o strappandola con la forza e la porta con sé nel suo regno sopran-
naturale. Il marito insegue il rapitore e, superando difficili prove, penetra nel-
la sua terra, che sembrava inaccessibile, liberando la prigioniera.
[Ginevra] Prima di Chrétien Ginevra è già, nella tradizione arturiana, la pro-
tagonista di un simile rapimento (aithed in irlandese): questo sembra essere il
significato di una scena scolpita nell’archivolto del portale nord della catte-
drale di Modena – con i nomi Artus de Bretania, Winlogee (Ginevra), Galva-
ginus (Galvano), Ché (i siniscalco Keu)... – probabilmente della prima metà
del xii secolo. Ancora, un passo della Vita sancti Gildae, scritta dal clerico
gallese Caradoc di Llancarvan, probabilmente prima del 1136 e in ogni caso
verso il 1160 al più tardi, racconta di come Melwas, re del paese dell’estate,
rapisca Guennuvar, moglie di Artù, e la conduca a Glastonbury, nel rifugio
inaccessibile della Città di Vetro (Urbs Vitrea), per poi, con la mediazione
dell’abate della celebre abbazia, restituirla senza combattimento al marito.
Sulle tracce della Regina rapita, nel Chevalier de la charrete, troviamo il sini-
scalco Keu, Galvano e un misterioso cavaliere, di cui conosceremo il nome
solo a metà del romanzo: Lancillotto. La sua quête lo rivelerà sottomesso non
solo a ogni più piccolo cenno della Regina, ma anche, curiosamente, alle fan-
tasie e alle prove che inventano per lui diverse dame e damigelle che sorgono
all’improvviso sul suo cammino. La prima lo coinvolge nell’avventura del
Letto periglioso e della Lancia di fuoco, una seconda, dopo aver finto di es-
sere aggredita e quasi violentata, lo sottopone a una sorta di prova di castità,
una terza lo guida all’avventura del Cimitero, dove Lancillotto, sollevando la
pesantissima lastra di marmo di una tomba, che nessuno è mai riuscito a sol-
levare, si confermerà come l’eroe eletto. Strane e magnifiche, le avventure di

191
La letteratura francese medievale

Lancillotto sono nel segno dell’oltranza eroica e sublime – quasi per esaltare
le fantasie del pubblico femminile, delle «lettrici di romanzi», delle «Pre-
ziose» della corte di Champagne... – ma spesso si spingono fino ai confini
del grottesco: «Sotto Lancillotto spunta già Don Chisciotte». (Frappier,
Chrétien de Troyes, p. 140)
La carretta L’episodio chiave del romanzo, quello che significativamente darà il nome
dell’infamia all’eroe, restandogli incollato sulle spalle come un emblema, è quello della
carretta. Per conoscere le sorti della Regina rapita Lancillotto è invitato da
un perfido nano «di vile lignaggio» a salire sulla carretta che egli conduce,
la carretta infamante destinata un tempo agli assassini, ai prigionieri, ai ladri.
La sfida è nuova e sconcertante:

Tantost a sa voie tenue


li chevaliers que il n’i monte;
mar le fist et mar en ot honte
que maintenant sus ne sailli,
qu’il s’an tendra por mal bailli;
mes Reisons, qui d’Amors se part,
li dit que del monter se gart,
si le chastie et si l’anseigne
que rien ne face ne anpreigne
dom il ait honte ne reproche.
N’est pas e1 cuer, mes an la boche,
Reisons qui ce dire li ose;
mes Amors est e1 cuer anclose
qui li comande et semont
que tost an la charrete mont.
Amors le vialt et il i saut,
que de la honte ne li chaut
puis qu’Amors le comande et vialt.
(vv. 360-377)

[Continua il suo cammino / il cavaliere, e non sale, / per sua sventura esitò ed ebbe /
vergogna di salirvi subito / perché la pagherà cara. / Ma Ragione, lontana da Amore,
/ gli dice di non salire / e lo esorta e lo ammonisce / dal fare o intraprendere nulla
/ di cui possa avere vergogna. / Non è nel cuore, ma sulla bocca / Ragione che osa
dirgli questo, / ma Amore, chiuso nel cuore, / gli comanda e ordina / di salire subito
sulla carretta. / Amore lo vuole ed egli sale / e non si cura della vergogna, / poiché
così ordina e vuole Amore.]

Ragione e Amore La comprensibile esitazione del cavaliere, per quanto subito superata – Gal-
vano invece, anch’egli invitato dal nano, si rifiuta di salire – lascia spazio a
una sottolineatura retorica in termini di psicomachia: Ragione parla attra-

192
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

verso l’opinione, la boche, ostenta il pericolo rappresentato dalla vergogna


(la parola honte è ripetuta ben tre volte), Amore invece parla dal cuer – si-
gnificativamente opposto a boche, così come si oppongono interno/esterno,
midollo/scorza, interiorità/fama – e chiede al cavaliere di essere, attraverso
la scelta disonorante che lo ricongiungerà però alla Regina che ama, prima di
ogni altra cosa fedele a se stesso. In questo episodio cruciale Lancillotto sfida
le leggi della società, la Legge, si copre di infamia per porsi agli ordini di altre
forze, più misteriose e più vere.
La vergogna, in tutto il romanzo, è strettamente legata alla gloria. Come in
un rituale esoterico di iniziazione, quale quello sotteso ai Tarocchi di Mar-
siglia, che risalgono almeno al xiv secolo, come suggerisce suggestivamente
Heinnich Zimmer, Lancillotto deve rinunciare al suo ruolo sociale di cava-
liere senza macchia per poter proseguire la sua ricerca nel regno dell’Aldilà,
deve perdere la sua intera personalità terrestre in cambio del dono di una più
alta natura spirituale. Egli diventa così un eroe liberatore e può riportare in-
dietro le dame e i cavalieri che sono stati fatti prigionieri nel regno di Gorre –
dove regna Bademagus, sovrano autoritario, giusto, generoso: intransigente
nei confronti del figlio Meleagant, il rapitore della Regina, di cui disapprova
la violenza e l’arroganza, ammirato e cortese nei confronti di Lancillotto –
«il regno da cui nessuno straniero può tornare» (v. 644). La sua è una di-
scesa agli Inferi, come quella di Cristo, come quella di Orfeo (è il tema di un
Lai d’Orphée di cui ci resta una versione inglese trecentesca, Sir Orfeo, con
l’evocazione dell’esercito dell’Altro Mondo).
Il tema della vergogna, della honte, di come sottrarsi alla corazza costrittiva Estasi amorosa
dell’onore, si ripropone insistentemente nel romanzo come accesso a una sor-
ta di transe nella quale l’afferramento dell’io appare sospeso:

A tant s’an va chascun par lui;


e cil de la charrete panse
con cil qui force ne deffanse
n’a vers Amors qui le justise;
et ses pansers est de tel guise
que lui meïsmes en oblie,
ne set s’il est, ou s’il n’est mie,
ne ne li manbre de son non,
ne set s’il est armez ou non,
ne set ou va, ne set don vient;
de rien nule ne li sovient
fors d’une seule, et por celi
a mis les autres en obli;
a cele seule panse tant
qu’il n’ot, ne voit, ne nien n’antant.
(vv. 710-724)

193
La letteratura francese medievale

[Ognuno va per la sua strada, / e quello della carretta pensa / senza avere forza né
difesa / contro Amore che lo domina; / e tale è il suo pensiero / che si dimentica di
se stesso, / non sa se esiste, se non esiste, / non si ricorda il suo nome, / non sa se è
armato o no, / non sa dove va, né da dove viene, / di niente ha memoria / se non di
una cosa, e per questa / ha dimenticato tutte le altre; / in questa tanto è fisso il suo
pensiero / che altro non ode, non vede, non sente.

Questo è lo stato di Lancillotto nell’episodio del Guado; poco prima, da una


torre, si era perduto nella visione immateriale della silhouette della Regina, più
tardi, come guidato da un presentimento, si imbatterà nel pettine d’avorio di
Ginevra, con un ciuffo di capelli biondo oro, e si precipiterà, vacillante e per-
duto, ad adorare la reliquia. Queste tre estasi dell’amante sembrano modellate
su quelle dei mistici, perduti nella contemplazione, a fondare una nuova reli-
gione dell’amore, e la notte del loro appassionato incontro, nel regno di Gorre,
Lancillotto adorerà la Regina come una reliquia, come un cors saint (v. 4653).
Come uno sciamano Per una serie di tratti comuni – il viaggio nell’Altro Mondo, gli stati di estasi, le
ferite rituali – la storia di Lancillotto ci ricorda l’iniziazione sciamanica. L’espe-
rienza sciamanica, che possiamo ripercorrere agevolmente soprattutto attraver-
so le magnifiche analisi di Mircea Eliade, implica all’inizio una crisi profonda,
comporta un periodo di labilità psichica che confina spesso con la follia. Non si
può divenire sciamani se non dopo aver risolto questa crisi, che assume quindi
il ruolo di un’iniziazione mistica. La malattia che si manifesta nel futuro scia-
mano, con la sensazione angosciosa di essere stato eletto dagli dèi o dagli spiriti,
è quindi valorizzata come malattia iniziatica. La precarietà esistenziale, la soli-
tudine, le sofferenze che accompagnano ogni stato di malattia sono, in questo
caso, aggravate dal simbolismo della morte iniziatica: accettare l’elezione so-
prannaturale si traduce nella sensazione di essere abbandonati a delle potenze
divine o demoniache, di essere votati a una morte imminente. Le crisi psico-
patologiche dell’eletto possono essere designate come «malattie iniziatiche»
perché la loro sindrome segue molto da vicino il rituale classico dell’iniziazione:

Le sofferenze dell’«eletto» sono simili in tutto alle torture iniziatiche: come nei
riti di pubertà, o nelle cerimonie di ammissione a una società segreta, il novizio è
«ucciso» da Esseri semidivini o da demoni, il futuro sciamano assiste in sogno allo
strazio che i demoni compiono sul suo corpo, vede come gli tagliano la testa, come
gli strappano gli occhi ecc. I rituali iniziatici specifici dello sciamanismo siberiano e
centroasiatico comportano un’ascensione simbolica al cielo per mezzo di un albero
o di un palo; il malato «scelto» dagli dèi o dagli spiriti intraprende in sogno o in
una serie di sogni da desto il suo viaggio celeste fino all’Albero del Mondo (Eliade,
Initiation, rites, sociétés secrètes, p. 199).

Il Ponte della Spada Per un episodio del romanzo in particolare, quello in cui Lancillotto deve at-
traversare con mani e piedi nudi il Ponte della Spada, sottilissimo e tagliente,

194
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

gettato su un rapinoso e nero fiume – «Et li ponz qui est an travers / estoit
de toz autres divers; / qu’ainz tex ne fu ne ja mes n’iert. / Einz ne fu, qui
voir m’an requiert, / si max ponz ne si male planche: / d’une espee forbie et
blanche / estoit li ponz sor l’eve froide; / mes l’espee estoit forz et roide, / et
avoit deus lances de lonc» (vv. 3017-3025) [E il ponte che l’attraversava / era
diverso da tutti gli altri: / mai uno simile ci fu, né mai ci sarà. / Mai ci fu, se
mi chiedete il vero, / ponte così terribile, tavola così funesta: / di una spada
affilata e bianca / era fatto il ponte sull’acqua fredda, / ma la spada era forte
e dritta / e aveva la lunghezza di due lance] – per questa impresa spaventosa
e sovrumana, che fa nascere nelle menti dei due giovani cavalieri che accom-
pagnano l’eroe una serie di immagini da «mondo rovesciato», alcuni critici,
come Laura Hibbard, Heinrich Zimmer, Mircea Eliade, hanno richiamato il
«passaggio pericoloso» dell’esperienza sciamanica.
Come le anime dei morti, lo sciamano deve affrontare nel suo viaggio inizia- Il Pons subtilis
tico una «porta stretta», un «passaggio paradossale»: una liana, una scala
fatta di coltelli, un ponte sottile. Questo passaggio è disseminato di ostacoli
che non tutte le anime riescono a superare; bisogna affrontare demoni e mo-
stri che vorrebbero divorare l’anima – nell’episodio di Chrétien Lancillotto
scorge sull’altra riva due feroci leoni pronti ad assalirlo – oppure il ponte si
fa stretto come la lama di un rasoio, e solo i buoni, in particolare gli iniziati,
possono attraversarlo.
Il simbolismo del pons subtilis si ritrova nella tradizione iranica, nella parte
più antica dell’Avesta, nella sezione dello Yasna che contiene le Gâthâ (In-
ni) attribuite allo stesso Zarathustra – in Yasna 46,11 e 51,13 Zarathustra si
presenta come uno psicopompo: coloro che si sono uniti a lui in estasi at-
traverseranno facilmente il ponte Cinvat, «ma la loro [dei malvagi] anima
e la loro daêna [spirito religioso] gemeranno quando arriveranno davanti al
ponte Cinvat, per abitare per sempre nel mondo del Male» – e ancora nel
Libro di Ardâ Vîrâf, che narra di un viaggio visionario nell’Aldilà: «l’anima
di Vîrâf lasciò il corpo e andò sul ponte Cinvat, sulla Kakâd-i-Dâitîk. Do-
po sette giorni tornò e rientrò nel suo corpo». Compare anche nel folklo-
re celtico (Tochmarc Emire, Imram di Mael Dúin – «Poco dopo essi videro
un’isola con una fortezza, e un ponte di vetro che conduceva alla sua porta.
Quando cercavano di salire sul ponte, essi cadevano giù ogni volta» –), nella
letteratura apocalittica cristiana (Visio Sancti Pauli, Visio Beati Esdrae, Visio
Tundali), nei racconti dell’ascesa celeste (mi’râj) di Maometto, come il Liber
Scale Machometi:

Scias, Machomete, quod Azirat est pons quidam quem Deus fecit ad probandum
illos qui bene credunt in legem tuam et similiter qui non credunt. Pons autem iste
in alto supra infernum situs existens magis subtilis est quam ullus capillus capitis et
quam omnis ensis accumen eciam plus accutus. Nam ex utraque parte totus plenus
est tenalliis atque unchis et aliis instrumentis ferreis ad perforandum aptis, que om-

195
La letteratura francese medievale

nia longiora sunt magnis lanceis et ita eciam ad incidendum acuta quod a nemine
dici possit.

[Sappi, Maometto, che l’Azirat è quel ponte che Dio fece per mettere alla prova chi
crede e chi non crede nella tua legge. Esso è posto in alto al di sopra dell’inferno, ed è
più sottile di un capello e più affilato della lama di ogni spada. Ai due lati è tutto irto
di tenaglie e di uncini e di altri arnesi di ferro atti a forare, più lunghi di grandi lance
e più acuti nel ferire di quanto sia possibile dirsi.]

Lancillotto Rievocare le affinità del nostro romanzo con l’iniziazione sciamanica, e tut-
prigioniero to l’impressionante e ricco simbolismo del pons subtilis – dati ben presenti
agli storici delle religioni, molto meno ai critici letterari – credo ci permetta
di intravedere meglio il grande scenario mitico su cui Chrétien accampa la
vicenda di Lancillotto. Certo, piegando i dati escatologici ed iniziatici a una
vicenda sentimentale particolarissima, rimotivandoli e in parte stravolgendo-
li alla luce dei rituali della fin’amor.
A differenza dello sciamano, che ha una stupefacente capacità di controllo
dei movimenti estatici, che, superata la crisi dell’iniziazione, entra in sintonia
con gli animali, comprende e imita la loro lingua, si trasforma lui stesso in
animale, Lancillotto è dall’inizio alla fine prigioniero di uno spirito che lo in-
nalza e lo abbassa a suo piacimento, che calibra e determina tutte le sue azioni,
che gli impedisce di sconfinare nel clamore e nella varietà del mondo, lo spirito
della regina Ginevra. Non c’è insensato arbitrio di lei a cui l’eroe non si sot-
tometta, marionetta docile nelle sue mani, come quando Ginevra, finalmente
raggiunta, dopo tante audacie e traversie, nel regno di Gorre, si allontana al-
tera senza neppure degnarlo di uno sguardo: «Ez vos Lancelot trespansé, / se
li respont molt belemant / a meniere de fin amant: / “Dame, certes, ce poise
moi, / ne je n’os demander por coi”» (vv. 3960-3964) [Eccovi Lancillotto tut-
to smarrito, / ma le dà una bella risposta, / alla maniera di perfetto amante: /
«Signora, certo, mi dispiace, / ma non oso domandare perché»].
«Tanto che si odia» Le ripetute ferite di Lancillotto – nell’attraversare il Ponte della Spada, nello
svellere i «ferri taglienti» della finestra della Regina: un richiamo questo
alle ferite di Tristano nell’episodio del Fiore di farina in Béroul – sembrano
più «interiorizzate» di quelle che caratterizzano l’esperienza sciamanica,
sembrano quasi vissute e ricercate all’interno di una pulsione di annienta-
mento. Più volte Chrétien insinua il sospetto che le azioni dell’eroe rivelino
un «odio» verso se stesso. Nella scena della carretta, rivolgendosi a Galvano,
«Li nains dit: «Se tu tant te hez / con cist chevaliers qui ci siet». (vv. 384-
385) [Dice il nano: «Se tu tanto ti odi / come il cavaliere che è qui seduto»].
Poi è Galvano, trattenendolo all’ultimo momento mentre, in piena estasi
amorosa, sta per cadere da una finestra, a dirgli: «a grant tort haez vostre
vie» (v. 574) [fate male a odiare così la vostra vita]. E qui siamo nei pensieri
dello stesso Lancillotto: «Ce tient a honte et a grant let / Lanceloz, tant que

196
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

il s’an het, / c’une grant piece a, bien le set, / le pis de la bataille eü; / se l’ont
tuit et totes seü» (vv. 3704-3708) [E lo considera una gran vergogna / Lan-
cillotto, tanto che si odia, / avere per un tratto, lo sa bene, / avuto la peggio
nella battaglia, / davanti a cavalieri e a dame].
Come Balin, il Cavaliere delle due spade, sottoposto alla magia che trasforma Come Balin
ogni suo colpo in un Colpo Doloroso, che dissemina in disastri l’itinerario le Savage
delle sue imprese, così Lancillotto è sotto il sortilegio della sua protettrice
fairy, la Regina, che gli conferisce la capacità di compiere azioni prodigiose,
ma che anche lo sottrae alla società degli altri esseri umani, lo rinchiude in un
incantato isolamento.

Quando la personalità è invasa da forze extrapersonali, la libertà di giudizio e il pote-


re di misurare l’azione, che contraddistinguono la coscienza razionale, sono sopraf-
fatti. L’individuo viene asservito a una fatalità irresistibile, diventando vittima e al
tempo stesso artefice delle pressioni che l’hanno assoggettato. E così Balin le Savage,
sebbene sapesse in anticipo la fine, dovette procedere verso la sua rovina. E così fu
anche per Lancillotto (Zimmer, Il re e il cadavere, p. 170).

Più che liberato dalla vergogna, al di là del bene e del male – come Guglielmo
ix, che aveva scritto «Eu conosc ben sen e folor, / e conosc anta et honor. .
.» [Io conosco bene senno e follia, / e conosco vergogna e onore...] – questo
troppo impavido eroe sembra rinnovare continuamente, sulla sua carne ta-
gliata, sul suo animo ferito, la passio di tutte le ignominie. L’immagine della
carretta è davvero cucita per sempre sulla sua armatura.
Convivere con questo eroe, con i suoi brividi, le estasi, le alienazioni, non
deve essere stato facile per l’animo di Chrétien, che tante volte sorprendia-
mo mobile e lieve, luminoso e pieno di esprit, per il suo illuminismo cortese.
Tanto più sorprendente il suo integrale calarsi nel labirinto di una storia così
sublime, nebbiosa e infernale.
Nel prologo Chrétien dice di aver intrapreso il romanzo per i comandemanz Chrétien double
di Maria, contessa di Champagne, come colui che le è assolutamente devo- di Lancillotto
to, «come cil qui est suens antiers». Con parole sorprendentemente simili
a queste Chrétien caratterizzerà, nel corso dell’opera, il comportamento di
Lancillotto: «con cil qui est amis antiers» (v. 1264) [come colui che è tutto
intiero amico], «et il est tot suens sanz nule faille» (v. 5875) [e, senza nessuna
mancanza, è tutto suo]. Che è il comportamento dell’amante ideale: «Molt
est qui aimme obeïssanz, / et molt fet tost volentiers, / la ou il est amis antiers,
/ ce qu’a s’amie doie plaire» (vv. 3798-3801) [L’uomo che ama è ubbidiente,
/ e fa subito e di buon grado, / se è davvero amico intiero, / tutto ciò che piace
all’amica]. Nel prologo quindi, con un inchino inappuntabile e indecifrabile,
da grande cortigiano, e insieme con una vertiginosa mise en abyme, Chrétien
si presenta come il double di Lancillotto. Non potremo chiedere conto del
senso del romanzo al gusto, alla sensibilità, alla coscienza del suo autore, co-

197
La letteratura francese medievale

sì come si manifesta negli altri suoi romanzi, nell’Yvain, per esempio, che è
esattamente contemporaneo: nel momento in cui accetta la materia di questa
storia, impostagli dai comandemanz della contessa di Champagne, Chrétien
si abbandona senza resistenze, come una marionetta, o come per esperimen-
to, a tutte le vertiginose soggezioni che la storia contiene.

4. Il cavaliere e il leone

Ivano, un eroe Accanto all’«eroe nero» che è Lancillotto, Chrétien si compiace di creare
luminoso ad accompagnarlo, nel Chevalier au lion, un cavaliere altrettanto straordina-
rio ma più luminoso, Ivano. Se Lancillotto, legato nelle sue origini al regno
fatato della Dama del Lago e poi, nella corte artuniana, all’incantesimo del-
la regina Ginevra, è dominato da forze soprannaturali, che ora lo spingono
in alto, più di ogni altro cavaliere, e ora minacciano di annientarlo, la sorte
di Ivano è quella di essere «accompagnato» da forze soprannaturali: incon-
trerà un leone e ne farà il suo compagno, il suo amico, diventerà il Cavaliere
del Leone.
I due romanzi sono curiosamente intrecciati l’uno nell’altro, tanto che si è
pensato che siano stati scritti parallelamente, negli anni 1176-1181: Galvano è
presente nel Chevalier au lion fino al v. 2804, poi scompare, e l’autore spiega
che è impegnato nella quête della regina Ginevra (che è la storia del Chevalier
de la charrete):

Et mes sire Gauvain, chaeles,


li frans, li dolz, ou ert il donques?
[…]
mes la reïne en a menee
uns chevaliers, ce me dit an,
don li rois fist que fors del san,
quant aprés li l’en envoia;
et Kex, ce cuit, la convoia
jusq’au chevalier qui l’en mainne;
s’an est or entrez an grant painne
mes sire Gauvains qui la quiert.
Ja mes nul jor a sejor n’iert
jusque tant qu’il l’avra trovee.
(vv. 3692-3709)

[E messer Galvano, allora, / il nobile, il dolce cavaliere, dov’era? / ... / ma la regina


è stata rapita / da un cavaliere, mi dicono, / e il re commise una follia, / lasciandola
andare con lui; / è stato Keu, credo, a scortarla / fino al cavaliere che la porta con
sé; / e Galvano si è data la pena / di partire alla sua ricerca. / Non si fermerà un solo
giorno / finché non l’avrà trovata.]

198
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

Tutta la prima parte del romanzo si svolge nella foresta di Broceliande, la La Fontana magica
famosa foresta dei prodigi, e ruota attorno a una Fontana magica. Il cavalie-
re che vi giunge deve versare – lo richiede l’aventure – dell’acqua sopra una
pietra, scatenando così una tempesta che devasta il paese, e affrontare poi in
duello il difensore della Fontana, un guerriero di taglia gigantesca. L’avventu-
ra viene tentata da un cavaliere della Tavola Rotonda, Calogrenant, che, sca-
valcato senza colpo ferire, si allontana frettolosamente, ben contento di essere
rimasto vivo. Sette anni dopo – incuriosito dal racconto che Calogrenant fa
alla corte della sua non molto gloriosa impresa, e che suona per lui come una
sfida – ci riprova suo cugino Ivano, che, più audace e più determinato, ha la
meglio sul Cavaliere della fontana, Esclados, lo ferisce a morte e lo insegue nel
suo castello, dove resta prigioniero. Qui si innamora perdutamente di Laudi-
ne, la moglie del cavaliere che ha ucciso, e con la complicità della sua dama di
compagnia, Lunete, nel giro di tre giorni riesce a ottenere la sua mano.
Per il sorprendente intreccio di questo episodio, nel segno della volubilità Volubilità femminile
femminile, sono stati suggeriti paralleli con i romanzi «antichi» – la con-
dotta di Didone nel Roman d’Eneas (vv. 1600-1610), e quella di Giocasta nel
Roman de Thèbes (vv. 391-442) – e anche con la letteratura latina classica.
Nel Satyricon di Petronio troviamo il racconto della Matrona di Efeso, dove
la donna, prima disperata accanto al sepolcro del marito morto, presto si con-
cede a un soldato che, lì accanto, fa la guardia ai corpi di alcuni predoni che
sono stati crocifissi. La speranza di Ivano, negli alti e bassi del suo inusuale e
audace corteggiamento, trova sostegno nella disinvolta saggezza di Ovidio,
che consiglia agli amanti di operare senza drammi, mutevoli come Proteo,
sulla mutevolezza dell’animo femminile:

E dit: «Por fos me puis tenir,


quant je vuel ce que ja n’avrai;
son seignor a mort li navrai
et je cuit a li pes avoir!
Par foi, je ne cuit pas savoir,
qu’ele me het plus or en droit
que nule rien, et si a droit.
D’or en droit ai ge dit que sages,
que fame a plus de cent corages.
Celui corage qu’ele a ore,
espoir, changera ele ancore;
ainz le changera sanz espoir;
molt sui fos quant je m’an despoir,
et Dcx li doint ancor changier,
qu’estre m’estuet an son dongier
toz jorz mes, des qu’Amors le vialt».
(vv. 1432-1447)

199
La letteratura francese medievale

[E dice: «Sono davvero folle / a volere quello che non avrò mai; / ho ferito a morte
il suo signore / e voglio che mi sia amica! / In fede mia, non dubito / che ora lei mi
odia, / e a ragione, più di ogni cosa. / Ora, ho detto, da saggio, / perché la donna ha
più di cento cuori. / E il cuore che ha ora, / forse, ancora lo cambierà; / anzi, lo cam-
bierà di sicuro; / sono folle a disperarmi, / e Dio la faccia cambiare presto, / perché
ormai, lo vuole Amore, / sono per sempre in suo potere».]

Da Ovidio E due versi dell’Ars amatoria – Funere saepe viri vir quaeritur: ire solutis / cri-
nibus et fletus non tenuisse decet (iii, 431-432) [Spesso è al funerale del marito
che si trova marito: andare / con i capelli sciolti e non frenare il pianto, a una
donna sta bene] – sembrano essere all’origine della scena in cui Chrétien fa
degli sfrenati gesti di dolore della vedova Laudine già dei gesti di seduzione:

Grant duel ai de ses biax chevox


c’onques rien tant amer ne vox,
que fin or passent, tant reluisent.
D’ire m’espranent et aguisent,
quant je les voi ronpre et tranchier.
[…]
Dcx! Por coi fet si grant folie
et por coi ne se blece mains?
Por coi detort ses beles mains,
et fiert son piz et esgratine?
(vv. 1465-1491)

[Mi duole per i suoi bei capelli, / che amo più di cosa al mondo, / tanto splendenti,
più dell’oro fino. / L’ira mi prende e mi tormenta / a vederli così rotti e strappati.
/ ... / Dio! perché commette follia così grande, / perché non smette di straziarsi? /
Perché torce le sue belle mani / e ferisce e graffia il suo petto?]

Wace, Roman Ovidio è indubbiamente presente, qui come altrove nel romanzo, e per i mo-
de Rou vimenti interiori dei personaggi e per la tonalità dello stile, ma tutta la storia
trova più precise corrispondenze tematiche nella tradizione folklorica. La
Fontana magica (con la pietra, il gesto di versare l’acqua, la pioggia che ne
deriva) è già nel Roman de Rou di Wace:

… Breceliant,
dont Breton vont sovent fablant,
une forest mout longue et lee
qui en Bretaigne est mout loee.
La fontaine de Berenton
sort d’une part lez un perron.
Aler soleient veneor

200
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

a Berenton par grant chalor,


e a lor corz l’eve espuisier
e le perron desus moillier;
por ço soleient pluie aveir.
Issi soleit jadis ploveir
en la forest e environ,
mais jo ne sai par quel raison.
La sueut l’en les fees veeir,
se li Breton nos dïent veir,
e altres merveilles plusors.
(vv. 6395-6411)

[... Broceliande, / di cui i Bretoni favoleggiano, / una foresta sconfinata, / famosa


in tutta la Bretagna. / La fontana di Berenton / sgorgava accanto a una roccia. / Era
usanza dei cacciatori andare / nell’arsura a Berenton, / attingere l’acqua con i corni
/ e gettarla sopra la pietra; / allora arrivava la pioggia. / Così pioveva, un tempo, /
nella foresta e tutto intorno, / ma io non so dirvi perché. / Là si potevano vedere le
fate, / se i Bretoni ci dicono il vero, / e molti altri prodigi.]

La figura di Laudine, disdegnosa e tirannica, signora di uno spazio chiuso, Il Sacerdote di Nemi
protetto da un difensore armato, richiama la Damigella del giardino nell’epi-
sodio della Gioia della Corte, nell’Erec et Enide, il motivo della fata che tiene
prigioniero un cavaliere. Ancona, il destino di Ivano, successore del cavaliere
da lui stesso ucciso, è stato messo in rapporto dal filologo americano William
A. Nitze, ed è un accostamento di grande rilievo e suggestione, con uno dei
temi centrali del Ramo d’oro di James G. Frazer, quello del «sacerdote di Ne-
mi». Frazer si interroga, nel primo capitolo del Ramo d’oro, sulle misteriose
leggi che, secondo la tradizione, regolavano la successione dei sacerdoti di
Diana ad Aricia, nel sacro bosco del lago di Nemi, sui colli Albani:

In questo bosco sacro cresceva un albero intorno a cui, in ogni momento del giorno,
e probabilmente anche a notte inoltrata si poteva vedere aggirarsi una truce figura.
Nella destra teneva una spada sguainata e si guardava continuamente d’attorno co-
me se temesse a ogni istante di essere assalito da qualche nemico. Quest’uomo era
un sacerdote e un omicida; e quegli da cui si guardava doveva prima o poi trucidarlo
e ottenere il sacerdozio in sua vece. Era questa la regola del santuario. Un candidato
al sacerdozio poteva prenderne l’ufficio uccidendo il sacerdote, e avendolo ucciso,
restava in carica finché non fosse stato ucciso a sua volta da uno più forte o più astuto
di lui (Frazer, Il ramo d’oro, vol. i, pp. 7-8).

L’accostamento proposto da Nitze ha senso, ovviamente, non a livello sto-


rico-filologico – il problema non è di sapere se e come Chrétien conoscesse
la storia del sacerdote di Nemi – ma a livello tipologico. Ci permette di in-

201
La letteratura francese medievale

travedere, nel cuore dell’episodio narrato da Chrétien – anche alla luce della
storia di Maboagrain nell’Erec et Enide e della sua ripresa arcaizzante nel Bel
inconnu di Renaut de Beaujeu – il tema dell’uccisione rituale del re, e della
trasmissione del potere.
Una commedia In modo straordinario Chrétien sa intrecciare qui antiche leggende e analisi
di costume psicologica, motivazioni feudali (per ragioni di Machtpolitik la Fontana deve
avere un difensore) e commedia di costume. Al carattere impetuoso e pieno
di amor proprio di Laudine, capace di passare rapidamente e violentemente
dall’odio all’amore, dal disdegno alla frenesia, capace di intestardirsi e di con-
traddirsi e di calcolare – «Se il est tex qu’a moi ateigne, / mes que de par lui
ne remaigne, / je le ferai, ce vos otroi, / seignor de ma terre et de moi. / Mes
il le covanra si fere, / qu’an ne puisse de moi retrere / ne dire: “C’est cele qui
prist / celui qui son seignor ocist”» (vv. 1805-1812) [Se è un partito degno di
me, / se anche lui è d’accordo, / ne farò, vi dico, il signore / della mia terra, il
mio signore. / Ma bisognerà fare in modo / che nessuno possa parlare di me /
e dire: «È quella che ha sposato / l’assassino di suo marito»] – fa da contrap-
punto il carattere di Lunete, mobilissima, audace, piena di verve, grande e di-
vertita stratega dell’avvicinamento di Ivano e di Laudine. Tutta questa parte
del romanzo (vv. 961-2171), con la prigionia di Ivano nel castello (prigioniero
di fatto e prigioniero d’amore...), i dialoghi serrati e capziosi di Laudine e
Lunete, i lunghi monologhi di Laudine, in forma di dibattito interiore, e poi
l’incontro, preparato, atteso, temuto, decisivo tra Ivano e Laudine, è giusta-
mente famosa: qui Chrétien dispiega come non mai paradosso, ironia, esprit,
e un prodigioso senso del racconto.
La crisi La prima parte del romanzo si conclude, come in Erec et Enide, con l’happy
end, provvisorio, di una festa di nozze. Ma improvvisamente Ivano, cedendo
all’invito suadente dell’amico Galvano, facendo uso del temibile meccanismo
del «dono obbligante», chiede e ottiene da Laudine il permesso di allontanar-
si con gli altri compagni della Tavola Rotonda, per seguire tornei e cavalleria.
Impegnatosi a ritornare dentro un anno, lascia però trascorrere il termine – no-
nostante Laudine l’avesse messo in guardia con parole che, retrospettivamente,
suonano minacciose e profetiche: «Et ele dit: “Je vos creant / le congié jusqu’ a
un termine. / Mes l’amors devanra haïne, / que j’ai en vos, toz an soiez / seürs,
se vos trespassïez / le terme que je vos dirai”» (vv. 2562-2569) [E gli dice: «Vi
accordo / il mio congedo, con un termine. / Ma l’amore che vi porto / diven-
terà odio, siatene / certo, se lascerete passare / la data che vi indicherò»] – e nel
momento stesso in cui emerge, intenso e doloroso, il pensiero dell’amie e della
promessa fatta, una damigella appare alla corte a portare il messaggio di Lau-
dine: chi aveva il suo cuore si è rivelato un ladrone, un ipocrita, un traditore,
tutto è finito tra di loro. Ivano resta senza parole, fugge dalla corte e sprofonda
nella follia. Si strappa le vesti, ritorna allo stato selvaggio.
La follia di Ivano Con la follia dell’eroe viene messo a fuoco uno dei temi centrali del roman-
zo: il patto, il covant. La rapidità con cui Ivano perde i tratti che facevano di

202
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

lui un uomo civilizzato per regredire a uno stato folle e selvaggio, forsenez
et salvage (v. 2830), sottolinea sia la precarietà della civiltà che la necessità,
perché essa possa sopravvivere, di un sistema di comportamenti ritualizzati,
codificati: di questo covant, la fin’amor, con le sue leggi, è forse la forma più
alta (Baumgantner, Chrétien de Troyes, pp. 83-4). Ivano ha infranto il patto
con Laudine. Il rapporto che si instaura tra il suo io inselvaggito e un eremita,
al limite della foresta, nello spazio di una radura dissodata, è una sorta di len-
to riapprendimento delle leggi del vivere civile. L’eremita, per carità, offre al
folle del pane, dei legumi, dell’acqua – de son pain et de sa porrete / par charité
prist li boens hom (vv. 2840-2841) – e in cambio Ivano gli porta cervi e altri
animali selvatici.

Il commercio, pur ridotto al minimo, viene fatto con un baratto muto: davanti alla
porta dell’eremita il cavaliere folle getta i corpi degli animali catturati, e il solitario ri-
sponde lasciandovi il pane, l’acqua e la selvaggina cotta, sulla «stretta finestra» della
capanna. Comunicano così, al più basso livello, mondo della caccia e mondo delle ter-
re coltivate, crudo e cotto (Le Goff, Abbozzo di analisi di un romanzo cortese, p. 115).

Uscito finalmente dalla follia, grazie a un unguento magico (made by Mor- Un eroe liberatore
gain la Fée), che una damigella sparge sul suo corpo, Ivano è profondamente
cambiato: tutto il suo comportamento si iscrive nel segno del «patto» da
mantenere, delle donne perseguitate da proteggere, della giustizia da difen-
dere. Aiuta la Dama di Noroison contro il violento conte Alier che muove
all’assalto delle sue terre; uccide il gigante Harpin della Montagna, che te-
neva in suo potere una bellissima fanciulla, nipote di Galvano, e tutta la sua
famiglia; strappa al rogo Lunete, accusata di tradimento, vincendo un duello
giudiziario; libera, al castello di Pesme Aventure, trecento fanciulle costrette
a tessere senza tregua stoffe di fili d’oro e di seta per il profitto di un signore
avido e crudele; prende le difese della figlia minore del signore della Nera
Spina, che la figlia maggiore vuole privare della sua parte di eredità, combat-
tendo, in incognito, contro un valentissimo cavaliere, pure in incognito, che
si rivelerà essere Galvano. Dopo questa serie di avventure Ivano ritorna alla
Fontana, in incognito, e scatena la più spaventosa delle tempeste: sarà ancora
Lunete, con una sua astuzia, a piegare l’orgogliosa Laudine e a riconciliare gli
amanti in «una pace senza fine».
In tutte le sue imprese, salvo che nella prima e nel duello con Galvano, Ivano Incontro con il leone
è aiutato, in modo decisivo, da un «compagno» fuori del comune, da un le-
one. Sono divenuti amici in seguito a una straordinaria avventura. Mentre sta
attraversando una foresta, Ivano si trova di fronte un leone e un serpente che
lottano, ferocemente avvinghiati: il serpente, enorme, vomitando fuoco, sta
per avere il sopravvento, ma il nostro eroe interviene e lo uccide, prendendo
le parti dell’animale nobile e cortese (la beste gentil et franche, v. 3371). Grato
e commosso, il leone si inchina davanti al cavaliere, gli fa festa e decide di se-

203
La letteratura francese medievale

guirlo. Caccia per lui, come se fosse un bracco, veglia di notte sul suo cavallo,
prende parte, con grande coraggio e ferocia, ai combattimenti.
Chrétien non ha inventato il motivo del «compagnonaggio del leone» – lo
troviamo anche nel mabinogi celtico Owein e Lunet, che non deriva dal no-
stro romanzo, ma probabilmente da una fonte comune – ma gli ha conferito
un grande rilievo, facendone un elemento decisivo e per l’intreccio e per il
significato dell’opera. L’incontro con il leone si colloca esattamente a metà
del romanzo (vv. 3337 ss.), ad esso è legata la nuova coscienza di sé, fatta di
generosità e di altruismo, del nuovo cavaliere che è divenuto Ivano. E anche
il suo nuovo nome, con cui ormai sarà noto al mondo: il Cavaliere del Leo-
ne. L’adozione di questo senhal – conosciamo l’importanza del nome nelle
cerimonie iniziatiche – sancisce il profondo cambiamento che è avvenuto
nell’animo dell’eroe, il suo rinnovamento interiore.
Ivano Uomo-Leone Nel leone Ivano – se vogliamo seguire la lettura del grande indianista e mi-
tografo Heinrich Zimmer – scopre il suo totem animale: negli stadi decisivi
della sua quête cede il passo all’istinto della bestia regale che è al suo fianco,
che combina forza e orgoglio con generosità e sopportazione, nelle sue deci-
sioni cavalleresche accetta la muta guida del suo alter ego animale come una
sorta di superiore consigliere.
Diventando Uomo-Leone Ivano si colloca in una sfera diametralmente op-
posta a quella della tradizione greca e moderna, dove l’altro grande Uomo-
Leone, più vicino alla nostra immaginazione e quindi più facilmente deci-
frabile, cioè Eracle, non diventa amico della belva, ma la uccide e la scuoia,
nell’impresa che segna il suo trionfo sull’invincibile mostro leonino di Ne-
mea. Indossando la pelle del leone, come sua veste caratteristica – con gli ar-
tigli poderosi incrociati sul petto eroico, la bocca fiera dalle fauci spalancate
che torreggia sulla sua testa, e la coda che ciondola dietro di lui – incede come
un super-leone a due zampe, per terrorizzare amici e nemici, come l’uomo
che ha vinto la leoninità. Eracle segna una rottura decisiva con la tradizione
arcaica, ci indica la strada pericolosa del voler essere completamente umani:

Se l’animale interiore è ucciso da una moralità eccessivamente risoluta, o se viene sempli-


cemente ridotto all’ibernazione da una perfetta routine sociale, la personalità cosciente
non verrà mai vivificata dalle forze nascoste che stanno alla sua base e che oscuramente la
sostengono. L’animale interiore chiede di essere accettato, di avere il permesso di vivere
con noi come il compagno un po’ bizzarro che spesso ci sconcerta. (...) E la voce e lo sti-
molo dell’istinto, è l’unica cosa che può farci uscire dai vicoli ciechi nei quali ci condurrà
continuamente la nostra personalità cosciente, finché rimarremo impastoiati nell’orgo-
glio di essere completamente umani, sdegnosi e privi di qualunque contatto intuitivo
con la fontana occulta della vita del mondo (Zimmer, Il re e il cadavere, p. 149).

L’Uomo-Leone del Chevalier au lion, con il leone «vivo», è in armonia con


una disposizione nei confronti del demoniaco-sovrumano che evoca netta-

204
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

mente l’Oriente arcaico, l’antica madre Asia. Ci riporta alla mente e allo spi-
rito dei Celti, che sentivano e veneravano in se stessi una parentela intrinseca
con il regno animale, che avevano raccolto dai Fenici, giunti per i loro com-
merci sulle coste della Britannia, della Cornovaglia e del Galles, i racconti
delle civiltà preclassiche, i simboli di un’antica sapienza.
Il grande paradosso del «compagnonaggio» leonino ci invita a leggere il ro- Convenzioni
manzo in modo non convenzionale, attenti non solo alla linea dell’azione, rovesciate
ma anche alle sue incongruenze, certo volute, alle sue ambiguità. In questa
direzione, accostando il romanzo alla dialettica delle scuole filosofiche e al-
la sottile casuistica dei partimen dei trovatori, Tony Hunt ha indicato delle
«discordanze» di rilievo: amore e cavalleria sono apertamente dissociati,
perché tra le avventure cavalleresche e la riconquista di Laudine non c’è una
stretta connessione (le due imprese più gloriose di Ivano, cioè la liberazione
delle trecento fanciulle al castello di Pesme Aventure e il duello con Galvano,
restano sconosciute a Laudine, e quindi non possono influenzare il suo at-
teggiamento nei confronti del Cavaliere del Leone); la riconciliazione finale
dell’eroe e della sua dama è notoriamente poco convincente e sullo sfondo
del loro faux ménage sembra avere un maggior valore morale il tema dell’a-
micitia, tra Lunete e Ivano e tra Ivano e Galvano; Chrétien si rivela in ultima
analisi un dialettico che giustappone invece di armonizzare, che non è legato
a un credo definito, che si diverte a pervertire le convenzioni del romanzo
cortese.
Letture come quelle di Hunt, o di Peter Haidu, mettendo l’accento
sull’eccentricità, sulla curiosità intellettuale, sui paradossi retorici, sulla
sofisticazione, ci spingono a cogliere l’emergere, al di là dell’intreccio,
di nuclei tematico-retorici, di costellazioni di immagini, di métaphores
obsédantes come aspetti essenziali dell’arte di Chrétien e del sen dei suoi ro-
manzi.
Uno dei nuclei tematico-retorici più rilevanti del Chevalier au lion potreb- Amore e Odio
be allora essere individuato nella coppia Amore-Odio, carica di ambivalenza
e di tensione drammatica, presente trasversalmente in tanti episodi. Ivano,
prigioniero nel castello, fantastica sull’Odio destato in Laudine, sulla loro
inimicizia, sulla contraddizione aperta dal suo improvviso Amore:

Ce qu’Amors vialt doi je amer.


Et doit me ele ami clamer?
Oïl, voir, por ce que je l’aim.
Et je m’anemie la claim
qu’ele me het, si n’a pas tort,
que ce qu’ele amoit li ai mort.
Donques sui ge ses anemis?
Nel sui, certes, mes ses amis.
(vv. 1457-1464)

205
La letteratura francese medievale

[Devo amare ciò che Amore vuole. / E lei deve chiamarmi amico? / Sì, certo, perché
io l’amo. / Ma io la chiamo mia nemica / perché mi odia, e non ha torto, / perché ho
ucciso chi lei amava. / Sono allora suo nemico? / No, certo, ma suo amico.]

Laudine e Lunete Laudine, in un dialogo immaginario con Ivano, che compare davanti a lei
come davanti a un tribunale, gli domanda, per poi felicemente assolverlo, se
ci sia stato l’Odio all’origine del suo agire:

Viax tu donc, fet ele, noier


que par toi ne soit morz mes sire?
– Ce, fet il, ne puis je desdire,
einz l’otroi bien. – Di donc por coi
feïs le tu? Por mal de moi,
por haïne, ne por despit?
(vv. 1762-1767)

[Vuoi dunque, gli dice, negare / che il mio signore sia stato ucciso da te? / – Questo,
risponde, non posso, / anzi lo ammetto in pieno. – Rispondi dunque, / perché l’hai
fatto? Perché mi volevi male, / per odio, o per malanimo?]

E Lunete, che tanto si adopera per Amore di Ivano (v. 1745) è forse passata
dalla sua parte, tradendo l’Amore per l’amica? No certo, perché ama più lei
di lui (Et plus ainme ele li que lui, v. 1747).
Dall’Odio per il cavaliere omicida la Dama della Fontana è passata all’Amo-
re, ma si guardi bene il cavaliere che sta partendo con i compagni per i tornei
di non lasciar passare la data stabilita per i ritorno, altrimenti l’Amore diven-
terà Odio: Mes l’amors devanra haïne...
(v. 2566).
Ivano e Galvano Il grande duello finale tra Ivano e Galvano trae tutta la sua suspense, il suo
barocco sfarzo retorico, e la sua drammaticità, dal fatto che si stanno scon-
trando, in incognito, per uccidersi, due cavalieri che invece si amano profon-
damente. L’autore, col pubblico, esclama sgomento: «Comant? Vialt donc
Yvains ocirre / mon seignor Gauvain son ami?» (vv. 6064-6065) [Come,
vuole dunque uccidere Ivano / messer Galvano, il suo amico?]. E si interroga
a lungo, sconcertato e pensoso, sulla micidiale, assurda psicomachia: «Par
foi, c’est mervoille provee / que l’en a ensanble trovee / Amor et Haïne mor-
tel» (vv. 6015-6017) [È un evento straordinario, / vi dico, che si siano incon-
trati così / Amore e Odio mortale].
Il groviglio dei Attraverso questo nucleo tematico-retorico ricorrente, ossessivo, che at-
rapporti umani traversa in più momenti l’intreccio, il romanzo sembra volerci trasmettere
anche una riflessione, metà filosofica e metà giocosa com’è nei modi di Cr-
nétien, sul groviglio dei rapporti umani, esposti all’equivoco e alla fortuna, al
gioco delle interpretazioni, all’alternanza delle pulsioni primordiali.

206
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

5. Perceval e Galvano. La maniera di Chrétien

Dove tanta parte della produzione letteraria medievale ci è giunta anonima, La firma di Chrétien
l’opera di Chrétien de Troyes si configura, vistosamente, come la storia di
uno scrittore, e della sua scrittura. Egli si firma e si presenta più volte. Nel
prologo del Cligès ci offre un quadro circonstanziato della sua attività fino
a quel momento: oltre all’Erec et Enide, ha scritto del roi Marc et d’Ysolt la
blonde ed è stato traduttore e imitatore di Ovidio (enumera i Comandemenz
d’Ovide, forse i Remedia amoris, l’Art d’Amors, cioè l’Ars amatoria, e infine
de la hupe et de l’aronde / et del rossignol la muance e le mors de l’espaule, cioè
la storia di Filomena, Procne e Tereo e la storia di Pelope dalle Metamorfosi).
Catalogo prezioso, testimonianza di opere di cui altrimenti non avremmo
notizia: perduto è il romanzo tristaniano, perduti sono gli ovidiana, ad ecce-
zione della Philomena, fortunosamente pervenutaci all’interno dell’enorme
compilazione trecentesca dell’Ovide moralisé.
Nei prologhi dell’Erec et Enide e del Chevalier de la charrete Chrétien prende La conjointure
posizione sull’arte del narrare, espone i principi della sua estetica. Presen-
tando il romanzo di Erec distingue nettamente tra conte d’aventure, che è la
fonte dell’opera, la storia, la materia, e la sua elaborazione artistica, fiero di
aver lasciato alle sue spalle tanti sciatti narratori stipendiati:

et tret d’un conte d’aventure


une molt bele conjointure
[…]
d’Erec, le fil Lac, est li contes,
que devant rois et devant contes
depecier et corronpre suelent
cil que de conter vivre vuelent.
(vv. 13-22)

[E da un racconto di avventura / trae un bellissimo intreccio. / ... / È la storia di Erec,


figlio di Lac, / storia che davanti a re e a conti / sempre fanno a pezzi e rovinano / i
giullari che vivono di racconti.]

Conjointure è ciò che assicura la coerenza e l’unità interna del soggetto, è Matiere e sans
l’architettura del romanzo, la vita che tiene insieme e anima le membra, al-
trimenti morte e sparse, della storia. Potremmo tradurre conjointure proprio
con «romanzo», come fa Renaut de Beaujeu nel suo Bel inconnu (che, è no-
to, in tante parti imita Erec et Enide): «Par li vuel un romant estraire / d’un
molt biel conte d’aventure» (vv. 4-5) [Per lei voglio scrivere un romanzo / da
una bellissima storia d’avventura].
Nel prologo del Chevalier de la charrete Chrétien introduce i termini matie-
re e sans: matiere è l’argomento della narrazione, la storia così come è stata

207
La letteratura francese medievale

trasmessa, più o meno senza varianti, il sans ne costituisce l’interpretazione


proposta o possibile. È la ripresa, secolarizzata, dell’opposizione clericale lit-
tera/sententia, dove littera è il significato primo risultante dalla successione
delle unità di testo, e sententia è un’operazione specifica di conoscenza, di
carattere morale e intellettuale. La personalità dello scrittore si manifesta nel
sans: «è lo spirito dell’opera, l’interpretazione morale delle avventure, l’ide-
ale che esse si propongono di illustrare, o, più semplicemente, il loro interesse
psicologico e umano». (Frappier, Chrétien de Troyes, p. 62)
L’avventura La conjointure e il sans si realizzano, nell’Erec et Enide, nel Chevalier au lion e
in parte anche nel Conte du Graal, secondo uno schema particolare articola-
to in una composizione a trittico (secondo Frappier, dove altri critici preferi-
scono parlare di bipartizione, includendo la crisi nella prima o nella seconda
parte): una prima avventura si conclude con la felicità amorosa del cavaliere e
della dama, segue una «crisi», insieme dramma psicologico e conflitto d’or-
dine morale e sociale, che sorge improvvisamente e rilancia l’azione; in una
terza parte, la più ampia, attraverso una serie di avventure l’eroe si trasforma
acquistando più autentica coscienza di sé e la storia si conclude felicemente
con la riconciliazione perfetta degli amanti.
La particolare struttura dell’intreccio dei romanzi di Chrétien, e del roman-
zo arturiano in generale, risulta così intimamente legata all’«avventura». Il
senso primitivo del termine, che si incontra ancora nei romanzi di materia
antica, sembra essere quello di «destino», «sorte», «caso». Chrétien, con
altri romanzieri della sua generazione, conferisce al concetto un valore più
specifico: l’avventura è una prova, o meglio una serie di prove (non esiste
l’avventura isolata) che permette all’eroe di uscire da se stesso per ritrovarsi, e
di ricostituire l’ordine del mondo.
L’ideale cavalleresco L’avventura non è solo il valore cavalleresco, è piuttosto un misterioso favo-
re che il destino riserva all’eroe eletto, che deve abbandonarsi con coraggio
a questa nuova determinazione dell’esistere, anche se essa si presenta come
un’incognita inquietante: «Erec s’an va; sa fame au moinne, / ne set ou, mes
en avanture» (Erec et Enide, vv. 2762-2763) [Erec parte, insieme a sua moglie,
/ non sa dove, in avventura]. È il cavaliere ad affrontare individualmente i pe-
ricoli dell’avventura, la corte non vi prende parte. Ma la vittoria lo riconduce
alla corte, lo reintegra nel suo ordine. Per una esigenza profonda della menta-
lità del tempo e della società cortese in particolare i valori dell’individuo non
esistono se non sono riconosciuti dalla collettività.
L’avventura diventa il nucleo fondamentale del nuovo ideale cavalleresco,
proprio nella sua capacità di ricomporre, secondo l’audace ipotesi storico-
sociologica di Erich Köhler, i conflitti tra l’aristocrazia, detentrice delle ter-
re, delle donne, del potere, e la piccola nobiltà dei cavalieri senza feudo: «Il
romanzo arturiano è il grandioso tentativo della cavalleria cortese di dare
una risposta al problema del senso dell’esistenza che si pone all’inizio della
seconda età feudale, una risposta che favorisca l’individuo e al tempo stesso

208
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

salvaguardi per l’ultima volta l’unità del ceto in quanto principio superiore»
(Köhler, L’avventura cavalleresca, p. 329).
L’avventura è così legata al destino del mondo cavalleresco che il suo sem-
plice venir meno ne adombra la crisi e il declino: per Calogrenant, nel Che-
valier au lion (certo si tratta di un personaggio secondario), la ricerca è già
problematica: «Je sui, fet il, uns chevaliers / qui quier ce que trover ne puis; /
assez ai quis et rien ne truis. / – Et que voldroies tu trover? / – Avanture, por
esprover / ma proesce et mon hardemant» (vv. 358-363) [Sono, risponde, un
cavaliere / che cerco ciò che non posso trovare; / molto ho cercato e non tro-
vo nulla. / – E che cosa vorresti trovare? / – Avventura, per provare / il mio
valore e il mio ardimento]. E il carattere di quello strano cavaliere, elegante e
beffardo, che è Dinadan si delineerà, nel Tristan en prose, anche come assenza
di avventure.
Nel Chevalier de la charrete e, in modo ancora più radicale, nel Conte du Gra- La quêtes parallele
al Chrétien complica lo spazio e il tempo romanzeschi lanciando due quêtes
parallele. Nel primo romanzo sulle tracce della Regina rapita si trovano due
cavalieri, Lancillotto e Galvano, le cui strade si separeranno ai confini del
regno di Gorre – uno sceglie il Ponte della Spada, come via di accesso, l’altro
il Ponte dell’acqua – e le cui avventure verranno narrate parallelamente. Nel
Conte du Graal la dicotomia si accentua in modo clamoroso, abbiamo due
storie, quella di Perceval e quella di Galvano, abbiamo una sorta di romanzo
doppio. Perceval è il giovane ingenuo che vive nella foresta e scopre gradual-
mente il mondo della cavalleria – da cui la madre, che ha già perduto due figli
«per le armi», vuole tenerlo lontano – e la propria vocazione. Galvano è, da
sempre, il rappresentante più perfetto e brillante della cavalleria mondana.
Partito dalla foresta della sua infanzia, Perceval va di tappa in tappa, di castel- Perceval e il Graal
lo in castello a raccogliere esperimenti e rivelazioni: gli insegnamenti della ca-
valleria presso Gornemanz, l’amore a Beaurepaire, nella figura della leggiadra
Blancheflor, il Graal nel castello del Re Pescatore. La sua è una storia di colpa
e di espiazione. Lasciando la foresta per cercare, in uno slancio irresistibile, la
cavalleria, scorge la madre cadere a terra svenuta, «come morta», ma non si
arresta. È questa la colpa che gli impedirà, davanti alla misteriosa processione
del Graal, di porre la domanda liberatrice, che lo trascinerà per cinque anni
come uno smemorato, finché troverà nell’incontro con l’eremita, il giorno
del Venerdì santo, la pace della confessione e dell’abbandono a Dio. Da qui la
decisione di ritornare al castello del Graal – nonostante gli abbiano predetto
che la colpa commessa non potrà essere cancellata, che l’occasione perduta
non potrà ritornare – per scioglierne il mistero, per compiere la missione
redentrice. Ma non sappiamo se vi ritornerà: dopo le lunghe avventure di
Galvano, al v. 9234, il romanzo si interrompe.
La storia di Perceval e del Graal – che Chrétien dice di aver tratto da un «li- Un’oscura storia
bro» donatogli da Filippo d’Alsazia – è una delle più straordinarie affabu- di famiglia
lazioni della letteratura medievale. In uno scenario irreale, attorno a un og-

209
La letteratura francese medievale

getto inafferrabile, il Graal, piatto dell’abbondanza proveniente dal folklore


celtico e insieme mistico ciborio, si raccolgono antichi rituali magici, epifanie,
destini, misteri. Il motivo della colpa si intreccia indissolubimente con una
oscura storia di famiglia, forse un incesto, storia che in parte rivelandosi – il
re del Graal e l’eremita del Venerdì santo sono fratelli della madre di Perceval
– stringe sempre più l’eroe in una cerchia matrilineare. Le parole dell’eremita,
anche se lasciano tante cose nell’ombra, sono inequivocabili: «Cil qui l’en
en sert est mes frere, / ma suer et soe fu ta mere; / et del riche Pescheor croi /
qu’ il est fix a icelui roi / qu’en cel graal servir se fait» (vv. 6415-6419) [Colui
a cui è servito è mio fratello, / mia sorella e la sua fu tua madre; / e il potente
Pescatore, credo, / è figlio di quel re / che si fa servire nel Graal].
Forse questa storia, attraverso il tema dell’azione liberatrice di un eroe pre-
destinato, delinea il mito di una società orientata su nuovi valori e nuovi
rapporti umani: «in particolare per il ruolo che vi prende la Madre. Segno
questo che un gruppo importante di uomini investe ormai la società di un
desiderio diverso da quello, dispotico, virile, territoriale, che segna il feudali-
smo». (Poirion, L’ombre mythique de Perceval, p. 98). Forse, perché il roman-
zo ricopre subito quello che svela di nuove reticenze e ambiguità, offrendo la
sua storia infinita alle interpretazioni e alle Continuazioni a venire, in versi
e in prosa (sul sincretismo pagano-cristiano, sui sovrasensi escatologici, sul
rapporto con la «verità nascosta» e con l’operazione stessa della scrittura,
sulla fortuna del Graal, da Robert de Boron al Perlesvaus al Lancelot en prose
si veda più oltre il capitolo sul Romanzo in prosa).
Nel Castello Certo il fascino romanzesco del Conte du Graal di Chrétien si iscrive anche
del Graal in questa sua dimensione di non-finito, di non-detto. Le proporzioni dell’o-
pera – quasi diecimila versi – la pluralità delle sue direzioni, suggeriscono un
effetto di deriva, di scrittura seconda, come se Chrétien fosse lui stesso il suo
primo continuatore e imitatore. La grande scena della processione del Graal,
fantasmagoria di colori e di luci, di oggetti arcaici e sacrali, è enigmaticamen-
te sospesa – anche perché è narrata dal punto di vista di Perceval – tra il rito
e la visione:

Uns vallés d’une chambre vint,


qui une blanche lance tint
empoignie par le mileu,
si passa par entre le feu
et cels qui el lit se seoient.
Et tot cil de laiens veoient
la lance blanche et le fer blanc,
s’issoit une goute de sanc
del fer de la lance en somet,
et jusqu’a la main au vallet
coloit cele goute vermeille.

210
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

Li vallés voit cele merveille


qui la nuit ert laiens venus...
(vv. 3191-3203)

[Da una stanza entrò un valletto / che teneva una bianca lancia / impugnandola nel
mezzo, / e passò oltre, tra il fuoco / e quelli seduti sul letto. / Tutti potevano vedere
/ la lancia bianca e il ferro bianco: / usciva una goccia di sangue / dal ferro della
lancia, sulla punta, / e fino alla mano del valletto / colava quella goccia vermiglia. /
Il giovane, arrivato appena / la notte, vide quella meraviglia...]

Chrétien crea una sorta di «mondo immaginale», sospeso tra sensibile e in- Un «mondo
tellegibile – se vogliamo riprendere la fenomenologia del mondo intermedio immaginale»
che Henri Corbin legge negli straordinari «racconti visionari» della mistica
persiana medievale, nei viaggi iniziatici di Avicenna, di Sohravardî... – dove
il significato degli oggetti e degli accadimenti non si concatena in una fabula
fissata una volta per tutte, ma rimanda a «somiglianze» lasciate sospese, si
definisce gradualmente in rapporto all’esperienza dei personaggi (e dei letto-
ri), per i riflessi sulle loro anime. Tutto quello che appare deve essere inter-
pretato, in un certo senso deve ancora accadere: accanto all’enigma supremo
del Graal, la Lancia che sanguina, reminiscenza della lancia di Longino sul
Golgota, è simbolo dell’orgoglio cavalleresco, delle uccisioni e delle vendette,
e foriera di nuove sventure. Così la spada consegnata solennemente a Per-
ceval dal Re infermo, come a lui destinata, è splendida ma, ci viene subito
detto, nasconde un pericolo noto solo all’artefice che l’ha forgiata: è segno
di elezione, ma anche di imperfezione e di scacco.
Tutta la testura del romanzo, la sua conjointure, è segnata dalla pluralità, dalla Perceval e Galvano
dispersione, dalla «doppiezza». Mentre Perceval sceglie di inoltrarsi nella
disperata e altissima ricerca del Graal, la sua quête, Galvano, che diventa il
protagonista a partire dal v. 4816, a metà del romanzo, si lascia trascinare in
un turbine di avventure e disavventure di ogni genere, una più sorprendente
dell’altra, tutte rigorosamente mondane:

Galvano rappresenta la parte della cavalleria divenuta estranea alle esigenze della co-
munità del ceto e divenuta effettivamente una controparte, una immagine alienata
che agli occhi dell’eroe ha perso ogni pretesa di esemplarità. In contrasto con l’evo-
luzione del protagonista, Galvano rappresenta nel romanzo del Graal una forma di
vita divenuta fine a se stessa, priva di senso, statica, che si esaurisce in una perfezione
esteriore e oppugnabile» (Köhler, L’avventura cavalleresca, p. 341).

Le sue disordinate e bizzarre avventure conducono infine Galvano al Castel- Il Castello


lo delle meraviglie, che fa da parallelo e da contrasto con il castello del Gra- delle meraviglie
al. In questo universo «incantato, eteroclito e fluido», secondo le parole di
Frappier, popolato malinconicamente da valletti non ancora armati cavalieri,

211
La letteratura francese medievale

da vedove spogliate delle loro terre, da nobili fanciulle in attesa di marito,


un universo di destini mancati che attende l’eroe liberatore (vv. 7566-7589),
Galvano incontra tre regine affabili e misteriose, di diversa età, che si rive-
leranno essere la madre di re Artù, sua madre e sua sorella: il regno che ha
scoperto è quello delle Madri, la misteriosa zona d’ombra dove Goethe farà
scendere Faust per scoprire e liberare il fantasma di Elena.
La mondanità Rispetto a Galvano, la superiorità del personaggio di Perceval, così complesso
di Galvano e così drammatico, appare un dato quasi scontato. Eppure la composizione
doppia del Conte du Graal li vuole compresenti, in una sorta di complemen-
tarità. È come se Chrétien non riuscisse a staccarsi dalla mondanità di Galva-
no, dalla sua «superficialità», che è anche lo splendore estetico del mondo
feudale e cavalleresco. Del resto, nonostante avverta con sempre maggiore
intensità l’urgenza del rinnovamento della cavalleria – verso un’interiorità
più vera, verso la charité (si veda il prologo del Conte du Graal), verso una ge-
nerosità meno superba e vana – di una vena e propria palingenesi, Chrétien ci
ha consegnato nei suoi romanzi la rappresentazione, la «forma» più segreta
della civiltà cortese: la versatilità, l’intelligenza, l’amabile scetticismo, che
ripara dalla verità monologica e dall’orgoglio del soggetto, il gusto, la gioia.
L’«eterogeneità» La sua arte della conjointure gli permette, nella costruzione del romanzo cor-
del romanzo tese, di sfruttare al massimo il principio della linearità – la capacità di un’e-
spansione infinita, l’elemento sorpresa, la dimensione ««tempo» implicita
nella quête – ma anche il principio dell’eterogeneità. Con questo termine
– introdotto ed applicato felicemente da Robert Warning, in polemica con
analisi troppo astrattamente narratologiche – si mette a fuoco l’incompati-
bilità costitutiva dei ruoli tematici del racconto folklorico in rapporto alla
narrazione romanzesca di Chrétien. L’eroe dei suoi romanzi è in un certo
senso il principe della fiaba, che può conquistare solo quello perduto dagli
altri e che è garantito magicamente nel suo possesso. Ma, inversamente, non è
un principe che ha conquistato la sua principessa una volta per tutte: la perde
e deve riconquistarla. Sarebbe quindi sbagliato cercare ruoli tematici fissi, nel
segno di un’identità data, o attendersi determinati esiti secondo la linearità
dello schema figurale della fiaba. Gli episodi della Dama di Noroison e della
Pesme Aventure, nel Chevalier au lion, sono una ripresa rafforzata, un rilan-
cio (steigernde Reprise) della storia della Dama della fontana, così come il
duello di Erec con Maboagrain è un rilancio del duello con Ider. Ma in nessu-
no di questi casi il superamento dell’avventura porta alla conquista della da-
ma, a cui pure si fa esplicito riferimento – la Dama di Noroison invita Ivano,
che l’ha liberata dal suo minaccioso e arrogante vicino, a restare come marito
e come signore delle sue terre; la figlia dei castellani, in Pesme Aventure, viene
da loro insistentemente offerta in sposa all’eroe liberatore – perché sarebbe
questo l’esito ovvio della vicenda, secondo lo schema Confronto-Conquista-
Attribuzione che è proprio del racconto folklorico. Ma nulla di tutto questo
accade, e vediamo Chrétien disattendere gli schemi narrativi tradizionali,

212
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

manipolare con sovrana, divertita indifferenza i destini dei personaggi: «È


possibile che noi si avverta un disagio ermeneutico di fronte all’identità spez-
zata (gebrochene Identität) di queste storie. Non era così per il xii secolo. Che
poteva moralizzare fiabe e miti, e mitizzare la morale, senza nessuna contrad-
dizione» (Warning, Formen narrativer Identitätskonstitution, p. 44).
[Dei contes moraux] Il narrare di Chrétien è caratterizzato da una grande Dei contes moraux
mobilità stilistica, verificabile immediatamente nel dinamismo sintattico –
che comporta, con frequenti enjambements, la rottura del distico di ottosil-
labi a rima baciata – da una sorta di felice indeterminazione, di relativismo
etico, che evita ogni rigidità e dogmatismo, che ci consegna, piuttosto che dei
romanzi a tesi – secondo la formulazione di un antico maestro, e in curiosa
consonanza con il bel ciclo filmico di Eric Rohmer – dei «contes moraux»
(Frappier, Chrétien de Troyes, p. 213).
Potremmo benissimo chiamare il nostro romanziere, sulla scia di una sugge-
stiva indicazione di José Enrique Ruiz Domenec, un «provinciale», perché
estraneo al centralismo gotico e monarchico che si va instaurando a Parigi,
al suo culto dei valori e delle gerarchie. Un provinciale che allo specchio
della rappresentazione, allo specchio sociale assoluto, quello di un Andrea
Cappellano, ad esempio, del tutto omogeneo al potere capetingio, oppone il
«gioco», la forma splendida e fragile in cui la società cortese trova il senso
della propria esistenza: «Chrétien non guarda, come Andrea Cappellano e
tanti altri, al futuro. Resta imprigionato nella provincia. È un uomo geniale.
Insolente. Misterioso» (Ruiz Domenec, La caballeria o la imagen cortesana
del mundo, p. 194).
Dalla sua esperienza della corte e della vita Chrétien attinge il senso del- L’«abbassamento
la varietà delle cose del mondo, della loro mutabilità, e la percezione delle del patetico»
nuances. Mette in scena gli animi e i caratteri più diversi, i movimenti della
generosità e del formalismo, dell’edonismo e dell’ascesi, in un gioco sotti-
le di opposizioni superate, di paradossi corretti o attenuati. Sa coinvolgerci
potentemente ma opera, nei momenti alti, un radicale «abbassamento del
patetico» – quel patetico che abbiamo visto essere la nota dominante, lanci-
nante della scrittura tristaniana di Thomas... – il suo narrare si muove, in un
magnifico equilibrio, tra la ragione e la sensibilità, tra l’emozione e l’esprit.
Quello che colpisce in Chrétien è anche il grande sperimentalismo, l’audacia Un’esperienza
con cui si lancia in direzioni nuove, senza mai fermarsi e appagarsi: passando del mondo
dal luminoso costruttivismo di Erec et Enide al bizantinismo un po’ da fiera
del Cligès, dalle plumbee brughiere, percorse da venti taglienti e rapinosi, del
Chevalier de la charrete all’allegro del Chevalier au lion, con il suo pittoresco
leone, con i suoi interni rococò, al simbolismo visionario e alla deriva narra-
tiva del Conte du Graal.
Escono dalle sue pagine, con un’intensità e un’amabilità che non cessa di
stupirci, una serie di caratteri, di atmosfere, di situazioni, di toni diversissimi
e alternativi, ma anche concertati, segretamente dialoganti, a rievocare e a

213
La letteratura francese medievale

trasmetterci, moltiplicando i punti di vista, una rischiosa e misurata espe-


rienza del mondo.

6. Altre vie del romanzo

A partire Il panorama romanzesco degli ultimi decenni del xii e poi del xiii secolo,
da Chrétien soprattutto nella sua prima metà, lascia l’impressione di una disordinata e
feconda varietà, di tematiche, di tono, di tipi di discorso. I grandi romanzi di
Chrétien de Troyes costituiscono un modello dato, ineludibile – la corte di re
Artù, i suoi cavalieri, la Regina, una struttura narrativa fondata sull’avventura
e sulla quête, dei motivi tipici, come la caccia a un animale fatato, l’arrivo di
un cavaliere sconosciuto alla corte e la sua sfida, l’estasi amorosa e la follia
per amore, l’incognito dell’eroe, la spada spezzata – una sorta di universo
preesistente a ogni possibile scrittura narrativa. A Chrétien si risponde attin-
gendo più largamente e più «arcaicamente» al folklore, all’agiografia, alla
realtà contemporanea di costume come all’esotismo, esplorando con nuova
curiosità spazi conosciuti e immaginari, interrogando, e anche decostruendo,
gli ideali cavallereschi.
Gautier d’Arras Una figura di notevole rilievo è quella del suo contemporaneo e rivale Gautier
d’Arras, autore dell’Eracle, composto intorno al 1170 per Tibaldo v di Blois
e per la contessa Maria di Champagne e terminato per Baldovino V, conte di
Hainaut, e di Ille et Galeron (1178-1184 ca.), dedicato a Beatrice di Borgogna,
moglie di Federico I Barbarossa. L’Eracle mescola spunti storico-agiografici
– la storia di Eraclio, imperatore di Bisanzio (610-641) – e motivi avventurosi
e fiabeschi, raccontando le enfances di Eracle, che ha il dono di conoscere le
virtù segrete delle pietre preziose, dei cavalli e delle donne, gli amori adulte-
ri dell’imperatrice di Bisanzio, la vittoria dell’eroe, divenuto imperatore, sul
persiano Cosroe, con il recupero della reliquia della Santa Croce, che ritorna
trionfalmente a Gerusalemme. Al realismo, evidente soprattutto nella prima
parte, si sovrappone una ricerca di effetti straordinari, che attingono a piene
mani al meraviglioso cristiano.
Ille et Galeron è la storia di un uomo combattuto dall’amore per due donne
– la moglie Galeron e la giovane Ganor, figlia dell’imperatore di Roma – e
prende le mosse dal lai di Maria di Francia Eliduc. Gautier riprende il motivo
con grande finezza psicologica intrecciandolo con l’ascesa del protagonista,
che impersona al massimo le aspirazioni dei cavalieri erranti, degli iuvenes del
suo tempo. Come figlio di un semplice gentiluomo, Ille non si sente all’al-
tezza della moglie Galeron, sorella di un duca, e il suo senso di inferiorità si
accentua fino ad essere insostenibile quando gli accade di perdere un occhio
in uno scontro. Fugge di nascosto, convinto che la moglie non lo ami più
e, finito a Roma, la difende valorosamente dall’assalto dei Greci di Costan-
tinopoli diventando siniscalco. Ganor, la figlia dell’imperatore di Roma, si
innamora di lui, ma Ille pensa ancora a Galeron e confessa di essere sposato.

214
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

L’imperatore e il Papa non si danno per vinti: faranno cercare Galeron e, se


questa non si trova, non esisteranno più ostacoli. Ille è d’accordo. Galeron
è scomparsa: è partita alla vana ricerca di Ille, per tutta Europa, e ormai da
quattro anni vive nell’incognito e nella miseria proprio a Roma. Solo all’ul-
timo momento, quando il nuovo matrimonio sta per essere celebrato, Ille e
Galeron si reincontrano, si riconoscono, si confessano il loro amore e ritorna-
no insieme in Bretagna. Ille è ora duca, per la morte del padre di Galeron, ma
la moglie, obbedendo a un voto fatto durante una difficile gravidanza, si riti-
ra in convento. Giunge la notizia che Roma è di nuovo minacciata dai Greci e
la richiesta di soccorso. Ille accorre, salva Ganor e questa volta la sposa. Senza
dimenticare Galeron, chiusa in convento, diventa imperatore di Roma e vive
felice con Ganor.
Trama complessa e ricca di colpi di scena. L’allontanamento tra Ille e Gale- Un eroe ambizioso
ron, dovuto ai sensi di inferiorità di Ille, si traduce, come ha osservato convin-
centemente Friedrich Wolfzettel, in una doppia erranza dei protagonisti, ma
con un audace rovesciamento dei ruoli tradizionali – perché l’erranza dell’uo-
mo è in verità una fuga, e quella della donna una quête – offrendo alla dama
cortese, che conosciamo di norma immobile come un idolo, la possibilità di
cercare la sua aventure. Ma al centro del romanzo c’è indubbiamente Ille, con i
suoi tormenti, con i suoi complessi, con le sue prodezze, con le sue ambizioni.
Attraverso dure prove, con un lungo apprendistato da Bildungsroman, con un
laborioso processo di conciliazione – se è vero che Ganor è per Ille come la
reincarnazione di Galeron, l’immagine defeudalizzata della sposa amata e in-
sieme l’incarnazione dell’ideale rappresentato da Roma e dalla dignità impe-
riale (Wolfzettel, La recerche de l’universel, pp. 130-1) – l’eroe trova finalmente
se stesso e il proprio destino. Certo non è facile cancellare del tutto dalla sua
figura i tratti, accentuatissimi, di un frenetico social climber – «il valorosissi-
mo, ma certo un po’ filisteo Ille» (der kreuzbrave, aber doch etwas philiströse
Ille) lo chiama Alfred Adler – soprattutto se lo confrontiamo con Erec, con
Ivano, con l’eroe di Chrétien de Troyes, che agisce come se fosse già arrivato:
«er glaubt ja schon am Ziel zu sein» (Adler, Höfische Romane, p. 116).
A livello di poetica romanzesca Gautier conduce una battaglia esplicita con- Un programma
tro l’immaginazione, contro la fantasia – che è la grande musa dei suoi con- realistico
temporanei, di Maria di Francia, di Chrétien de Troyes – e questo in nome di
un realismo psicologico e narrativo, della verosimiglianza:

Grant cose est d’Ille et Galeron:


n’i a fantome ne alonge,
ne ja n’i troverés mençonge.
Tex lais i a, qui els entent,
se li sanlent tot ensement
con s’eüst dormi et songié.
(vv. 931-936, ms.P)

215
La letteratura francese medievale

[Gran cosa è Ille e Galeron: / non ci sono fantasticherie e indugi, / non ci troverete
menzogna. / Ci sono dei lais, a sentirli, / che a uno sembra davvero / di aver dormito
e sognato.]

Virtuosismo Ma il programma realistico è felicemente contraddetto da un temperamento


e teatralità che mescola furiosamente narrare, descrivere e moraleggiare, che lavora per
accostamento invece di comporre, che accumula invece di organizzare, che
si cimenta, soprattutto in certi passi particolarmente aulici e di carattere più
teorico, con l’arte raffinata dell’ornatus difficilis, pervenendo a una sorta di
«virtuosismo barocco» (Renzi, Tradizione cortese, p. 166).
Soprattutto nell’Eracle Paul Zumthor è giunto suggestivamente a coglie-
re una teatralità esplicita, che fa sì che il testo sia pienamente compren-
sibile soltanto se accompagnato continuamente da una gbossa vocale-
tonale, mimica, gestuale. In contraddizione con il suo essere «scrittura»
l’Eracle, «testo brulicante, sonoro, disordinato, felice», ci restituisce
un’epifania della viva voce (Zumthor, L’écriture et la voix. Le roman
d’Eracle, p. 206).
Partonopeus Nel segno della varietà dei registri e della sperimentazione si pone, in modo
de Blois non meno caotico e pittoresco, il Partonopeus de Blois (1182-1185 ca.), vero e
proprio romanzo-fiume di quasi 20.000 versi (dove il distico di ottosillabi si
alterna con lasse di ottosillabi e di alessandrini). Partonopeus, nipote del re
di Francia Clodoveo, perdutosi nella foresta delle Ardenne, viene trasporta-
to da un battello magico nel castello della fata Melior. Questa gli concede
il suo amore, ma Partonopeus non potrà mai vederla. Dopo averla lasciata
per difendere la Francia in pericolo, ritorna e, per aver cercato di vederla alla
luce di una lampada (la storia di Amore e Psiche...), la perde. Disperato, me-
lanconico, dopo svariate avventure, Partonopeus potrà riconquistare la Fairy
Mistress, che in realtà è la figlia e l’erede dell’imperatore di Costantinopoli,
trionfando in un grande torneo.
Il romanzo intreccia ingegnosamente diversi moduli espressivi: motivi cel-
tici (il divieto della fata) e antichi (la storia di Amore e Psiche), stilemi da
chanson de geste nelle lunghe descrizioni di battaglia, dibattiti di psicologia
amorosa, riflessioni politiche e morali (per esempio contro la nobilitazione
dei villani). Particolarmente felice la spiritosa irruzione della storia personale
dell’autore e della sua dama (con lo pseudonimo di Passe-Rose): egli scrive
solo per divertirla e si dice disposto a modificare la trama a suo piacimento.
Al Partonopeus si ispirano, ma con molto minore verve narrativa, l’anglo-nor-
manno Hue de Rotelande, autore di Ipomedon e Protheselaus – ambientati
nel Mediterraneo: gli eroi divengono rispettivamente duca di Calabria e re
di Sicilia – e Aimon de Varennes, piccolo nobile della regione di Mâcon, nel
Lionese, con il suo Florimont (1188 ca.), che mescola ricordi di viaggio, leg-
gende locali, scenari orientaleggianti. La storia ha il suo fulcro nella difficile
scelta tra una fata, che ama l’eroe ma gli impone il segreto sulla loro liaison, e

216
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

Romadanaple, l’ereditiera del re di Macedonia (è inutile dire che Florimont


si deciderà per la seconda).
Anche Guinglain, il protagonista del Bel Inconnu (1200 ca.) di Renaut de Renaut de Beaujeu
Beaujeu – forse identificabile con Renaut de Bâgé, signore di Saint-Trivier
(1165-1230 ca.), nel Lionese – è diviso tra l’amore di una fata, la Fanciulla dal-
le Bianche Mani, e quello per una dama di questo mondo, Blonde Esmeree.
Quest’ultima è prigioniera di un incantesimo che la costringe nelle spoglie
di un serpente e solo il bacio di Guinglain, nell’episodio culminante del Fier
Baiser, potrà liberarla:

A tant vit une aumaire ouvrir


et une wivre fors issir,
qui jetoit une tel clarté
con un cierge bien enbrasé;
tot le palais enluminoit.
Une si grant clarté jetoit,
hom ne vit onques sa parelle,
que la bouce ot tote vermelle.
Par mi jetoit le feu ardant,
molt par estoit hidosse et grant.
[…]
Il se retint, ne le fiert mie,
il l’esgarde, pas ne s’oublie,
ne de rien nule ne fercele;
et si a il molt grant mervele
de la bouce qu’a si vermelle.
Tant s’entent en li regarder
que d’autre part ne pot garder.
La guivre vers lui se lança
et en la bouce le baissa.
(vv. 3127-3186)

[Vide allora un armadio aprirsi / e sbucarne fuori un serpente, / che emanava una
luce quale / quella di una candela accesa; / tutta la sala ne era illuminata. / Diffon-
deva una luce tale, / non se n’era mai vista una così intensa, / che la sua bocca era
d’un rosso infuocato. / Sputava lingue di fuoco, / ed era orribile ed enorme. / ... / Si
trattenne ancora dal colpirlo, / lo fissava senza distrarsi, / e senza agitarsi; / era stu-
pito / di quella bocca così rossa. / Sta così intento ad osservarlo / che non volgeva lo
sguardo altrove. / Il serpente si lanciò verso di lui / e lo baciò sulla bocca.]

Appena liberata Blonde Esmeree, che si rivela essere figlia ed erede del re del La fata dell’Isola
Galles e che si offre come sua sposa, Guinglain è preso dal mal d’amore per la d’Oro
bella fata abbandonata senza prendere congedo – Onques mais n’ot il d’amer

217
La letteratura francese medievale

cure, / mais or se diut a desmesure / por la Pucele as Blances Mains; / tot en


devint pales et vains (vv. 3679-3683) [Non aveva mai rivolto il suo pensiero
ad amare, / ed ora si trovava a soffrire oltre ogni limite / per la Fanciulla dalle
Bianche Mani; / impallidì e perse le forze] – e ritorna all’Isola d’Oro, ma,
dopo un periodo di felicità piena, non resiste al richiamo della corte arturia-
na. Abbandona di nuovo la fata: lo attende il torneo di Valedon, dove trion-
fa, il matrimonio finale con Blonde Esmeree e l’incoronazione.
Un eroe tra due L’eroe si sposta tra i due mondi, quello dell’Isola d’Oro e quello arturiano,
mondi attraverso momenti di turbamento che non presentano però lo spessore di un
profondo conflitto interiore, tanto che le sue decisioni e azioni sono perfet-
tamente reversibili. Operando questa continua oscillazione tra due «mon-
di possibili», tra due settori anche narrativamente eterogenei, Renaut «si
rifiuta di coinvolgere il suo protagonista nell’esperienza inquietante di un
rapporto con un personaggio veramente sdoppiato. È stato infatti recente-
mente notato che, nella finzione letteraria, ogni autentica figura di doppio è
definibile come la coesistenza, nello stesso mondo possibile, di due personag-
gi distinti...» (Meneghetti, Duplicazione e specularità, p. 216).
Guinglain è un personaggio aperto e la sua storia – oggetto meritatamente di
numerose e sottili analisi: Grigsby, Haidu, Meneghetti, Pioletti – si sfrangia
e si confonde nel bel gioco – Beaujeu si leggerà allora come un nome-segnale
– condotto dall’autore. Tutta la vicenda si apre, secondo un procedimento
già sperimentato nel Partonopeus de Blois, verso il lettore e verso le audacie
della metanarrazione e della galanteria: se la dama per cui Renaut ha scrit-
to il romanzo si mostrerà con lui meno crudele, leggiamo negli ultimi versi,
allora l’autore farà sì che Guinglain possa tenere ancora tra le sue braccia la
fata dell’Isola d’Oro (Vos feroit Guinglain retrover /s’amie, que il a perdue, /
qu’entre ses bras le tenroit nue).
Romanzi dinastici Come il Partonopeus de Blois, che si propone, cosa evidente già nella scelta del
nome non romanzesco del protagonista, di glorificare un potente lignaggio
feudale, quello dei conti di Blois, intento squisitamente dinastico-politico ha
anche un gruppo di romanzi anglo-normanni scritti tra la fine del xii secolo
e i primi decenni del xiii, per i quali Mary D. Legge ha coniato l’etichetta di
«romanzi d’antenati» (ancestral romances) e che rispondono all’esigenza di
legittimazione di famiglie feudali di recente e talora oscura origine, collegate
alla conquista normanna dell’Inghilterra del 1066: Guillaume d’Angleterre
(1170-1180 ca.), firmato da Chrétien – l’attribuzione a Chrétien de Troyes,
avanzata da alcuni critici, non si è imposta – con le peripezie di un leggenda-
rio re Guglielmo, messo a dura prova dalla fortuna, separato e poi ricongiun-
to felicemente alla moglie e ai figli Lovel e Marin, si propone di glorificare la
famiglia Lovell e i conti di Leicester; il lungo romanzo Waldef (1190-1210 ca.,
più di 22.000 versi) si rifà al sassone Waltheof, il celebre conte di Northum-
berland coinvolto nella congiura di Norwich (1075), e fatto decapitare da
Guglielmo il Conquistatore, e capostipite della grande famiglia Huntingdon

218
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

(un Huntingdon è re di Scozia dal 1165 al 1214, col nome di Pietro il Leone),
nelle cui terre si svolgono tutte le vicende del romanzo; Fergus (1200-1220
ca.), di Guillaume le Clerc, dietro agli amori avventurosi e contrastati del
protagonista e di Galienne, rappresenta le pretese al trono di Scozia da parte
di una grande famiglia (è scritto per il signore scozzese Alain de Galloway);
Gui de Warewic (1232-1242 ca.) è costruito a partire da fatti reali, le imprese
di Wigod di Wallingford, coppiere di Edoardo il Confessore (1047-1066)
e nobile antenato delle famiglie Warwick e Wallingford; Fouke Fitz Warin
celebra le glorie degli antenati della famiglia inglese dei Fitz Waryn, in parti-
colare la lotta di Folco iii contro Giovanni Senzaterra e la rivendicazione del
feudo di Whittington (la versione originale del xiii secolo è perduta, ci resta
una prosificazione del xiv secolo).
In questi ancestral romances le peripezie dinastico-politiche prendono spesso
la forma dello smembramento temporaneo di una famiglia e delle avventu-
rose, infinite peregrinazioni dell’eroe, ispirandosi a motivi dell’agiografia (le
leggende di Sant’Eustachio e di Sant’Alessio, quest’ultima in francese già nel
1040 ca., come Vie de Saint Alexis) e del romanzo ellenistico (la storia di
Apollonio di Tiro). Questo accade, in modo particolarmente riuscito e inci-
sivo, in Guillaume d’Angleterre e in Gui de Warewic.
In una dimensione composita e volutamente arcaizzante Guillaume d’Angle- Guillaume
terre affronta ambiziosamente alcuni nodi cruciali del mondo feudale, come il d’Angleterre
tema della sovranità, del «corpo del re», e quello della ragione mercantile. Il
sincretismo tematico dell’opera, il suo ibridismo stilistico sono i riflesso di un
mondo in fieri, dove si mescolano e si accavallano i comportamenti di diverse
classi sociali. Tutto questo ha il suo fulcro nella figura del re: privato del regno
(in seguito ad un sogno imperioso che gli ordina di lasciarlo), regredito nella
foresta allo stato mitico della preistoria, separato dalla moglie e dai figli, de-
classato come un vagabondo, servo di un villano, astuto e abilissimo mercante,
che batte le piazze più importanti e accumula un’ingente fortuna, ricongiun-
to dopo più di quindici anni ai suoi cari e di nuovo re, Guglielmo, proprio
per le sue innumerevoli mutazioni, rappresenta un destino esemplare.
Le linee ideologiche del romanzo, ora enunciate, ora ricavabili dall’intreccio,
sono contraddittorie, fortemente incoerenti: i figli di Guglielmo si rifiutano
clamorosamente di entrare nella bottega di un pellaio, dove li vuole collocare
come apprendisti il padre adottivo, che è un mercante (è il topos della natu-
ra, nobile, che vince sull’educazione: nature/noreture), ma abbiamo anche
un’attitudine antinobiliare esplicita nell’episodio della tempesta che spinge
la nave di Guglielmo nel porto di Sutherland (vv. 2311 ss.), dove i venti che
sconvolgono le onde sono paragonati ai baroni feudali, che guerreggiano per
il loro piacere, senza curarsi delle rovine e delle devastazioni, e soprattutto
colpisce l’irresistibile carriera mercantile di Guglielmo, la capacità di un re
di entrare in prima persona nella ragione borghese del profitto. È proprio
l’impianto agiografico a riequilibrare queste violente opposizioni, a dare un

219
La letteratura francese medievale

senso e una causalità, evidente certo solo a posteriori, ai rovesci della fortuna,
a orientare la storia. Gli aiutanti possono sì divenire antagonisti, ma poi, per
un rovesciamento fortunoso, si trasformano di nuovo, circolarmente, in do-
natori e in aiutanti: l’asse della storia, narratologicamente, è dominato da una
sorta di «sincretismo attanziale» (Belletti).
Santità e La violenza con cui si attua lo scoronamento del re resta senza vendetta, e que-
camaleontismo sto non solo per carità cristiana, ma perché il sacrificio dell’eroe, un secondo
sociale Giobbe, ne verrebbe falsificato. La degradazione subita è occasione di un eser-
cizio di umiltà – «Se nus le laidenge n’afite, / ja por afit ne por laidenges /
n’ert de lui servir plus estranges; / ains s’encline et si le descauce: / qui s’ume-
lie, si s’essauce, / ce dist on, et s’est verités, / moult essauce home humelités /
et moult l’oneure et moult l’alieve» (vv. 1020-1027) [Anche se viene coperto
d’insulti, / mai per offese o maltrattamenti / sarà più lento a prestargli la pro-
pria opera; / pronto anche a chinarsi per togliergli i calzari: / chi si umilia ver-
rà esaltato, / è verità sacrosanta, / l’umiltà innalza l’uomo, / molto l’onora e lo
rende superiore]. – spendibile sia sul versante religioso che su quello politico.
Come il santo medievale, socialmente anfibio, così Guglielmo vuole «farsi
tutto a tutti» – secondo il detto paolino «Omnibus omnia factus sum» (I
Cor. 9,22) – ed è questa pretesa che giustifica la sua santità e insieme il suo ca-
maleontismo sociale (e che nel contempo fornisce le regole di trasformazione
dei materiali folklorici). Guglielmo non è mai un declassato: le sue due facce
sono quelle del re e del capro espiatorio, della vittima sacrificale, di qui la sua
natura fluttuante ma fondamentalmente unitaria, che riunisce in lui, senza
che possano essere separate se non nelle effimere vicissitudini del tempo, due
figure, l’una inversa dell’altra.
Gui de Warewic In Gui de Warewic, anche qui con un vasto progetto di sincretismo ideologi-
co e letterario, l’autore si propone di amalgamare in un solo modello di pro-
tagonista una lunga tradizione. Le tappe dell’avventurosa biografia di Gui,
secondo la stringente analisi di Friedrich Wolfzettel, sembrano corrispon-
dere ad altrettante citazioni da opere e da generi diversi: cavaliere cortese fra
due donne come Eliduc (e come Ille, e Guinglain), uccisore di un drago come
Tristano, cavaliere del leone come Ivano (un leone lo accompagna alla corte
di Costantinopoli), ambasciatore in campo nemico come Orlando, asceta
in incognito, proprio sotto gli occhi della moglie ignara, come sant’Alessio.
Questa ricchezza di riferimenti intertestuali, nel segno di una totalità ideale,
questo prodigioso accumulo di ruoli sembra però anche tradire «un’incrina-
tura segreta, lo statuto problematico di un protagonista che, incapace di vive-
re della sua propria vita, conduce un’esistenza letteraria che sola sembra ga-
rantire il suo carattere esemplare» (Wolfzettel, Cavalleria esemplare, p. 99).
Erranza e Il vero tema del romanzo, dall’inizio alla fine, è l’erranza, non importa se pro-
pellegrinaggio fana o cristiana, purché cancelli ogni stabilità sociale, ogni radicamento. La
penitenza del pellegrino sembra servire solo a sostituire l’errer cavalleresco,
simile a quello del mercenario, con un errer religioso:

220
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

Unques a home ne parla,


neis a Heralt qu’il mult ama;
mais a la mer dreit s’en ala,
en Jerusalem puis aler voldra.
Desore d’errer ne finera,
en Jerusalem si vendra
et en meinte estrange terre
u les sainz Deu purra requerre.
(vv. 7729-7736)

[Non volle parlare con nessuno, / neanche con l’amatissimo Heralt; / andò dritto fi-
no al mare, / da qui partirà per Gerusalemme. / Non smetterà più di errare, / arriverà
fino a Gerusalemme / e a molte terre straniere / alla ricerca dei santi del Signore.]

I valori stessi del lignaggio vengono fatti esplodere a vantaggio dell’erranza, Legittimità
e invano il padre di Gui gli chiede di restare a provvedere alle necessità dei della cavalleria
suoi, a godere del loro affetto: «Bel filz, laissiez ester! / Uncore ne passerez
la mer; / vus remaindrez ici od nus, / de tant en serrums plus joius» (vv.
1147-1150) [«Caro figlio, lasciate stare! / Non passate ancora il mare; / re-
state qui con noi, / restate per la nostra gioia»]. A furia di combattere dap-
pertutto per l’ordine minacciato, in una sorta di «arte per l’arte» della ca-
valleria, Gui giustifica trionfalmente la legittimità dell’ordine cavalleresco,
ma allo stesso tempo rischia fortemente di compromettere la sua famiglia e
il suo patrimonio: suo figlio Rainbrun è rapito, l’amico Heralt è calunniato
e cacciato, la sua terra è invasa da un traditore... Le cose, è vero, pian piano
tornano a posto, in una felice restitutio ad integrum (Gui torna in tempo per
sconfiggere il traditore) e i valori del lignaggio vengono ristabiliti, ma solo
alla fine, quando, dopo la pia morte di Gui nel «ruolo» di sant’Alessio, suo
figlio Rainbrun riceve l’omaggio dei vassalli e si fissa a Warewic, come erede
legittimo.

7. Jean Renart. I romanzi di Galvano

Rifacendosi alla poetica realistica di Gautier d’Arras, ma modulandola a suo I romanzi


modo, con una buona dose di verve e di ironia, Jean Renart spicca sulla sce- di Jean Renart
na letteraria dei primi decenni del xiii secolo come un autore di caustica e
festosa raffinatezza e di grande originalità. La critica gli attribuisce, in base
alle caratteristiche dello stile e a firme in crittografia, l’Escoufle (1200-1202
ca.), il Roman de la rose, che si preferisce chiamare Guillaume de Dole per
distinguerlo dal famoso poema allegorico (1210- 1212 ca. per alcuni critici,
1228 ca. per altri) e il Lai de l’ombre (1217-1222 ca.), uno dei gioielli della
narrativa breve medievale, firmato esplicitamente, al v. 953, da Jean Renart.
L’Escoufle è dedicato a Baldovino iv di Hainaut, che parte per la Crociata

221
La letteratura francese medievale

nel 1202, Guillaume de Dole al vescovo di Beauvais, Milon de Nanteuil, e


sembra fortemente influenzato dalla personalità dell’imperatore Ottone iv
di Brunswick (1198-1214), i molti personaggi del torneo di Saint-Trond, nel-
lo stesso romanzo, di cui si è tentata un’identificazione storica, oscillano tra
titoli reali e fantasia.
Realtà e fantasia Nel prologo dell’Escoufle Jean Renart scende in campo contro i racconti in-
verosimili, in nome della verté:

Car molt voi conteors ki tendent


a bien dire et a recorder
contes ou ne puis acorder
mon cuer, car raisons ne me laisse;
car qui verté trespasse et laisse
et fait venir son conte a fable,
ce ne doit estre chose estable
ne recetee en nule court;
[...]
k’a cort a roi n’a cort a conte
ne doit conteres conter conte,
puis que mençoigne passe voir.
(vv. 10-23)

[Perché vedo molti giullari / che vanno dicendo e recitando / racconti che il mio
cuore / rifiuta, che ragione non vuole; / se uno abbandona e lascia la verità / e del
suo racconto fa una favola / questo non può essere accettato, / non va accolto in
nessuna corte. / ... / E a corte di re o di conte / nessun giullare racconti storie / se la
menzogna vince il vero.]

E la sua narrativa mostra una netta propensione a restituirci i tratti più reali
della vita nobiliare del suo tempo, banchetti, tornei, partite di caccia, conver-
sazioni e feste. Ma le descrizioni minuziose di personaggi e ambienti vengo-
no ora idealizzate, in una laudatio dell’eccellenza cortese, del presente e del
passato, ora relativizzate da interventi dell’autore, condotti con sottigliezza e
con umorismo, conferendo così al suo «realismo», rispetto ad altri romanzi
di costume – come il Galeran de Bretagne (1210-1220 ca.) di un certo Renart
o il Roman de la violette (1227-1229 ca.) di Gerbert de Montreuil – un tono
del tutto particolare.
L’Escoufle Jean Renart si diverte a giocare abilmente sulle situazioni narrative, sul lin-
guaggio, sui titoli stessi delle sue opere. L’Escoufle (il milvio) rinvia al nome
di un uccello da preda meno aristocratico del falco, e che non può essere
addestrato, e tutto il romanzo tende anche a trasformare questo titolo un
po’ volgare, legato alla storia originale, in un titolo più bello e cortese, il «ro-

222
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

manzo dell’anello». Dopo un lungo prologo dedicato alle imprese del conte
Riccardo di Montivilliers, si narrano gli amori contrastati di suo figlio Gu-
glielmo e di Aelis, figlia dell’imperatore di Roma. I due giovani innamorati,
per superare l’opposizione dell’imperatore padre, fuggono insieme. In una
foresta, mentre Aelis dorme, un milvio, prendendola per un pezzo di carne, si
butta sulla sua borsa di seta rossa, che contiene un anello donato a Guglielmo
in pegno d’amore, e se ne impadronisce. Guglielmo lo insegue e si perde,
Aelis crede di essere stata abbandonata: inizia così la lunga separazione degli
amanti, segnata soprattutto dalle infinite peripezie di Aelis, che raggiunge
prima Toul e poi Montpellier, dove si ferma e si guadagna da vivere con la sua
abilità di artigiana. Solo quando, nel corso di una caccia, Guglielmo ucciderà
un altro milvio e per la rabbia ne divorerà il cuore, questo strano accadimen-
to, di cui si parla a corte, farà sì che Aelis riconosca nell’«uomo del milvio»
il suo Guglielmo e possa riunirsi felicemente a lui.
In Guillaume de Dole il giovane imperatore di Germania Corrado, nel corso Guillaume de Dole
di una lunga festa cortese, sente il giullare Juglet fare gli elogi di Guglielmo,
un valente cavaliere di Dole, e della sua bellissima sorella Lienor. Innamora-
tosi «di lontano» della fanciulla, invita Guglielmo a corte, ne diventa amico
e gli rivela la sua intenzione di sposare Lienor. Mentre Guglielmo si copre di
gloria nel torneo di Saint-Trond, il siniscalco di Corrado, geloso del potere
che il giovane ha acquistato a corte, si reca a Dole per vedere Lienor e cercare
di screditarla: apprende dalla madre di lei, alquanto ciarliera e incauta, che la
fanciulla ha sulla coscia una macchia rossa in forma di rosa. Forte di questa
rivelazione fa credere a Corrado di averla posseduta. Lienor arriva in incogni-
to alla corte e smaschera astutamente l’impostore. Happy end: la «fanciulla
della rosa» sposa finalmente il suo imperatore. L’intreccio si basa su un noto
motivo folkloristico, quello della «scommessa» – «un uomo si rende garan-
te della virtù di una donna verso un altro che si vanta di poterla sedurre; in
seguito ad apparenze ingannevoli sembra che la donna abbia ceduto al sedut-
tore, ma alla fine la sua innocenza è riconosciuta», secondo la formulazione
di Gaston Paris (Le cycle de la gageure, p. 481) – ma nel nostro romanzo la
scommessa non ha luogo e la vicenda è come disarticolata.
Il romanzo racconta paradossalmente la storia di una scommessa senza scom- Il segreto della rosa
messa, il segno della rosa, secondo la raffinata decodificazione di Michel
Zink, è legato, più che al segreto, al voyeurismo e alla parola:

Non bisogna parlare della rosa anche se tutti sanno che Lienor ha una rosa. Ma,
malgrado questo interdetto, la parola sulla rosa è ambivalente. Si sfiora il dramma
perché la madre di Lienor ha parlato della rosa e perché dopo di lei tutti ne hanno
parlato, ma Lienor rimette a posto le cose accusando pubblicamente il siniscalco
di averla violentata. Nomina così esplicitamente il significato della rosa, il sesso,
e la sua deflorazione, parole che dovrebbero essere ancora meno pronunciabii e
che dovrebbero avere un effetto ancora peggiore di quelle dette sulla rosa, ma che

223
La letteratura francese medievale

invece, al contrario, le esorcizzano, le correggono, le annullano (Zink, Roman rose


et rose rouge, p. 57).

Giullari e canzoni La raffinata, scabrosa e giocosa narrazione – la rosa non è il sesso della fan-
ciulla e non è neppure la sua metafora, come nel Roman de la rose di Guil-
laume de Lorris, perché ha una sua realtà materiale: è accanto al sesso, è la
sua metonimia (Poirion) – è resa ancora più artificiosa e brillante dall’in-
serzione di numerosi testi lirici (in tutto quarantacinque), strofe di celebri
canzoni d’amore, francesi e provenzali, e di composizioni di carattere tra-
dizionale. Questa trouvaille – che avrà un’enorme fortuna: l’imitano tra gli
altri Gerbert de Montreuil nel Roman de la violette, Jakemes nel Roman du
Chastelain de Couci et de la Dame de Fayel, l’autore della Châtelaine de Vergi
... – riproduce gli usi della classe aristocratica, che vive e parla nelle allusioni
letterarie, ed è magnificamente adeguata alle varie situazioni dell’intreccio,
con funzioni di condensazione e di ridondanza: Corrado è costantemente
circondato da giullari, che con le loro canzoni riflettono e interpretano i suoi
stati d’animo; la bella Lienor, ancora ignara dell’amore dell’imperatore, in-
tona al telaio una presaga e struggente chanson d’ami ...
Lai de l’ombre Se nell’Escoufle aveva toccato con gli scorci di vita quotidiana toni da fabliau,
con grande libertà tematica – Aelis, che apre la sua casa alla frequentazio-
ne dei grandi signori, che lava loro i capelli, che li distrae raccontando delle
storie assomiglia molto a una geisha – operando una decisa demistificazione
della dimensione idillica, nel Guillaume de Dole e nel Lai de l’ombre Jean
Renant si rivela raffinato cantore della pacifica e opulenta vita feudale dei
suoi giorni, impreziosendo le sue scene di tratti di grande manierismo: gli
inserti lirici, con effetti di mise en abyme, nel romanzo, la «specularità» della
situazione centrale nel lai.
Una agudeza cortese Qui il protagonista riesce a vincere la ritrosia della dama che ama con una
punta di eleganza, con una agudeza di somma cortesia che la sorprende e la
conquista. Dona l’anello che lei ha appena rifiutato a una rivale, che non è
altri che la sua stessa immagine riflessa nel pozzo:

«Tenez, – fet il, – ma douce amie;


puis que ma dame n’en veut mie,
vous le prendrez bien sanz meslee».
L’aigue s’est un petit troublee
au cheoir que li aniaus fist,
et, quant li ombres se desfit:
«Veez, – fet il, – dame, or l’a pris.
Mout en est amendez mes pris,
quant ce qui de vous est l’en porte.
Quar n’eüst il ore huis ne porte
la jus! Si s’en vendroit par ci,

224
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

por dire la seue merci


de l’onor que fete m’en a».
(vv. 895-907)

[«A voi, – dice, – mia dolce amica! / Poiché la mia signora non lo vuole, / lo pren-
derete voi, senza contrasto». / L’acqua s’è un poco turbata, / al cadervi l’anello; e
quando / l’immagine riflessa si dissolve: / «Vedete, mia signora! Ecco, lo tiene. / il
mio pregio è di molto rialzato: / ciò che da voi procede l’ha con sé. / Ah, ci fosse un
uscio o una porta, / laggiù! Essa verrebbe di qua / a ricevere le grazie che merita / per
l’onore che m’ha tributato».]

L’osservazione puntigliosa e vivace del costume aristocratico, nelle sue con- Eleganza e ironia
venzioni, nei suoi rituali, del milieu che conosce così bene e a cui, almeno
idealmente, si sente di appartenere, rischia continuamente di risolversi in un
fatuo autoidoleggiamento, ma Jean Renant è sempre capace di prendere le di-
stanze, con l’artificiosità stessa delle sue stilizzazioni, «con un atteggiamen-
to ambiguo, impassibilmente ironico, a un tempo simpatizzante e caustico»
(Limentani, Jean Renart dal romanzo anti-idillico all’anti-romanzo, p. 172).
Senza smettere, affascinato, di ascoltare, di partecipare, di raccontare il gaio
splendore del suo mondo cortese: «Einsi se joent et envoisent; / de biauz
moz le souper aoisent / de chevalerie e d’amors» (Guillaume de Dole, vv.
1255-1257) [Così si rallegrano e si divertono, / infiorando la cena di bei motti
/ di cavalleria e d’amore].
Se l’elegante e arguta scrittura di Jean Renart spicca per originalità sulla scena
romanzesca della prima metà del xiii secolo, il suo prezioso sincretismo, il suo
sperimentalismo sono anche un sintomo della crisi del romanzo in versi, alla
laboriosa ricerca di un suo rinnovamento. Rinnovamento tanto più necessa-
rio, nel corso del secolo, quanto più all’interno del sistema dei generi cresce
il successo della prosa romanzesca, del Lancebot en prose, del Tristan en prose.
I romanzieri attingono abilmente e copiosamente – coltivando la mescolan- La moda arcaizzante
za dei registri che abbiamo già visto in opera in Gautier d’Arras, nel Guil-
laume d’Angleterre – al folklore e all’agiografia: in Guillaume de Palerne il
protagonista è allevato da un lupo mannaro, l’Âtre périlleux è ambientato in
un cimitero popolato di fantasmi, Amadas et Ydoine mette in scena il motivo
della Bella addormentata. Si moltiplicano, sul filo di una banalizzazione con-
sumistica non sempre evitata, colpi di scena, incesti, travestimenti. Nella Ma-
nekine (1230-1240 ca.) di Philippe de Beaumanoir la protagonista accumula
bravamente peripezie e sventure, calandosi in pieno nel ruolo della «fanciul-
la perseguitata», che celebrerà il suo ultimo beffando trionfo nella Justine
di Sade. In Floris et Lyriopé (1250-1270 ca.) di Robert de Blois, il giovane
innamorato prende le vesti della sorella, a lui somigliantissima, per avvicinare
e sedurre la figlia del re. Nel Roman de Silence (xiii sec., seconda metà), di
Heldris de Cornouailles, l’eroina, per ragioni dinastiche, viene allevata come

225
La letteratura francese medievale

un uomo, e la vediamo vagare per il mondo travestita da cavaliere, in situazio-


ni avventurose e piccanti ad un tempo.
Riprese e La moda del ricorso a tratti arcaizzanti e mitici si accompagna con le più
continuazioni letterarie sperimentazioni, con le più spericolate contaminazioni di generi.
In un gioco intertestuale serrato il romanzo ora si riallaccia alla vicenda del
Graal, lasciata aperta da Chrétien de Troyes, con le varie Continuazioni – si
veda più avanti il capitolo sul romanzo in prosa – ora riprende la figura di un
poeta lirico realmente esistito, il trouvère Gui de Coucy, per farne una storia
d’amore malinconica e tragica, punteggiata di sguardi furtivi, di sospiri, di la-
crime, culminante nella vendetta del marito e nel motivo del «cuore mangia-
to» (Le chastelain de Coucy, 1270 ca., di un certo Jakemes), o mette in scena
le avventure di un disinvolto libertino che assomiglia straordinariamente al
conte-trovatore Guglielmo ix (Joufroi de Poitiers, 1250 ca.).
Raoul de Houdenc Il notevolissimo Meraugis de Portlesguez (1200-1220 ca.), di Raoul de Hou-
denc, prende le mosse, letteralmente, da un jeu parti, da uno di quei dibat-
titi di casuistica amorosa tanto frequenti nella lirica. Gorvain e Meraugis,
attratti dalla bella Lidoine, aprono davanti a tutta la corte un’accesa disputa
sull’essenza del suo fascino. Il contrasto si sviluppa in due momenti specular-
mente opposti, secondo le strette regole di una scolastica cortese. Nel primo
momento Gorvain sostiene la pars affinmativa, ribadendo il valore assoluto
della bellezza fisica – «s’ele ert deable par dedenz / ou guivre ou fantosme
ou serpenz, / por la beauté qui est defors / doit toz li monz amer son cors»
(vv. 537-540) [se anche dentro è un diavolo / o vipera o fantasma o serpente,
/ per la bellezza esterna / tutti devono amarla] – mentre Meraugis sostiene
la pars negativa, riconoscendo alla bellezza solo un ruolo subordinato. Nel
secondo momento a Meraugis, pars affirmativa, che afferma la superiorità
dei pregi spirituali, si contrappone Gorvain, pars negativa, che rifiuta un
tale riconoscimento. Al contrasto verbale segue uno scontro armato, sospe-
so solamente dall’arrivo di Lidoine, che si appella al giudizio della corte di
re Artù. Si discute a lungo, e il siniscalco Keu propone, senza successo, di
risolvere il caso concedendo alternativamente Lidoine un mese ciascuno a
Gorvain e a Meraugis...
I romanzi di Galvano Uno dei filoni romanzeschi più ricchi e sorprendenti è quello che vede in sce-
na Galvano. Se l’avventura del Graal invade la prosa,, molti romanzi in versi
– come Le chevalier à l’épée, La mule sans frein, L’âtre périlleux, Meraugis de
Portlesguez, La vengeance de Raguidel, Hunbaut, Les merveilles de Rigomer –
affidano le loro fortune al «sole della cavalleria».
Le chevalier à l’épée Nel breve, ma gustoso e paradossale, Le chevalier à l’épée (1210 ca.) Galvano,
smarritosi nella foresta, prende alloggio, nonostante venga invitato ripetu-
tamente a tornare indietro, in un misterioso castello. Qui il signore, dopo
avergli offerto una splendida cena, lo obbliga a giacere con la figlia e solo per
miracolo Galvano, messo in guardia da lei, si sottrae alla spada incantata che
pende sul letto e che ha ucciso tutti i precedenti cavalieri:

226
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

Gauvains remest tot esperdu


si a son talant tot perdu,
lez li se jut tot esbahi.
«Sire», fet el, «por Dieu merci,
vos quidïez que jou deïsse
por ce que de vos me vousisse
desfendre por tel achoison.
Onques certes se a vos non
a chevalier ne lou conté,
et sachiez que grant mervelle é
que vos n’iestes sanz nul resort
trestot au premerain cop mort.
Por Dieu or vos gisiez en pes
et si vos gardez desormés
de tochier a moi en tel guise.
Uns sages hom a tost enprise
tel chose qui a mal li torne.»
Gauvains remest pensis et morne,
qu’il ne set conment se contiegne.
(vv. 605-623)

[Galvano restò lì tutto perso / senza più un filo di desiderio, / vicino a lei, sbalordito.
/ «Signore», lei dice, «per Dio, / voi pensavate che parlassi così / perché volevo
difendermi / da voi con una scusa. / Per certo, solo a voi l’ho detto, / a nessun altro
cavaliere, / e sappiate che mi meraviglio / che non siate rimasto ucciso / senza scam-
po al primo colpo. / Per Dio, ora state tranquillo / e guardatevi ormai / dal venirmi
troppo vicino. / Anche il più saggio si mette / in impresa che gira male.» / Galvano
restò pensoso e triste, / e non sa proprio cosa fare.]

All’alba il castellano, trovando vivo l’ospite, riconosce che è i migliore cava- La Damigella
liere del mondo – solo per questo è scampato all’incantesimo – e gli concede e i levrieri
la figlia, lasciando che si amino in pace senza la minaccia della spada. Qual-
che tempo dopo, sulla via del ritorno verso la corte di re Artù, la damigella
sceglie improvvisamente di abbandonare Galvano per un cavaliere scono-
sciuto. Il cavaliere, non contento della donna – ottenuta attraverso un jeu
parti tra lui e Galvano, che consentiva a lei libertà di scelta – pretende a forza
anche i due levrieri che l’accompagnano, anche se questi in un secondo jeu
parti hanno scelto di restare con Galvano, e viene ucciso in duello dal nostro
eroe. Galvano, indifferente ai lamenti e al pentimento della donna, che con-
fessa di aver voluto solo seguire il più forte – «Se je fui fole et esbahie, / no
me devez a mal torner; / que je n’osoie o vos aler, / tel paor oi quant je vos vi
/ si povrement d’armes garni, / et cil ert armez si tres bien / qu’il ne li falloit
nule rien» (vv. 1158-1164) [Se sono stata folle e sventata / non dovete farmela

227
La letteratura francese medievale

pagare: / non ho osato andare con voi / per la paura che mi prese / quando
vi vidi con così povere armi, / e quello armato di tutto punto / dalla testa ai
piedi] – l’abbandona nella foresta e si allontana, con i due levrieri rimastigli
fedeli, verso la corte di re Artù, dove racconterà la strana avventura.
Vengeance Raguidel Nella Vengeance Raguidel – 1200-1220 ca., firmata da un Raoul che per di-
versi critici non sarebbe altri che Raoul de Houdenc – Galvano è alle prese,
oltre che con la bella Ydain, che per un po’ si accompagna a lui e poi improv-
visamente, ricalcando la storia del Chevalier à l’épée e il suo scioglimento,
gli preferisce un cavaliere di passaggio, con una bellissima e perversa Dark
Lady, la Dama di Gaut Destroit, che, da lui respinta in passato, ha fatto pri-
gioniero suo fratello e attende solo il momento opportuno per vendicarsi del
traditore. Ed è proprio a Galvano, in incognito, che descrive lungamente e
con compiacimento il complicato e micidiale marchingegno destinato allo
scopo, una sorta di ghigliottina, permettendogli così di venire a conoscenza
dei suoi piani e di darsi alla fuga.
L’âtre perilleux L’âtre perilleux (1250 ca.) è costruito essenzialmente sul tema della falsa mor-
te di Galvano, che agisce quindi in tutto il romanzo quasi come un’ombra,
alla ricerca del suo corpo e del suo nome – «A tant se part des chevaliers /
Gavains et va querre son non / entre lui et son conpaignon» (vv. 4866-4868)
[Allora si separa dai cavalieri / Galvano e va a cercare il suo nome / insieme
al suo compagno]. «Or me restuet dire conment / cil qui aloit por son non
querre / en aventure par la terre / puet traire a chief de son afaire» (vv. 4894-
4897) [Ora devo raccontarvi come / quello che andava, cercando il suo no-
me, / in avventura per il mondo / può venire a capo dell’impresa] – e sulle
magnifiche scene, tenebrose e spettrali, del cimitero (l’âtre, appunto), degne
di un «romanzo gotico». Le peregrinazioni e le imprese di «quello senza
nome» – l’equivoco è dovuto a un errore di persona: è stato ucciso un cava-
liere che portava uno scudo uguale a quello di Galvano – sono accompagnate
per tutto il romanzo da una sorta di «culto» di Galvano, di Galvano creduto
morto, con connotati di indubbia comicità: un braccio, ritenuto suo, viene
trattato come la reliquia di un santo. Ma, con un duello finale, Galvano ri-
mette le cose a posto, e si riappropria del nome. Anzi, tutto ritorna a posto, e
il cavaliere ucciso ritorna in vita: si trattava solo di un incantesimo. E quando
re Artù chiede un’esemplare punizione per l’«omicida» e mago Orguellous
Faé, Galvano intercede per lui. Segue una grande festa di corte.
Dispersione Tutti questi romanzi di Galvano sono caratterizzati da un’accentuata disper-
narrativa sione narrativa, dall’allentarsi della catena delle avventure, dal venir meno,
strutturalmente, della crisi e della ripresa, così importanti per i romanzi di
Chrétien de Troyes, dal dominio di una fatalità spesso tortuosa e beffarda. Il
ricorso al jeu parti, così frequente, è insieme segno di raffinato intellettuali-
smo e di perversione del codice cortese (Wolfzettel, Arthurian adventure, p.
265). Se, soprattutto nelle numerose e palesi riprese e variazioni di situazio-
ni narrative rese famose da Chrétien de Troyes, si può cogliere una vena di

228
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

«disillusione non senza amarezza» (Adler, Sur quelques emprunts, p. 88), un


movimento di abbassamento cinico, misogino, addirittura lugubre, dei valori
della cortesia, colpisce anche l’analisi non idealistica dell’intreccio amore-
potere – vistosissima in Le chevalier à l’épée – l’attenzione ai dati materiali,
corporei, dell’esistenza, uno spirito burlesco non distruttivo ma complice,
alla ricerca della simpatia del lettore.
In questi romanzi la figura di Galvano continua per molti versi l’aplomb Un grande Dandy
fatuo e superficiale – ma cos’è la superficie? – l’aura da grande Dandy che
il personaggio aveva già in Chrétien de Troyes. E tale e quale lo ritrovere-
mo sul suolo inglese, ai tempi di Chaucer, nel magnifico Sir Gawain e il
cavaliere verde. Le sue strane avventure, mosse da una curiosità senza fine,
da un’indolente e tenace audacia, così piene di spirito e di grazia, spesso
di una comicità sottilmente metafisica, sono una guida incomparabile, e
che si segue con piacere, nelle aporie e nei mirabili paradossi del mondo
cavalleresco.

Bibliografia

Per Chrétien de Troyes l’edizione a cui si fa di solito riferimento è quella stabilita a


partire dal ms. del copista Guiot (bn fr. 794) e pubblicata nei cfma: Erec et Enide, a
cura di m. roques, 1952; Cligès, a cura di a. micha, 1957; Le chevalier de la charrete,
a cura di m. roques, 1958; Le chevalier au lion, a cura di m. roques, 1960; Le conte
du Graal, a cura di f. lecoy, 2 voll., 1973-1975. Resta fondamentale l’ed. di impianto
lachmanniano condotta da w. foerster e pubblicata a Halle da Niemeyer: t. i,
1884 (Cligès); t. ii, 1887 (Yvain); t. iii, 1890 (Erec et Enide); t. iv, 1899 (Lancelot e
Guillaume d’Angleterre); t. v, 1932 (Le conte du Graal, a cura di a. hilka), seguita da
diverse edd. minori rivedute e corrette e stampata anastaticamente ad Amsterdam,
Rodopi, 1965. Per il Chevalier de la charrette si veda anche l’ed. di k. uitti e a.
foulet (Classiques Garnier), Paris, Bordas,1989; per il Conte du Graal quelle di w.
roach (tlf), Genève, Droz, 1959, e di k. busby, Tübingen, Niemeyer, 1993. Molto
utile l’ed. con traduzione in francese moderno a fronte (LGoth): Erec et Enide, a
cura di j.m. fritz, 1992; Cligès, a cura di c. méla, 1994; Le chevalier de la charrette,
a cura di c. méla, 1992; Le chevalier au lion, a cura di d.f. hult, 1992; Le conte du
Graal, a cura di c. méla, 1990; nel 1994 sono stati ristampati in un volume unico
nella collana «La Pochothèque», Livre de Poche. Per le edizioni gf-Flammarion,
con testo e trad., Lancelot ou le Chevalier de la Charrette, a cura di J.-C. Aubailly,
1991; Yvain ou le Chevalier au Lion, a cura di m. rousse, 1990; Perceval ou le Conte
du graal, a cura di j. dufournet, 1997. Nella collana «Champion Classiques», con
testo e trad., Cligès, a cura di l. harf-lancner, 2006; Le Chevalier de la Charrette,
a cura di c. croizy-naquet, 2006; Guillaume d’Angleterre, a cura di c. ferlam-
pin-acher, 2007. Importante, per il testo, per la traduzione, per le introduzioni e le
note, il magnifico volume delle Œuvres complètes pubblicato, a cura di d. poirion
(con la collaborazione di a. berthelot, p.f. dembowski, s. lefèvre, k.d. uitti,

229
La letteratura francese medievale

p. walter) nella «Pléiade», Paris, Gallimard, 1994. In italiano: Romanzi, a cura


di c. pellegrini, Firenze, Sansoni, 1962 (con le traduzioni di s. pellegrini, g.
favati, m. boni, r. de cesare, c. pellegrini); I romanzi cortesi, a cura di g.
agrati e m.l. magini (Oscar Classici), 5 voll., Milano, Mondadori, 1983; La storia
del Graal, a cura di m. liborio, in Il Graal, a cura di M. Liborio. Saggio introdut-
tivo di f. zambon («I Meridiani»), Milano, Mondadori, 2005, pp. 5-248. Con il
testo a fronte: Erec e Enide, a cura di c. noacco, Introd. di f. zambon (BMed),
Milano-Trento, Luni, 1999; Cligès, a cura di s. bianchini (BMed), Roma, Carocci,
2012; Il cavaliere della carretta (Lancillotto), a cura di p. beltrami («Gli Orsatti»),
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004; Il cavaliere del leone, a cura di f. gambino
(«Gli Orsatti»), Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2011.
Per la critica, sono ormai dei classici j. frappier, Chrétien de Troyes, Paris, Hatier,
1957, monografia di grande intelligenza e sensibilità, e e. köhler, L’avventura ca-
valleresca (1956), Bologna, il Mulino, 1985, con un’audace analisi che coinvolge sia
l’ideologia cortese che le strutture del racconto. Tra i saggi d’insieme più importan-
ti, oltre alle opere già indicate per il romanzo arturiano: p. haidu, Aesthetic Distance
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1968; m. liborio, «Qui petit semme petit quelt». L’itinerario poetico di Chrétien
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di teste alla corte di re Artù: il motivo della decapitazione nei romanzi francesi in versi
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Moyen Age (1969), in Amour courtois et Table Ronde, Genève, Droz, 1973, pp. 225-64
(tradotto in Il romanzo, a cura di meneghetti, cit., pp. 347-87). Il giudizio di G.
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Genève, Droz, 1976, pp. 63-73; a. fourrier, Le courant réaliste dans le roman
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231
La letteratura francese medievale

de Troyes: un romanzo in omaggio? in «Critica del testo», v, 2002, pp. 447-70; l.


lazzerini, Per l’interpretazione del «Cligès», in Studi di filologia romanza offerti
a V. Bertolucci Pizzorusso, Pisa, Pacini, 2006, vol. ii, pp. 845-64. Il giudizio di d.
poirion è in Il meraviglioso nella letteratura francese del Medioevo (1982), Torino,
Einaudi, 1988, p. 69.

Sul Chevalier de la charrete: a. fassò, Le due prospettive nel «Chevalier de la char-


rete» (1972-1973), poi in Il sogno del cavaliere, cit., pp. 19-49; p.g. beltrami, Rac-
conto mitico e linguaggio lirico: per l’interpretazione del «Chevalier de la charrete»,
in «Studi mediolatini e volgari», 30, 1984, pp. 5-67; d.f. hult, Lancelot’s Shame, in
«Romance Philology», 42, 1988-89, pp. 30-50; p.g. beltrami, Lancelot entre Lan-
zelet et Eneas: remarques sur le sens du «Chevalier de la charrete», in «Zeitschrift
für französische Sprache und Literatur», 99, 1989, pp. 234-60; E. baumgartner,
Chrétien de Troyes. Yvain, Lancelot, la charrette et le lion, Paris, puf, 1992; m.l. me-
neghetti, Quando il personaggio sfugge all’autore: il caso di Lancillotto, in Los ca-
minos del personaje en la narrativa medieval, a cura di P. Lorenzo Gradín, Firenze,
Edizioni del Galluzzo, 2006, pp. 3-17. Molto particolare la lettura di h. zimmer,
Lancillotto, in Il re e il cadavere (1948), Milano, Adelphi, 1983, pp. 151-203. Sull’espe-
rienza sciamanica: m. eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi (1951), Roma,
Edizioni Mediterranee, 1974, e Initiations, rites, sociétés secrètes (1959), Paris, Galli-
mard, 1976, pp. 133-282. Per il pons subtilis: eliade, Lo sciamanismo, cit., pp. 422-5
e 512-516; i.p. couliano, Esperienze dell’estasi. Dall’Ellenismo al Medioevo (1984),
Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 145-53; a. bausani, Persia religiosa, Milano, Il Saggia-
tore, 1959, pp. 69-70; Il libro della Scala di Maometto, a cura di c. saccone, trad. di
R. Rossi Testa, Milano, se, 1991, p. 116 e, con il testo latino, Le Livre de l’Échelle de
Mahomet (LGoth), Paris, Livre de Poche, 1991, p. 310.

Sul Chevalier au lion: j. frappier, Études sur «Yvain ou le Chevalier au Lion»


de Chrétien de Troyes, Paris, sedes, 1969; p. haidu, Lion queue-coupée. L’écart
symbolique chez Chrétien de Troyes, Genève, Droz, 1972; j. le goff (con p. vidal-
naquet), Abbozzo di analisi di un romanzo cortese (1979), in Il meraviglioso e il
quotidiano nell’Occidente medievale, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 103-43; t. hunt,
Chrétien de Troyes, Yvain, London, Grant & Cutler, 1986; a. fassò, La lotta per la
regina: Yvain contro Artù (1986), in Il sogno del cavaliere, cit., pp. 115-37; e. vance,
Chrétien’s «Yvain» and the Ideologies of Change and Exchange, in Mervelous Signals,
Lincoln and London, University of Nebraska Press, 1986, pp. 111-51; Chrétien de Tro-
yes, Le «Chevalier au Lion». Approches d’un chef-d’œuvre, a cura di j. dufournet,
Paris, Champion, 1988; r. dragonetti, Le Vent de l’aventure dans «Yvain», in
«Moyen Age», 96, 1990, pp. 435-62; baumgartner, Chrétien de Troyes. Yvain,
Lancelot, cit.; a. barbieri, Lo specchio liquido e il passaggio paradossale: l’avventura
della sorgente meravigliosa nell’ «Yvain» di Chrétien de Troyes, in «AnticoModer-
no», iv, 1999, pp. 193-216; m. mancini, «Yvain»: Chrétien de Troyes e il sacerdote
di Nemi, in «Studi mediolatini e volgari», xlviii, 2002, pp. 143-56. Per il motivo

232
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

del «sacerdote di Nemi»: h. zimmer, Il Cavaliere dal Leone, in Il re e il cadavere,


cit., pp. 116-51, alle pp. 124 ss.; w.a. nitze, The Fountain Defended, in «Modern
Philology», 7, 1909, pp. 145-64; j.g. frazer, Il ramo d’oro, Torino, Boringhieri,
1973, vol. I, pp. 6 ss.

Sul Conte du Graal: haidu, Aesthetic Distance, cit.; j. frappier, Chrétien de Troyes
et le mythe du Graal, Paris, sedes, 1972, la raccolta di saggi Autour di Graal, Genève,
Droz, 1977 e la sintesi in grlma iv/1, pp. 332-54; d. poirion, L’ombre mythique
de Perceval dans le «Conte di Graal», in «Cahiers de Civilisation Médiévale», 16,
1973, pp. 191-8; a. pioletti, Forme del racconto arturiano. «Peredur», «Penceval»,
«Bel Inconnu», «Carduino», Napoli, Liguori, 1984; méla, La Reine et le Graal,
cit.; d. poirion, Résurgences. Mythe et littérature à l’âge du symbole (xii siècle), Paris,
puf, 1986, pp. 189-215; f. dubost, Le «Conte du Graal» ou l’art de faire signe, Paris,
Champion, 1998; e. baumgartner, Chrétien de Troyes. Le «Conte du Graal», Pa-
ris, puf, 1999; b.n. sargent-baur, La Destre et la Senestre. Étude sur le «Conte
du Graal» de Chrétien de Troyes, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 2000; c. donà, Il
«Conte du Graal» o il romanzo doppio, in Il romanzo nel Medioevo, «qfr – Qua-
derni di Filologia romanza», 18, 2004-2005, pp. 9-37. Sul «mondo immaginale»:
h. corbin, L’immagine del Tempio, Torino, Boringhieri, 1983, pp. 70-8.

Sulla morfologia dei romanzi, sulla dialettica autore-personaggi, sullo stile, molto in-
novativi r. warning, Formen narrativer Identitätskonstitution im höfischen Roman,
in GRLMA IV/1, pp. 25-59; k. stierle, Die Verwilderung des Romans als Ursprung
seiner Möglichkeit, in Literatur in der Gesellschaft des Spätsmittelalters, a cura di H.U.
Gumbrecht (Begleitreihe zum grlma), Heidelberg, Winter, 1980, pp. 253-313; c. se-
gre, Quello che Bachtin non ha detto. Le origini medievali del romanzo, in Teatro e ro-
manzo, Torino, Einaudi, 1984, pp. 61-84 (ripreso in Il romanzo, a cura di meneghet-
ti, cit., pp. 125-45). Suggestivi esempi di analisi tematiche: g. chandès, Recherches
sur l’imagerie des eaux dans l’œuvre de Chrétien de Troyes, in «Cahiers de Civilisation
Médiévale», 19, 1976, pp. 151-64; a. pioletti, La condanna del lavoro. Gli «ordines»
nei romanzi di Chrétien de Troyes, in «Le forme e la storia», 1, 1980, pp. 71-110; d.
maddox, The Awakening: A Key Motif in Chrétien’s Romances, in R.T. Pickens (ed.),
The Sower and his Seed. Essays on Chrétien de Troyes, Lexington, French Forum, 1983,
pp. 31-51; e. vilella morató, Individuo e doppio nel «roman» medievale: Chrétien
de Troyes, in Lirica drammatica, narrativa. Quaderni di Filologia romanza della Fa-
coltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, n. 11, Bologna, Pàtron, 1994, pp.
7-30; a. barbieri, Ferire, gioire, patire: i lemmi della violenza nei romanzi di Chrétien
de Troyes, in Parole e temi del romanzo medievale, a cura di P.A. Fuksas, Roma, Viella,
2007, pp. 101-37; id., Combattere al guado: realtà storica e radici antropologiche di un
motivo letterario, in «L’immagine riflessa», n.s., xviii, 2009, pp. 23-55.

Sulle «altre vie del romanzo» nel xii e xiii secolo si può partire dall’acuto e pa-
radossale a. adler, Höfische Romane neben und nach Chrétien de Troyes: Bilder

233
La letteratura francese medievale

und sinngebende Gegenbilder, in grlma iv/1, pp. 104-22. Inoltre: fournier, Le


courant réaliste dans le roman courtois, cit.; b. schmolke-hasselmann, Der artu-
rische Versroman von Chrestien bis Froissart, Tübingen, Niemeyer, 1980; The Legacy
of Chrétien de Troyes, a cura di n.j. lacy, d. kelly e k. busby, 2 voll., Amsterdam,
Rodopi, 1987-88; f. wolfzettel, Le Conte en palimpseste. Studien zur Funktion
von Märchen und Mythos im französischen Mittelalter, Wiesbaden, Steiner, 2005.
Un’ampia e utile antologia è La légende arthurienne, a cura di d. régnier-bohler,
Paris, Laffont, 1989, che comprende in traduzione, integralmente o per episodi scel-
ti, diversi romanzi arturiani del xii-xiii secolo. Per il Partonopeus de Blois si veda
l’ed. di j. gildea, 2 voll., Villanova (Penn.), The University Press, 1968-70, e l’ed.
bilingue di o. collet e p.-m. joris (LGoth), Paris, Le Livre de Poche, 2005.; per
Renaud de Beaujeu, Le Bel Inconnu, l’ed. bilingue di m. perret e i. weil, «Cham-
pion Classiques», 2003; per Fouke Fitz Warin l’ed. l. brandin (cfma), Paris,
Champion, 1930; per Renaut, Galeran de Bretagne, l’ed. bilingue di j. dufournet,
«Champion Classiques», 2009; per Robert le Diable, l’ed. bilingue di é. gaucher,
«Champion Classiques», 2006; per Jakemes, Le Roman du châtelain de Coucy et
de la Dame de Fayel, l’ed. bilingue di c. gaullier-bougassas, «Champion Clas-
siques», 2008. In italiano, con il testo a fronte: Chrétien [de Troyes], Guglielmo
d’Inghilterra, a cura di g.c. belletti, Parma, Pratiche, 1991; Renaut de Beaujeu,
Il bel cavaliere sconosciuto [Le Bel Inconnu], a cura di a. pioletti, Parma, Pratiche,
1992 (BMed) (ora Roma, Carocci); Jakemes, Il romanzo del Castellano di Coucy e
della Dama di Fayel, a cura di a.m. babbi, Parma, Pratiche, 1994 (BMed) (ora Ro-
ma, Carocci).
Su Gautien d’Arras (per l’Eracle si veda l’ed. di g. raynaud de lage (cfma), Pa-
ris, Champion, 1976, per Ille et Galeron l’ed. y. lefèvre (cfma), Paris, Champion,
1988): l. renzi, Tradizione cortese e realismo in Gautier d’Arras, Padova, cedam,
1964; p. zumthor, L’écriture et la voix. Le roman d’Eracle, in L. Arrathoon (ed.),
The Craft of Fiction, Rochester (mi), Solaris Press, 1984, pp. 161-209; f. wolfzet-
tel, La recherche de l’universel. Pour une nouvelle lecture des romans de Gautien
d’Arras, in «Cahiers de Civilisation Médiévale», 33, 1990, pp. 113-31, e La découverte
de la Femme dans les romans de Gautier d’Arras, in «Bien dire et bien aprandre», 8,
1990, pp. 35-54.
Sul Bel inconnu, oltre alla bella Introduzione di a. pioletti: p. haidu, Realism,
Convention, Fictionality and the Theory of Genres in «Le Bel Inconnu», in «L’Esprit
Créateur», 12, 1972, pp. 37-60; m.l. meneghetti, Duplicazione e specularità nel
romanzo arturiano (dal «Bel Inconnu» al «Lancelot-Graal»), in Mittelalterstudien:
Erich Köhler zum Gedenken, a cura di H. Krauss e D. Rieger, Heidelberg, Winter,
1984, pp. 206-17; p. walter, Le «Bel Inconnu» de Renaut de Beaujeu. Rite, mythe
et roman, Paris, puf, 1996; a. barbieri, Volti della femminilità orrifica: la donna-
serpente e il motivo del Fiero Bacio, in Melusine, a cura di A.M. Babbi, Verona, Fiori-
ni, 2009, pp. 75-105. Su Floire et Blancheflor: a. pioletti, La fatica d’amore. Sulla
ricezione del «Floire te Blancheflor», Soveria Mannelli, Rubbettino, 1992. Sul Gui
de Warewic (ed. di a. ewert (cfma), 2 voll., Paris, Champion, 1933): f. wolfzet-

234
4. Chrétien de Troyes e il romanzo

tel, Cavalleria esemplare o cavalleria problematica? Il caso del «Gui de Warewic»,


in «L’immagine rifiessa», 12, 1989, pp. 91-107; sui «romans-lignagiers» anglo-nor-
manni: c. gaullier-bougassas, La tentation de l’Orient dans le roman médiéval,
Paris, Champion, 2003, pp. 165-211.
I romanzi di Jean Renant: L’Escoufle, ed. f. sweetser (tlf), Genève, Droz, 1974;
Le Roman de la Rose ou de Guillaume de Dole, ed. F. Lecoy (cfma), Paris, Cham-
pion, 1962, e l’ed. bilingue di j. dufournet, «Champion Classiques», 2008. Per il
Lai de l’ombre si veda L’immagine riflessa, a cura di a. limentani, Parma, Pratiche,
1994 (BMed) (ora Roma, Carocci). Critica: m. zink, Roman rose et rose rouge: le
Roman de la Rose ou de Guillaume de Dole de Jean Renart, Paris, Nizet, 1979 (il
saggio di g. paris, Le cycle de la gageure è in «Romania», 32, 1903, pp. 481-551); d.
poirion, Fonction de l’imaginaire dans «L’Escoufle», in Mélanges C. Foulon, Ren-
nes, Institut de Français, 1979, t. i, pp. 287-93; a. limentani, Effetti di speculanità
nella narrativa medievale, in «Romanistische Zeitschrift für Literaturgeschichte»,
4, 1980, pp. 307-21, e Jean Renart dal romanzo idillico all’anti-romanzo, in Mittelal-
terstudien: Erich Köhler zum Gedenken, cit. pp. 166-78.

Sul Meraugis de Portlesguez e Raoul de Houdenc (ed. m. friedwagner, Halle,


Niemeyer, 1897; ed. bilingue di m. szkilnik, «Champion Clasiques», 2004): g.
peron, Il dibattito sull’amore dopo Andrea Cappellano: «Meraugis de Portlesgiez» e
«Galeran de Bretagne», in «Cultura neolatina», 40, 1980, pp. 79-102; m. fernán-
dez vuelta, Reflexiones en torno a la «obra completa» de Raoul de Houdenc: el
estilo constructivo y la cuestión de la autoría, in «Cultura neolatina», 54, 1994, pp.
65-94. Per il Roman de Silence: Heldris di Cornovaglia, Il romanzo di Silence, a cura
di a. airò, con testo a fronte (BMed), Roma, Carocci, 2005.
Alcuni romanzi di cui è protagonista Galvano: Le Chevalier à l’épée e La Mule sans
frein, ed. r.c. johnston e d.d.r. owen, Edimburgh-London, Scottish Academic
Press, 1972, con il titolo Two Old French Gauvain Romances; L’âtre périlleux, ed.
b. woledge (cfma), Paris, Champion, 1936; Hunbaut, ed. m. winters, Leiden,
Brill, 1984; La Vengeance Raguidel, ed. m. friedwagner, Halle, Niemeyer, 1909.
Critica: a. adler, Sur quelques emprunts de l’auteur de «La Vengeance Raguidel»
à Chrétien de Troyes, in «Romanistisches Jahrbuch», 11, 1960, pp. 81-8; k. busby,
Gauvain in Old French Litenature, Amsterdam, Rodopi, 1980; schmolke-has-
selmann, Der arturische Versroman, cit., pp. 86-115; f. wolfzettel, Arthurian
Adventure or Quixotic «Struggle for Life»? A Reading of some Gauvain Romances in
the First Half of the Thirteenth Century, in An Arthurian Tapestry. Essays in Memory
of L. Thorpe, Glasgow, University of Glasgow, 1981, pp. 260-74; v. cirlot, La estéti-
ca postclásica en los «romans» artúricos en verso del siglo xiii, in Studia in honorem
prof. M. de Riquer, Barcelona, Quaderns Crema, 1991, t. iv, pp. 381-400; p. serra,
Ambiguità e duplicità semantica nel «Chevalier à l’épée», in «La parola del testo»,
xi, 2007, pp. 367-93; m. mancini, «La mule sans frein»: folklore e racconto, in Le
vie del racconto, a cura di A. Barbieri, P. Mura, G. Panno, Padova, Unipress, 2008,
pp. 49-71.

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