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Centro internazionale studi

sulle avanguardie e sulla modernità

Saggi
Collana diretta da Fabio Scotto
Direttore
Fabio Scotto (Università degli Studi di Bergamo)

Comitato editoriale
Elena Agazzi (Università degli Studi di Bergamo), Luca Bani (Università degli
Studi di Bergamo), Margherita Bernard (Università degli Studi di Bergamo),
Marina Bianchi (Università degli Studi di Bergamo), Juan Manuel Bonet (Instituto
Cervantes de París), Raul Calzoni (Università degli Studi di Bergamo), Michel
Collot (Université Sorbonne Nouvelle Paris 3), Franco Contorbia (Università
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Comitato dei referee


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Nouvelle Paris 3), Gloria Pastorino (Fairleigh Dickinson University), Dominique
Rabaté (Université Denis Diderot Paris 7 - Institut Universitaire de France),
Erhard Schütz (Humboldt-Universität zu Berlin), Ivan Verc (Università degli
Studi di Trieste e Università di Lubiana).
Luca Bani – Yannick Gouchan

LA FIGURA DEL FANCIULLO


NELL’OPERA DI D’ANNUNZIO, DI PASCOLI
E DEI CREPUSCOLARI

www.monduzzieditore.it/cisalpino
Volume realizzato con il contributo del Dipartimento di Lettere, Filosofia e Co-
municazione dell’Università degli Studi di Bergamo e del CAER - Centre Aixois
d’Études Romanes, EA 854, dell’Université Aix-Marseille

Il primo e il secondo capitolo sono di Luca Bani, il terzo e il quarto di Yannick Gouchan.
L’Introduzione e la Conclusione sono di entrambi gli autori.

In copertina: Gaetano Previati, Pianticella, 1901, pastello su tela (collezione privata).

Impaginazione: Graforam
www.graforam.com

ISBN 978-88-205-1081-7

Copyright © 2015 – Monduzzi Editoriale S.r.l.

Cisalpino - Istituto Editoriale Universitario


Via B. Eustachi, 12 – 20129 Milano
Tel. 02/20404031
cisalpino@monduzzieditore.it

Finito di stampare nel mese di dicembre 2015


da Global Print, Gorgonzola (MI)
INDICE

Introduzione ..................................................................................................... 7

Primo capitolo
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo .... 11
1.1 Tra mondo classico e modernità: dal fanciullo che non c’è
alla scoperta dell’infanzia ................................................................... 11
1.2 Il fanciullo ottocentesco ...................................................................... 20
1.3 Alcuni esiti primo novecenteschi: Freud, James, Th. Mann .... 39

Secondo capitolo
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia ................................ 45
2.1 Incipit ........................................................................................................ 45
2.2 La narrativa ............................................................................................. 49
2.2.1 Da Terra vergine alle Novelle della Pescara .............................. 49
2.2.2 Il Trionfo della morte ..................................................................... 65
2.2.3 La morte del fanciullo borghese .................................................. 77
2.3 La lirica...................................................................................................... 83
2.3.1 La fanciullezza panica delle prime raccolte .............................. 83
2.3.2 L’evocazione della fanciullezza e il ritorno alle origini:
il Poema paradisiaco ..................................................................... 90
2.3.3 Maia e i prodromi del fanciullo alcyonio ................................... 103
2.3.4 L’Etruria come nuova Ellade: la ricostruzione del mito
nello spazio della Toscana ............................................................ 107

5
Indice

Terzo capitolo
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli ......................................................... 125
3.1 Il fanciullo pascoliano tra poetica e poesia .................................... 127
3.1.1 I postulati del Fanciullino ............................................................ 127
3.1.2 Il significato del punto di vista infantile per il poeta ................ 130
3.2 Il fanciullo di fronte alla morte .......................................................... 139
3.2.1 L’infanzia tra disgrazia e angelismo ............................................. 139
3.2.2 Il punto di vista infantile sulla morte .......................................... 146
3.2.3 L’aquilone e l’idealizzazione dell’infanzia .................................. 154
3.3 Due motivi nell’evocazione del fanciullo pascoliano .................. 157
3.3.1 Famiglia e ornitologia .................................................................... 157
3.3.2 Incompiutezza e botanica .............................................................. 163
3.4 Il messaggio del poeta educatore ...................................................... 172
3.4.1 I fanciulli e la dimensione etica .................................................. 172
3.4.2 Pascoli e gli alunni-lettori ............................................................ 185

Quarto capitolo
La condizione crepuscolare del fanciullo .................................................. 195
4.1 Dal “fanciullo poeta” al “poeta fanciullo” ..................................... 198
4.1.1 Forme liriche della desublimazione ............................................ 198
4.1.2 Chi sono? – Il poeta e il fanciullo ................................................ 201
4.2 Fanciulli e fanciulle nella poesia dei crepuscolari ..................... 209
4.2.1 Tristezza, malinconia, pianto ........................................................ 212
4.2.2 Malattia e convalescenza .............................................................. 216
4.2.3 Fragilità e biancore ........................................................................ 220
4.2.4 La morte .......................................................................................... 225
4.2.5 Angelismo e innocenza ................................................................. 230
4.3 Alla ricerca dell’infanzia ..................................................................... 235
4.3.1 L’infanzia come repertorio di immagini e rifugio ....................... 236
4.3.2 Il cronotopo della casa d’infanzia ................................................ 245
4.3.3 La scuola e la madre ...................................................................... 250
4.3.4 L’infanzia necessaria ...................................................................... 263

Conclusione ....................................................................................................... 273

Indice dei nomi ................................................................................................ 277

6
INTRODUZIONE

Il mondo dell’infanzia e della fanciullezza è una scoperta ottocentesca,


sia dal punto di vista psicologico-antropologico-sociale sia per quanto
riguarda la sua tematizzazione letteraria. Il presente volume intende ri-
percorrere brevemente le vicende di queste fortuna, dalla classicità al
secolo XIX, per poi addentrarsi nelle particolari articolazioni che della
figura del fanciullo vengono date da d’Annunzio, da Pascoli e dai poeti
crepuscolari, con l’intenzione di studiare l’evocazione, la costruzione
e il significato di questo piccolo “altro da sé” in un periodo importante
della storia della letteratura italiana perché fondativo, per analogia o
contrapposizione, delle strutture, dei temi e delle modalità che la ca-
ratterizzeranno nel Novecento. Una ricerca sulla lirica, dunque, ma
non solo. Imprescindibili saranno anche i riferimenti al Fanciullino
o ad altri testi pascoliani destinati alle scuole e non rare saranno le
riflessioni stimolate, ad esempio, dalle prose gozzaniane; mentre per
d’Annunzio, ampio spazio verrà dato alla sua produzione narrativa, no-
vellistica o romanzesca, anch’essa densa di presenze infantili e strut-
turalmente legata all’esperienza lirica.
Come si è già accennato, il fanciullo letterario può essere il prodotto di
un’analisi sociale tipica dell’attenzione ottocentesca verso questo sog-
getto,1 oppure un personaggio di finzione, una figura mitica e/o simbo-

Cfr. Marie-José Chombart de Lauwe, Un monde autre. L’enfance de ses représentations


1

à son mythe, Paris, Payot, 1971, poi Un monde autre. L’enfance, Paris, Payot, 1979,

7
Introduzione

lica, una proiezione che l’artista dà di sé. Queste ultime declinazioni


saranno tutte indagate negli autori indicati, non dimenticando però la
prima accezione, perché le due tipologie, quella sociale e quella ideale,
si possono confondere nella letteratura tra i due secoli e la loro compre-
senza può costituire un problema.
Come verrà man mano chiarito nei diversi capitoli, una prima questione
da dirimere sarà quella terminologica, tesa a definire l’ambito semantico
dei differenti lemmi usati dagli scrittori per identificare il soggetto tema-
tizzato. Poiché ancora digiuni della tassonomia creata negli anni Trenta
da Jean Piaget,2 i nostri autori tendono non di rado a utilizzare sinonimi-
camente sostantivi come “infante”, “fanciullo”, “bambino”, “ragazzo” e
“adolescente”, non distinguendo con precisione le fascie d’età proprie di
queste definizioni e creando di conseguenza grossi problemi di “identi-
ficazione” delle figure trattate. Generativa di questa confusione è proba-
bilmente l’ambiguità che già risiede nella lingua latina tra infans e puer:
«[…] infans non indica il bambino che non ha ancora imparato a parlare,
ma l’individuo ancora inetto all’eloquio completo; di conseguenza infans
e puer iniziarono a specializzarsi prendendo a discrimine l’età scolare,
e passarono a designare semplicemente i bambini che ancora non anda-
vano a scuola e quelli che invece ci andavano».3 Il fanciullo/a del quale
si occuperanno i prossimi capitoli è quell’individuo che si pone tra il
neonato/infante/lattante e la fase puberale, e dunque incluso tra i due/tre
e i dodici/tredici anni d’età, e verrà preso in esame cercando di determi-
narne i dati psicologici e fisiologici, gli aspetti emblematici e simbolici,
le implicazioni metaforiche.
L’Ottocento, si diceva, è il secolo dell’infanzia, anticipato in ciò da un
XVIII secolo che, anche solo per la sua vocazione scientista e razionale,
comincia a interessarsi a questi esseri misteriosi e irrazionali che sembra-

trad. it. I segreti dell’infanzia e la società nella letteratura, nelle comunicazioni di


massa, nella ricerca teorica, Armando, Roma, 1974, p. 218.
2
Cfr. Jean Piaget, La naissance de l’intelligence chez l’enfant, Neuchatel-Paris, De-
lachaux & Niestle, 1936.
3
Paolo Zanotti, Infanzia, in Dizionario dei temi letterari, a cura di Remo Ceserani -
Mario Domenichelli - Pino Fasano, Torino, Utet, 2007, 3 voll., vol. II, pp. 1158-1165,
1158-1159.

8
Introduzione

no essere i bambini. Nel corso dell’Ottocento nasce un culto dell’infanzia,


inseparabile dall’ideologia borghese, che travalica la necessità di accudire
i piccoli4 per salvaguardare la prosperità della propria classe, perché ar-
riva a mitizzare questa categoria sociale come un’entità esemplificativa di
una condizione di perfezione oramai lontana e perduta. Soprattutto verso la
fine del secolo, favorito dalla temperie decadente, il concetto di fanciullez-
za vedrà enfatizzata la propria dimensione archetipale e si consoliderà così
la figura del poeta ut puer che, già postulata da Giambattista Vico («Il più
sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione,
ed è propietà de’ fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastul-
landosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità
filologico-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per
natura, furono sublimi poeti»5) e poi rafforzata, all’inizio del secolo, dalle
riflessioni sulle «arti fanciulle» di Leopardi contenute nello Zibaldone, si
amplificherà in Pascoli e nei crepuscolari e avrà particolari declinazioni in
d’Annunzio.6 Da ciò è derivata la necessità di riunire nelle analisi e nelle
riflessioni del presente volume i due grandi poeti e la comunità crepusco-
lare: una triade che sottopone l’immagine del fanciullo elaborata dalla cul-
tura e dalla letteratura ottocentesche – romantiche prima, simbolistico-de-
cadenti poi – a una profonda e personalissima revisione, per prepararla
alle modulazioni che di questa immagine verranno date nel Novecento.
Obiettivo di questo studio, infine, è sia inserirsi in un filone di indagine
letteraria già consolidato tanto in Italia quanto all’estero, sia andare a
coprire un territorio ancora non sufficientemente esplorato dalla critica.
Con questa prospettiva, si cercherà di fare un bilancio di quanto già
scritto e, al contempo, di dare un nuovo impulso a ulteriori ricerche.

4
Cfr. Franco Cambi - Simonetta Ulivieri, Storia dell’infanzia nell’età liberale, Scandic-
ci, La Nuova Italia, 1988, p. 15.
5
Giambattista Vico, La scienza nuova, introduzione e note di Paolo Rossi, Milano, Fab-
bri, 2005, 2 voll., vol. I, Libro primo, Dello stabilimento de’ principi, II, Degli elemen-
ti, XXXVII, p. 172.
6
Edoardo Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1967, p. 90.

9
Primo capitolo

IL TEMA DEL FANCIULLO IN LETTERATURA


DALLA CLASSICITÀ AL XIX SECOLO

Cum essem parvulus


loquebar ut parvulus,
sapiebam ut parvulus,
cogitabam ut parvulus.
(1 Cor., XIII,11)

1.1 Tra mondo classico e modernità: dal fanciullo


che non c’è alla scoperta dell’infanzia

Nelle letterature classiche, come in quelle medievali,1 il tema dell’in-


fanzia non ha un ruolo di primo piano; o meglio, la cultura occidentale
dell’antichità e dell’età di mezzo è ricca di figure e di fanciulli che, tutta-
via, al lettore contemporaneo non sembrano tali perché lontane dall’idea
moderna di questa età. Per quanto riguarda la classicità, esistono perlo-
più immagini di bambini usate a fini retorici, come nell’Iliade, dove la
visione del fanciullo che gioca sulla riva del mare nel libro quindicesimo
serve ad enfatizzare metaforicamente l’opera distruttrice di Apollo con-
tro gli Achei («[…] come un bambino la sabbia sulla riva del mare, / che
dopo aver ricostruito i suoi giochi infantili, / di nuovo coi piedi e le mani

Per tutte le indicazioni presenti in questo primo paragrafo si rimanda a Paolo Zanot-
1

ti, Infanzia, in Dizionario dei temi letterari, a cura di Remo Ceserani - Mario Dome-
nichelli - Pino Fasano, Torino, Utet, 2007, 3 voll., vol. II, pp. 1158-1165.

11
Primo capitolo

rovescia tutto giocando»2), o come nel lungo passo dedicato ad Astianatte


che chiude il libro ventiduesimo e ha la funzione di amplificare la rovina
che cadrà su tutti i Troiani dopo la morte di Ettore.3 Questa sostanziale
mancanza di interesse verso l’infanzia nelle due epoche citate è dovuta
al fatto che non le si dà importanza in quanto tale, ma, eventualmente,
come fase preliminare all’età adulta, nella quale, tuttavia, la personalità
fisica, mentale e morale dell’individuo risulta ancora incompleta e tanto
imperfetta da avvicinarsi maggiormente al mondo naturale piuttosto che
a quello degli esseri umani. È questa, ad esempio, la tesi di Aristotele,
che così si esprime:

Alcuni animali differiscono rispetto all’uomo per una differenza secondo il


più e il meno, come pur l’uomo rispetto a molti animali (in parte tali caratteri
sono più propri dell’uomo, in parte invece degli altri animali), mentre al-
tri differiscono secondo l’analogia: così scienza, sapere, intelligenza stanno
all’uomo, come questa o quella facoltà naturale dello stesso genere stanno a
vari animali. Ciò risulta chiarissimo dall’osservazione dell’età infantile. Nei
bambini infatti è dato scorgere come delle tracce e dei germi di quelli che
diventeranno in futuro i tratti del loro carattere, benché la loro anima in que-
sto periodo si può dire non differisca affatto da quella delle bestie: dunque
non v’è nulla di assurdo se i caratteri psichici degli altri animali sono ora
identici ora prossimi ora analoghi a quelli dell’uomo.4

Diverso può risultare il discorso quando ad essere illustrata è l’infanzia


delle creature superiori, siano esse divinità, semidivinità o eroi, alle qua-
li viene sicuramente concesso uno spazio narrativo più ampio laddove un
autore decida di soffermarvisi, ma in questo caso le figure tratteggiate
poco hanno a che fare con la rappresentazione della realtà infantile e si

2
Omero, Iliade, prefazione di Fausto Codino, versione di Rosa Calzecchi Onesti, Tori-
no, Einaudi, 1963, XV, vv. 362-365.
3
Cfr. ivi, XXII, vv. 499-515. Ma si vedano anche i vv. 369-414 e 466-502 del libro VI,
nei quali, parimenti, la vicenda di Astianatte diventa paradigma di quella del suo po-
polo perché disegna la parabola di un fanciullo che dalla felicità della sua condizione
regale scivola irrevocabilmente nella tragedia della morte precoce e ingiusta.
4
Aristotele, Ricerche sugli animali, in Id., Opere biologiche, a cura di Diego Danza e
Mario Vegetti, Utet, Torino, 1971, p. 588 a-b.

12
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

trasformano invece o nel segno premonitore della grandezza futura dei


personaggi di cui si narra, o nei topoi del puer aeternus e del puer senex,
ossia una «figura di bambino fuori dal tempo, del piccolo che insieme è
tanto astuto, saggio, abile da identificarsi con una persona molto matu-
ra».5 Tanti sono gli esempi di queste particolari declinazioni della figura
infantile nella classicità: dagli inni omerici dedicati a Ermes6 e Pan (VI
secolo circa a.C.) all’infanzia di Dioniso raccontata nei primi dodici li-
bri delle Dionisiache di Nonno di Panopoli (V secolo d.C.); dall’infanzia
di Mose in Esodo 2, 1-10 a quella di Romolo e Remo narrata da Tito
Livio nelle sue Historiae (27 a.C. - 14 d.C.); dall’immagine del giovane
Ascanio raccontata nell’Eneide sino all’indefinito puer rigeneratore del
mondo e dell’umanità preannunziato dalla quarta egloga delle Bucoliche
di Virgilio; mentre per quanto riguarda il contesto medievale,7 e venen-

5
Egle Becchi, I bambini nella storia, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 40.
6
In quest’inno in particolare si trova probabilmente la figura meglio delineata del puer
senex: «Nel piccolo dio che scappa, ruba, dice bugie, suona, parla, si esprime, in
forma poetica, uno dei paradossi relativi alla primissima infanzia: quella dell’essere
tanto altro da non poter quasi venir concepito se non in termini affatto problematici,
e tanto più problematici quanto più tale essere è di natura divina. Nel caso di Ermes,
il bambino è appena nato e già si comporta come un vecchio, salvo tornare indietro
nel tempo e riprendere forma e mente di piccolissimo. Tra i due estremi del senex e
del neonato – termini aporetici della vita umana – l’essere divino è capace di istituire
connessioni reversibili, di realizzare – soprattutto con la parola – ciò che al piccolis-
simo è naturalmente impossibile. Ma quanto riesce al dio è forse anche un’ipotesi di
disambiguazione della natura infantile e un augurio per il suo divenire», in ibid.
7
Per la storia dell’infanzia dal Medioevo sino al Seicento e a parte del Settecento,
soprattutto per quanta riguarda la sua educazione e il suo ruolo all’interno della fami-
glia, si rimanda a Philippe Ariès, L’enfant et la vie familiale sous l’ancien régime, Pa-
ris, Plon, 1960 (1ª ed. it. 1968; ed. di riferimento: Padri e figli nell’Europa medievale e
moderna, Roma-Bari, Laterza, 1976, 2 voll.). A proposito dell’infanzia nel Medioevo,
a p. 145 del primo volume Ariès afferma: «Nella società medievale, che assumiamo
come punto di partenza, il sentimento dell’infanzia non esisteva; il che non significa
che i bambini fossero trascurati, abbandonati o disprezzati. Il sentimento dell’infan-
zia non si identifica con l’affezione per l’infanzia: corrisponde alla coscienza delle
particolari caratteristiche infantili, caratteristiche che essenzialmente distinguono il
bambino dall’adulto, anche giovane. Questa coscienza non esisteva. Perciò, appena
il bambino poteva vivere senza le cure costanti della madre, della nutrice o della
bambinaia, apparteneva alla società degli adulti e non si distingueva più da essa. […]
La lingua non dava alla parola bambino il senso ristretto che ormai le attribuiamo:
si diceva bambino come oggi si dice correttamente ragazzo». Non interessano e non

13
Primo capitolo

do quindi all’infanzia dell’eroe-cavaliere, il riferimento più opportuno è


certamente il Parzival di Wolfram von Eschenbach (1200-1216 circa),
la cui prima parte è riservata all’infanzia del protagonista eponimo del
poema. Le letterature classiche e quelle medioevali risultano quindi ac-
cumunate da un’identica visione dell’infanzia, perché entrambe vedono
in essa

[…] uno stato intermedio: intermedio tra l’umano e il naturale (quando non
il cosmico), tra la vita e la morte, tra l’imperfezione e una perfezione precoce
quando non divina. Le immagini del puer aeternus e del puer senex riappari-
ranno continuamente nella letteratura dei secoli successivi, e in particolare
nel periodo romantico.8

Particolare risulta anche il caso della letteratura cristiana antica e me-


dioevale, nella quale si può assistere alla convergenza dei filoni già
rintracciati nelle letterature classiche, perché alla figura esemplare del
Cristo infante, bambino e fanciullo descritta nei vangeli di Marco e Mat-
teo o in alcuni testi apocrifi come lo Pseudo Matteo9 – tutte opere che si

si darà conto in questa sede delle critiche suscitate dallo studio di Ariès negli anni
Settanta e Ottanta, tanto più che la prospettiva generale con la quale questo studioso
affrontava il tema dell’infanzia nei secoli considerati e la sua convinzione che le cose
cambiassero radicalmente nell’Ottocento, con l’avvento della borghesia, sono consi-
derate tuttora valide, come sostiene Dieter Richter: «Sembra quindi che il quadro
della storia dell’infanzia tracciato da Ariès necessiti di diversi punti di correzione e
di integrazioni. Non si può tuttavia non concordare con Ariès quando si considerino le
linee generali delle sue ricerche: il crescente significato della condizione infantile dal
punto di vista sociale e culturale nel processo storico dell’età moderna. Soprattutto
resta importante il suo approccio metodologico: la questione della storicità della cate-
goria infanzia», in Dieter Richter, Das fremde Kind. Zur Entstehung der Kindheitsbil-
der des bürgerlichen Zeitalters, Frankfurt am Main, Fischer, 1987 (trad. it. Il bambino
estraneo. La nascita dell’immagine dell’infanzia nel mondo borghese, Scandicci (Fi),
La Nuova Italia, 1992, p. 8).
8
Zanotti, Infanzia, p. 1159.
9
In quest’ultimo, «[…] gli episodi riportati narrano di un Gesù bambino intento in
giochi, ma anche terribile e punitivo con compagni e adulti che interrompono i suoi
passatempi», in Becchi, I bambini nella storia, p. 274. Per il testo del Vangelo cfr.
Vangelo Pseudo Matteo, in Nascita e infanzia di Gesù nei più antichi codici cristiani, a
cura di Luigi Moraldi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 114-126.

14
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

pongono in una linea di continuità rispetto a quella classica della nar-


razione dell’infanzia della divinità e che daranno il via a un filone tema-
tico-iconografico di grande fortuna – si contrappone un’immagine della
prima età come condizione di assoluta immaturità, è il caso della Prima
lettera ai Corinzi di Paolo, e identificazione di un essere prematuramente
orientato alla colpa, come si riscontra nel primo libro delle Confessioni
del santo di Ippona. In queste ultime il fanciullo-Agostino viene descrit-
to come disobbediente ai genitori e ai maestri e perciò disobbediente
a Dio, anche perché peccaminosamente stimolato dall’insorgere di cu-
riosità sessuali sulle quali, diversi secoli dopo, si sarebbe concentrato
Sigmund Freud:

E tuttavia peccavo, o Dio mio Signore, ordinatore e creatore di tutte le cose na-
turali, dei peccati, invece, soltanto ordinatore: o Dio mio Signore, io peccavo,
operando contro i precetti de’ miei genitori e quelli dei miei maestri. Avrei,
infatti, potuto far buon uso, in seguito, delle lettere, che quelle persone che mi
stavano intorno volevano ch’io apprendessi, qualunque fosse la loro intenzio-
ne. Invece io disobbedivo, né già perché scegliessi il meglio, ma per amore del
gioco, perché amavo riportare superbe vittorie nelle gare e farmi grattare da
false storielle le orecchie, così da sentirmele maggiormente pizzicare.10

È importante notare, tuttavia, come sempre nella tradizione cristiana,


e in particolare nei testi evangelici, vengano messe in evidenza anche
alcune caratteristiche che sembrano contraddire le prospettive paolina
ed agostiniana, perché a differenza di queste inquadrano l’infanzia in
una categoria di innocenza paradigmatica di una condizione di perfe-
zione alla quale il seguace di Cristo deve ambire per poter incontrare
la grazia di Dio. Dalla strage degli innocenti (Matteo, 2,1-16), segno di
un’infanzia vittima della violenza cieca di un mondo adulto ubbidiente a
logiche disumane e perverse, sino al «Lasciate che i bambini vengano a
me, perché di questi è il regno dei cieli» (Matteo, 19,14), quello dell’in-
fanzia è uno status privilegiato a causa della purezza intrinseca che lo
contraddistingue.

10
Agostino da Ippona, Le confessioni, Torino, SEI, 1958, p. 25.

15
Primo capitolo

Ancora diverso è il caso della tradizione utopica, nella quale un’infanzia


sottoposta a una cura e un’educazione adeguate diventa simbolica pre-
messa alla società perfetta che si vorrebbe costruire e quindi metafora
di un’umanità tanto migliore quanto cresciuta nella prospettiva di un
armonico sviluppo di mente e corpo. Su questa linea, partendo da Pla-
tone, si muoveranno nei secoli diversi autori, da Senofonte (Ciropedia,
IV secolo a.C.) a Filarete (Trattato di architettura, 1464), da Campanella
(Città del sole, 1623) a Charles Fourier (Nuovo mondo industriale e socie-
tario, 1845), passando per la parodia dell’utopia, come nella narrazione
dell’infanzia di Gargantua nel Gargantua e Pantagruele di François Ra-
belais (1532-64), per arrivare, infine, al rovesciamento del paradigma
nelle distopie più recenti, come quella descritta da William Golding nel
romanzo Il signore delle mosche del 1957.
Dell’importanza che le Confessioni agostiniane rivestono per la tradizio-
ne cristiana si è già detto, ma quest’opera ha un particolare valore anche
perché inaugura del tutto inconsapevolmente un genere particolare, os-
sia quello dei ricordi d’infanzia, che però conoscerà una graduale fortuna
solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo,11 ossia da quando,

11
In effetti, alla diffusione del genere autobiografico a partire dal tardo Medioevo – con
opere che vanno dal Petrarca del Secretum (composto tra il 1347 al 1353) sino alla
Vita scritta da lui medesimo di Gabriello Chiabrera (dopo il 1625), passando per il
De propria vita liber di Gerolamo Cardano (1575-1576) – non corrisponde una più
attenta tematizzazione dell’infanzia. Nella Vita di Benvenuto Cellini (1558-1566),
testo esemplare del genere autobiografico in età moderna, la narrazione dei primi
anni dell’autore è pensata più come storia della famiglia (e ricostruzione della linea di
ascendenza) che come recupero delle memorie e delle esperienze infantili. Tra queste
ultime, quelle che vengono effettivamente proposte al lettore lo sono solo brevemente
e con una funzione strumentale finalizzata unicamente a giustificare la futura gran-
dezza dell’artista. Poco più di due secoli dopo, i Mémoires goldoniani (1784-1786,
pubblicati l’anno successivo) dedicheranno ai primi tredici anni di vita dell’illustre
commediografo solo dieci paginette, perché ciò che preme all’autore è ricostruire
la storia di tutte le sue opere e «[…] arrivare quanto prima a parlare della mia cara
Parigi che mi ha accolto benissimo, mi ha offerto i migliori divertimenti e mi ha dato
un’utile occupazione» (Carlo Goldoni, Memorie, a cura di Paolo Bosisio, Milano,
Mondadori, 1993, p. 23). Addirittura più rapida è la trattazione dell’infanzia e della
fanciullezza nella Vita di Pietro Giannone (1736-1737), con i primi sedici anni di
vita frettolosamente liquidati nel brevissimo primo capitolo (cfr. Pietro Giannone,
La vita di Pietro Giannone, a cura di Sergio Bertelli, Torino, Einaudi, 1977, 2 voll.,

16
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

con Jean-Jacques Rousseau, «l’infanzia diventa una sorta di religione,


un Eden sostitutivo adatto al mondo borghese, secolarizzato e individua-
lista»12 che ne fa uno dei soggetti preferiti della memorialistica. Secondo
il filosofo ginevrino, questa età dello sviluppo umano ha un ruolo fon-
damentale nel discorso sulla natura umana e sulla convivenza civile, e
riflettere su di essa diventa la condizione necessaria dalla quale partire
per la fondazione di una nuova pedagogia, ma anche per un discorso
più generalmente culturale su tematiche quali il rapporto tra natura e
cultura o la condizione dell’individuo all’interno della società. A partire
dagli Idéologues, s’impone dunque una filosofia dell’uomo nella quale il
bambino ha un ruolo fondamentale, perché grazie a una «lettura teorici-
stica» della sua vita e della sua esperienza si potrà «fondare una nuova
antropologia e dare una spiegazione inedita delle origini del sociale».13
D’altro canto, studi recenti hanno ipotizzato che la crescente attenzione
verso l’infanzia che caratterizza il secolo XVIII sia in realtà dovuta a
una distanza sempre più profonda tra il mondo dei bambini e quello de-
gli adulti provocata dalla maggiore civilizzazione di quest’ultimo e dallo
sviluppo di nuove forme di socializzazione che poi diventeranno tipiche
della realtà industriale e borghese dell’Ottocento. In sostanza, è come se
una società sempre più orientata a un razionalismo e a un’esclusione di
qualsiasi forma di emozione o di istinto che l’allontanano sistematica-
mente dalla propria dimensione naturale, relegasse questo suo lato a una

vol. I, pp. 5-7), e, ma qui si è già nel secolo successivo, nelle Memorie di Lorenzo
Da Ponte (1823-1827), al quale basta una paginetta e mezza per arrivare ai quat-
tordici anni (cfr. Lorenzo Da Ponte, Memorie, Milano, BUR, 1960, pp. 11-12). Una
felice, anche se parziale eccezione la si può trovare nell’autobiografia (1789-1792)
di Giacomo Casanova, che al periodo che va dagli otto anni – «[…] inizio della mia
esistenza di essere pensante» (Giacomo Casanova, Storia della mia vita, introduzione
di Piero Chiara, a cura di Piero Chiara e Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 3a
ed., 1992, 3 voll., vol. I, p. 21) – ai quattordici dedica ampio spazio. Soprattutto sul
quadriennio 1734-38, Casanova si sofferma a lungo per dimostrare la precocità della
sua vocazione galante e per narrare quindi il suo primo amore, quello per Bettina, la
cui vicenda occupa tutto il secondo e il terzo capitolo dell’Histoire.
12
Zanotti, Infanzia, p. 1160.
13
Egle Becchi, L’Ottocento, in Storia dell’infanzia, a cura di Egle Becchi e Dominique
Julia, Roma-Bari, Laterza, 1996, 2 voll., vol. II, Dal Settecento a oggi, pp. 132-206,
133.

17
Primo capitolo

classe di esseri considerati e studiati invece per la loro piena adesione a


questi elementi comportamentali, avvicinandosi con ciò a quella catego-
ria di “selvaggio” così tipicamente settecentesca:

La storia dell’infanzia e il processo di civilizzazione hanno un’evoluzione


parallela. Sotto molti aspetti si muove in parallelo anche la storia dei con-
tatti tra l’Europa e i paesi d’oltremare. In un modo analogo a quello in cui
ha origine l’etnografia, come riflesso del contatto con culture straniere, ex-
traeuropee, con la “selvaticità” e “inciviltà” degli indigeni, così nascono
le immagini dell’infanzia della società borghese, come conseguenza di una
“esperienza etnologica nella propria nazione”. Commisurati agli standard
di comportamento degli adulti (“formati”), i bambini appaiono sempre più
come incivili, piccoli selvaggi, nella duplice accezione del termine. “Selvag-
gio” sta a indicare: non istruito e rozzo. Sempre più separato dall’adulto (da-
gli strati sociali medi e superiori) nel processo di civilizzazione, il bambino
appare come essere umano non ancora ultimato.14

È sicuramente la Francia il paese dove per prima e con maggior soli-


dità si sviluppa questa nuova tendenza, che si consoliderà ben presto
in un vero e proprio genere letterario e arriverà a lambire il Novecento,
inserendosi perfettamente, ad esempio, nel grande affresco della Recher-
che proustiana con il primo dei sette libri che compongono l’opera, Du
côté de chez Swann (1913). Sull’esperienza francese e sul suo particolare
significato da Rousseau ad autori di metà Ottocento come Gérard de
Nerval o George Sand pagine importanti ha scritto Francesco Orlando,15
per il quale la strada aperta dallo scrittore ginevrino, presto assunto a
modello esemplare per tutta la memorialistica o l’autobiografia che con
sempre maggiore ampiezza si concentrano sulla prima età,16 si carica di
valenze ulteriori a partire dalla Rivoluzione del 1789 e per tutto il ses-
santennio successivo, perché al tema dell’infanzia si aggiunge la tenden-
za al recupero dell’Ancien Régime come idealizzazione di una presunta

14
Richter, Il bambino estraneo, p. 17.
15
Cfr. Francesco Orlando, Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai romantici, Pado-
va, Liviana, 1966.
16
Cfr. ivi, p. 4.

18
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

età dell’oro, come rimpianto per un’era perduta e come sublimazione


di una “fanciullezza” della storia e della società che l’imbarbarimen-
to rivoluzionario ha distrutto per sempre.17 All’origine del cambiamento
di prospettiva verso l’infanzia sta quindi Rousseau: le sue Confessions,
pubblicate postume tra il 1782 e il 1789, imposero il tema nella me-
morialistica perché nel primo e in parte nel secondo dei dodici libri
che ne compongono l’autobiografia l’autore si sofferma lungamente e con
estremo piacere sui suoi primi anni, narrandone gli episodi più signifi-
cativi e funzionali allo sviluppo della sua personalità ed elevando quin-
di definitivamente questa età a fase determinante nella ricostruzione di
qualunque biografia. D’altro canto, il ruolo centrale che l’infanzia ha in
quest’opera non è che una conferma dell’importanza che l’autore gine-
vrino conferiva a questo tema, perché ad esso aveva dedicato non solo
un importante romanzo pedagogico, L’Émile (1762) – incentrato sui po-
stulati della naturale bontà originaria, in senso biologico, e primitiva, in
senso storico, dell’essere umano, della corruzione con la quale la società
corrompe questa bontà e della necessità di modificare radicalmente l’e-
ducazione per confermare e sviluppare l’indole originale degli individui,
in modo tale che questi possano contribuire positivamente alla creazione
di una società rinnovata –, ma anche numerose pagine del romanzo epi-
stolare Julie ou la Nouvelle Héloïse (1761). Nella cornice della passione
impossibile tra Saint-Preux e Julie e della fedeltà di quest’ultima al ma-
rito Wolmar, fanno la loro comparsa i figli della protagonista e la cugi-
netta Enrichetta che «escono dalla loro nursery […] condividendo per
alcune ore la vita degli adulti, dove apprendono modi di fare, riti della

17
Per i memorialisti del tardo Settecento e della prima metà dell’Ottocento, racconta-
re la propria infanzia diventa allora addentrarsi nel «confronto tra Ancien Régime e
Rivoluzione, Impero, Restaurazione, fra mondo della borghesia in ascesa e vecchie
classi che vanno subendo l’adeguamento delle nuove», ivi, p. 5. In queste prime pa-
gine del suo saggio, Orlando chiarisce bene come la sovrapposizione delle memorie
d’infanzia con la presa di coscienza dei cambiamenti storici e della sempre più veloce
mutabilità della storia coincide con l’età della presa di potere economica e politica
della borghesia e come questa concomitanza si esaurisce proprio nel 1848, quando si
conclude la fase ascensionale di questa classe sociale e la distanza temporale dallo
stacco traumatico della Rivoluzione comincia a non far più sentire la differenza tra la
vita precedente e quella successiva a questo importante evento.

19
Primo capitolo

socialità e dove vengono esposti all’intervento pedagogico parentale, più


organizzato e meditato che non quello delle governanti e dei domestici
[…]»,18 mentre Julie, nella terza lettera della quinta parte del romanzo si
sofferma a lungo e diffusamente sul programma pedagogico con il quale
vuole educare i suoi figli.19
Alla fine del secolo dei Lumi, pochi sono coloro che ancora considera-
no la prima età come una parte poco significativa dell’esistenza umana,
ma tra questi ultimi bisogna segnalare la presenza di Vittorio Alfieri,
che nella sua Vita (1806) poco spazio riserva alla «stupida vegetazione
infantile»,20 concedendosi unicamente di raccontare alcuni episodi che
secondo lui dovrebbero evidenziare «L’indole, che io andava intanto ma-
nifestando in quei primi anni della nascente ragione […]»,21 ma che tut-
tavia non mascherano l’idea dell’Astigiano che «questo primo squarcio
di una vita (che tutta forse è inutilissima da sapersi) riuscirà certamente
inutilissimo per tutti coloro, che stimandosi uomini si vanno scordando
che l’uomo è una continuazione del bambino».22

1.2 Il fanciullo ottocentesco

Tra la fine del Seicento, i Pensieri sull’educazione di John Locke vedono


la luce nel 1693, e il primo Ottocento – e quindi anche in quello scorcio
di tempo che vede la transizione dall’Illuminismo al Romanticismo – si
afferma dunque un indirizzo epistemologico grazie al quale concetti dif-
ferenti espressi da aggettivi come “naturale”, “selvaggio”, “primitivo”,
“ingenuo” vengono spesso connessi al campo semantico dell’infanzia e
il bambino è genericamente considerato sia come una tabula rasa sulla

18
Becchi, I bambini nella storia, p. 108.
19
Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Giulia o la Nuova Eloisa. Lettere di due amanti di una
cittadina ai piedi delle Alpi, introduzione e commento di Elena Pulcini, Milano, BUR,
1992, pp. 579-608.
20
Vittorio Alfieri, Vita, introduzione e note di Giulio Cattaneo, Milano, Garzanti,
1992, p. 9.
21
Ivi, p. 14.
22
Ivi, p. 23.

20
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

quale costruire per rendere il soggetto un cittadino esemplare, un vaso


vuoto da riempire di nozioni pratiche e norme etiche e morali, sia come
la metafora di una condizione di primitiva libertà e felicità, di cui gode-
vano l’umanità ai suoi albori e i popoli antichi. Questa seconda prospet-
tiva diventa uno strumento di polemica contro il presente, come nel caso
di Rousseau, perché:

Alla riduzione dell’esperienza a mera tecnica scientifica, operata dai Lumi,


l’io rispondeva evocando brandelli senza volto di un passato in cui l’indivi-
duo è felicemente dominato dal mondo che in seguito dovrà dominare e la
nascente coscienza riflette soprattutto la massa preponderante e benevola
dell’essere circostante.23

Questo dato può quindi costituire la premessa necessaria per l’oggettiva


constatazione che la civiltà moderna non consente più alcun contatto con
la natura.
Ecco allora spiegato il senso delle parole con le quali Friedrich Schiller apre
il suo saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale (1795), in cui l’infanzia
rimane l’unica dimensione nella quale questo contatto è ancora possibile:

Perché mai noi, che in tutto ciò che è natura siamo superati in così infini-
ta misura dagli antichi, proprio noi possiamo renderle omaggio in misura
superiore, possiamo amarla intimamente, possiamo abbracciare persino il
mondo inanimato con il più caldo sentimento? Questa è la risposta: la natura
è ormai scomparsa dall’umanità, e soltanto fuori di questa, nel mondo inani-
mato, nuovamente possiamo incontrarla nella sua verità. Non la nostra supe-
riore conformità alla natura, ma appunto l’opposizione alla natura dei nostri
rapporti, delle nostre condizioni e dei nostri costumi ci spinge a cercare nel
mondo fisico un appagamento, impossibile nel mondo morale, dell’istinto
verso la verità e la semplicità, istinto che giace incorruttibile e incancella-
bile, come la disposizione morale da cui scaturisce, in tutti i cuori umani.
Per questo il sentimento che ci spinge ad amare la natura è così simile al
sentimento con cui rimpiangiamo la perduta età dell’infanzia e dell’inno-
cenza infantile. Essendo la nostra infanzia la sola natura integra che ancora

23
Giuseppe Scaraffia, Infanzia, Palermo, Sellerio, 1987, p. 11.

21
Primo capitolo

sia possibile incontrare nell’umanità civilizzata, non c’è da stupirsi se ogni


traccia della natura al di fuori di noi ci riconduce alla nostra infanzia.24

Oppure, ecco chiarita l’insistenza con la quale William Wordsworth –


vera miniera di immagini per il fanciullo romantico e immortale, come
nell’ode Intimations of Immortality from Recollections of Early Childho-
od (1807) o, al contrario, morto, come nelle liriche We are seven (1798) e
Lucy Gray (1800) – affianca fanciullezza e natura nel suo Prelude (1799-
1805), nel quale ben due dei quattrodici libri che compongono il poema
sono dedicati alla «Childhood» e allo «School-time», inserendosi così
in una linea inaugurata da Goethe con la Wilhelm Meisters theatralische
Sendung (1777-1785) e con il personaggio di Mignon, fanciulla che se
da un lato incarna una sorta di solitudine e di dolore cosmici, dall’altro
è la voce della poesia pura, della liricità essenziale, solitaria e anarchica
che arricchisce la tradizione dei ragazzi selvaggi settecenteschi. O, in-
fine, ecco giustificata la persistenza nella cultura romantica tedesca di
fine Settecento e di primo Ottocento25 – Jean Paul, Novalis, Heinrich von
Kleist, Friedrich Hölderlin, Clemens Brentano – dell’immagine del Kind
e dell’infanzia come definizione di una condizione di assoluta perfezione
proprio perché vicina alla natura e quindi perché capace di sentire la
realtà nella sua purezza originaria, senza filtri che possano inficiarne la
visione o la percezione. Secondo Egle Becchi:

Bambini reali letti in maniera speculativa, bambini dell’immaginario filoso-


fico descritti in quadri corposi e movimentati, bambini protagonisti di pro-
getti sociali riletti in chiave teorica: l’utopia sociale del primo Ottocento
pensa al bambino sia tentando di metterne in atto l’idea, sia rappresentan-
dolo su scene pittoresche, quasi in paesaggi teatrali. Coeve a queste infanzie

24
Friedrich Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, traduzione di Elio Franzini
e Walter Scotti, Milano, SE, 1986, p. 29. I corsivi sono nel testo.
25
Sull’infanzia nella letteratura tedesca romantica cfr. Hans-Heino Ewers, Kindheit als
poetische Daseinform. Studien zur Entstehung der romantiscen Kindheitsuthopie im 18.
Jahrhundert. Herder, Jean Paul, Novalis und Tieck, München, Fink, 1989 e Donatel-
la Mazza, I virgulti dell’Eden. L’immagine del bambino nella letteratura tedesca del
romanticismo, Firenze, La Nuova Italia, 1995.

22
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

ci sono, nel Romanticismo tedesco, altre figure infantili espresse in testi


dove l’urgenza filosofica si allea alla creazione poetica e dove si cerca di
spiegare l’essenza e il divenire del mondo e della natura dell’uomo esaltando
il bambino. Nelle pagine di poeti e filosofi l’infanzia è pensata quale figura
fondamentale di un universo sovraumano e trascendentale, di cui è segnale.
Essa costituisce modello di un mondo unitario irraggiungibile per l’uomo
e, insieme, è testimonianza dell’archeologia individuale, oggetto peculiare
della personalissima e altrettanto irraggiungibile storia e memoria di ognu-
no di noi: alla prima età si ritorna infatti ricercando le tracce di un’epoca
originaria, favolosa e perduta del proprio esistere. In testi dove è difficile
distinguere il registro speculativo da quello poetico, soprattutto nella Leva-
na di Jean Paul, i bambini sono rappresentati come “piccole e leggere deità
floreali di un Eden ben presto avvizzito” che contengono “celato in loro,
l’uomo ideale”.26

A tutto ciò si aggiungono tantissime altre immagini di fanciulli variamente


declinate, ma tutte ugualmente riassumibili nella categoria dell’ineffabi-
lità: insieme ai già citati bambini morti di Wordsworth, quelli non ancora
nati di William Blake, come la protagonista eponima di The Book of Thel
(1789), metafora della non volontà di vivere in un modo mortale e tormen-
tata da domande senza risposta sulla fine di tutte le cose; oppure quelli im-
materiali di cui scrive Charles Lamb nel suo fantastico Dream Children. A
Reverie (1822-1833); o, infine, Little Father Time, puer senex che compare
in Jude the Obscure (1895) e che Thomas Hardy descrive così:

He was Age masquerading as Juvenility, and doing it so badly that his real
self showed through the crevices. A ground-swell ancient years of night se-
emed now and then to lift the child in this his morning-life, when his face
took a back view over some great Atlantic of Time, and appeared not to care
about what it saw.27

Quello che conta, tuttavia, è che in questo scorcio di anni si assiste a

26
Becchi, L’Ottocento, p. 137. Le citazioni di Jean Paul sono tratte da Jean Paul, Leva-
na, Torino, Utet, 1964, rispettivamente pp. 26 e 21.
27
Thomas Hardy, Jude the Obscure, New York, Airmont, 1966, p. 217.

23
Primo capitolo

un mutamento radicale di sensibilità che da alcuni studiosi è stato letto


e interpretato come uno dei tanti segnali che identificano il momento
di passaggio tra classicità e modernità, tra una concezione ancora miti-
ca dell’esistenza e un’idea di quest’ultima sempre più sottoposta a una
prospettiva scientista di derivazione positivista, tra il mondo dell’Ancien
Régime e quello contraddistinto prima dal dominio della borghesia e poi
dall’irruzione della massa. A questo proposito, sono interessanti le ri-
flessioni che Giuseppe Scaraffia propone nell’introduzione al suo volume
dedicato all’infanzia come tema letterario:

Con l’indebolirsi della tradizione, il mito abbandona progressivamente le ar-


moniche immagini, in cui il passato dell’umanità aveva cristallizzato le proprie
esperienze, per spostarsi sul passato personale dell’individuo, al quale viene
affidato un compito prima assegnato alla somma dei secoli. Così l’infanzia deve
fornire nella sua cifra misteriosa, in quanto data una volta per sempre e come
tale irrimediabilmente persa per l’individuo, un’immagine mitica non più, come
in precedenza, dell’esperibile umanamente e sovrumanamente, ma di quello
che, essendo stato smarrito per sempre, è il pezzo, per eccellenza mancante, del
successivo mosaico d’esperienze. […] Il mito dell’infanzia è quello di una splen-
dida incoscienza, di un essere solidali col mondo sottratto alla temporalità.28

Si arriva, dunque, alla certificazione di una duplice rinuncia: se da un


lato, infatti, si sancisce definitivamente lo scollamento da quella pie-
nezza primitiva tipica degli antichi che garantiva un contatto totale ed
empatico con il mondo – e che in ambito letterario veniva identificato
attraverso il concetto di «poesia ingenua» –, dall’altro questa pienezza
viene ora identificata con una fase della vita umana che, per antonoma-
sia, è destinata a perdersi con l’accrescersi dell’età e con l’incivilimento
al quale ogni individuo è inevitabilmente sottoposto. È la nascita del
culto dell’infanzia,29 romantico e borghese, che ribalta la valenza dell’ag-
gettivo “selvaggio” donandole una nuova pregnanza semantica, intrisa di
nostalgia per un mondo perduto:

28
Scaraffia, Infanzia, p. 11.
29
A questo proposito, il testo di riferimento è sicuramente George Boas, The cult of
Childhood, London, Warburg Institute – University of London, 1966.

24
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

Proprio l’(apparente) status naturale e “selvaggio” del bambino lo prede-


stinava alla proiezione romantica della primordialità, della purezza e della
integrità. “Selvaggio” non significava qui “non formato” (ungebildet), ben-
sì “non ancora deformato” (unverbildet). Se nel movimento pedagogico il
bambino è espressione del non-ancora-uomo, nella concezione romantica
è il simbolo dell’uomo migliore. Il bambino è accomunato anche in tal sor-
ta con il popolo e con gli “indigeni” (il “buon selvaggio”). Il popolo viene
da una parte denigrato in quanto grossolano, ma d’altro canto si individua
in esso un mondo altro, contrapposto al sistema culturale dominante – pa-
rimenti avviene per i bambini e la “loro” poesia (cultura popolare).30

Le idee degli Idéologues e dei romantici tedeschi verranno riprese e


rielaborate per tutto l’Ottocento, ma nella seconda metà del secolo,
grazie ai progressi scientifici e, più in particolare, ad alcuni significa-
tivi miglioramenti nel settore dell’istruzione diffusa e dell’abbattimen-
to della mortalità infantile, si giungerà anche alla determinazione del
fanciullo come essere osservabile, definibile e spiegabile nell’orizzonte
dell’evoluzionismo, per il quale l’infanzia viene collocata in una posi-
zione centrale non solamente delle analisi pedagogiche e psicologiche,
ma anche dei sistemi che offrono una visione nuova, positiva, del mon-
do, dell’uomo e dei saperi che lo riguardano. In questo contesto «[…]
parlare del bambino è ancora una volta difficile e occorre, se non si
vuole, come hanno fatto i filosofi-letterati del primo Ottocento roman-
tico, dirne in forma poetica, osservarlo e descriverlo».31 Un’operazione
del genere è riscontrabile sia nell’Autobiography di Charles Darwin
(postuma, 188732) sia nel suo saggio A biographical sketch of an infant
(1877),33 studio, quest’ultimo, che si inserisce nella linea dei diari dei

30
Richter, Il bambino estraneo, pp. 18-19.
31
Cfr. Becchi, L’Ottocento, p. 139.
32
L’edizione del 1887, curata dal figlio di Darwin, Francis, era tuttavia fortemente mu-
tilata da tutta una serie di interventi arbitrari del curatore che tagliò e censurò nume-
rosi passi. Per un’edizione integrale e fedele allo scritto originale bisognerà rifarsi a
quella curata dalla bisnipote del naturalista, Nora Barlow, nel 1958 per la Collins di
Londra e contraddistinta da un complemento del titolo particolarmente significativo
in questo senso: «With original omissions restored».
33
Le osservazioni fatte da Darwin nello Sketch, relative a suo figlio William Era-

25
Primo capitolo

padri che, appunto, osservano e descrivono i propri figli inaugurata


da Johann Heinrich Pestalozzi, con il suo Tagebuch Pestalozzis über
die Erziehung seines Sohnes. 27. Januar – 19. Februar 1774 (1774), e
proseguita da Niccolò Tommaseo con il Giornale d’una bambina, ste-
so dal 1853 al 1856 contenuto nell’edizione Paravia del 1856 della
raccolta Dell’educazione. Desideri e saggi pratici. A queste opere, e
per segnare l’accrescersi della letteratura specialistica sull’infanzia,
basterà aggiungerne solo alcune altre e ricordare, ad esempio, che nel
1882 viene pubblicata una monografia di William T. Preyer, professore
di fisiologia, intitolata Die Seele des Kindes. Beobachtungen über die
geistige Entwiklung des Menschen in der ersten Lebensjahren, che, nel
solco tracciato da Darwin, parte da osservazioni quotidiane di suo figlio
per poi inserirle in un contesto più ampio di casi, dando così al volume
una maggiore rilevanza statistica e scientifica. A questa monografia ne
seguono altre dello stesso tono e basate sulla stessa metodologia, come
ad esempio Bernard Pérez, L’enfant de trois à sept ans (1886), James
Sully, Studies of Childhood (1895), Karl Groos, Die Spiele der Menschen
(1899) – tutte per altro citate, per prenderne le distanze, da Freud nei
Tre saggi sulla teoria sessuale –, che allargano lo studio della condizio-
ne infantile sino alle soglie dell’adolescenza.34
L’Ottocento è il secolo vero e proprio dell’infanzia e della famiglia35 che,
nella sua accezione borghese, alla dimensione della fanciullezza deve
fare da cornice per proteggerla e per garantirle uno sviluppo consono

smus, offrono allo studio della storia dell’infanzia e della differente considerazione
che questa ha avuto nei secoli «[…] il caso più dettagliato, per la seconda metà
dell’Ottocento, di una cultura particolarmente attenta all’idea di bambino, che lo
concepisce sia nel suo essere trascendentale, ante o post l’uomo adulto, dandogli
espressione perlopiù poetica […], sia – e soprattutto – nella concretezza delle sue
determinazioni individuali, cercando di esprimere con precisione osservativa e at-
tendibilità scientifica le nozioni di prima età che si venivano infittendo nei saperi
filosofici, medici, pedagogici della famiglia e delle istituzioni scolastiche del seco-
lo» (Cfr. Becchi, L’Ottocento, p. 140).
34
Cfr. ivi, pp. 140-141.
35
Per un’analisi esaustiva del rapporto tra infanzia e famiglia in Italia nel XIX secolo
studiato attraverso la sua rappresentazione nella letteratura specificatamente dedica-
ta ai fanciulli cfr. Flavia Bacchetti, I bambini e la famiglia nell’Ottocento. Realtà e
mito attraverso la letteratura per l’infanzia, Firenze, Le Lettere, 1997.

26
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

alle necessità di una società oramai completamente plasmata sulle esi-


genze della classe media.36 È dunque il momento nel quale, perlopiù
sulla scorta d’intuizioni provenienti dal mondo della filosofia e della let-
teratura, si scopre nella figura del fanciullo un portato simbolico che dà
una nuova luce e una nuova rilevanza metaforica alla sua immagine.
Questo processo, che sicuramente esonda da una delineazione puramen-
te psicologico-pedagogica dell’individuo-fanciullo, fa tuttavia da volàno
a un approccio diverso, questa volta squisitamente scientifico e sempre
più sottomesso a una logica sperimentale, alla realtà dell’infanzia come
oggetto meritevole di analisi. Durante tutto l’Ottocento si assiste quin-
di alla nascita di una visione teorica sempre più articolata del mondo
dell’infanzia che condizionerà lo sviluppo delle sue condizioni nei diver-
si paesi europei e, all’interno di questi, nelle differenti realtà che costi-
tuiscono lo specifico tessuto sociale di ciascuno di essi: particolarmente
quella proletaria e quella borghese.

36
A questo proposito, si vedano le considerazioni di Philippe Ariès: «A lungo si è cre-
duto che la famiglia costituisse il fondamento antico della nostra società, e che, a par-
tire dal XVIII secolo, il progresso dell’individualismo liberale l’avesse scompaginata
e indebolita. La sua storia, nel corso dei secoli XIX e XX, sarebbe la storia di una
decadenza: il moltiplicarsi dei divorzi, il cedimento dell’autorità maritale e pater-
na, sarebbero altrettanti segni del suo decadere. Osservando i fenomeni demografici
moderni sono stato tratto a concludere in senso esattamente opposto. Mi è sembrato
[…] che nelle nostre società industriali la famiglia tenesse un posto immenso e che
mai, forse, avesse influito in modo così decisivo sulla condizione umana. L’indeboli-
mento giuridico provava soltanto che il sentimento (e la realtà) seguivano una curva
diversa rispetto a quella dell’istituto», e, poco oltre: «L’esperienza della rivoluzione
demografica moderna ci ha rivelato la parte che ha il bambino in questa tacita storia.
Sappiamo che il sentimento dell’infanzia e quello della famiglia sono in relazione»
(Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, vol. I, pp. 6 e 7) e quelle di
Egle Becchi: «L’Ottocento è l’epoca in cui la famiglia urbana, borghese e proletaria si
definisce in modo più nitido sia sul piano sociale che su quello giuridico; essa si af-
ferma come organizzazione nucleare e in essa si precisa e determina quel processo di
privatizzazione della prole che avrà esiti vistosi nel secolo successivo» (Becchi, L’Ot-
tocento, p. 195). Testimonianze letterarie della condizione dell’infanzia nelle famiglie
borghesi dell’Ottocento, nelle quali un ruolo rilevante ricoprono figure nuove come
quelle della balia o dell’istitutrice, possono trovarsi sia in Anna Karenina (1877) di
Tolstoj, sia ne I Buddenbrook (1901) di Th. Mann, sia, tornando al livello di letteratura
per l’infanzia, nella descrizione postuma della realtà primonovecentesca descritta da
Pamela Lyndon Travers in Mary Poppins (1934).

27
Primo capitolo

Da un punto di vista più squisitamente letterario, l’Ottocento è il seco-


lo nel quale vengono ripresi e rielaborati alcuni concetti già presenti
nell’antichità, come quello di alterità dell’infanzia che, però, non viene
più giustificata attraverso la rappresentazione di fanciulli di origine divi-
na o predestinati ad azioni eroiche, ma che si rivolge invece al soggetto
bambino in quanto tale e quindi all’infanzia come condizione ontologica.
Oltre a ciò:

La visione romantica dell’infanzia andrà oltre nel portare alle estreme con-
seguenze le idee implicite nella rilettura della pedagogia illuminista di
Rousseau: il bambino-tabula rasa diventerà un simbolo dell’inesausto di-
venire, una riserva infinita di virtuali potenzialità di opposizione all’essere
specializzato per eccellenza: il borghese.37

Nel secolo della borghesia, dunque, sono essenzialmente due le linee


di sviluppo della narrativa che tematizza l’infanzia: quella d’ispirazione
borghese, con Charles Dickens, della quale si dirà più avanti, e quel-
la che dell’immagine del bambino vuole fare un campo semantico at-
traverso il quale portare avanti istanze specificatamente antiborghesi
e fondative di particolari concezioni artistiche – si veda il genio come
“ritrovamento” dell’infanzia di cui parla Charles Baudelaire nel suo La
peintre de la vie moderne (1863) – o che comunque descrivono modelli
infantili differenti da quelli postulati dalla pedagogia della classe so-
ciale al potere. Ecco allora l’infanzia perturbante di Das fremde Kind
(1817) di E.T.A. Hoffmann o quella selvaggia, per certi versi esotica,
della già citata piccola Mignon della Theatralische Sendung goethiana
o, se si passa alla letteratura americana, del personaggio di Perl, figlia
della protagonista della Scarlet Letter (1850) di Nathaniel Hawthorne.
Altre articolazioni dell’idea tipicamente romantica dell’infanzia saran-
no quelle che si esprimeranno nella rappresentazione di bambini morti,
non nati, immateriali o incapaci di crescere, anche se per questi ultimi
le rappresentazioni più riuscite si avranno solo a partire dalla seconda
metà del secolo, con il Pinocchio di Carlo Collodi (1880), sino al primo

Zanotti, Infanzia, p. 1161.


37

28
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

Novecento, con il Peter Pan di James Matthew Barrie (1904), segno que-
sto che i modelli tardo settecenteschi o primo ottocenteschi sono desti-
nati, al di là dell’esaurirsi dei movimenti letterari, a perdurare a lungo
nell’immaginario sui fanciulli
Per quanto riguarda la memorialistica, molti scrittori dell’Ottocen-
to continuano il percorso inaugurato da Rousseau, ma al contempo
lo modificano, trasformando lentamente i riferimenti autobiografici
in materiale pienamente narrativo che li trasfigura completamente e
arrivando, in alcuni casi, a oltrepassare la realtà biografica per co-
struirne una completamente inventata. L’infanzia dell’autore, vera o
fittizia che sia, diventa perciò un serbatoio di esperienze dalle quali
attingere e da elaborare letterariamente nella finzione romanzesca,
dall’Infanzia (1852) di Lev Tolstoj alle Confessioni (1867) di Ippolito
Nievo – per le quali forte è il legame con la dimensione storico-esi-
stenziale dell’Ancien Régime –, da Sylvie (1854) di Gérard de Nerval
sino ai già novecenteschi Quaderni di Malte Laurids Brigge (1910) di
Rainer Maria Rilke.
Il vero fondatore della letteratura dell’infanzia, che presto verrà ca-
nonizzato anche come autore per l’infanzia, è però Charles Dickens.
Un’indubbia influenza sulle scelte tematiche dello scrittore di Port-
smouth la ebbero le vicende che ne contrassegnarono la prima età: da
un lato, infatti, Dickens amava sottolineare l’importanza dei primi anni
per la formazione della sua sensibilità, nutrita di voraci letture che sol-
lecitavano la fantasia; dall’altro, la condizione di profonda indigenza
che a partire dal 1823 gravò la sua famiglia, l’incarcerazione del padre
a Marshalsea l’anno successivo e, soprattutto, l’esperienza lavorativa
nella fabbrica di lucido da scarpe segnarono profondamente il giova-
ne Charles, trasformando queste vicende in nuclei esperienziali che
sarebbero poi stati elaborati narrativamente in tanti suoi romanzi. Da
The Adventure of Oliver Twist (1837-1839) a David Copperfield (1849-
50) passando per Nicolas Nickleby (1838-39), e poi Dombey and Son
(1846-48), Little Dorrit (1855-57) fino a Great Expectations (1860-61),
nella maggior parte della narrativa dickensiana la visione dei protago-
nisti o delle protagoniste da fanciulli occupa una parte determinante
della narrazione, perché è proprio a partire da essa che può essere

29
Primo capitolo

determinato il loro carattere e che si può comprendere e inquadrare la


loro esistenza successiva.
Infanzia come prefigurazione del destino dell’adulto, dunque, ma anche
come periodo determinante per la formazione etica e morale dell’indivi-
duo. Partendo da queste premesse si arriva nel campo d’azione di una
particolare declinazione del romanzo borghese che proprio nell’Ottocen-
to ha la sua massima fioritura e che con la prima età degli esseri umani
intrattiene rapporti strettissimi: il Bildungsroman.38 Questo genere, or-
ganicamente legato alla presa di potere economica e politica della bor-
ghesia che proprio nel XIX secolo raggiunge il suo apice, pone particola-
re attenzione all’evoluzione del protagonista verso la maturazione e l’età
adulta e ha come obiettivo dichiarato la promozione della sua armonica
integrazione sociale all’interno dell’ordine borghese. Molteplici sono le
esperienze tedesche: ancora Goethe, ma questa volta con i Lehrjahre, e
poi anche Novalis con l’Heinrich von Ofterdingen (incompiuto, composto
tra il 1798 e il 1802), Gottfried Keller con Der grüne Heinrich (1853-55
prima stesura e 1879-80 seconda stesura), sino a Robert Musil con i suoi
Verwirrungen des Zöglings Törleß del 1906. Ma il romanzo di formazione
avrà ampia diffusione anche nel resto d’Europa, e quindi in Francia,
in Italia e, appunto, in Inghilterra, paese nel quale, forse proprio per il
ruolo di primissimo piano che la borghesia ricopre nello sviluppo di quel
paese, conosce una fioritura particolarissima, le cui origini possono es-
sere fatte risalire già alla metà del Settecento con il picaresco Tom Jones
di Henry Fielding (1749).
Tornando a Dickens, uno dei meriti di questo autore è sicuramente quel-
lo di aver tematizzato l’infanzia non solo per la sua importanza in quanto
età di formazione morale, psicologica e sentimentale dell’individuo, ma
anche come fascia sociale estremamente disagiata e fortemente minac-
ciata in una società come quella previttoriana e vittoriana caratterizza-
te da trasformazioni dalle conseguenze drammatiche soprattutto per le

Su questo particolare genere romanzesco si rimanda ovviamente a Franco Moretti,


38

Il romanzo di formazione, Milano, Garzanti, 1986, oltre che al più recente Il romanzo
di formazione nell’Ottocento e nel Novecento, a cura di Maria Carla Papini - Daniele
Fioretti - Teresa Spignoli, Pisa, ETS, 2007.

30
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

classi meno abbienti. Secondo Egle Becchi, nel corso di tutto l’Otto-
cento «sei figure possono essere ricordate come emblematiche dell’in-
fanzia nella strada, in un crescendo di drammaticità che culmina con
la morte».39 Queste figure, già tutte reperibili nei secoli precedenti, ma
che nell’Ottocento sembrano esplodere proprio per l’attenzione che su di
esse viene a concentrarsi anche da parte degli scrittori che, tematizzan-
dole, le trasformano in documenti letterari, sono:

– i bambini che chiedono l’elemosina, già rinvenibili nei secoli prece-


denti, ma presenti ancora per tutto l’Ottocento;
– i piccoli vagabondi;
– i bambini girovaghi che fanno i saltimbanchi o i suonatori di strumenti;
– i bambini inglesi “legalmente” deportati nelle colonie;
– i bambini delinquenti o complici di malviventi o precocemente dediti
alla prostituzione;
– i bambini che sulla strada muoiono a causa dell’incuria, degli inci-
denti e della violenza delle quali sono vittima.

La polemica contro l’imponente industrializzazione del paese e l’urba-


nizzazione selvaggia che ne seguì – così ben testimoniata anche dalle
illustrazioni di Gustave Doré40 nel London. A Pilgrimage (1872) di Blan-
chard Jerrold – sono rintracciabili in molti dei romanzi di Dickens, si

39
Becchi, L’Ottocento, p. 190.
40
Anche nelle arti figurative, e a suo tempo nella nascente fotografia, aumenta nel corso
dell’Ottocento l’interesse per l’infanzia vista e rappresentata sempre di più nei conte-
sti a lei più familiari. Oltre a Doré e alla sua rappresentazione dell’infanzia derelitta e
abbandonata della Londra sottoproletaria, si pensi ai macchiaioli (ad esempio Bimbi
al sole di Cristiano Banti del 1860) o a pittori come Edgar Degas (con i Bambini
seduti sulla soglia di casa, 1972-73) e Pierre-Auguste Renoir (dalla Bambina con
l’innaffiatoio del 1876, al ritratto di Irene Cahen d’Anvers del 1879, a quello di Jean e
Geneviève Caillebotte del 1895) che, tra l’altro, hanno a questo proposito uno specifico
valore documentario perché «rappresentano come si abbigliava e pensava di vestire
l’infanzia, testimoniando quanto l’analogia con il vestire adulto si stesse lentamente
smorzando e come insorgesse uno stile per bambini, illustrato anche dalle riviste di
moda» (Becchi, L’Ottocento, p. 152). Per i bambini nella fotografia si rimanda a Luisa
Mattia, Bambini in posa. Una storia dell’infanzia in 150 anni di fotografia, Scandicci,
La Nuova Italia, 1991.

31
Primo capitolo

pensi ad esempio ad Hard Times del 1854, e trovano fondamento nelle


sofferenze di un’infanzia atrocemente sfruttata come forza lavoro dagli
industriali e generalmente abbandonata in condizioni di indigenza e di
abbruttimento estreme. L’Ottocento è dunque il secolo nel quale l’in-
fanzia viene definitivamente rivalutata come fase fondamentale per lo
sviluppo umano, ma è anche il momento nel quale la stessa infanzia
è individuata come problema sociale drammatico da risolvere con ur-
genza. A tal proposito, valgano le inchieste che sempre in quegli anni
vengono prodotte da studiosi come Friedrich Engels, che nel suo Die
Lage der arbeitenden Klasse in England (1845), si sofferma a descrivere
ampiamente le condizioni tremende del lavoro infantile nelle nuove re-
altà industriali del Regno Unito. Engels si concentra sullo sfruttamento
delle giovani generazioni per le conseguenze che esso comporta per la
mortalità, le infermità e, più in generale, l’abbruttimento dei figli del
proletariato, ai quali non è garantita alcuna istruzione o assistenza sani-
taria, minando così nel profondo quelle stesse classi sulle quali la pro-
duzione industriale si appoggia per garantirsi la crescita e l’espansione.
Esiste sicuramente, da parte delle autorità, il desiderio di arginare lo
sfruttamento e gli abusi che vengono compiuti sui fanciulli:41

Per poter giudicare con esattezza le conseguenze che il lavoro nelle fabbri-
che ha sulle condizioni fisiche del sesso femminile, sarà necessario prende-
re prima in considerazione il lavoro dei fanciulli e il genere del lavoro stes-
so. Fin dagli inizi della nuova industria, venivano occupati fanciulli nelle
fabbriche; da principio, a causa della piccolezza delle macchine – che in
seguito si ingrandirono – in modo esclusivo; e precisamente si prendeva-
no i bambini dagli asili dei poveri, e per lunghi anni essi furono affittati a
schiere dagli industriali come «apprendisti». Venivano alloggiati e vestiti
in comune, e naturalmente erano in tutto gli schiavi dei loro padroni, che li

41
Cfr. Becchi, L’Ottocento, pp. 182-183: «[…] il bambino che lavora, che soffre, che
subisce violenza, che scappa, in una società gravata da esigenze produttive, che viene
irretito in ideologie disciplinaristiche, di cui sul piano esistenziale subisce le pesanti
conseguenze [...]. Da tale punto di vista la vicenda dell’infanzia ottocentesca è una
storia di lenta emancipazione, di faticoso riscatto del non adulto – grazie soprattutto
alla scuola e alle politiche sociali per i minori, le quali stavano allora dando i primi
segni – da una condizione di emarginazione, sfruttamento, irriconoscimento».

32
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

trattavano con la massima trascuratezza e crudeltà. Fin dal 1796, l’opinione


pubblica si pronunziò contro questo rivoltante sistema per bocca di Sir R.
Peel (padre dell’attuale ministro ed egli stesso industriale cotoniero), e in
modo così energico che nel 1802 il Parlamento votò un Apprentices’ Bill
(Legge sugli apprendistati) col quale si pose termine agli abusi più clamo-
rosi. Gradualmente subentrò la concorrenza degli operai liberi e il sistema
dell’apprendistato venne a cessare. Le fabbriche vennero costruite sempre
più frequentemente entro le città, le macchine ingrandite ed i locali resi più
ariosi e più sani; gradatamente si trovò anche più lavoro per gli adulti e per
i giovani, e così diminuì un po’ il numero relativo dei bambini occupati e
si cominciò a lavorare ad un’età più avanzata. Di rado si assumevano bam-
bini inferiori agli 8-9 anni. In seguito, come vedremo, il potere legislativo
intervenne ancora ripetutamente a proteggere i fanciulli contro l’avidità di
denaro della borghesia.42

Ma le pratiche invalse sono tuttavia dure a morire e se l’età dei fanciulli


impiegati progressivamente si innalza, le condizioni in cui questi lavora-
no rimangono ancora drammatiche:

Il rapporto della Commissione centrale riferisce che gli industriali comin-


ciano di rado ad occupare fanciulli in età di cinque anni, frequentemente
però a sei anni, molto spesso a sette, e per la maggior parte di essi da otto a
nove anni; che il tempo di lavoro spesso dura giornalmente da 14 a 16 ore
(oltre le ore libere per i pasti), che gli industriali permettono che i sorve-
glianti maltrattino e bastonino i fanciulli, anzi, che li aiutano spesso perso-
nalmente […].43

Al di là degli studi e delle inchieste sociali, l’infanzia che lavora o che


è costretta a vivere in condizioni di estrema indigenza diventa quindi
un vero e proprio tema letterario che va ben oltre l’esperienza dicken-
siana, e a questo proposito basterà citare la lirica The Cry of the Chil-
dren (1844) composta da Elizabeth Barrett Browning, o l’ambito della
letteratura inglese. Si pensi ad esempio al Petit Paul (1876) del com-

42
Friedrich Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, in base a osserva-
zioni dirette e a fonti autentiche, Roma, Editori Riuniti, 3a ed., 1972, pp. 183-184.
43
Ivi, p. 185.

33
Primo capitolo

ponimento eponimo o alla storia della piccola Cosette nei Misérables


(1862) di Victor Hugo, tipico esempio di una bambina sfruttata dai
Thénardiers sia dal punto di vista lavorativo, perché le impongono i
lavori più pesanti nella loro locanda, sia da quello economico, perché
le rubano i soldi che Fantine, la madre, spedisce mensilmente per il
mantenimento della figlioletta; oppure a Hector Malot con il piccolo
Rémi di Sans famille (1878); o, ancora, ad Hans Christian Andersen
con la sua Piccola fiammiferaia (1848).
Anche in Italia l’immagine del bambino lavoratore si impone una volta
raggiunta l’Unità,44 anche se la mancanza di un tessuto industriale già ben
avviato come nel Regno Unito fa sì che l’attenzione degli scrittori si con-
centri anziché sulle condizioni di vita in una dimensione tecnologizzata
come quella della fabbrica, su realtà ben più tradizionali come quelle mi-
neraria e agro-pastorale descritte da Giovanni Verga rispettivamente in
Rosso Malpelo e in Jeli il pastore (1880); o, ancora, quella degli spazzaca-
mini,45 lavoro generalmente riservati proprio ai bambini per ovvie questio-
ni di dimensioni degli spazi di lavoro. Si va dal romanzo Spazzacamino di
Carolina Invernizio (1912) al ben più famoso episodio dedicato a questo
personaggio in Cuore di De Amicis (1886), opera magna sull’infanzia per
l’infanzia, il quale fa di questa e di altre figure di bambini – come quelle
del piccolo scrivano fiorentino, della piccola vedetta lombarda e di diversi
piccoli personaggi presenti sia nei racconti mensili sia nella vicenda prin-

44
Sulla scoperta anche letteraria dell’infanzia nel Belpaese cfr. Le presenze dimenticate.
L’infanzia nell’Italia moderna fra storia, letteratura e filosofia, a cura di Graziella Pa-
gliano, Roma, Aracne, 1998 e Franco Cambi - Simonetta Ulivieri, Storia dell’infanzia
nell’età liberale, Scandicci, La Nuova Italia, 1988.
45
Personaggio peraltro non trascurato neppure dalle altre letterature straniere. Si veda,
tra i tanti, il caso di William Blake e delle due poesie, intitolate appunto The Chimney
Sweeper, che dedica a questa figura rispettivamente nei Songs of Innocence (1789) e
nei Songs of Experience (1794). A titolo d’esempio si riporta il testo della seconda: «A
little black thing among the snow, / Crying “weep! weep!” in notes of woe! / “Where
are thy father and mother? Say!” / “They are both gone up to the church to pray. //
Because I was happy upon the heath, / and smiled among the winter’s snow, / they
clothed me in the clothes of death, / and taught me to sing the notes of woe. // And
because I am happy and dance and sing, / they think they have done me no injury,
/ and are gone to praise God and his priest and king, / who make up a heaven of our
misery».

34
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

cipale – paradigmi esemplari di dedizione alla famiglia, alla quale devono


prestare un aiuto spesso fondamentale per il mantenimento dei congiunti,
e quindi ben spendibili per l’educazione sentimentale, oltre che civile ed
etica impartita dal maestro Perboni:

Ieri sera andai alla Sezione femminile, accanto alla nostra, per dare il rac-
conto del ragazzo padovano alla maestra di Silvia, che lo voleva leggere. Set-
tecento ragazze ci sono! Quando arrivai cominciavano a uscire, tutte allegre
per le vacanze d’Ognissanti e dei morti; ed ecco una bella cosa che vidi. Di
fronte alla porta della scuola, dall’altra parte della via, stava con un braccio
appoggiato al muro e colla fronte contro il braccio, uno spazzacamino, molto
piccolo, tutto nero in viso, col suo sacco e il suo raschiatoio, e piangeva
dirottamente, singhiozzando. Due o tre ragazze della seconda gli s’avvici-
narono e gli dissero: - Che hai che piangi a quella maniera? – Ma egli non
rispose, e continuava a piangere. - Ma di’ che cos’hai, perché piangi? — gli
ripeterono le ragazze. E allora egli levò il viso dal braccio, – un viso di bam-
bino, – e disse piangendo che era stato in varie case a spazzare, dove s’era
guadagnato trenta soldi, e li aveva persi, gli erano scappati per la sdrucitura
d’una tasca, – e faceva veder la sdrucitura, – e non osava più tornare a casa
senza i soldi. – Il padrone mi bastona, – disse singhiozzando, e riabbandonò
il capo sul braccio, come un disperato. Le bambine stettero a guardarlo,
tutte serie. Intanto s’erano avvicinate altre ragazze grandi e piccole, povere
e signorine, con le loro cartelle sotto il braccio, e una grande, che aveva
una penna azzurra sul cappello, cavò di tasca due soldi, e disse: – Io non ho
che due soldi: facciamo la colletta. – Anch’io ho due soldi, – disse un’altra
vestita di rosso; – ne troveremo ben trenta fra tutte. – E allora cominciarono
a chiamarsi: – Amalia! – Luigia! – Annina! – Un soldo. – Chi ha dei soldi?
– Qua i soldi! – Parecchie avevan dei soldi per comprarsi fiori o quaderni,
e li portarono, alcune più piccole diedero dei centesimi; quella della penna
azzurra raccoglieva tutto, e contava a voce alta: – Otto, dieci, quindici! – Ma
ci voleva altro. Allora comparve una più grande di tutte, che pareva quasi
una maestrina, e diede mezza lira, e tutte a farle festa. Mancavano ancora
cinque soldi. – Ora vengono quelle della quarta che ne hanno, – disse una.
Quelle della quarta vennero e i soldi fioccarono. Tutte s’affollavano. Ed era
bello a vedere quel povero spazzacamino in mezzo a tutte quelle vestine di
tanti colori, a tutto quel rigirìo di penne, di nastrini, di riccioli. I trenta soldi
c’erano già, e ne venivano ancora, e le più piccine che non avevan denaro,
si facevan largo tra le grandi porgendo i loro mazzetti di fiori, tanto per dar

35
Primo capitolo

qualche cosa. Tutt’a un tratto arrivò la portinaia gridando: - La signora Diret-


trice! Le ragazze scapparono da tutte le parti come uno stormo di passeri. E
allora si vide il piccolo spazzacamino, solo in mezzo alla via, che s’asciugava
gli occhi, tutto contento, con le mani piene di denari, e aveva nell’abbotto-
natura della giacchetta, nelle tasche, nel cappello tanti mazzetti di fiori, e
c’erano anche dei fiori per terra, ai suoi piedi.46

Il bambino dell’Ottocento è il bambino che ancora lavora e che entra


sin da piccolissimo nelle nuove realtà industriali, per quanto riguarda
i figli del proletariato urbanizzato, ma è anche, per quello che con-
cerne invece i figli del ceto medio, il fanciullo che viene sempre più
e sempre meglio curato, nutrito e vestito; che viene seguito nella cre-
scita; che viene mandato nelle colonie per rigenerarsi; che ha nuovi
spazi a lui destinati per le attività ludiche, ricreative o di studio; che
diventa oggetto di pubblicità perché aumentano i prodotti a lui spe-
cificatamente destinati, tra i quali vi sono vestiti, articoli per l’igiene
personale, giocattoli e anche libri, ossia il risultato di quell’editoria
per l’infanzia che proprio nell’Ottocento conosce uno sviluppo vertigi-
noso che trova nel repertorio favolistico il primo e importante motore
per la sua crescita – dai fratelli Grimm delle Kinder-und Hausmärc-
hen (1812) alle fiabe di Hans Christian Andersen, al Perrault ripub-
blicato in Francia con le illustrazioni di Doré nel 1862 e tradotto in
Italia da Collodi nel 1875 – per poi arrivare ai suoi esiti più originali
e innovativi in autori che si spenderanno nei sottogeneri più diversi,
come Wilhelm Busch (Max und Moritz, 1865) per la Germania, Jules
Verne per la Francia, Lewis Carroll (Alice’s Adventures in Wonderland,
1865) per l’Inghilterra e, per l’Italia, Luigi Alessandro Parravicini
(Giannetto, 1837), Emilio Salgari, oltre ai già menzionati Collodi (non
solo Pinocchio, ma anche la serie dedicata a Giannettino a partire dal
1877) e De Amicis.47 Per quanto riguarda più in particolare i nuovi

46
Edmondo De Amicis, Cuore, Milano, Fabbri, 1984, pp. 25-26.
47
Cfr. Becchi, L’Ottocento, p. 155. Sulla letteratura per l’infanzia nei maggiori paesi
europei cfr. Hans-Heino Ewers, Lo sviluppo della letteratura per l’infanzia dell’epoca
borghese dal Settecento al Novecento. L’esempio tedesco, in Storia dell’infanzia, vol. II,
pp. 408-430; Marc Soriano, Guide de littérature pour la jeunesse. Courants, problèmes,

36
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

spazi destinati alle attività dei figli della borghesia, essi vengono rea-
lizzati o attraverso l’incremento di un’edilizia specializzata più conso-
na allo sviluppo psico-fisico dell’infanzia,48 o adattando gli ambienti
già esistenti sia nelle case private, ovviamente in quelle di coloro che
possono permetterselo, sia nei sempre più numerosi luoghi destinati
a una scolarizzazione che a ritmo sostenuto sta coinvolgendo strati
via via più larghi della popolazione. Ecco allora nascere nelle case
del ceto medio borghese, in quelle dell’alta borghesia e, ovviamente,
in quelle della nobiltà, realtà come le nursery, le Kinderstube, le sale
specificatamente dedicate allo studio e quelle riservate al gioco o al
sonno, come quella dalla quale i fratelli Darling prenderanno il volo
per l’isola che non c’è di Peter Pan. Accanto a queste nuove realtà
permangono, tuttavia, numerose zone grigie, derivanti da condizio-
ni economiche di indigenza e, in alcuni casi, tollerate da istituzioni
pubbliche che hanno dell’assistenza all’infanzia un’idea capitalisti-
co-utilitaristica influenzata da un’etica di derivazione protestante, per
la quale la figura del povero o del più debole è assimilabile a quella
dell’escluso dalla grazia divina. Bisogna inoltre notare come la distri-

choix d’auteurs, Paris, Flammarion, 1975; Antonio Faeti, Letteratura per l’infanzia,
Firenze, La Nuova Italia, 1977. Per il contesto italiano, di primaria importanza ri-
mangono i numerosi lavori di Mariella Colin, da quelli più squisitamente tematici,
come Il soldato e l’eroe nella letteratura scolastica dell’Italia liberale, Torino, Loscher,
1985, a quelli più sistematici relativi sia al XIX sia al XX secolo: L’âge d’or de la
littérature d’enfance et de jeunesse italienne. Des origines au fascisme, Caen, Presses
universitaires de Caen, 2005 e I bambini di Mussolini. Letteratura, libri, letture per
l’infanzia sotto il fascismo, Brescia, La Scuola, 2012.
48
Becchi, L’Ottocento, pp. 153: «Perché, tutto sommato, è il corpo infantile il grande
centro, positivo e negativo, delle vicende dell’infanzia nell’Ottocento. Un corpo cu-
rato e trascurato, ma anche e soprattutto un “corpo raddrizzato”, un corpo pregiato,
ma anche disciplinato fino alla mortificazione, un corpo esercitato e fatto crescere con
cure e supporti», per il quale, ad esempio, si apre lo spazio immenso delle stazioni
balneari, dove schiere sempre più ampie di figli della borghesia costretta dai doveri
e dalle insalubri necessità del progresso vanno per ritrovare il vigore perduto. Così,
ad esempio, Jules Michelet: «I bambini innocenti, che soffrono dei peccati dei loro
padri; le donne, vittime sociali le cui colpe sono soprattutto d’amore e che, meno
responsabili di noi, portano tuttavia in misura ben maggiore il peso della vita», in
Jules Michelet, La mer, Paris, Hachette, 1861 (trad. it. Il mare, Genova, Il Nuovo
Melangolo, 1997, p. 229).

37
Primo capitolo

buzione degli spazi felici e di quelli infelici per l’infanzia non segua
necessariamente una logica di contrapposizione tra campagna e città,
perché molte volte è nella prima che le condizioni dell’infanzia rag-
giungono il livello più doloroso di degrado e sfruttamento. Si pensi al
racconto delle disavventure di Oliver Twist, ambientate prevalente-
mente in una Londra ottocentesca sempre più megalopoli industria-
le – e da ciò la definizione del romanzo come industrial novel –, ma
con ampi spazi riservati nei capitoli iniziali alla realtà campagnola
e provinciale: la nascita, l’ospizio parrocchiale, le prime esperienze
lavorative come spazzacamino e becchino sino alla fuga verso Lon-
dra. Parimenti, la vicenda di David Copperfield si snoda in entrambi i
contesti paesaggistici, allargando a tutto il panorama dell’Inghilterra
dell’epoca i toni cupi di un progresso industriale ed economico diffi-
cile e denso di contraddizioni.49
Un ultimo cenno meritano due romanzi che almeno in parte sembra-
no allontanarsi dalla problematicità degli esempi inglesi, ma che in
realtà insistono sulle difficoltà di rapporto tra mondo dell’infanzia e
mondo degli adulti, così come sulla violenza insensata che caratterizza
quest’ultimo, sia pur mantenendo un tono leggero e strutturandosi sul
modello del romanzo picaresco e quindi del viaggio avventuroso. Si
tratta ovviamente di Tom Sawyer (1876) e Huckleberry Finn (1884) di
Mark Twain, opere nelle quali viva e presente è la realtà americana
di quegli anni, tormentata da contrasti razziali, dalle conseguenze di
una devastante guerra civile e da laceranti divisioni di classe. È per
questo motivo che entrambi i giovani eroi di Twain, ma in particolare
Huckleberry Finn, sentono l’impulso irrefrenabile di allontanarsi dalla
“civiltà”, che li vorrebbe educare secondo una pedagogia intrisa di
contraddizioni e condizionata dai problemi appena citati, inventandosi
un personalissimo percorso di crescita, un viaggio iniziatico, che li
renderà maturi, si potrebbe dire, nonostante il cattivo esempio degli
adulti e, soprattutto, grazie al recupero del contatto con la natura sim-
boleggiata dal grande fiume Mississippi.

Cfr. Becchi, L’Ottocento, pp. 142 ss.


49

38
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

1.3 Alcuni esiti primo novecenteschi: Freud, James, Th. Mann

Col passaggio al secolo XX, l’attenzione verso l’infanzia e verso i suoi


problemi non viene meno. Tuttavia, comincia a modificarsi lentamente
la percezione che si ha della sua realtà e l’idealizzazione che si era an-
data man mano creando nel corso dell’Ottocento intorno all’immagine
del fanciullo viene progressivamente smontata o attribuendogli pulsioni
che, per quanto ancora a livello embrionale, prefigurano quelle caratte-
ristiche dell’età adulta, o enfatizzando attraverso la sua figura elementi
perturbanti che, in realtà, altro non sono se non il riflesso delle angosce
della borghesia conseguenti al sentimento del proprio declino e della
perdita della totalità.50
Rivoluzionari e dirompenti, per il primo caso, sono ovviamente gli
studi di Sigmund Freud. Lo psicanalista viennese osserva e descri-
ve nei suoi lavori una variegata messe di casi di bambini grazie ai
quali non solo ipostatizza le dinamiche della sessualità infantile, ma
individua nel tempo dell’infanzia il germe delle nevrosi che contrad-
distingueranno l’adulto. Ecco, allora, studi come Tre saggi sulla te-
oria sessuale (1905), L’analisi della fobia di un bambino di cinque
anni. Caso clinico del piccolo Hans (1908), L’uomo dei lupi. Dalla
storia di una nevrosi infantile (1914) o, ancora “Un bambino viene
picchiato”. Contributo alla conoscenza delle origino delle perversioni
sessuali (1919). Non solo traumi, tuttavia, perché l’infanzia è anche
laboratorio e fucina di emozioni che contribuiranno positivamente
alla grandezza futura dell’uomo, come Freud dimostra, con qualche
narcisistico cedimento autoreferenziale,51 in saggi come Un ricordo
d’infanzia tratto da “Poesia e verità” di Goethe (1917), nel quale vie-
ne ribadita l’importanza non solo del vissuto infantile, ma anche del

50
Sui riflessi letterari della crisi tardo ottocentesca della borghesia molto ha riflettuto,
per esempio, Claudio Magris in alcuni dei suoi lavori più significativi come Lontano
da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale (1971) e L’anello di Clarisse.
Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna (1984).
51
Cfr. Avvertenza editoriale, in Sigmund Freud, Un ricordo d’infanzia tratto da “Poesia e
verità” di Goethe, in Id., Opere, Torino, Bollati Boringhieri, 1967-1980, 12 voll., vol.
IX, 1917-1923. L’Io e l’Es e altri scritti, pp. 1-14, 3.

39
Primo capitolo

ricordo che ne ha l’adulto per la conoscenza e la comprensione della


sua vita psichica:

Per riconoscerne la significatività [dei ricordi d’infanzia] occorreva un cer-


to lavoro interpretativo, che o dimostrò come bisognasse sostituire il loro
contenuto con un contenuto diverso, o ne indicò la connessione con altre
esperienze indubitabilmente importanti alle quali erano subentrati come
cosiddetti “ricordi di copertura”. In ogni elaborazione psicoanalitica del-
la storia di un’esistenza si riesce a chiarire in tal modo il significato dei
primissimi ricordi d’infanzia. Accade anzi di regola che proprio il ricordo
che l’analizzato antepone agli altri, quello che cita per primo e col quale
dà inizio alla sua confessione biografica, si dimostra il più importante,
quello che cela in sé la chiave d’accesso ai comparti segreti della sua vita
psichica.52

Per il secondo caso, invece, emblematici risultano personaggi come Miles


e Flora, i piccoli, rispettivamente di nove e otto anni, al centro del romanzo
breve The Turn of the Screw (1898) di Henry James. Perseguitati dai fan-
tasmi di un’istitutrice e di un maggiordomo morti in circostanze misteriose
prima dell’entrata in scena della protagonista, l’istitutrice Miss Giddens, i
due bambini sono essi stessi figure inquietanti e fonte di angosciato timore
per coloro che devono custodirli, e al termine della vicenda pare di capire
che essi siano più complici che vittime degli spettri, anche se questa in-
terpretazione dei fatti è messa in dubbio dalla condizione paranoide nella
quale sembra versare la voce narrante, Miss Giddens, appunto. Ambigui-
tà jamesiane a parte, resta il fatto che il vero fantasma che incombe sul
romanzo è quello della perdita dell’innocenza – e non solo dei bambini
– dovuta alla percezione dell’animo umano come un abisso oscuro e inson-
dabile. Si veda almeno un’immagine di Flora:

Flora, poco lontano da noi, stava ritta sull’erba e sorrideva, come se la sua
impresa fosse ormai compiuta. La seconda cosa che fece, tuttavia, fu di chi-
narsi a cogliere con decisione (come se fosse andata sin lì solo per quello) un
lungo e brutto rametto di felce appassita. Fui certa all’istante che era appena

Freud, Un ricordo d’infanzia tratto da “Poesia e verità” di Goethe, pp. 6-7.


52

40
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

uscita dalla macchia. Ci aspettò senza muovere un passo, ed io mi resi conto


della strana solennità con la quale ci avvicinammo a lei. Continuava a sorri-
dere; la raggiungemmo; ma tutto avvenne in un silenzio chiaramente di cat-
tivo augurio. La signora Grose fu la prima a rompere l’incantesimo: si buttò
in ginocchio e, attirando la bambina al seno, serrò in un lungo abbraccio
quel corpicino tenero, flessuoso. Io, mentre durava quella stretta silenziosa
e convulsa, non potevo che star a guardare, e lo feci tanto più intensamente
quando scorsi il viso di Flora, che mi fissava al di sopra della spalla della
nostra compagna. Era serio, ora, il sorrisetto era svanito, e ciò rese più acuta
la fitta di dolore che provai in quell’istante nell’invidiare alla signora Grose
la semplicità del suo rapporto. Tuttavia, per il momento, non accadde altro
fra noi, se non che Flora lasciò cadere a terra la sua stupida felce. Ci era-
vamo praticamente dette che ormai ogni finzione era inutile tra noi. Quando
finalmente la signora Grose si rialzò, tenne la bambina per mano, sicché mi
stavano entrambe di fronte; e la singolare reticenza della nostra riunione
era sottolineata ancor più dal franco sguardo che mi lanciò. «Piuttosto che
parlare, – diceva il suo sguardo, – mi farei impiccare».53

Un felice esito primo novecentesco del fanciullo intriso di ambigua sen-


sualità, a cavallo tra una condizione prepuberale e un’adolescenza inci-
piente, lo si trova nel Tadzio manniano di Der Tod in Venedig (1912).54
Magnifico esempio di personaggio perturbante che come un cuneo si in-
serisce nella crepa già esistente nell’esistenza di Gustav von Aschenba-
ch – scrittore in profonda crisi che rischia di distruggere definitivamente
l’onorabilità faticosamente conquistata in tanti anni di faticoso servizio
alle dipendenze di una letteratura utile in quanto organica alla pedago-

53
Henry James, Giro di vite, Torino, Einaudi, 1995, pp. 138-139. L’importanza del tema
dell’infanzia in James è confermato da un secondo personaggio, questa volta inserito
in un contesto pienamente razionale, come Maisie, la giovane protagonista del ro-
manzo What Maisie knew? (1897). La bambina, contesa tra due genitori superficiali e
irresponsabili, alla fine della vicenda deciderà non a caso di restare con la signorina
Wix, l’istitutrice che le ha dato maggiore affidamento e stabilità e che diventerà quin-
di la sua tutrice.
54
Ma a Thomas Mann si devono anche altre significative figure di fanciulli o preadole-
scenti decadenti, come il bambino prodigio protagonista di Das Wunderkind (1903)
e Hanno, il ragazzo inetto a vivere e malato che porterà a compimento la saga dei
Buddenbrook (1901).

41
Primo capitolo

gica della società borghese –, Tadzio viene presentato da Mann come un


perfetto figlio dell’aristocrazia europea, coccolato e viziato dalla madre
e dalla governante, al quale però ben si attagliano anche caratteristiche
semidivine ovviamente desunte dall’universo mitologico della classicità
greca:

Il suo viso, pallido e graziosamente chiuso, attorniato da ricci color miele,


col naso diritto, la bocca amabile, un’espressione di gentile e divina serietà,
ricordava le sculture greche dei tempi più nobili, e accanto alla purissima
perfezione della forma recava un fascino così unico e personale, che parve
al riguardante di non aver mai veduto né in arte né in natura nulla di così
felicemente riuscito. […] Era chiaro che dolcezza e tenerezza governavano
la sua vita. Ci si era ben guardati dall’accostare le forbici alla sua bella
capigliatura; come quella dello Spinario capitolino, essa si inanellava sulla
fronte, sugli orecchi, e ancor più sulla nuca. L’abito inglese alla marinara,
le cui maniche larghe si stringevano verso il basso, intorno ai polsi delicati
delle mani ancora infantili ma affusolate, coi suoi ricami, cordoni e fioc-
chi conferiva alla figurina esile alcunché di ricco e di viziato. Era volto di
tre quarti verso colui che lo osservava, i piedi incrociati nelle scarpette di
vernice nera, un gomito puntato sul bracciolo della poltrona e la guancia
appoggiata alla mano chiusa, in un atteggiamento di grazia negligente, e
senz’ombra della rigidità quasi sommessa alla quale le sorelle sembravano
avvezze. Che fosse malato? Infatti la pelle del suo viso spiccava bianca come
l’avorio sull’oro scuro dei ricci che lo incorniciavano. Oppure era sempli-
cemente un beniamino viziato, circondato da un amore capriccioso e par-
ziale? Aschenbach propendeva a crederlo. In quasi tutti gli artisti è innata
la tendenza voluttuosa e ingannatrice a consacrare l’ingiustizia che genera
bellezza e a offrire omaggio e simpatia alla predilezione aristocratica.55

E ancora:

Egli tornò indietro, a testa arrovesciata traversò di corsa l’acqua bassa fa-
cendo sollevare in spuma l’onda che resisteva alle sue gambe; e vedere la
forma viva, acerba e graziosa nella previrilità, sorgere con i ricci grondanti,

Thomas Mann, La morte a Venezia, traduzione di Anita Rho, Torino, Einaudi, 1971,
55

pp. 38-40.

42
Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX secolo

bella come un giovane nume, dalle profondità del mare, uscire e fuggire
dall’elemento, era uno spettacolo che suggeriva mitiche fantasie, qualcosa
come una leggenda poetica di età primitive che narra le origini della forma
e la nascita degli dèi.56

Il giovane è una sintesi superba di Eros e Thanatos, il cui compito è


quello di aiutare il protagonista nel passaggio dall’ordine al caos, dalla
repressione dell’istinto all’esplosione delle pulsioni. Ad accompagnare
questo percorso, nel romanzo manniano si trovano continuamente sia
immagini e figure di disordine personale e sociale – come la giungla,
il sabba, il vecchio gagà incontrato sul vaporetto che arriva a Venezia
o l’epidemia di colera – sia personaggi prefiguranti la morte – come lo
straniero sulla scalea del cimitero di Monaco, il gondoliere o lo zingaro
che intrattiene gli ospiti del Grand Hotel al Lido – che hanno la funzione
specifica di preannunciare l’esito della vicenda, ossia l’abbandono defi-
nitivo del decoro borghese e, come inevitabile conseguenza di ciò, la fine
indecorosa del protagonista, stroncato dal morbo su una spiaggia ormai
vuota e desolata, con il belletto e la tinta per capelli che gli colano sul
viso. In una parola, la distruzione di un adulto per mano di un fanciullo,
in attesa che età matura e infanzia possono almeno provare a riconci-
liarsi, come ad esempio nella lirica di Umberto Saba,57 per il quale «La
poesia fa pensare piuttosto – come abbiamo detto – ad un improvviso
ritorno all’infanzia: un ritorno che però non esclude la contemporanea
presenza dell’uomo».58

56
Ivi, pp. 48-49.
57
Cfr. Matilde Dillon Wanke, Il bambino di Saba, in “Rivista di Letteratura Italiana”,
a. XXVI, nn. 2-3 (2008), pp. 119-123, 119.
58
Umberto Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Id., Tutte le prose, a cura di Ar-
rigo Stara, con un saggio introduttivo di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori, 2001,
pp. 107-352, 142.

43
Secondo capitolo

IL FANCIULLO DANNUNZIANO:
DALLA PROSA ALLA POESIA

2.1 Incipit

Nella sua ancor valida biografia, Piero Chiara sostiene che il 1914, con
lo scoppio della Prima guerra mondiale, è uno spartiacque importante
nella vicenda umana e letteraria di d’Annunzio, perché dopo quell’an-
no e sino alla morte nel 1938 la sua produzione letteraria andò restrin-
gendosi tipologicamente, limitandosi sempre più a «orazioni, messaggi,
appelli, memorie», e lasciando spazio a una specie di ripiegamento non
solo artistico, ma anche esistenziale che si accentuò dopo l’avventura
fiumana e che produsse opere non più all’altezza della fase precedente,
anche tenendo conto di importanti eccezioni come la Licenza della Leda
e il Notturno, entrambe comunque risalenti al 1916, cioè subito suc-
cessive alla cesura ipotizzata dal biografo, e ascrivibili appunto a quel
genere memorialistico che «aiuta a conoscere meglio lo scrittore, ma che
non aggiunge molto alla sua figura di artista».1
Non risulta difficile condividere l’opinione di Chiara, se si pensa che,
per quanto riguarda la prosa, il capitolo della novellistica viene sostan-
zialmente chiuso con l’edizione delle Novelle della Pescara nel 1902,
mentre per quanto riguarda i romanzi si arriverà al 1913 con l’uscita
della Leda senza cigno. Anche per quanto riguarda la scrittura teatrale, il
periodo da prendere in considerazione va dal 1897 col Sogno d’un mat-

Piero Chiara, Vita di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mondadori, 1978, p. 265.


1

45
Secondo capitolo

tino di primavera al 1915 con La crociata degli innocenti. Per la lirica,


infine, è largamente riconosciuto dalla critica che l’apogeo dell’espres-
sione poetica dannunziana si avrà con Alcyone del 1903, mentre ciò che
verrà dopo, a cominciare dalle Canzoni delle gesta d’oltremare del 1912,
non riuscirà più a raggiungere l’ispirata raffinatezza e la profonda empa-
tia con la materia lirica del terzo libro delle Laudi.
A queste prime considerazioni bisogna aggiungere che nel trentacin-
quennio di maggior felicità compositiva, una sorta di preminenza an-
drebbe al d’Annunzio lirico, perché «il sublime poeta di Alcyone avrebbe
ben pochi rivali all’inizio del secolo, sia da noi che Oltralpe»,2 mentre il
narratore risulterebbe meno incisivo a causa di fabule troppo farraginose
e, soprattutto, di un eccesso di autoreferenzialità nella costruzione dei
protagonisti delle storie raccontate, le quali acquisterebbero spessore
solo grazie alle parentesi liriche che si hanno quando lo scrittore «[…]
che come pochi conoscerebbe i suoi limiti – blocca trama e dialogo per
indugiare sull’ora del giorno e la dolce stagione, sulla fascinosa prezio-
sità di questo o quell’oggetto, sui particolari minuti di un arredo o di una
mise».3
Tuttavia, nella ricostruzione, non priva di spunti polemici, della fortuna
critica di d’Annunzio elaborata da Annamaria Andreoli, la studiosa fa
notare come, pur avendo fondamento il primo assunto, ossia l’eccellenza
del poeta, va invece fortemente ridimensionato il secondo, che ipostatiz-
za il narratore come un d’Annunzio minore, e citando, anche lei come
Chiara, i casi della Licenza e del Notturno, attribuisce la ridotta consi-
derazione critica della prosa dannunziana all’«impaccio ideologico delle
trilogie superomistiche»,4 al pregiudizio di cui per lungo tempo ha sof-
ferto il genere narrativo in Italia e, come conseguenza di ciò, alla minor
“attrezzatura” di molti critici nell’affrontare un testo in prosa. A sigillo
della sua tesi, l’Andreoli fa poi notare come non a caso è in Francia, e

2
Annamaria Andreoli, Introduzione, in Gabriele d’Annunzio, Tutte le novelle, a cura
di Annamaria Andreoli e Marina De Marco, introduzione di Annamaria Andreoli,
Milano, Mondadori, 3a ed., 2006, pp. XI-XLVI, XI (d’ora in poi Introduzione 1).
³ Ibid.
4
Ivi, p. XII.

46
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

non in Italia, che con maggiore cognizione di causa si sono valutate e


celebrate le prove narrative di d’Annunzio.
L’atteggiamento più efficace per approcciarsi alla vicenda letteraria del-
lo scrittore rimane sicuramente quello che la valuta complessivamente,
concedendo a tutte le componenti dell’attività del Pescarese non solo
il loro valore autonomo, ma riconoscendone anche l’importanza nell’in-
fluenzarsi tra di loro attraverso un’evidente trasmigrazione di immagini,
temi e figure che, sottoposte a continua elaborazione ed evoluzione, trac-
ciano un’ideale linea rossa all’interno dell’intero corpus dannunziano.
In questa prospettiva è necessario inquadrare anche il tema del fanciullo.
Stante, infatti, il diverso peso specifico che questo tema ha in d’Annunzio
rispetto a quello che invece assume nella poesia e nell’ideologia di Pascoli
o dei poeti crepuscolari, non si può negarne la presenza anche nell’opera
in prosa e in poesia dannunziane.5 Presenza spesso legata o comunque in
sostanziale contiguità con l’evocazione di un altro topos, questo sì fonda-
mentale nell’arte del Vate, e cioè con il cronotopo spaziale. Nel Pescarese
s’impone dunque il tema del fanciullo strettamente connesso all’inven-
zione o alla reinvenzione di un paesaggio mitico, sia esso quello abruzze-
se centrale nei primi anni di vita del poeta, oppure quello greco assimi-
lato dalle letture dei classici e artificialmente ricreato nei due viaggi in
quella terra (la crociera e la tournée con la Duse) o, infine, quello della
Toscana alcyonia ellenizzata.
Ma per d’Annunzio il tema del fanciullo è importante anche perché di-
venta uno degli strumenti privilegiati per esemplificare con estrema effi-
cacia quella consunzione, quella inettitudine alla vita, quella prospetti-
va di oblio e di morte che sono lo sbocco usuale della degenerazione del
borghese e, a maggior ragione, del borghese che, contro la sua natura, si
fa artista, rinunciando con ciò alla forza primigenia che, darwinianamen-
te, gli ha consentito di prevalere nella lotta per la vita. O, ancora, il tema
del fanciullo è legato all’adozione, sia pur di maniera, di un modulo nar-
rativo veristico che si trasforma fin da subito in piacere della descrizione

Per un primo studio complessivo sul tema dell’infanzia in d’Annunzio cfr. Maria Te-
5

resa Gentile, Mito e realtà dell’infanzia nell’opera di Gabriele d’Annunzio, Roma,


Pinto, 1957.

47
Secondo capitolo

cruda, che indugia all’orrido e al ripugnante non solo per l’effetto che
può avere sul lettore, ma anche, e forse soprattutto, perché corrisponde
alle pulsioni estetiche più intime del poeta.
Fanciullo, paesaggio, morte e orrido: elementi di una poetica che va-
riamente si intrecciano e altrettanto variamente vengono modulati nelle
diverse prove liriche e narrative di d’Annunzio.
Nei paragrafi che seguiranno si cercheranno di sviluppare e approfon-
dire tutti gli elementi e le tematiche fin qui solamente accennate, con
un’avvertenza metodologica e una precisazione terminologia. L’avverten-
za: nel canone lirico e in prosa che qui di seguito si andrà ad analizzare
è incluso quanto scritto e pubblicato da quello che è già stato identificato
all’inizio di questo paragrafo come il d’Annunzio “maggiore” e, in ogni
caso, antecedente all’esilio gardesano. Rimane invece esclusa l’ultima
produzione, perlopiù memorialistica, e il riferimento è alle Faville (1924
e 1928) e al Libro segreto (1935), perché nel primo caso (Il compagno
dagli occhi senza cigli) si tratta soprattutto di adolescenza, mentre nel
secondo l’immagine dell’infanzia che vi aleggia è eccessivamente lega-
ta a una prospettiva autobiografico-rievocativa con finalità introspettive
che ne alterano l’esemplarità letteraria.6 Infine, la precisazione: molto
spesso, e a maggior ragione nelle opere narrative, d’Annunzio attua uno
slittamento semantico che attribuisce alla figura del “bambino” le ca-
ratteristiche e le forme della fanciullezza – periodo evolutivo della vita
umana, compreso generalmente tra il sesto e l’undicesimo anno di età –
mentre per fanciullo o fanciulla s’intendono soggetti già progrediti nella
fase puberale/adolescenziale o, in alcuni casi, in quella della giovinezza
e quindi già aperti alle pulsioni sessuali che caratterizzano questi stadi
di sviluppo.

Sul ruolo dell’infanzia in queste opere del tardo d’Annunzio si rimanda a Isabella
6

Nardi, Infanzia come metafora, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1992.

48
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

2.2 La narrativa

2.2.1 Da Terra vergine alle Novelle della Pescara


Quello delle novelle è il d’Annunzio degli anni romani, un giovane am-
biziosissimo che aspira a entrare a pieno titolo nell’ambiente dell’Urbe e
che fin da subito s’impone come maître à penser della società capitolina
di fine secolo, impegnandosi nei salotti mondani e nelle redazioni delle
riviste che vivacizzarono quel periodo,7 distinguendosi come cronista del
bel mondo,8 ma anche come critico letterario informato e sottile, capace
di interpretare le esigenze del pubblico della nuova Italia e al contempo
di indirizzarne il gusto verso le tendenze europee più all’avanguardia,
scrivendo nelle pagine dei suoi articoli di Baudelaire e Mallarmé, di
Flaubert e Zola, di Keats e Swinburne, ma anche, è bene non dimenti-
carlo, di Pascoli.9

7
Nella Roma di questi anni i quotidiani e le riviste nascono in una quantità e con una
velocità sorprendenti, tanto da provocare il disappunto di Giosue Carducci, contra-
riato da questo caotico affollamento: nel 1878 si trasferisce a Roma la “Nuova An-
tologia” e dall’anno successivo sino al 1884 vengono fondate in rapida successione
“Il Fanfulla della Domenica”, il “Capitan Fracassa”, la “Cronaca Bizantina”, “La
Cultura”, “La Domenica Letteraria”, “Roma letteraria”, “La Tribuna”, “La Domenica
del Fracassa”, “Le Forche Caudine” e “Nabab”.
8
Come sostiene Piero Chiara, d’Annunzio «diventerà infatti il fantasioso e vivace cro-
nista della vita romana. Ricevimenti mondani, balli, concerti, accademie di scherma,
prime all’Apollo, mostre d’arte, aste pubbliche, fiere di beneficenza, cerimonie reli-
giose, caccie alla volpe e fantasmi femminili formeranno il tessuto dell’“ora giocon-
da” (G. A. Borgese), della “vita romano-bizantina” dentro la quale entrerà come in un
bagno balsamico”, in Chiara, Vita di Gabriele d’Annunzio, p. 35. Sul periodo romano
si veda anche D’Annunzio a Roma, Atti del Convegno (Roma, 18-19 maggio 1989),
Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 1990.
9
Si vedano, ad esempio, gli articoli che d’Annunzio pubblica per recensire le liri-
che o le raccolte pascoliane: su “La Tribuna” il 7 aprile del 1888 con un contribu-
to intitolato Sonetti e sonettatori a proposito dell’opuscolo per le nozze del fratello;
sul “Mattino”, il 30-31 dicembre 1892, con un intervento intitolato L’arte lettera-
ria nel 1892. (La poesia) scritto in occasione della seconda edizione di Myricae;
su “Il Marzocco” infine, il 5 aprile 1896 con un articolo intitolato Dell’impresa
dei beoti. Estremamente elogiativo, inoltre, è il giudizio sul Pascoli poeta latino
dato nell’intervista intitolata Come fu composto il «San Sebastiano», pubblicata il
3 maggio 1911 sul “Corriere della Sera”. Per i rapporti tra d’Annunzio e Pascoli
si rimanda al carteggio tra i due pubblicato nell’edizione nazionale delle opere

49
Secondo capitolo

Ma è in particolare la collaborazione col Sommaruga che consente a


d’Annunzio di imporsi sul mercato editoriale, grazie anche a un’abile
politica di promozione scandalistica delle sue opere la cui origine va
cercata nel falso annuncio della morte pubblicato sulla “Gazzetta del-
la Domenica” di Firenze poco prima dell’uscita dell’edizione rivista di
Primo vere, nel novembre del 1880.10 Ciò che empaticamente accomuna
d’Annunzio al suo editore è però proprio quella spiccata propensione
all’eclettismo di cui si è già detto, quella «poligrafia di moda e di ma-
niera che doveva servirgli [a d’Annunzio] a durare sulla scena per oltre
mezzo secolo».11 E sarà proprio per i tipi di Sommaruga che nel 1882
vedranno la luce la seconda raccolta di versi, Canto novo, e la prima
raccolta di racconti, Terra vergine: lirica e prosa accomunate da una vi-
talistica adesione alla natura di un Abruzzo selvaggio e dall’attitudine a
una descrizione spiccatamente coloristica.
Prima d’addentrarsi nell’analisi delle novelle dannunziane, è necessario
soffermarsi brevemente per un resoconto quantomeno sommario della
loro complessa vicenda compositiva ed editoriale, in modo da poter trac-
ciare una mappa che aiuti a comprendere la loro disposizione e trasmi-
grazione nelle diverse sillogi:
– Terra vergine, Sommaruga, Roma 1882: è la prima raccolta; nella
seconda edizione (1884) ai nove racconti originali (Terra vergine,
Dalfino, Fiore fiurelle, Cincinnato, Lazzaro, Campane, Toto, Fra’
Lucertola, La Gatta) se ne aggiungeranno due: Bestiame ed Ecloga
fluviale.12
– Libro delle Vergini, Sommaruga, Roma 1884: dei quattro testi di cui
si compone, solo Le vergini entrerà a far parte de Le novelle della

del poeta di San Mauro, Giovanni Pascoli e Gabriele d’Annunzio, Carteggio, con
l’aggiunta dei documenti sui rapporti tra i due poeti, a cura di Emilio Torchio,
Bologna, Pàtron, 2008, oltre che a Carla Chiummo, Guida alla lettura di “Myri-
cae” di Pascoli, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. 18-25 e all’esaustiva bibliografia
su questo tema contenuta a p. 41.
10
Cfr. Chiara, Vita di Gabriele d’Annunzio, p. 27.
11
Introduzione 1, p. XI.
12
Su Terra vergine cfr. La capanna di bambusa. Codici culturali e livelli interpretativi per
“Terra vergine”, a cura di Gianni Oliva, Solfanelli, Chieti 1994.

50
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

Pescara con il titolo La vergine Orsola; rimarranno escluse: Favola


sentimentale; Nell’assenza di Lanciotto e Ad altare Dei.
– San Pantaleone, Firenze, Barbèra, 1886: delle diciassette novelle di
questa raccolta, tutte già pubblicate in sedi diverse nel biennio 1884-
1885, solo quindici saranno riproposte, alcune con titoli diversi che
si segnalano tra parentesi, ne Le novelle della Pescara: Annali d’Anna
(La vergine Anna), San Pantaleone (Gli idolatri), L’idillio della vedova
(La veglia funebre), La siesta (Il traghettatore), La morte di Sancio
Panza (Agonia), Il martirio di Giàlluca (Il cerusico di mare), I ma-
renghi, La fattura, Mungià, La guerra del ponte, L’eroe, La contessa
d’Amalfi, La fine di Candia, Turlendana ritorna e Turlendana ebro,
mentre verranno escluse Commiato, poi confluita nel Piacere, e San
Làimo navigatore, quest’ultima per la sua estraneità al modulo natu-
ralistico che caratterizza tutte le altre Novelle.
– Gli idolatri, Napoli, Pierro, 1892: ripropone tre novelle già in San
Pantaleone: Il fatto di Mascàlico (titolo originale del racconto quando
venne pubblicato sul “Fanfulla della Domenica” nel 1884, poi tra-
sformato in San Pantaleone nell’omonima raccolta e in Gli idolatri
nelle Novelle) L’eroe e Mungià.
– I violenti, Napoli, Pierro, 1892: delle tre novelle di questa raccolta,
una era ripresa da San Pantaleone (Il martirio di Giàlluca, ma qui
con il titolo Il martire e poi nelle Novelle con quello di Il cerusico di
mare) e due (La morte del duca d’Ofena e La madia) erano state già
pubblicate sul “Don Chisciotte della Mancia”; anche queste ultime
confluiranno ne Le novelle della Pescara.
– Le novelle della Pescara, Milano, Treves, 1902: questo volume tar-
do raccoglie dunque una produzione antecedente di almeno quindici
anni, anche se i testi vengono sottoposti a revisione e a interventi
variantistici di una certa entità. Delle novelle che lo compongono
quindici sono perciò tratte da San Pantaleone, una dal Libro delle
Vergini, due da I violenti.13

13
Su Le novelle della Pescara cfr. Ivanos Ciani, Storia di un libro dannunziano: “Le no-
velle della Pescara”, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975.

51
Secondo capitolo

Infine, vi sono altre 43 novelle, favole mondane, leggende, brevi storielle


umoristiche per lo più ambientate nel bel mondo e databili dal 1884 al
1888, uscite sulle pagine degli innumerevoli giornali con cui d’Annun-
zio collaborava e pubblicate successivamente in sillogi diverse, ma mai
raccolte in un’edizione organica.
Le raccolte su cui bisogna concentrarsi sono quindi Terra Vergine e le
Novelle della Pescara, perché solo queste due vennero inserite da d’An-
nunzio nell’Edizione nazionale delle sue opere. La prima, come si è anti-
cipato, rimarrà sostanzialmente immutata nel titolo e nei testi e raccoglie
le primissime prove del narratore, mentre la seconda rimescolerà, è bene
ribadirlo, i racconti già editi nel Libro delle Vergini, in San Pantaleone e
nei Violenti, escludendo solo quelle novelle, cinque in tutto, che per la
loro tematica mondana mal si conciliavano con il contesto popolare e con
l’ambientazione abruzzese.
E proprio da quest’ultimo punto si può partire, cercando di rispondere
a una domanda che nasce spontanea: perché nel 1902 d’Annunzio ri-
torna sui suoi passi, recuperando per la pubblicazione quelle novelle
che identificavano una fase ormai chiusa della sua vicenda letteraria?
Una fase che almeno apparentemente pochissimo si concilia con la sta-
gione della grande lirica alcyonia? È Annamaria Andreoli a illuminarci
su questo passaggio e sul nesso esistente tra «le novelle degli esordi
[…] improntate a un verismo di maniera, bozzettistico e locale» e la
«maturità della lirica alle soglie del nuovo secolo […] già oltre il simbo-
lismo, sintonizzata sull’élan vital del superuomo».14 Per capire tutto ciò,
sostiene l’Andreoli, non basta ricordare il riavvicinamento all’Abruzzo
occasionato da un viaggio natalizio nella propria terra d’origine datato
dicembre 1901, ma bisogna porre la massima attenzione all’officina del
poeta,15 che proprio in quei mesi stava concentrandosi sulla scrittura
di Maia (uscita poi nel maggio del 1903) e di Alcyone (pubblicata nel
dicembre dello stesso anno), il tutto inframmezzato dalla frenetica ste-

14
Introduzione 1, p. XVI.
15
Sul metodo di lavoro di d’Annunzio e sulla sua “officina” cfr. Angelo Jacomuzzi, L’of-
ficina dannunziana tra obrador e opificio, ora in Id., Una poetica strumentale: Gabriele
d’Annunzio, Torino, Einaudi, 1974, pp. 3-33.

52
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

sura della Figlia di Iorio, composta tra il luglio e l’agosto ancora del
1903. Tutte opere, e in particolar modo Alcyone e la Figlia di Iorio, che
segnano il momento in cui d’Annunzio rimette in gioco l’Abruzzo at-
tribuendogli in modo definitivo, ma con modalità linguistico-descrittive
ancora in fase di sperimentazione, le caratteristiche e i colori del mito
attraverso l’accentuazione dell’elemento folklorico.16 Non per nulla La
figlia di Iorio, favola pastorale, ambienta la storia di Mila e Aligi in uno
scenario abruzzese arcaico e serve all’autore proprio per riconnettersi
intimamente alla radice più profonda della sua terra natale, grazie a una
narrazione che pone in rilievo l’immutabilità della natura umana e l’an-
damento ciclico delle vicende che da essa scaturiscono. Non è certo un
caso, è opportuno aggiungere, se le ultime liriche alcyonie instaurano
un collegamento ideale tra una Toscana riclassicizzata e un Abruzzo che
nella lontananza dell’altrove si fa concreto simbolo di uno spazio miti-
co ancora tangibile e aperto all’esperienza diretta.17 Esiste quindi una
strettissima connessione tra la revisione linguistica e variantistica delle
novelle raccolte per Treves e la contemporanea articolazione del registro
poetico delle composizioni alcyonie, in un gioco tipicamente dannunzia-
no nel quale le ragioni della produzione passata vengono sempre riprese
e piegate alle motivazioni delle opere più recenti e il tutto viene ordinato
in una specie di eclettismo consapevole che giustifica le linee di svilup-
po dell’arte del Vate.
In questa rete di collegamenti fra le esperienze artistiche del passato, le
intenzioni artistiche del presente e le prospettive artistiche del futuro, si
inserisce anche il tema del fanciullo.
In tutte le articolazione della produzione narrativa dannunziana sono
presenti immagini di fanciulli, modulate secondo i canoni estetici al-
meno formalmente seguiti in quel momento, verista o decadente che

16
Sulle connotazioni mitiche dell’Abruzzo dannunziano cfr. Ottaviano Giannangeli,
D’Annunzio e l’Abruzzo del mito, in D’Annunzio e l’Abruzzo, Atti del X Convegno di
studi dannunziani, Pescara, 5 marzo 1988, Centro Nazionale di Studi Dannunziani,
Pescara 1988, pp. 51-67. Più in generale, sui rapporti tra d’Annunzio e l’Abruzzo
si vedano in ivi: Ettore Paratore, D’Annunzio e l’Abruzzo (pp. 5-10) e Ivanos Ciani,
L’abruzzese Gabriele d’Annunzio (pp. 11-22).
17
Cfr. Introduzione 1, pp. XVI-XVII.

53
Secondo capitolo

sia. In non pochi casi, il tema è presente in entrambe le versioni all’in-


terno della stessa opera, e di conseguenza può capitare che in un testo
improntato ai canoni del verismo, come è il caso delle novelle, si tro-
vino inserti descrittivi dai quali traspare una spiccata sensibilità ma-
cabro-decadente che trascende l’oggettività di un testo naturalistico;
o, al contrario, che in un’opera, e il pensiero va soprattutto ai romanzi,
che si rifà al decadentismo estetico tipicamente dannunziano si trovi il
tema del fanciullo racchiuso in una sorta di parentesi stilistica, decli-
nato cioè con tratti veristi che lo rendono tipologicamente avulso dal
contesto, pur mantenendo quel particolare gusto del truce e dell’orrido
che resta una costante della scrittura dannunziana.
Il primo caso risulta evidente passando in rassegna alcuni esempi
tratti dalle raccolte di novelle, partendo da Terra Vergine. In Lazza-
ro,18 brevissimo bozzetto inserito come quinto tra gli undici racconti
della silloge, viene presentata la figura di un ‘reietto’, formalmente
descritta secondo gli stilemi del verismo, ma in realtà già contrad-
distinta da una torbida icasticità che con piacere indugia sul parti-
colare ripugnante. In un contesto già così fortemente caratterizzato,
ecco emergere la figura del figlio di Lazzaro, un fanciullo che il padre
porta in giro per le piazze presentandolo come un fenomeno a causa
delle sue malformazioni. Ma in una giornata di «crepuscolo autun-
nale»,19 intrisa d’umidità e soffocata dalla pioggia, nessuno risponde
al richiamo della grancassa che invano chiama i paesani a raccolta,
e allora il motivo della fame, che già da un giorno perseguita i due
disgraziati protagonisti della vicenda, diventa pretesto per mettere
maggiormente in luce l’abnormità dei rapporti tra padre e figlio in un
quadro di assoluta decadenza morale:

18
Il personaggio di Lazzaro è rintracciabile anche nelle poesie della prima redazione
di Canto novo (1882) e, più precisamente, nei distici elegiaci della quarta lirica del
Libro quarto.
19
Gabriele d’Annunzio, Lazzaro (Terra vergine), in Id., Tutte le novelle, p. 24. Poiché tutti
i brani delle novelle qui proposti sono tratti dalla stessa fonte, nelle note successive
si darà indicazione unicamente del titolo della novella, della raccolta (tra parentesi) e
della pagina da cui è tratta la citazione.

54
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

Non aveva mangiato da un giorno; gli ultimi boccone di pane se li era ingoia-
ti la mattina il figliolo, quel mostriciattolo umano dal cranio calvo e rigonfio
come una zucca enorme; lui il ventre l’aveva vuoto più della grancassa su
cui picchiava disperatamente perché la canaglia accorresse a pagargli un
soldo per quel miracolo di figliolo. Ma non si vedeva anima viva; il bimbo
se ne stava là dentro gittato su un mucchio di panni cenciosi, con le piccole
gambe raggricchiate, tutto testa, battendo i denti nel ribrezzo della febbre,
mentre i rimbombi gli davano spasimi alle tempie.20

La prospettiva disumanizzante dalla quale Lazzaro vede il figlio, non


destinatario di naturali sentimenti paterni, ma puro strumento di ‘lavoro’
utile solo a raccattare quel minimo necessario alla sopravvivenza di en-
trambi, viene potenziata nell’immagine finale del fanciullo, nonostante
il dolore che da essa promana, che si oggettiva in qualcosa di indistinto,
che non ha più forma umana: «Si voltò due o tre volte a guardare quell’i-
gnobile straccio di carne vivente, che alenava là per terra, e s’incontrò in
uno sguardo supremo di dolore».21
Una situazione diametralmente opposta, anche se ugualmente dramma-
tica, emerge dalla novella Toto, nella quale il protagonista eponimo e la
sua piccola compagna, Ninnì, sono l’emblema della solidarietà infantile
che, da sola, combatte contro la crudeltà del mondo degli adulti – sim-
boleggiata dai briganti che tagliano la lingua al maschietto – e contro
l’indifferenza del consorzio umano in generale. Una solidarietà tra ‘pri-
mitivi’, questa di Toto e Ninnì, quasi ancestrale, che porta i due fanciulli
a riconoscersi e condividere le miserie delle rispettive condizioni. Toto
è il fanciullo-animale, frutto di una trasformazione – spesso riscontra-
bile nella narrativa dannunziana e che generalmente viene applicata a
tutti i soggetti, infanti o anziani, uomini o donne, provenienti dalle clas-
si popolari, in particolar modo contadine – per la quale la particolare
vicinanza di questi individui allo stato di natura tende a renderli più
simili alle bestie che agli esseri umani. Si veda come viene presentato
Toto: «Quest’altro era una specie di orsacchiotto, forse disceso già al

20
Ibid.
21
Ivi, pp. 24-25.

55
Secondo capitolo

piano da qualche forra querciosa della Maiella, con quel viso sudicio,
con quei cappellacci neri ispidi sulla fronte, con que’ due occhiettini
tondi, giallastri come il fiore dell’edera, che non istavano mai fermi»,22
mentre più oltre viene paragonato prima a un mastino, per i versi che fa
con la bocca che ne rammentano l’uggiolare, e poi a un gatto, per come
si fa accarezzare,23 che pur nella sua selvatichezza rimane avvinto dalla
naturale bontà di Ninnì e le si offre con una dedizione assoluta. Quest’ul-
tima, invece, è la fanciulla-angelo, una «bambina magra, tutt’occhi, con
il viso pieno di lentiggini e un ciuffo di capelli biondicci sulla fronte»24
che riesce a vincere il ribrezzo che prova ogni volta che intravede il moz-
zicone di lingua che guizza nella bocca di Toto grazie all’amore fraterno
che l’avvicina a quello che ben presto diventa il suo cavaliere-protettore.
Un destino di morte per il freddo e per gli stenti aspetta però Ninnì, una
volta che sarà giunto l’inverno e che i due piccoli vagabondi non trove-
ranno più sostentamento nelle loro scorribande per le campagne riarse
di un Abruzzo quasi primordiale nel quale d’Annunzio li colloca. Ed
ecco allora che Toto subirà un’ulteriore metamorfosi animalesca, trasfor-
mandosi, a causa del dolore lancinante per la perdita di colei che unica
aveva saputo stargli vicino, in un lupo che, anche lui mortalmente ferito,
vaga senza meta nella tempesta finché le forze non lo abbandonano:

Gittò un grido che pareva gli si fosse spezzata una vena del petto; poi strinse
più forte quel corpicciuolo inanimato, e andò, andò, nella bassura fonda, in
mezzo ai turbini dei fiocchi, in mezzo agli ululi della raffica, ferocemente,
come un lupo digiuno; andò, andò, fin che non gli s’irrigidirono i muscoli,
fin che non gli si ghiacciarono le vene. Allora cadde di stianto, sempre col
cadaverino al petto. E li ricoperse la neve.25

22
Toto (Terra vergine), p. 32. Come hanno ben dimostrato Rossella Daverio e Carla Fer-
ri, fortissimi sono i richiami di questa novella a Jeli il pastore sia per la descrizione
dei due giovani protagonisti sia per alcuni elementi del contesto socio-ambientale nel
quale è inserita la vicenda. Cfr. Rossella Daverio - Carla Ferri, Echi verghiani in
Terra vergine, in “Quaderni del Vittoriale”, 8, 1978, pp. 41-52.
23
Toto (Terra vergine), p. 33.
24
Ibid.
25
Ivi, p. 37.

56
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

Pure ne La Gatta e in Egloga fluviale vi sono figure di fanciulli. Nei due


racconti il lemma «fanciullo» è riscontrabile otto volte, una nel primo
racconto, sette nel secondo, ma in entrambi i casi la definizione è deci-
samente ambigua, nel senso che i personaggi tratteggiati sono più adole-
scenti che fanciulli o, come nel caso del secondo racconto, sono fanciulli
che si stanno trasformando in adolescenti perché si vanno aprendo al
mondo della sessualità. Nelle novelle di Terra vergine sono quindi il ter-
mine bambina (sei volte su sette lo si trova in Toto) o il termine «bimbo»
(due ricorrenze in Lazzaro e una in Toto su un totale di cinque) a identi-
ficare il più delle volte una fanciulla o un fanciullo tra i sei e gli undici/
dodici anni.
Progettate all’inizio del Novecento recuperando e variando ampiamente
novelle già pubblicate nelle raccolte precedenti già ricordate – le ultime,
Gli idolatri e I violenti, entrambe del 1892, messe insieme per motivazio-
ni puramente economiche – le Novelle della Pescara hanno la peculiarità
di riprendere il genere narrativo con il quale d’Annunzio si è affacciato
all’universo della prosa, la novella appunto, riproposto alla luce dell’in-
dubbia maturazione artistica raggiunta dallo scrittore grazie alla sua or-
mai più che ventennale esperienza letteraria e, aspetto non secondario,
del mutamento della sua sensibilità estetica. Già si è ricordato come il
verismo sul quale erano state ricalcate le novelle dei primi anni Ottanta
fosse più di maniera che di sostanza: ora, come testimonia anche la cor-
rispondenza con il Treves o quella con l’Hérelle, si fa sempre più forte
la tendenza a distaccarsi ancora di più dai toni naturalistici e scientifici
delle versioni originali.26 Fondamentale, per questo aspetto, è ovviamen-
te la corrispondenza tra la rielaborazione dei testi delle novelle da in-
serire nella nuova raccolta e la stesura dei primi libri delle Laudi, che
se non tematicamente, hanno però un peso determinante nella revisione
linguistica, e di conseguenza nelle scelte lessicali, dei testi narrativi.
Anche per le Novelle, come per i racconti citati di Terra vergine, non
è sempre facile isolare la categoria del «fanciullo» perché d’Annunzio

26
Cfr. Annamaria Andreoli, Note, in d’Annunzio, Tutte le novelle, pp. 837-1059, 882
(d’ora in poi Note 1) e il capitolo intitolato Da «Episcopo et Cie» alle «Novelle della
Pescara» in Ciani, Storia di un libro dannunziano, pp. 93-143.

57
Secondo capitolo

tende a sfumarla semanticamente in quella di «infante» o, all’opposto, in


quella di «adolescente». Si veda il caso della novella Il traghettatore. In
essa si trova la descrizione di alcuni «bambini» che, inserendosi in un
ormai consolidato filone descrittivo, vengono mostrati come rappresen-
tanti emblematici di una condizione di endemica povertà e miseria non
solo materiale ma, soprattutto, morale. In ciò d’Annunzio è ovviamente
ben lontano da qualsiasi intenzione di denuncia sociale, mentre risulta
evidente il compiacimento che sempre si riscontra nell’autore quando
si sofferma su questo determinato tipo di realtà, tipica non solo del pa-
norama abruzzese, ma di tutto il mondo contadino di quegli anni. Dalla
descrizione che ne viene fatta, tuttavia, non si riesce a capire se i piccoli
descritti siano fanciulli o infanti, anche se il fatto che si trascinino a
terra, «borbottando» e «brancicando» farebbe pensare più ai secondi
che ai primi:

La casa era bassa ed oscura; ed aveva quell’odor particolare che hanno tutti
i luoghi dove molta gente agglomerata vive. Tre o quattro bambini nudi,
anch’essi col ventre così gonfio che parevano idropici, si trascinavano sul
suolo, borbottando, brancicando, portando alla bocca per istinto qualunque
cosa capitasse loro sotto le mani. Mentre Donna Laura seduta riprendeva
le forze, la femmina parlava oziosamente, tenendo fra le braccia un quinto
bambino, tutto coperto di croste nerastre tra mezzo a cui si aprivano due
grandi occhi, puri ed azzurri, come due fiori miracolosi.27

Più chiaro risulta, invece, il caso dei fanciulli descritti in Mungià. Il fatto
che questo racconto sia stato definito da Anco Marzio Mutterle uno «splen-
dido idillio», non impedisce di ritrovare al suo interno elementi che poi
verranno riutilizzati nelle pagine dedicate alla visita al santuario di Casal-
bordino nel Trionfo della morte,28 di cui si parlerà tra poco, così come non

27
Il traghettatore (Novelle della Pescara), p. 256.
28
E infatti lo stesso studioso aggiunge poco dopo: «E si riguardino le pagine di stra-
ordinaria raffigurazione dei mostri degenerati che costituiscono l’umile pubblico di
Mungià: forme ereditate da tempi remoti, stereotipi prodotti dalla corruzione mate-
riale, ma comunque destinati a rimanere per sempre, al di là degli oggetti singoli che
rivestono, senza possibilità di essere mutati o penetrati», in Anco Marzio Mutterle,
La novellistica, in D’Annunzio a cinquant’anni dalla morte, Atti dell’XI Convegno

58
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

impedisce che come repertorio di immagini e situazioni che sottendono a


tutta la raccolta ci siano gli studi etnografici di Antonio De Nino,29 dimo-
strazione di come d’Annunzio, pur allontanandosi dalle fonti “scientifiche”
della sua primitiva ispirazione verista, non rinneghi mai completamente le
scelte artistiche del passato, piegandole piuttosto alle esigenze estetiche
del presente. Anche in questo caso, come nel precedente del racconto Il
traghettatore, il contesto nel quale sono inserite le figure dei fanciulli è
quello dei misérables delle campagne, ed è proprio nella rappresentazione
delle sofferenze imposte a un’infanzia senza speranza che si esprime al
livello più alto la drammaticità della condizione di questa classe sociale:

Quasi sempre i mendicanti allora gli fanno cerchia. Uomini con le membra
slogate, gobbi, storpi, epilettici, lebbrosi; vecchie piene di piaghe, o di cro-
ste, o di cicatrici, senza denti, senza cigli, senza capelli; fanciulli verdognoli
come locuste, scarni, con gli occhi selvaggi degli uccelli di rapina, con la
bocca già appassita, taciturni, che covano nel sangue un morbo eredita-
rio; tutti quei mostri della povertà, tutti quei miserevoli avanzi d’una razza
disfatta, quelle cenciose creature di Gesù, vengono a fermarsi in torno al
cantore e gli parlano come a un eguale.30

Nel gusto insistito per il particolare scabroso, emerge l’immagine di


un’intera umanità priva di qualsiasi futuro, perché proprio coloro che
dovrebbero garantirglielo, i «fanciulli», sono depositari di una tara ere-
ditaria, «avanzi d’una razza disfatta», che elimina qualsiasi prospettiva
di miglioramento. Sono i fanciulli/massa, emblema di quel «grigio dilu-
vio democratico»31 che tanto atterriva la borghesia europea in generale e
italiana in particolare dopo il trauma della Comune parigina e che non a

internazionale di studi dannunziani (Pescara, 9-14 maggio 1988), Pescara, Fabiani,


1989, 2 voll., vol. I, pp. 265-277, 275.
29
Cfr. Antonio De Nino, Usi e costumi abruzzesi, Firenze, Bàrbera, 6 voll., 1879-1897;
Id., Proverbi abruzzesi, L’Aquila, Forcella, 1877 e Id., Il Messia dell’Abruzzo. Saggio
biografico-critico, Lanciano, Carabba, 1990.
30
Mungià (Novelle della Pescara), p. 320.
31
D’Annunzio, Il piacere, in Id., Prose di romanzi, edizione diretta da Ezio Raimondi, a
cura di Annamaria Andreoli, introduzione di Ezio Raimondi, Milano, Mondadori, 4a
ed., 2000, 2 voll., vol. I, pp. 1-358, 34.

59
Secondo capitolo

caso vengono qualificati come «locuste» e «uccelli da rapina», secondo


il consueto modo dannunziano di affiancare animali ed esseri umani per
enfatizzare le qualità teratologiche dei secondi.
Caratteristiche completamente differenti hanno invece i fanciulli evocati
nel racconto intitolato La vergine Orsola. In questo caso, infatti, fulcro
della novella è l’immagine di due sorelle «vergini» – Orsola e Camilla
– che hanno votato la loro vita alle pratiche cristiane e all’educazione
della gioventù. Incentrando il racconto sulla figura di Orsola, d’Annun-
zio mette in scena un cattolicesimo fanatico nel suo ascetismo mortifi-
catore, magniloquente nelle sue espressioni liturgico-rituali e barocco
nella sensualità delle sue manifestazioni devozionali verso un articolato
e per certi aspetti paganeggiante mondo di immagini di Cristo, della Ma-
donna e dei santi.32 Una religiosità torbida e carnale, quella delle due
sorelle, che porterà Orsola, attraverso l’iniziale passaggio iniziatico della
malattia, ad abbandonare tutti i freni inibitori che si era imposta sino a
quel momento per scoprire la violenta e travolgente sensualità della vita
vera, a darsi a una relazione illecita, a rimanere incinta e, alla fine della
parabola tragica della sua vicenda, ad abortire per strada e a morire sola,
per le conseguenze di questo trauma, in casa di una conoscente. Immagi-

A questo proposito, irrinunciabile risulta il raffronto con tutta la Parte VIII de Il


32

Gattopardo, e in modo particolare con quelle pagine che nell’Indice analitico del
romanzo sono raggruppate sotto il titolo Il quadro e le reliquie, nelle quali viene de-
scritto l’oratorio delle tre figlie rimaste nubili di Don Fabrizio – Carolina, Caterina
e Concetta – con il quadro della presunta Madonna che sovrasta l’altare e le settan-
taquattro reliquie che ornano le due pareti di fianco a quest’ultimo. Più che sulle
reliquie, l’ironica penna di Tomasi di Lampedusa si sofferma sulla descrizione delle
cornici che le contengono, smascherando attraverso questo procedimento metonimico
l’idolatria ai limiti dell’eretico della religiosità delle tre sorelle e conferendo all’insie-
me la grandiosità macabra di una scenografia barocca: «Vi erano cornici di argento
scolpito e di argento liscio, cornici di rame e di corallo, cornici di tartaruga; ve ne
erano di filigrana, di legni rari, di bosso, di velluto rosso e di velluto azzurro; grandi
e minuscole, ottagonali, quadrate, tonde, ovali; cornici che valevano un patrimonio e
cornici comperate ai magazzini Bocconi; tutte amalgamate, per quelle anime devote,
ed esaltate dal loro religioso compito di custodi dei soprannaturali tesori», in Giuseppe
Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, in Id., Opere, introduzione e premessa di Gioac-
chino Lanza Tomasi, Milano, Mondadori, 5a ed. accresciuta e aggiornata, 2004, pp.
3-268, 249-250.

60
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

ne contrastiva, ma con un sostrato di forte ambiguità, all’erompere della


sessualità nella «vergine» sono proprio le figure dei «bimbi compitanti in
coro ad alta voce per cinque ore del giorno le parole scritte col gesso su
la lavagna».33 Se da un lato, infatti, l’innocenza di queste creature serve
all’autore per mettere ironicamente in rilievo i turbamenti della donna,
dall’altro proprio i fanciulli rappresentano per Orsola il costante richia-
mo alla noiosa ripetitività della sua vita prima della malattia. Entrambi
questi aspetti, già presenti nel brano appena citato, vengono sviluppati
e si allargano a dismisura nel prosieguo della narrazione. D’Annunzio si
concentra infatti sul contrasto tra l’estenuazione dello spirito alla quale
si sono ridotte Orsola e Camilla a causa dell’aridità della loro esistenza
e l’innocente dolcezza vitale delle creature che sole sono ammesse nello
spazio domestico delle due sorelle:

Avevano stupefatto lo spirito in quell’esercizio arido e lungo di sillabazione,


in quel freddo distillìo di parole, in quell’opra macchinale dell’ago e del
filo su le eterne tele bianche odoranti di spigo e di santità. Mai le loro mani
cercarono la dolcezza delle chiome infantili, il tepore di quel biondo ange-
lico; mai le loro labbra cercarono la fronte dei discepoli, in una effusione di
tenerezza improvvisa. Insegnavano la piccola dottrina, i piccoli canti della
religione; facevano prostrare tutte quelle teste gioconde lungamente sotto le
ammonizioni quaresimali; parlavano del peccato, degli orrori del peccato,
delle pene eterne, con la voce grave, mentre tutti quei grandi occhi si em-
pivano di meraviglia e tutte quelle bocche rosee si aprivano allo stupore.
Intorno, per le fantasie vive dei fanciulli le cose si animavano: dal fondo dei
vecchi quadri uscivano certi profili giallognoli di Santi misteriosi; e il Naza-
reno cinto di spine e di stille sanguigne guardava da ogni parte con gli occhi
agonizzanti, perseguitando; e su per la gran cappa del camino ogni macchia
di fumo prendeva una forma atroce. Così infondevano esse la fede in quelle
anime inconsapevoli.34

La «dolcezza delle chiome infantili», il «tepore di quel biondo angeli-

La vergine Orsola (Le novelle della Pescara), pp. 87-88.


33

Ibid.
34

61
Secondo capitolo

co»,35 l’intoccata purezza della «fronte dei discepoli» con le loro «teste
gioconde» e con i loro «grandi occhi» che illuminano di stupefatta me-
raviglia le loro «anime inconsapevoli» tratteggiano con malcelata ironia
l’immagine di tanti piccoli angeli che, nonostante l’ostinazione delle due
educatrici ad inculcare in loro i dettami di una religiosità greve e puni-
tiva, rimangono ostinatamente legati alla vita che scorre fuori dalle tristi
stanze dove sono costretti «per cinque ore del giorno». Testimonianza ne
siano quelle «bocche rosee» che sembrano appunto farsi beffe di tutti gli
orrori con i quali Orsola e Camilla vorrebbero annichilirli e che, di con-
seguenza, danno l’impressione di prendersi gioco anche delle due zitelle
e dello squallore della loro esistenza. Allo stesso tempo, la presenza dei
fanciulli e, ancora di più, la metodologia didattica alla quale vengono
sottoposti diventano pretesto per mettere in rilievo la mortifera staticità
della vita di Orsola attraverso un uso che si potrebbe definire fonosimbo-
lico della sillabazione dei piccoli allievi. L’iterazione ossessiva di questo
elemento nella parte finale del capitolo quinto della novella si trasforma
in un crudele ritornello che fa da contraltare all’angoscia montante della
protagonista e al senso di claustrofobica soffocazione che la travolge, se-
gno evidente di una disciplina andata in frantumi e del desiderio sempre
più forte di evadere da una casa-eremo trasformatasi in insopportabile
prigione:

Poi la lezione, nell’altra stanza, cominciò. La prima classe diceva a voce


alta le vocali e i dittonghi, la seconda sillabava; e su quel coro chiarissimo a
tratti si levava l’ammonimento di Camilla.
- La, le, li, lo lu...
Negli intervalli di silenzio, si udiva Matteo Puriello picchiare su le suola o
il telaio della Iece sbattere.

Per Guy Tosi il sintagma «biondo angelico» deriverebbe a d’Annunzio da Madame


35

Gervaisais dei fratelli Goncourt e più precisamente, come ricorda anche l’Andreoli
(Note 1, p. 895), dai momenti nei quali la protagonista guarda dormire «la grâce de
son enfant» e abbraccia il suo «premier sommeil». Cfr. Guy Tosi, D’Annunzio, le
réalisme et le naturalisme français, in D’Annunzio giovane e il verismo, Atti del 1°
Convegno internazionale di studi dannunziani (Pescara, 21-23 settembre 1979), s.l.,
s.n., 1981, pp. 59-127, p. 80.

62
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

- Va, ve, vi, vo, vu...


[…]
Orsola si ritrasse: era la prima volta, dopo tanto, che si affacciava su la piaz-
za. Le parve di essere in alto in alto, guardando in giù; la prese una leggera
vertigine.
- Nar, ner, nir, nor, nur...
II coro dentro seguitava, ancóra, ancóra, ancóra.
- Pla, ple, pli, plo, plu...
Orsola si sentiva soffocare, venir meno, a quella tortura: i suoi poveri nervi
indeboliti cedevano. Il coro seguitava, al ritmo della bacchetta di Camilla
battuta sul tavolino, implacabile.
- Ram, rem, rim, rom, rum...
- Sat, set, sit, sot, sut...
Allora un impeto subitaneo di singhiozzi squassò la convalescente, l’abbatté
sul letto. Ella singhiozzava, così, bocconi, a braccia aperte, premendo la
faccia su i guanciali, scossa dai sussulti, senza potersi frenare.
- Tal, tel, til, tol, tul...36

La concomitanza delle caratteristiche del fanciullo angelico con quelle


del fanciullo martoriato nel fisico dall’indigenza e dalla natura possono
essere ritrovate nel personaggio di Ciro, protagonista del bozzetto La ma-
dia. Il piccolo – storpio, o meglio «stroppiatino»37 come viene definito
nel racconto, e muto – vive con la matrigna e con un fratello (o fratella-
stro?38) presumibilmente della stessa età chiamato Luca che, costretto
a letto da un’orribile ma non meglio precisata malattia, lo odia, forse
perché crede che gli abbia lanciato il malocchio, e chiede alla donna
non solo di non dargli da mangiare, Ciro è digiuno da due giorni, presu-
mibilmente da quando è iniziata l’infezione del fratello, ma addirittura di
scacciarlo di casa. Modellato sulla figura dello storpio ridotto alla fame e
picchiato a morte per un tentato furto di cibo rintracciabile nel racconto
Le gueux di Maupassant e calco per la descrizione di Luchino nel Trion-

36
La vergine Orsola (Le novelle della Pescara), pp. 92-93.
37
La madia (Novelle della Pescara), p. 313.
38
Nonostante d’Annunzio lo definisca sempre «fratello», pare in effetti più plausibile
per la logica del racconto e per la meccanica delle passioni che lo governano che
Luca non abbia alcuna consanguineità con Ciro, bensì solo una parentela acquisita.

63
Secondo capitolo

fo della morte, il personaggio di Ciro riassume in sé le caratteristiche


tipiche dei fanciulli rappresentati da d’Annunzio nelle novelle, perché a
compensare gli attributi negativi già citati, l’essere storpio e muto, e altri
che man mano si aggiungono, interviene una particolare mitezza d’animo
testimoniata dalla dolcezza e bellezza degli occhi: «Egli era mingherli-
no, con una grossa testa pesante. I capelli erano così biondi che quasi
parevan bianchi. Gli occhi eran dolci come quelli d’un agnello, azzurri
fra le lunga ciglia chiare».39 Il piccolo storpio è dunque mite come un
agnello, e del cucciolo della pecora non condivide solo la mansuetudine,
ma purtroppo anche il destino. Verrà infatti sacrificato dal fratello, che
lo ucciderà in uno scatto d’ira nel momento in cui lo scoprirà a rovistare
nella madia in cerca di un tozzo di pane con il quale calmare i morsi
della fame. In questa novella è evidentemente presente una dicotomia
della figura del fanciullo, perché i personaggi che si contrastano, Ciro e
Luca, diventano icona delle categorie morali oppositive di bene e male.
Alla cieca, irrazionale e immotivata brutalità con la quale Luca respinge
il fratello e, successivamente, lo uccide non viene data alcuna giustifica-
zione da parte di d’Annunzio, delegando al lettore il compito di trovarle,
se vuole, un motivo, come per l’ipotesi già menzionata del malocchio,
ma con l’intento evidente di lasciare la questione indeterminata per at-
tribuirle una valenza atavica, sorta di un richiamo mitico alla vicenda
di Caino e Abele di biblica memoria. Non per nulla, è proprio in Luca,
simbolo del male assoluto, che si concentrano quelle caratteristiche rac-
capriccianti di cui d’Annunzio fa largo uso in tutta la raccolta per de-
scrivere i poveri e, in particolare, i bambini poveri: il fanciullo malato
ha occhi «ardenti e torbidi» in una faccia «estenuata dalla sofferenza,
divorata dalla febbre, sparsa di bolle rossastre», nella quale insiste una
«bocca gonfia», adagiata su un mento sfigurato da «bolle riseccate» che
«gli formavano come una crosta che si screpolava e sanguinava ad ogni
sforzo».40 Una figura devastata, quella di Luca, che sembra accogliere
in sé tutta l’insensatezza di una vita che ha nel caos il suo motore prin-
cipale e di una natura che, leopardianamente, fa della violenza cieca e

La madia, (Novelle della Pescara), p. 311.


39

Ibid.
40

64
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

indifferente la regola basilare del suo eterno persistere nell’alternanza di


costruzione e distruzione.

2.2.2 Il Trionfo della morte


Il Trionfo della morte,41 romanzo dal titolo petrarchesco che nella
prima redazione venne designato come L’invincibile, costò all’autore
quattro anni di lavoro.42 Il lungo periodo di elaborazione fa sì che in
quest’opera si possano rintracciare momenti diversi, e in parte anche
contrastanti, dell’evoluzione intellettuale e artistica di d’Annunzio:43
concepito, infatti, all’ombra dell’estetismo raffinato caratteristico di
Andrea Sperelli – Il Piacere è del 1889 – il Trionfo della morte risente
pesantemente delle letture ulteriori e variegate che il Pescarese com-
pie in quegli anni e grazie alle quali non solo conosce autori fonda-
mentali del panorama decadente europeo, ma riesce anche a riscoprire
e valorizzare le proprie ormai disconosciute radici naturalistiche.44 Il
romanzo si apre con l’annuncio del destino che al termine della vicen-
da toccherà a Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio: la morte. L’incontro
al Pincio tra i due amanti, infatti, viene funestato dallo spettacolo di
un giovane suicida che si è appena gettato dal parapetto dei giardini
nella strada sottostante.45 Tutto il romanzo, d’altro canto, è costellato
da personaggi evocativi della morte o da scene di morte vera e propria,
nelle quali spesso i protagonisti sono fanciulli innocenti, particolare
che contribuisce ad amplificare efficacemente l’effetto tragico di questi

41
Per quest’opera cfr. Trionfo della morte, Atti del III Convegno internazionale di studi
dannunziani. Pescara, 22-24 aprile 1981, a cura di Edoardo Tiboni e Luigia Abrugia-
ti, Pescara, Centro nazionale di studi dannunziani, 1983.
42
D’Annunzio, infatti, iniziò la stesura del romanzo nel 1890, anche se esistono alcu-
ne testimonianze che farebbero risalire le prime prove de L’invincibile al 1889. Cfr.
Maria Giulia Balducci, Introduzione, in G. d’ANNUNZIO, Trionfo della morte, Milano,
Mondadori, 1995, pp. V-XXXVI, IX.
43
Cfr. ivi, pp. VI-VII.
44
Cfr. ivi, p. XVIII. Sulle fonti dannunziane e sul loro uso cfr. anche Mario PRAZ,
D’Annunzio e “l’amor sensuale della parola”, in La carne, la morte e il diavolo nella
letteratura romantica, Firenze, Sansoni, 1996, pp. 379-428.
45
D’Annunzio, Trionfo della morte, in Id., Prose di romanzi, vol. I, pp. 637-1019, 645 ss.
Da questa edizione verranno tratti i brani citati.

65
Secondo capitolo

momenti narrativi: la fine del figlio di Liberata, il «bimbo succhiato


dalle streghe»;46 quella del fanciullo annegato sulla spiaggia di fronte
all’eremo dei due amanti;47 oppure la descrizione di Luchino, nipote
di Giorgio, bambino gracile e malaticcio sicuramente non destinato a
una lunga vita e il cui riposo notturno richiama apertamente il sonno
eterno.48 Inoltre, il secondo libro del romanzo, dedicato al soggiorno
di Giorgio a Guardiagrele, suo paese natale, si apre con la scena della
morte di don Defendente Scioli e del suo funerale,49 mentre non biso-
gna dimenticare che uno dei motivi del fascino esercitato da Ippolita
su Giorgio è dovuto alla sua omonimia con una sorella del protagonista
scomparsa prematuramente.50 La morte come Leitmotiv dell’opera,51
dunque, che accompagna Giorgio lungo l’intero tratto finale del suo
cammino di inetto costituzionalmente inabile a vivere. Perché Giorgio
è veramente un essere inadatto all’esistenza, e nonostante si illuda di
amarla, di possederla, di potervisi immergere fino in fondo, è tuttavia
predestinato solo alla morte e a seguire il cammino verso il suicidio
già percorso dallo zio Demetrio,52 non a caso considerato dal nipote
come vero padre e guida spirituale di un’esistenza tutta inconsciamen-
te dedicata ad assecondare la spinta verso l’auto-distruzione. D’altro
canto, verso la maggior parte dei suoi consanguinei Giorgio non ha
un comportamento da adulto responsabile che vuole cercare di dare

46
Ivi, pp. 828-835.
47
Cfr. ivi, pp. 957-958.
48
Cfr. ivi, p. 740.
49
Cfr. ivi, rispettivamente pp. 708-709 e 711-713.
50
Cfr. ivi, p. 674.
51
Come ricorda Ezio Raimondi, «il sistema compositivo [del romanzo] restava più che
mai quello “sinfonico” dei Leitmotive, che rendeva possibile oltre tutto, in un romanzo
che si formava a pezzi, a scomparti disgiunti, la loro aggregazione concertante senza
l’obbligo di una maglia diegetica a forti nessi consecutivi», in Ezio Raimondi, Introdu-
zione, in d’Annunzio, Prose di romanzi, vol. I, pp. XI-XLII, XXXVII-XXXVIII.
52
Lo zio Demetrio, così come altri familiari di Giorgio dei quali si tratterà di seguito – il
padre, la madre e la zia Gioconda – sono personaggi modellati, almeno, in parte sui
corrispondenti familiari di d’Annunzio; in particolare, lo zio Demetrio e la zia Gio-
conda sono ispirati rispettivamente a Vincenzo e a Maria Rapagnetta, zii del poeta da
parte di padre. Cfr. Vito Moretti, D’Annunzio pubblico e privato, Venezia, Marsilio,
2001, pp. 56 (per il padre), 66 (per lo zio Demetrio), 80 e 89 (per la zia Gioconda).

66
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

un contributo positivo alle vicende familiari, bensì da fanciullo indi-


spettito e ritroso, che dietro il fastidio per l’intervento che gli viene
richiesto dalla madre nasconde la paura di immergersi nel caotico ab-
braccio della vita e di lasciarsi travolgere da individui – tra i quali il
padre – situazioni e ambienti oramai incompatibili con la sua finezza
di raffinato intellettuale cittadino, ma, soprattutto, inconciliabili con
quell’egotismo autoreferenziale che è la caratteristica principale del
suo carattere. Rivelatrice, a questo proposito, è una piccola frase posta
nel primo capitolo del Libro secondo, quello appunto dedicato al ritor-
no in famiglia, a Guardiagrele. Appena giunto nel paese natale, este-
nuato dal viaggio, Giorgio riabbraccia la madre che l’ha convocato e,
nell’abbandonarsi a questo gesto, piange «come un fanciullo»,53 quasi
non fosse lui a dover confortare e aiutare la genitrice, ma il contrario.
Questa ‘debolezza’ costituisce il perno del carattere dell’Aurispa e da
essa dipendono tutte le sue altre manifestazioni. In fondo, anche l’in-
sistenza con la quale si rimarca l’incompatibilità tra la sensibilità di
Giorgio e la cruda, indifferente violenza dei comportamenti di alcuni
dei suoi parenti – come il padre e il fratello Diego – non ha altro signi-
ficato se non quello di enfatizzare l’inferiorità vitale del primo rispetto
ai secondi e di accentuare l’inconsistenza di una personalità che può
forse mascherarsi e venir fraintesa in un contesto sociale come quello
cittadino, ma che, invece, in un mondo ancora ‘primitivo’ e basato su
poche e semplici leggi mostra tutti i suoi limiti. Proprio come se quella
di Giorgio fosse una personalità ancora in formazione o la cui forma-
zione è rimasta bloccata in uno stadio di pre-maturità. Proprio come se
fosse un fanciullo, insomma.
La figura del fanciullo diventa quindi un elemento topico per questo
romanzo, perché ha il duplice compito di riflettere e amplificare simboli-
camente entrambi i temi evocati sinora: la morte e l’inettitudine a vivere.
Prima di addentrarsi maggiormente nell’analisi del Trionfo della morte, è
però opportuno fare un passo indietro e dedicare qualche osservazione al
Piacere, perché anche in questa prima e sublime costruzione romanzesca
si possono trovare alcune immagini di fanciulli o pre-fanciulli. Per queste

D’Annunzio, Trionfo della morte, p. 705.


53

67
Secondo capitolo

particolari figure ci si trova qui in una fase di transizione, nella quale da


un lato si riprendono gli stilemi già ampiamente utilizzati nelle novelle,
mentre dall’altro si sperimentano timide aperture verso nuovi modelli di
rappresentazione dello stesso tema che poi verranno sviluppati con mag-
gior forza nel Trionfo. Più in specifico, il romanzo del 1889 presenta al-
cuni quadri di vita popolare, o, forse meglio, di ambiente sottoproletario
romano, che non hanno un particolare senso nell’economia del racconto
se non li si inquadra in una sorta di disegno contrappuntistico dell’auto-
re, ovvero nell’intenzione dannunziana di far meglio risaltare l’esclusiva
bellezza del mondo sperelliano mettendola a contrasto con la ripugnante
bassezza di una realtà ‘altra’ che assedia e sembra minacciare con sempre
maggior virulenza il predominio e i privilegi di «quella special classe di
antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione
una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza e di arte».54 È
per questo che d’Annunzio recupera elementi tipici della sua precedente
fase ‘verista’, dimostrando con ciò, e contrariamente a quanto si potrebbe
pensare, che nella sua evoluzione artistica esiste una sotterranea linea di
continuità resistente anche ai più forti cambiamenti di prospettiva esteti-
ca. Ecco dunque il brano in questione, inserito all’inizio del primo capitolo
del Libro primo, nel momento in cui Andrea ricorda il lungo commiato con
Elena avvenuto due anni prima a Porta Pia. Dopo una lunga scena nella
quale il protagonista, in un incatenarsi di flashback sottolineati dall’os-
sessiva iterazione dell’interrogativo «Ti ricordi?», cerca di far desistere
l’amante dal partire, quest’ultima, estenuata dalla situazione, chiede di
entrare in osteria per avere un poco d’acqua:

Elena, sollevandosi, disse:


- Andiamo. Ho sete. Dove si può chiedere acqua?
Si diressero allora verso l’osteria romanesca, passato il ponte. Alcuni carret-
tieri staccavano i giumenti, imprecando ad alta voce. Il chiaror dell’occaso
feriva il gruppo umano ed equino, con viva forza.
Come i due entrarono, nella gente dell’osteria non avvenne alcun moto di
meraviglia. Tre o quattro uomini febbricitanti stavano intorno a un braciere

54
D’Annunzio, Il piacere, p. 34.

68
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

quadrato, taciturni e giallastri. Un bovaro, di pel rosso, sonnecchiava in un


angolo, tenendo ancóra fra i denti la pipa spenta. Due giovinastri, scarni e
biechi, giocavano a carte, fissandosi negli intervalli con uno sguardo pieno
d’ardor bestiale. E l’ostessa, una femmina pingue, teneva fra le braccia un
bambino, cullandolo pesantemente.
Mentre Elena beveva l’acqua nel bicchiere di vetro, la femmina le mostrava
il bambino, lamentandosi.
- Guardate, signora mia! Guardate, signora mia!
Tutte le membra della povera creatura erano di una magrezza miserevole; le
labbra violacee erano coperte di punti bianchicci; l’interno della bocca era
coperto come di grumi lattosi. Pareva quasi che la vita fosse di già fuggita
da quel piccolo corpo, lasciando una materia su cui ora le muffe vegetavano.
– Sentite, signora mia, le mani come sono fredde. Non può più bere; non può
più inghiottire; non può più dormire...
La femmina singhiozzava. Gli uomini febbricitanti guardavano con occhi
pieni di una immensa prostrazione. Ai singhiozzi i due giovinastri fecero un
atto d’impazienza.55

La Roma dannunziana è uno spazio fatto di soglie, basta una lieve di-
strazione per attraversarne una e ritrovarsi in un mondo completamente
diverso e, come in questo caso, ostile. Quella rappresentata in questa bre-
ve citazione è una realtà fatta di sofferenza (gli uomini febbricitanti) e di
indifferenza (la mancanza di curiosità verso Andrea ed Elena), di sopraf-
fazione (i due giovinastri «scarni e biechi» con «sguardo pieno d’ardor be-
stiale») e malattia.56 Emblema supremo di quest’ultima non può che essere
un’infanzia derelitta che funge da capro espiatorio per la maledizione che
sembra insistere su questa specifica parte di umanità. Le tre righe dedica-
te alla descrizione della piccola creatura ammalata sono un capolavoro di
sadica icasticità descrittiva e, insieme, di gusto barocco per il particolare
ripugnante. E il fatto che quello descritto possa in realtà non essere pro-
prio un fanciullo tra i sei e gli undici/dodici anni, ma un bambino più pic-

Ivi, pp. 10-11.


55

L’intera scena, come quella del commiato fra Andrea ed Elena che le fa cornice, è
56

ricalcata dalla novella Frammento (in “Fanfulla della Domenica”, 22 marzo 1885),
poi inserita in San Pantaleone con il titolo, appunto, di Commiato e infine confluita,
con lievissime varianti, nel Piacere.

69
Secondo capitolo

colo, particolare avvalorato dal fatto che sta ancora in braccio alla madre,
poco importa, perché ciò che conta qui è proprio la persistenza, alla quale
si è accennato poco sopra, di quella che Giorgio Petrocchi ha definito la
«realistica pittura dell’insanità e della miseria popolare che il d’Annunzio
aveva esercitato in Terra vergine e in San Pantaleone, e culminerà più tardi
nelle memorabili pagine sul pellegrinaggio di Casalbordino».57
Sicuramente un fanciullo è invece il secondo personaggio meritevole di
menzione perché segno di quell’apertura e di quella sperimentazione
di cui si è già detto. Il breve accenno, perché di questo si tratta, si trova
nel secondo capitolo del Libro secondo, e più precisamente la scena
è quella dell’arrivo di Maria Ferres alla stazione di Rovigliano, la più
vicina a Schifanoja, accolta da Andrea, dalla Marchesa e dal figlio di
lei, Ferdinando. Proprio su quest’ultimo si concentra per un attimo
l’attenzione, perché il fanciullo, gracile e dalla salute cagionevole, ha
l’incarico di portare un mazzo di rose da offrire all’ospite quando scen-
derà dal treno:

Ridevano ambedue. Entravano nella stazione, mancando pochi minuti all’ar-


rivo del treno. Il dodicenne Ferdinando, un fanciullo malaticcio, portava un
mazzo di rose per offerirlo a Donna Maria.58

Un’apparizione fugace, questa di Ferdinando, ma significativa e simbo-


licamente pregnante perché in un certo senso diventa figura profetica
del destino dell’amore che sta per nascere tra Andrea e Maria, un amore
destinato a concludersi drammaticamente in quanto nato già malato o,
meglio, inficiato dalla malattia esistenziale che rende sterile la vita del
protagonista. L’immagine del fanciullo Ferdinando ha quindi la valenza
di una spia semantica, con funzione identica a quella del già citato gio-
vane suicida in apertura del Trionfo della morte.
Ed è proprio nel romanzo del 1894 che la tipologia di fanciullo appena
accennata nel Piacere troverà un notevole sviluppo, materializzandosi nel

57
Giorgio Petrocchi, D’Annunzio e la tecnica del “Piacere”, in “Lettere italiane”, apri-
le-giugno 1960, pp. 168-179, p. 170.
58
D’Annunzio, Il piacere, p. 158.

70
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

personaggio di Luchino, nipote di Giorgio, alla cui analisi è dedicato il


prossimo paragrafo. Basterà qui anticipare brevemente che con Luchino
viene introdotta una nuova declinazione della figura di fanciullo nella pro-
sa dannunziana, allo stesso tempo uguale e diversa da quelle già riscon-
trate nelle novelle e nel primo esempio tratto dal Piacere. Uguale perché
anch’essa, come già nel caso di Ferdinando, è afflitta da un «male di vive-
re» che ne consuma ed esaurisce le forze vitali, privandola di una qualsiasi
prospettiva e quindi di futuro. Diversa perché non appartiene più all’ari-
stocrazia, come Ferdinando, o alle classi popolari, che comunque conti-
nuano a mantenere un ruolo centrale nel Trionfo, bensì alla borghesia, e
quindi il portato semantico della sua malattia è completamente differente.
Come sostiene Maria Giulia Balducci,59 il ritorno alle origini, ossia
all’Abruzzo selvaggio e incontaminato dell’infanzia e della giovinezza
dell’autore, non fa da palcoscenico al Trionfo solo come recupero di
una parte della propria identità, ma ha nel romanzo la funzione di
«intercessore per la vita», ossia di un’ideale, o meglio idealizzata,
àncora di salvezza grazie alla quale Giorgio pensa di potersi salvare
dalla «malattia della modernità» che lo perseguita: l’inettitudine a
vivere. La realtà è però ben diversa, e la speranza del protagonista
si risolve in un fallimento sia perché il suo distacco dalla vita è ora-
mai irrecuperabile sia perché la presunta potenza vitale del popolo,
conseguente al suo contatto diretto, quotidiano ed empatico con la
natura e con la tradizione più ancestrale, risulta essere mortalmente
inficiata dall’abbruttimento morale e fisico che lo caratterizza e che
è dovuto all’indigenza nella quale è costretto, traducendosi in una
dimensione di dolore e «deformità» anziché nella capacità rigene-
rativa che ci si sarebbe potuti aspettare. Tutti elementi sicuramente
già riscontrati nelle novelle, ma che se in queste ultime potevano far
pensare più a un esercizio di stile che a una meditata scelta tema-
tica, nel Trionfo diventano una precisa dichiarazione di pessimismo
etico-esistenziale: neppure il ritorno alla natura e alle origini può ga-
rantire la salvezza, perché la modernità ha talmente distorto la con-
dizione umana da renderla irredimibile, ovunque si guardi. Questo

Balducci, Introduzione, pp. XXXIII ss.


59

71
Secondo capitolo

è il senso della lunga descrizione del pellegrinaggio a Casalbordino


al quale, non a caso, fanno da contorno brevi ma folgoranti imma-
gini di fanciullezza miserabile, la cui condizione viene amplificata
attraverso l’artificio, già ampiamente utilizzato da d’Annunzio nelle
novelle, di avvicinare l’immagine umana a quella animale,60 come in
queste brevi descrizioni: «Una fanciulla, smilza e verdognola come
una locusta, offriva lunghe filze di cacio in forma di piccoli cavalli
o di uccelli o di fiori»,61 e «[…] fanciulli verdi come ramarri, maci-
lenti, con gli occhi rapaci, con la bocca già appassita, taciturni, che
covavano nel sangue il morbo ereditario».62 È questo anche il senso
degli episodi più specificamente dedicati alla descrizione dei fan-
ciulli appartenenti al popolo e quindi emblema evidente delle tare e
dell’avvilimento di quest’ultimo. Ecco allora la vicenda del «bambi-
no succhiato dalle streghe», nel capitolo secondo del Libro quarto,
intitolato La vita nuova, che nella fattispecie è un’infante perché sta
in una culla, ma alla cui lunga agonia63 fanno da cornice una nutrita
schiera di fanciulli che bene esemplificano la condizione di miseria e
afflizione nella quale sono costrette le classi meno abbienti:

Tre o quattro bambini nudi, anch’essi col ventre così gonfio che parevano
idropici, si trascinavano sul suolo, borbottando, brancicando, portando alla
bocca qualunque cosa capitasse loro sotto le mani. E la femmina teneva fra
le braccia un altro bambino, tutto coperto di croste nerastre tra mezzo a cui
si aprivano due grandi occhi puri ed azzurri come due fiori miracolosi. […]
E mostrò di nuovo il suo figliuolo piagato, ma senza simular dolore, come se
ella semplicemente offrisse alla forestiera di passaggio un oggetto di pietà
prossimo in cambio d’uno più lontano e volesse dire: «Già che tu devi essere
pietosa, sii pietosa verso di questo che t’è innanzi».

60
A questo proposito cfr. Luca Bani, Da “Terra vergine” alle “Novelle della Pescara”.
Sviluppi tematici nel primo d’Annunzio, in “Atti dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed
Arti di Bergamo”, voll. LXXVI-LXXVII, a.a. 2012-2013 e 2013-2014, a cura di
Erminio Gennaro e Maria Mencaroni Zoppetti, Bergamo, Sestante, 2014, pp. 151-
165, 159.
61
D’Annunzio, Trionfo della morte, p. 874.
62
Ivi, p. 903.
63
Cfr. ivi, pp. 828-835.

72
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

– Perché è così? – chiese Giorgio guardando con una pena profonda su quel
misero volto maculato i due grandi occhi puri e freschi che parevano acco-
gliere tutta la luce sparsa nella sera di giugno.
– Chi lo sa, signore? – rispose la femmina pingue, sempre con la stessa pla-
cidezza. – Dio vuole così.64

L’innocenza e la fanciullezza tradite, martoriate e destinate a una vita


presumibilmente breve e condizionata dagli stenti emerge vivida in que-
sta descrizione grazie all’insistenza con la quale l’autore batte sul par-
ticolare degli «occhi puri ed azzurri come due fiori miracolosi» subito
riproposti nei «due grandi occhi puri e freschi che parevano accogliere
tutta la luce sparsa nella sera di giugno». Nella similitudine con i fiori e
nell’evocazione della luce limpida di giugno si manifesta l’essenza an-
cora sostanzialmente incorrotta del fanciullo, e maggiormente stridente
appare il contrasto con la realtà esteriore che questa essenza corrompe
con la sua brutalità e il suo messaggio di morte.
Messaggio che appare ancora più evidente nell’episodio del fanciullo
annegato, nel capitolo ottavo del Libro quinto (Tempus destruendi), per il
quale d’Annunzio si ispirò a un fatto di cui fu testimone diretto:65

Egli s’affrettò per la viottola, calò per una scorciatoia alla spiaggia, camminò
lungo il mare. Giunse sul luogo, un po’ ansante; domandò:
– Che è accaduto?
I contadini radunati lo salutarono, gli fecero largo. Uno rispose, tranquillo:
– S’è annegato il figlio d’una mamma.
Un altro, vestito di lino, che pareva il custode del cadavere, si chinò e tolse
il lenzuolo. Apparve il piccolo corpo inerte, disteso su la dura ghiaia. Era

64
Ivi, p. 830. Si noti, peraltro, come la prima frase di questa citazione è perfettamente iden-
tica al secondo di quella tratta dalla novella Il traghettatore riportata a p. 58.
65
Lo prova quanto scritto da d’Annunzio in una lettera a Vincenzo Morello il 16 agosto
1889 dal suo ritiro di San Vito Chietino: «Stamani, sotto la mia casa, tra gli scogli s’è
annegato un ragazzo. Ho assistito a tutta la scena tragica della Madre sopravvegnente.
Ella ha cantato per più di un’ora sul cadavere, a due braccia dal mare. Ha cantato,
musicalmente cantato. È una consuetudine del dolore nostrano… Tutto il mio essere
trema ancora». Lettera citata in Note, a cura di Annamaria Andreoli, in d’Annunzio,
Prose di romanzi, vol. I, pp. 1103-1349, 1339.

73
Secondo capitolo

un fanciullo di otto o nove anni, biondiccio, gracile, allungato. Gli solleva-


vano la testa in guisa d’un origliere i suoi abiti poveri, avvolti: la camicia,
i calzoni azzurri, la cintura rossa, il cappello di feltro molle. Il suo viso era
appena appena livido, col naso camuso, con la fronte sporgente, con le ciglia
lunghissime, con la bocca semiaperta dalle labbra grosse e violacee tra cui
biancheggiavano i denti l’un dall’altro discosti. Il suo collo era esile, floscio
come uno stelo appassito, segnato di pieghe minute.
L’appiccatura delle braccia era debole; le braccia erano sottili, sparse d’u-
na peluria simile alla lieve piuma che copre gli uccelli appena nati. Le
costole si disegnavano distinte; una linea più scura divideva la pelle per
il mezzo del petto; l’ombelico sporgeva come un nodo. I piedi, un poco
gonfi, avevano lo stesso colore giallognolo delle mani; e le piccole mani
erano callose e sparse di porri, con le unghie bianche che incominciavano
a illividirsi. Sul braccio sinistro, su le cosce presso gli inguini, e giù giù
su le ginocchia, per le gambe apparivano chiazze rossastre. Tutte le par-
ticolarità di quel corpo miserevole acquistavano agli occhi di Giorgio una
straordinaria significazione, immobili com’erano e fermate per sempre nel
rigore della morte.66

D’Annunzio insiste sulla descrizione del cadaverino, dilungandosi prima


sui vestiti del povero morticino, poi sulle fattezze del viso e infine sulle ca-
ratteristiche di tutte le altre parti del corpo, in sequenza dalle costole sino
ai piedi, per mettere in rilievo la morbosa curiosità necrofila che impedi-
sce al protagonista di distogliere gli occhi dall’annegato. Va evidenziato,
tuttavia, come vi sia un particolare che lega simbolicamente il protagonista
di questa vicenda con i bambini della citazione precedente. Come questi
ultimi, infatti, anche il fanciullo inanimato sulla spiaggia è un fiore, una
delicata creatura vegetale dalla quale è però fuggita tutta la purezza che
conteneva e che lo rendeva, al di là del suo aspetto fisico, una sorgente di
bellezza e di speranza. Quel collo privo di vita paragonato a uno stelo ora-
mai appassito è il sigillo di un destino tragico non solo per la piccola vitti-
ma, ma anche per l’attonito spettatore che nel corpo irrigidito nella morte
trova una «straordinaria significazione», ovvero un fascino che sempre più
lo avviluppa e lo trascina verso l’esito finale del romanzo.

D’Annunzio, Trionfo della morte, pp. 957-958.


66

74
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

I fanciulli del Trionfo sono come angeli caduti, messaggeri non più di
vita e di futuro, ma del destino di morte che attende il protagonista e
con lui, come si vedrà meglio tra poco, tutta la classe di intellettuali-
esteti borghesi alla quale Giorgio appartiene.
Ai due esempi già visti, i più pregnanti dal punto di vista simbolico,
se ne potrebbero affiancare svariati altri, che pure sono da considerare
importanti perché ugualmente enfatizzano quei luoghi del romanzo nei
quali la presenza della morte si fa potente. Si pensi, per concludere, a
uno degli episodi che aprono il Libro secondo, La casa paterna, ossia
la morte e il funerale di don Defendente Scioli.67 La lunga sequenza di
questi due avvenimenti, che attraversa la parte finale del primo e tutto
il secondo capitolo, inframmezzandosi con i dialoghi che il protagoni-
sta ha prima con la zia Gioconda e poi con la madre, è interpretabile,
per quanto riguarda la struttura romanzesca, come una scenografia che
fa da sfondo alla vicenda agìta da Giorgio o, forse meglio, come il tema
di fondo, in questo caso un tema corale, che puntualmente interrompe
le parti discorsive. Così facendo, la morte diventa un elemento onni-
presente che con la sua aura avvolge e condiziona la volontà, i propo-
siti e le azioni del protagonista. In modo particolare nella descrizione
del funerale, fanno la loro apparizione anche delle figure di fanciulli
che vengono introdotte e sviluppate secondo una linea rappresentativa
modellata sullo schema individualità-moltitudine-individualità-ide-
ntificazione. Il primo approccio con questa immagine è infatti quello
con un fanciullo singolo, definito solo per il suo essere scalzo e, quin-
di, genericamente povero, al quale è affidato il compito di raccogliere
nell’incavo delle mani la cera che cola dalle candele portate dagli in-
cappucciati che accompagnano il corteo funebre:

Ciascuno incappato aveva a fianco un fanciullo scalzo che accoglieva la cera


liquefatta nel concavo d’ambe le mani.68

67
Cfr. ivi, pp. 708-717.
68
Ivi, p. 713.

75
Secondo capitolo

Subito dopo la prospettiva si allarga, con la moltiplicazione delle figure


di piccoli ugualmente intenti a questo compito e con la specificazione
della loro condizione d’indigenza, e si caratterizza con un primo moto
d’identificazione di Giorgio con il morto:

Giorgio pensava: «Che onoranza triste e ridicola segue la morte d’un uomo!»
Vide sé stesso nella bara, chiuso tra le assi, portato da quegli uomini ma-
scherati, accompagnato da quelle torce, da quell’orribile strombettio. L’ima-
gine lo empì di disgusto. Poi lo attrassero quei fanciulli laceri che raccoglie-
vano le lacrime della cera, a fatica, un po’ curvi, con un passo ineguale, con
gli occhi intenti alla fiammella mutabile.69

Poi, ancora un’immagine collettiva dei fanciulli raccoglitori di cera, che


l’autore propone con parole identiche a quelle usate nella descrizione
precedente per sottolineare l’ossessività dell’immagine:

Le campane di Santa Maria Maggiore sonarono a vespro. Egli rivide il corteo


funebre, la bara, gli incappati; e quei fanciulli laceri che raccoglievano le
lacrime della cera, a fatica, un po’ curvi, con un passo ineguale, con gli oc-
chi intenti alla fiammella mutabile. Quei fanciulli gli rimasero lungo tempo
impressi. Più tardi, scrivendo all’amata, egli sviluppò l’allegoria segreta che
il suo spirito curioso d’imagini aveva confusamente intravista. «Uno di loro,
mingherlino, giallastro, si appoggiava con una mano a una stampella e nel
cavo dell’altra raccoglieva la cera, strascicandosi a fianco d’una specie di
gigante incappato che stringeva il torchio nel pugno enorme brutalmente. Li
vedo ancóra, ambedue; e non li dimenticherò. C’è qualcosa forse in me, che
mi fa assomigliare a quel fanciullo. La mia vera vita è in potere di qualcuno,
misterioso, inconoscibile, che la stringe con un pugno di ferro; ed io la vedo
struggersi, trascinandomi accosto accosto, affaticandomi per raccoglierne
almeno una piccola parte. Ed ogni goccia brucia la mia povera mano».70

Non per nulla, specifica d’Annunzio, di tutta la cerimonia funebre sono


proprio quelle dei fanciulli le figure che più delle altre rimangono im-

69
Ibid.
70
Ivi, p. 717.

76
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

presse nella mente di Giorgio, tanto da scriverne poi a Ippolita per


meglio chiarire, anche a se stesso, l’«allegoria» che ne rende potente
e simbolicamente importante la visione. Ed ecco allora chiudersi il
cerchio, con un passaggio ulteriore dalla moltitudine dei soggetti a un
fanciullo singolo, attraverso il quale il protagonista metaforizza la pro-
pria esistenza in una nuova identificazione che, se si vuole, è ben più
distruttiva e annichilente di quella con don Defendente. Se nel primo
caso, infatti, si tratta di una delle tante anticipazioni della morte che
aspetta Giorgio e, suo malgrado, Ippolita, simile nel suo genere alla
scena di suicidio che apre il romanzo, attraverso questo secondo episo-
dio di rispecchiamento viene reso esplicito che il destino verso il quale
si sono incamminati i due amanti è condizionato da una forza incon-
trastabile che li spinge prepotentemente verso una fine obbligata. Un
potere oscuro che, tuttavia, non proviene dall’esterno, ma è consustan-
ziale al protagonista, profondamente radicato nella sua personalità: è
l’istinto di morte che pervade il suo io, che lo stringe in una morsa di
ferro e che rende estremamente faticoso qualsiasi slancio vitale, tanto
che ogni brandello di vita conquistato «brucia» come cera che cola
nell’incavo della mano.

2.2.3 La morte del fanciullo borghese


Figura nuova e allo stesso tempo estremamente significativa per il ro-
manzo, il personaggio di Luca o Luchino rappresenta una decisa evo-
luzione rispetto alle immagini di fanciulli incontrate sinora. È infatti la
prima volta che nella narrativa dannunziana viene così ben sviluppata
la tipologia del fanciullo borghese gracile e ammalato che risponde per-
fettamente al gusto e all’estetica decadenti. Quella di Luchino è una
personalità che rispecchia fedelmente l’inettitudine a vivere dello zio
Giorgio, intellettuale borghese, e che anzi trova senso solo nella misura
in cui la si interpreta come elemento utile a fornire un perfetto alter ego
del protagonista. Già dalla sua prima apparizione, la descrizione di que-
sto fanciullo tende a darne un’immagine opaca, sfuocata, che trasmette
al lettore la sensazione di un essere umano scialbo, privo di carattere e,
soprattutto, privo di qualsivoglia futuro perché la sua vita verrà presto
spezzata e, di conseguenza, la sua personalità non avrà alcuna possibi-

77
Secondo capitolo

lità di svilupparsi, restando inespressa come la bellezza di un fiore che


non riesce ad aprirsi. Luchino è quindi un fanciullo «biondetto, nievo,
gracile come un giglio semichiuso»71 e «taciturno»72 che pare caratteriz-
zato da una sorta di immobilità perenne, quasi avesse paura di fare un
solo passo lontano dall’ala protettiva della madre. Allontanarsi da lei si-
gnifica avventurarsi nel vasto mondo, così come dovrebbero essere spinti
a fare tutti i cuccioli, e quindi sperimentare la vita, con tutti i rischi
che questo può comportare, ma anche con il portato di maturazione e di
sviluppo cognitivo ed emozionale che in tutto ciò è implicito. Luchino è
invece completamente pervaso da un timore paralizzante che gli impedi-
sce qualsiasi tipo di azione, anche quella che per un fanciullo dovrebbe
essere la più spontanea e naturale: il gioco. Ogni sforzo per indurlo a
comportarsi in modo consono alla sua età risulta vano, e Cristina, sorella
di Giorgio, si sente sconsolata per l’insuccesso al quale è destinato ogni
suo tentativo di stimolare e incoraggiare il figlio:

Ella guardò Luca, il suo bimbo.


– Va, Luchino; corri, gioca un poco!
Il bimbo non le si mosse dal fianco; anzi la prese per mano. Ella sospirò,
guardando il fratello.
– Vedi; è sempre così. Non corre, non gioca, non ride. Sta sempre attaccato
a me. Non mi lascia mai. Tutto gli fa paura.73

Luchino è quindi un bambino diverso dagli altri, perché – come viene


ribadito poco dopo, durante una conversazione tra Giorgio e la sorella in
un giardino folto di fiori e di piante d’agrumi, con i rami degli alberi ca-
richi di zàgare e il terreno ugualmente cosparso di fiori caduti, dai qua-
li emana un profumo talmente intenso e penetrante da stordire – «non
parla, non ride, non gioca, non si rallegra mai, non fa quello che fanno
tutti gli altri bambini…»,74 ma si limita a stare sempre vicino alla madre,
guardandola con occhi interrogativi, quasi a chiederle conto di averlo

71
Ivi, p. 718.
72
Ivi, p. 723.
73
Ibid.
74
Ivi, p. 727.

78
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

creato così incapace di qualsiasi anche pur minimo istinto vitale. E nuo-
vamente, nello spazio del giardino nel quale si trovano i tre personaggi,
tornano le analogie tra l’essere umano destinato al martirio e diversi ele-
menti della natura vegetale e animale, sistemati in rapida successione
per amplificarne il potere evocativo. Il collo di Luchino, a causa della
pesantezza della sua testa, sproporzionata rispetto al resto del corpo, ha
dunque la fragilità di uno stelo, mentre gli occhi hanno un’espressione
dolce e «umida» come quella di un agnello, «cerulei fra le lunghe ci-
glia chiare».75 In contrasto con quest’apparenza di fanciullo fragile e,
si potrebbe dire, quasi incompiuto, ecco il particolare dei capelli, così
biondi da sembrare bianchi, utile a creare l’immagine paradossale di un
giovane/vecchio al quale mancherà la robustezza della maturità perché
dalla prima età nella quale si trova ora verrà lanciato direttamente nella
terza e, quindi, nella dimensione della morte. E al presagio della morte
è dedicata la scena più lunga nella quale compare Luchino, nel capitolo
quinto del Libro secondo, La casa paterna.76 Il piccolo, dalle labbra pal-
lide e dalle guance esangui, sta per andare a dormire e per questo motivo
viene preso in braccio dallo zio che, sentendo la gracile pochezza del suo
petto infantile, lo paragona a un uccellino. In questa sequenza, malattia
e morte si intrecciano fortemente: il bambino ha un dito fasciato per un
piccolo taglio che non riesce a rimarginarsi e dal quale non esce sangue,
bensì un liquido biancastro, segno di un infezione in corso, ma soprattut-
to simbolo dell’assenza di vita nelle vene del fanciullo, nelle quali scorre
un potente veleno anziché la rossa linfa rigeneratrice. Dopo questo primo
annuncio, la malattia viene dichiarata esplicitamente nella lunga descri-
zione della svestizione del fanciullo per prepararlo alla notte:

Egli la guardava mentre ella svestiva il bimbo. A poco a poco ella lo svestiva,
con cautele infinite, come temendo d’infrangerlo; ed ogni gesto di lei rivelava
dolentemente la miseria di quelle membra esili ove già incominciavano ad
apparire le deformazioni della rachitide incurabile. Il collo era sottile e floscio
come uno stelo appassito; lo sterno, le costole, le scapule sembravano tra-

Ibid.
75

Cfr. ivi, pp. 736-741.


76

79
Secondo capitolo

sparire a traverso la pelle rilevati anche più dall’ombra che empiva gli spazii
cavi; le ginocchia ingrossate avevano la forma di due nodi; il ventre un po’
gonfio dava risalto alla magrezza acuta delle anche, segnato da un ombelico
sporgente. Come il bimbo sollevava le braccia perché la madre gli mutasse la
camicia, Giorgio provò una pietà dolorosa fino allo spasimo scorgendo quelle
piccole ascelle gracili che parevano rivelare pur in quel semplice atto la pena
d’uno sforzo contro il languore letale ove la tenue vita stava per estinguersi.77

E l’atmosfera che circonda la vita del fanciullo che sta per estinguersi
è propriamente quella di una veglia funebre anticipata. Nella lunga ca-
micia da notte bianca che ora lo veste, Luchino appare a Giorgio come
un «morticino», e nell’attesa che il piccolo si addormenti, fratello e so-
rella lo vegliano come se fossero al suo capezzale, immersi nell’odore
pungente delle medicine che a nulla servono, se non a ritardare di poco
il momento fatale. Per Giorgio e Cristina, quella che hanno di fronte è
una scena di morte, ed entrambi ne sono perfettamente consapevoli, ma
per il protagonista, a maggior ragione, questa visione ha un forte potere
evocativo, perché nel nipote non può che vedere riflessa la propria im-
magine di uomo che, sia pur seguendo altre strade, si sta avvicinando al
momento fatale, all’incontro con la morte.
L’analisi del personaggio di Luchino dà l’opportunità di segnalare un’ul-
teriore deviazione dalle tipologie di fanciulli dannunziani incontrati si-
nora. Dopo il caso appena visto del fanciullo borghese votato alla ma-
lattia e alla morte a causa della sua istituzionale inettitudine alla vita e
dopo le figure del fanciullo aristocratico o appartenente alle classi socia-
li meno abbienti incontrate nelle novelle, nel Piacere e nuovamente nel
Trionfo, ecco un ultimo esempio di fanciullo che proprio in quest’ultimo
romanzo fa una breve apparizione e che ha come unico scopo quello di
fungere da immagine antitetica a quella del nipote del protagonista, cre-
ando con ciò una sorta di binomio rispecchiante l’antitesi tra la coppia
Giorgio/zio Demetrio (ma vi si potrebbe aggiungere anche Cristina) e la
coppia padre/fratello Diego o, comunque, tra personaggi votati alla morte
e personaggi pienamente immersi nel violento e caotico fluire della vita.

Ivi, p. 740.
77

80
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

Della figura dello zio Demetrio si è già brevemente detto. I personaggi


del fratello Diego e del padre di Giorgio vengono presentati nel terzo
capitolo del Libro secondo, inseriti nella scena prandiale che vede tutta
la famiglia raccolta intorno al tavolo: le sorelle Camilla e Cristina, il fi-
danzato della prima e il marito della seconda, ovviamente Luchino e poi
la madre, il padre e il fratello, Diego appunto. Gli ultimi due vengono
lungamente descritti, prima uno e poi l’altro, per sottolinearne la diver-
sità fisica e di carattere con il protagonista e con tutti i membri della
famiglia che, come lui, trovano impedimento a vivere pienamente, tanto
da far esclamare a Giorgio: «Sembrano forse dello stesso sangue? Cristi-
na ha ereditato in gran parte la gentilezza materna; ha gli occhi di nostra
madre, e specialmente le arie di lei, certi gesti. Ma Diego!».78 Esiste
dunque un’insanabile frattura all’interno della famiglia, i cui componen-
ti si dividono nettamente in due categorie contrapposte e finanche ostili,
perché la prepotenza degli uni significa il sacrificio e l’estinzione degli
altri, in una dinamica darwiniana che per la sua crudezza ricorda molto
da vicino le vicende degli Uzeda di Francalanza narrate da Federico de
Roberto nei Viceré. In questa partita serrata trova una sua collocazione
anche il binomio tra Luchino e la nuova categoria di fanciulli di cui si
è detto: i figli illegittimi che il padre ha avuto dalla sua amante, «una
pettinatrice ch’era già stata al servizio della famiglia, una donna perduta,
avidissima».79 L’apparizione di questi fanciulli ha la forza icastica di una
visione tanto fulminea quanto potente, che con vigore s’imprime nella
mente del lettore per quanto ha di contrastivo rispetto all’immagine del
piccolo Luca incontrata poche pagine prima:

Vide presso il cancello due bambini che giocavano con la ghiaia. Senza avere
il tempo di esaminarli, indovinò che quelli erano i suoi fratelli illegittimi, i figli
della concubina. Come egli s’avanzava, i due bambini si volsero e rimasero a
guardarlo attoniti ma senza peritarsi. Erano sani, robusti, floridi, con le guance
invermigliate dalla salute, con l’impronta manifesta della loro origine.80

78
Ivi, p. 718.
79
Ivi, p. 710.
80
Ivi, p. 746.

81
Secondo capitolo

Nel Trionfo d’Annunzio mette in scena un dramma particolarmente sen-


tito dalla sensibilità decadente di fine Ottocento: quello dell’intellettua-
le borghese che allontanandosi dal pragmatico dinamismo delle proprie
origini e avvicinandosi invece al raffinato ma evanescente mondo dell’ar-
te e della bellezza diluisce progressivamente la propria forza vitale in
un’estenuazione sensitiva che lo porta alla morte. È il conflitto tra arte
e vita che tanta parte ha, ad esempio, nell’opera di Luigi Pirandello o,
per andare oltre i confini della letteratura nazionale, che costituisce il
filo conduttore di molti dei romanzi di Thomas Mann, dai Buddenbrooks
(1901) al Tonio Kröger (1903) sino a Der Tod in Venedig (1912). E proprio
nei Buddenbrooks compare la figura di un giovane, Hanno Buddenbro-
ok,81 che pur non essendo un fanciullo, bensì un adolescente, ha molto
in comune con il personaggio di Luchino nel Trionfo della morte, perché
su entrambi grava la condanna a cui soggiacciono i membri di una classe
sociale che tradisce il proprio portato genetico per trasformarsi in altro
da sé. La figura di Hanno rappresenta l’esito finale di un declino familia-
re che attraversa quattro generazioni, accentuandosi sempre di più sino
al tragico epilogo della sua morte per tifo, mentre con Luchino siamo solo
alla terza generazione, dopo quelle dello zio Demetrio e di Giorgio, ma
già i segni del decadimento hanno assunto una tale forza da allargarsi dal
carattere al corpo, traducendosi in tare fisiche che portano velocemente
alla malattia e alla morte. È il prezzo dell’arte, che per l’intellettuale o
l’artista borghese si traduce nel guardare la vita scorrere senza potervi
prendere parte, come per Tonio Kröger; oppure nel soccombere alla sua
irresistibile forza quando si è tentati di reimmergervisi, come nel caso di
Gustav von Aschenbach; o, ancora, nel venirne esclusi a priori, perché
anche fisicamente segnati dall’inabilità a viverla, come nei casi di Han-
no Buddenbrook e, appunto, di Luchino, il fanciullo borghese del Trionfo
della morte.

81
Cfr. Thomas Mann, I Buddenbrook, traduzione di Ervino Pocar, introduzione di Maria-
nello Marianelli, Milano, Mondadori, 1990, Parte undicesima, pp. 549-595.

82
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

2.3 La lirica

2.3.1 La fanciullezza panica delle prime raccolte


Sin dal suo esordio poetico, il motivo della fanciullezza e, in alcuni casi, an-
che la figura del fanciullo hanno trovato nel repertorio tematico di d’Annunzio
quello spazio che poi consentirà loro di venir meglio articolati e sviluppati
nella produzione lirica più matura, dal Poema paradisiaco sino ad Alcyone.
Si prenda ad esempio Primo vere, e in particolare la seconda redazione, usci-
ta nel novembre del 1880 presso l’editore Carabba di Lanciano e intesa a
rivedere profondamente la raccolta pubblicata l’anno precedente presso la
tipografia Ricci di Chieti. È questa una silloge dalla quale traspare evidente
l’intenzione del poeta di confrontarsi col Carducci, presente già nel titolo,
oltre che ovviamente nella scelta del metro barbaro, così come già dense
e numerose sono le reminiscenze letterarie di altri autori e poeti italiani e
stranieri, dal Guerrini al Marradi, da Hugo a Baudelaire.82 Tuttavia, il riferi-
mento al Maestro di Bologna è più di forma che di sostanza: presente certo
nell’imitazione dei metri o nelle consonanze di temi e motivi, ma declinato
secondo un gusto e una sensibilità già squisitamente dannunziane che, nella
fattispecie, si orientano verso una visione spiccatamente pagana della vita,
una forte attitudine al sensualismo e una particolare predilezione per una
vitalità primordiale e istintiva. Il tutto calato in un paesaggio indeterminato,
ma «percorso da bagliori analogici»83 grazie ai quali l’Ellade agognata viene
subito a trasformarsi nello spazio primigenio e privilegiato dove collocare il
mito della giovinezza, l’«età beata» dell’espunta A l’Etna (v. 137).84 In Sap-

82
Cfr. Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, Note, in Gabriele d’Annunzio, Versi d’amo-
re e di gloria, edizione diretta da Luciano Anceschi, a cura di Annamaria Andreoli e
Niva Lorenzini, introduzione di Luciano Anceschi, Milano Mondadori, 5a ed., 2001,
2 voll., vol. I, pp. 767-1189, 770-771 (d’ora in poi Note 2).
83
Ivi, p. 771.
84
Cfr. Gabriele d’Annunzio, A l’Etna, (Primo vere, testi non ristampati nell’edizione
definitiva), in Id., Versi d’amore e di gloria, vol. I, pp. 734-741. Tutte le liriche di
d’Annunzio citate nel testo provengono dalla stessa fonte e quindi, nelle note succes-
sive, si indicheranno solamente il titolo o il numero romano identificativo della lirica,
quello della raccolta tra parentesi, il volume e le pagine alle quali si trova.

83
Secondo capitolo

pho,85 l’«isola beata» (v. 3) della poetessa greca, Lesbo, diventa uno spazio
onirico-regressivo sovrastato da nubi-fanciulle (vv. 7-8) che evidentemen-
te simboleggiano il fascino di una condizione di ritorno alle origini per ora
identificato con l’età greca classica, la puerizia della cultura occidentale.
Una breve ripresa delle immagini appena evocate, questa volta concentra-
te in una lirica sola, è possibile rintracciarla nel primo dei sonetti che com-
pone il trittico intitolato Per le messe ne La chimera. L’evocazione iniziale
di Ebe, dea della giovinezza e figlia di Giove, rimanda proprio a una «terra
generatrice», la Grecia classica appunto, che grazie all’epifania della divi-
nità, potrà tornare a realizzarsi nuovamente nella modernità, anticipando
con ciò un’idea che sarà pienamente realizzata solo con Alcyone:

Quando il tuo corpo d’Ebe, alto, ridente


ancor d’infanzia e già schiuso nel fiore
de la prima bellezza adolescente,
sorse avanti improvviso (era l’odore

pe’ i ricolti sereno), la vivente


ubertà de’ capelli a ’1 fulvo ardore
de le spighe così naturalmente
si giunse e così vergine il candore

del sol ne l’innocenza del mattino


arrise, ch’io tremai. Non forse tu,
risorta da la terra genitrice,

eri un’iddia de ’1 buon tempo latino?


E non venivi ai popoli datrice
d’una nuova più forte gioventù?86

Tornando a Primo vere, in Ex imo corde,87 seconda lirica della raccolta


dopo il Preludio, il poeta sembra trasfigurarsi in un fanciullo che insegue

85
Sappho, (Primo vere), ivi, pp. 39-40.
86
Per le messe, I, (La Chimera), ivi, p. 565.
87
Ex imo corde, (Primo vere), ivi, pp. 7-10.

84
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

«i sogni superbi con baldanza / puërile» (vv. 43-44), sogni non a caso
accostati a «una schiera di fanciulle alate» (v. 47) che fuggono da lui sol-
cando l’azzurro del cielo. Quest’ultima immagine verrà poi fugacemente
ripresa in alcuni versi della prima sezione delle Due Beatrici, ancora una
volta tratti da La Chimera, nei quali il poeta rinnova il proprio autoritrat-
to come fanciullo ancora ingenuo ma potente nella passione che lo spin-
geva verso la realizzazione del suo destino di gloria artistica (vv. 49-56):

Io era un buon fanciullo: un poco sciocco.


M’ardea ne ’l petto, di dolcezza, il cuore;
ché non pure una volta aveami tocco
con la sua lancia il cavalier Dolore.
Non sì fiero tenea forse il Marzocco
ne l’unghia l’arme de ’l vermiglio fiore
com’io tenea ne ’l pugno, senza alcuna
guerra, le chiome de la mia Fortuna.88

Fugaci apparizioni, queste appena citate, che tuttavia danno il segno di


un percorso che già nella raccolta successiva troverà modo di precisarsi
meglio e di estrinsecarsi in almeno un esempio significativo.
Pubblicato da Sommaruga nel 1882, Canto novo89 sarà accolto dall’E-
dizione Nazionale, con retrodatazione al 1881, nella versione profonda-
mente rimaneggiata uscita da Treves nel 1896. La prima redazione, de-
dicata a Elda Zucconi, consta, fra strofe barbare e sonetti, di sessantatré
poesie divise in cinque sezioni: Carducci vi è ancora molto presente nel-
la vitalistica adesione alla natura di quell’Abruzzo primitivo e selvaggio
che fa da palcoscenico alle novelle che in quegli anni d’Annunzio anda-
va componendo e che confluiranno poi nella raccolta Terra vergine, pure
edita nel 1882. Nel Libro terzo della princeps si trova, terza tra le poesie
di questa parte, un componimento in distici elegiaci tutto incentrato sul-

88
Due Beatrici, (La Chimera), ivi, p. 463.
89
Per un inquadramento generale di questa raccolta cfr. Canto novo nel Centenario del-
la pubblicazione, Atti del IV Convegno internazionale di studi dannunziani (Pescara,
7-8 maggio 1982), Pescara, Fabiani, 1983.

85
Secondo capitolo

la figura del fanciullo.90 Di questa lirica e delle quattro successive Ettore


Paratore ha scritto che:

[…] ponendo in primo piano personaggi del popolino, poveri relitti umani
oppressi dall’ignoranza, dalla miseria e dall’appartenenza a una società pro-
vinciale, anzi addirittura primordiale, ci si adeguava alla moda degli anni
ottanta, imposta dal naturalismo col recare in prima fila figure di umili, am-
bienti plebei. Ma per il d’Annunzio era soprattutto trovare il punto d’appog-
gio più solido, ascoltare le voci ancestrali esaltanti il suo istinto di barbaro
conquistatore […].91

A queste osservazioni, pienamente giustificate per le liriche dalla IV


alla VII, si potrebbe obbiettare che in realtà il fanciullo descritto nei
versi della terza poesia di questa sezione della raccolta non appare
esattamente come un relitto umano piegato dalla miseria che affligge la
sua classe sociale. È certamente un “primitivo”, ma dalla descrizione
che ne viene fatta emerge piuttosto una figura fiera, ammantata da una
forza primordiale che lo distacca fortemente dai personaggi miserevoli
già incontrati nelle novelle: «Era un fanciullo da’ neri selvaggi capelli,
/ da’ grandi occhi sognanti, pregni di verdemare» (vv. 1-2). Si tratta
evidentemente di un autoritratto, grazie al quale il poeta rende più pre-
gnante l’approccio alla natura selvaggia del natio Abruzzo («[…] Muta
/ l’afa incombeva su ‘l campo; la brulla pianura / perdeasi tutta gialla
ne ‘l solleone», vv. 4-6) collocando anche se stesso in questo contesto
spaziale. Certo, il fanciullo è presentato come un guardiano di cavalli
(«ignudo ne l’ombra d’accanto a la tenda guardava / i poledri pascenti
tra le gramigne […]», vv. 3-4), ma ciò che più lo contraddistingue,
rendendolo un perfetto alter ego di d’Annunzio, è la sua propensione
a perdersi nel sogno di una natura panica, di una terra incontaminata
dalla quale sgorghi l’energia ardente del sole, quella vivificante del
mare e del vento, quella nutritiva della terra:

90
III, (Canto novo, editio princeps, Libro terzo), vol. I, p. 199.
91
Ettore Paratore, Naturalismo e decadentismo in Gabriele d’Annunzio, in “Quaderni
Dannunziani”, XXVIII-XXIX (1964), pp. 1665-1778, 1699.

86
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

Guardava i poledri, gli zingani proni ne ‘l sonno


il fanciullo co’ tristi occhi, e sognava. I lidi

sognava deserti, ed i venti ubriachi di sale;


i bruni scogli ricamati d’alighe,

le paranzelle vermiglie, fiammanti d’arancio,


bianche, fuggiasche per il cobalto cupo

sognava; l’acqua verde in cui diguazzò ne’ meriggi,


là, come un giovine cefalo innamorato.
(vv. 9-16)

Il fanciullo di questi versi è dunque un sognatore, ma non solo. Un altro


elemento della sua caratterizzazione accentua ulteriormente l’identifi-
cazione del personaggio con il poeta, e cioè il fatto che entrambi sono
dei cantori della natura vigorosa che li circonda. Dopo aver elencato
le immagini possenti dei deserti e dei venti, degli scogli e del mare, il
visionario protagonista di questa lirica si raccoglie in se stesso come a
meditare quanto il suo sguardo ha raccolto per poi riproporlo nei versi di
una canzone di mare: «ed il fanciullo a l’ombra ne ‘l gran silenzio arden-
te / accarezzava la vecchia chitarra scordata / cantando a voce bassa una
canzon di mare» (vv. 18-20).
Di segno diametralmente opposto, e a questo caso si adatta perfetta-
mente il commento di Paratore, è il fanciullo protagonista della lirica
V92 del Libro terzo sempre della princeps di Canto novo. Si chiama
Toto, come il protagonista dell’omonima novella di Terra vergine già
incontrata e, in effetti, quella onomastica non è l’unica coincidenza.
Infatti, se la novella venne pubblicata per la prima volta sul “Fanfulla
della Domenica” il 6 febbraio del 1881 col titolo Figurine abruzzesi/
Toto, la lirica, composta da un doppio sonetto, apparve su “La Farfal-
la” esattamente quattro mesi dopo, il 5 giugno, col titolo Nel padule: I,
II, mettendo in luce una concomitanza cronologica che giustifica l’o-

92
V, (Canto novo, editio princeps, Libro terzo), vol. I, pp. 200-201.

87
Secondo capitolo

mogeneità del registro naturalistico rintracciabile tanto nel racconto


quanto nella poesia. Sembra quindi che quest’ultima voglia aggiungere
qualcosa di nuovo alla figura già descritta nella novella del fanciullo
muto, dell’«orsacchiotto» disceso dalla Maiella per incontrarsi, accom-
pagnarsi e morire con la bella Ninnì, la «bambina magra, tutt’occhi,
con il viso pieno di lentiggini e un ciuffo di capelli biondicci sulla
fronte».93 E se da un lato l’approfondimento dell’immagine di Toto
serve appunto a completarne la fisionomia, dall’altro la figura che ne
emerge crea uno stacco deciso con quella del fanciullo della lirica III.
Innanzitutto il contesto ambientale. I due sonetti hanno una struttura
assolutamente simmetrica, perché in entrambi le due quartine danno
la dimensione spaziale nella quale si trova Toto imprimendo a tutta la
lirica un tono decisamente cupo, denso di premonizioni di un destino
ineluttabile che non potrà che avere un esito tragico. Si vedano i due
gruppi di quartine una di seguito all’altra:

Stanno in cerchio a ‘l padule di Treccati


alberi gobbi da le tronche braccia,
che sembrano fantasimi piantati
là su’ ranocchi in atto di minaccia.

Il sole tra’ vapori insanguinati


dà scintille maligne a l’acqua diaccia
e su da ‘l musco putrido spietati
nugoli di vampiri ésili caccia.
(vv. 1-8)

Vien da lungi per l’aure sonnolente


una canzone di malinconía:
c’è dentro il grido d’un’angoscia ardente,
c’è dentro il pianto de la nostalgìa,

c’è il freddo viscidume de ‘l serpente


che fra le canne attortigliato spia

Toto (Terra vergine), pp. 32 e 33.


93

88
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

e il ribrezzo febrile che a ‘l morente


striscia pe’ nervi, come un serpe, via!
(vv. 15-22)

È un quadro da tregenda, un paesaggio da sabba, con gli alberi con-


torti che paiono fantasmi, le rane, animali demoniaci, un pallido sole
rosso ben lontano dal «solleone» della lirica precedente, pipistrelli che
sembrano vampiri. E poi, nella terza quartina, malinconia, angoscia, no-
stalgia, mentre nella quarta riappare un animale dell’inferno, il simbolo
supremo del male, il serpente, la cui consistenza fredda e viscida al
tatto è affiancata al brivido freddo che percorre il corpo del morente,
creando con ciò un’associazione sinestetica. Un «catalogo metaforico
del negativo», come scrive Giorgio Bàrberi Squarotti.94 Tra gli elementi
di questo catalogo, ecco emergere Toto, fanciullo selvatico e sognatore
proprio come il piccolo protagonista della lirica precedente, perché con
un identico trasporto osserva gli elementi della natura rendendoli però
strumenti di evasione dalla vita, anziché oggetti di bramosia vitale: «Toto
segue co ‘l grigio occhio selvaggio / tristamente pe ‘l ciel meridionale
/ un triangolo d’anatre in viaggio...» (vv. 9-11). Ed è proprio in questa
tristezza che viene marcata la differenza tra i due personaggi. Se il primo
fanciullo possiede vigorosamente il mondo che lo circonda e il destino
che lo aspetta, un destino di forza e di potenza, Toto si trova invischiato
in una realtà dalla quale vuole strenuamente fuggire – da ciò l’immagine
delle anatre in volo – perché si sente soffocare, come se invece di una
creatura del vasto mondo fosse il prigioniero di una cella claustrofobica,
priva della freschezza balsamica del vento:

Oh, chi gli rende il fresco de ’l grecale


su ’l fiotto crespo e i vesperi di maggio
tra li acri odor’ de l’aliga e de ’l sale?

[…]

Giorgio Bàrberi Squarotti, Il gesto improbabile. Tre saggi su Gabriele d’Annunzio,


94

Palermo, Flaccovio, 1971, p. 41.

89
Secondo capitolo

Toto ascolta alenante; indi reclina


la grossa testa, si fa bianco bianco;
si sente il sangue a la gola salire...

Oh una boccata di brezza marina


che rinfreschi il polmone arido e stanco,
una boccata sola, e poi morire!
(vv. 12-14 e 23-28)

Due figure antitetiche di fanciulli, ma entrambe particolarmente vivide


e veritiere, perché rappresentano le due facce del poeta, i due estremi in
conflitto del suo carattere e della sua personalità.

2.3.2 L’evocazione della fanciullezza e il ritorno alle origini:


il Poema paradisiaco
Costituito da cinquantaquattro liriche composte prevalentemente tra
il 1890 e il 1893, il Poema paradisiaco,95 ossia il poema dei “giardi-
ni” secondo l’accezione greca del sostantivo “paradiso”, viene pub-
blicato da Treves nel 1893. Insieme al Giovanni Episcopo (nel 1891
sulla “Nuova Antologia” e nel 1892 in volume) e all’Innocente (1892),
quest’opera è considerata dalla critica come la testimonianza evidente
di quella fase di passaggio tematico-stilistica che dal Parnassianesi-
mo dell’Intermezzo di rime (1883) o dell’Isaotta Guttadàuro ed altre
poesie (1886) e dall’estetismo del Piacere (1889) traghetterà d’Annun-
zio verso il superomismo nietzschiano già presente nel Trionfo della
morte (1894) e poi pienamente realizzato negli anni successivi, sino
all’ultimo vero romanzo, Forse che sì forse che no (1912) e alle Canzoni
delle gesta d’oltremare, (1912). Carlo Salinari sostiene che il superuo-
mo dannunziano nasce nel 1895,96 ma a ben vedere già nella ristrut-

95
Per un inquadramento generale di questa raccolta cfr. Poema paradisiaco, XVI Con-
vegno nazionale (Chieti-Pescara, 7-8 maggio 1993), Pescara, Ediars Oggi e Domani,
1993.
96
Scrive infatti Salinari: «Il superuomo nasce in Italia ufficialmente nel gennaio del
1895 con la pubblicazione, sul primo numero del “Convito” (la rivista di Adolfo De
Bosis), della prima puntata de Le vergini delle rocce», ma poi, nella nota 1, aggiunge

90
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

turazione dell’Isaotta, che proprio nel 1889 portò allo sdoppiamento


nell’Isottèo e nella Chimera, così come in alcune delle liriche che solo
nel 1892 verranno raccolte sotto il titolo di Elegie romane97 – ma alcuni
segnali sono presenti, sia pure a livello embrionale, anche in alcuni
brani del Piacere e in rari versi di liriche dell’Intermezzo –, si possono
cogliere i primi, deboli tentativi di dar spazio a una tendenza nuova
che va pian piano emergendo nella sensibilità poetica del Pescarese
e nel suo mai sopito desiderio di sperimentare sempre nuove vie di
espressione artistica. Si assiste cioè a un primo, graduale passaggio
dal sensualismo torbido e intellettualistico che caratterizza il periodo
estetico-parnassiano all’insofferenza verso il dominio della lussuria e

che «In realtà la conoscenza di Nietzsche da parte di d’Annunzio risale a qualche


anno prima, quasi certamente al 1892 quando per la prima volta questi lo cita in un
articolo apparso sul “Mattino” (del 25 settembre). E già nella dedica a Michetti del
Trionfo della morte (1° aprile 1894) d’Annunzio preannunzia l’avvento del Superuo-
mo nella sua arte. Del resto […] altri precedenti possono trovarsi nella sua arte».
In Carlo Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano. (D’Annunzio, Pascoli,
Fogazzaro e Pirandello), Milano, Feltrinelli, 1960, p. 29. Sull’influsso nietzschiano in
d’Annunzio si rimanda, tra i molti studi esistenti, in particolare a Mazzino Montinari,
Nietzsche e la «decadénce», in D’Annunzio e la cultura germanica, Atti del VI Conve-
gno Internazionale di studi dannunziani, Pescara, 3-5- maggio 1984, Pescara, Centro
Nazionale di Studi Dannunziani, 1985, pp. 117-127.
97
Secondo Maria Giovanna Sanjust, ad esempio, «Il tempo del ricordo e della memoria,
quasi assente nelle liriche precedenti, caratterizza la struttura della raccolta del-
le Elegie romane sia che si espliciti nei ritmi lunghi, sia che si manifesti in quelli
spezzati, quasi singhiozzanti, caratterizzati da un uso fitto della punteggiatura, quasi
a rendere l’immediatezza del colloquio secondo un uso che è costante nel contempo-
raneo Poema paradisiaco, o a cogliere una sensazione o a enfatizzare momenti d’in-
trospezione psicologica; sia infine che si mostri in quelli iterativi retti su parallelismi
e anafore». La studiosa, facendo un parallelo tra l’atteggiamento di d’Annunzio verso
Roma nelle Elegie e quello verso la voce delle cose nella lirica O rus! nel Poema
paradisiaco afferma anche che «La visione di Roma è una visione d’immenso in cui
l’animo del poeta si placa allorché si è lasciato alle spalle il turbine delle passioni.
È la stessa attenzione, la stessa partecipazione sensuale alla voce delle cose che sarà
riproposta alla fine del 1892, come ha rilevato il Conti, nella paradisiaca O rus! il
cui primo nucleo risale però a una poesia del 30 marzo 1883 dallo stesso titolo, poi
rifiutata, che esprime un’aspirazione non dissimile perché sempre il poeta sognò di
farsi anima delle cose in tutte le cose». In Maria Giovanna Sanjust, Introduzione,
in Gabriele d’Annunzio, Elegie romane, a cura di Maria Giovanna Sanjust, Milano,
Mondadori, 2005, pp. XXVII e XXIV-XXV.

91
Secondo capitolo

al conseguente desiderio di liberarsene che porterà d’Annunzio a svi-


luppare un tema nuovo, quello della “bontà” intesa come sazietà della
carne e avvicinamento, ma anche questo in un certo senso ammantato
di voluttà, a una dolce malinconia.
Anche dal punto di vista stilistico, il poeta si avvia a rompere con le
eleganti raffinatezze tecnico-espressive, che proprio nell’Isaotta Gutta-
dàuro avevano trovato la loro massima espressione, per adottare uno stile
più consono al ripiegamento introspettivo dolente e riflessivo che carat-
terizza la sua opera in prosa e in poesia di questi anni. Questo momento
di transizione si concluderà e troverà la sua compiuta realizzazione nel
Poema paradisiaco, appunto, che per Walter Binni «occupa un posto
importantissimo nello svolgimento del decadentismo italiano»98 e che
sembra portare alle estreme conseguenze i motivi presenti nelle speri-
mentazioni avviate con l’Episcopo.
La struttura di questa silloge ha una forte impronta autobiografica che
proprio sul distacco da un’esistenza persa nel sensualismo più alienante
e nel recupero dell’innocenza legata all’infanzia e alla fanciullezza trova
il suo punto di forza. Da ciascuno dei componimenti che costituiscono
la raccolta, come dall’opera nel suo insieme, emana la nuova e forte
avversione verso una sessualità soggiogatrice che annichilisce l’animo
del poeta, mentre l’attitudine alla purificazione trova finalmente un esito
preciso verso cui indirizzarsi:

Essa si incanala positivamente nel desiderio e nello sforzo di attingere una


«bontà» che a sua volta si identifica in cose «buone» per definizione, come
l’innocenza infantile, la terra e la casa natale, il nucleo familiare, la madre
e le sorelle. Inoltre, in alcune liriche composte in epoche diverse e signifi-
cativamente poste nell’Epilogo della raccolta, l’ansia di bontà che, nelle due

98
Walter Binni, La poetica del Decadentismo italiano, Firenze, Sansoni, 1949, p. 74.
Poco prima, tuttavia, il grande critico perugino aveva specificato anche che «L’ac-
cento del Poema paradisiaco ha fatto prendere quest’opera come l’unica veramente
decadente del d’Annunzio, per la sua chiara parentela con i decadenti francesi e
per il fatto che in Italia l’atteggiamento decadente è stato identificato senz’altro con
quello dei crepuscolari, degli stanchi, dei languidi. Prevale insomma, di fronte alla
stanchezza del Poema Paradisiaco, l’accezione deteriore del decadentismo», in ivi,
p. 72.

92
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

sezioni centrali del Poema appare variamente insidiata da ostacoli come


l’erotismo sempre in agguato o come l’evasione nel sogno, trova uno sboc-
co del tutto inatteso. Nelle liriche dell’Epilogo, infatti, dopo che il ritorno
al passato dell’infanzia, simboleggiato nella casa pescarese e nella madre,
si è rilevato illusorio, la salvezza dai mostri della lussuria e delle chimere
dell’arte si configura come una sorta di raggiunta maturità e come un pro-
gramma di apertura verso il prossimo e verso la sofferenza altrui. In questa
nuova soluzione si sentono risuonare sia l’eco delle dure esperienze di vita
realmente sofferte in quegli anni dal poeta sia l’eco delle istanze cristia-
no-sociali mutuate dalla letteratura dei romanzieri russi, nel solito impasto
di letteratura e vita che caratterizza l’attività dannunziana.99

Il Poema come una specie di passaggio iniziatico, dunque, grazie al qua-


le il poeta chiude una fase della propria vita creativa e si apre a nuove
prospettive e a un futuro nel quale potrà realizzarsi pienamente la sua
maturità artistica. I modelli letterari di questo nuovo sviluppo dell’arte
dannunziana vanno, come sempre, cercati negli autori e nelle esperienze
letterarie d’Oltralpe, oggetto di costante attenzione e fonte certificata per
tutti gli adattamenti dell’estetica del Pescarese in questo giro di anni: la
scoperta e la lettura dei versi tenui e delicati di Maurice Maeterlinck; la
rilettura di quelli di Paul Verlaine, mirata a coglierne in modo particola-
re la melodicità e i toni soffici; il passaggio dal parnassianesimo al sim-
bolismo,100 insomma, e, infine, la scoperta – anche questa mediata attra-
verso la fortuna che ebbero grazie alle traduzioni francesi – dei romanzi
russi e del tema della “bontà”. A tutto ciò nel Poema corrispondono una
tecnica e uno stile programmaticamente bassi, fondati sulle iterazioni,
su inserti di discorso diretto e di periodi interrogativi ed esclamativi che
creano forti corrispondenze con le modalità pascoliane e che aprono alle
future esperienze crepuscolari, tanto da far scrivere a Sergio Solmi, a
proposito di Martini, «che non uscì effettivamente mai dall’atmosfera del

99
Federico Roncoroni, Attività letteraria, ideologia e arte in Gabriele d’Annunzio, in
Piero Chiara, Vita di Gabriele d’Annunzio, pp. 471-512, 482.
100
Su d’Annunzio e il simbolismo cfr. D’Annunzio e il simbolismo europeo, Atti del Con-
vegno di studio, Gardone Riviera, 14-15-16 settembre 1973, a cura di Emilio Maria-
no, Milano, Il Saggiatore, 1976.

93
Secondo capitolo

Poema paradisiaco», mentre «prevalenti e inevitabili»101 sono definiti


gli influssi dannunziani per Corazzini. Secondo Federico Roncoroni102
è proprio sul piano stilistico che questa raccolta trova i suoi maggiori
meriti, perché mostra come l’assimilazione dei modelli appena ricordati
sia stata convinta, profonda e, soprattutto, densa di prospettive anche
per i futuri approdi lirici, in modo particolare alcyonici, e come grazie
all’adozione di un linguaggio semplice, discorsivo eppure potentemente
musicale o anche all’uso di modalità espressive tipicamente simboliste
d’Annunzio sia riuscito a superare le raffinate estenuazioni stilistiche
delle raccolte precedenti, dando vita a una poesia nuova che con auto-
revolezza prosegue sulla linea di superamento dei metri tradizionali già
attuata dal Carducci nelle Odi barbare.
Centrale per la struttura tematica del Poema paradisiaco risulta il
motivo del ritorno nello spazio domestico dell’infanzia, che costitui-
sce un topos della lirica simbolista e che negli stessi anni viene svi-
luppato, ma con una pregnanza e una costanza ben diverse, anche
da Pascoli. Figura di riferimento di questo orizzonte è ovviamente la
madre, la Nutrice103 della lirica proemiale, che ha una triplice fun-
zione: elemento di richiamo del passato, ossia dell’infanzia e della
fanciullezza; possibile motore di un percorso di purificazione che può
tradursi in un’esistenza differente rispetto a quella condotta sino ad
ora; metafora vivente di quella terra/madre104 – l’Abruzzo, la sua na-
tura e le sue tradizioni ancestrali – dalla quale è stato tratto l’humus
in cui si è formato il poeta. D’Annunzio apre il componimento con
una contestualizzazione ambientale dal vago sapore leopardiano – la
notte gelida ma pura, e quindi limpida; la madre che alla fioca luce
della lucerna fila la lana (vv. 1-6) – per poi passare a delineare la

101
Sergio Solmi, Sergio Corazzini e le origini della poesia contemporanea, in Id., Scrittori
negli anni. Saggi e note sulla letteratura italiana del ‘900, Milano, Il Saggiatore,
1963, pp. 263-277, rispettivamente 265 e 264.
102
Roncoroni, Attività letteraria, ideologia e arte in Gabriele d’Annunzio, pp. 482-483.
103
Alla nutrice (Poema paradisiaco), vol. I, pp. 599-600.
104
Sulla figura della madre e sul tema della terra/madre in d’Annunzio cfr. Benito No-
gara, La componente pastorale nell’opera dannunziana. Gli archetipi della nostalgia
delle origini, Ann Arbor, University Microfilms International, 1984.

94
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

figura materna in un prospettico alternarsi della donna giovane del


passato, fonte di vita, di sicurezza e di riposo per l’infante (vv. 7-8), e
della donna anziana del presente, fonte di amoroso rispetto e quindi
di pentimento e di ravvedimento, grazie anche alle qualità intrinseche
che ne trasfigurano l’immagine, trasformandola in un’entità con poteri
al di là dell’umano: «ove la semplice anima indovina / si rivela talor
quasi divina» (vv. 15-16). La madre è simbolo di purezza e di inno-
cenza, non solo perché genitrice, ma anche perché in lei si riassumono
tutte le valenze positive della terra/madre, ossia dello spazio fisico nel
quale il poeta ha trascorso i suoi primi anni e dal quale ha tratto la
sua forza interiore. Questa è la causa del pianto rigeneratore che al
contatto con la figura materna e con questa realtà coglie il poeta: un
pianto attraverso il quale d’Annunzio riscopre la parte più intima e
sincera di sé e che, proprio per questo, lo riporta alla sua fanciullezza,
lo fa finalmente tornare quel fanciullo innocente – immagine che sot-
tende a tutta la raccolta, ma che solo poche volte viene effettivamente
evocata – che mai si sarebbe aspettato di dover convivere con quelle
«cose orrende» citate alla fine della quarta strofa:

io forse piangerei ancora un pianto


salúbre e forse ancora dal profondo
mi sorgerebbe qualche antico e santo
affetto, e mi parrebbe nel tuo canto
ritrovar l’innocenza di quel biondo
pargolo; - e lungi queste cose orrende!
(vv. 19-24)

Siamo nel pieno di quello che l’Andreoli e la Lorenzini definiscono un


«programmatico ritorno all’infanzia destinato a ripetersi sia in Alcyone
(Il fanciullo) che in Maia (I giacigli)»105 e che secondo le due studio-
se approderà a un esito diametralmente opposto nella lirica finale della
sezione Hortulus Animae, Suspiria de profundis, perché in essa il para-
diso primigenio si trasformerà in un paradiso “artificiale”, richiamando

Note 2, pp. 1147-1148.


105

95
Secondo capitolo

esplicitamente Baudelaire e quindi il volume di memorie nel quale De


Quincey giustifica il suo disagio psichico e la sua soggezione alle droghe
con i traumi subiti proprio durante l’infanzia.106 Per il momento, tuttavia,
l’identificazione con il mondo dell’infanzia e con la figura della madre è
totale, e l’immagine del «biondo pargolo» comunica una dimensione di
fanciullesca freschezza che guarda il mondo con occhi privi di qualsiasi
malizia e non ancora intorbiditi dal potere annichilente del “male di vi-
vere”. D’Annunzio arriva persino a suggerire un parallelismo tra la pro-
pria rinascita e la nascita del Salvatore inserendo nella lirica elementi
che inducono il lettore a questo raffronto: l’indicazione temporale in cal-
ce alla lirica, «Natale del 1892», è rafforzata dalla già citata contestua-
lizzazione ambientale nei primi due versi della prima strofa, «Gelida sta
la notte cristiana / su le case degli uomini, ma pura» a sua volta ripresa
e ampliata nella quinta strofa, vv. 25-27, dove viene esplicitamente inse-
rita un’immagine che richiama fortemente l’iconografia del presepe: «E
tutta la freschezza del tuo latte / ne le mie vene! – Una natività / novella,
in un candor di nevi intatte».
Dal d’Annunzio «biondo pargolo» al d’Annunzio Gesù Bambino, insom-
ma, la cui purezza viene amplificata per tutta la lirica dai continui rife-
rimenti ad oggetti di colore bianco: la «lana / della tua greggia» (vv. 4-5)
ripresa poi nel «bianco fiore / dei velli» (vv. 11-12); i capelli candidi
che incorniciano la testa della madre (v. 14);107 il latte materno, che alla
simbologia cromatica unisce quella del liquido nutritivo,108 e la neve dei
versi già citati; il «candore natale» del v. 32 seguito da «Una immensa
bianchezza immacolata» di quello successivo. Questa insistenza croma-
tica avvolge e accompagna con la sua pregnanza simbolica l’evidente
desiderio del poeta di modificare la propria condizione, perché, come

106
Ivi, p. 1147.
107
Mentre in Consolazione, (Poema paradisiaco), vol. I, pp. 668-670 sarà il volto materno
ad essere adorno della purezza soffusa del bianco: «Troppo sei bianca: il volto è quasi
un giglio» (v. 4).
108
Sulle valenze simboliche del latte materno cfr. Gaston Bachelard, L’Eau et les Rêv-
es. Essai sur l’imagination de la matière, Paris, Corti, 1942 (parzialmente tradotto
in: Psicanalisi delle acque. Purificazione, morte e rinascita, Como, Red, 1987, p.
100 ss.).

96
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

sostiene Alberto Castoldi, «bianco è l’abito dei comunicandi e delle spo-


se, candidus è il colore del candidato, di colui che si accinge a cambiare
il proprio stato»109 e tutto ciò è confermato, nella lirica dannunziana,
dall’immagine dell’«anima rinata» del v. 31. Il cambiamento così inten-
samente auspicato è però ancora incerto, e l’explicit della lirica proe-
miale ne dà fedele testimonianza con un’ultima immagine che pone una
grave ipoteca sul buon esito del percorso che d’Annunzio vorrebbe intra-
prendere. Anche in questo caso, è l’immagine della madre a occupare il
centro della scena, ma, questa volta, in una veste che significativamente
contraddice quella duplice di madre giovane – fonte di vita – e madre
anziana – motore di pentimento – che si è vista in apertura del testo.
Qui, infatti, viene introdotta una terza figura, quella della donna vecchia
senza più alcun contatto con la vita («e morta la mammella pende», v.
44) che, sia pur involontariamente, assume le forme della seconda delle
parche, Larchesi, che tesse per il figlio un destino diverso da quello
sperato. Un destino che in quest’ultimo scorcio di lirica (vv. 37-43) sem-
bra allontanarsi dal sogno di rigenerazione e di ritorno al mondo della
fanciullezza su cui aveva indugiato il pensiero del poeta, grazie anche
all’insistenza su alcuni verbi e sostantivi allitteranti, come «torcere» e
«tristezza», che non casualmente vengono posti in apertura di verso:

Ma tu, che ne la casa tua lontana


torci il fuso, non sai la mia ventura.
Fili con dita provvide la lana
de la tua greggia; ne sai la mia vana
tristezza, in quest’azzurra notte pura.
Tu torci il fuso, e il ceppo a tratti splende.

E fili, e fili sin che l’olio dura,


[…]

Nonostante questa pesante ipoteca che getta la sua ombra sinistra su


tutto il prosieguo della raccolta, per il momento il moto interiore che

Alberto Castoldi, Bianco, Firenze, La Nuova Italia, 1998, p. 3.


109

97
Secondo capitolo

spinge d’Annunzio a riappropriarsi del mondo della sua fanciullezza, a


ritornare fanciullo e a vivere in una realtà fatta di bontà e di innocenza
sembra avere la meglio su tutte le possibili difficoltà. Nella lirica inti-
tolata Il buon messaggio,110 terza del Prologo, l’attacco dostoevskiano111
ha un’importante variante rispetto alla fonte. Vengono infatti riproposte
le immagini delle piccole foglie primaverili che spuntano sui rami, il
cielo sconfinato, le tombe dei cari da venerare e su cui pregare, la casa
e ancora la madre, ma a tutto ciò si aggiunge una figura che non è pre-
sente in Dostoevskij, quella dei fanciulli («e i fanciulli?», v. 3) che ha
lo scopo evidente di soddisfare un profondo bisogno di identificazione
di d’Annunzio con un elemento che richiami l’innocenza e la bontà. A
proposito di questa lirica, che insieme alla quinta del Prologo forma
un dittico dedicato alla sorella Anna, ha scritto Federico Roncoroni nel
commento al testo:

A lei [Anna], infatti, il d’Annunzio promette quel ritorno in seno alla fami-
glia che gli appare come l’unica soluzione possibile alle sue sofferenze e
che si configura come il vagheggiato ma impossibile recupero dell’innocenza
infantile: un ritorno che nel Nuovo messaggio sarà di nuovo promesso e che
in Consolazione, che nella struttura del Poema paradisiaco viene collocata
dopo questi due componimenti, ma che in realtà è ad essi cronologicamente
anteriore, è dato per avvenuto.112

In generale, la lirica presenta più di uno spunto di confronto con Alla


nutrice. Se in quest’ultima, infatti, il contesto ambientale era invernale e
natalizio e l’oggetto dei versi era la madre, nella prima il paesaggio evo-
cato è primaverile e la persona cara a cui il poeta si rivolge è la sorella,
mentre alla “nutrice” viene riservato uno spazio minore. Da notare, per
inciso, come entrambi questi personaggi assumeranno poi una valen-
za fondamentale nel Libro secondo del quasi coevo Trionfo della morte,
dove costituiranno gli unici elementi positivi – anche se alla madre viene

110
Il buon messaggio, (Poema paradisiaco), vol. I, pp. 604-605.
111
Note 2, pp. 1154-1155.
112
Gabriele d’Annunzio, Poesie, introduzione, scelta dei testi, note e commenti di Fede-
rico Roncoroni, Milano, Garzanti, 9a ed., 2003, p. 161.

98
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

attribuita la responsabilità di uno sgradito richiamo all’ordine – di un


ritorno a casa già in questo caso preannunciato come fallimentare e al
quale il protagonista preferirebbe comunque sottrarsi. Fulcro del Buon
messaggio è dunque la primavera, la stagione del rinnovamento della
natura e degli uomini, dei loro propositi e dei loro programmi di vita. La
primavera è quella parte dell’anno nella quale si torna ad essere fanciulli
perché forte è il richiamo con il mondo circostante che ricomincia a cre-
scere e che quindi, almeno simbolicamente, si apre a nuove prospettive e
possibilità. Il d’Annunzio/fanciullo, il «figliuolo» che «Tornerà […] / a la
sua casa» (vv. 13-14) è come quelle foglioline novelle – il sostantivo “fo-
glia/e” è ripetuto ben quattro volte in tutta la lirica, ai vv. 1, 8, 19 e 36,
cioè l’ultimo – che si aprono a una nuova vita, tonificate dal sole dolce
della primavera e nutrite dalla «rugiada» raccolta nell’incavo della mano
della sorella al v. 9. È il tripudio della natura e delle sue facoltà medica-
mentose, alla quale la madre e la sorella sono profondamente affini, tanto
da trasformarsi ne «l’albero e l’arbusto» (v. 29) che il poeta, con un gesto
simbolico che assume valenza catartica e quindi salvifica, vuole toccare
per poter essere riammesso alla realtà dalla quale si è allontanato. È il
ritorno alle origini, nel tempo, nello spazio e nel contatto con gli affetti
più sinceri, immerso in una dimensione le cui componenti si trasformano
tutte in segni di rinascita:

Domani tornerà... – Vuoi tu che torni


domani? Dunque aspettami, sorella.
Io le piccole foglie, la novella
erba, e le acque correnti, e certi giorni

così chiari che sembra vi si effonda


quasi un latte divino, e certe lente
notti ove quasi un’ansia occultamente
sospira e poi la calma è piú profonda,

io veda, io goda: queste cose io veda,


io goda, e tu mi sia compagna sola.
(vv. 17-26)

99
Secondo capitolo

Dunque erbe nuove, acque correnti, giorni luminosi e, come in Alla nutri-
ce, un latte divino che è nutrimento puro per d’Annunzio/fanciullo. E però
anche notti, nelle quali un’inquietudine momentaneamente sopita riemer-
ge dal profondo, per poi tornare a sciogliersi nella calma infusa dall’o-
ceano di ombre nel quale l’individualità del poeta sembra “naufragare”.
Come nella lirica proemiale, anche nel Buon messaggio vi è dunque un
continuo, contrappuntistico richiamare una condizione dalla quale il poeta
vuole fuggire e di cui proprio quell’ansia è il segno evidente. D’Annunzio,
«stanco di mentire» (v. 14, sintagma poi ripreso nel secondo verso della
prima quartina di Consolazione, lirica nella quale il personaggio materno
torna protagonista: «Non pianger più. Torna il diletto figlio / a la tua casa.
È stanco di mentire») e «da troppo tempo solo» (v. 16), sente ancora il
peso della «brama» (v. 31) e del «disgusto» (v. 32) che opprimevano la sua
anima. Ma forse, in questa fase, una speranza di tornare alla purezza della
fanciullezza esiste ancora, ed è quella evocata nella chiusa della lirica,
che con ciò si distacca dalle conclusioni di quella proemiale: «[…] E dim-
mi, dunque, dimmi: in cima / ai rami, ai rami teneri, è la prima / foglia? e
brilla? E tu hai dunque cantato?» (vv. 34-36). All’immagine della madre,
involontaria parca, che in Alla nutrice filava un destino probabilmente in-
fausto al figlio perduto, qui si contrappone la canzone della sorella: canto
di vita e canto di gioia, canto di rinnovamento e canto di rinascita.
E la figura del puer, sempre immersa nel tripudio di un paesaggio natura-
le e umano ora settembrino, torna in O rus!,113 dodicesima composizione
della sezione Hortulus Animae e, secondo la critica, la più pascoliana tra
le liriche paradisiache.114 Il «fanciul» che nei fossi «abbevera la falba
/ e bianca maculata ruminante» (vv. 23-24) non è solo un’apparizione
fugace in questa lirica che, come già notava Adelia Noferi, molto ha in

O rus! (Poema paradisiaco), vol. I, pp. 681-683.


113

Note 2, pp. 1178-1179: «E se ci si chiede la ragione per cui fra tutte le liriche dan-
114

nunziane, l’alter ego del poeta […] propone le quartine di O rus! come il precedente
da segnalare in vista della nuova gloria della natura, si potrebbe rispondere che è
giusto qui uno dei momenti più flagranti della sottile competizione del d’A. con il
Pascoli». L’alter ego è l’Angelo Conti della Beata riva, definito dalla Andreoli «nel
novero dei più stretti sodali» del poeta; in Annamaria Andreoli, D’Annunzio, Bologna,
Il Mulino, 2004, p. 63.

100
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

comune con il Meriggio alcyonio,115 ma è anche figura di riferimento nel


momento in cui diventa specchio dell’autore quando questi, nella nona
strofa, dopo aver concluso la lunga parte riepilogativa nella quale ven-
gono ricordate tutte le bellezze della stagione declinante e i personaggi
che la abitano con le faccende che li occupano in questi mesi, torna a
centrare l’attenzione su se stesso ed esclama: «[…] in qual mai tempo e
dove / m’erano queste cose godimento / sommo? in qual tempo, dove, se
a me intento / queste cose oggi paiono sì nuove?». È questo un nuovo,
severo richiamo a quella condizione di estraneità che oramai ha allon-
tanato d’Annunzio dalle sue radici e con la quale il poeta cerca ora di
rientrare in contatto per ritrovare se stesso:

Non cerca oggi il mio spirito l’occulto


simbolo al suo dolor laborioso,
ma attonito si placa in un riposo
profondo, quasi in un divino indulto.
(vv. 37-40)

Inizia, da questi versi, un percorso di recupero totale del d’Annunzio/


fanciullo che si palesa nella figura del «roseo pargolo» (v. 48) richieden-
te a gran voce che gli venga restituita la sua fanciullezza colma dei doni
puri e vivificanti i quali, nella loro naturale semplicità, contribuivano ad
ammantare quell’esistenza dell’innocenza e della bontà ormai perdute:

Datemi i frutti succulenti, i buoni


frutti de la mia terra, ch’io li morda.
Ah forsennato chi non si ricorda
di te, Madre, e de’ tuoi semplici doni!

Datemi il fresco latte, ch’io lo beva


a larghi sorsi. Per le vene irriguo
mi scenda come allor che ne l’esiguo
petto al roseo pargolo scendeva

Cfr. Adelia Noferi, L’Alcyone nella storia della poesia dannunziana, Firenze, Vallec-
115

chi, 1945, p. 149.

101
Secondo capitolo

da l’adusta nutrice; ed io ne senta


fluire tutta in sino al cor profonda
la freschezza aromale. […]
(vv. 41-51)

Questi sono i regali che la «Madre» può elargire ai suoi figli, e in modo
particolare ai fanciulli, i soli a poterne gustare appieno, per quanto
inconsciamente, non solo le facoltà rigeneranti, ma anche i significati
metaforici: i frutti «succulenti» della terra sono il correlativo oggettivo
della puerizia.116 E ancora il fresco e bianco latte, qui riproposto nella
pienezza della sua simbologia di liquido nutritivo non a caso subito se-
guito dall’immagine di quell’altro fluido fondamentale che della vita è
il simbolo per eccellenza: il sangue che scorre nelle vene e che irrora il
cuore. Questo, nel Poema paradisiaco, è il momento più alto nel quale
il sogno di tornare alla felicità e bontà della fanciullezza è finalmente,
anche se solo temporaneamente, realizzato. Un momento che probabil-
mente trova la sua espressione più felice nella quartina finale della già
citata Consolazione,117 la poesia più rappresentativa del tono di questa
silloge sia per la densità riassuntiva dei motivi tematici che in essa si
trovano (il ritorno a casa del figlio, la ricerca dell’innocenza nella casa
della fanciullezza, l’immagine materna118) sia per il registro volutamente
basso ma al contempo altamente musicale dei sui versi. Nell’apparente

116
«The only way of expressing emotion in the form of art is by finding an “objective
correlative”; in other words, a set of objects, a situation, a chain of events which shall
be the formula of that particular emotion; such that when the external facts, which
must terminate in sensory experience, are given, the emotion is immediately evoked»,
Thomas Stearns Eliot, The Sacred Wood. Essays on Poetry and Criticism, London,
Methuen, 1920, p. 93.
117
Cfr. nota 107.
118
La lirica venne compiuta l’11 gennaio del 1891 e, come segnala Federico Roncoro-
ni, d’Annunzio era effettivamente tornato a Pescara per un breve soggiorno dal 23
al 30 dicembre del 1890, trovandosi tuttavia in una situazione familiare e in uno
stato d’animo ben diversi da quelli prospettati nel componimento, come rivela una
lettera a Barbara Leoni pure citata da Roncoroni: «La mia casa è senza conforto. Io
avrei preferito di non vedere, di non sentire, d’ignorare certe disperazioni… sento
che quindici giorni di questa vita mi farebbero morire». In d’Annunzio, Poesie, p.
188.

102
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

semplicità dell’immagine proposta in questa strofa si concentra il genio


di un autore che, dopo i fasti retorici delle raccolte precedenti, si sco-
pre felice cantore della parola schietta e franca, anche se quest’ultima
è l’evidente risultato non di un flusso spontaneo di poesia, bensì di un
intenso lavorio teso a raggiungere il tono e il registro desiderati:119

Tutto sarà come al tempo lontano.


L’anima sarà semplice com’era;
e a te verrà, quando vorrai, leggera
come vien l’acqua al cavo de la mano.
(vv. 65-68)

Come a dire: la mia anima tormentata ritroverà l’innocenza della fanciul-


lezza, ritroverà le radici della vera poesia.

2.3.3 Maia e i prodromi del fanciullo alcyonio


Nonostante l’importanza che il Poema riveste a livello tematico, oltre
che metrico, dopo la sua pubblicazione le prospettive ideologiche dan-
nunziane subivano una svolta decisiva che ribaltava completamente, pur
nella continuità che è sempre possibile segnare all’interno del sistema
dannunziano, le conclusioni umanitario-sociali o più genericamente
«buone» di questa raccolta, avviando, di conseguenza, anche il supera-
mento proprio delle esperienze stilistiche che l’avevano caratterizzato.
Questo cambiamento era indispensabile e necessario, perché se è vero
che il Poema è una tappa importante nella storia della poesia dannunzia-
na, è anche vero che un d’Annunzio arroccato ai languori, alle estenua-

Ecco il giudizio, forse un po’ eccessivo, di Roncoroni in merito a questa lirica in


119

particolare e al Poema in generale: «In realtà, al di là dell’apparente ingenuità sen-


timentale e sotto l’apparente immediatezza espressiva, la lirica rivela un laborioso
studio di immagini e di eleganze e una sapiente e calcolata ricerca di “effetti”, tutti
volti a irretire il lettore nell’ambiguo e un po’ falso sentimentalismo delle cose buone
e dei semplici valori familiari. Nel componimento, infatti, d’Annunzio dispiega tutta
una serie di espedienti tecnico-espressivi che sono tipici della stagione “paradisiaca”
e che esaltano la sostanza sentimentale, voluttuosa e dolce, tanto da risultare qua e là
sdolcinata, della situazione». Ivi, p. 189.

103
Secondo capitolo

zioni e alle prosaicità tipiche delle liriche di questa fase non sarebbe mai
giunto alle Laudi e, soprattutto, alla grandezza di Alcyone.
In effetti, negli anni stessi in cui venivano composti i versi del Poema
paradisiaco e delle ultime Elegie romane e le pagine dell’Innocente,
contemporaneamente quindi al distillarsi dello spirito tolstoiano nella
lirica e nella prosa del Pescarese, la mai sopita curiosità dannunziana,
che è un altro aspetto del suo complesso sperimentalismo, si imbat-
teva, attraverso le deformazioni dell’esaltazione wagneriana, nel mito
nietzschiano del superuomo. Un incontro che doveva rivelarsi decisivo
per il prosieguo della sua esperienza artistica. Esso, come primo ri-
sultato, produsse l’effetto di liberare il poeta dalle ambigue velleità
moraleggianti sulle quali aveva incentrato le opere composte in quel
giro di anni; poi, e soprattutto, ebbe l’effetto di riconciliarlo con il suo
innato sensualismo, riportandolo, almeno in questo campo, sulla via di
quella sincerità espressiva e di quella adesione alla sua più intima e
vera natura che contraddistingueranno almeno la prima fase dell’epo-
pea compositiva delle Laudi.
Nato come racconto di un viaggio verso le origini mitiche della propria
cultura e quindi della propria essenza più profonda, viaggio che bio-
graficamente corrisponde alla crociera del 1895 sul panfilo Fantasia di
Edoardo Scarfoglio,120 Maia, primo di un progettato ciclo di sette libri
dedicati alle Pleiadi, segna effettivamente il punto di partenza ideale di
un percorso che idealmente si riallacciava all’infanzia e alla fanciullezza
del mondo, l’Ellade appunto, per poi collegarsi a quella Toscana che
divenne il motore del primo Rinascimento – e che sarà celebrata in Al-
cyone – e a Roma, erede designata di una cultura greca amplificata nella
gloria dell’impero costruito sul valore delle imprese militari, e destinata

E Annamaria Andreoli sottolinea anche l’importanza della documentazione diaristica


120

della crociera come fonte per la composizione dei versi di Maia. Si tratta in specifico
dei taccuini III e IV nell’edizione curata da Enrica Bianchetti e Roberto Forcella
(Milano, Mondadori, 1965, pp. 29-73) che contengono il giornale di bordo della cro-
ciera e che d’Annunzio aveva pensato di dare alle stampe, tranne poi, nel febbraio del
1896, cominciare a versificarli. Cfr. Annamaria Andreoli, Introduzione, in Gabriele
d’Annunzio, Maia, a cura di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori, 1995, pp. VII-
LXIV, LIII-LXIII (d’ora in poi Introduzione 2) e Appendice, ivi, pp. 345-386, 347.

104
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

a continuare su questa strada nella prospettiva di un secondo Rinasci-


mento, del quale la città eterna si farà sicura promotrice grazie anche
allo stimolo e all’opera proprio di d’Annunzio, che di questa nuova età
dell’oro si proclama supremo cantore.
In tutto ciò si fondono una nuova visione della vita, incentrata su un
«nietzschianesimo istintivo»121 che spinge verso un vitalismo sensualisti-
co nel quale il poeta si riconosce pienamente, la definizione dell’Ellade
come mitica fanciullezza dello spirito e, conseguentemente, l’identifica-
zione di questa imprescindibile fase storico-culturale con la fanciullezza
biografica e artistica del poeta: l’io di d’Annunzio e la Grecia matrice
dell’Occidente sono quindi uniti in un parallelismo dal quale deve ri-
sultare chiaro il ruolo centrale del primo nella fondazione di un modello
rinnovato della seconda:

Perché garante del Vate moderno, del cantore della vita nova, sarà appunto
il passato augusto, che rivivrà (si realizza così il poema di vita totale) in un
“nuovo Rinascimento”, in una “nuova primavera dello spirito”, di cui d’An-
nunzio si arroga, sicuro, un avvento scandito dall’incessante più oltre che
recitano i suoi motti fin troppo fortunati.122

L’inizio del viaggio e dell’avventura ulissiaca verso la conoscenza di sé


e delle proprie radici inizia per d’Annunzio proprio dalla rievocazione
della propria fanciullezza. La prima parte della seconda sezione di Maia,
intitolata I giacigli,123 è dedicata per l’appunto alla visone retrospettiva
di questa fase importante per la formazione del poeta, nella quale vengo-
no individuati i germi di quello spirito e di quel carattere che saranno i
presupposti necessari alla sua evoluzione superomistica. È il panorama
abruzzese quello che viene descritto nei versi di questa sezione, uno
scenario già incontrato in tanti passi delle novelle e di alcuni romanzi
e che è armonicamente composto di terre riarse e di mare turchino, di
campi sterminati di grano o puntellati di covoni e di acque costellate di

121
Introduzione 2, p. XVII.
122
Ivi, p. XX. I corsivi sono nel testo.
123
II, I giacigli, (Maia), vol. II, p. 17, vv. 9-42.

105
Secondo capitolo

barche da pesca, di contadini e di marinai, di una dimensione agreste


e di una marina che pur nella loro diversità compongono un tutt’uno
armonico compatibile con la dimensione totalizzante della poesia, così
come totale voleva essere l’opera wagneriana verso la quale tendeva l’ar-
te dannunziana:

Attonito io rimirava
la luce e il mondo. Quanti
furono i miei giacigli!
Giacqui su la bica flava
udendo sotto il mio peso
stridere l’aride ariste.
Giacqui su i fragranti
fieni, su le sabbie calde,
su i carri, su i navigli,
nelle logge di marmo,
sotto le pergole, sotto
le tende, sotto le querci.
Dove giacqui, rinacqui.
(vv. 9-21)

In quest’ultimo verso sta ovviamente il nucleo semantico dell’intera se-


zione, perché l’ininterrotta sequenza delle nascite e delle rinascite co-
stituisce il motore primario dell’esistenza del superuomo che, proprio
grazie alla sua capacità di adattamento alla sempre mutevole realtà, di-
mostra la propria superiorità sugli altri esseri e la propria capacità di
non legarsi a nulla per essere padrone e dominatore di tutto. D’Annunzio
trasforma se stesso nella personificazione magistrale di questa dote, in-
dividuandone l’origine proprio nell’età della sua fanciullezza e legando-
la simbolicamente alla molteplicità del paesaggio e quindi all’estrema
diversificazione degli stimoli grazie ai quali essa si è formata e affinata:

Mi persuase i sonni
il canto della trebbia,
il canto dei marinai,
il canto delle sartie al vento,

106
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

l’odore della pece,


l’odore degli otri,
l’odore dei rosai,
il gemitìo del siero
giù dai vimini sospesi
nella cascina, la vece
delle spole nei telai
notturna, il ruggir cupo
dei forni accesi,
il favellar leggero
dell’acque pei botri,
il battere della maciulla
nell’aia. […]
(vv. 22-38)

Per poi concludere, icasticamente, con l’invocazione di un silenzio nella


cui totalità la varietà del reale può e deve riassumersi, ad esemplificare
la completezza di un percorso iniziatico che dal fanciullo nato nelle ter-
re d’Abruzzo porterà al superuomo, il quale ha come suprema missione
quella di recuperare la tradizione dell’Ellade, della Roma classica e del
Rinascimento per riversarle nella nuova e auspicata era di grandezza
sotto la guida della terza Roma: « […] E parvemi talora / su quei fami-
liari / suoni farsi un alto silenzio / e riudire il lontano / canto della mia
culla» (vv. 38-42). È il poeta che si fa fanciullo, che deve farsi fanciullo
con il consenso e per grazia degli dei perché solo in questo modo potrà
tornare a cantare: «Combattere e vincere i mostri / non ti varrà su la Ter-
ra / se trasfigurarli non sai, / Aedo, in fanciulli divini».124

2.3.4 L’Etruria come nuova Ellade: la ricostruzione del mito


nello spazio della Toscana
Con Alcyone d’Annunzio non raggiunge solo il vertice della sua persona-
le parabola lirica, ma realizza anche l’opera nella quale, sia pur per un
breve attimo, il mito e la poesia “ingenua” nella loro più genuina acce-

VII, Il responso, (Maia), ivi, p. 68, vv. 270-273.


124

107
Secondo capitolo

zione schilleriana sembrano finalmente tornare a trionfare nel mondo e


risanarlo della sua malattia, ridonandogli la pienezza delle origini e, so-
prattutto, richiamando il poeta dal suo esilio per condurlo in una nuova
terra promessa, consentendogli di ricreare nella modernità quello spirito
dionisiaco che è condizione imprescindibile per un approccio vitalistico
alla realtà.125 Come già detto, si tratta solo di una fugace illusione e la
silloge si concluderà all’insegna della malinconia per la mancata realiz-
zazione di questo sogno e della nostalgia per una dimensione di armonia
tra arte e vita che, ancora una volta, si deve dare come irrimediabilmen-
te perduta, come altrettanto perduta perché irrimediabilmente trascorsa
è anche la fanciullezza del poeta e parimenti distante è la dimensione
dell’Ellade, simbolo della fanciullezza dello spirito e della poesia. Tutta-
via, le liriche di Alcyone riescono a indurre nel lettore la visione di una
realtà al di là del tempo: è l’epifania del mito, appunto, che se infine
risulta irrecuperabile nella favolosa lontananza della sua esistenza clas-
sica, per un momento sembra riprendere possesso della terra e tornare
a regnare su di essa, visibile solo a coloro, e al poeta in particolare, che
almeno per un attimo si lasciano alle spalle l’età adulta per ritrovare la
meraviglia della propria anima infantile. Come ricordato da Federico
Roncoroni e da Ilvano Caliaro,126 per d’Annunzio la traduzione poetica
di questa idea non deriva tanto dalle suggestioni pascoliane e dalle ri-
flessioni ad esse precedenti, quanto dalla rielaborazione che ne viene
fatta da Angelo Conti ne La beata riva, testo pubblicato nel 1900 con
prefazione proprio di d’Annunzio:

L’artista è come un fanciullo a cui tutte le cose producono un senso di mara-


viglia. La sua anima si rinnova ogni giorno, la sua gioia dinanzi alla perpetua
gioventù delle cose non ha confine. Le nuvole vaganti per il cielo, il lontano
ondeggiamento delle montagne, la fiamma che arde nel focolare, gli alberi e

125
Sulla costruzione e la struttura del terzo libro delle Laudi si rimanda al fondamentale
Franco Gavazzeni, Le sinopie di Alcione, Milano - Napoli, Ricciardi, 1980.
126
Cfr Federico Roncoroni, [Introduzione] a Il fanciullo, in Gabriele d’Annunzio, Alcyo-
ne, Milano, Mondadori, 1982, pp. 113-118, 116 e Ilvano Caliaro, [Introduzione] a Il
fanciullo, in Gabriele d’Annunzio, Alcione, a cura di Ilvano Caliaro, introduzione di
Pietro Gibellini, Torino, Einaudi, 2010, pp. 28-30, 29.

108
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

i fiori ch’egli vede ogni giorno gli dicono sempre nuove parole, gli rivelano
sempre qualche nuovo aspetto della vita. L’ispirazione è lo stato che precede
l’istante nel quale la sua maraviglia sarà espressa dallo stile. Se noi voglia-
mo comprendere gli artisti, è necessario che pensiamo ai bambini.
Qual profondità di sentimento, e quale limpidità di sguardo ha il fanciullo,
ancora non abituato alla quotidiana vicenda dei suoni e delle forme, delle
allegrezze e delle lacrime! E quali domande inattese gli consigliano il suo
stato di stupore, le sue sorprese, le sue paure, le sue gioie serene! Noi siamo
abituati allo spettacolo delle stelle, a veder soffrire e a veder morire: né mai
l’uomo comune e raramente l’uomo dotto si domandano che cosa è la morte
e che cosa sia l’immenso cielo stellato. Ma il bambino fa queste domande
ed altre ancora, che spesso ci rendono impossibile formulare una risposta
efficace ad appagare non dico la sua curiosità innocente, ma il nostro stesso
cuore.
Le medesime cose che il bambino chiede, chiede il filosofo e chiede l’artista.
Il quale, al cospetto della natura, ritrova la sua anima infantile; il che vuol
dire ch’egli può, contemplando le forme sempre vedute, sentire ad intervalli
l’impressione che danno le apparizioni nuove e inattese, e che inoltre può
generarsi in lui quello stato di ansietà curiosa e triste che è il carattere
essenziale delle anime filosofiche. Soltanto a colui al quale ad intervalli il
mondo apparisca come uno spettacolo nuovo, è concesso scoprire nelle for-
me la luce delle idee, e riflettere questa luce in opere che si sottraggano alle
leggi di morte.
La maraviglia dell’artista al cospetto della scena del mondo è la sua forma di
conoscenza. Quando la sua maraviglia sia piena, profonda e sincera, è segno
che al suo sguardo è apparsa la vita, e che dietro il velo della realtà egli ha
veduto l’idea.127

Pur nell’identificazione geografica dello spazio nel quale viene a ricre-


arsi l’Ellade evocata da d’Annunzio, «tra Luni e Populonia», è l’inde-
terminatezza spazio-temporale l’elemento dominante in Alcyone, perché,
come succede per le esperienze onirico-visionarie, solo attraverso lo
scardinamento delle coordinate ordinarie che regolano la vita umana si

Angelo Conti, La beata riva. Trattato dell’oblio, preceduto da un ragionamento di


127

Gabriele d’Annunzio, Milano, Treves, 1900, pp. 26-28.

109
Secondo capitolo

possono creare le condizioni per la manifestazione del mito.128 Ed ecco


allora aprirsi una linea narrativa che nel suo procedere si fa metafora: lo
scorrere delle stagioni, primavera-estate-autunno, che scandisce il per-
corso lirico evoca il tempo ciclico o il non tempo eterno della natura e
diventa il contesto perfetto nel quale richiamare le creature tipiche di
un paesaggio panico. Il non luogo e il non tempo della Toscana che si fa
Ellade diventano lo spazio privilegiato per l’evocazione del mito e quindi
della poesia, che proprio seguendo il filo delle stagioni sembra rinasce-
re nel presente del poeta, come accade alla natura in primavera, pare
prendere trionfalmente possesso della realtà, come succede d’estate, e,
infine, sembra prepararsi a ritornare malinconicamente nell’oblio, come
avviene in autunno. Alla rappresentazione del ciclo naturale si sovrap-
pone dunque un itinerario conoscitivo:

Il presagio di un «miracolo» annunciato, poi il suo avverarsi (l’epifania del


mito, la scoperta di una verità antichissima celata al moderno dall’«errore
del tempo»), infine il suo dissolversi; la natura esplosa nell’estate versiliana
sprofonda in una patria remota […], i satiri e le ninfe si rapprendono in sta-
tue, s’immalinconiscono in ruderi.129

È un lampo di consapevolezza, e al contempo di piena adesione con la


vita e con la natura, quello descritto in Alcyone, che illumina un paesag-
gio nel quale gli esseri umani subiscono metamorfosi fantastiche, magari
trasformandosi in personaggi mitologici e integrandosi quindi perfetta-
mente con il panorama versiliano circostante trasfigurato in spazio mi-
tologico, proprio come succede alla Duse che rinasce in Ermione o alla
sconosciuta bagnante dell’Onda che diventa Aretusa: «E per la riva l’ode
/ la sua sorella scalza / dal passo leggero / e dalle gambe lisce, / Aretusa
rapace / che rapisce le frutta / ond’ha colmo suo grembo».130
In questo contesto, la poesia si manifesta attraverso la parusia del fan-
ciullo che occupa la parte proemiale della raccolta.131 È l’irrompere della

128
Cfr. Pietro Gibellini, Introduzione, in d’Annunzio, Alcione, pp. V-XXV, VII.
129
Ivi, p. X.
130
L’onda, (Alcyone), vol. II, p. 538, vv. 78-84.
131
Intendendo infatti La tregua come lirica di raccordo con Maia e con Elettra, è proprio

110
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

divinità mitologica incarnatasi nelle forme di un giovinetto,132 la cui figura


coincide con quella del dio Ermes,133 nietzschianamente sentita come par-
tecipe nel bene o nel male alla vita degli uomini – «nume psicopompo» e
«dio mercuriale» lo definisce Pietro Gibellini134 –, ed è la materializzazio-
ne della poesia, o meglio, il concretarsi della poetica e quindi dell’idea che
d’Annunzio ha della poesia che dovrebbe riprendere possesso del mondo,
dominare la modernità e guidare gli uomini. Il fanciullo alcyonio è infatti
un flautista e un arciere, e quindi un poeta/guerriero, elementi che riassu-
mono la duplicità di ruoli nei quali anche il Pescarese ambisce esprimersi
e raggiungere l’eccellenza. Ma le qualità che accomunano il fanciullo e il

nella corona di sette ballate che compongono Il fanciullo che si può ravvisare il vero
inizio di Alcyone. Così Federico Roncoroni: «In essa [nella lirica Il fanciullo], quando
sarà composta […], Alcyone troverà qualcosa in più del suo vero e degno proemio,
dopo quello pretestuoso costituito dalla Tregua e volto a giustificare i nuovi modi
poetici rispetto a quelli dei due libri precedenti: essa si porrà, infatti, all’inizio stesso
del Libro, come l’ideale punto di convergenza delle sue sparse intuizioni ideologiche
e delle sue varie soluzioni espressive», in Federico Roncoroni, Introduzione, in d’An-
nunzio, Alcyone, pp. 5-97, 60.
132
«Il fanciullo cavalcante su un delfino – questa classica immagine greca del fanciullo
divino – porta sulle monete, ora le ali, ora la lira, ora la clava di Herakles. Secondo
tali attributi egli è da considerare ora come Eros, ora come un essere apollineo, erme-
tico o erculeo – anzi, veramente come queste divinità stesse nel grembo dell’universo,
nelle loro condizione di embrione cullantesi sull’Acqua […]. Il fanciullo sul delfino
porta più spesso gli attributi di Dioniso che quelli di qualunque altra divinità», in Ka-
roly Kerényi, Il fanciullo divino, in Carl Gustav Jung e Karoly Kerényi, Prolegomeni
allo studio scientifico della mitologia, Torino, Bollati Boringhieri, 1972, pp. 45-106,
103-104.
133
«Ma precisandosi i ruoli dell’eroe e dell’uomo […] si precisa anche il dio preomeri-
co della Weltanschaung dannunziana: il fanciullo Ermete, corrispettivo del Dioniso
nietzschiano. La sua mutabilità, la sua ambiguità di Dio che vive tra luce e ombra,
lo rende promuovibile a vero proemio della raccolta: le sette ballate disegnano così,
e anticipano, l’itinerario di liriche di luce e di liriche d’ombra, di “calami toscani” e
di “selvaggia melodia”, di illusione e delusione, fino all’irreparabile fuga dell’ultima
ballata», in Cfr. Pietro Gibellini, La storia di Alcyone, in Id., Logos e Mythos. Studi
su Gabriele d’Annunzio, Firenze, Olschki, 1985, pp. 31-84, 42. Sulla corrispondenza
tra il fanciullo dannunziano ed Ermes cfr. anche Carlo Diano, Classicismo e classicità
in d’Annunzio, in Giorgio Pasquali, Pagine stravaganti di un filologo, a cura di Carlo
Ferdinando Russo, Firenze, Le Lettere, 1994, 2 voll., vol. II, Terze pagine stravaganti;
Stravaganze quarte e supreme. Nel testo originale, pp. 190-204.
134
Gibellini, Introduzione, p. XVI.

111
Secondo capitolo

poeta, rendendo il primo un sorta di alter ego del secondo, non si ferma-
no qui, perché ad esempio entrambi sono cantori tanto della luce quanto
dell’ombra, della solarità piena e realizzata del giorno e della riposante
oscurità notturna, in un convergere di motivi poetici che non possono non
potenziare il meccanismo identificativo autore/personaggio. Da ciò deriva
la suggestione che il fanciullo già incontrato in Maia altro non sia che
quello che si potrebbe definire come un “cartone preparatorio” per il mo-
dello poi pienamente realizzato in Alcyone.
La definizione del fanciullo alcyonio è anche una consapevole dichiara-
zione di lontananza da un modello coevo che pure si andava radicando
in quegli anni in perfetta antitesi con quello dannunziano e che in mag-
gior misura avrebbe segnato la successiva poesia novecentesca; è cioè la
constatazione della diversità che marca la lirica del Pescarese da quella
pascoliana, perché, come sostiene ancora Gibellini:

L’inafferrabile creatura dai verdi occhi e dai neri cigli […] impersona la
poetica alcionia così come il Fanciullino simboleggiava l’estetica del Pasco-
li;135 trasformando la neotenica voce interiore immaginata da Giovanni nel
«divin fanciullo» Ermete, Gabriele sanciva lo stacco fra «l’ultimo figlio di
Virgilio» e «l’ultimo figlio degli Elleni», fra il soggettivismo latineggiante e

Così Gibellini su Pascoli in merito all’immagine e all’idea di fanciullo: «Che alla mèta
135

di un’arte nuova e antica i due aspirassero per vie diverse si ricava dalle due poeti-
che. Quella del più pensoso Pascoli è affidata alla diffusa prosa del Fanciullino […].
Raccogliendo stimoli dell’amico Angelo Conti, uno dei “nobili spiriti” marzocchini,
legato anche a d’Annunzio, Pascoli riprendeva l’immagine già classica del dàimon
interiore che ispira il canto, costruendo il concetto dell’eterno fanciullo che abita
dentro il poeta dandogli lo sguardo vergine che rende incantevole e commovente la
realtà quotidiana e fa grandi anche le cose piccole. Ma attraverso l’amato Leopardi,
e le sue radici vichiane, Pascoli sa che, ritrovando in sé l’eterno fanciullo, ritrova
l’animo della Grecia antica, mitopoietica infanzia dell’umanità: e la prosa termina
appunto con l’immagine antica del cieco Omero condotto per mano dal fanciullo»,
in Pietro Gibellini, D’Annunzio, Pascoli e Marinetti di fronte al mito, in L’officina
di d’Annunzio. Giornata di studi in ricordo di Franco Gavazzeni, coordinata da Pie-
tro Gibellini, Bergamo, 26 maggio 2012, Bergamo, Biblioteca Civica “Angelo Mai”,
2013, pp. 4-19, 11-12. Per i rapporti tra fanciullo dannunziano e fanciullo pascoliano
si rimanda anche al recente Francesco Suppa, “Il fanciullo”: sulla genesi di un testo
programmatico, in “Archivio d’Annunzio”, 1, 2014, pp. 251-268 e in particolare l’ul-
timo paragrafo, intitolato Sul rapporto con il Fanciullino pascoliano alle pp. 261-266.

112
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

la moderna sensibilità dell’uno e la programmata antichità omerica e pinda-


rica dell’altro.136

Una precisa scelta di campo, dunque, quella di d’Annunzio; ossia l’in-


dicazione puntigliosa di una prospettiva di ricerca poetica che aspira ad
attingere direttamente alla fonte prima della poesia e alla forza primi-
genia che da quel mondo lontanissimo, mitico appunto, emanava. E di
questo mondo il messaggero e tramite è proprio il fanciullo dell’eponima
corona di ballate iniziale. Peraltro, quest’ultima e il personaggio che la
domina hanno la specifica funzione di prologo e in piccolo riproducono
e anticipano elementi strutturali e tematici dell’intera raccolta e soprat-
tutto del suo finale:137 la presenza del mito nella realtà moderna non
può che essere un lampo, uno squarcio di consapevolezza, una visione
rapidissima e destinata a durare il tempo di un battito di ciglia. Anche
il fanciullo, come le promesse dell’estate alcyonia, è destinato infine a
sparire, fuggendo alla vista del poeta, ma il venir meno della sua appari-
zione non pone fine alla poesia, o almeno non impedisce che una nuova
poesia – e da ciò deriva la missione di cui proprio d’Annunzio si sente
investito – si faccia strada e, per quella via «omerica e pindarica» citata
da Gibellini, torni ai fasti della classicità.
Le sette ballate138 sono state composte nella fase sicuramente più impor-

136
Gibellini, Introduzione, p. XI.
137
Si veda quanto scrive Ilvano Caliaro sul «[…] Fanciullo, cui è demandato l’officio di
autentica protasi della raccolta, dettandone la sottesa poetica: mitica creatura ambi-
gua tra l’arboreo e l’acquoreo, il fanciullo è annunzio e prototipo, sulla vera soglia del
libro, delle animazioni e delle metamorfosi alcionie, della natura che pare umanizzar-
si e dell’uomo che si fa natura», Ilvano Caliaro, Prefazione, in d’Annunzio, Alcione,
pp. 3-20, 16. Sul tema della metamorfosi in d’Annunzio e in particolare in Alcyone cfr.
Marino Alberto Balducci, Il sorriso di Ermes. Studio sul metamorfismo dannunziano,
Firenze, Vallecchi, 1989 e Luca Alvino, Il poema della leggerezza. Gnoseologia della
metamorfosi nell’Alcyone di Gabriele d’Annunzio, Roma, Bulzoni, 1998.
138
Caliaro, [Introduzione] a Il fanciullo, pp. 28-30, 29: «La lirica si articola in sette
ballate di complessivi 321 versi, ciascuna delle quali consta di un numero variabile
di stanze, ora di una (III e IV), ora di due (II), ora di tre (V), ora di sei (VI), ora di sette
(I), ora di nove (VII), con in comune la ripresa e la misura della stanza (dieci versi,
endecasillabi e settenari)». In realtà, non tutte le stanze hanno la stessa misura: sono
infatti di undici versi la seconda stanza della seconda ballata e di dodici versi l’unica

113
Secondo capitolo

tante per la stesura di Alcyone – tra il luglio e l’agosto del 1902 a Rome-
na, nel Casentino, dove d’Annunzio era ospite di villa Goretti e compose
più di tremila degli oltre settemila versi di cui è costituito il terzo libro
delle Laudi139 –, e la prima140 si apre con l’invocazione al fanciullo au-
leta, figlio della cicala e dell’olivo e quindi metonimicamente di Apollo
ed Atena, che fin da subito diventa una figura di raccordo tra l’Ellade
mitologica e l’Etruria preumanistica e rinascimentale. Dall’«[…] orto
di qual Fauno» Pan (v. 2), tradizionalmente considerato l’inventore del
flauto, agli spazi fisici e letterari toscani, come la decameroniana villa di
Camerata (vv. 5-7), e poi i fiumi Affrico e Mensola, personificati sempre
da Boccaccio nel Ninfale fiesolano, e Ombrone, cantato da Lorenzo il
Magnifico nel poemetto Ambra (vv. 8-14), ecco scorrere le immagini dei
giardini degli Orti Oricellari, resi famosi dagli incontri periodici di let-
terati e artisti che in essi si tenevano soprattutto nel secondo decennio
del Cinquecento, e quindi di Firenze, dove in un certo senso il cerchio si
chiude perché la città di Dante si ricollega direttamente alla Grecia, es-
sendo il luogo ove si «[…] cantò ne’ dì lontani / ai lauri insigni, ai chiari
/ fonti, all’eco dell’inclite caverne, / quando di Grecia le Sirene eterne /
venner con Plato alla Città dei Fiori» (vv. 20-24). E come «il nudo fan-
ciul pagano» (v. 32), il puer che con il suo canto eternamente ispira la
bellezza e l’arte, è stato fonte dell’arte scultorea di Luca della Robbia e
di Donatello (vv. 25-30), così pure è principio e fonte di armonia per tutti
gli esseri viventi e gli oggetti inanimati che popolano il creato, passando
quindi dall’arte alla natura, ed essi al suono del suo flauto si accordano,
trovando nella sua voce la sintesi di tutte le loro:

Tu moduli secondo l’aura e l’ombra


e l’acqua e il ramoscello
e la spica e la man dell’uom che falcia,
secondo il bianco vol della colomba,
la grazia del torello

stanza della terza ballata.


139
Cfr. Roncoroni, Introduzione, p. 50-51.
140
Cfr. I, (Alcyone), vol. II, pp. 416-418.

114
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

che di repente pavido s’inarca,


la nuvola che varca
il colle qual pensier che seren vólto
muti, l’amore della vite all’olmo
l’arte dell’ape, il flutto degli odori.

Ogni voce in tuo suono si ritrova


e in ogni voce sei
sparso, quando apri e chiudi i fóri alterni.
(vv. 45-57)

Quella del fanciullo alcyonio è dunque una figura riepilogativa, «ipoti-


posi di natura ed arte»141 e sorta di totalità da cui tutto sembra promanare
e in cui tutto si riassume, donando al mondo, all’«immensa plenitudi-
ne vivente» (v. 71), una condizione di perfetta euritmia. E motore di
questa condizione è la melodia che ininterrottamente fluisce dal flauto
del fanciullo, i cui effetti sono descritti nella seconda ballata.142 Le note
magistralmente modulate dalle dita del giovane suonatore, che giocando
sui tasti dello strumento magico donano voce al suo respiro divino, sono
il connettivo che unisce e dà senso a tutte le cose, dalle più piccole,
come «la spiga che s’inclina / per offerirsi all’uomo» (vv. 79-80), alle più
grandi, come «[…] il monte che gli dà pietre del grembo» (v. 81), e in tal
modo creano un’armonia universale nella quale gli opposti si compene-
trano, «Or la tua melodia / tutta la valle come un bel pensiere / di pace
crea, le due canne leggiere / versando una la luce ed una l’ombra» (vv.
75-78). Il respiro del fanciullo si tramuta in musica e la musica diventa
il respiro dell’universo, dandogli un ritmo che nella seconda parte della
ballata viene reso retoricamente dalla ripetizione amplificatoria e dal
tono spiccatamente musicale143 presenti ai vv. 86-99, l’ultimo dei quali,

141
Caliaro, [Introduzione] a Il fanciullo, pp. 28-30, 28.
142
Cfr. II, (Alcyone), vol. II, pp. 418-419.
143
E sono proprio questi i versi che Walter Binni prende ad esempio per sottolineare la
particolare «ricerca della musica», intesa come ricerca di una nuova poetica, attuata
da d’Annunzio in Alcyone: «[…] la poetica di Alcione è […] come la ricerca di una
musica verbale e sensuale, non musica del mistero e dell’ineffabile, ma musica che
emana dalle parole amate, gustate, e che a sua volta trascina e provoca fiotti di nuove

115
Secondo capitolo

riprendendo l’immagine della luce e dell’ombra già citata al v. 78, chiu-


de circolarmente la lirica:

come i tuoi labbri e le tue dolci canne,


come su letto d’erbe amato e amante,
come i tuoi diti snelli e i sette fóri,

come il mare e le foci,


come nell’ala chiare e negre penne,
come il fior del leandro e le tue tempie,
come il pampino e l’uva,
come la fonte e l’urna,
come la gronda e il nido della rondine,
come l’argilla e il pollice,
come ne’ fiari tuoi la cera e il miele,
come il fuoco e la stipula stridente,
come il sentiere e l’orma,
come la luce ovunque tocca l’ombra.

Nelle ballate III e IV,144 le più corte della corona, fa il suo ingresso la
dimensione onirica, utile a enfatizzare il clima fantastico-visionario che
dà il tono a queste liriche proemiali. Il poeta si addormenta e sogna il
fanciullo che getta il flauto, si costruisce un arco e, armato di questo,
pone fine alla lotta intestina che dilania un alveare uccidendo il re più
debole e sterile e dando il comando a quello più degno di regnare sulle
api, «artefici soavi» (IV, 125), per poi riprendere nuovamente il suo stru-
mento e tornare gioiosamente a cantare:

Poi franco te n’andavi


sonando per le prata di trifoglio,
incoronato d’ellera e d’orgoglio,
entro la nube delle pecchie d’oro.
(IV, 126-129)

parole». In Binni, La poetica del Decadentismo italiano, p. 81.


Cfr. III e IV, (Alcyone), vol. II, pp. 419-420.
144

116
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

Il valore metaforico di questo intermezzo è estremamente importante.


Il fanciullo che con il suono del suo flauto porta la poesia e il canto nel
mondo e, con essi, l’armonia del creato e di tutti gli elementi che lo com-
pongono si trasforma in guerriero, si elegge a giudice dei deboli e dei
forti, si fa dispensatore di vita o di morte e, con ciò, guida delle masse,
alle quali ha facoltà di donare un capo degno di questo ruolo e, quindi,
di governarle. È il fanciullo-guerriero che “spegne” il «fuco sterile e
sonoro» (IV, 119), che ridendo selvaggiamente “elegge” «[…] il re splen-
dente / nello sciame diviso» e che, alla fine, riportato l’ordine nel mondo,
abbandona le armi e riprende il suo cammino con il capo circonfuso di
«[…] pecchie d’oro». È, insomma, la prima delineazione della figura del
poeta-soldato, vate e guida della nazione e del mondo intero, alla quale
d’Annunzio comincia a guardare come un modello da costruire e che riu-
scirà a realizzare pienamente solo con l’approssimarsi della Prima guer-
ra mondiale. Per il momento, l’immagine del fanciullo poeta e guerriero
resta più un vagheggiamento che una realtà, ma, soprattutto, è ancora la
sua personalità più squisitamente poetica a prevalere.
Ed ecco allora, nella quinta ballata,145 tornare pienamente questo aspetto
e, soprattutto, la sua identificazione con la natura. L’arte è natura, affer-
ma con forza d’Annunzio nelle tre stanze di questa lirica, perché da essa
trae la propria linfa, la propria “liquida” forza, la freschezza sorgiva del-
la propria ispirazione. In una parola, la natura è vita per l’arte, e il sim-
bolo più evidente della vita è l’acqua, correlativo oggettivo del liquido
amniotico nel quale si forma il feto diventando uomo. La ripresa e le pri-
me due stanze di questa composizione sono quindi un continuo richiamo
all’elemento acquoreo nelle sue varie forme e declinazioni attraverso una
molteplicità di riferimenti diretti o indiretti: «L’acqua sorgiva» (v. 130),
«làtice / fluido» (vv. 135-136), «umide fibre» (v. 136), «fonte» (v. 137),
«polla» (v. 140), «gocce» (v. 146), «cupa linfa» (vv. 154-155) e poi le
«naiadi» (v. 139), le ninfe che presiedevano a tutte e acque dolci della
terra, il «salice», l’albero che di preferenza cresce in prossimità di acque
dolci, e la «freschezza», ovvero la sensazione tipica donata dall’acqua
sorgiva. Il fanciullo, fonte di poesia per la rinnovata Ellade toscana, ar-

Cfr. V, (Alcyone), ivi, pp. 420-421.


145

117
Secondo capitolo

riva dunque a identificarsi con l’acqua, anche con quella marina, pure
essa fonte di vita, nella quale la sua immagine sembra annullarsi in una
fusione simbolica che riecheggia con prepotenza il mito generativo pri-
mordiale.146 A queste immagini se ne uniscono poi altre due. La prima è
quella del fanciullo che con il suono del suo flauto ammansisce e incanta
una moltitudine di serpi velenose (vv. 147-153: sono «colùbri», «aspi-
di», «cencri», «angui», «ceraste», «idre»), ricordando con ciò il ruolo
pacificante dell’arte, antidoto al veleno e al dolore della vita. La seconda
è quella del fanciullo che sembra trasformarsi in una creatura arborea,
ulteriore passaggio d’identificazione con la natura, grazie soprattutto ai
continui richiami al «capelvenere» (vv. 133, 143, 153 e 163). Notevole è
il portato simbolico di questa pianta che rimarca nuovamente la dimen-
sione acquorea che domina nella lirica – la felce cresce infatti in zone
ombrose e umide, preferibilmente nelle grotte, vicino a cascate o a pozze
d’acqua –, e ha fortissime connessioni mitologiche: oltre al riferimento a
Venere del nome latino, Adiantum capillus-veneris, evidente anche nella
sua versione italiana, è detta pure “barba di Giove” e in greco “sempre-
vivo”, per la sua preferenza dei luoghi ombrosi, è consacrata a Plutone e,
infine, è legata alle già citate ninfe delle acque per la sua localizzazione
vicino alle fonti.
Se la quinta ballata pone l’accento sulla natura, la sesta147 torna a con-

146
«[Il fanciullo] Messo in relazione con il mare, che vale qui l’utero materno, è simbo-
lo dell’origine assoluta, al di là della quale è la non esistenza; è una figura di soglia
sospeso tra “ombra” e “luce” […], tra mondo agrario demetriaco […] e marino
afroditico […]. L’immagine del mare, nel Fanciullo, completata dagli altri due ele-
menti, consente all’arte greca di rivelarsi nella sua natura di spontaneità creatrice e
ordine armonioso che regna “col ritmo il ciel la terra il mare”», in Cristina Benussi,
«L’anima si fa pelago». Simbologia equorea nell’Alcyone, in “Rivista di Letteratura
italiana”, 2, 2002, pp. 107-123, 110. Sul tema dell’acqua in d’Annunzio e sul suo
rapporto particolare col mare cfr. anche Aldo Grossi, La poesia del fiume e del mare
in G. d’Annunzio, Chieti, Solfanelli, 1962; Luigi Martellini, Il mare, il mito – d’An-
nunzio a Porto San Giorgio 1882-1883, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1975; Niva
Lorenzini, Il segno del corpo. (Saggio su d’Annunzio), Roma, Bulzoni, 1984; Luca
Bani, La prova dell’anima. La borghesia in spiaggia nella letteratura europea tra
Otto e Novecento. Sei letture, prefazione di Claudio Magris, Bergamo, Moretti&Vita-
li, 2012.
147
Cfr. VI, (Alcyone), vol. II, pp. 421-423.

118
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

centrarsi sull’arte, rafforzando ulteriormente l’immagine del fanciullo


come essere composto da una duplice essenza che in lui raggiunge una
suprema sintesi e trova una perfetta unità:

E come vive disciolto nelle creature naturali, così egli è presente anche nel-
le opere d’arte. Natura e arte, infatti, altro non sono che due manifestazioni
della medesima essenza che ispira il canto del fanciullo. Nell’antica Grecia
l’unione e la continuità tra natura e arte era perfetta e proprio in Grecia
vorrebbe ritornare il poeta e ritrovare nei templi e nei monumenti antichi
la bellezza dell’arte e la gioia che ne deriva all’uomo. Là, verso il tramonto,
il fanciullo sotto gli occhi del poeta, si siederà sui gradini di un tempio e
modulerà i suoni del suo flauto toscano. La loro beatitudine allora sarà totale
e assoluta.148

Il passaggio dalla natura all’arte, e quindi la sottolineatura della duplici-


tà del fanciullo, è segnata dalla ripresa della sesta ballata che funge da
ponte tra le due liriche («Se t’è l’acqua visibile negli occhi / e se il làtice
nudre le tue carni, / viver puoi anco ne’ perfetti marmi / e la colonna do-
rica abitare», vv. 164-167), ma soprattutto dal verso 168, il primo della
prima stanza di questa ballata: «Natura ed Arte sono un dio bifronte»,
dal quale non si possono separare i versi 171-173:

Tu non distingui l’un dall’altro volto


ma pulsare odi il cuor che si nasconde
unico nella duplice figura.

Il resto della lirica è interamente dedicato alla rievocazione dell’Ellade,


della quale si enumerano i luoghi, i monumenti, i filosofi e le divinità: il
Fàlero e i propilei dell’Acropoli di Atene, Colono, il Parnete e l’Imetto,
Sofocle e Demetra, solo per citarne alcuni, in una fastosa e sovrabbon-
dante accumulazione di riferimenti e rimandi che però, all’improvviso,
sembra interrompersi, come una sinfonia che inaspettatamente lascia il
posto al silenzio. È forse questo un presagio della partenza del fanciullo,

Roncoroni, [Introduzione] a Il fanciullo, pp. 114-115.


148

119
Secondo capitolo

ma sicuramente è l’indicazione che lo spettacolo grandioso rievocato dal


poeta ormai non è più perché appartiene al passato e anche la ferrea vo-
lontà dannunziana di creare un collegamento con il presenta, con il qui
ed ora della Toscana grecizzata («[…] tu t’assiderai sul grado / più alto
co’ tuoi calami toscani», vv. 202-203) è legato a un tenue filo sul punto
di spezzarsi. Più che un silenzio di ammirata stupefazione, quella del
fanciullo è l’attitudine di colui che osserva e ascolta immagini e suoni
che diventano ombre e sussurri:

Ogni golfo è una cetra.


Tu taci, aulete, e ascolti. Per l’Imetto
l’ombra si spande. Il monte violetto
mormora e odora come un alveare.
(vv. 224-227)

E come sembrano farsi sempre più evanescenti le immagini osservate


dal fanciullo, così nella settima ballata149 anche quest’ultimo si allon-
tana, forse proprio per seguire la visione dello spazio incantato e mitico
che l’ha generato, e fugge. La partenza del fanciullo è la scomparsa del
mito, il venir meno di quella condizione di armonica unione di natu-
ra e arte che solo la condizione primordiale dalla quale egli proveni-
va poteva permettere. Il poeta si dispera perché perdere il contatto con
questa creatura significa non solo l’oblio del mondo toccato dalla grazia
del suo canto rigeneratore, ma anche il distacco definitivo dalla dimen-
sione dell’infanzia, condizione privilegiata che unica permette all’uomo
di avvicinarsi alla perfetta poesia del creato e di poterla cantare. Se il
sogno della poesia si poté realizzare pienamente solo nella fase iniziale
e mitica della storia umana, quando ancora gli uomini erano immersi nel
rousseauiano stato di natura, allora solo il recupero della sua condizione
di primaria e piena innocenza, l’infanzia appunto, può consentire all’uo-
mo di avvicinarsi nuovamente alla vera poesia, e proprio il suono del
flauto del fanciullo aveva favorito nel poeta il recupero di questo status
originario:

Cfr. VII, (Alcyone), vol. II, pp. 423-426.


149

120
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

Con la tua melodìa


fugge quel che divino
era venuto in me, quasi improvviso
ritorno dell’infanzia più lontana.
(vv. 258-261)

Lo scoramento del poeta per la fuga del fanciullo è totale. Nella ballata
è tutto un susseguirsi di espressioni di disperazione e di angoscia che
avvicinano l’assenza del divino puer alla morte: «e l’ansia il cor mi pun-
ge» (v. 229), «il cor presàgo di remoto lutto» (v. 237), «L’ansia mia vana
odo sol tra le pause / mentre che d’ombra in ombra ei s’allontana» (vv.
270-271), «Ad un fonte m’abbatto […]» (v. 272). Ma le immagini che
con maggiore efficacia dipingono icasticamente la fine del mondo mitico
rappresentato dal fanciullo sono due: quella del sole al tramonto che
incendia la sera e quella del tempio in rovina nel quale il poeta prega
inutilmente il fanciullo di sostare ancora per un solo attimo. In entram-
be, infatti, sono la percezione della distruzione e il senso della fine ad
emergere con prepotenza.
Il primo quadro è dunque quello di un limpido giorno declinante e di
un astro infuocato che con i suoi ultimi raggi colora di rosso l’aria, ma
l’insistenza su verbi e sostantivi appartenenti all’area semantica del
fuoco trasforma quello che potrebbe sembrare un quadro idilliaco in
una scena apocalittica, nella quale un incendio devastatore inceneri-
sce il creato facendo tabula rasa della natura appena abbandonata dal
fanciullo:

Sol calando, la plaga d’occidente


s’infiamma; e d’improvviso
tutta la selva è fatta un vasto rogo.
Le nuvole di foco
ardono gli elci forti,
aerie vergini al disìo dei mostri.
(vv. 285-290)

Immagini poi significativamente anaforizzate in una ripresa ai vv. 311-


312: «Nel gran fuoco del vespro ei s’allontana. / Si dilegua ne’ fiammei

121
Secondo capitolo

orizzonti». Identica è la prospettiva che si apre con la visione del tempio


in rovina, perché l’insistente richiamo alle macerie di una grandezza che
fu e della quale rimangono solo decrepiti simulacri traghetta il lettore
dalla pienezza del creato mitico dominato dal fanciullo alcyonio alla de-
vastazione della modernità impoetica:

E un tempio ecco apparire, alte ruine


cui scindon le radici
errabonde. Gli antichi iddii son vinti.
Giaccion tronche le statue divine
cadute dai fastigi;
dormono in bruni pepli di corimbi.
Lentischi e terebinti
l’odor dei timiami
fan loro intorno. […]
(vv. 292-300)

Insieme favola e allegoria, la corona di ballate dedicate al fanciullo è al


contempo un discorso teorico, e quindi metapoetico, e la sintesi di tutti
quegli elementi che verranno coerentemente sviluppati nel prosieguo di
Alcyone e che daranno al terzo libro delle Laudi il valore di un testo pro-
grammatico sul destino e i modi della nuova poesia. Il fanciullo alcyonio
è la personificazione perfetta di quest’ultima così come d’Annunzio la
intende, e la sua vicenda è in realtà la traduzione lirica di alcuni prin-
cìpi imprescindibili che vanno ben oltre la scontata identificazione della
Grecia antica come culla della poesia, oppure l’ovvia affermazione della
necessità del suo recupero – attraverso il procedimento dell’imitazione
creativa – come già avvenne durante il Rinascimento, o, ancora, la non
originalissima individuazione della Toscana150 come spazio nel quale

Sulla centralità della Toscana come terra di naturale sviluppo di arte e poesia si veda,
150

a puro titolo d’esempio, la curiosa teoria “ombelicale” e il parallelo fra la regione


italiana e Atene rintracciabili nel Primato giobertiano: «E come l’Italia è l’archeo,
da cui muovono e a cui convergono le civiltà e le nazioni, secondo la doppia forza
centrifuga e centripeta che le agita e rapisce in giro, così Roma e Toscana sono il
cuore della penisola. L’ingegno estetico tocca per ordinario il suo colmo nel mezzo
degli stati; onde Atene, posta fra il Peloponneso, l’Ellade, la Jonia e la Magna Grecia,

122
Il fanciullo dannunziano: dalla prosa alla poesia

essa può effettivamente rinascere e ritrovare il suo antico vigore. I versi


proemiali del Fanciullo sono in realtà una efficace sintesi dell’ideale po-
etico inseguito e vagheggiato da tutti i poeti a partire dal Romanticismo,
perché in essi si trovano la felice e già più volte citata definizione della
poesia come unione di natura e arte, ossia di genuinità d’ispirazione e
tecnica compositiva; la sua identificazione tanto come voce della totalità,
e quindi specchio fedele degli elementi che questa compongono, quanto
come compresenza di pensiero e azione, contemplazione del bello e mo-
vimento verso il bello; la rivelazione della poesia come generatrice e al
tempo stesso oggetto del mito; infine, la struggente costatazione della sua
fugacità, della precarietà della sua epifania, dell’unicità dei momenti
che essa genera e, di conseguenza, dell’esperienza che se ne può ricava-
re.151 Nel fanciullo alcyonio è dunque possibile rintracciare l’essenza più
pura e sincera della poetica dannunziana, perché in esso, come in tutto
il terzo libro delle Laudi, il poeta riversò tutto sé stesso, come confesserà
ad Angelo Conti in una lettera del 10 agosto 1902, facendosi lui stesso
poesia, annullando cioè la propria personalità nella vastità del paesaggio
versiliano per poter poi rinascere cantore rinnovato di una nuova era di
grandezza: «Lavoro al mio libro di poesia; e mi pare che tutto il mio san-
gue sia divenuto un fiume lirico inesauribile».

fu la sede del bello greco, come la Toscana antica e nuova, e Roma di etrusca origine,
furono e sono il seggio del bello italocattolico; il quale col genio nazionale che lo pro-
duce va scemando di mano in mano che si accosta agli estremi della penisola, finché
in Palermo e in Torino quasi si estingue». In Vincenzo Gioberti, Del primato morale e
civile degli Italiani, Napoli, Batelli, 1849, 3 voll., vol. I, p. 95.
151
Cfr. Roncoroni, [Introduzione] a Il fanciullo, p. 116.

123
Terzo capitolo

PASCOLI: DAL FANCIULLINO AI FANCIULLI

Sappiate che per la poesia la giovinezza non basta:


la fanciullezza ci vuole!1

Figura centrale della poetica pascoliana, intesa come metafora del modo di
porsi dinanzi al mondo, di percepire la realtà e quindi di intuire la poeticità
delle cose, il fanciullino esercita anche un’influenza sulle scelte tematiche
nella lirica dell’autore. Se la poetica fondata sul fanciullino risulta essere
oggi ben nota e ampiamente studiata, resta da precisare meglio l’influsso
di questo studio sulla produzione in versi di Pascoli, indagando cioè sulle
varie e significative figure di fanciulli evocate nelle liriche.
Nel 1933 Siro A. Chimenz stabiliva infatti, più che una similitudine, un’i-
dentificazione esplicita tra «l’anima del Pascoli e quella del fanciullo».2
Sui manoscritti degli appunti di lettura del saggio di psicologia infantile
scritto da James Sully, Pascoli riassume tale identificazione notando in
modo molto sintetico: «Il poeta e lo scritt.e parla e intuisce come il fanciul-
lo».3 Si pone subito una delicata ma essenziale questione di terminologia:

1
Giovanni Pascoli, Il fanciullino, V, a cura di Giorgio Agamben, Milano, Feltrinelli,
1982, p. 37.
2
Siro A. Chimenz, Giovanni Pascoli e il “fanciullino”, in “Nuova Antologia”, nov.-dic.
(1933), pp. 260-272, 261.
3
Il testo del manoscritto è citato in Maurizio Perugi, James Sully e la formazione dell’e-
stetica pascoliana, in “Studi di Filologia italiana”, XLII (1984), pp. 225-309, 273.

125
Terzo capitolo

per Pascoli si deve parlare di “poeta fanciullo” oppure di “fanciullo poe-


ta”? Ammettendo che ambedue le definizioni sono determinate, e lettera-
riamente connotate, sia da una lunga tradizione (quella del poeta ut puer),
che da una posterità immediata (il “poeta fanciullo” crepuscolare), la cri-
tica rimane divisa su questo argomento, anche se prevale in certi studi la
scelta per il “fanciullo poeta”, espressione che ci sembra più adatta ad
evocare la capacità del puer mitico pascoliano a creare poesia, mentre nei
crepuscolari la figura del puer mitico tende anzi a sostituirsi o a confonder-
si con quella del poeta indebolito, menomato, nostalgico.4
Il termine “fanciullo” è comunque definitivamente associato a Pascoli
come teorico del punto di vista poetico, sicché nella vulgata manualisti-
ca l’autore è diventato il poeta del Fanciullino (si usa la comodità grafica
della maiuscola per riferirci al testo Il fanciullino), tramite una fortuna
scolastica abusata, oltre che sbagliata, che ha contribuito a confondere
talvolta Pascoli con un poeta per i fanciulli. Questo capitolo intende in-
vece mostrare, a partire dall’analisi della ricorrenza di personaggi infan-
tili nei testi di poesia, quali sono lo statuto e la valenza di queste figure
in Pascoli, in rapporto più o meno diretto con la sua teoria incentrata
sulla potenzialità poietica del piccolo essere interiore. Ma si tratta anche
di valutare quale autonomia possano avere i bambini e le bambine come
esseri veri e propri, ossia concreti,5 e quale collegamento sia possibile
stabilire tra le presenze di queste figure, il ricordo della propria infanzia
e la vocazione sempre più assidua dell’autore per la pedagogia. Occorre
dunque definire un “sentimento d’infanzia” nella lirica di Pascoli a par-
tire e al di là della poetica del Fanciullino.
Un altro delicato problema si pone nello studio dell’infanzia e dei fanciul-

4
Alcuni esempi: Massimo Castoldi usa l’espressione «poeta fanciullo» (Pascoli, Bolo-
gna, Il Mulino, 2011, p. 36), così come Renato Barilli (Pascoli simbolista, il poeta
dell’avanguardia debole, Firenze, Sansoni, 2000, p. 88), mentre Walter Binni (La
poetica del Decadentismo, Firenze, Sansoni, 1936, p. 133), Giorgio Bàrberi Squa-
rotti (Simbologia di Giovanni Pascoli, Modena, Mucchi, 1990, p. 13), Fausto Curi
(Metamorfosi del “fanciullino”, in “Poetiche. Letteratura e altro”, n. 1-2, 1997, pp. 10
e 24) e Cecilia Ghelli (Gozzano e i crepuscolari, Milano, Garzanti, 1983, p. XXXII),
preferiscono usare «fanciullo poeta» o «fanciullino poeta».
5
Antonio Faeti parla in effetti dei bambini come «presenze dotate di una grande auto-
nomia», in Il puer e il fanciullo, in “Rivista Pascoliana”, n. 3 (1991), pp. 65-73, 67.

126
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

li in Pascoli e riguarda l’inevitabile rapporto fra l’evocazione lirica della


puerizia e la conoscenza di elementi psicologici e biografici sull’autore.
Non si tratta di rifare analisi della psiche pascoliana, ma di sottolinea-
re un’inevitabile convergenza tra i fanciulli protagonisti, le aspirazioni
dell’autore, talvolta ossessive, verso un ritorno all’infanzia, e la difficoltà
ad assumere i connotati dell’adulto. La visione del fanciullo dimostra di
essere parzialmente condizionata dalle concezioni esistenziali e ideologi-
che dell’autore e dalla cultura classica che egli praticava quotidianamen-
te, donde un’apparente contraddizione tra il punto di vista fanciullesco,
teorizzato come un ritorno all’autentica intuizione e a una forma di pri-
mordiale conoscenza, e l’aspirazione rinforzata con il tempo e le cariche
universitarie a diventare un vate della nazione. In realtà la missione etica
e civile che si fissa Pascoli in poesia segue pure la lezione trasmessa dal
fanciullo interiore: «Il poeta, se è e quando è veramente poeta, cioè tale
che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro, riesce perciò ispiratore
di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano».6 Lo studio
del bambino nella lirica pascoliana attraversa quindi tre livelli, perché si
esplica nella poetica generale elaborata sin dal 1897, in varie poesie, e
nei lavori per la scuola destinati agli alunni, lungo il percorso artistico ed
esistenziale di un vero «fanciullo-poeta-eroe».7

3.1 Il fanciullo pascoliano tra poetica e poesia

3.1.1 I postulati del Fanciullino


La genesi editoriale del Fanciullino fu progressiva, durante un periodo
di quasi dieci anni. La vicenda editoriale di questo testo spiega infatti
il modo graduale con cui la generazione di poeti seguenti ha ricevuto e

6
Giovanni Pascoli, Il fanciullino, XI, p. 48. Sulla contraddizione fra l’aspirazione epica
e l’intimismo lirico in Pascoli cfr. l’analisi di Antonio Gramsci in Quaderni del carce-
re, Torino, Einaudi, 1975, p. 1670.
7
Michela Vermicelli, Pascoli e i fanciullini, in “Rivista Pascoliana”, n. 9 (1997), pp.
177-186, 177. Questa triplice definizione permette di integrare insieme la capacità
del fanciullo a ispirare la poesia all’adulto e l’aspirazione civile del poeta vate.

127
Terzo capitolo

integrato la poetica pascoliana nella propria produzione, visto che nel


1903, al momento della prima pubblicazione in volume, alcuni giovani
poeti avevano già composto raccolte che avrebbero fortemente contribui-
to a formare l’estetica crepuscolare.8 Tra l’edizione a puntate e l’edizione
in volume, Pascoli ha modificato il vocabolo centrale della sua figura
metapoetica, perché il «fanciullo» iniziale diventa sei anni più tardi il
«fanciullino», con il diminutivo che si fisserà definitivamente ad evoca-
re lo sguardo meravigliato del piccolo. Il fanciullo delineato da Pascoli
si presenta come metafora dell’intuizione ed elemento metapoetico per
definire un’estetica; essa non si confonde dunque con il fanciullo sociale
della fine dell’Ottocento, un essere di carne e ossa ben calato nel reale,
perché viene considerato immagine ideale della riflessione sulla poe-
sia. Il fanciullo metaforico elaborato da Pascoli significa, in sostanza,
la proposta di una definizione della visione poetica a partire dall’idea
fondamentale secondo cui ogni essere umano possiede una voce interio-
re, ossia un essere a priori rimasto allo stato infantile in modo da poter
conservare la propria autenticità.9 Tale voce interiore determina il punto
di vista sul mondo e sulle cose. L’essere infantile a priori si rivela essere
la voce interiore dell’uomo adulto che sfugge alla ragione ma riesce a
guidare verso la verità. Fausto Curi, ricordando quanto la teoria pasco-
liana del piccolo “veggente” abbia contribuito a formare le derivazioni
del fanciullo nella letteratura successiva, riconosce che il Fanciullino fu
«un’ontologia della poesia fondata su un’idea di infanzia psichica [...]».10
Ma esiste pure in Pascoli un rapporto fra la natura psichica e metafori-
ca del fanciullo e il bambino vero, protagonista della lirica, che agisce,
reagisce, vive, si manifesta nella vita reale, anche se le figure di piccoli
rappresentate dal poeta non corrispondono esattamente con le immagini
del mondo infantile alla fine dell’Ottocento, tra mondo tradizionale ru-

8
Nel 1903 escono  per esempio Le fiale e Armonia in grigio e in silenzio di Govoni,
nonché Tutti gli angioli piangeranno di Giulio Gianelli. Tito Marrone aveva già pub-
blicato alcune plaquette tra il 1899 e il 1902.
9
Cfr. Egle Becchi, Storia dell’infanzia, Roma-Bari, Laterza, 1996, poi nell’edizione fran-
cese ampliata, Id.-Dominique Julia, Histoire de l’enfance en Occident, Paris, Seuil, 1998,
2 voll.; le pp. 413-414 del vol. II di quest’ultima edizione sono dedicate a Pascoli.
10
Curi, Metamorfosi del “fanciullino”, p. 9.

128
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

rale, proletariato urbano e borghesia attenta alla cura dei propri figli.11
Lo scritto teorico pascoliano propone un fanciullo capace di parlare all’a-
dulto che sa ascoltare la propria voce interiore mediante una ricca serie
di fonti multiple insieme letterarie, filosofiche, scientifiche, estetiche,
storiche e psicologiche. Una parte importante delle proposte pascoliane
sono effettivamente derivate dalla sua lettura dei lavori dello psicologo
inglese James Sully. La critica ha già insistito sull’influenza di quest’ul-
timo sul Fanciullino,12 mediante la lettura dell’edizione in francese di
Studies of Childhood,13 e conferma il fatto che Pascoli abbia pensato il
fanciullo metaforico non solo secondo categorie estetico-filosofiche, ma
anche secondo una dimensione psicologica.14 Egli stabilisce un’analogia
tra il fanciullo artista e l’uomo primitivo, ispirandosi al capitolo IX di
Études sur l’enfance15 dedicato al bambino come artista. Se il fanciul-
lo artista è come l’essere allo stato selvaggio, significa che garantisce
un’autenticità dell’essere interiore rimasto allo stato infantile, una capa-
cità di contemplazione genuina che, nella sua traduzione lirica, permette
di far dialogare direttamente microcosmo e macrocosmo. Il piccolo ap-
pare quindi insieme interiore e anteriore perché «detta dentro» al poeta
e sa trasmettere una verità tramite la sua natura primordiale e autentica,
ingenua, priva di ogni contaminazione dell’esperienza acquisita, visto
che l’innocenza prevale sull’esperienza. Tuttavia, il poeta scopre il pro-
prio piccolo essere interiore mediante una conquista della conoscenza,

11
Cfr. Franco Cambi - Simonetta Ulivieri, Storia dell’infanzia nell’età liberale, Firenze,
La Nuova Italia, 1988, p. 50.
12
Cfr. Maurizio Perugi, James Sully e la formazione dell’estetica pascoliana e Andrea
Battistini, Il mito del fanciullino nell’età di Pascoli, in “Rivista Pascoliana”, n. 13
(2001), pp. 9-18.
13
Cfr. Études sur l’enfance, traduzione di Auguste Monod, Paris, Alcan, 1898. Si badi
alla data dell’edizione francese (1898), posteriore di un anno alle prime puntate dei
Pensieri sull’arte poetica, benché il saggio di Sully sia stato pubblicato in inglese nel
1895. Il contributo di Sully alla riflessione di Pascoli agisce quindi nelle versioni
ampliate del Fanciullino successive alle puntate sul “Marzocco”.
14
«Al Leopardi interessa la fanciullezza del mondo, al Pascoli la psicologia dei bambi-
ni. C’è una bella differenza», in Cesare Garboli, nota a Pensieri sull’arte poetica, in
Giovanni Pascoli, Poesie e prose scelte, Milano, Mondadori, 2002, vol. I, p. 1185.
15
Cfr. George Boas, The cult of Childhood (1966), traduzione in francese: Le culte de
l’enfance, Paris, Conférence, 2013, p. 215.

129
Terzo capitolo

cioè lo studio.16 Solo l’adulto giunto alla maturità cognitiva è in grado di


capire, tramite un ritorno sulla propria natura fanciulla, la poesia, e uno
dei postulati più importanti della teoria pascoliana presuppone l’acces-
sibilità alla parola poetica solo mediante il riconoscimento di un essere
interiore (la voce infantile nascosta) e anteriore (la voce primordiale).

3.1.2 Il significato del punto di vista infantile per il poeta


Il “fanciullo poeta” pascoliano gode di un punto di vista diverso rispetto
a quello comune perché è specifico, legato all’autenticità della sua natura
incontaminata, assolutamente soggettivo e libero dai rapporti gerarchici
fra grande e piccolo. Tale disposizione del fanciullo metaforico trova però
una corrispondenza nelle scienze moderne che hanno studiato la psicolo-
gia infantile. Infatti Jean Piaget ha dimostrato che la visione egocentrica
delle cose da parte del bambino, fino ai sette/otto anni, determina un punto
di vista particolare sul mondo, uno sguardo autocentrato, che ubbidisce ai
propri riferimenti.17 Si potrebbe collegare questa fase d’intelligenza intui-
tiva che precede l’età della ragione all’idea pascoliana di anteriorità della
coscienza nel “fanciullo poeta”. Il fanciullo viene identificato con l’artista,
perché l’infanzia è simile alla creazione artistica, fondata su un’anteriorità
della coscienza, sicché l’infanzia è poesia per l’adulto, egli fa del fanciullo
un poeta e del poeta un fanciullo.18 Pascoli riprende il vecchio motivo
del poeta ut puer, ma rovesciandolo in puer ut poeta, poiché il fanciullino
artista fa da guida all’adulto durante il processo di creazione. L’influenza
dello Zibaldone leopardiano fu determinante, con il concetto dell’infanzia
simile all’arte. Pascoli riconosceva in effetti che per Leopardi: «[...] la fan-
ciullezza fu tutta la vita. E perciò è il poeta a noi più caro, e più poeta e più

16
Cfr. Pascoli, Il fanciullino, XIII, p. 57. Cfr. l’affermazione di Gérard Vittori in Vit-
torini et la création dans «Diario in pubblico», in “Chroniques italiennes”, n. 79/80
(2007) p. 6: «[…] l’enfant n’est pas directement accessible en tant que tel; c’est en
étant adulte au plus haut point, au maximum de la conscience possible, que le poète –
et c’est là très certainement sa fonction, celle en quoi il se distingue des autres – peut
accéder à l’enfant».
17
Cfr. Jean Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino (e altri studi di psicologia), Torino,
Einaudi, 1967, p. 37 [edizione francese 1964].
18
Cfr. Marie-José Chombart de Lauwe, Un monde autre: l’enfance, Paris, Payot, 1979, p. 121.

130
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

poetico, perché è il più fanciullo; sto per dire l’unico fanciullo che abbia
l’Italia nel canone della sua poesia».19 Non va dimenticato che la prima
edizione in volume dello Zibaldone risale al 1898, solo un anno dopo le
puntate dei Pensieri pascoliani. Le idee di Vico (si veda la sua definizione
di “degnità” nella Scienza nuova, 37) insieme a quelle formulate nello
Zibaldone confluirono nelle letture di Pascoli con gli studi di Sully e an-
che, probabilmente,20 con la filosofia di Jean-Baptiste Guyau che trattava
dell’artista simile al bambino.21
L’associazione tra fanciullo e poeta non è quindi una novità all’epoca
di Pascoli, ma il fermento delle ricerche nel campo della psicologia e
della sociologia, il contributo estetico dell’età simbolista e decadente
europea, e l’affermarsi di un moderno “sentimento d’infanzia” presso i
ceti borghesi hanno contribuito a proporre un’interpretazione originale
dell’identificazione classica, insistendo sull’importanza dell’immagina-
zione e dei sensi come strumenti di conoscenza: «[...] il puer ut poeta, fu-
turo poeta o romanziere, capitalizza le sensazioni vivaci e indefinite che
resisteranno miracolosamente all’oblio».22 Il fanciullo metaforico che
possiede, grazie al suo punto di vista ingenuo, il senso della meraviglia
fornisce all’artista che gli assomiglia per analogia la facoltà di descrivere
il mondo e i sentimenti, poetizzando quella stessa meraviglia. Altro non
dice un filosofo italiano direttamente influenzato dal Fanciullino, allo-
ra in progress, Angelo Conti, quando ribadisce l’effettiva profondità del
punto di vista ingenuo.23 Un esempio concreto della facoltà poietica del

19
Giovanni Pascoli, Il sabato, in Id., Tutte le opere. Prose, Milano, Mondadori, 1956, vol.
I, p. 85.
20
A dare adito a questa ipotesi è il filosofo e traduttore del Fanciullino in francese,
Bertrand Levergeois, Giovanni Pascoli, Le petit enfant, Michel de Maule, 2004, pp.
38-39.
21
Cfr. Jean-Baptiste Guyau, L’Art du point de vue sociologique, Paris, Alcan, 1889, p. 73.
22
Gilbert Bosetti, Il divino fanciullo e il poeta (culto e poetiche dell’infanzia nel roman-
zo italiano del XX secolo), Pesaro, Metauro, 2004, p. 160. L’autore sottolinea anche
il fatto che il ricordo d’infanzia, grazie alla capitalizzazione delle sensazioni, «ha la
capacità di “eufemizzare” la morte», ibid.
23
Cfr. Angelo Conti, Beata riva. Trattato dell’oblio, preceduto da un ragionamento di
Gabriele d’Annunzio, Milano, Treves, 1900, nel capitolo II si tratta dell’artista-fan-
ciullo e del senso di meraviglia.

131
Terzo capitolo

Fanciullino nella creazione lirica risiede nella sua funzione di Adamo


nomenclatore che nomina le cose appena scoperte con meraviglia e crea
un linguaggio, come si legge nel proemio di Fior da fiore in cui Pascoli
dichiara che i fanciulli hanno il compito di salvare le parole dialettali
della loro regione, perché esse costituiscono «una riserva immensa di
sensazioni».24
Un altro aspetto del punto di vista del fanciullo pascoliano, mutuato dal-
la tradizione classica, risiede nella sua natura divina di essere primiti-
vo, simbolo dell’origine, annunciatore di un rinnovo.25 La scelta della
Quarta Egloga di Virgilio come epigrafe alla prima raccolta del poeta lo
conferma, giacché il misterioso e simbolico puer divinus, evocato ai versi
8-10 del poema latino per un ritorno imminente all’età aurea, diventa nel
Fanciullino la figura dell’«eterno fanciullo, d’un dio giovinetto, del più
piccolo e tenero che fosse nella tribù d’uomini salvatici».26 Il bambino
divino possiede nondimeno la saggezza del vecchio e, sempre a partire
dall’associazione vichiana tra infanzia e poesia, fanciullo e uomo primi-
tivo, si delinea nello scritto di Pascoli una versione moderna e positiva
del puer senex.27
Il punto di vista fanciullesco è primitivo e divino, legato all’origine della
poesia, e di conseguenza sa percepire la poeticità delle cose, costituisce
una “competenza”.28 Così il fanciullo capace di cogliere la poeticità del-
le cose diventa nello scritto pascoliano, e anche in alcune liriche, figura
di guida (o fanciullo omerico) per l’aedo. Il suo punto di vista permette al

24
Elena Salibra, Modelli letterari e modelli linguistici nelle antologie di Giovanni Pa-
scoli, in “Soglie”, n. 6 (2004), p. 155. Cfr. anche Mariella Colin, Le antologie scola-
stiche di letteratura italiana: “Sul limitare” e “Fior di fiore”. Pedagogia e poetica, in
“Rivista Pascoliana”, n. 24-25 (2012-2013), pp. 203-217, 215.
25
Cfr. su questo argomento i lavori di Luc Racine, Symbolisme et analogie: l’enfant
comme figure des origines, in “Études françaises”, n. 3 (1983), pp. 105-120.
26
Pascoli, Il fanciullino, XI, p. 48.
27
Cfr. Dieter Richter, Il bambino estraneo (la nascita dell’immagine dell’infanzia nel
mondo borghese), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010 [edizione in tedesco
1987], p. 256.
28
Cfr. Castoldi, Pascoli, p. 36. Il critico cita i versi leopardiani di Ad Angelo Mai: «assai
più vasto / l’etra sonante e l’alma terra e il mare / al fanciullin, che non al saggio,
appare», vv. 88-90.

132
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

vecchio di vedere chiaramente ciò che non poteva più percepire. La tra-
sposizione di questo concetto nella lirica si esplica prevalentemente in
due testi: il primo evoca un personaggio classico (la giovane Deliàs), nel
poema conviviale Il cieco di Chio, pubblicato alcune settimane dopo le
puntate dei Pensieri sull’arte poetica nel 1897. Ma Deliàs, benché chia-
mata fanciulla, viene associata alla Musa di Omero, e prende l’aspetto
più di una bella giovane donna che di un’innocente bambina. Per quanto
riguarda invece il secondo testo, si trova un fanciullo vero e proprio che
segue un anziano, si tratta de La squilletta di Caprona, dove un puer in-
determinato accompagna il vecchio Nimo:

E noi l’amiamo il tuo bronzino,


che ci mandi, quando imbruna:
lo mandi per un fanciullino:
io lo vidi a un po’ di luna.

A un raggio pallido lo vidi:


è un ragazzo ch’hai, là, teco:
un garzonetto che ti guidi,
perché forse tu sei cieco.29

Questa è un’illustrazione concreta della complementarità allegorica fra


il poeta e il fanciullo, visto come un’incarnazione lirica del «fanciullino
del cieco»30 evocato nello scritto teorico. Divenuto troppo vecchio, Nimo
affida lo squillare a un bambino. La poesia evoca questo bambino tra-
mite l’uso di tre vocaboli che sembrano suggerire un progressivo effetto
di precisione, visto che si passa nel giro di pochi versi dal generico «un
fanciullino» (v. 43), all’indeterminato «un ragazzo» (v. 46), di cui si capi-
sce la natura di accompagnatore, per finire con il molto più determinato
«un garzonetto» (v. 47), effettivamente in funzione di guida. D’altronde,
il passaggio dal termine «fanciullino» al più realistico «garzonetto» po-
trebbe indicare una sorta d’incarnazione in versi dell’effige teorizzata

29
Giovanni Pascoli, La squilletta di Caprona, Id., Tutte le poesie, a cura di Arnaldo Co-
lasanti, Roma, Newton & Compton, 2001, p. 315, vv. 41-48.
30
Pascoli, Il fanciullino, II, p. 29.

133
Terzo capitolo

da Pascoli. In conformità con il Fanciullino, il poeta («vecchio Nimo»)


vede con gli occhi del fanciullo (gli «occhioni che son dentro di lui»31),
perché solo questo sguardo primitivo rende possibile il fatto di ritrova-
re una veggenza-visione primordiale perduta. Nella lirica dei Canti di
Castelvecchio, il vecchio Nimo ha bisogno del fanciullo che lo accom-
pagna e da cui dipende, perché il vecchio prende il nome dialettale di
«nessuno», come Ulisse disse di chiamarsi a Polifemo. Il fanciullo di
Caprona trova la sua origine nel folklore del Barghigiano e incarna per
Pascoli, in chiave allegorica, la visione del poeta e la conoscenza.32 Ma
non si deve tralasciare il fatto che, negli anni di stesura de La squilletta
di Caprona, Pascoli era anche assorbito dai lavori sulla Commedia. In
effetti, il bambino, inteso prima come guida veggente per il vecchio, si fa
poi anima vera dell’uomo adulto in stato d’ignoranza (Purgatorio, XVI,
vv. 85-88). Nella lirica pascoliana si passerà allora dalla figura simbo-
lica del fanciullo/a-guida a quella allegorica del fanciullo/a usata per
evocare l’anima sul modello dantesco, prima ne Il ciocco, poi nel poema
italico Rossini. In quest’ultimo si parla dell’anima «semplicetta» di dan-
tesca memoria nel momento in cui il compositore Rossini, addormentato,
vede in sogno la propria anima sotto la forma di una fanciulla chiamata,
come nel Purgatorio, «Parvoletta» (vv. 1-10). Si stabilisce una congruen-
za fra questa figura allegorica dell’anima in lamento, dentro il corpo del
musicista addormentato, e la voce del fanciullino, dentro il poeta che
deve ascoltarla. Testimone della facoltà di meraviglia davanti al mondo
e quindi strumento di conoscenza mediante la voce del poeta, il fanciul-
lo allegorico di Pascoli non è solo una mera versione della regressione
verso uno stato anteriore e innocente, ma assume anche la caratteristica

31
«[...] ebbene il vecchio vede allora soltanto con quelli occhioni che son dentro di lui,
e non ha avanti sé altro che la visione che ebbe da fanciullo e che hanno per solito
tutti i fanciulli», ivi, I, p. 27.
32
Per altri esempi interessanti di fanciulli-guida nella letteratura ottocentesca francese:
Marina Bethlenfalvay, Les Visages de l’enfant dans la littérature française du XIXème
siècle. Esquisse d’une typologie, Genève, Droz, 1975. In una versione più contempo-
ranea si pensi alla figura del fanciullo come guida dell’anziano nella lirica di Franco
Fortini, Il bambino che gioca (Questo muro).

134
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

di rivelatore essenziale della poeticità.33 Si noti infine che, nella gene-


razione posteriore a Pascoli, l’anima fanciulla si ritroverà, in chiave più
realistica, in una poesia di Gozzano per evocare la saggezza del vecchio
ottuagenario attraverso il ritrovare se stesso bambino.34 Anche in altri
crepuscolari l’allegoria dantesca viene ripresa e deformata, per esempio
in Moretti, come un’immagine della libertà;35 oppure in Vallini, ma que-
sta volta in chiave parodica.36
Il fanciullo viene considerato come un “intuente” – participio presente
usato dallo stesso Pascoli in un dattiloscritto per una lezione, vedi nota
42 – che percepisce il mondo in modo simbolico, che si sofferma sulle
piccole cose e sui particolari, visto che l’infanzia si rivela necessaria per
creare la poesia («[...] la fanciullezza ci vuole!»37). Il fanciullo simbolico
vede e poi nomina quello che guarda mediante la sua intuizione poetica
primitiva, considerata come un mezzo di conoscenza tramite la sensibili-
tà, cioè far entrare l’intuizione e le sensazioni nel processo di creazione
lirica.38 Tale prospettiva sul processo di scrittura, condizionato dunque
dal fatto di dover ritrovare la propria sensibilità infantile, eserciterà una
notevole influenza sulla lirica italiana posteriore.39 L’essere intuente che
rappresenta il fanciullo ideale dello scritto pascoliano ha, grazie alle
sue facoltà di percezione, una capacità di comunicazione diretta perché
riesce ad attivare un meccanismo di conoscenza per intuizione in cui
non prevale la razionalità, e quindi il dispositivo conoscitivo all’origine
delle sensazioni che creano la poesia, secondo la teoria pascoliana, non

33
Gilbert Bosetti definisce l’infanzia nella letteratura come «il catalizzatore delle no-
stre emozioni e del nostro rapimento […] il regolatore delle nostre passioni», Il divino
fanciullo e il poeta, p. 162.
34
Cfr. Guido Gozzano, L’analfabeta, in Id., Tutte le poesie, a cura di Andrea Rocca, Mi-
lano, Mondadori, 1980, p. 80.
35
Cfr. Marino Moretti, Aquila, in Id., Poesie scritte col lapis, a cura di Ferdinando Pap-
palardo, Bari, Palomar, 2002, p. 168.
36
Cfr. Carlo Vallini, Il teschio fiorito, in Id., Un giorno e altre poesie, a cura di Edoardo
Sanguineti, Torino, Einaudi, 1967, p. 74.
37
Pascoli, Il fanciullino, V, p. 37.
38
Cfr. la contestualizzazione della figura simbolica del bambino nella letteratura
dell’Ottocento operata da Battistini ne Il mito del fanciullino nell’età di Pascoli, pp.
11-13.
39
Cfr. Perugi, James Sully e la formazione dell’estetica pascoliana, p. 227.

135
Terzo capitolo

è più sottoposto al primato della ragione ma a quello della percezione


immediata. Pascoli ha definito nel suo Fanciullino una figura simbolica
fondata sulla realtà dello stato infantile anteriore ai sette anni, cioè l’età
durante la quale il bambino passa dall’intelligenza intuitiva a quella lo-
gica, da una forma di comunicazione diretta con il mondo che lo circonda
e con il quale interagisce per intuizione, a una forma di comunicazione
sempre più dipendente dal raziocinio.40 La teoria costruttivista di Piaget
riguarda, fra l’altro, il prevalere della ragione logica a partire da sette
anni, dopo un periodo anteriore in cui prevaleva invece l’intuizione.41 Il
fanciullino pascoliano però non percepisce tramite un’illuminazione, di
tipo rimbaudiano, ma mediante un’intuizione naturale che gli fa scoprire
il mondo come per la prima volta e provare sempre meraviglia. Il fanciul-
lo ideale in Pascoli dimostra una capacità di gioia e di stupore – quindi
senza dérèglement – che motiva la creazione di poesia. Il fanciullo pa-
scoliano è quindi un essere intuente rispetto all’essere ragionevole che
domina nell’adulto, così il poeta deve ascoltare «la vocina del bimbo
interiore»42, in modo da trovare la via verso una verità tramite la poesia
dell’emozione e dell’immaginazione.43 Questa lezione pascoliana si ri-
troverà per esempio nell’«immaginismo» esplosivo del “poeta fanciullo”
Govoni.44
Si veda, per concludere questo paragrafo, un esempio, in medias res, di
fanciullo pascoliano che scopre il mondo e prova una serie di sensazioni

40
Cfr. Chombart de Lauwe, Un monde autre: l’enfance, pp. 36-39.
41
Cfr. Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino (e altri studi di psicologia).
42
Pascoli, Il fanciullino, I, p. 27. I vocaboli «intuente [...] ragionevole», riferiti segna-
tamente al fanciullo nel poeta, vengono usati dallo stesso Pascoli in un dattiloscritto
per una lezione del 28 aprile 1907, intitolato Lezione ottava, citato in Perugi, James
Sully e la formazione dell’estetica pascoliana, p. 287.
43
«Poetry is, then, the supreme tool of cognition, since emotion and imagination, not
reason, are considered the way to higher truths», in Rosa Maria La Valva, The Eter-
nal Child. The Poetry and Poetics of Giovanni Pascoli, Chapel Hill, Annali d’Italiani-
stica, 1999, p. 92.
44
Cfr. Eugenio Montale, La morte di Corrado Govoni, poeta fanciullo della natura, in
Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Monda-
dori, 1996, vol. 2, pp. 2745-2748. Montale precisa che il puer di Govoni si allontana
dall’accezione pascoliana e lo paragona piuttosto a un «fraticello francescano inebria-
to di luci e colori [...]», p. 2746.

136
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

che generano la conoscenza intuitiva del proprio futuro. All’inizio dei Po-
emi risorgimentali l’autore ha scelto di evocare un ragazzino destinato a
diventare l’eroe Garibaldi, si tratta del terzo dei Poemi, Garibaldi fanciullo
a Roma (Pepin). In conformità con la poetica del Fanciullino il testo lirico,
mescolando immagini del quotidiano di una passeggiata per Roma fra gli
storici ruderi, descrive lo sguardo innocente del «mozzo biondo» (v. 39),
poi chiamato al v. 97 «giovinetto» – anche se all’inizio, nella prima parte,
si parlava invece di un «marinar fanciullo» (v. 18) – che osserva la campa-
gna romana e i monumenti antichi in un’unica rêverie:

A Ripa Grande a terra balzò. Roma!


Roma era sempre. E la cercò sognando
col passo ondante come su la tolda,
con gli occhi aperti come dalla coffa;
e bevve l’acqua delle sue fontane,
e mangiò il pane sulle sue rovine.
Ristette al piede, e sogguardò la cima
brillante al sole d’obelischi rossi.
Vide scogliere di muraglie e d’archi
sparire nella oscurità d’un nembo.
Errava assòrto, e la sonante pioggia
riparò sotto un arco quadrifronte.
Meriggiò stanco al parlottìo d’un fonte
nella spelonca della ninfa Egeria.
Sorseggiò, arso, l’acqua dolce a bocca
a bocca da un leone di basalto.45

Qui lo sguardo del fanciullo abbraccia insieme l’immediatezza dell’am-


biente di un pomeriggio laziale caldo e il ricordo della grandezza antica.
La vocazione del futuro generale nasce in un ragazzo non ancora conscio
della portata storica della sua passeggiata tra i monumenti. Il rapporto
con il mondo e con la storia degli uomini si stabilisce tramite il primitivo
e immaginativo punto di vista del ragazzo, prima di celebrare le gesta di

45
Giovanni Pascoli, Garibaldi fanciullo a Roma. Pepin, in Id., Tutte le poesie, p. 744, III,
vv. 41-56.

137
Terzo capitolo

Garibaldi nel seguito del ciclo dei Poemi. Il futuro generale porta dentro
di sé il semplice «mozzo biondo» in apertura del macrotesto, e il piccolo
viene dunque ritenuto essenziale per capire la formazione dell’adulto
che emergerà nel giro di pochi anni. La poesia nasce dall’immediata sen-
sazione provata dal fanciullo davanti ai molteplici particolari naturali e
architettonici che formano il mondo esterno dell’Urbe. Quello che Walter
Binni ha chiamato «l’immediatezza fanciullesca del particolare»46 trova
una trasposizione lirica in questo testo. Pepin intuisce, senza capirlo,
mediante la scoperta dei particolari della città che attraversa, un futuro
glorioso (vv. 96-98).47 Si noti anche il particolare dei capelli biondi, soli-
tamente riferiti all’infanzia nella lirica pascoliana,48 perché l’autore non
rappresenta un adulto in miniatura già perfettamente conscio di quello
che osserva, bensì un giovane ragazzo che accede alla conoscenza della
storia antica tramite una serie di sensazioni. Lo “sguardo” del fanciullo
corrisponde a una prospettiva che l’adulto dovrebbe ritrovare per guar-
dare il mondo e capire i suoi significati, come lo teorizzò Ruskin nel
campo pittorico, parlando di una «innocenza dell’occhio»49 che si ritrova
proprio nel fanciullo evocato da Pascoli. Pepin ha in effetti la sensibilità
della scoperta originaria dell’essere intuente, intravisto nel Fanciullino,
tale da diventare, in questo caso, un precursore dell’adulto Garibaldi
celebrato nel ciclo storico.50

46
Binni, La poetica del decadentismo, p. 129. In un manoscritto pascoliano si legge a
proposito degli appunti per la stesura del poema: «Occhi di fanciullo che sa qualche
cosa ma non tanto e supplisce con l’immaginazione. Il tutto dunque velato un po’ e
indeciso» [LVII 5, f. 7], citato da Cesare Garboli in Giovanni Pascoli, Poesie e prose
scelte, vol. II, p. 1247.
47
Per un’analisi del significato dello squillo delle campane e una lettura del simbolismo
della visita ai monumenti romani, ci sia concesso rimandare al saggio di Luca Bani,
«Ditemi, o pietre! parlatemi, eccelsi palagi». La rappresentazione di Roma nella lirica
italiana tra Otto e Novecento: Carducci, d’Annunzio, Pascoli, Pisa, ETS, 2012, p. 185.
48
Fausto Curi parla perfino di «bisessualità» a proposito dell’indistinzione sessuale dei
fanciulli e fanciulle biondi in Pascoli, Pascoli e l’inconscio, in Pascoli e la cultura del
Novecento, a cura di Andrea Battistini - Gianfranco Miro Gori - Clemente Mazzotta,
Venezia, Marsilio, 2007, pp. 43-84, 79.
49
John Ruskin, The Element of Drawing (1857), in Id., The Works, London, Wedderburn,
1903-1912, vol. XV, p. 27.
50
Cfr. Giorgio Bàrberi Squarotti, Il fanciullino e la poetica pascoliana, in Giovanni

138
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

3.2 Il fanciullo di fronte alla morte

3.2.1 L’infanzia tra disgrazia e angelismo


L’epoca in cui Pascoli scrisse fu insieme ricca di nuove ricerche sulla
condizione infantile, nei campi della sociologia, della psicologia, dell’e-
sordiente psicanalisi, ecc., e particolarmente feconda in esempi letterari
d’infanzia infelice e disgraziata. L’immagine letteraria del bambino si
trovò così collocata fra l’immagine realistica della miseria e della morte,
con toni spesso patetici, e quella mitica, ereditata dal Romanticismo,
del bambino angelo, innocente, puro, incarnazione della parte primitiva
e divina dell’uomo adulto. Si trovano quindi nella letteratura ottocente-
sca molti esempi di infanzia infelice, misera, maltrattata, in preda alla
malattia, vittima del sistema classista,51 segnatamente nella narrativa in
cui si cerca spesso di evocare la morte infantile quale realtà sociale del
tempo.52 La figura infantile di fronte alla miseria e alla malattia costitui-
va un dato sociale oggettivo.53 Questo dato, che il poeta poteva verificare
nelle varie regioni dove ha vissuto, costituisce una tematica importante
nella sua lirica, sia per motivi personali del ricordo di lutti familiari che
per la valenza simbolica che assume l’evocazione della scomparsa di un
bambino. Basta citare i primi versi di Abbandonato:

Nella soffitta è solo, è nudo, muore.


Stille su stille gemono dal tetto.

Pascoli. Poesia e poetica, Atti del Convegno di studi pascoliani (San Mauro, 1-3 aprile
1982), Rimini, Maggioli, 1984, pp. 19-56, 22.
51
Cfr. le pagine dedicate alla figura del fanciullo vittima, in Bethlenfalvay, Les Visages
de l’enfant dans la littérature française du XIXème siècle, pp. 53-61.
52
Tra Otto e Novecento la mortalità infantile (prima di compiere un anno) in Italia era
del 168 per mille circa. Tuttavia, era soprattutto inquietante la mortalità post-infantile
(quella tra uno e cinque anni), perché raddoppiava rispetto a quella degli altri paesi
occidentali (144 per mille circa in Italia, rispetto al 70 in Francia, per esempio). Cfr.
Antonella Pinnelli, La sopravvivenza infantile, in Demografia e società in Italia, a
cura di Eugenio Sonnino, Roma, Editori riuniti, 1989, p. 129.
53
Cfr. Cambi - Ulivieri, Storia dell’infanzia nell’età liberale, p. 103.

139
Terzo capitolo

Gli dice il Santo – Ancora un po’; fa’ cuore –


Mormora – Il pane; è tanto che l’aspetto –

L’Angelo dice – Or viene il Salvatore –


Sospira – Un panno per il mio freddo letto –54

Si mescolano l’ambiente misero e squallido nel quale il bambino sta


morendo e la prospettiva di una vita migliore in paradiso per interces-
sione dell’Angelo, che gli promette la salvezza in cielo. Anche nelle
liriche d’occasione, definite dall’autore come delle “cartoline”, si de-
scrive lo stesso tipico ambiente misero, come per esempio in Pei senza
tetto (1906), desunto dal contesto dell’attività di beneficenza di Pascoli
a Bologna. L’autore ebbe un certo interesse per le figure infantili con-
frontate direttamente – come vittima, oppure indirettamente, come os-
servatore – alla miseria e alla morte, anche da traduttore della lettera-
tura contemporanea per le antologie scolastiche, per esempio Il pianto
dei fanciulli di Elizabeth Barrett Browning, We are seven di Wordsworth
o una poesia di Victor Hugo (Petit Paul) in Fior da fiore.55 Pascoli tro-
verà in questa lirica di Hugo un perfetto esempio del bambino vittima
innocente, disgraziato e angelicato, e ne darà un’interessante versione
con il titolo Pierino, su cui si tornerà in seguito. La realtà sociale del
tempo, la valenza simbolica del piccolo misero destinato al paradiso e
il riferimento implicito alla propria condizione di orfano, che ha patito
effettivamente dell’assenza dei genitori quando ne aveva più bisogno,
confluiscono nella poesia Il fanciullo mendico:

Ho nel cuore la mesta parola


d’un bimbo ch’all’uscio mi viene.
Una lagrima sparsi, una sola,
per tante sue povere pene;

Giovanni Pascoli, Abbandonato, in Id., Tutte le poesie, pp. 27-28, vv. 1-6.
54

Cfr. Carla Chiummo, Guida alla lettura di “Myricae” di Pascoli, Bari-Roma, Laterza,
55

2014, pp. 112-113. Cfr. anche Traduzioni e Riduzioni (“Dalle letterature moderne”) in
Giovanni Pascoli, Poesie, Milano, Mondadori, 1939, Sezione seconda, pp. 1724-1754.

140
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

e pur quella pensai che vanisse


negl’ispidi riccioli ignota:
egli alzò le pupille sue fisse,
sentendosi molle la gota.

[...]
E quand’egli già fuor del cancello
riprese il solingo sentiero,
io sentii che, il suo grave fardello,
godeva a portarselo intiero;

e chiamava sua madre, che sorta


pareva da nebbie lontane,
a vederlo; poi ch’erano, morta
lei, morta! ma lui senza pane.56

Il fanciullo misero si fa simbolo di un’umanità in sofferenza, con il riferi-


mento al pane, che assume un valore metonimico di miseria al contempo
economica e affettiva, oltre che il riferimento autoreferenziale e fanta-
sticato alla propria tragedia familiare, con l’evocazione delle «nebbie»
da cui sorge la madre defunta. Il fanciullo disgraziato e testimone della
realtà sociale potrebbe a questo punto intendersi come un paradigma
lirico del dolore, il che fornisce una chiave di lettura per poesie myricee
come Sogno d’ombra, Mistero, Il rosicchiolo o Il morticino nelle quali la
condizione infantile rivela una condizione più ampia, in una prospettiva
di partecipazione per l’umanità sofferente, che troverà progressivamente
una sua espressione nelle idee umanitariste formulate pubblicamente
dall’autore. Queste immagini pascoliane di fanciulli miseri e confrontati
alla morte si allontanano dalla versione romantica del piccolo essere
felice in comunione con la natura, simile a un essere primitivo, conside-
rato come uno speculum naturae. Il fanciullo infelice pascoliano è una
creatura idealizzata, pura e innocente, seppur realmente esistente nella

Giovanni Pascoli, Fanciullo mendico, in Id., Canti di Castelvecchio, Milano, BUR,


56

1983, pp. 205-206. Il curatore delle note (Giuseppe Nava) osserva che il fanciullo
mendico «è qui proiezione regressiva del Pascoli».

141
Terzo capitolo

società del suo tempo: egli riesce a unire il fanciullo sociale in preda
alla miseria con l’essere originario e autentico da ritrovare nell’adulto.57
Si vedano ora alcuni esempi di rappresentazione della morte del fanciul-
lo nelle liriche. A due epoche diverse della produzione in versi risalgono
due figure particolarmente suggestive del piccolo morto. Uno dei quadri
più emblematici è proposto nella poesia latina dell’autore, con un esem-
pio della bellezza post mortem, in Pomponia Graecina (1909): «Mussan-
tes flebile matres / et myrrha curant et suavi corpus / exanimum pueri.
Tener et vivente videri / pulcrior est».58 Un decennio prima, un discorso
della figlia morta rivolto alla madre costituisce la materia per una canzo-
netta, datata del 1897, raccolta ne La Befana ed altro. La bambina, dal
sepolcro, aspetta che la madre la raggiunga nel camposanto guidandola:
«Cammina, cammina / ritorna da me!– / la strada, mammina, / la strada
che c’è!–».59 I due esempi mostrano il fanciullo idealizzato nella morte,
perché più bello rispetto a quando era vivo e figura di intercessione con
l’aldilà. Ma rappresentare la morte del bambino nella letteratura tra i
due secoli significa anche tener conto delle informazioni fornite dagli
inizi della pediatria, quando la morte infantile cominciò ad essere stu-
diata dalla medicina in quanto disciplina autonoma, cioè specificamente
applicata all’organismo dei bambini. Nel secondo canto del poemetto La
vendemmia, Pascoli fa descrivere alla giovane Rosa come il suo bimbo
divenne sempre più debole e pallido perché non voleva il latte della
madre, e si sa oggi in effetti che buona parte della mortalità infantile e
post-infantile in quegli anni fu causata da abitudini sbagliate nell’ali-
mentazione del neonato lattante: «Ma poi... piangeva. Mi si fece bianco /
e stento, e quando lo attaccavo al petto, / succhiava un poco e poi pareva
stanco».60 Anche in Sera festiva il piccolo morto è freddo e bianco, per-
ché l’ambiente nel quale si trova è invernale e il pallore viene paragona-
to alla cera, con il suono onomatopeico della campana lontana.61 Questi

57
Cfr. La Valva, The Eternal Child. The Poetry and Poetics of Giovanni Pascoli, p. 89.
58
Giovanni Pascoli, Pomponia Graecina, in Id., Tutte le poesie, p. 1082, vv. 287-290.
59
Giovanni Pascoli, Mamma e bimba, ivi, p. 837, vv. 1-4.
60
Giovanni Pascoli, La vendemmia, II, 5 e 6, ivi, p. 256, vv. 1-6 e v. 3.
61
Cfr. Giovanni Pascoli, Sera festiva, ivi, p. 16, vv. 15-21.

142
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

morticini costituiscono altrettanti elementi tipici del quadro figurativo


che si ritrova nella sezione Creature. Pascoli aveva d’altronde seleziona-
to o tradotto una serie di testi italiani, tedeschi, inglesi e francesi dalla
forte tonalità funebre, in una sezione delle antologie Sul limitare e Fior
da fiore, come La bambina morta di Augusto Conti, La camicia da morto
di Eduard von Bauernfeld, o Pierino di Victor Hugo. Il problema figura-
tivo della morte del bambino nell’arte tra i due secoli fu anche posto da
Rilke, nella sua Quarta Elegia,62 con un drammatico patetismo rinforzato
dal particolare del pane grigio che induriva, proprio come nella pascolia-
na descrizione del rosicchiolo secco collocato nell’ambiente misero della
stanza dove sta agonizzando una madre, mentre dorme il fanciullo che
dovrà nutrirsi con quello che la madre gli ha serbato.63 Nelle liriche di
Myricae parecchi testi mostrano esempi di fanciulli che muoiono (Morto;
Sera festiva; Abbandonato), oppure subiscono la morte di un genitore (Il
rosicchiolo; Ceppo; Agonia di madre), in un ambiente misero o per lo più
modesto. L’ambiente nel quale i bambini muoiono o dormono costitui-
sce un’atmosfera che contribuisce a rinforzare il patetismo della sezione
Creature, nonché di altri testi come Il piccolo bucato, dove si stabilisce la
similitudine fra l’ambiente misero del tugurio nel quale si agita un bimbo
e la tomba.64 Per esempio, Fides sottolinea l’opposizione fra «il vespero
vermiglio» (v. 1) e «il cipresso nella notte nera» (v. 7), quando il bam-
bino sogna un giardino illusorio che lo possa proteggere dal buio. Una
simile opposizione si osserva anche in Orfano, mediante un contrasto fra
il giardino sognato e la neve che ricopre il paesaggio. Ceppo fornisce un
quadro descrittivo interessante, nel quale lo spazio interno della stanza
si contrappone a quello esterno, quest’ultimo apparentemente ostile alla
piccola creatura che dorme e al contesto domestico che l’accoglie a cau-
sa delle minacciose immagini invernali di neve e gelo che lo caratteriz-
zano, ma in realtà rasserenante, perché l’uniformità del manto candido

62
Cfr. Rainer Maria Rilke, Die vierte Elegie, in Duineser Elegien [1915], vv. 76-79:
«Chi rappresenta un bambino com’è? / [...] Chi la fa la morte del bambino / causata
dal pan grigio che induriva [...]?», traduzione di Enrico e Igea De Portu., in Elegie
duinesi, Torino, Einaudi, 1978.
63
Cfr. Giovanni Pascoli, Il rosicchiolo, in Id., Tutte le poesie, p. 13, vv. 7-8.
64
Cfr. Giovanni Pascoli, Il piccolo bucato, ivi, p. 57.

143
Terzo capitolo

pacifica il mondo e annulla con serena lentezza gli elementi dolorosi


dell’agonia in corso.65 In questi esempi tratti dalla sezione Creature (ma
anche per uno dei due bimbi evocati in Agonia di madre) il bambino
dorme, il che, simbolicamente, costituisce uno stato particolare che pre-
figura la morte perché la piccola creatura diventa vulnerabile durante il
sonno, nonostante la protezione offerta dalla ninnananna (in Orfano). A
proposito di questi quadri si è parlato giustamente di una «dispersione
del centro descrittivo»66 che corrisponderebbe precisamente al punto di
vista fanciullesco senza gerarchia sulle cose, che siano grandi o piccole.
In effetti, il bambino presente nelle liriche di Creature non è in realtà
protagonista dell’azione, ma osservatore che cerca di comprendere quel-
lo che sta succedendo mediante le proprie sensazioni, attraverso una se-
rie di particolari, come il tozzo di pane, il ceppo, il bricco, il suono delle
campane, il cipresso nero, ecc. Pascoli crea un quadro figurativo ma,
come osserva Bàrberi Squarotti, lo fa tramite una contiguità di elementi
descrittivi di natura dispersiva, senza analisi vera e propria del piccolo
morituro o dormiente, senza raffigurare la malattia e i suoi effetti, predi-
ligendo anzi l’effetto sentimentale del pianto fanciullesco per intenerirsi
sull’azione. Gozzano, d’altronde, riprenderà alcuni elementi ambientali
e lessicali di questi quadri pascoliani per un poemetto destinato a una
versione musicale, La culla vuota,67 dove la madre piange il figlio morto
mentre la Morte le propone di restituirglielo a patto di conoscere solo il
dolore.
Nella maggior parte delle liriche che evocano la morte del fanciullo, si
ritrova il puer angelicus destinato ad andare in paradiso. La morte del
piccolo, ritenuta ingiusta e incomprensibile, non può che venire rappre-
sentata come compensata, nella tradizione cristiana, dalla certezza di una
nuova vita nell’aldilà, nel regno delle anime pure. La morte del piccolo
innocente appare come un passaggio, benché rassegnato, verso il ritorno
al cielo, quindi come una consolazione. Nel Romanticismo il bambino,

65
Cfr. Giovanni Pascoli, Ceppo, ivi, p. 26.
66
Bàrberi Squarotti, Il fanciullino e la poetica pascoliana, pp. 27-32.
67
Cfr. Guido Gozzano, Tutte le poesie, pp. 343-347. Anche Sbarbaro riprende l’ambiente
di Creature in Resine, Milano, Garzanti,1948, p. 11.

144
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

buono per natura, era connotato da elementi archetipici dell’angelismo


e dell’innocenza, come il colore dei capelli e l’aureola dell’angelo.68 In
Victor Hugo (L’Art d’être Grand-Père, ma anche nella lirica Claire da Les
contemplations, con la fanciulla morta) il bambino si presentava come ma-
nifestazione evidente e autentica del divino, perché ricorda il paradiso.
Un bell’esempio della lettura pascoliana della lirica hugoliana dedicata
al fanciullo disgraziato e angelicato è presente nella traduzione di Petit
Paul (da La légende des siècles), destinata a Fior da fiore. Pascoli traduce
il nome con il diminutivo Pierino. La storia è quella di un fanciullo la cui
madre muore partorendolo e che viene affidato dal padre al nonno per
educarlo. In seguito, morto il nonno, il piccolo deve lasciare un eden e tor-
nare dal padre che lo odia. Molto pascolianamente il fanciullo si rifugia al
camposanto per ritrovare la madre e il nonno, i cari defunti, per scappare
alla triste realtà familiare. Lo stesso nome, Pierino, si ritroverà nei crepu-
scolari, con il «bimbo dell’elemosina», in Pierino o dello svolgimento di
Moretti; si tratta di un’ironica «figura teorica che piace» (v. 14) agli alunni
che stanno svolgendo un tema scolastico sull’incarnazione del bene.
Il fanciullo idealizzato è quindi un angelo eletto che ricorda agli uomini
la loro natura primitiva e riesce a chiarire i misteri. Nella lirica Vagito69
si raffigura una madre morta sul letto mentre si sente il grido di un ne-
onato nella culla. L’accezione negativa e funebre dell’aggettivo iniziale
«bianca» si trasforma in accezione positiva («candido», con ipallage)
per il colore delle trine sotto le quali dorme, per metonimia, un bim-
bo, una figura divina e angelica in grado di far parlare il mistero. Un
altro aspetto del fanciullo angelo viene proposto nel secondo canto del
poemetto La vendemmia, in cui Rosa, la mammina piangente, evoca il
primo figlio, ormai morto, chiamandolo più volte «angiolino» che ritrova
gli altri angeli in cielo (VII, v. 8), al punto da diventare il «piccolo mio
santo» (VII, v. 10). Come pure ne Il rosicchiolo, in cui il bambino, ignaro
della morte della madre, è chiamato «povero angiolo» (v. 2), immagine
dell’innocenza che si ritrova quasi identica in Corazzini attraverso la

68
Cfr. Victor Hugo, Lorsque l’enfant paraît, in Id., Les feuilles d’automne, Bruxelles,
Mme Laurent Imprimeur-éditeur, 1840, p. 81, vv. 36-43.
69
Cfr. Giovanni Pascoli, Vagito, in Id., Tutte le poesie, p. 43.

145
Terzo capitolo

lirica L’orfano, che propone la stessa immagine archetipale di creatura


innocente.70 La connotazione celeste e angelica del fanciullo nella li-
rica pascoliana allontana in modo definitivo l’immagine settecentesca
del bambino primitivo e selvaggio, calando il personaggio nel mondo
cristiano di un aldilà di salvezza per gli innocenti, che costituisce una
consolazione per sopportare la morte del bambino nella società borghe-
se. Pascoli visse in un’epoca in cui i bambini delle famiglie borghesi
(rispetto a quelli dei ceti proletari) cominciavano ad essere sorvegliati,
fisicamente e psicologicamente, con la massima cura, e di conseguenza
la scomparsa prematura di un figlio non era più considerata come con-
sueta, prevedibile, tanto che il tasso di mortalità nel primo anno di vita
in Italia passò da 195 a 152 bambini per mille nell’arco di tempo fra il
1886 e il 1910.71 Tuttavia, il fanciullo buono, creatura celeste innocente,
troverà per l’appunto nell’epoca di Pascoli una decisiva figura con cui
venire confrontato, quella del bambino crudele e perverso, osservato e
analizzato da Freud nei Tre saggi sulla teoria sessuale del 1905. La realtà
del fanciullo oggetto delle teorie psicanalitiche contraddice progressi-
vamente le figure ideali di fanciulli letterari paragonati ad angeli eletti.
D’altronde, se si usa il vocabolo fanciullo nella forma maschile è solo per
rispettare una comodità della norma grammaticale, ma permette anche
di neutralizzare la differenza fra i sessi, tra piccoli maschi e femmine,
giacché nella connotazione angelica del fanciullo lirico, si tende effetti-
vamente a negare l’appartenenza al genere sessuale, a inglobare gli an-
geli in un gruppo dove non prevale ancora la gerarchia sociale dei sessi
e dove persiste invece il carattere asessuato del piccolo.72

3.2.2 Il punto di vista infantile sulla morte


Si tratta di evidenziare una sensibilità infantile capace di avere uno sguar-
do autentico – per non dire ingenuo – sulla morte alla quale essa assiste o
viene confrontata. Durante la lettura di Études sur l’enfance il poeta aveva

70
Cfr. Corazzini, L’orfano, in Id., Poesie edite e inedite, a cura di Stefano Jacomuzzi,
Torino, Einaudi, 1968, p. 232, v. 3.
71
Cfr. Cambi - Ulivieri, Storia dell’infanzia nell’età liberale, p. 103.
72
Cfr. Curi, Pascoli e l’inconscio, p. 77.

146
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

trovato pagine dedicate alla reazione del bambino di fronte all’evento della
morte altrui, una reazione particolare perché non motivata dalla ragione.73
La lirica myricea I due cugini, a partire da fatti realmente accaduti, ossia
l’affetto molto forte tra un bambino (Ruggero, nipote del poeta) e una bam-
bina (Olga, cugina di Ruggero), propone un esempio di questa particolare
sensibilità infantile davanti alla scomparsa di un caro. Ruggero muore a
dodici anni – appunto l’età che aveva il poeta quando il padre gli fu tolto
– mentre Olga cresce da «piccola sposa»:

Poi l’uno appassì, come rosa


che in boccio appassisce nell’orto:
ma l’altra la piccola sposa

rimase del piccolo morto.

[...]
Ma tu... ma tu l’ami. Lo vedi,
lo chiami. La senti da lunge
la fretta dei taciti piedi...

Tu l’ami, egli t’ama tuttora;


ma egli col capo non giunge
al seno tuo nuovo, che ignora.74

Avremo l’occasione di tornare più avanti sul motivo metaforico del fiore
(boccio) legato all’idea d’incompiutezza, ma in questi versi prevale l’im-
magine di un morticino rimasto piccolo per l’eternità, sempre legato al
corpo della piccola amata cresciuta fino all’adolescenza. Il doppio punto
di vista infantile, quello della femmina sul caro morto, e quello del ma-
schio bambino sull’adolescente amata, rivela l’irreale abbraccio tra due
irrealizzabili amanti nel tempo della fantasia onirica.
L’ingenuità autentica dell’infantile punto di vista sulla morte ha fornito a
Pascoli una chiave poetica per reinterpretare l’episodio notissimo della

73
Cfr. Sully, Études sur l’enfance, pp. 325-326.
74
Giovanni Pascoli, I due cugini, in Id., Tutte le poesie, p. 74, vv. 7-26.

147
Terzo capitolo

morte di Socrate, nel poema conviviale La civetta. In effetti, oltre all’evo-


cazione del colloquio fra il filosofo greco e i suoi discepoli nella cella del
carcere di Atene, a partire da fonti classiche greche – tra cui, in primo
luogo, il famoso episodio raccontato nel Fedone e, segnatamente, il passo
da cui prende avvìo il Fanciullino, citato esplicitamente ai versi 63-64
del poema75 –, il poeta immagina che un gruppo di bambini, nominati,
con determinatezza archeologizzante, Gryllo, Hyllo, Coccalo e Cottalo, sia
raccolto ai piedi delle mura del carcere. Man mano che Socrate si accinge
alla morte, il gruppo di bambini (Pascoli usa la parola «branco»), ignari
della sorte che aspetta il prigioniero, gioca con una civetta, simbolo della
dea Atena. In realtà il piccolo Hyllo, credendo di scorgere due monete
d’oro in una crepa, si accorge che sono gli occhi di una civetta. Il gioco
viene evocato con un ritmo rapido in alcuni versi paratattici che corrispon-
dono all’incalzante movimento dei bambini che si contendono la civetta:
«E Coccalo sovvenne / che gliela prese; a Coccalo la prese / Cottalo; e
Gryllo a lui la vinse: allora / Cottalo pianse, Coccalo sorrise, / il piccoli-
no frignò dietro il grande».76 L’uccello diventa prigioniero del gioco dei
bambini, mentre altri compagni arrivano per trastullarsi con l’animale. I
gridi infantili giungono improvvisamente fino al buio e silenzioso carcere.
Da questo momento si mescolano la tragicità della morte del filosofo e
l’allegria innocente dei fanciulli ignari del carattere sacro della civetta che
stanno deridendo, e presto interpellati dal custode del carcere. Da quando
il custode evoca la morte in azione nella cella, il gruppo di bambini tace e
si avvicina al muro del carcere. Comincia allora la descrizione della rea-
zione fanciullesca alla realtà funebre: la scena dell’agonia di Socrate viene
raccontata dall’unico punto di vista fanciullesco di Hyllo, il più piccolo
dei maschi, montato sulle spalle di un amico per poter scorgere quello
che succede dentro la cella. La morte si intravede nell’esperienza indiret-

75
«Ed a ciascuno in cuore / era un fanciullo che temeva il buio». Si noti che nel poema
pascoliano non compaiono i tre figli di Socrate, i fanciulli Lampsaco, Sofronisco e
Menesseno, presentati al padre nel carcere il giorno dell’esecuzione (Fedone 60a)
e futuri orfani evocati nel Critone (45c 46a). Pascoli li ha sostituiti con il gruppo di
bambini che giocano fuori.
76
Giovanni Pascoli, La civetta, in Id., Poemi Conviviali, a cura di Giuseppe Nava, Tori-
no, Einaudi, 2008, p. 272, vv. 43-47.

148
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

ta, ossia nella coscienza ingenua della morte altrui. La scena d’addio del
filosofo ai discepoli prima dell’esecuzione, il suicidio con la cicuta, viene
evocata soltanto con lo sguardo di Hyllo, tramite il particolare realistico
di una piccola apertura nel muro («sogguardò per l’abbaino», v. 149), poi
rinforzato dalla serie di battute rese col discorso diretto, trascrizione dello
sguardo infantile di fronte alla morte:

[...] “Io vedo”.


“Hyllo, che vedi?” “Un buon Sileno vecchio”.
“Che dice?” “Dice che andrà via, che il morto
non sarà lui: seppelliranno un altro”.
[...]
“Hyllo, che vedi?”, “Beve”. “La cicuta!”
“Piangono, gli altri; uno si copre il capo
Con la veste, uno grida”. “Esso, che dice?”
“Dice di far silenzio, come quando
si sparge l’orzo, presso l’ara, e il sale”.77

La scoperta della realtà funebre e del suicidio avviene quasi natural-


mente, grazie alle frasi pronunciate dai compagni di gioco: «“Dunque
non parte? È sempre lì?” “Sì, morto”» (v. 173). Il significato filosofico del
discorso di Socrate sull’immortalità viene quindi filtrato dalle parole del
fanciullo che le trasforma in resoconto cronachistico, mediante una serie
di particolari (come il gesto del piede toccato per verificare la morte,
pure presente nel Fedone). Il capitolo VIII del Fanciullino spiega questa
naturalezza dello sguardo infantile sulle cose dal quale nasce la poesia:
«Poesia è trovare nelle cose, come ho a dire? il loro sorriso e la loro la-
crima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente e
serenamente di tra l’oscuro tumulto della nostra anima».78 La fine del po-
ema permette di far dialogare l’esperienza filosofica dell’immortalità con
quella ingenua ma simbolica dei fanciulli nel momento in cui la civetta
catturata scappa dalle mani di Gryllo e vola via strillando, immagine
della liberazione di Socrate dopo la morte.

Ivi, p. 279-280, vv. 149-163.


77

Pascoli, Il fanciullino, VIII, p. 41.


78

149
Terzo capitolo

La materia antica costituisce un altro esempio di punto di vista fanciul-


lesco sulla morte nel poema conviviale I gemelli. L’esperienza persona-
le della separazione viene filtrata in questo testo mediante la materia
classica. I gemelli presenta una sorta di trasposizione dell’autobiogra-
fia sororale pascoliana (la partenza di Ida) nel mito di Narciso – tema
tra l’altro particolarmente ricorrente nella letteratura simbolista dell’e-
poca. Il testo, del 1905, è posteriore di dieci anni all’evento centrale
della separazione, considerata come un tradimento. Qui la separazione
avviene tra due fanciulli gemelli che non sono mai stati separati, se-
condo un procedimento di enjambement tra due versi fortemente rin-
forzato dai segni d’interpunzione (i due punti e la virgola, per isolare
l’avverbio di tempo), al fine di evocare in modo quasi istantaneo, solo
tramite il suono di un sospiro, la morte improvvisa della piccola: «[...]
un pianto nella casa / sonò: poi, la fanciulla era sparita» (vv. 13-14). Il
fratello, chiamato «giovinetto» (come Pepin), accorgendosi della scom-
parsa della sorella, tenta invano di trovarla e la richiede ai genitori
impotenti. La sorella è stata chiamata «fanciulla» nella prima strofe,
alle soglie dell’adolescenza nonché della morte, con una metafora flo-
reale che la fa sembrare un «boccio»,79 motivo sul quale si ritornerà. Il
fanciullo finisce per illudersi di ritrovare l’immagine della sorella nel
riflesso dell’acqua d’una fonte, mentre in realtà vede solo la propria
immagine riflessa. La confusione nella mente del fanciullo svanisce
quando capisce che il volto amato esiste solo nella sua immagine ri-
flessa, sicché l’unico modo di superare il disincanto della separazione
diventa la morte, prima di metamorfosarsi in fiore di campanellino. Il
mito generalmente trattato secondo motivi dell’eros decadente e inteso
come simbolo della coscienza di sé diventa, in Pascoli, l’evocazione
della separazione traumatica tra due fanciulli. L’ambiguità sull’età del
fratello (ci si può chiedere se sia ancora un bambino oppure un adole-
scente, visto che viene chiamato ai vv. 99-100 «il morto per amore / bel
giovinetto», mentre nelle note ai Poemi l’autore parla di «un maschiet-

Per un’acuta lettura di questo poema: Francesca Sensini, Dall’antichità classica alla
79

poesia simbolista: i Poemi Conviviali, Bologna, Pàtron, 2010, pp. 142-158.

150
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

to e una bambina»80), permette di interpretare l’episodio sia come una


tragedia infantile in cui il fanciullo ingenuo comprende, tramite la me-
tamorfosi, il senso del mistero della morte, che come una trasposizione
lirica del dolore provato dallo stesso poeta quando perdette la sorella.
Il «Sacro all’Italia raminga», Italy, offre un bellissimo ritratto di fan-
ciulla che deve affrontare un’esperienza quasi iniziatica tra la propria
malattia e la scomparsa di sua nonna. Molly viene chiamata sin dal pri-
mo canto «una bimba malatella» (I, vv. 10-12), e in seguito «la bambina
bionda» (III, v. 17). La storia della genesi del poemetto ci informa che
in realtà il personaggio infantile di Molly è ispirato a Isabella, figlia di
Enrico, un figlio dello Zi’ Meo. Di solo otto anni, si viene a sapere che
questa bambina è nata oltreoceano negli Stati Uniti e non sembra godere
di una buona salute al suo arrivo in Italia per soggiornare in famiglia. Un
paragone con il lessico tecnico della botanica sottolinea la sua fragilità,
perché la piccola ha «il peso d’una galla» (v. 15). La prima immagine
infantile offerta dal poemetto è quindi una figura debole addormentata
al suo arrivo, sotto la pioggia invernale. Essa presenta i segni della feb-
bre e della malattia, rinforzati dal sentimento di estraneità nell’altrove
sconosciuto (Molly appare infatti come «la piccola straniera»), benché
familiare, dove risiede, un’estraneità poeticamente espressa mediante il
geniale plurilinguismo operato dall’autore:

Maria guardava. Due rosette rosse


aveva, aveva lagrime lontane
negli occhi, un colpo ad or ad or di tosse.

[...]
“Bambina, state al fuoco: nieva!
nieva!” E qui Beppe soggiungeva compunto:

“Poor Molly! Qui non trovi il pai con fleva!”81

80
Note alla seconda edizione, in Giovanni Pascoli, Poemi Conviviali, Bologna, Zanichel-
li, 1905.
81
Giovanni Pascoli, Italy, in Id., Tutte le poesie, p. 173, IV, vv. 16-25.

151
Terzo capitolo

La malattia della bambina costringe i genitori a rimanere più tempo del


previsto nel paese straniero dove Molly incarna una piccola debole e
timorosa, a disagio in un ambiente diverso dal suo, nel quale non riesce
nemmeno a capire le parole rivoltele, un paese nominato simbolica-
mente «Bad Italy! Bad Italy!» (VI, v. 25), perché assume un doppio
valore: da un lato corrisponde all’espressione spontanea (dunque fan-
ciullesca) del disagio infantile in un luogo estraneo e incomprensibile,
dall’altro corrisponde al discorso pascoliano dedicato all’Italia ramin-
ga, cioè il fatto che la patria è cattiva perché incapace di proteggere e
trattenere i propri figli costretti ad emigrare. Durante le ore trascorse a
filare non cessa la tosse e Molly comincia, sempre fanciullescamente,
a chiedersi se potrà sopravvivere a questa malattia. Nell’ultima parte
del primo canto l’ingenuità lucida e laconica della bambina si esprime
con l’iterazione dell’unico verbo interrogativo «Die?» (IX, vv. 14, 18
e 20). L’incomprensione del significato del verbo da parte della nonna
rinforza drammaticamente la conclusione del primo canto sulla pre-
figurazione dell’eventuale scomparsa della piccola: l’interrogazione
diventa esclamazione finale quando si auspica che se Molly morisse,
almeno il suo corpo dovrebbe rimanere in patria, nel nido della fami-
glia. Comincia allora, con il secondo canto, un capovolgimento tramite
il cambiamento meteorologico del vento «buono». L’identificazione di
Molly con la bambola (Pascoli crea la consonanza Moll/Doll, III, vv. 1
e 4) accompagna il simbolico ritorno della primavera annunciata dal
canto degli uccelli, che si esprimono anch’essi in una lingua straniera,
perché anch’essi migranti. La poetica del Fanciullino si attua in que-
sto passo perché la piccola Molly sembra in grado di comprendere la
lingua straniera degli uccelli e il suono delle campane, come se fossero
un idioma primordiale, primitivo, che solo l’essere intuente fanciullo
sa interpretare. L’analogia fra la lingua degli emigrati (fuori dal nido) e
quella degli uccelli migranti finisce per creare un linguaggio del tutto
autonomo a metà strada fra l’inglese semplice e diretto della fanciulla
e l’onomatopea ornitologica delle rondini:

152
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

Sweet... Sweet... Ho inteso quel lor dolce grido


dalle tue labbra... Sweet, uscendo fuori,
e sweet sweet sweet, nel ritornare al nido.82

Molly, «rondinella nata in oltremare» (VIII, v. 1), non è più la fanciulla


malata protagonista di una triste vicenda domestica ma un’allegoria del
ritorno in patria. Il passaggio dall’imminente morte di Molly alla sua
rinascita si effettua mediante il trasferimento simbolico della malattia
dalla piccola alla nonna sempre più debole, con l’oggetto testimone del
trasferimento che costituisce la bambola immobile ma «savia» (XVIII, v.
8). Esattamente come nell’ultima strofe del canto di Castelvecchio intito-
lato La nonna, la morte di quest’ultima in Toscana fa rivivere la nipotina
americana tornata in patria; ormai essa è conforme all’immagine ideale
dei fanciulli che la circondano: «Rosea, bionda, e mesta, / Molly era in
mezzo ai bimbi e alle bambine» (XX, vv. 27-28), immagine idilliaca che
ricorda perfino un allegorico tondo di Pellizza da Volpedo.83 Nel poe-
metto, la fanciulla confrontata alla malattia viene risarcita dal funebre
compenso tra morte e vita, primitivamente intuito da Molly quando ri-
nasce ascoltando il ritorno delle rondini e osservando la nonna che non
vuole più filare. Si usa l’avverbio primitivamente proprio perché il tra-
sferimento della malattia avviene secondo una scansione meteorologica
che l’ingenuità della fanciulla poteva intuire e poi interpretare.84 Italy
offre la raffigurazione di una fanciulla che incarna un’infanzia ideale,
eternamente preservata grazie a una vita semplice, idealmente ancorata
nel passato, perché, come recita l’ultimo verso del poemetto, il futuro di
Molly è un ritorno al passato familiare, non l’avventura adulta in Ame-
rica, come se dovesse restare per sempre fanciulla rimanendo in patria.
La piccola acquista un’autonomia testuale nuova perché il “sentimento
d’infanzia” moderno entra a far parte della scrittura poetica: «Pascoli

82
Ivi, p. 178, VII, vv. 1-3. Cfr. la nota di Arnaldo Colasanti in calce di pagina: «Sweet:
‘dolce’. Ma è lo squittire delle rondini» e la nota di Pascoli: «Sweet (pr. suìt) vale
dolce, ed è, per dir così, consacrato a home. Casa mia! Casa mia!», ivi, p. 183.
83
Giuseppe Pellizza da Volpedo, Idillio primaverile, 1896-1901, collezione privata.
84
Cfr. Francesca Nassi, “Io vivo altrove”. Lettura dei “Primi Poemetti” di Giovanni Pa-
scoli, Pisa, Edizioni ETS, 2005, pp. 339-341.

153
Terzo capitolo

anticipa largamente, e consente che si determini anche sulla base dei


propri interventi, un’ottica in cui i bambini vengono contemplati nella
loro intatta alterità; descritti e amati proprio perché diversi, e adatti a
determinare la creazione di un apparato di simboli a cui si attingerà da
più parti».85

3.2.3 L’aquilone e l’idealizzazione dell’infanzia


La lirica emblematica per l’effige del fanciullo eterno, e quella fra le
più amate dallo stesso poeta, è L’aquilone. Un affetto particolare lega
Pascoli a questa poesia, perché lo riporta al momento della morte di un
compagno di collegio per il quale scrisse uno dei suoi primi componi-
menti, Il pianto dei compagni, poi incluso nell’opuscolo stampato dai
padri scolopi per l’occasione.86 Il fanciullo protagonista del poemetto è
Pirro Viviani, la cui conoscenza risale appunto ai tempi in cui il poeta
studiava a Urbino:

Tu eri bianco, io mi rammento,


solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.

Oh! te felice che chiudesti gli occhi


persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!

Oh! Dolcemente, so ben io, si muore


la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi pètali un fiore

ancora in boccia! O morto giovinetto,


anch’io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto...

Faeti, Il puer e il fanciullo, p. 66.


85

Solenni esequie di Pirro Viviani nel giorno XXX della sua morte, XVII dicembre 1869.
86

154
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

Meglio venirci ansante, roseo, molle


di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gare per salire un colle!

Meglio venir con la testa bionda,


che poi che fredda giacque sul ganciale,
ti pettinò co’ bei capelli a onda

tua madre... adagio, per non farti male.87

Il ricordo nostalgico dell’età infantile al tempo del collegio si attua me-


diante l’immagine dell’aquilone lanciato in aria, oggetto che rappresen-
ta per metonimia la felicità infantile attraverso i gridi dei bambini che
giocano e vengono risuscitati dalla memoria dell’autore. Già William
Wordsworth aveva, nel primo libro del Prelude, associato il meccanismo
del ricordo infantile al movimento impetuoso dell’aquilone.88 Il punto di
vista dell’io lirico in Pascoli si focalizza poi, nella seconda metà del po-
emetto, sulla singola immagine di un fanciullo che presenta l’aspetto di
un essere più fragile degli altri, forse malato, perché si insiste sul pallore
del suo viso in contrasto con il rosso delle ginocchia, segno delle ore pas-
sate a pregare. Si capisce immediatamente che il pallore del viso del fan-
ciullo annuncia la sua precoce scomparsa,89 sicché Pirro Viviani incar-
na, simbolicamente, l’effige del fanciullo eterno, quello che non cresce
mai perché rimane piccolo, non toccato dalle delusioni dell’età adulta
né dalle pene future. Pirro diventa figura lirica del puer aeternus mitico,
perché non viene visto come un essere sociale, in condizioni particolari
che potessero determinare la miseria o la precarietà. Nel poemetto il
bambino è fuori dal tempo cronologico, isolato per sempre nella memoria

87
Giovanni Pascoli, L’aquilone, in Id., Tutte le poesie, pp. 133-134, vv. 46-64. Si noti la presenza
dell’identica immagine del bambino ansante e felice di correre nella parte finale del poemet-
to La morte del Papa, XIV, vv. 7-13, con la madre che asciuga la sua fronte dopo la corsa.
88
William Wordsworth, The Prelude, Book first, London, Moxon, 1851, p. 19, vv. 491-495.
89
Cesare Garboli stima che, per Pascoli, la figura decadente archetipale del bimbo
morto, pallido e fragile come un fiore morente, sia da ricercare prevalentemente nella
lettura di Walter Pater (Esmerald Uthwart, 1892), oltre al modello dannunziano, in
Giovanni Pascoli, Poesie e prose scelte, vol. II, p. 62.

155
Terzo capitolo

dell’io che perfino invidia la sua condizione di sempiterna e non disillusa


fanciullezza: «felice te che al vento / non vedesti cader che gli aquiloni!»
(vv. 44-45). Si nota che, se nel poemetto nessuna indicazione permette di
valutare l’età della morte del fanciullo, in realtà Pirro Viviani morì ado-
lescente a diciassette anni, il che contrasta con l’idea esposta nella liri-
ca, ossia l’interruzione della vita in età infantile, prima di conoscere le
pene della vita; il poeta ha operato un’idealizzazione del personaggio che
invidia. Il motivo dell’oggetto-giocattolo assume una valenza nella rifles-
sione sull’infanzia eterna perché Pascoli aveva avuto modo di leggere,
negli studi di Sully, alcune pagine dedicate appunto al piacere provato
dal bambino quando gioca con l’aquilone che si libra e gli suggerisce
una forma di libertà.90 Grazie al motivo della spensieratezza del gioco
simbolico, non si conosce mai veramente la coscienza della morte. Pirro
agisce come un rivelatore della regressione pascoliana verso un’infanzia
eternamente felice e preservata, che può solo esistere nell’aldilà «sotto
le zolle» (v. 56), dove rinasce la mente bambina capace di meravigliarsi
perché è ancora primitiva, autentica. Il fanciullo Pirro diventa oggetto di
culto da parte dell’io che aspira alla regressione: culto per un bambino
divino (trasformato in angelo dopo la morte) che si trasforma in un nuovo
salvatore, simile a quello misterioso annunciato nella Quarta Egloga di
Virgilio.91 L’immortalità del fanciullo che non invecchia è un motivo già
presente nell’immagine del fanciullo divino romantico, come nella fa-
mosa ode sull’immortalità di Wordsworth,92 ma nel poemetto pascoliano
l’immortalità è garantita dalla morte precoce, in condizione d’ignoranza
e di spensieratezza. Già, nello Zibaldone, Leopardi aveva trattato della
felicità particolare di cui gode il fanciullo, ignaro come le bestie, come
Pirro che vede cadere solo gli aquiloni.93

90
Cfr. Perugi, James Sully e la formazione dell’estetica pascoliana, p. 246.
91
Gilbert Bosetti osserva che alla fine dell’Ottocento e nel Novecento si passa dal culto di
Dio fanciullo (Gesù) al culto del fanciullo divenuto un nuovo Dio, un salvatore, in Le mythe
de l’enfance dans le roman italien contemporain, Grenoble, Ellug, 1987, pp. 41-45.
92
Cfr. Boas, Le culte de l’enfance, p. 140.
93
Cfr. Giacomo Leopardi, Zibaldone, a cura di Rolando Damiani, Milano, Mondadori,
1997, vol. I, p. 1045, [1465]. Cfr. anche ivi, p. 90, [56], sulla felicità naturale dei
bambini e delle bestie, con un riferimento a Rousseau.

156
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

Il bambino dell’Aquilone, il greco Hyllo e l’italoamericana Molly costituisco-


no tre esempi di fanciulli mediatori tra la vita e la morte, l’infanzia e la vec-
chiaia, la filosofia e la poesia; sono tre interpreti poetici sensibili delle ansie
pascoliane, ma anche esempi di fanciulli non ancora conformati a modelli
e norme che li condizionano: sono ancora figure dell’infanzia “in-sé”, pura-
mente lirica, ossia raffigurazioni della specificità della fanciullezza rispetto
al mondo adulto, perché non ancora immerse nelle norme sociali.94

3.3 Due motivi nell’evocazione del fanciullo pascoliano

3.3.1 Famiglia e ornitologia


La realtà animale, anzi ornitologica per essere precisi, viene inserita
nella poesia di Pascoli come materia simbolica finalizzata all’evocazione
del motivo della separazione. Si è già visto, per esempio, come nella
lirica myricea I due cugini i personaggi infantili del piccolo e della bam-
bina sono paragonati a due uccelli (prima che venga usata in seguito la
metafora botanica): «Si amavano i bimbi cugini. / Pareva? Un incontro
di loro, / l’incontro di due lucherini: / volavano.» (vv. 1-4). La critica
ha studiato approfonditamente i molteplici portati simbolici di questa
specifica famiglia di animali nella poesia di Pascoli. Una significativa e
suggestiva metaforizzazione della propria condizione di fanciullo orfa-
no interviene nella lirica pascoliana mediante la descrizione della vita
degli uccelli, e segnatamente attraverso l’evocazione della dimensione
domestica e familiare di questa vita. Il motivo ornitologico prevale su
altre realtà animali della natura, ma Pascoli non fa che riprendere una
tematica già presente nella poesia romantica, adattandola alla propria
operazione lirica di metaforizzazione della storia personale, e puntando
specialmente sulla figura dei piccoli.
In Romagna si trova il mondo degli uccelli al servizio del ricordo della
separazione che ha travolto l’infanzia del bambino Giovanni, costretto a

L’espressione «infanzia in-sé», come stato pre-sociale, è definita in Cambi - Ulivieri,


94

Storia dell’infanzia nell’età liberale, p. 245, in opposizione con l’infanzia sociale già
conformata dalle norme.

157
Terzo capitolo

lasciare San Mauro: «Ma da quel nido, rondini tardive, / tutti tutti mi-
grammo un giorno nero; / io, la mia patria or è dove si vive» (vv. 45-47),
e si legge più avanti nel testo l’immagine, ormai remota e irraggiungibi-
le, se non con la memoria, dei «piccolini» nel nido del cuculo (v. 52).
Gli uccelli servono quindi all’evocazione lirica della propria condizione
di piccolo orfano staccato troppo presto dal focolare e angariato dalle
difficoltà della vita, simboleggiate nella seguente poesia dal compito di
latino da terminare:

È ben altro. Alle prese col destino


veglia un ragazzo che con gesti rari
fila un suo lungo penso di latino.

[...]
Povero bimbo! di tra i libri via
appare il bruno capo tuo, scompare;
come d’un rondinotto, quando spia
se torna la mamma e porta le zanzare.95

Essendo la lirica del novembre 1895, ovvero quasi un mese dopo il ma-
trimonio e la partenza di Ida, lo scolaro chino sul difficile compito di la-
tino potrebbe leggersi come un’immagine del poeta, insegnante di latino
e greco in Toscana, abbandonato dalla cara sorella che fungeva da madre
e gli portava il cibo, proprio come fa l’uccello. Nell’isotopia pascoliana
fra ornitologia e infanzia, il volatile sta in parallelo con l’umano perché
tutti e due condividono un uguale destino, tramite varie corrispondenze
poetiche.96 I procedimenti di analogia tra il mondo degli uccelli e il de-
stino del piccolo orfano diventano quindi essenziali per delineare meglio
i connotati lirici del fanciullo. Si noti tuttavia che il motivo del piccolo

95
Giovanni Pascoli, Un rondinotto, in Id., Tutte le poesie, p. 42. Il “bimbo” sarebbe Pla-
cido David, che visse a casa dei Pascoli tra il ’90 e il ’93, secondo l’ipotesi avanzata
da Odoardo Becherini in Un’ipotesi sull’unità narrativa di “Finestra illuminata”, in
“Rivista Pascoliana”, n. 12 (2000), pp. 25-35.
96
Cfr. Edoardo Sanguineti, La tragedia familiare nella poesia di Giovanni Pascoli, in
Giovanni Pascoli: poesia e poetica, pp. 471-489, 480.

158
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

abbandonato nel nido non s’impone subito, ma si crea progressivamen-


te nell’immaginario poetico pascoliano, perché la coscienza del proprio
destino, a partire dall’analisi a posteriori dell’infanzia, improvvisamente
interrotta, si rivela soprattutto alla luce della realtà presente, vale a dire
dei problemi che incontra il poeta nella vita adulta, con le responsabilità
che deve assumere e le ansie legate all’impressione di un trapasso fra
due mondi, due società, quella eterna della campagna e quella emergen-
te della realtà urbana industriale.97 In effetti, l’infanzia diventa un luogo
privilegiato dell’immaginario pascoliano, e quindi il fanciullo una figura
emblematica, da quando l’adulto prova il disagio del tempo nel quale è
costretto a vivere, come sarà il caso, molto più crudo e disincantato però,
per i poeti crepuscolari. In questa progressiva coscienza della possibi-
lità di trovare nella figura infantile e nel ricordo d’infanzia un illusorio
rifugio (il nido) e nel contempo una materia lirica adatta alla creazione
di un personalissimo simbolismo (la rondine e i suoi piccoli), la metafora
ornitologica assume un ruolo primario. In un’interdipendenza tra la scel-
ta dei simboli e l’autobiografia poetica, la tragedia personale di Pascoli
viene liricizzata dalla metafora ornitologica, segnatamente con il ricorso
all’immagine del piccolo che aspetta il cibo che gli è necessario. X ago-
sto illustra tale rapporto fra l’assassinio del padre e la vita degli uccelli,
grazie a un parallelismo fondato sulla similitudine sintattica delle azio-
ni, rinforzata anche dall’abbondanza dei segni d’interpunzione con una
funzione di logica consequenziale ineluttabile: «Ritornava una rondine
al tetto: / l’uccisero: cadde tra spini: / ella aveva nel becco un insetto:
/ la cena de’ suoi rondinini».98 La simbologia ornitologica applicata al
ricordo della tragedia paterna viene ripresa in modo similare nell’incipit
di Un ricordo: «Andavano e tornavano le rondini, / intorno alle grondaie
della Torre, / ai rondinotti nuovi [...]» (vv.1-3), in cui i piccoli assumono
una valenza di testimoni del destino tragico. L’immagine del piccolo in
attesa del cibo si ritrova ancora ne La mia sera, dove la quarta strofa
lo presenta abbandonato alla propria sorte (mediante la metonimia dei

97
Cfr. Carlo Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano, Milano, Feltrinelli,
1960, pp. 172-173.
98
Giovanni Pascoli, X Agosto, in Id., Tutte le poesie, p. 47, vv. 5-8.

159
Terzo capitolo

nidi), impotente e innocente, presentato come la vittima di un funesto


destino. Un breve emistichio iniziale («Né io...», v. 31) suggerisce un
comune destino fra i piccoli rimasti nel nido abbandonato e il fanciullo
Giovanni, privato anche lui dell’affetto paterno e materno. Il fanciullo
in prima persona trova qui una breve ma significativa espressione. In
ambedue le liriche appena citate – nonché nella myricea Un rondinot-
to, o nel canto di Castelvecchio Un ricordo – l’uccello scelto dal poeta
per stabilire l’analogia è precisamente la rondine, che costruisce il nido
sotto la grondaia, che vive insieme agli uomini, quasi nel loro mondo
domestico.99
La metafora ornitologica in Pascoli non si limita all’evocazione della sto-
ria personale e al motivo del piccolo rimasto solo e abbandonato, ma
trova una valenza simbolica estremamente forte nel nesso nido-infanzia.
Il nido è luogo dell’infanzia, culla protettrice contro il presente incerto,
luogo di consolazione. Basta citare Il nido di “farlotti”, in cui la tonalità
patetica della vicenda personale viene smorzata dall’immagine simboli-
ca del nido abbandonato, rifugio da proteggere dal funesto «sparviero»,
predatore. Nella seguente citazione, la parola nido si trova in posizione
iniziale dopo due punti, per evidenziare il peso che dovrà fronteggiare
il piccolo orfano, ossia i «duri triboli», in senso metaforico – ovvero le
difficoltà economiche –, e letterale – cioè i rovi che circondano il piccolo
ricovero (esattamente come i triboli evocati nella lirica La piccozza):

che assomigliava la famigliuola


tutta nuda a quella d’un uccelletto?

O madre! O madre! Non era vero?


non eran ali dunque le tue?
non anche prese te lo sparviero
lasciando il nido senza voi due?

prima con otto bocche, poi sette,


sei, cinque... aperte sempre al tuo volo,

99
Cfr. la prefazione a Primi Poemetti, ivi, p. 100.

160
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

aperte invano... sì, di velette:


nido fra i duri triboli solo.100

Per capire il significato personale del nido, si prenda in esame anche il


quarto testo del Diario autunnale con la solita immagine del bambino dal-
le ali rotte perché caduto dal nido, una metafora per descrivere la teoria
di piccoli letti bianchi dove dormono fanciulli ricoverati in un istituto (qui
si tratta di un Istituto ortopedico) e lontani dalla loro casa, come se fos-
sero orfani: «No: non ci sono frati, ma bambini... / fuori dal nido. [...]»
(vv. 3-4). Interessante a questo punto ricordare l’interpretazione dell’idea
di protezione formulata da Bàrberi Squarotti che vede nel nido, proprio
nella letteratura fra i due secoli, una «soluzione esistenziale»101 destina-
ta a rispondere in modo soggettivo alla somma di dubbi portati dal ridi-
mensionamento delle certezze proposte dalla filosofia positivista. Sin dal
periodo lucano il poeta sognava di ricostituire un focolare con le due so-
relle, progetto che prenderà una nuova connotazione dopo la partenza di
Ida. In effetti, in questa dimensione, l’adulto aspira a ritrovare il fanciullo
come figura ideale ed eterna, come se rifacesse a ritroso il percorso che
porta dall’età puerile a quella matura. Il nido rappresenta quindi il luogo
simbolico del puer al quale aspira l’adulto seguendo una forza che attira
verso il passato. Gli uccelli – e prevalentemente le rondini – diventano
figure analogiche convocate per la valenza biografica del nido, anche in
prima persona, come dimostra Addio! dove l’io evoca senza ambiguità il
rimpianto di non aver potuto fondare una famiglia e quindi la nostalgia di
un nido di piccoli mai esistito. L’uccello-bambino assume in questo caso
il tono del rammarico da parte del padre che avrebbe voluto badare ai figli
fino alla loro autonomia, definita come serena, appunto per evitare loro di
conoscere quello che egli stesso conobbe da piccolo:

Oh! Se rondini rondini, anch’io...


io li avessi quattro rondinotti
dentro questo nido mio di sassi!

Giovanni Pascoli, Il nido di “farlotti”, ivi, p. 357, vv. 69-80.


100

Giorgio Bàrberi Squarotti, Poesia e ideologia borghese, Napoli, Liguori, 1976, p. 27.
101

161
Terzo capitolo

ch’io vegliassi nelle dolci notti,


che in un mesto giorno abbandonassi
alla libera serenità!102

Infine, il nido assume un’altra funzione che potremmo chiamare ideo-


logica. Visto che, nella prefazione ai Poemetti, l’autore immagina che il
modello della casa sia stato insegnato agli uomini dalle rondini a par-
tire dal loro «nidietto», il nido pascoliano diventa il rifugio dei piccoli
protetti e nutriti dai genitori. Ora se si traspone questa similitudine
in ambito più ampio, collegandola con le idee politiche dell’autore, si
giunge al concetto di nido-patria, nel quale gli uccelli sono gli emigrati
e il nido l’Italia. Il mito del nostos verso la terra natale costituisce,
come si è visto, una chiave interpretativa per capire la fine di Italy. Se
il tema del ritorno alla terra natale, inteso come operazione di mitizza-
zione del mondo rurale legato all’infanzia – rispetto allo spazio urbano
legato alla vita adulta –, fu già presente nella letteratura romantica,103
in Pascoli si tratta di conferire alla propria esperienza di aspirazione
al ritorno una dimensione più ideologica, nel contesto degli interventi
pubblici sulla sorte degli emigrati. Molly, rinata, è destinata a raggiun-
gere prima o poi il suo nido, la casa della famiglia, e il poeta chiama,
proprio negli ultimi versi del testo, gli italiani emigrati a tornare in
patria, cioè alla «mensa» dove li aspetta la madre, già evocata me-
taforicamente come il sweet nido (VII, vv. 3 e 10). La fanciulla Mol-
ly diventa, grazie alla risposta positiva che ella dà alla richiesta dei
compagni di gioco, al momento di salutarli, l’emblema di un gruppo
sociale: «Chiedevano i bimbi con vocìo di festa: / “Tornerai, Molly?”
Rispondeva: – Sì! –».104

102
Giovanni Pascoli, Addio!, in Id., Tutte le poesie, p. 365, vv. 37-42. Si noti che i quattro
figli anelati dal poeta fanno eco con i «quattro figli» orfani «nella via sola», evocati
alla fine della poesia Il ritratto, ivi, p. 369, v. 104, ossia i figli di Ruggero e Caterina.
103
Cfr. Bosetti, Il divino fanciullo e il poeta, p. 38.
104
Pascoli, Italy, in Id., Tutte le poesie, XX, vv. 31-32.

162
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

3.3.2 Incompiutezza e botanica


L’analogia tra il fanciullo e l’elemento botanico floreale in Pascoli trova
forse una delle sue più belle e immediate rappresentazioni nella fanta-
sticheria di un anziano assonnato, nella filastrocca myricea Al fuoco. A
partire dalla rima che accomuna sin dalle prime strofi i «bimbi» con i
«corimbi» (vv. 2 e 6), si stabilisce, tramite l’operazione onirica del vec-
chio davanti al fuoco del camino, una corrispondenza tra il gruppo dei
fanciulli fantasticati e le fragili infiorescenze bianche di un albero, pron-
te ad essere portate via da un vento leggero: «Ogni bimbo al suo fiore
alza / la mano e... scivola e va».105
Anche quando volle ricordare un episodio centrale della sua infanzia,
Pascoli scelse l’analogia con la botanica al momento di raffigurare i fan-
ciulli (egli stesso e i fratelli Giacomo e Luigi) educati al collegio di Ur-
bino, e pronti per trascorrere le ferie estive in famiglia. Il ritratto narra
l’attesa dei tre fratelli che aspettano alla finestra l’arrivo del padre venu-
to a cercarli. Nella quarta quartina della prima sezione si legge:

Più grande all’improvviso ogni fanciullo


si ritrova dopo tante acquate;
il boccio apriva i petali in un frullo
meravigliando che già fosse estate106

Il processo dell’educazione dei bambini al collegio è simile a quello del-


la natura che fa crescere i fiori, e il fanciullo-fiore nella stagione estiva
gode di una sensazione di felicità-compiutezza. La prefazione inedita
alla terza edizione di Myricae, che insiste su tale felicità legata alle
aspettative dei fanciulli,107 ci permette di capire quello che successe in-
vece quello stesso pomeriggio: i fanciulli aspettarono invano il padre che
fu assassinato nella sua carrozza. Si intravede allora un altro significato
dell’analogia tra il fanciullo e il fiore, quello della labilità, dell’effimero,

105
Giovanni Pascoli, Al fuoco, ivi, pp. 66-67, vv. 9-18.
106
Giovanni Pascoli, Il ritratto, ivi, p. 367, vv. 13-16.
107
Cfr. Giovanni Pascoli, [Narrazione fosca] 1892, in Id., Poesie e prose scelte, vol. I, p.
878-879.

163
Terzo capitolo

perché da quel giorno i tre fratelli diventeranno orfani e Giovanni, il


poeta, proverà un senso d’incompiutezza per tutta la sua esistenza, un
senso raffigurato simbolicamente dal quadro rimasto incompiuto dipinto
dal fratello maggiore, un ritratto del padre. Giacomo è paragonato per
l’appunto al «fiore che già dava il frutto» (v. 62), perché è il più grande
dei tre fratelli, condannato purtroppo a una morte precoce, nove anni più
tardi, nel 1876, in parallelo con il fiore e il frutto destinati rispettivamen-
te ad appassire e ad essere colto in breve tempo. La quinta quartina del
testo annunciava il fatto che l’albero avesse già perduto i suoi frutti, «e
che fosse già colto, anzi, il ciliegio» (v. 17), in opposizione con un altro
che li stava maturando: «ma che di rosa si tingesse il melo» (v. 18). La
metafora botanica sarà spesso associata, come si vedrà, alla fine precoce
di un bambino, essere incompiuto, come il ritratto di Giacomo.
A livello generale, nella poesia, il fiore e l’universo floreale sembrano
tradizionalmente connessi all’evocazione della dolcezza dell’infanzia,
dell’universo infantile fatto di sogni, come in un giardino straordinario.
Nella lirica di Victor Hugo Petit Paul, tradotta da Pascoli, il poeta scrive:
«L’enfant voisine avec les fleurs, c’est de son âge» (v. 67). Nella lette-
ratura ottocentesca lo spazio paradisiaco dell’eden infantile è un vero e
proprio topos perché appunto lo stato fanciullesco diventa sempre più
sinonimo di paradiso perduto.108 Effettivamente, in Pascoli la simbologia
floreale è molto ricca ed è importante soffermarsi sul rapporto che si
stabilisce tra il fanciullo e l’incompiutezza che prefigura la scomparsa.
Si ricordino per cominciare alcune liriche d’occasione, scritte negli anni
1905-1906. Questi testi offrono tipiche immagini floreali legate alla pue-
rizia, sono tre brevi poesie dedicate alla celebrazione della comunione di
fanciulle (A Emmina Corcos; Per Ines C. e Nell’albo d’una fanciulla),109
e presentano la solita analogia con la giovane sposa, vestita di bianco e
simile a un fiore, il viso color di rosa. Ma la più interessante delle tre
liriche è la terza, soprattutto per la metafora applicata alla bambina co-
municanda, fiore simbolo dell’eterna fanciullezza preservata dal tempo.

108
Cfr. Donatella Mazza, I virgulti dell’Eden. L’immagine del bambino nella letteratura
tedesca del romanticismo, Firenze, La Nuova Italia, 1995, p. 15.
109
Cfr. Pascoli, Tutte le poesie, p. 850.

164
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

Tuttavia, una delle liriche più emblematiche per studiare il fanciullo-fio-


re è Giovannino. La poesia descrive un fiore quasi morto, per lo meno
sfiorito («il fior caduto», v. 3), che in realtà è l’immagine dell’adulto («lo
stelo») mentre si riconosce nel fanciullo. Poesia crepuscolare di delusio-
ne, Giovannino presenta, secondo l’interpretazione di Garboli, «la storia
di un bozzacchione, di un ectoplasma, un io adulto che non è stato ca-
pace di crescere, e si riconosce, non avendo mai affrontato la vita, nella
larva del proprio io bambino».110 Ecco la prima sestina:

In una breccia, allo smorir del cielo,


vidi un fanciullo pallido e dimesso.
Il fior caduto ravvisò lo stelo;
io nel fanciullo ravvisai me stesso.
Ci rivedemmo all’ultimo riflesso;
e sì: l’uno dell’altro ebbe pietà.

La creatura fantasmata dall’io adulto porta i capelli biondi dell’infan-


zia (v. 13) e rimarrà eternamente fanciullo, benché incompiuto come il
piccolo Pirro Viviani, anche lui biondo, «soletto» e paragonato al fra-
gile fiore ancora giovane (L’aquilone, v. 54). Il fanciullo di Giovannino
vive idealmente nel mondo dell’infanzia preservata, non in un verde
paradiso fiorito bensì presso (e non dentro, è importante precisarlo) la
tomba dei cari defunti, alle porte, solo alle porte, del camposanto dove
giacciono i genitori. La differenza fondamentale tra Pirro e Giovannino
sta invero nella morte effettivamente avvenuta, il che garantisce l’in-
gresso nell’eterna fanciullezza: il primo dei due bambini morì in piena
giovinezza e felicità, mentre il secondo non è morto, appunto perché è
la mente dell’adulto sempre vivo a suscitarlo, ed egli riconosce nell’ulti-
ma sestina che, non essendo morto fanciullo, non assomiglia ai «gracili

Pascoli, Poesie e prose scelte, vol. I, p. 34-35. Garboli ricorda un verso autografo [LIII
110

15, f. 23], non conservato nella versione definitiva (1903) della poesia: «Noi eravamo
due larve», ivi, vol. II, p. 894. La lettura che fa Garboli del testo è strettamente legata,
secondo lui, ai lavori pascoliani su Dante, sicché il fanciullo-fiore sarebbe «la storia
di una larva, di un’ombra nel vestibolo, un ignavo senza nome e senza volto che vuole
e non può morire», ivi, vol. II, p. 909.

165
Terzo capitolo

fanciulli» (v. 31) ammessi nel regno dell’immortalità. Donde l’insod-


disfazione del fanciullo fantasma incapace di morire, e quindi rimasto
nella condizione di «soletto» (v. 7), alla soglia del camposanto, perché
non ammesso nell’aldilà («e tu vorresti entrare», v. 10), nonché l’insod-
disfazione dell’adulto incapace di morire per ritrovare i cari. La doppia
infelicità espressa nel testo definitivo finisce per trasformarsi, in modo
molto più esplicito, in reciproca pietà, come attesta un quaderno auto-
grafo: «Egli levò la faccia sparuta, egli era un fanciullo malato, Io ebbi
pietà di lui, ed egli ebbe pietà di me [...] Oh! Io non entrerò più in questo
luogo, né tu ci entrerai. Rimarrai sempre qui nella via».111 La figura del
fanciullo suscitata dalla metafora botanica si è trasformata in fantasma
dell’impossibile regressione dell’adulto verso un tempo che non esiste,
quello di una «condizione limbica».112 L’adulto imperfetto non può che
dialogare con la larva del suo essere infantile per affermare con fredda
certezza: «Io persi quello che non più si trova» (v. 21), prima di dare un
triste bilancio esistenziale: «e vano è stato il lungo mio cammino» (v.
22). In fin dei conti ambedue i protagonisti – l’adulto conscio della pro-
pria tristezza, come il fanciullo allo stato di fiore caduto – sono infelici
a causa di un’incompiutezza esistenziale. Il fiore ha rappresentato, nel
caso di Giovannino, un elemento destinato ad avviare la ricapitolazione
disillusa di un triste destino; la metafora botanica indica insieme una
condizione infantile e adulta. Come si legge nel dattiloscritto di una
lezione dell’anno accademico 1908-1909 sulla Pentecoste di Manzoni,
il poeta dichiara: «Nella nostra letteratura, da Omero in poi, il giovane
o il fanciullo che muore è paragonato al fiore [...] si trova in tutti i poeti;
ma in nessuno c’è questa osservazione piccola, ma così grande, del boc-
ciòlo accanto al fiore: come il bocciòlo, il bambino non ha avuto il tempo
di aprirsi, quando è stato colto».113 Se la frase serve a sottolineare la
qualità descrittiva di Manzoni poeta, potrebbe anche riferirsi ad alcune

111
Pascoli, Poesie e prose scelte, vol. II, p. 894-895. Il quaderno è quello chiamato LXXII 5.
112
Vito M. Bonito, Pascoli, Napoli, Liguori, 2007, p. 47.
113
Archiv. Cart. 9, b. 2, f. 387, citato in Giorgio Marcon, Didattica pascoliana nelle
lezioni bolognesi per la scuola pedagogica: primi sondaggi, in “Rivista Pascoliana”, n.
24-25 (2012-2013), pp. 249-264, 253.

166
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

metafore botaniche usate dallo stesso Pascoli. Vale la pena tornare sul
commento pascoliano di Manzoni per capire come il poeta romagnolo
abbia potuto creare il proprio repertorio simbolico fondato sul fiore ca-
duto simile al fanciullo. A proposito dell’episodio della morte di Cecilia
nei Promessi sposi, Pascoli cita un passo e poi commenta (dopo aver
ricordato l’origine virgiliana del passo):

“Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in
boccia al passar della falce che pareggia tutte le erbe del prato”. [...]
A ogni modo, egli [Manzoni] ha creato, e precisamente dove non si può nega-
re che abbia imitato: nel paragone del fiore, così comune nella poesia antica
e moderna. Ha creato per quel particolare nuovo del bocciuolo che cade col
fiore sbocciato: il bambino del fiore! Piccola cosa? Queste piccole cose sono
la poesia, solo queste: le grandi sono sovente vampate di retorica, che è una
bella, bellissima arte, ma non è la poesia.114

Se il commento della Pentecoste data dell’anno 1908-1909, quello sul


capitolo XXXIV del romanzo di Manzoni fu pubblicato molto più presto,
nel 1896, su “La Vita italiana”. Vi è presente innanzitutto l’interesse
pascoliano per il particolare floreale, legato alla rappresentazione della
morte infantile, nonché una vera dichiarazione di poetica propria sul
valore del particolare; in questo caso il particolare viene inteso come
unica fonte di poesia autentica. Pascoli trasse dall’esempio manzonia-
no molte immagini di fanciulli-fiori, come nel già citato Aquilone dove,
tra la diciottesima e la diciannovesima terzina del poemetto, un enjam-
bement sottolinea la fragile condizione infantile confrontata alla morte:
«come i candidi suoi pètali un fiore // ancora in boccia! O morto giovinet-
to [...]».115 Nel poema conviviale I gemelli, l’incipit presenta l’analogia
lessicale fra il sentimento della fanciulla, già debole perché malata, e la
natura del fiore incompiuto:

Che sente il fiore cui la molle forza


di vita svolge i petali del boccio?

Giovanni Pascoli, Eco d’una notte mitica, in Id., Tutte le opere. Prose, vol. I, p. 130.
114

Giovanni Pascoli, L’aquilone, in Id., Tutte le poesie, p. 134, vv. 54-55.


115

167
Terzo capitolo

Quel che sentiva allora la fanciulla


che si svolgea dal calice più bianca
e più sottile, il collo così lasso
[...].116

Nella myricea I due cugini la metafora botanica viene usata con una
doppia valenza: in un primo tempo riprende la fin troppo classica simi-
litudine con la rosa appassita («l’uno appassì, come rosa / che in boccio
appassisce nell’orto», vv. 7-8), poi, in un secondo tempo, serve invece
a liricizzare la condizione della piccola sposa fanciulla che cresce sola,
rispetto al cugino incompiuto sul cui corpo seppellito fioriscono le mar-
gherite (v. 19).117 La fanciulla è una sposa sola vista come il fiore che si
trasforma in frutto, morendo: «Crescevi sott’occhi che negano / ancora;
ed i petali snelli / cadevano: il fiore già lega» (vv. 14-16).
Nel canto di Castelvecchio Il sogno della vergine, il bambino, immagina-
to dalla ragazza che sogna la condizione materna, viene raffigurato come
una entità botanica incompiuta: «O figlio d’un intimo riso / dell’anima!
o fiore non nato / da seme, e sbocciato improvviso! // Tu fiore non retto
da stelo [...]».118 In questa lirica l’iterazione della negazione funge da
preterizione, rinforzata dalla serie di tre vocativi in cui si finisce per far
prevalere l’immagine puramente poetica del «fiore» sbocciato su quella
del «figlio» assente perché non nato. L’incompiutezza diventa inesisten-
za, addirittura «luce non nata» (v. 40), pure trasformata in materia po-
etica perché corrisponde all’immaginazione della ragazza. La metafora
del fiore ha permesso la formulazione della mancata maternità, mentre
l’analogia con gli uccelli veniva adoperata dal poeta per liricizzare la
propria incompiutezza di uomo adulto al quale è mancata una famiglia
con figli, nella lirica Addio!. Si trovano ancora le figure di larve negli
aborti che l’etèra Myrrhine ricorda con amarezza, nel poema conviviale
L’etèra. Prima con il paragone naturalistico ma macabro con la vita fetale

116
Giovanni Pascoli, I gemelli, ivi, p. 594, vv. 1-5.
117
Il particolare metaforico delle margherite che fioriscono sul cuore si ritroverà anni
dopo nella lirica d’occasione Per Ines C., ivi, p. 850.
118
Giovanni Pascoli, Il sogno della vergine, ivi, p. 359, vv. 33-39.

168
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

dentro l’uovo («pulcini / gementi nella cavità dell’uovo», vv. 127-128),


poi con le limbiche ombre sospese tra la vita e il nulla («ombre ancor più
dell’ombra esili, i figli / suoi, che non volle», vv. 139-141) che portano
fiori di cicuta (simbolo di morte) e spighe di segale cornuta (legate al
parto), infine il particolare fisico di «infanti / lattei, rugosi» (vv. 146-
147). Queste sono figure di fanciulli da non mettere sullo stesso piano
dei boccioli incompiuti o dei piccoli morti, perché sono suscitati dalla
coscienza colpevole dell’etèra, e la loro descrizione è tutta condizionata
dal punto di vista della madre presa dal rimorso.
Si veda ora un altro esempio emblematico del bocciolo pascoliano che va
interpretato in rapporto diretto con immagini dell’infanzia incompiuta,
Valentino. Sin dalla prima strofa si capisce che il fanciullo possiede la
fragilità del fiore appena sbocciato, mediante la similitudine fra l’abito
nuovo e la primaverile fioritura delle «brocche dei biancospini». La na-
tura incompiuta del bambino viene dall’assenza di scarpe nuove per ac-
compagnare l’abito, dovuta al fatto che la madre non è abbastanza ricca
per comprargliene. Il piccolo appare quindi come un essere bocciolo, ma
la sua condizione di salute fragile, prima evocata con il ricorso all’imma-
gine floreale, viene accentuata con maggiore realismo nella quinta quar-
tina, dove lo si definisce più crudamente come un «magro contadinello».
Si ricordi che Pascoli si è ispirato a una persona realmente esistita, il
figlio di un mezzadro al quale era affidato il podere di Castelvecchio,
Valente Arrighi, che emigrerà negli Stati Uniti nel 1905. Questo fatto
potrebbe spiegare una connotazione compassionevole da parte del poeta
quando usa l’espressione «magro contadinello», visto che poteva osser-
vare quotidianamente la vita dei bambini in Garfagnana. Improvvisa-
mente, dal crudo realismo sulla debolezza fisica, dalla botanica iniziale
si passa all’ornitologia: il piccolo non somiglia più al bocciolo ma a un
uccello: «ma nudi i piedi, come un uccello: // come l’uccello venuto dal
mare, / che tra il ciliegio salta» (vv. 20-22). L’incompiutezza nell’abbi-
gliamento del bambino, ribadita con il particolare dei piedi nudi, annun-
cia simbolicamente quella fisica ed esistenziale, la prefigurazione della
sua morte precoce, come quella degli effimeri virgulti di biancospini de-
stinati ad appassire. Il particolare fisico dei piedi, come se mancasse lo
stelo completo perché il fiore potesse svolgersi, era già presente in altri

169
Terzo capitolo

due testi anteriori. Il primo è il myriceo Il morticino, focalizzato sulle pri-


me scarpe che il bimbo non porterà mai per fare i primi passi («le scarpe
d’avvìo? // Sei morto: non vedi, / mio piccolo cieco», vv. 12-14); le scarpe
confezionate dalla mamma sono donate alla creatura morta per portarle
in cielo. Il secondo testo è una poesia minore di Pascoli, in cui si tratta
della morte di una bambina che poi si rivolge alla madre, dal sepolcro. In
questo caso però il particolare assume l’aspetto crudamente funebre del
corpo che si disfa sotto l’azione della decomposizione naturale:

E i piedi, ancor essi...


io non ce li ho più.
I vermi, sapessi,
che sono quaggiù!119

Creature dimidiate ed eternamente incompiute, prima dell’adolescenza,


questi bambini-fiori mostrano come il simbolo del bocciolo abbia cam-
biato valenza dal romanticismo al decadentismo: da elemento del po-
tenziale infantile destinato a crescere (in una visione del fanciullo come
creatura che diventerà adulta, compiendosi),120 si passa con Pascoli al
bocciolo come segno della fragilità, dell’effimero e quindi della gracilità
dell’essere destinato non a crescere ma a morire, cioè non destinato a
vivere pienamente l’età adulta. La metafora botanica usata per evocare
i fanciulli si rivela, nella maggior parte degli esempi, un segno di pre-
figurazione della scomparsa nello stato d’incompiutezza fisica o morale.
Il motivo dell’aborto, proposto da Govoni nella silloge Gli aborti (1907),
potrebbe rappresentare una continuazione insieme parodica e simbolica
di uno stato d’incapacità delle figure pascoliane. Si prenda l’esempio dei
«rachitici bambini / che piangono sui lor trastulli infranti» (nella poesia
Alla musa, vv. 83-84), da interpretare come una versione crepuscolare
di Valentino; un’immagine che Govoni d’altronde ripete più volte quasi
identica nella stessa raccolta. Le varie immagini pascoliane di esseri

Giovanni Pascoli, Mamma e bimba, ivi, p. 836, vv. 13-16.


119

Donatella Mazza analizza il fanciullo “bocciolo” all’età romantica come «pura poten-
120

zialità e, quindi, divino», nella tradizione dell’annunciato puer divinus virgiliano, in I


virgulti dell’Eden, p. 41.

170
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

incompiuti (boccioli, larve, aborti, figli non nati, ecc.) potrebbero essere,
secondo Andrea Zanzotto, immagini dell’io incompiuto, perché bloccato
nella religione della famiglia e dei cari defunti e quindi incapace di
assumere una vita adulta “normale”. Zanzotto sostiene che Pascoli è:
«[...] imbrogliato nel labirinto dei suoi complessi, bloccato dalla censura
contro l’eros alle soglie dell’adolescenza in un clima di incesto, bianco.
[...] Egli mette la forza di un adulto a servizio della crisalide infantile
favolosamente cresciuta nelle sue proporzioni senza svilupparsi».121 Il
motivo dell’incompiutezza legato al fanciullo raggiunge un livello inti-
mo nel vocativo ipnotico «...Zvanî...», isolato tra due serie di puntini di
sospensione, come un soffio nato dal silenzio, ne La voce. Il nome fami-
liare romagnolo che la madre dava al poeta quando era fanciullo, torna
dall’oltretomba e diventa una doppia immagine simbolica dell’infanzia
incompiuta di Giovanni. Da una parte si fa verbalizzazione fantasticata
del nome affettivo pronunciato dalla madre morta, come un ritornello,
dall’altra, diventa l’immagine fonica dello svanire nel silenzio. Il nome
dell’io bambino è una parola tronca che viene dal regno delle ombre, un
soffio ossitono incompiuto sospeso nella sintassi dei versi, in chiusura
delle quartine, una trascrizione sonora dell’incompiutezza esistenziale.
Un ultimo accenno merita il caso di Rachele e Maria, del poemetto Di-
gitale purpurea, e la possibilità o meno di legare anche queste due figure
femminili al fiore della morte e al suo simbolismo. Il problema sta nella
determinazione dell’età delle due ragazze che ricordano con nostalgia gli
anni infantili. Fausto Curi le chiama pure «fanciulle»,122 perché sem-
bra riferirsi soprattutto all’età che esse avevano al momento della sco-
perta del fiore proibito, mentre Rachele e Maria, al momento del loro
colloquio, sono coetanee di Viola o Rosa, le due figlie della famiglia del
“capoccio” nei Poemetti, per l’appunto chiamate «ragazze» dallo stesso
Curi.123 Il v. 10 della prima parte di Digitale purpurea indica che le due
protagoniste stanno ricordando l’epoca in cui vivevano al convento, cioè

121
Andrea Zanzotto, Infanzie, poesie, scuoletta (appunti), in “Strumenti critici”, n. 20
(feb. 1973), pp. 52-77, p. 61.
122
Curi, Pascoli e l’inconscio, p. 71.
123
Ivi, p. 76.

171
Terzo capitolo

«quei piccoli anni così dolci al cuore...». Rachele e Maria rappresenta-


no, rispettivamente, la scoperta dei sensi nella fanciullezza e l’innocenza
della verginità. Non si tratta quindi della rappresentazione del mondo
dell’infanzia, ma di quello del ricordo dell’infanzia appena terminata,
nel tempo dell’adolescenza e dei suoi misteri, dei turbamenti di cui la di-
gitale purpurea diventa emblema, insieme attraente e ripulsivo. Rachele
ha ceduto al dolce appello del fiore e forse è stata questa curiosità (che si
potrebbe perfino definire come «sessuale»124), a farla uscire dall’infanzia
e conoscere un altro mondo, dal quale sembra lontana Maria, rimasta
invece nella purezza ideale e illusoria della fanciullezza, come lo stesso
Pascoli:

Maria and Rachele, like Viola and Rosa [...], like Maria and Ida, the two
sisters in Pascoli’s real life, cannot ever meet. The innocence and purity of
childhood be but a memory deep in the soul of one who chooses to grow up.
[...] Pascoli himself, we know, does not make such a choice.125

3.4 Il messaggio del poeta educatore

3.4.1 I fanciulli e la dimensione etica


L’esperienza della vita infantile fornisce al poeta ed educatore Pascoli un
esempio emblematico per attuare l’ideale di fratellanza e di solidarietà
attribuendo a due fanciulli protagonisti di liriche una valenza universale
e indirizzando un messaggio agli uomini: si tratta dei due primi poemetti
intitolati I due fanciulli e I due orfani. Per situare questi testi nel con-
testo della dimensione etica del fanciullo, vanno osservati gli elementi
del paratesto in apertura dei Nuovi Poemetti. Nella dedica che l’autore
indirizza all’inizio della silloge del 1909, egli si rivolge innanzitutto agli

124
Ivi, p. 60. Curi parla della curiosità sessuale di Viola durante la notte di nozze della
sorella (nel poemetto Il Chiù), che potrebbe essere paragonata a quella, più simbo-
lica, di Rachele quando cede al fascino della digitale purpurea. Curi ovviamente si
riferisce alle contemporanee ricerche di Freud sulla sessualità infantile (i Tre saggi
sulla teoria sessuale, del 1905).
125
La Valva, The Eternal Child. The Poetry and Poetics of Giovanni Pascoli, p. 207.

172
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

alunni che ha conosciuto durante la sua carriera d’insegnante e di do-


cente. Questa dedica assume un doppio significato perché non è solo
l’omaggio dell’educatore che ricorda con affetto gli anni trascorsi nell’in-
segnamento del latino, del greco, della grammatica e della letteratura,
ma anche l’affermazione esplicita secondo cui i poemetti che il lettore
sta per leggere sono destinati ad essere capiti dai giovani e a dare loro
una lezione estetica e morale. Segue nella stessa silloge una breve prefa-
zione datata 24 giugno 1909, nella quale il poeta prosegue il suo omaggio
agli stessi scolari cominciando con la definizione di una specie di patto
implicito fra l’autore e il lettore, tramite una forma della captatio bene-
volentiae che punta sull’affinità tra il poeta pedagogo e il suo pubblico
ideale di giovani lettori ai quali rivolge i suoi versi. L’ultima frase della
prefazione conferma lo stretto collegamento stabilito fra l’attività poetica
e la missione educativa:

A voi che mi conoscete. A voi, ai quali non avrò sempre mostrato molto
ingegno e assai dottrina, ma animo onesto uguale sincero sì, sempre. A voi,
ai quali non credo aver dato mai esempi di presunzione e di ambizione, di
malevolenza e di maldicenza. A voi, infine, ai quali io devo molto più che
non diedi. [...]
Così io sono lieto d’aver unito alla divina poesia l’esercizio umano che più
con la poesia si accorda: la scuola.126

Qualche anno prima, nel 1906, per la prima edizione della raccolta Odi e
Inni, Pascoli aveva scelto di dedicare i testi «Alla giovine Italia», e nella
prefazione che segue egli cominciava dichiarando: «Per voi io canto, o
giovinetti e fanciulle: solo per voi». E proseguiva, più avanti: «A voi, sì:
a voi, giovinetti e fanciulle, a voi, che, di qualunque età siate, o serbate o
ricuperate la santa giovinezza, la cara libertà dell’anima!».127
I due fanciulli e I due orfani possono essere letti come due apologhi di
cui sono protagonisti due figure infantili, calate in scene della vita quoti-
diana, e prendono finalmente un significato più astratto, una valenza uni-

Pascoli, Tutte le poesie, p. 189.


126

Pascoli, ivi, p. 402.


127

173
Terzo capitolo

versale. Questa valenza morale proposta dal fanciullo si riscontrava già


in un breve madrigale myriceo, presumibile preparazione, per lo meno
tematica, dei due futuri poemetti (questi sono rispettivamente del 1897 e
del 1900, mentre il madrigale fu incluso nella terza edizione di Myricae,
nel 1894). Per quanto concerne il madrigale I due bimbi, si tratta di una
rapida scena di rivalità innocente che prepara quindi il futuro racconto
più denso del poemetto. Vi sono evocati due piccoli non identificati che
stanno facendo una gara in un ambiente naturale, e questo madrigale fa
parte del gruppo di testi della sezione L’ultima passeggiata, con quadri
di scene rurali semplici:

I due bimbi si rizzano: uno, a stento,


indolenzito; grave l’altro: il primo
alza il corbello con un gesto lento;

e in quel dell’altro fa cader, bel bello,


il suo tesoro d’accattato fino:
e quello va più carico e più snello.

Il vinto siede, prova un’altra volta


coi noccioli, li sperpera, li aduna,
e dice: (forse al grande olmo che ascolta?):
E poi si dica che non ha fortuna!128

Se non si tratta veramente di un apologo che comporta una lezione morale,


si trova il confronto fra due ragazzini i cui gesti fungono da parole, mentre
l’albero fa da testimone muto della scena di gioco, come se potesse perce-
pire la voce del fanciullo, quello che sa la lingua primitiva della natura.
I due fanciulli possiede invece le caratteristiche dell’apologo, con una
storia semplice che diventa, nel corso delle tre sezioni che la compon-
gono, emblematica di una condizione morale valida per l’umanità, così
come viene delineata dal poeta. Il testo è diviso in tre parti nelle quali la
violenza tra le due figure di bambini si fa progressivamente più acuta. Si

Giovanni Pascoli, I due bimbi, ivi, p. 32.


128

174
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

tratta questa volta di una vera e propria rissa tra due piccoli fratelli; essa,
nella prima sezione, viene descritta con termini metaforici che accomu-
nano i maschietti addirittura a due bestie: le mani sono «gli artigli» e i
piccoli diventano «i leoncelli» (vv. 9 e 15), mentre in una versione auto-
grafa del testo si accentuava maggiormente il contrasto fra le due bestie
feroci e i tipici capelli biondi della figura infantile, scomparsi nelle ver-
sione definitiva.129 L’atmosfera creata, tra andamento narrativo e favola,
è quella di un crepuscolo durante il quale due fratelli giocano, sempre
sotto lo sguardo testimone dell’albero, pure come nel madrigale myriceo
(«con stupor de’ tigli», al v. 5). Sembra perfino che i protagonisti del
poemetto siano i due fanciulli felici e allegri del giardiniere già evocati
nella poesia myricea Nel parco («ruzzano i monelli / del giardiniere»).130
Il gioco – raro esempio di raffigurazione della violenza infantile nella
lirica pascoliana – si trasforma improvvisamente in brutale lite, come se
i due bambini fossero diventati animali feroci, finché la «madre pia» (v.
14) non decide di mandarli a dormire accusandoli di cattiveria, perché
hanno provato nel loro cuore il sentimento di «un’acre bramosia di san-
gue» (v. 10). Se questa prima sezione del poemetto si concentra sull’azio-
ne che determina la cattiveria finale, la seconda sezione anzi trasforma
l’aggressività iniziale e la paura dell’ira materna in paura delle ombre
del buio. Ora i due fanciulli puniti, insieme nello stesso letto, di notte,
stanno dimenticando la loro precedente rivalità per stringersi uno contro
l’altro di fronte all’uguale terrore notturno. Un caso analogo di riconci-
liazione fra due bambini si potrà riscontrare nella storia emblematica di
due fanciulli mascherati, nella lirica L’eterna politica del crepuscolare
Tito Marrone, una poesia di pochi anni successiva ai testi di Pascoli.131

129
Pascoli, Poesie e prose scelte, vol. I, p. 1393.
130
Giovanni Pascoli, Nel parco, in Id., Tutte le poesie, p. 80, vv. 11-12. Si noti il vocabolo
connotato “monelli”, che contrasta con tanti “fanciulli”, “bambini”, “bimbi” della
lirica pascoliana. Tuttavia si incontra “monello” all’inizio del secondo capitolo del
Fanciullino, per parlare del fanciullo che conduce par mano il vecchio poeta omerico
(Fanciullino, p. 27): in ambedue i casi il vocabolo “monello” si riferisce all’idea di
allegria, di gioco, di rumore felice, poiché nel Fanciullino si usa l’epiteto “garrulo”.
131
Cfr. Tito Marrone, L’eterna politica, in Id., Antologia poetica, a cura di Donatella
Breschi, Napoli, Guida, 1974, p. 67. Marrone tuttavia introduce in questo piccolo
apologo infantile sulla riconciliazione una tonalità parodica del tutto estranea al po-

175
Terzo capitolo

La necessaria amicizia come unica soluzione per superare l’offesa viene


presentata, in Marrone, dall’abbraccio finale dei due piccoli (un maschio
e una femmina). Tornando a I due fanciulli, dalla favola iniziale si è
passati a una scena di fantastico mistero provocato dalle sagome e dalle
ombre suscitate dal buio:

Via via fece più grosse onde e più rare


il lor singhiozzo, per non so che nero
che nel silenzio si sentìa passare.

L’uno si volse, e l’altro ancor, leggero:


nel buio udì l’un cuore, non lontano
il calpestìo dell’altro passeggero.

Dopo breve ora, tacita, pian piano,


venne la madre, ed esplorò col lume
velato un poco dalla rosea mano.

Guardò sospesa; e buoni oltre il costume


dormir li vide, l’uno all’altro stretto
con le sue bianche aluccie senza piume;

e rincalzò, con un sorriso, il letto.132

Si ritrova qui la metafora ornitologica con il particolare delle «aluccie»


incompiute perché prive di piume, una metafora già usata dal poeta,
come si è visto, per i bambini dalle ali rotte coricati nel nido del letto,
all’istituto, nella quarta lirica del Diario autunnale. Nel poemetto, i leon-
celli della prima sezione sono ormai «buoni oltre il costume», conformi
all’immagine che i genitori vogliono avere dei propri figli. La terza e
ultima sezione cambia la tonalità e si esce dalla vicenda domestica per
entrare nel discorso generale, ovvero la morale che il poeta intende trar-

emetto pascoliano, segnatamente grazie al ricorso alla maschera, che aveva fornito
l’oggetto della lite. Per Marrone il fanciullo non è più precursore ideale ma maschera
emblematica.
132
Giovanni Pascoli, I due fanciulli, in Id., Tutte le poesie, p. 150-151, II, vv. 4-16.

176
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

re dall’episodio infantile. I due fanciulli addormentati permettono di ele-


vare l’immagine tenera della fratellanza in famiglia verso una fratellanza
universale, per gli uomini – grandi o piccoli – destinatari dell’apologo.
A questo punto conviene ricordare che Pascoli ebbe, da docente e da
aspirante vate, l’ambizione di portare un ideale di natura umanitarista,
che Mario Pazzaglia ha addirittura chiamato un pascolismo populista,133
inteso come la forma che prende, maturando, l’iniziale socialismo filan-
tropico del giovane poeta. Ma nei Poemetti l’appello alla pace e alla soli-
darietà di fronte al destino – di leopardiana memoria, nella Ginestra – è
stato reso poeticamente possibile tramite due anime semplici e innocen-
ti che simboleggiano la persistenza dell’essere interiore naturalmente
buono negli uomini, unica salvezza di fronte all’incomprensibile mistero
della morte. Gli uomini sono simili a bambini che temono le ombre del
buio e gli ultimi versi del poemetto stabiliscono un parallelismo con la
fine della seconda sezione, perché l’immagine della madre con la lampa-
da viene allegorizzata con quella della presenza inquietante della Morte
durante il sonno.134
Mediatore poetico e nel contempo destinatario di una forma di umane-
simo di fratellanza e concordia, il fanciullo etico si ritrova nel poemetto
che fa da pendant a I due fanciulli, I due orfani, simmetricamente collo-
cato alla fine di una sezione della versione definitiva dei Primi Poemetti,
nel 1904. Questa volta non si tratta di un racconto ma di un dialogo tra i
due fratelli rimasti orfani dopo la morte della madre. Senza indicazione
sull’età dei fratelli, ma grazie alla posizione speculare del poemetto ri-
spetto a I due fanciulli, è possibile identificare i protagonisti come i fan-
ciulli che si erano riconciliati dopo la rissa. Sarebbero cresciuti insieme,
dopo la morte della madre, e si ritrovano di notte nella stessa camera da
letto, con la voglia di confidarsi l’un l’altro. Sempre ambientata nel buio,
la scena insiste sul senso di solitudine rinforzata dalla paura, mentre i
due ragazzi si ricordano delle notti precedenti, non più posseduti dal

Cfr. Mario Pazzaglia, Pascoli, Roma, Salerno, 2002, p. 12.


133

Cfr. Pascoli, I due fanciulli, in Id., Tutte le poesie, p. 151, III, vv. 1-16. Per il motivo
134

della madre con la fioca lampada: cfr. Valentina Russi, Il fanciullo perduto: le decli-
nazioni del lutto nella poesia pascoliana, Perugia, Guerra, 2007, p. 114.

177
Terzo capitolo

terrore della notte e delle sue ombre misteriose, ma in preda a un timore


più esistenziale motivato dall’ansia notturna del buio. Interessante è la
comune paura del buio quale viene descritta in ambedue i poemetti. In
effetti, nei due testi i fratelli temono sia il silenzio misterioso della notte
che le ombre nere che lo popolano; le ombre sono perfino antropomor-
fizzate ne I due fanciulli, tramite «il dito» (II, v. 3) che fa pensare a una
ghost story, mentre nel secondo poemetto le ombre fremono di strani
rumori. Il tema della paura del buio, provata naturalmente da un fanciul-
lo nel letto, era d’altronde stato studiato da James Sully in un capitolo
di Études sur l’enfance intitolato giustamente «La peur de l’obscurité».
Anche prescindendo dalla lettura di Sully, nel terzo capitolo del Fan-
ciullino si può leggere:

Egli [il fanciullino] è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio
vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricor-
dando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi,
alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli
è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi
e alla nostra ragione.135

Il buio, come viene definito nella poetica e come viene illustrato nei
poemetti, costituisce un motivo di spavento, certo, ma anche e soprat-
tutto un motore per l’immaginazione infantile. Con una tonalità assai
diversa, ma con la stessa idea dell’ansia infantile, Marino Moretti raffi-
gurerà, mediante un uomo nero, lo spleen insito nel cuore umano, ossia
una condizione psicologica. Nella lirica L’uomo nero egli parte in effetti
dalle paure irrazionali dei bambini che fantasticano sulle storie degli
adulti,136 per giungere all’angoscia vera e propria dell’adulto nel quale
rimane sempre la paura del misterioso uomo nero dell’infanzia, evocato
qui come allegoria del «Dolore» e del «Pensiero». In Pascoli l’ansia in-
fantile dei due fratelli nel buio provoca immagini paurose che finiscono
per destare, quando essi sono più grandi, una patetica inquietudine di

Pascoli, Il fanciullino, III, p. 31.


135

Cfr. Marino Moretti, L’uomo nero, in Id., Poesie scritte col lapis, p. 107, vv. 1-4.
136

178
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

fronte alla propria condizione esistenziale di orfani. L’angoscia dei fan-


ciulli abbandonati alla propria sorte sembra corrispondere a quella che
prova il poeta adulto da quando è stato separato dai genitori. Di conse-
guenza, l’apologo ne I due orfani sta nella necessaria concordia tra i due
fratelli, come unica consolazione possibile di fronte alle ansie, al fine di
essere «buoni», ossia simili all’immagine che la madre aveva di loro nel
testo precedente, quando li osservava dormire uno accanto all’altro. Il
dialogo nella camera da letto, ritmato dalle interrogazioni sul significato
dei misteriosi rumori notturni, trova quiete nell’invito a restare uniti:

“Suonano a morto? suonano a martello?”


“Forse...” “Ho paura...” “Anch’io”. “Credo che tuoni:
come faremo?” “Non lo so, fratello:

stammi vicino: stiamo in pace: buoni”.137

La componente autobiografica si intravede nella seconda sezione del po-


emetto, in cui uno dei due fratelli ricorda che la luce portava conforto
perché suggeriva la presenza della madre, mentre ora la condizione di
orfani rende i fratelli più vulnerabili e disarmati. L’immagine materna,
comune ai due poemetti, era d’altronde già stata usata da Pascoli nella
prosa La ginestra, in un capitolo sul rapporto fra tenebra e luce: «Egli è
adunque al buio, il povero bambino, ma pensa: “Di là c’è mamma che ha
il lume acceso o lo accenderà a una mia chiamata”».138 Il buio notturno
è l’immagine simbolica del destino e delle sue incertezze: «“Or nulla
ci conforta, / e siamo soli nella notte oscura”» (I due orfani, II, vv. 5-6).
È il fanciullo a mostrare la via morale al poeta e al lettore, come era il
fanciullo a guidare il vecchio per le strade del villaggio (ne La squilletta
di Caprona), o la parvola a guidare Rossini (nel poema italico). Forma
concreta e insieme allegorica dell’anima umana, il fanciullo – tramite
l’influenza dei lavori che Pascoli effettuò su Dante e sul significato della

Giovanni Pascoli, I due orfani, in Id., Tutte le poesie, p. 164, I, vv. 10-13.
137

Giovanni Pascoli, La ginestra, in Id., Prose, vol. I, pp. 99-100. La madre è in realtà la
138

matrigna leopardiana.

179
Terzo capitolo

«selva oscura» – costituisce un elemento primario nella comprensione


della condizione umana quale il poeta la tratteggia nei suoi versi. Nel
poemetto Il ciocco si trova per esempio l’esclamazione: «Anima nostra!
fanciulletto mesto! / nostro buono malato fanciulletto, / che non t’ad-
dormi, s’altri non è desto!»,139 in cui la malattia rappresenta, secondo
il commento di Garboli, «lo stato esistenziale dell’uomo su questa ter-
ra».140 La lezione morale del poemetto I due fanciulli, fondata sulla vi-
cenda di due piccoli emblematici di una condizione umana, sarà per
l’appunto antologizzata dallo stesso Pascoli per Fior da fiore, destinato
agli scolari del ginnasio inferiore. Il fanciullo, in questo caso, si rivela
essere una figura concreta che funge da personaggio la cui storia servirà
di base per l’apologo, e anche figura reale, sociale, contemporanea, del
piccolo lettore da educare: Pascoli non concepisce la sua creazione lirica
senza la missione pedagogica che si è fissato, strettamente connessa al
suo ideale di concordia. Invece, nella poesia crepuscolare troveremo un
altro fanciullo all’origine di un apologo. Si tratta della poesia Parabola di
Gozzano, dove un bambino astratto serve a dimostrare una leopardiana
lezione esistenziale sull’illusione e il dispiacere legato alla scoperta di
essa. Gozzano descrive un bambino che mangia una mela (Il bambino e
la mela era il primo titolo) e man mano si accorge che mordendola non
è riuscito ad apprezzare il suo gusto perché era troppo avido, donde la
lezione della parabola infantile, a destinazione degli adulti: «“Non sentii
quasi il gusto e giungo al torso!” / Pensa il bambino... Le pupille intente
/ ogni piacere tolsero alla bocca».141 Ma la parabola gozzaniana, lungi dal
buonismo pascoliano, comporta una riflessione fredda e distaccata senza
vera descrizione dei sentimenti infantili, perché la figura del bambino è
solo strumentale per la dimostrazione.
Attraverso la valenza etica della puerizia nei due poemetti presi in esa-
me, il fanciullo pascoliano corrisponde alla formulazione di un modello,
giacché egli rivela un mondo ideale, al quale aspira il poeta. I fanciulli
lirici emblematici di una riflessione più generale sulla condizione uma-

139
Giovanni Pascoli, Il ciocco, II, in Id., Tutte le poesie, p. 752, vv. 164-166.
140
Ivi, p. 761.
141
Gozzano, Parabola, in Id., Tutte le poesie, p. 109, vv. 12-14.

180
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

na portano all’uomo adulto una lezione di tipo etico, le loro azioni e le


loro parole lasciano intravedere una verità. Analizzando le caratteristi-
che e le implicazioni letterarie dell’autenticità presupposta della figura
infantile, intesa come guida per l’adulto, perché più vera, Marie-José
Chombart de Lauwe fa notare molto giustamente che: «L’enfant n’est pas
seulement sage en tant que source première, mais aussi parce qu’il est
encore porteur des vérités du monde mystérieux dont il vient [...]. L’en-
fant est peut-être considéré comme un remède pour l’adulte qui, avec
son aide, retrouve le meilleur de lui-même».142
Il fanciullo possiede quindi la facoltà di fungere da modello di virtù
per l’adulto, grazie al fatto che la sua natura è originariamente buona,
secondo il tipo del bambino primitivo creato alla fine del Settecento e
destinato ad avere una lunga fortuna nel fanciullo-angelo, virgulto del
paradiso ed essere primordiale che non conosce il senso di colpa né
il peccato.143 Nella lirica l’eden fanciullesco viene contrapposto all’età
adulta, ovvero l’ideale alla realtà degli uomini, come indicato dal poeta
Hartley Coleridge: «Oh what a wilderness were this sad world / If man
were always man, and never child».144 In effetti, il poeta inglese fa notare
che la vita dell’uomo adulto sarebbe insopportabile (quindi selvaggia)
se l’uomo non avesse sempre dentro di sé un fanciullo rimasto allo stato
ideale.
Il caso di Pascoli tuttavia merita un’altra analisi, perché non si tratta
solo di conservare l’essere primordiale dentro di sé, il puer aeternus, ma
di immedesimarsi con il fanciullo ideale, rifiutando parzialmente l’età
adulta. In una lirica delle Poesie varie, datata del 1908,145 Pascoli de-
scrive una fanciulla mentre sta giocando con un’altalena. Come ne I due
fanciulli, la verità suggerita dal comportamento naturale della fanciulla
serve a trasmettere una tonalità d’ordine morale, una pessimistica op-
posizione fra il movimento ascendente della piccola felice in volo e la

142
Chombart de Lauwe, Un monde autre: l’enfance, pp. 52 e 233.
143
Cfr. Bosetti, Il divino fanciullo e il poeta, p. 60.
144
Hartley Coleridge, Childhood, vv. 1-2, in 101 Poems about Childhood, edited by
Michael Donaghy, London, Faber and Faber, 2007, p. 64.
145
Cfr. Giovanni Pascoli, Alla bambina Elisa Rossi, in Id., Tutte le poesie, p. 851.

181
Terzo capitolo

parabola costituita dal corso della vita umana, prima ascendente e poi
votata alle profondità. Il personaggio infantile, prima considerato come
occasione per un piccolo quadro lirico («T’ho veduta al dóndolo, Elisa,
/ andare, andare su, di volo», vv. 1-2), si carica di una dimensione etica
perché diventa emblema di una condizione esistenziale. La triste sor-
te riservata agli uomini, come viene suggerita in questa poesia, sembra
solo poter essere dimenticata, o meglio rimossa, dall’idealizzazione lirica
dell’età infantile. In Pascoli tale idealizzazione corrisponde, come hanno
mostrato tanti critici, alla ricerca ossessiva dell’infanzia interrotta e del
nido ritrovato, sicché l’uomo adulto rifiutando di assumere la propria
condizione si blocca in un tempo sospeso tra l’infanzia ideale e la lucida
rassegnazione, diventa un “fanciullo poeta” alle soglie della virilità,146 e
non un “poeta fanciullo” ben adulto, che conosce fin troppo la propria
natura da parodiarla, come nella generazione dei crepuscolari. Difatti, la
più famosa rimessa in questione novecentesca della figura del fanciullo
di matrice pascoliana è quella proposta da Saba, nelle sue Scorciatoie.
Egli riconosce la coesistenza fra uomo e fanciullo, riuniti idealmente
nella persona del poeta, ma insiste sul fatto che: «se l’uomo prende trop-
po sul bambino [...], il poeta (in quanto poeta) ci lascia freddi. Se quasi
solo il bambino esiste, se sul suo stelo si è formato appena un embrione
d’uomo, abbiamo il “poeta puer” (Pascoli); ne proviamo insoddisfazione
e un po’ di vergogna».147 E Corazzini, in una recensione, riconosceva
che: «se il poeta è fanciullo, non sempre è poeta».148 Zanzotto ha definito
questo aspetto della personalità di Pascoli con un’interessante, benché
spietata, espressione: il «bambino-monstre»:

Quel vero bambino-monstre che è Pascoli [...] imbrigliato nel labirinto dei
suoi complessi, bloccato dalla censura contro l’eros alle soglie dell’adole-

146
Cfr. Siro A. Chimenz, Giovanni Pascoli e il “fanciullino”, p. 265.
147
Umberto Saba, Scorciatoia 14, in Id., Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, con un
saggio introduttivo di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori, 2001, p. 14. Il vocabolo
«vergogna» riferito a Pascoli viene ribadito in Id., Storia e cronistoria del Canzoniere,
ivi, p. 142.
148
Corazzini recensiva Lumi d’argento di Umberto Bottone, su “Sancio Pancia”, l’11
marzo 1906.

182
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

scenza in un clima di incesto bianco. [...] Egli mette la forza di un adulto a


servizio della crisalide infantile favolosamente cresciuta nelle sue propor-
zioni senza svilupparsi.149

L’interruzione biografica dell’infanzia ha quindi determinato un lungo


processo di idealizzazione della fanciullezza allo stato di maturazione
incompiuta. Zanzotto prende la metafora della crisalide, e nella lirica
di Pascoli sono presenti simili immagini, per esprimere l’incompiutez-
za, si pensi al bocciolo o alla larva (I gemelli, I due cugini, L’aquilone,
Valentino, Giovannino, ecc.). L’osservazione di Zanzotto punta sullo sfor-
zo del poeta per raffigurare significative figure di fanciulli e su quello
del pedagogo per insegnare agli studenti, mentre egli stesso è rimasto
incompiuto. Non s’intende commentare l’aspetto psico-sessuale dell’in-
compiutezza dell’uomo Pascoli, che Zanzotto nomina addirittura «l’ince-
sto bianco»,150 riferendosi alla volontà di rimanere con le sorelle, e poi
solo con Maria, come una coniuge, perché bisognerebbe effettuare un
fin troppo delicato lavoro psicocritico, mentre è opportuno rimanere nel
campo della poesia e della sua interpretazione. Nelle Poesie famigliari
per esempio, un testo come Il pellegrino151 è assai chiaro per capire l’os-
sessivo bisogno di restare con le sorelle, come bloccati in infanzia. Scrit-
to nel 1882, a Sogliano, mentre il giovane insegnante appena laureato
stava per essere mandato a Matera, il testo insiste sulla vittimizzazione
dell’io costretto a viaggiare per vivere, ma consolato da due angeli con
cui vorrebbe condividere l’esistenza. L’idealizzazione della fanciullezza
e l’impossibilità di assumere lo statuto d’adulto potrebbero trovare una
trascrizione lirica nella confusione volontaria che il poeta fa tra il padre,
il figlio e il fratello, in un testo d’occasione particolarmente significativo
perché fondato su un ricordo personale:

149
Zanzotto, Infanzie, poesie, scuoletta (appunti), p. 61.
150
Usando un’altra formula Carmine Di Lieto parla di «chiusura affettivo-sentimentale»,
a proposito della castità del poeta, in relazione con una «paura dell’estraneo»: Il ro-
manzo familiare del Pascoli (delitto, “passione” e delirio), Napoli, Guida, 2008, p. 15.
151
Cfr. Giovanni Pascoli, Il pellegrino, in Id., Tutte le poesie, pp. 816-817.

183
Terzo capitolo

Non sono io forse il piccolo Giovanni


che sua mamma accompagna alla stazione?
Essa gli ha messo in ordine i suoi panni,
i suoi colletti. Le camicie buone.

Esso va solo; solo va lontano


per aiutare la sua dolce madre,
vedova: ei deve a lei dare una mano
per gli altri; agli altri deve far da padre.152

La scena si svolge nell’agosto del 1892, ovvero al momento del viaggio


dell’autore a Siena per un incarico in rapporto con l’insegnamento. Il
fanciullo nel primo verso rimanda sia all’immagine nostalgica di se stes-
so che a quella fantasmata nella lirica Giovannino, posteriore di quasi
un decennio. In un primo tempo, tendendo conto del rapporto di logica
consequenziale tra il titolo della lirica (A Maria che l’accompagnò alla
stazione), la data in calce e i primi due versi, il piccolo Giovanni rap-
presenta il poeta che paragona la sorella Maria alla madre, e confonde
il figlio con il fratello. Da questa confusione quasi naturale tra fratello
e figlio153 si passa a un altro livello, più complesso, con lo scambio tra
fratello-figlio-padre. Il fratello insegnando può mantenere la sorella, e
quindi assume lo statuto di capofamiglia nel nido di Massa, e poi a Li-
vorno dal 1887. L’immagine iniziale del fanciullo che parte in viaggio si
confonde con la responsabilità dell’adulto che bada alla sorella orfana e
nubile. Rimanere come un fanciullo, pur essendo un fratello maggiore
e quasi un padre, è questo il paradosso di Pascoli che parte in treno per
Siena, diviso fra l’impulso regressivo e l’obbligo familiare.
La generazione dei simbolisti europei ha reagito con strumenti estetici di
fronte alle consequenze della civiltà industriale e al prorompente potere
della tecnologia, e lo strumento di Pascoli è coniato dal piccolo essere

Giovanni Pascoli, A Maria che l’accompagnò alla stazione, ivi, p. 829, vv. 1-8.
152

Nella nota al testo Pascoli precisa effettivamente: «Devo avvertire che non si trattava
153

della madre, ma della sorella che in quel momento e in quell’atteggiamento gli ricor-
dava la madre? Sì che gli pareva di essere un buon figliuolo che andasse lontano per
aiutarla col suo lavoro?», ivi, p. 865.

184
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

interiore alla base della sua poetica.154 La famosa poesia Nebbia è em-
blematica di tale regressione verso lo spazio limitato del nido, verso uno
stato di rifiuto della lontananza – cioè conoscere tutte le avventure della
vita adulta –, e infine verso la regressione ultima, quella dove l’adulto
raggiunge il fanciullo eterno, come espresso ne La mia sera: «Mi sembra-
no canti di culla, / che fanno ch’io torni com’era... / sentivo mia madre...
poi nulla...».155 Nel contesto di un’epoca di trasformazioni radicali, il
significato della rappresentazione pascoliana della figura ideale del fan-
ciullo prende una connotazione regressiva in quanto essa diviene una ri-
sposta personale ed estetica all’incertezza, nonché, sul piano più intimo,
all’ansia provocata da un profondo senso di ingiustizia dovuta alla sua
particolare biografia. Il fanciullo di Pascoli è inteso in contrapposizione
alla realtà della società moderna, ossia come uno specchio dove ritrovare
se stesso, in modo autentico, fuori dal tempo storico e dalle norme im-
poste dalla società.156 Coincidono il fanciullo metaforico e quello reale,
come sosteneva Siro A. Chimenz: «non c’era per il Pascoli altra infanzia
dello spirito che quella propria della fanciullezza reale [...]».157 Questo
atteggiamento influenzerà certamente l’attività pedagogica dell’autore,
soprattutto a livello dell’elaborazione dei libri per la scuola.

3.4.2 Pascoli e gli alunni-lettori


Tra il 1893 e il 1897 Pascoli fu incaricato più volte dal Ministero del-
la Pubblica Istruzione di partecipare all’elaborazione di manuali per le
scuole e a commissioni per l’insegnamento delle materie classiche. La
lettera in risposta al Ministro Martini (La scuola classica, per difende-
re l’insegnamento del greco), oppure la sezione di testi in prosa Antico
sempre nuovo, testimoniano di questo importante aspetto della attività
pascoliana, attenta all’insegnamento e alla pedagogia della letteratura

154
Cfr. Le osservazioni di Giuseppe Nava in Storia della letteratura italiana, dir. da Enri-
co Malato, Roma, Salerno, 1999, vol. VIII, Tra l’Otto e il Novecento, pp. 635-712.
155
Giovanni Pascoli, La mia sera, in Id., Tutte le poesie, pp. 348-349, vv. 37-39.
156
Cfr. Richter, Il bambino estraneo (la nascita dell’immagine dell’infanzia nel mondo
borghese), p. 263.
157
Chimenz, Giovanni Pascoli e il “fanciullino”, p. 267.

185
Terzo capitolo

classica per il giovane pubblico, sia quello delle scuole medie che quel-
lo delle università. Si veda quindi quale rapporto sia possibile stabilire
tra l’attività scolastica del poeta, segnatamente nell’elaborazione delle
antologie di letteratura, e la rappresentazione del fanciullo che assume
in questo caso la funzione di alunno-lettore.
Lyra romana (1894, poi semplicemente Lyra) è la prima delle antologie
pascoliane, dedicata alla poesia latina lirica. Segue a completarla nel
1897 Epos, dedicata alla poesia epica classica a Roma. La prefazione
a Lyra romana si rivolge ai colleghi insegnanti di greco e latino che
faranno leggere i testi ai «giovinetti» e agli «alunni», mentre l’antologia
di poesia epica si riferisce ai «fanciulli».158 Poi vengono pubblicate le
due antologie di letteratura classica e moderna per i giovani: Sul limitare
(1900-1902) per il ginnasio superiore, e Fior da fiore (1901-1902) per
il ginnasio inferiore. La vocazione di Pascoli per far conoscere la lette-
ratura ai piccoli ed educarli con l’esempio dei testi classici e moderni
ricorda un’altra missione pedagogica – in un contesto assai diverso, ma
con la stessa passione – esercitata qualche anno prima con i quattro libri
dell’Abecedario di Tolstoj, pubblicati a partire dal 1872. In ambedue i
progetti educativi, quello di Tolstoj e quello di Pascoli, la letteratura
destinata ai piccoli considera il fanciullo come un essere primordiale
ideale per l’uomo, e questi deve imparare sin da bambino principi morali
umanisti tramite la conoscenza dei testi letterari.
L’idea di Pascoli era di far leggere ai giovani la materia lirica, epica,
favolosa e romanzesca con lo scopo di educare tramite la conoscenza di
una letteratura selezionata dall’autore, secondo criteri soggettivi orien-
tati da alcuni aspetti della sua poetica del Fanciullino, ovvero la sco-
perta di testi mai letti prima, al fine di destare la meraviglia nei piccoli
interpreti, considerati altrettanti esseri intuenti capaci di percepire la
bellezza immediata dei brani antologizzati, sicché l’autore-educatore fi-
nisce per confondersi con il “fanciullo poeta” Pascoli, come fa notare
Valgimigli: «[l’antologia] è tutta Pascoli dalla prima pagina fino all’ulti-

Per uno studio attento delle antologie pascoliane: Mariella Colin, Pascoli entre
158

“alunni” et “fanciullini”, in “Transalpina”, Carducci et Pascoli: perspectives de re-


cherche, n. 10 (2007), pp. 197-214, 201.

186
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

ma: ogni scrittore vi diventa Pascoli».159 L’operazione di antologizzazione


comporta un’evidente dimensione didattica ma essa si definisce anche
secondo un «itinerario personalissimo»160 dell’autore del Fanciullino,
perché nella Nota per gli alunni (per la seconda edizione di Sul limitare,
nel 1902), si legge, a proposito del piccolo lettore dell’antologia:

È il mio fanciullo ideale; quello che sarà ciò che non potei e che avrei voluto
essere io, quello che farà quello che non feci, che dirà ciò che non dissi.
Egli è, certo, migliore di quello che sono ora. È migliore; ma non importa,
ora, che sia migliore di molto. In qualche cosa può anche essere uguale.161

Il poeta educatore manda un messaggio fondato sull’idea del «ritorno


alla nostra fanciullezza»,162 come annunciato nella prefazione a Fior da
fiore, idea da collegare con il movimento regressivo dell’uomo Pascoli
verso il passato infantile: ritornare all’infanzia della letteratura, quella
primitiva, antica, capace di parlare direttamente ai piccoli, va messo
in parallelo con l’ossessione regressiva nei confronti della fanciullezza
idealizzata dalla memoria, come suggerito in Sul limitare:

Io mi proposi di fare un libro quale in parte ebbi e in parte avrei voluto io da


ragazzo. Tornai col pensiero a quella età così lontana. E agevolmente tornai.
La fanciullezza è lontana; ma c’è, per andarvi, la scorciatoia del rammarico.
L’ieri della vita è più vicino dell’altrieri; ma ha la sola strada maestra: quella
della memoria: strada piena di giravolte, qua e là rotta. Dunque tornai a
quell’età.163

A questo punto sarebbe utile confrontare la metafora della soglia usata


per il titolo generale, e nella Nota per gli alunni di Sul limitare, con l’im-
magine della soglia impossibile da varcare per il fanciullo nella lirica

159
Manara Valgimigli, Poesia e poetica di Giovanni Pascoli, in Id., Uomini e scrittori del
mio tempo, Firenze, Sansoni, 1943, p. 94.
160
Colin, Le antologie scolastiche di letteratura italiana..., p. 206.
161
Giovanni Pascoli, Sul limitare. Prose e poesie scelte per la scuola italiana, Palermo,
Sandron, 1902, p. XIV.
162
Giovanni Pascoli, Fior da fiore, Palermo, Sandron, 1901, p. XI.
163
Pascoli, Sul limitare, p. XIV.

187
Terzo capitolo

Giovannino. Nella Nota si parla di un invito rivolto ai fanciulli alunni per


entrare nel mondo della letteratura e scoprirvi la meraviglia che l’autore
da piccolo aveva provato; nella lirica il fanciullo immaginato dall’io non
riesce ad andare al di là del recinto del camposanto, perché costretto a
rimanere sul limitare: «Felice te che a quello che rimpiango, / così da
presso, al limitar, rimani!» (vv. 25-26), mentre il poeta resta del tutto
escluso, lontano. Il movimento della memoria, «strada maestra» della
regressione, va visto in una duplice prospettiva: un ambìto ritorno verso
l’età delle letture meravigliate, e un’aspirazione a vivere nel fuori tempo
in cui vive Giovannino. La missione pedagogica di Pascoli appare con-
dizionata da questo istinto regressivo: a p. XIV della Nota per gli alunni,
l’autore ricorda se stesso al collegio, mentre leggeva nella camera da
letto, e confonde il fanciullo che era un tempo con quello che ora lo sta
leggendo.
Il mondo classico rappresentato nella letteratura antica, prevalentemen-
te nella poesia epica, viene considerato secondo criteri di valore mo-
rale da interpretare e poi imitare, sicché l’epica antica, nelle antologie
pascoliane corrisponde all’infanzia della letteratura occidentale.164 La
poetica del Fanciullino propone l’immagine mitica del poeta primitivo,
d’ascendenza omerica, naturalmente vicino all’epica perché il linguag-
gio di questo genere antico è simile a quello del fanciullo che il poeta
conserva dentro di sé.165 Omero è ad un tempo la voce dell’origine del-
la letteratura occidentale, e la voce dell’infanzia del mondo, secondo il
poeta pedagogo che crea una versione moderna del “fanciullo poeta”
attraverso il triplice canale espressivo del Fanciullino, delle liriche e
della antologie. A partire dalla filosofia di Vico, dalle idee espresse nello
Zibaldone [1987], e dalla lettura della teoria dell’ontogenesi che segue il
percorso della filogenesi, proposta dall’embriologo darwinista Ernst Ha-
eckel nel 1866, Pascoli ribadisce quindi la corrispondenza fra l’infanzia
dell’umanità e l’infanzia della storia e della letteratura. L’infanzia onto-
genetica dell’individuo ha quindi un rapporto di analogia con l’infanzia
filogenetica del mondo e della civiltà. A livello letterario, l’epica omerica

Cfr. Bani, «Ditemi, o pietre! parlatemi, eccelsi palagi», p. 156.


164

Cfr. Pascoli, Il fanciullino, II, pp. 27-28.


165

188
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

è considerata come l’origine della letteratura, similmente al fanciullo


come origine dell’adulto, quindi la poesia moderna – forma adulta della
poesia omerica – è ricordo di un tempo primitivo rappresentato dalla
fanciullezza. L’epica, genere più vicino all’età fanciulla dell’umanità,
viene paragonata all’età fanciulla dell’individuo. Nella prefazione a Epos
l’autore rammenta d’altronde che «L’epos è la poesia degli anni “miglio-
ri”. E quali questi anni? Gli anni passati e lontani».166 Secondo questa
modalità, che determina il progetto estetico ed educativo, il fanciullo
viene paragonato all’eroe omerico Achille. Il piccolo lettore deve pren-
dere come modello il protagonista dell’Iliade, eroe del dovere e arche-
tipo della rassegnazione davanti alla morte, quindi in perfetta sintonia
con la concezione pascoliana dell’eroismo167 e della psiche infantile:168
«[...] sii Achille, o giovinetto buono, sii Achille, quando si tratta del tuo
dovere!».169
Quale immagine del fanciullo viene delineata nelle prefazioni alle anto-
logie di letteratura elaborate da Pascoli? Per rispondere a questa doman-
da si dovrebbe innanzitutto tener conto delle due significative dediche
a Nuovi Poemetti e Odi e Inni, già citate. Le Myricae dedicate al padre,
i Primi Poemetti dedicati alla sorella Maria e i Canti di Castelvecchio
dedicati alla madre hanno lasciato il posto a un pubblico destinatario
più ampio: la gioventù che deve essere educata tramite la letteratura.
Un aneddoto riportato da Andrea Zanzotto riprende la testimonianza di
Maria Pascoli sull’atteggiamento del fratello nei confronti dei fanciulli
ispiratori e lettori; diceva la sorella che il poeta: «[...] scriveva in latino
sotto l’immagine della Madonna col figlioletto una preghiera in cui in-
vocava dal santo fanciullo la capacità di insegnare, come lui, puri canti
ai bambini: quasi in un oscuro e ardente delirio di “religione dell’infan-

166
Giovanni Pascoli, La poesia epica in Roma, in Id., Prose, p. 767.
167
Ci sia concesso rimandare al nostro lavoro: Yannick Gouchan, Figure dell’eroismo in
Pascoli, in “Rivista Pascoliana”, n. 24/25 (2013), pp. 103-113.
168
Michela Vermicelli parla di un Pascoli «fanciullo-poeta-eroe», in Pascoli e i fanciul-
lini, p. 177.
169
Pascoli, Sul limitare, p. XVIII. Il «carro da guerra» di Achille era già stato evocato
nel Fanciullino (II) per distinguere la materia epica da quella lirica, essendo la prima
più vicina all’ingenuità fanciullesca primitiva.

189
Terzo capitolo

zia-poesia”».170 Senza tener conto dell’attendibilità biografica di questo


aneddoto, è comunque significativo il fatto che si invochi il divino fan-
ciullo per educare i bambini visti come i lettori ideali della poesia. Il
poeta educatore quindi non può separare la figura del fanciullo ispiratore
da quella del fanciullo destinatario, perché non si può separare l’autore
del Fanciullino dal poeta né dal professore.
Rivolgendosi ai «compagni» maestri delle scuole elementari, il poeta
pedagogo (Pascoli era ormai a Bologna) riconosce in una prolusione che
la sua attività di scrittura è condizionata dal fatto che egli sembra scri-
vere per i fanciulli, ritenuti quindi come i lettori ideali della sua lirica,
similmente ai maestri che preparano le lezioni per gli scolari:

[...] come scrittore e poeta io suppongo sempre avanti a me un pubblico di


fanciulli e fanciulle; e questa imaginata corona di uditori innocenti dà a ciò
che dico quella verecondia che non è virtù del mio animo, sì necessità del
mio còmpito, gli dà non so qual persuasiva dolcezza e gli procaccia d’ora
in ora qualche assenso e qualche plauso; i quali non sono ancora riusciti a
farmi insuperbire, perché vengono, appunto, da piccole mani e da esili voci.
Non mi fanno insuperbire, ma mi commuovono, inteneriscono, forzano al
sorriso tra il pianto; perché se i ragazzi non possono dar gloria, dànno però
l’amore; e l’amore, almeno quell’amore, appaga, mentre la gloria asseta.171

Si noti che il vocabolo «pubblico» ha un doppio significato, perché i


piccoli costituiscono il pubblico dei lettori della poesia pascoliana –
una «imaginata corona» –, nonché la gioventù da educare con strumenti
estetici e morali.172 Si è quindi a un terzo livello della figura del fanciullo
in Pascoli, dopo quello dell’essere interiore metaforico portatore di una
teoria estetica (il Fanciullino) e quello protagonista delle liriche (Pepin,

170
Zanzotto, Infanzie, poesie, scuoletta (appunti), p. 59.
171
Giovanni Pascoli, Prose, Milano, Mondadori, 1946, vol. I, p. 513. La prolusione Ai
maestri delle scuole elementari fu in un primo tempo pubblicata a cura di Maria Pa-
scoli nel volume Patria e umanità, Bologna, Zanichelli, 1914.
172
La nozione di pubblico per la letteratura, al di là della sfera dei fanciulli, viene de-
finita – con grande modernità da parte del poeta – nella Nota per gli alunni di Sul
limitare, p. XV: «Insomma se si vuole una letteratura, bisogna farle, prima di tutto, un
pubblico: lo scrittore o gli scrittori verranno».

190
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

Valentino, Molly, Hyllo, Pirro, Giovannino, il fanciullo guida di Nimo, i


due fratelli orfani, ecc.): ora si tratta del fanciullo, con il plurale generico
«scolari... uditori», visto come destinatario della poesia che gli è dedi-
cata. La sezione di Sul limitare dedicata alla materia favolosa (con la
storia di Ulisse), contiene fiabe, novelle e racconti fantastici che mirano
a destare la meraviglia nel fanciullo lettore. L’innocenza e la facoltà di
meravigliarsi nel piccolo lettore ideale garantiscono, secondo il poeta
docente, l’assenza di gloria, perché la presenza implicita del fanciullo
destinatario lo protegge da quella. Tale innocenza è intesa come condi-
zione della vera poesia, secondo la prefazione a Fior da fiore in cui si
stabilisce l’analogia tra i fanciulli e l’allegorica Matelda dantesca, già
usata nel capitolo XIII del Fanciullino: «Voi, Voi, siete vicini a Matelda,
perché siete tuttavia innocenti, ed ella è nel luogo dell’innocenza».173
La facoltà del fanciullo considerato lettore implicito (si usa qui la formula
di Iser,174 in conformità con il riconoscimento, da parte del poeta, di scri-
vere immaginando una «corona di uditori innocenti») è quella di suggerire
idealmente allo scrittore di versi elementi poietici primordiali. Lo confer-
ma d’altronde una sezione particolare dell’antologia Fior da fiore dedicata
per intera all’infanzia (Infanzia è giustamente il titolo), la quale comporta
vari brani tratti dall’opera di un folklorista, Ildefonso Neri, autore della
Vita infantile e puerile lucchese (1898). Nella sua attenta analisi delle an-
tologie pascoliane, Mariella Colin riconosce che il mondo dei fanciulli,
considerato come una fonte di varie sensazioni e al contempo un pubblico
immaginato, fornisce al poeta una materia per la creazione di parole nuove
(in realtà antiche, ma dimenticate dagli uomini). Essa dice in effetti che
«in Fior da fiore sono il dialetto e il mondo rurale toscano ad aprire la porta
segreta del mondo mitopoietico in cui si confondano l’infanzia dell’umani-
tà e l’infanzia degli individui, che in Sul limitare si ricongiungevano nella
sfera dell’epica».175 La poesia pascoliana trova una fonte nella prodigalità
linguistica del fanciullo che la ispira secondo varie modalità, ed essa trova
il suo lettore ideale nello stesso fanciullo che la capisce e la interpreta,

173
Pascoli, Fior da fiore, p. IX.
174
Cfr. Wolfgang Iser, Der implizite Leser, Fink, München, 1972.
175
Colin, Le antologie scolastiche di letteratura italiana..., p. 216.

191
Terzo capitolo

come fa per i testi antologizzati.176 Nella Nota del 1902 a Sul limitare,
l’autore, mentre evoca le ore di lettura trascorse nella camera del collegio
di Urbino, afferma molto chiaramente:

Cioè non leggo io, questo libro. È uno di voi che lo sfoglia, e spesso si ferma
e s’inebbria tacitamente. È il mio fanciullo ideale; quello che sarà ciò che
non potei e che avrei voluto essere io, quello che farà quello che non feci,
che dirà ciò che non dissi.177

Il fanciullo, metafora dell’essere interiore e personaggio carico di sim-


boli nelle liriche di Pascoli, possiede anche la capacità di provocare la
creazione poetica grazie al fatto che ne fornisce l’intuizione al poeta e
ne costituisce il lettore destinatario ideale per il pedagogo. Il piccolo
“alimenta” la creazione poetica e “si alimenta” di poesia leggendola.
Come sottolinea il poeta Yves Bonnefoy – tra l’altro recente traduttore di
Pascoli in lingua francese –,178 trattando del processo di comprensione
del linguaggio poetico da parte dei piccoli:

L’allié le plus naturel, le plus constant, de la poésie, c’est évidemment le


petit enfant, puisque sa conscience du monde, à sept ans, à huit ans, n’est
pas encore entièrement structurée par les articulations du discours que la
société lui inculque […] L’enfant est l’origine sans cesse renouvelée de l’in-
tuition poétique, et celle, par conséquent, des œuvres, quand celles-ci sont
poésie vraie et non feinte.179

Sembra che Bonnefoy abbia, volontariamente o involontariamente, pensato,


scrivendo queste righe, al fanciullo pascoliano: questi è in effetti l’alleato del
poeta perché possiede la facoltà poietica primitiva e la sua naturale intuizio-
ne garantisce la “verità” dei versi, ossia la «verecondia dell’animo» definita

176
L’espressione «occhi del fanciullo lettore» viene usata a pagina XXII della Nota per
gli alunni in Sul limitare.
177
Ivi, p. XIV.
178
Cfr. Bonnefoy traduce Pascoli, a cura di Chiara Elefante, Faenza, Mobydick, 2012.
179
Yves Bonnefoy, Comprendre la poésie et préserver le langage, in Il testo dei poeti, in
“Testo”, n. XXVIII (2007), pp. 11-19.

192
Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli

da Pascoli nella prolusione ai maestri delle scuole elementari.


Nella ricezione progressiva e difficile dell’opera di Pascoli dopo la sua
morte si è talvolta commesso l’errore di accusarlo di una tendenza al
fanciulleggiare, il che significava confondere il “fanciullo poeta” con un
ipotetico poeta per i fanciulli (o peggio, dai versi infantili), da prendere
alla lettera.180 Per una grande parte del secolo XX, Pascoli fu ridotto
a poeta delle sole Myricae, oppure a poeta dei – presunti – frammen-
ti impressionisti e dei buoni sentimenti attuati dal fanciullino interio-
re,181 immagine rinforzata tra l’altro dall’opera postuma curata da Maria,
prevalentemente l’antologia Limpido rivo, poco tempo dopo la morte del
fratello. Il titolo completo del volume recita Prose e poesie di Giovanni
Pascoli presentate da Maria ai figli giovinetti d’Italia, ciò che sottolinea
fin troppo la vocazione pedagogica del poeta e contribuisce a consacrare
il teorico della percezione fanciullesca, intuitiva e primordiale, da em-
blematico autore nazionale per i fanciullini.
Il fanciullo era per Pascoli un lettore ideale, una figura della primitiva
facoltà di guardare il mondo con meraviglia e di trarne la poeticità, quin-
di un personaggio poietico per eccellenza, non per caso contrapposto, da
parte di tanti critici del decadentismo, al superuomo o al fanciullo al-
cyonio in d’Annunzio.182 L’infanzia nell’autore venne espressa non come
semplice rimpianto disperato per l’eden perduto ma soprattutto attraver-
so un sentimento delle cose percepite, all’origine di un vero e proprio
punto di vista che esercitò un influsso tutt’altro che secondario sulla ge-
nerazione dei poeti dei primi del Novecento. Pascoli è riuscito a teorizza-
re e liricizzare la complessa manifestazione del fanciullo nell’individuo
adulto e di conseguenza la potenziale poeticità di tale manifestazione.

180
Cfr. Edoardo Sanguineti, Il bambino déco, in Id., La missione del critico, Genova,
Marietti, 1987, p. 52.
181
Ci si limita solo a due interventi: Luigi Baldacci che parla della fissazione critica aber-
rante sulla prima silloge pubblicata (nell’Introduzione a Giovanni Pascoli, Poesie, Milano,
Garzanti, 1974, p. XXIII), e Mariella Colin sull’immagine di poeta dei buoni sentimenti,
destinato alle scuole elementari (Pascoli entre “alunni” et “fanciullini”, p. 198).
182
Un esempio che vale per molti altri: Salinari, Miti e coscienza del decadentismo ita-
liano, p. 124.

193
Quarto capitolo

LA CONDIZIONE CREPUSCOLARE
DEL FANCIULLO

An antepast of Heaven sure!


I on the earth did reign;
within, without me, all was pure;
I must become a child again.
(Thomas Traherne, Innocence)

Questo capitolo tenterà di mostrare come la figura infantile e il motivo del


ritorno alla puerizia contribuirono a definire la poesia della generazione
crepuscolare, tra l’eredità – seppur deformata – del fanciullo pascoliano,
la lezione del simbolismo1 e il rapporto problematico con d’Annunzio. Si
cercherà di evidenziare la funzione di «malinconia penetrante»2 assunta
dal fanciullo nella lirica crepuscolare, ossia una malinconia compresa

1
Per quanto riguarda le fonti francesi e belghe della poesia crepuscolare italiana, il
problema è stato studiato da François Livi in vari saggi tra cui si può citare: Dai sim-
bolisti ai crepuscolari, Milano, IPL, 1974. Livi delinea la congruenza fra una «pater-
nità indigena» (Walter Binni, La poetica del decadentismo italiano, Firenze, Sansoni,
1949, p. 131) e fortissimi influssi – addirittura calchi, talvolta – del postsimbolismo in
lingua francese, ossia la seconda generazione dei simbolisti, attiva negli anni 1890-
1900.
2
L’espressione è mutuata da Vladimir Jankélevitch, Quelque part dans l’inachevé,
Paris, Gallimard, 1978, p. 55 («[…] une mélancolie pénétrante poétise alors notre
présent»).

195
Quarto capitolo

come salvezza del passato di fronte a un presente deludente e privo di


speranze.3 Tuttavia, la malinconia non sarà l’unica ed esclusiva cifra con
cui leggere e comprendere la raffigurazione crepuscolare del fanciul-
lo, ammettendo con Gozzano che anche questo sentimento possa essere
ucciso, anzi esorcizzato dall’ironia.4 Analizzare il bambino e il ritorno
all’infanzia nella lirica crepuscolare presuppone quindi di tener conto
delle ragioni e delle conseguenze di un disagio, di un male di vivere
insito nell’uomo contemporaneo, poiché i poeti degli anni 1900-1910
trovarono nell’essere infantile una possibilità di risposta alla crisi del
loro tempo. Il fanciullo non fu per loro un semplice pretesto al ricordo
nostalgico da contrapporre all’età adulta, bensì una disposizione estetica
ed esistenziale che fece da contraltare ai valori proposti dalla loro epoca.
Il fanciullo partecipa quindi all’insoddisfazione lirica profonda che essi
provarono per una società che non li sosteneva più.5
Alcuni poeti che prenderemo in esame furono chiamati crepuscolari da
Borgese, ma conviene soprattutto rivelare quale possa essere la condi-
zione crepuscolare del fanciullo nella loro lirica, vale a dire una creatura
che serve insieme all’identificazione dolce e amara di sé, alla giustifica-
zione del movimento regressivo quale rifugio, nonché alla contradditoria
formulazione di una vera e propria gioia di vivere. In effetti, la figura
infantile viene collegata in modo problematico all’ideale di evasione e
di fuga, alla coscienza dell’illusione, alla maschera che l’adulto porta
nella società in cui è costretto a vivere, alla coscienza di essere vittima
di una malattia non solo fisica. Diversamente dal personaggio pascoliano
che permetteva di ritrovare una primordiale serenità nel fanciullo ide-
ale e nel mondo rurale, nei poeti crepuscolari – residenti dello spazio
urbano e del ceto borghese – il fanciullo contribuisce spesso a definire
il limite consolatorio e compensatorio del ritorno al passato, di cui il
poeta è crudelmente consapevole: «Tu non vivrai che di Passato: ti sarà,

3
Cfr. Ferdinando Pappalardo, in Marino Moretti, Poesie scritte col lapis, Bari, Palo-
mar, 2002, pp. 11-12.
4
Cfr. Guido Gozzano, Nemesi, in Id., Tutte le poesie, a cura di Andrea Rocca, Milano,
Mondadori, 1980, pp. 124-125, vv. 35-36 e 71-72.
5
Cfr. Giuseppe Farinelli, «Vent’anni o poco più». Storia e poesia del movimento crepu-
scolare, Milano, Otto/Novecento, 1998, p. 7.

196
La condizione crepuscolare del fanciullo

in tal modo, assai men grave fuggir la speranza e la vana felicità», affer-
ma chiaramente Corazzini nel poemetto in prosa Esortazione al fratello.6
Sull’importanza dell’appartenenza di questi poeti al ceto borghese urba-
no, per capire la portata della loro operazione di sliricizzazione, Men-
galdo ha giustamente affermato che «[…] i crepuscolari sono sempre
dei piccolo-borghesi, frustrati da un senso di scacco, da un senso, reale
o supposto poco importa, di sconfitta o di immobilità sociale»,7 che li
allontana, pure in modo diverso, dalle figure di Pascoli e d’Annunzio.
La base fornita da Giuseppe Farinelli per costituire un canone crepu-
scolare fondato su tre centri geografici comprende Tito Marrone, Sergio
Corazzini e Fausto Maria Martini (per l’area romana), Corrado Govoni,
Marino Moretti e Aldo Palazzeschi (per l’area toscana ed emiliano-ro-
magnola), Giulio Gianelli, Guido Gozzano, Carlo Vallini, Nino Oxilia e
Carlo Chiaves (per l’area torinese).8 François Livi avverte inoltre che «a
partire dalla morte di Gozzano non è più possibile parlare di un clima
crepuscolare».9 Tuttavia, a partire da questo canone, sono stati anche
selezionati alcuni testi di Guelfo Civinini, escluso dalla lista stabilita
da Farinelli, ma pur presente in antologie della poesia crepuscolare,10
nonché un riferimento alla prima opera lirica del pittore Filippo De Pi-
sis, Canti de la Croara, pubblicata nel 1916. Govoni lo identificava con
«un caro buono fanciullo»11 e la dedica generale dei Canti recita «A la
memoria sacra di Giovanni Pascoli».
Ovviamente non tutti questi poeti dimostrano la stessa disposizione per

6
Sergio Corazzini, Poesie edite e inedite, a cura di Stefano Jacomuzzi, Torino, Einaudi,
1968, p. 112.
7
Pier Vincenzo Mengaldo, Intorno al linguaggio dei crepuscolari, in Sui primi poeti
del Novecento: la generazione degli anni Ottanta, a cura di Giuseppe Merlino, Roma,
Bulzoni, 1995, pp. 9-22, 12.
8
Cfr. Giuseppe Farinelli, «Perché tu mi dici poeta?» Storia e poesia del movimento
crepuscolare, Roma, Carocci, 2005, p. 32.
9
Livi, Dai simbolisti ai crepuscolari, p. 164.
10
Cfr. I crepuscolari. Saggi e composizioni, (a cura di) Nicola Tripodi, Milano, Edizioni
del Borghese, 1966, e Gozzano e i crepuscolari, a cura di Cecilia Ghelli, Milano, Gar-
zanti, 1983. Da notare che in quest’ultima antologia Marrone è assente dal canone.
11
Filippo De Pisis, Canti de la Croara, con prefazione di Corrado Govoni, Ferrara, Bre-
sciani, 1916, p. 5.

197
Quarto capitolo

trattare la materia infantile e delineare la figura del fanciullo, perché alcu-


ni ne sfruttano l’identificazione a un punto estremo (Corazzini, archetipo
del “poeta fanciullo”), mentre altri considerano la tematica dell’infanzia
come più secondaria. Occorre dunque, come consiglia Livi,12 tener pre-
sente il fatto che una visione tematica globale è molto difficile, perciò si
tenterà di proporre un ritratto plurale del fanciullo crepuscolare cercando
di mettere in risalto alcune caratteristiche unitarie del suo significato.

4.1 Dal “fanciullo poeta” al “poeta fanciullo”

4.1.1 Forme liriche della desublimazione


Sin dalla metà degli anni Novanta dell’Ottocento la poesia simbolista e
neosimbolista aveva proposto un’estetica del ritorno alla semplicità fan-
ciullesca che avrebbe avuto un’eco significativa nella generazione dei po-
eti italiani tra i due secoli. La “Revue sentimentale” annunciava in effet-
ti, nel 1896, un «tempo della semplicità». Nella sua raccolta di Ballades
françaises, Paul Fort aveva formulato, in La ronde autour du monde (1897),
una sua professione di fede in chiave intimista per cantare la semplicità
mediante il fanciullo: «J’ai le cœur enfant. Je ne veux plus chanter plus
haut que ma musette, ni plus chanter plus haut qu’à mon berceau d’osier».
La consultazione in Italia dell’antologia Poètes d’aujourd’hui 1880-1900,
pubblicata dal Mercure de France nel 1900, ebbe un notevole riscontro
per la scoperta dei poeti “intimisti” del cosiddetto periodo fin-de-siècle e
segnatamente per l’opera di Francis Jammes, che divenne un modello e un
riferimento imprescindibile. Jammes, come Fort, si era servito del bambi-
no per delineare una sua semplicità di tono, dichiarando che per essere
più vero il cuore doveva parlare come un fanciullo, ribadendo in direzione
volutamente dimessa la tradizionale similitudine fra il poeta e il puer.
La figura infantile nella lirica crepuscolare non si può studiare senza
tener conto del presupposto che vale per l’intera generazione, cioè la

12
Cfr. François Livi, Tra crepuscolarismo e futurismo: Govoni e Palazzeschi, Milano, IPL,
1980, p. 308.

198
La condizione crepuscolare del fanciullo

coscienza di un’accezione negativa della propria condizione di poeta.


Da questi autori la vita fu spesso percepita come una sconfitta, perché
l’incapacità per essi di esistere nel mondo borghese ebbe come con-
seguenza una forte presa di coscienza della destituzione del poeta in
quanto figura sociale alla ricerca del sublime. L’espressione coniata
da Edoardo Sanguineti per definire il crepuscolarismo italiano come
un «Liberty senza Aureola»13 ha il merito di evidenziare infatti la co-
mune intenzione di desublimare il poeta e, di conseguenza, operare
un ridimensionamento del fanciullo lirico tradizionale, non più divino
ma reale, altamente autobiografico, con una funzione consolatoria. La
deviazione dell’ispirazione lirica verso l’umiltà, il quotidiano, la noia,
la malattia, la tristezza agisce sui modi espressivi nell’evocazione dei
fanciulli insieme a certi elementi biografici che rinforzano, anzi moti-
vano in alcuni casi, la desublimazione.
La rinuncia consapevole alla tradizionale “aureola”14 va di pari passo
con una ricerca di antiestetismo che rifiuta il sublime. Per esempio, in
una poesia di Chiaves, un turbolento bambino che vive nel futuro ri-
trova, anni dopo in un’inutile libreria, un libro di versi e se ne serve
«per trastullarsi col gatto»,15 sicché viene negato, mediante una forma di
degradazione, il valore d’eternità dell’opera. La poetica pascoliana del
Fanciullino ha costituito un «punto di partenza per giungere a tematiche
nuove»16, ossia per creare nuove figure di fanciulli, così come lo definì
Fausto Curi parlando molto giustamente della Metamorfosi del fanciul-
lino.17 Si tratta per l’appunto delle derivazioni primonovecentesche del

13
Edoardo Sanguineti, Govoni tra liberty e crepuscolarismo, in Corrado Govoni, Atti
delle Giornate di Studio (Ferrara, 5-7 maggio 1983), a cura di Anna Folli, Bologna,
Nuova Universale Cappelli, 1984, pp. 19-50, 26.
14
Cfr. Fausto Curi, Perdita d’aureola, Torino, Einaudi, 1977.
15
Carlo Chiaves, Nel secolo duemila trecento, in Id., Tutte le poesie edite e inedite, a cura
di Giuseppe Farinelli, Milano, IPL, 1971, p. 89, v. 20.
16
Simonetta Simone, Corazzini e Pascoli, in «Io non sono un poeta». Sergio Corazzini
(1886-1907), Atti del Convegno internazionale di studi (Roma, 11-13 maro 1987), a
cura di François Livi e Alexandra Zingone, Roma-Bulzoni/Nancy-Presses Universi-
taires, 1989, pp. 95-100, 95.
17
Cfr. Fausto Curi, Metamorfosi del fanciullino, in “Poetiche. Letteratura e altro”, n.
1-2, 1997, pp. 9-38.

199
Quarto capitolo

personaggio pascoliano che permettono di passare dal “fanciullo poeta”


al “poeta fanciullo”, ossia da un essere intuente ideale che rivela la po-
eticità delle cose all’adulto, a un essere dimidiato che ha perduto una
forma di speranza e quindi sceglie in piena consapevolezza la regressio-
ne infantile con toni di parodia o di nostalgia. In una poesia della silloge
Le Règne du silence (1891), Rodenbach aveva creato le figure di “en-
fants-poètes”, morti precocemente e pronti a rivivere mediante l’anima
vagante dei cigni agonizzanti;18 questi “fanciulli poeti”, emblematici del
simbolismo, tornano nella generazione crepuscolare diventando quindi
ben più concreti “poeti fanciulli”. Il ritratto pascoliano del fanciullo ide-
ale da poeta diventa quindi nel crepuscolarismo un ritratto del poeta da
fanciullo. Nondimeno, va sottolineato il fatto che questa metamorfosi non
intervenne in modo improvviso, ma si sviluppò lungo il primo quindicen-
nio del secolo XX. In effetti, Pascoli pubblicò i Canti di Castelvecchio
lo stesso anno delle Fiale e di Armonia in grigio e in silenzio di Govoni,
mentre Marrone e Gianelli avevano già pubblicato le loro prime raccolte.
Ritrovare l’infanzia, quale paradiso perduto, corrisponde all’affermazio-
ne di un nuovo rapporto fra uomo e scrittura lirica in cui, perduta la fun-
zione sociale, si cerca di desublimare l’arte dei versi – Mengaldo parla
anzi di «de-professionalizzazione» della poesia.19 Gozzano riconosce iro-
nicamente di non poter assumere il proprio statuto di poeta nella società
in cui è costretto a vivere: «Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un
poeta!».20 Il ridimensionamento dell’io poeta adulto implica dunque una
revisione del significato del ricordo dell’infanzia: l’autoirrisoria pochezza
accordata alla propria immagine poetante consente lo slancio nostalgi-
co – ma lucido – verso i ricordi infantili. Si parla di autoirrisione con-
traddittoria perché, in effetti, in certi poeti crepuscolari la reificazione
dell’io e la negazione dell’essere poeta finisce per creare un’analogia fra
lo scrittore e il fanciullo. Corazzini si definisce “poeta fanciullo” (nella

18
Georges Rodenbach, Les cygnes, in Id., Le Règne du silence, Paris, Mercure de France,
1925, vol. II, p. 229, vv. 21-24.
19
Mengaldo, Intorno al linguaggio dei crepuscolari, p. 11.
20
Guido Gozzano, La signora Felicita ovvero la Felicità, in Id., Tutte le poesie, p. 178,
VI, vv. 306-307.

200
La condizione crepuscolare del fanciullo

Desolazione del povero poeta sentimentale) perché la malattia lo spinge


verso la regressione, mentre Oxilia negandosi poeta riduce se stesso a
«sperma e mani e occhi e creta», dopo aver riconosciuto che è un «ma-
schio ben costrutto / per l’amore ed avezzo agli sportivi / giochi fisici»; il
giovane raffigurato da Oxilia non è un piccolo bambino che piange, ma
una creatura fisicamente sana.21
La caratteristica consolatoria del fanciullo per l’adulto vittimizzato di-
viene materia poetica, oscillando tra l’ironica distanza che Gozzano im-
pone al proprio io e il mito creato intorno al “poeta fanciullo” Corazzini.
In effetti Corazzini è l’esempio moderno di questo mito, che partecipò in
prima persona a elaborare, prima di venire rinforzato dopo la sua morte
dagli stessi amici poeti – primo fra tutti Fausto Maria Martini. Di conse-
guenza lo studio del bambino nella lirica crepuscolare va sempre adat-
tato alle particolarità dell’esistenza e della personalità di ogni scrittore,
tentando di mostrare le similitudini senza trascurare le divergenze.

4.1.2 Chi sono? – Il poeta e il fanciullo


L’io lirico quale viene espresso dai crepuscolari rivela uno spostamento
della propria centralità motivato dalla desublimazione dell’esercizio po-
etico. Tale spostamento interviene secondo toni d’ironia, di grottesco, di
sentimentalismo, di caduta nel quotidiano e nell’umile, ecc. Non essere
più poeta significa affermare una nuova identità lirica, rivendicando ap-
punto la negazione e l’interrogazione. Difatti, nel 1897, Jammes scrive,
nella poesia Les dimanches, una serie di interrogazioni che si rivelano
in realtà affermazioni di una modernità nel cantare le cose tristi, umili,
quotidiane, banali, e due versi più avanti il poeta descrive una piccola
contadina. La figura lirica della fanciulla è nata quindi dall’interrogazio-
ne dell’io sulla propria facoltà di poeta incapace di cantare cose grandi
e sublimi, ma conscio di poter liricizzare il quotidiano. I crepuscolari
fanno a se stessi simili domande liriche. Gozzano, nel 1905, si chiede

Nino Oxilia, Contraddizione, in Id., Poesie, a cura di Roberto Tessari, Guida, Napoli,
21

1973, p. 178, vv. 20 e 1-3. Da notare che se Corazzini era conscio della morte precoce
per via della tisi (nel 1907), Oxilia cadrà in piena giovinezza e salute, sul fronte, nel
1917.

201
Quarto capitolo

«Chi sono? [...] / un coso con due gambe / chiamato guidogozzano!».


Palazzeschi, qualche anno più tardi, esclama Chi sono?, e Moretti in-
vece, nel 1910, non esclama ma mormora a se stesso «“Chi sono?”».22
Il motivo dell’io degradato trova qui delle versioni parodiche che non si
accontentano di reificare ironicamente la prima persona ma affermano in
modo sincero la coscienza di una crisi d’identità dello scrittore. Vallini,
nel poemetto Un giorno, dopo aver definito la classica anima fanciulla
come «sciocca» si chiede se diventerà «la cosa che soffra ed ha un io,
/ quella più vana che esista / nell’Universo, la trista / cosa che chiede
perdono, / la cosa umana ch’io sono?».23
Le varie forme liriche di dissacrazione e degradazione dell’io in quanto
poeta comportano la consapevolezza ossessiva – donde la modernità dei
crepuscolari – dell’inutilità dello scrittore, perciò il tempo dell’infanzia
si presenta come un tempo soggettivo dove rifugiarsi. Tuttavia questo
movimento regressivo verso l’infanzia non presuppone la formulazione
di un fanciullo aedo e veggente in grado di guidare l’adulto. L’io poeta
crepuscolare assimilato al fanciullo sa osservare e rappresentare con iro-
nia e lucidità il proprio mondo: si rivela dimidiato e deluso, ma capace
di un’acuta osservazione del presente e della sua nullità. La capacità
conoscitiva ideale del fanciullo pascoliano si trasforma diventando una
semplice attitudine per l’immaginazione, come afferma Moretti quando
stabilisce la similitudine fra l’ispirazione poetica e la fantasia del fan-
ciullo quale evasione dalla realtà tetra. Il fanciullo come poeta è diven-
tato il poeta come fanciullo:

S’alza a volte il poeta come un bimbo


fantastico dal mondo degli umani
a penetrare mondi più lontani
avvolti in un biancor mite di limbo;

22
Guido Gozzano, Nemesi, in Id., Tutte le poesie, p. 125, vv. 65-68. Aldo Palazzeschi,
Chi sono?, in Id., Tutte le poesie, a cura di Adele Dei, Milano, Mondadori, 2002, p. 71.
Marino Moretti, Due parole in Id., Poesie scritte col lapis, p. 24, v. 16.
23
Carlo Vallini, Il teschio fiorito, in Id., Un giorno e altre poesie, a cura di Edoardo
Sanguineti, Torino, Einaudi, 1967, pp. 74-75.

202
La condizione crepuscolare del fanciullo

e così è pago e vola in tutti i cieli


dietro la scorta delle sue sorelle
nuvole [...].24

Il più famoso “poeta fanciullo” dei primi del Novecento è Sergio Corazzi-
ni, per il quale si è già avvertita la necessaria distanza da stabilire fra il
mito e la parodia che egli faceva del proprio statuto. Corazzini esibisce la
propria debolezza e trova rifugio in un’infantile convalescenza. La parola
“fanciullo” costituisce un motivo-chiave nella sua opera, tale da diven-
tare un topos, come nell’iterazione ossessiva delle quattro occorrenze del
vocabolo in Desolazione del povero poeta sentimentale. Il v. 3 identifica
apertamente l’io al fanciullo in pianto («Io non sono che un piccolo fan-
ciullo che piange»), il v. 18 ribadisce l’analogia insistendo sulla tristezza
della condizione di non speranza («sono un fanciullo triste che ha voglia
di morire»), mentre il v. 28 usa la petrarchesca dittologia evocando un
«dolce e pensoso fanciullo», ribadita al v. 34 con «piccolo e dolce fan-
ciullo». Pur ricordando l’immagine romantica del “fanciullo poeta”, in
Asfodeli Corazzini parla dei suoi «versi / di fanciullo poeta» (vv. 4-5).
Per Corrazzini il fanciullo è specchio dello scrivere versi in quanto ar-
tista malato e inutile alla società. Il piccolo essere intuente pascoliano
è diventato un giovane debole che si rifugia nell’autocompiacimento e
ne fa una moderna concezione della poesia, da esibire come identità
dell’uomo contemporaneo. La meraviglia insita nel fanciullo pascoliano
si converte in narcisismo da parte di un essere appena uscito dall’ado-
lescenza ma perfettamente consapevole della sua precarietà esistenziale
e della presunta pochezza del suo mestiere. In tal modo il fanciullo di
Corazzini appare come un ben concreto ragazzo viziato, senza ambizione
e incapace di interpretare i misteri del mondo se non riducendoli alla
propria esperienza esistenziale. E fu giustamente questa riduzione alla
vita e all’etisia che fece di Corazzini l’emblema del “poeta fanciullo”
malato, diverso dal Fanciullino pascoliano e dal sublime Fanciullo di

24
Marino Moretti, Quel che c’era una volta, in Gozzano e i crepuscolari, pp. 452-453, vv.
17-23.

203
Quarto capitolo

Alcyone.25 Così, nella lirica Il fanciullo Corazzini riprende in direzione


crepuscolare un lessico pascoliano stereotipato26 per descrivere un es-
sere costretto al non ritorno, alla non speranza. Uno dei primi critici ad
aver delineato la genealogia del puer lirico da Vico a Corazzini (passando
per Leopardi e Pascoli) fu Sanguineti, parlando appunto di una versio-
ne deleteria del fanciullino pascoliano nel poeta crepuscolare, ossia un
«“fanciullino” rovesciato»27 che ha perduto la fresca meraviglia che lo
contraddistingueva. In una lettera che Corazzini scrisse a Giuseppe Ca-
ruso, il poeta afferma: «Solamente i fanciulli sono degni della nostra ani-
ma. L’anima del poeta abita nell’anima di un fanciullo».28 Ecco perché
si può considerare che l’espressione corazziniana del fanciullo, oltre al
fatto che sia un modo per definirsi poeta tramite un understatement ango-
scioso, permette anche di fissare la «conservazione di uno stato di grazia,
assolutamente precario e senza sviluppi»,29 attraverso un fuori tempo
infantile felice e ideale su cui proiettare la visione disillusa del presente.
La definizione dell’identità dell’io in Gozzano corrisponde alla rinuncia
di riconoscere se stesso in quanto poeta, con la riduzione della propria
persona lirica a un semplice «coso con due gambe / detto guidogozzano»
(Nemesi). Questa creatura su due gambe non potrebbe essere la versione
parodica del piccolo Valentino di Pascoli, bambino ormai cresciuto da
giovane adulto, e ora un «gozzano / un po’ scimunito»?30 Questa rimessa
in questione della validità dell’io, in quanto scelta poetica dissacratoria,
implica che il poeta si definisca guardando se stesso fanciullo, come
faceva Pascoli in Giovannino. Ma i suoi versi vengono ridotti a semplice
esercizio scolastico31 e l’infelicità dell’adulto impotente provoca la re-

25
Lo nota Umberto Saba in Sergio Corazzini/Note [1946], in Id., Tutte le prose, a cura di Arri-
go Stara, con un saggio introduttivo di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori, 2001, p. 937.
26
Cfr. Sergio Corazzini, Il fanciullo, in Id., Poesie edite e inedite, pp. 99-100.
27
Edoardo Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1967, p. 50.
28
Lettera citata in Filippo Donnini, Vita e poesia di Sergio Corazzini, Torino, De Silva,
1949, p. 148.
29
Stefano Jacomuzzi, L’innocenza impossibile: realtà e metafora del “fanciullo” corazzi-
niano, in «Io non sono un poeta», pp. 269-275, 271.
30
Guido Gozzano, L’altro, in Id., Tutte le poesie, p. 309, vv. 9-10.
31
Cfr. ivi, vv. 14-16.

204
La condizione crepuscolare del fanciullo

gressione verso un altro se stesso treenne, un «altro gozzano bambino»,32


inteso insieme come dolce rifugio della memoria e compagno per vedere
la vita e il mondo. L’altro piccolo se stesso non è più esattamente il fan-
ciullino ideale e veggente che ogni adulto serba, ma l’ombra fanciulla e
fraterna dell’uomo in preda a un male di vivere, che aiuta a sopportare
il presente con l’esperienza dell’arte. Il fatto che il giovane Gozzano sia
malato di tisi rinforza questa insoddisfazione nei confronti di un’epoca
per la quale non si sente responsabile, prediligendo invece «quest’altro
gozzano bambino» con cui intende scrivere versi.33 L’incipit ripreso in
anafora nella lirica Alle soglie accomuna l’io adulto autentico con l’im-
magine del bambino: «Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco
nel pianto, / mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo
[...]».34
Il caso di Marino Moretti ha in comune con quello di Gozzano la ver-
gogna di riconoscersi poeta, ma la sua originalità sta nell’affermazione
del quotidiano, ora materia dimessa dell’ispirazione lirica. Nell’ode Al
fratello dispotico Moretti delinea se stesso in quanto “poeta fanciullo”
che sa di non saper nulla ma è capace di poetizzare il suo piccolo mondo
personale e modesto, secondo un ideale «lillipuziano» che riduce ogni
cosa al suo diminutivo. Nell’uso di questo aggettivo si osserva al contem-
po il riferimento ironico all’attività poetica, divenuta soltanto capace di
descrivere le cose umili e limitate, e una dichiarazione secondo cui il
poeta si identifica con un fanciullo-scolare, sulla falsariga dello scolare
gozzaniano corretto da una serva: «ed io sono un bambino / che a svolger
temi inutili s’affanna».35 Il poeta fanciullo quale viene proposto dal poeta
romagnolo oscilla fra l’immagine falsamente ingenua del piccolo scrit-
tore di «temi inutili», e la versione crepuscolare degradata del classico

32
Ivi, v. 24.
33
L’ipotesi di Luca Lenzini è che questo alter ego infantile appare come «il piccolo
demone che impedisce a Guido di esser mai un vero lirico, e lo costringe sempre a
mascherarsi», in Luca Lenzini, Con le mani in tasca, in Guido Gozzano, Poesie e prose,
Milano, Feltrinelli, 1995, p. XIX.
34
Guido Gozzano, Alle soglie, in Id., Tutte le poesie, p. 157, vv. 1-2.
35
Marino Moretti, Parole al fratello dispotico, in I crepuscolari. Saggi e composizioni, p.
196, vv. 1-16.

205
Quarto capitolo

puer senex, il fanciullo vecchio e savio, lucido, quale viene presentato


nell’incipit de Il salotto rococò.36 Oxilia identificava segnatamente, nel
1905, la presunta inutilità dei temi svolti dalla poesia crepuscolare con
la descrizione di un bambino che dorme, e accomunava la sensibilità
dello stesso poeta al «lamento di bimbo addormentato».37 Nella lirica
Che vale? Moretti definisce la poesia tramite la non poesia, insistendo
sul carattere d’inutilità di essa, pure come nella dichiarazione Io non
ho nulla da dire. Il “poeta fanciullo” Moretti nega di essere un vero
poeta tanto più che, nel contesto della società borghese avida di nor-
me,38 si sente diverso dagli ex compagni di scuola, ormai diventati adulti
“normali”,39 mentre l’io si rassegna con vergogna a rimanere un uomo
incompiuto che scrive dei versi, contrapponendo la presunta normalità
sociale dell’amico con il proprio stato di eterno fanciullo-scolare. D’al-
tronde, Chiaves ha espresso un’identica estraneità, perché egli si sente
diverso dai bambini “normali” diventati «medici e notai»,40 mentre Oxi-
lia afferma di essere «strano figlio di una razza strana, / ignoto a me e
agli altri […]».41 Il sentimento di anormalità dell’io lirico in un mondo
utilitarista passa quindi per l’identificazione con il fanciullo, estraneo al
mondo pragmatico degli adulti. In questo senso, le piccole cose limitate
di Moretti sembrano tanto una riduzione consapevole al mondo infantile
quanto, paradossalmente, una rassegnazione ironica alla normalità.42 Il
suo mondo lillipuziano finisce per parodiarsi tramite il poeta clown, ne
La giostra. L’io così ridotto a un «bimbo piccolo e buono» (v. 4) che
gioca e si diverte dimostra di essere, nell’ultima quartina della lirica, un
poeta che provoca le risa perché «su un cavallo della giostra / sembra il

36
Cfr. Marino Moretti, Il salotto rococò, in Id., Poesie scritte col lapis, p. 19, vv. 1-4.
37
Nino Oxilia, Il poeta, in Id., Poesie, p. 217, v. 31.
38
Per l’idea di normalità borghese: Giorgio Bàrberi Squarotti, Poesia e ideologia bor-
ghese, Napoli, Liguori, 1976, p. 180.
39
Cfr. Marino Moretti, Poggiolini, in Id., Poesie scritte col lapis, p. 117, v. 10.
40
Carlo Chiaves, Il presepio della mia infanzia, in Felicità e malinconia. Gozzano e
i crepuscolari, a cura di Roberto Carnero, Milano, Baldini-Castoldi-Dalai, 2006, p.
167, v. 60.
41
Nino Oxilia, Io strano figlio di una razza strana, in Id., Poesie, p. 98, vv. 1-2.
42
«[...] la poesia deve tacere nella normalità dell’età adulta.», in Bàrberi Squarotti,
Poesia e ideologia borghese, p. 37.

206
La condizione crepuscolare del fanciullo

pagliaccio ch’egli è!».43 L’amara consapevolezza del poeta consiste nel


riconoscersi saltimbanco e insieme fanciullo, ma in ambedue i casi le
figure rimangono fuori dalla norma degli adulti, donde il movimento li-
rico regressivo verso la parodia o l’infanzia. Tale mescolanza fra clown e
infantilismo si ritrova in Palazzeschi.
Alle soglie della morte, nel 1972, Palazzeschi si chiedeva – più di ses-
sant’anni dopo Chi sono? – Sono davvero un bambino?.44 L’anziano giu-
stifica il suo «peccato d’infantilismo» sottolineando un’abilità insita nel
fanciullo, che il poeta ha da serbare. Viene sottintesa una capacità di
percezione delle cose – che l’adulto ha dimenticato – nonché una facoltà
di divertimento che solo il bambino sa trasmettere al poeta. Nonostante
tutto, si nota che nella sua prima produzione il fanciullo – anzi la fan-
ciulla – è ben presente, ma con forme più alternative. In effetti, il “poeta
fanciullo” Palazzeschi aspira a usare il riso come soluzione esistenziale.
Marinetti riconobbe che il poeta toscano aveva la geniale «apparente
incoscienza d’un bambino, guidato però da un fiuto sicuro»,45 perché
era capace di capovolgere tutte le regole stabilite. La famosa poesia Chi
sono? definisce un io lirico desublimato mediante la negazione di tre
arti, ma invece di identificarsi con il fanciullo piagnoloso, come Corazzi-
ni, Palazzeschi riduce se stesso a un saltimbanco esibizionista della pro-
pria anima. Il poeta è un fanciullo perché riesce a conferire ai suoi versi
una libertà di tono quasi paradigmatica della libertà infantile: bambino e
saltimbanco sono liberi perché inconsci o ignari delle regole del mondo
adulto.46 In tal senso l’esperienza di Palazzeschi propone due aspetti
della figura infantile, quella nostalgica ed eterea delle prime raccolte
e poi quella spregiudicata dell’eversione, passando cioè dalla fanciulla

43
Marino Moretti, La giostra, in Id., Poesie scritte col lapis, p. 124, vv. 64-65.
44
Cfr. Aldo Palazzeschi, Sono davvero un bambino?, in Id., Tutte le poesie, p. 794, vv.
1-7 e 21-23.
45
Filippo Tommaso Marinetti, Il poeta futurista Aldo Palazzeschi, in Marinetti e i futuri-
sti, a cura di Luciano De Maria, Milano, Garzanti, 1994, p. 211.
46
Cfr. Mario Barbaro, Il saltimbanco di Palazzeschi: dalla coscienza infelice alla fiera
carnevalesca, in Palazzeschi e i territori del comico, Atti del Convegno (Bergamo, 9-11
dicembre 2004), a cura di Matilde Dillon Wanke e Gino Tellini, Firenze, Società
Editrice Fiorentina, 2006, pp. 193-211, 193.

207
Quarto capitolo

bianca, offerta allo sguardo incuriosito della gente, al fanciullo «candido


e furbesco»47 che ride per istinto. Fausto Curi riconobbe in effetti che
questo bambino palazzeschiano poteva essere visto come «un Pascoli
perfidamente rovesciato. [...] Un fanciullo cupido e infrenabile»,48 mo-
tivato dall’energia dissacratoria dell’autore come, per esempio, il Titì
capriccioso e insopportabile della lirica Le mie passeggiate.49 Ecco la
versione palazzeschiana eversiva della regressione verso l’infanzia, una
regressione non al fanciullo idealizzato ma al monello capriccioso felice
di stare nella culla e fiero dell’opposizione che rivolge ai consigli dei
genitori (tramite una burlesca serie di «siiiii! / nooooo!»).
Un altro erede contradditorio e complesso del Fanciullino di Pascoli è
quello di Govoni. La capacità descrittiva dello sguardo e il ritmo sfrenato
della sintassi enumerativa di molte sue liriche fanno pensare che il «fan-
ciullo eterno»50 sia stato tramandato nella sua operazione di scrittura.
Secondo Montale, egli è un vero e proprio “poeta fanciullo” perché sa
come cantare la propria adesione alla vita e perché è immerso nel flusso
delle sensazioni. La pascoliana meraviglia infantile si è convertita in
stupore che fa nascere molteplici immagini.51 In effetti, lo stile di Govoni
potrebbe costituire l’espressione lirica di una visione infantile sensibile,
cioè immaginativa e libera, come se l’ispirazione appartenesse alla sfera
prelogica, libera di fare le associazioni che vuole. La scrittura sarebbe
l’esperienza di un “poeta fanciullo” che si avvia sui «sentieri dell’avven-
tura infantile allo stato puro».52 La natura fanciullesca della qualità dello
sguardo poetico sul mondo, all’origine di uno stile che aderisce allo «sta-
to di perenne stupore» (sono parole di Montale), è la forma govoniana del

47
Andrea Zanzotto, Infanzie, poesie, scuoletta (appunti), in “Strumenti critici”, n. 20
(feb. 1973), pp. 52-77, 63.
48
Curi, Metamorfosi del “fanciullino”, pp. 14-15.
49
Cfr. Aldo Palazzeschi, Le mie passeggiate, in Id., Tutte le poesie, p. 248, vv. 87-89.
50
Giovanni Pascoli, Il fanciullino, a cura di Giorgio Agamben, Milano, Feltrinelli, 1982,
p. 35.
51
Cfr. Eugenio Montale, La morte di Corrado Govoni poeta fanciullo della natura
(1965), in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di Giorgio Zampa, Milano,
Mondadori, 1996, vol. 2, pp. 2745-2748.
52
Gino Tellini, Introduzione, in Corrado Govoni, Poesie 1903-1958, Milano, Mondado-
ri, 2000, p. XII. L’autore si riferisce alla raccolta del 1905, Fuochi d’artifizio.

208
La condizione crepuscolare del fanciullo

rifiuto del sublime. Sin dal 1916 Govoni era stato percepito come un po-
eta-bambino a causa della «infantilità della visione»53 che rende il poeta
più libero. Lo stupore fanciullesco crea le immagini, nella tradizione del
puer poetico, ma senza la componente sublime e senza che il fanciullo
abbia conservato la sua natura eterna, come dimostra la programmatica
antimusa di Alla musa, negli Aborti. Questa lunga poesia stabilisce in
effetti che l’io è ricoperto da più maschere di cera per ogni vizio, e che
la musa, sotto le vesti di una mendicante, porta il suo strumento «come
un bimbo poppante / che ininterrottamente piange».54 Poi si descrive un
ambiente misero con «rachitici bambini / che piangono sui lor trastulli
infranti»55, a cui la musa tenta di offrire la sua allegria. La definizione
dello statuto di poeta passa qui attraverso la desublimazione dell’ispi-
razione, usando figure di piccoli deboli, opposti all’immagine del puer
divino.

4.2 Fanciulli e fanciulle nella poesia dei crepuscolari

Le varie figure infantili che s’incontrano nei versi della generazione cre-
puscolare appaiono spesso come creature diverse, estranee al mondo
codificato e normalizzato degli adulti. Tale diversità assume però due
significati: da una parte il fanciullo possiede una sua sensibilità auto-
noma, dall’altra, egli sembra escluso perché malato, pallido, solo, pian-
gente, alle soglie fra vita e morte. La generazione dei poeti italiani nati
alla fine dell’Ottocento considera il bambino sia come uno stato ideale
verso cui rifugiarsi, sia come la proiezione del proprio disagio adulto,
attraverso l’identificazione – spesso parodica – del poeta con il fanciul-
lo malato, piangente, moribondo, pallido, ecc. Il fanciullo viene quindi
considerato come meta dell’interiorizzazione del soggetto lirico che si
esclude dalla società presente e futura, raggiungendo un fuori tempo

53
Lionello Fumi, Il fanciullino in Govoni, in Corrado Govoni, Ferrara, Taddei-Neppi,
1916, pp. 87-98, 88.
54
Corrado Govoni, Alla musa, in Id., Poesie 1903-1958, p. 98, vv. 52-53.
55
Ivi, p. 99, vv. 83-84.

209
Quarto capitolo

ideale in cui si ignorano la cronologia e la pressione sociale. Egli si fa


allora specchio simbolico di questa autoesclusione perché condivide con
il poeta un sentimento d’inappartenenza al mondo. La canzone di Piccoli-
no di Gozzano – ispirata alla tradizione popolare bretone e destinata alla
sceneggiatura per un film – descrive un piccolo orfano in cerca di una
nuova famiglia, di un focolare per accoglierlo. Il fornaio e il Re lo rifiu-
tano perché troppo piccolo. Sul fronte non viene ucciso perché perfino le
palle lo trovano troppo piccolo, finché una di esse finalmente lo trafigge e
lo fa morire. Giunto in Paradiso, anche San Pietro lo rifiuta perché troppo
piccolo per essere un angelo. Sarà Cristo ad accoglierlo e proteggerlo
appunto perché «Egli è piccolo e mendico / senza tetto e senz’amico: /
egli è quello che mi va...».56 Come non vedere in questa fiaba un’ironica
analogia tra la condizione d’esclusione del fanciullo e quella del poeta
crepuscolare?57
Se nella lirica crepuscolare il fanciullo si ritrova spesso in funzione d’i-
dentificazione dello stesso poeta, la versione femminile di tale figura pone
invece un problema d’ordine semantico. In effetti, se molte bambine po-
polano la lirica crepuscolare, il vocabolo «fanciulla» assume talvolta un
significato più particolare perché esso oscilla tra la vera e propria bimba
e la giovane donna. Sembra che l’ambiguità del vocabolo provenga dal
fatto che «fanciulla» viene usato da molti poeti crepuscolari per designa-
re la persona amata, in tal modo la parola diventa una forma di vezzeg-
giativo sentimentale che non ha più, apparentemente, nessun rapporto
con l’infanzia. Corazzini, nella lirica Tu...,58 ridottosi allo statuto di poeta
bambino che soffre (dice di essere «imbambolato», al v. 7), si rivolge a
un tu femminile adulto non identificato, ma chiamato «fanciulla mia», e
in seguito «bimba mia», con valore di vezzeggiativo per la ragazza lon-
tana che saluta indifferente il poeta. Moretti, nella diciottesima strofa di
Allegretto ma non troppo,59 si rivolge a una sua «buona fanciulla» che in
realtà viene chiamata, quattro versi dopo, «mia pallida sposa». Lo stesso

56
Guido Gozzano, La canzone di Piccolino, in Id., Tutte le poesie, p. 260, vv. 58-60.
57
Cfr. Elio Gioanola, Il decadentismo, Roma, Studium, 1972, p. 104.
58
Cfr. Sergio Corazzini, Tu…, in Id., Poesie edite e inedite, p. 187.
59
Cfr. Marino Moretti, Allegretto ma non troppo, in Id., Poesie scritte col lapis, pp. 99-100.

210
La condizione crepuscolare del fanciullo

si dica per Oxilia, in Invito a Maria convalescente,60 dove il superlativo


«piccolissima» si riferisce alla donna amata che il poeta incita a lasciare
il letto dopo la malattia. Il modello dannunziano della donna sensuale
(nell’Intermezzo) viene per esempio assorbito da Oxilia, con caratteri-
stiche insieme infantili e adolescenziali, e la figura creata appare più
piccola femme fatale che ingenua fanciulla in fiore: si citi solo Amo la
tua bocca infantile,61 dove si descrive la persona desiderata tentatrice.
È soprattutto la componente sensuale che determina la visione oxiliana
della fanciulla-ragazza. Nondimeno, la sensualità fa parte dell’analisi
dell’infanzia perché il piccolo è anche quello che scopre i sensi, il de-
siderio, prima di essere un adolescente (per esempio Studio di colore in
pieno sole di Oxilia62). Il riferimento alla fanciullezza viene quindi usato
in modo diverso, non è più collegato al mondo nostalgico del passato
felice né al rifugio ideale e innocente dell’adulto, bensì alla sensualità
che un piccolo possa provare, come quando il bimbo Oxilia ammirava la
«gota quasi infantile»63 di una bella donna che amava in segreto – in re-
altà l’attrice Lyda Borelli. Né va dimenticato che il jammismo comporta
per l’appunto l’idea della sensualità innocente, con l’immagine del fan-
ciullo di fronte alla castità femminile. In effetti, Martini riprende quasi
alla lettera i versi di Jammes in Castità: «Verresti nuda, una tranquilla
sera […] ed io sarei / come un bambino».64
Per concludere sull’ambiguità semantica dei vocaboli “fanciulla /
bimba / bambina” nella poesia crepuscolare, va sottolineato il fatto
che essi vengono anche usati, allegoricamente, per definire uno sta-
to dell’anima, della coscienza dell’io. Vallini, per esempio, riprende
la classica immagine dell’anima-fanciulla perduta che ha bisogno di
essere condotta per mano da un angelo custode descrivendola come
una piccola «bimba smarrita / sopra la via della vita»,65 mentre la gui-

60
Cfr. Nino Oxilia, Invito a Maria convalescente, in Id., Poesie, p. 140.
61
Cfr. Nino Oxilia, Amo la tua bocca infantile, ivi, p. 87.
62
Cfr. ivi, p. 151.
63
Nino Oxilia, A Leda B., ivi, p. 235.
64
Fausto Maria Martini, Castità, in Id., Tutte le poesie, a cura di Giuseppe Farinelli,
Milano, IPL, 1969, p. 42, vv. 1-4.
65
Carlo Vallini, Un giorno – Il sogno, in Id., Un giorno e altre poesie, pp. 91-92.

211
Quarto capitolo

da-angelo che la salva è proprio il sogno («mio bell’angiolo»). Nello


stesso testo, Vallini osserva il «collegio del mondo» dove vivono pa-
radigmatici bambini che sapranno stupire la bimba smarrita in fase
d’iniziazione. Questi bambini, travestiti da adulti maschili e femminili,
rappresentano le figure adulte della tristezza, del male, della violenza,
della malattia, ossia la realtà della vita.

4.2.1 Tristezza, malinconia, pianto


Una delle caratteristiche più comuni del fanciullo crepuscolare risiede
nel suo stato di tristezza che provoca il pianto:

[...] Udimmo allora


presso una siepe un bimbo singhiozzare,
come oppresso nell’animo d’aurora
dalla malinconia crepuscolare.

Piccolo e solo, al limite d’un brullo


orticello piangea, che al far del giorno
pur s’era desto tremulo di trilli:

ed era forse il nostro amor fanciullo


che lasciavamo al limitar d’un sogno,
a pianger fra le lucciole ed i grilli.66

Se in questi versi di Civinini il piccolo viene adoperato per creare un’al-


legoria del passato, la tristezza e il pianto sono motivati nel bambino dal-
la «malinconia crepuscolare», condizione esistenziale di una generazio-
ne. La rima fra il pianto e il momento considerato il più triste del giorno
(«singhiozzare / crepuscolare»), e quella fra il piccolo e lo spazio deserto
di un hortus («brullo / orticello / fanciullo»), rinforzano la triste conno-
tazione d’un rimpianto pascolianamente lasciato «al limitar» del mondo
onirico. La classica allegoria del ridente bambino-amore si carica, in

Guelfo Civinini, Un pianto nella sera, in Id., I sentieri e le nuvole, Milano, Treves,
66

1911, vv. 5-14.

212
La condizione crepuscolare del fanciullo

questa lirica, dell’esperienza simbolista del mesto pianto fanciullesco,


metafora di un disagio dell’adulto di fronte al proprio mondo.
Il bambino che piange fa parte delle immagini topiche della lirica cre-
puscolare, senza necessariamente assumere una valenza psicologica o
allegorica particolari, come nell’esempio appena citato. Il fanciullo può
far semplicemente parte di uno scenario di tristezza che si ritrova per
esempio in Perché? di Oxilia («i lamenti / dei fanciulli piangenti / dalle
finestre semiaperte»),67 in cui la realtà di uno spazio cittadino notturno,
quale ambiente sociale che l’io vuole far visitare al suo cuore ridente,
deve servire a far reagire l’anima, divisa tra le lagrime amare che il poeta
le fa bere e l’irremovibile riso che la caratterizza. Ma, nella descrizione
della folla per le vie di una città, Oxilia crea un’opposizione non più
ornamentale bensì simbolica, tra la femminile allegria di una bimba,
mentre gioca con la sua bambola appena comprata, e la maschile effige
triste d’un bambino che, invece, non può avere il giocattolo desiderato
(un fischietto). In questa lirica le due figure infantili, messe in risalto
dall’effetto di vivace ed elementare contrasto sentimentale, sono sta-
te usate dal poeta per rappresentare simbolicamente, nelle prime due
strofe, la folla «gaia» e il mondo dei «tristi»68 davanti a un santuario:
la bambina allegra e il bambino piangente diventano due stereotipi di
sentimenti fondamentali, perché la loro semplicità e innocenza vale per
l’universalità della condizione umana.
Un esempio psicologicamente più consistente ci viene offerto da Coraz-
zini, perché egli descrive l’inclinazione al pianto e alla tristezza come
una categoria della versione moderna del fanciullo lirico, usando perfino
l’autoironia dell’io che cede all’evocazione del proprio pianto:

tu che mi vedi andar sporco e stremato,


che mi vedi morente di stanchezza
tu, che nell’occhio mio, imbambolato,
leggi la fame, l’odio, la tristezza;
[...]

Nino Oxilia, Perché?, in Id., Poesie edite e inedite, p. 123.


67

Nino Oxilia, Ò visto, ivi, p. 148.


68

213
Quarto capitolo

tu che m’hai visto un dì, fanciulla mia


piangere il mio dolor come un bambino.69

La riduzione dell’io lirico alla condizione infantile, oltre ad essere una


scelta estetica per desublimare il proprio statuto, si fa anche condizione
etica, perché la similitudine col fanciullo, innocente e debole, sembra
esimere il poeta da ogni responsabilità dell’essere adulto. In effetti, il
fatto di esprimere la sua tristezza, come farebbe appunto un bambino mi-
sero (si noti, al v. 15 della poesia Tu..., il ricordo pascoliano del «torzo»
rosicchiato), significa definire, nell’ultimo verso, la sua identità di poeta:
«fui sol troppo poeta». Il poeta si assimila al fanciullo piangente, sicché
la condizione infantile crepuscolare si costruisce in forte contrapposizio-
ne con l’allegria e la vitalità della figura altrui. I poeti della generazione
crepuscolare – che Oxilia fa parlare dicendo: «noi siamo i masturbatori
/ del pathos!» – vengono sarcasticamente confrontati all’energia della
«razza / felice degli avi!».70 Il poeta si sente vicino al fanciullo triste in
modo da allontanarsi dal mondo adulto, rappresentato dalla società bor-
ghese del tempo. La fuga consapevole dalla missione sociale e civile, un
tempo portata dalla poesia, significa ritrovarsi nel bambino triste e pian-
gente: egli diventa un emblema del rifiuto e del rifugio nei sentimenti
semplici. Ma il pianto infantile in questo caso non è tragico. Bachelard
fece notare che già nella lirica simbolista, soprattutto in Rodenbach, si
evoca l’infanzia come tempo di nostalgia della tristezza tranquilla, cioè
una tristezza infantile immotivata e senza pathos.71 Si aggiunga, per con-
ferma, la presenza dell’espressione della «dolce tristezza» anche in Jam-
mes (Le vent triste), in cui il dolore è assente. Questo stato di malinconia
non resta esclusivamente infantile ma continua ad agire nell’adulto. Per
Gozzano, tuttavia, la tristezza fanciullesca, considerata come un dono
dell’esistenza, non può che mutarsi, col tempo, in coscienza ironica della
propria incapacità: nel sonetto L’ultima infedeltà, la condizione iniziale
di «dolce tristezza» del fanciullo scolare si perpetua nell’adolescente

69
Corazzini, Tu…, in Id., Poesie edite e inedite, p. 187, vv. 5-12.
70
Nino Oxilia, La canzone folle, in Id., Poesie edite e inedite, VIII, p. 129.
71
Cfr. Gaston Bachelard, La poétique de la rêverie, Paris, PUF, 1960, p. 111.

214
La condizione crepuscolare del fanciullo

preso dai sentimenti d’amore, ma si muta nell’adulto che scrive in «riso


amarissimo» (v. 11) con funzione deformante. Il dono della tristezza in-
nocente, insito nel fanciullo, si perde con l’età maggiore che lo trasforma
in amara consapevolezza («Ah! veramente non so cosa / più triste che
non più esser triste!»).72
La tristezza infantile si carica quindi di una valenza espressiva dop-
pia, perché, oltre a determinare la dolcezza innocente del piccolo, si
fa rifugio per l’adulto che ha perduto tale dolcezza. Molte delle figure
infantili tristi vengono adoperate dai crepuscolari come presagio delle
future peripezie della vita, immagini liriche per l’esistenza futura, al
posto dell’io adulto tradizionale, solo e pensoso: il piccolo essere, con
la complessità delle sue emozioni, non si riduce quindi a semplice
ornamento poetico:

Una bambina pensosa


contempla l’acqua che fugge: 
qual mai pensiero la strugge?
[...]
la bimba più non si trastulla,
è tacita, è mesta, è pensosa.
[...]
presaga
a pena, ne l’anima vaga
di quanto la vita nasconda.73

La tristezza leggera è legata, in questa poesia, allo stato di innocenza


nei confronti dell’ignoto da scoprire. Ma la condizione crepuscolare del
fanciullo presenta inoltre, al di là della mera malinconia, uno stato di
vera e propria malattia.

Guido Gozzano, L’ultima infedeltà, in Id., Tutte le poesie, p. 139, vv. 13-14.
72

Carlo Chiaves, Inquietudine, in Id., Tutte le poesie, pp. 93-94, vv. 9-36. La prima
73

versione della poesia s’intitolava Il primo mistero.

215
Quarto capitolo

4.2.2 Malattia e convalescenza


Vallini evoca nel poemetto Il giorno uno stato di «tubercolosi / cronica del
sentimento»,74 che potrebbe perfettamente convenire ai crepuscolari che si
autodefiniscono come incapaci di amare, vittime di un’aridità sentimentale,
presi da un morbo esistenziale, perché l’Amore resta «il bel fanciullo [...]
addormentato nel fondo / del cuore, d’un sonno profondo».75 Nondimeno, lo
stato di malattia non fu solo una metafora bensì una dolorosa realtà da soppor-
tare, prevalentemente per Corazzini e Gozzano. Essi erano tisici e morirono
giovani (Corazzini a solo ventuno e Gozzano a trentatré anni). Corazzini rap-
presenta tuttavia un caso estremo e unico, sicché l’intreccio fra una cattiva
salute e la scrittura contribuì, secondo Solmi, a «una precisa vocazione alla
malattia mortale».76 Oxilia cadde però, in piena salute, sul fronte, a ventotto
anni. Gianelli fu vittima di una polmonite a trentacinque. Martini sarà mu-
tilato dopo la guerra e morirà a quarantacinque anni. Chiaves scomparve a
trentasei e Vallini a trentacinque. Palazzeschi, Moretti, Marrone e Govoni,
invece, ebbero una vita assai più lunga. Oltre a questi dati biografici oggettivi,
bisogna sottolineare il fatto che i poeti esprimevano nei loro versi una malattia
di natura più astratta, cioè la mancanza di una volontà e il rifiuto del vitalismo
allora in auge. In una sua poesia, Gianelli ripete cinque volte, in epifora di
ogni strofa, che serba «il dolce infermo che agonizza in me», un’immagine
novecentesca dello spleen attraverso il filtro della malattia della volontà, del
rifiuto di riconoscersi pienamente poeta: «Io non so nulla... io sono assente...
Veglio / il dolce infermo che agonizza in me».77 A partire dall’esperienza cre-
puscolare la malattia, metafora del dono per i versi, in quanto stato di diver-
sità rispetto a una norma stabilita dalla società, sarà un tema rilevante per la
lirica del Novecento, perché essa acquista una funzione poietica.78

74
Carlo Vallini, Un giorno – L’amore, in Id., Un giorno e altre poesie, p. 84.
75
Ivi, p. 82.
76
Sergio Solmi, Sergio Corazzini e le origini della poesia contemporanea, in Sergio Co-
razzini, Liriche, Milano, Ricciardi, 1959, poi in Sergio Solmi, Scrittori negli anni,
Milano, Il Saggiatore, 1963, p. 267.
77
Giulio Gianelli, Il dolce infermo, in Gozzano e i crepuscolari, pp. 299-300.
78
Citiamo solo l’esempio di Bertolucci, fanciullo ansioso, che «gode il suo stato / come
un peccato o come un privilegio», in Attilio Bertolucci, Opere, a cura di Paolo La-
gazzi e Gabriella Palli Baroni, Milano, Mondadori, 1997, p. 537.

216
La condizione crepuscolare del fanciullo

È già stato notato che l’identificazione dell’io alla figura infantile poteva
significare, tra l’altro, il rifiuto dell’età adulta, la volontà di rimanere ide-
almente in un “limitare”. Perciò lo stato di malato ha in comune con la
condizione infantile l’abolizione della consapevolezza della dimensione
temporale, perché il malato è sospeso tra la vita e la morte e il fanciullo
tra la prenatalità e l’età della ragione. Ma il fatto di essere malato, sia
per il poeta che per il piccolo personaggio delle liriche, permette tal-
volta di godere di una facoltà d’intuizione e di chiaroveggenza ignorate
o invisibili per gli individui “sani”. Nel suo poemetto Les malades aux
fenêtres, Rodenbach formulava l’idea secondo cui lo stato di malattia,
isolando dall’esterno, permette appunto di realizzarsi se stessi.79 Anche
nella narrativa del tempo, l’esempio paradigmatico della Montagna in-
cantata offre un’illustrazione della particolare chiaroveggenza dei mala-
ti.80 La malattia, realtà sociale subita nonché condizione estetica volon-
taria contrapposta alla normalità borghese, assume quindi varie valenze
e allontana i crepuscolari da Pascoli e d’Annunzio, due autori «ancora
perfettamente in grado di integrarsi nella società e di esercitarvi una
preziosa funzione di orientamento e di controllo ideologico».81 Rivolgen-
dosi alla ragazza amata che gli scrive un addio, Corazzini la definisce
precisamente in stato di perpetua malattia, come se questa fosse insita
nella sua esistenza, e la riduce a fanciulla, come se non dovesse mai cre-
scere.82 Il fanciullo malato è un topos presente anche nell’arte simbolista;
un esempio emblematico viene offerto dalla Fanciulla malata di Edvard
Munch (1885-1886), dipinto dopo l’esperienza dell’agonia della sorella
quindicenne tisica e nel quale prevale lo stato di passività e di abban-
dono che si ritroverà nella lirica crepuscolare.83 Per esempio, evocando

79
Cfr. Georges Rodenbach, Les malades aux fenêtres, in Id., Les vies encloses, in Fin de
siècle et symbolisme en Belgique. Oeuvres poétiques, Bruxelles, Complexe, 1998, p.
416, IV, vv. 18-20.
80
Cfr. La malattia come metafora nella letteratura occidentale, a cura di Stefano Man-
ferlotti, Napoli, Liguori, 2014.
81
Curi, Perdita d’aureola, Torino, Einaudi, 1977, p. 23.
82
Cfr. Sergio Corazzini, Per musica, in Id., Poesie edite e inedite, p. 62, v. 5.
83
Sulla passività del fanciullo malato tra lirica e narrativa: Stefano Jacomuzzi, Introdu-
zione, in Sergio Corazzini, Poesie edite e inedite, p. 24.

217
Quarto capitolo

la realtà dell’umanità osservata dall’anima del poeta (definita «bimba


smarrita») Vallini fa vedere un realistico fanciullo malato di tubercolosi
quale immagine del «mondo» nella cruda verità. Il fanciullo sta nel suo
letto e l’anima si chiede perché «tossendo dia sangue dal petto?»84, una
fredda – e insolita, per lo meno nel linguaggio della lirica – raffigura-
zione clinica di un piccolo moribondo. Vallini mostra l’effetto fisiologico
della malattia, mentre Corazzini si serve del topos come specchio per la
propria condizione, mediante un comportamento di compiacimento nello
stato di giovane malato. Egli ci propone, ne La finestra aperta sul mare,85
una topica descrizione d’interno crepuscolare, triste, noioso, dove il cie-
lo acquista la facoltà di piangere dolcemente «come un piccolo fanciullo
malato» (v. 39), mentre evocava prima la finestra «canora come l’anima
/ di un fanciullo» (vv. 8-9). Il piccolo diventa quindi strumento della
similitudine in due direzioni, sia come immagine dell’allegria che come
quella della tristezza. Però nella lirica che Martini dedicò a Corazzini,
Il rosario dell’anima,86 il poeta romantico, destinato ad ammalarsi, viene
segnatamente associato al bambino malato affacciato alla finestra, su cui
vola un pipistrello (v. 21). Nella lirica di Martini il bambino malato si
riferisce al poeta, e il pipistrello era prima una «candida tortorella» (v.
24). Ma il fatto di usare il topos del fanciullo malato comporta anche una
presa di distanza, ironica, quasi per beffarsi della realtà riducendola a
semplice serie di ritratti stereotipati, come fa Govoni nella sua Psicologia
dei ritratti, dove fra la galleria di personaggi, appare un ragazzo. L’inciso
interrogativo fra parentesi contribuisce a fissare l’immagine crepuscola-
re caricaturandola: «Un bel giovane (che sia morto etico?) / perpetua la
tristezza del suo sguardo».87 Un’altra distanza ironica nei confronti dello
stato di malato si legge nel sonetto Contrasti di Corazzini, sottotitolato
«Dialogo fra un dottore e una madre di famiglia». Si ritrova la fanciulla
pallida, languida, probabilmente presa dalla tisi, ma qui è il medico a in-

84
Vallini, Un giorno – Il sogno, in Id., Un giorno e altre poesie, p. 92.
85
Cfr. Sergio Corazzini, La finestra aperta sul mare, in Id., Poesie edite e inedite, p. 93-94.
86
Cfr. Fausto Maria Martini, Il rosario dell’anima, in Felicità e malinconia: Gozzano e
i crepuscolari, pp. 367-368.
87
Corrado Govoni, La psicologia dei ritratti, in I crepuscolari. Saggi e composizioni, p.
239.

218
La condizione crepuscolare del fanciullo

tervenire portando un realismo – rinforzato da alcune battute in dialetto


– che sposta il significato verso la caricatura: il dottore intende curare la
bambina con «iniezioni belle e buone» (v. 10) in grado di rifare il sangue,
mentre la madre interpreta questa cura come una vera e propria «sve-
natura!» (v. 14). La malattia della bambina, quale condizione del poeta
crepuscolare languido, potrebbe essere curata dall’immagine vivida del
sangue rivitalizzato, ma tale sedicente rinnovo fisiologico (che il medico
farà pagare cento lire, al v. 11) non è che un mero svuotamento. Qui la
fanciulla malata serve l’ironia contro l’azione.
La malattia presuppone in alcuni casi lo stato di convalescenza, il qua-
le viene simbolicamente evocato come necessità per superare il morbo,
uscire dal limbo, ritrovare uno stato vitale contrapposto all’immagine
del malato languido. Oxilia lancia un Invito a Maria convalescente88 nel
quale incita la «piccolissima» (amata, o sorella, perché essa viene chia-
mata «amore!» al v. 9) a lasciare le coltri e la camera da letto buia per
godere il sole radioso di maggio. Il contrasto fra ombra e luce, interno
ed esterno, si trova anche in Convalescenza di Martini, ma qui si tratta
dell’io malato costretto a rimanere a letto, come se fosse tornato bambi-
no: «Il primo sole dopo tanta attesa! / Oh, come dolce, come puro! Sente
/ d’infanzïa... la sua carezza è scesa / fino al mio letto [...]».89 Il malato
non riesce a sopportare l’eccesso di luminosità esterna, quindi preferisce
rifugiarsi verso le «tristi ombre segrete» (v. 14) e non rispondere al «gran
fanciullo biondo» (v. 10), ossia la luce del sole, che potrebbe salvarlo
dall’accidia.90 La convalescenza diventa in questo caso una condizione
esistenziale perenne di limbo fra sole e ombra, infanzia idealizzata ed
età adulta morbosa. Questa situazione di malattia o quasi malattia, ago-
gnata per languida abitudine nella lirica di Martini, viene descritta da
Govoni nella figura infantile della piccola tisica incurabile, ne Il piano.
L’osservazione piena di dolce compassione della bimba da parte dell’io
piangente finisce per creargli un effetto di malattia, effetto in cui lo sple-
en si intreccia allo stato di dolce morbo infantile:

88
Cfr. Nino Oxilia, Invito a Maria convalescente, in Id., Poesie, p. 140.
89
Fausto Maria Martini, Convalescenza, in Id., Tutte le poesie, p. 75, vv. 1-4.
90
Cfr. Farinelli, «Perché tu mi dici poeta?», p. 175.

219
Quarto capitolo

ed ho la morbida impressione
d’essere come un bambino malato
in mezzo a tanti giuocattoli, in un prato;
e che giuoca, ma senza ammirazione

e per forza, ma che desiste,


stanco di non potersi divertire,
e poi, solo e lontano da chi lo può udire,
scoppia in un singhiozzìo lungo e triste...91

L’identificazione non patetica dell’io al fanciullo finisce con un autori-


tratto giocoso da piccolo capriccioso e triste: è questa l’immagine creata
dallo spleen crepuscolare, un piccolo malato che soffre e gode contempo-
raneamente del suo stato d’accidia.

4.2.3 Fragilità e biancore


Lo stato di languore, simbolico o concreto, caratterizza l’io crepusco-
lare e molti dei personaggi delle sue liriche, in quanto l’inerzia dovuta
all’assenza di volontà, la fragilità dovuta allo stato di salute e il bian-
core legato alla malattia o alla condizione di passiva aspettazione, con-
traddistinguono anche l’immagine del fanciullo. Vallini riconosceva di
appartenere a una generazione di «poveretti», ossia i poeti tisici per
malattia o per condizione esistenziale, e chiedeva appunto: «ti prego di
essere clemente / con tutti noi».92 La svalutazione dissacratoria della
propria condizione di poeta assume in questo caso l’aspetto della fra-
gilità fisica e mentale, sia in direzione autoconsolatoria che parodica.
L’immagine del fanciullo inerte, fragile o pallido – o, in senso opposto,
allegro e libero – diventa quindi un paradigma con valenza autobiogra-
fica o provocatoria. La negazione del vitalismo e dell’ottimismo portano
verso la progressiva operazione di sliricizzazione che rende poetabile
cose tradizionalmente non poetabili, come l’atteggiamento languido,
la stanchezza, la noia ordinaria – ossia senza dimensione metafisica.

Corrado Govoni, Il piano, in I crepuscolari. Saggi e composizioni, p. 253.


91

Carlo Vallini, Un giorno – La pietà, in Id., Un giorno e altre poesie, p. 87.


92

220
La condizione crepuscolare del fanciullo

Si veda in che modo tali sentimenti desublimati e impoetici vengono


applicati ai fanciulli.
Un bambino ben reale – seppur mai visto dal poeta – è l’oggetto di una
lirica d’occasione che assume una valenza particolare. Si tratta di un
omaggio di Civinini scritto per la nascita dello Zarevic di Russia, Alek-
sej. Civinini ci offre un ritratto del bambino dormiente mentre ascolta la
ninna nanna, un bambino che rammenta l’Orfano di Pascoli.93 I partico-
lari fisici sono tipici della descrizione di un piccolo nella culla, insistono
sulla fragilità e la delicatezza del bimbo («piccole mani [...], gracile petto
[...], bocci di fiori»). Ma come non vedervi, a posteriori, una prefigura-
zione della fragile condizione di salute dell’erede al trono, che certo il
poeta ignorava, ma ben si addice all’immagine del piccolo crepuscolare
a lui contemporaneo. Nella sua galleria di ritratti, Govoni fa vedere un
«Infante biondetto da la torva guardatura», poi delle fotografie di neonati
insieme a «placide fisionomie / d’avole e di defunti dissanguati».94 Ma
per Govoni le figure infantili acquistano più valore ornamentale che sim-
bolico, perché contribuiscono all’operazione elencatoria, priva di gerar-
chia, delle immagini che devono formare una registrazione. Nella poesia
Le cose che fanno la domenica,95 Govoni elenca molteplici particolari fra
cui spiccano «bambini che giuocano nei viali al cerchio» (v. 30) e «fan-
ciulle che vendono le viole» (v. 35), senza che nessun valore psicologico
sia attribuito loro. Nondimeno, fra immagini tratte dalla realtà socia-
le del tempo ed enumerazione descrittiva, ricorre più volte l’aggettivo
«rachitico» applicato al bambino. La condizione fragile, senza nessu-
na patetizzazione, si riferisce tanto alle osservazioni del poeta quanto a
un’estetica di desublimazione che riduce l’essere infantile a mera figura
dell’elenco, e addirittura a mera creatura abortita che si contempla: i
«rachitici bambini / che piangono sui loro trastulli infranti», gli «Abor-
ti nelle fiale, / rachitici e verdastri» – che si oppongono segnatamente
alle «sorridenti / bambole» –, oppure i «bambini rachitici che guardano

93
Cfr. Guelfo Civinini, La ninna nanna del piccolo Alessio, in Id., I sentieri e le nuvole, vv. 1-2.
94
Govoni, La psicologia dei ritratti, in I crepuscolari. Saggi e composizioni, p. 239, vv.
11-12 e 14-16.
95
Cfr. Corrado Govoni, Le cose che fanno la domenica, in Id., Poesie 1903-1958, p. 116.

221
Quarto capitolo

giuocare»,96 passivi e fragili spettatori del mondo. La condizione infan-


tile si presenta come quella dell’impotenza, dell’indifferenza passiva,
e l’inerzia si fa analogia del sentimento della propria inutilità provato
dall’io lirico. In un’evocazione falsamente fiabesca di tre piccole figlie,
Palazzeschi ci mostra per esempio la condizione di subordinazione in-
fantile, attraverso l’atteggiamento delle fanciulle che pregano la Signora
Matrigna, «col volto abbassato», dedite alla volontà adulta e fuori dalla
dimensione temporale, perché chiedono di ignorare sia il passato che il
futuro.97 Non è più l’immagine del vittimismo pascoliano a rappresentare
la propria solitudine identificandosi con un fanciullo triste e fragile, ben-
sì una metafora scherzosa del rifiuto, fondata sulla condizione di fragilità
e sottomissione.
L’estetica liberty ha usato con frequenza i vari significati simbolici del
colore bianco, per suggerire la debolezza, la stanchezza, lo stato di puro
abbandono (per esempio la Sonata in bianco minore di Corazzini). Il
bianco delle figure infantili viene innanzitutto riferito al pallore della
condizione malata, allo stato di esaurimento fisico, perfino alla dimensio-
ne funebre del lenzuolo che avvolge il piccolo morto, tolto alla vita nella
sua purezza. Il quadro di Pellizza da Volpedo Morticino ovvero Fiore re-
ciso (1903-1906) mostra molto bene la complessa dialettica cromatica
tra il bianco funebre del lenzuolo sulla piccola bara e il bianco immaco-
lato delle fanciulle che accompagnano il corteo, illuminate dal chiarore
emergente dalla bara.
Nella lirica crepuscolare, il biancore del volto di un fanciullo è il co-
lore dell’abbandono della vita che, attraverso la debolezza, prefigura
la morte. Gozzano ritrae se stesso piccolo come «il pallido bambino /
sbocconcellante la merenda» (L’ultima infedeltà), debole ma innocen-
te, prima che un riso amarissimo sul viso, da adulto, lo renda troppo
consapevole della sua condizione. Tuttavia, il bianco non si limita al
pallore e alla sua connotazione morbosa, anzi può suggerire simboli-
camente la purezza e l’innocenza insite nel bambino, ossia uno stato

96
Corrado Govoni, Alla musa, in Id., Poesie 1903-1958, p. 99, vv. 83-84; Il palazzo
dell’anima, ivi, p. 101, vv. 2-3 e Le tristezze, ivi, p. 121, v. 27.
97
Cfr. Aldo Palazzeschi, La matrigna, in Id., Tutte le poesie, pp. 108-109.

222
La condizione crepuscolare del fanciullo

cromatico corrispondente a «una condizione neutra, in cui nulla è an-


cora avvenuto» dell’esperienza adulta, proprio come nel limbo vergine
dell’infanzia.98 Il quadro postpascoliano offerto da Govoni nella lirica
Rose claustrali  è ambientato in un convento dove domina il bianco,
quasi in eccesso semantico,99 prima che il colore rosa anch’esso so-
vrabbondante prevalga nelle due terzine del sonetto. In tale ambiente
d’innocente hortus conclusus spicca la figura metaforica di un neonato
nudo nella culla, a rappresentare la primavera. È interessante ricorda-
re che nella prima versione della lirica, Govoni aveva ribadito la ricor-
renza del biancore perché il bambino non era nudo ma segnatamente
«bianco». I versi di questa prima versione recitano: «Non sembra forse
che un bianco bambino / sia nato in una culla signorile, / tra rose e
gigli, un candido bambino»,100 con il passaggio da un aggettivo all’altro
per lo stesso colore. In effetti, il bianco diventa candido, ossia colore
abbagliante, simile alla luce del sole primaverile, ribadito più avanti
per definire l’orto («l’orto candido come una trina», v. 14). Qui il bian-
core non è più sinonimo di pallore morboso, ma di innocenza e purezza
incarnate dal neonato. Un altro quadro di Pellizza da Volpedo, La pro-
cessione (1894-1895), mostra giovani comunicande vestite di bianco,
con una gradazione cromatica dall’albus opaco (a sinistra) al candidus
abbagliante (a destra), quali immagini della purezza infantile e della
verginità fanciullesca che abbagliano alla luce del sole. Anche Palaz-
zeschi evoca giovani comunicande nell’ottava lirica dei suoi Poemi:
«di bianco coperte, di bianco velate / [...] colla massima devozione».101
Il biancore della purezza giovanile fa parte del repertorio figurativo, e
Palazzeschi usa l’assenza di cromatismo per creare figure indistinte di
fanciulli e fanciulle bianchi, fiabesche sagome di leggerezza e abban-
dono. Mar bianco ne offre un perfetto esempio:

98
Cfr. Alberto Castoldi, Bianco, Firenze, La Nuova Italia, 1998, p. 3.
99
Cfr. Corrado Govoni, Rose claustrali, in Poesia italiana del Novecento, a cura di Edo-
ardo Sanguineti, Torino, Einaudi, 1993, vol. 1, p. 270, vv. 1-3.
100
Ivi, nella nota di Sanguineti per il v. 5.
101
Aldo Palazzeschi, Poemi - VIII, in Id., Tutte le poesie, p. 88, vv. 7-8.

223
Quarto capitolo

Fanciulli tutti bianchi


dall’ali di piccione,
posan leggeri con un piede solo,
sul loro cigno dal rapido volo.
[...]
Sorridono, si divertono,
tutte queste candide sirene,
tutti questi candidi fanciulli,
fra tante bellezze rare,
sull’acque dense bianche
di questo stranissimo mare.102

La fanciulla bianca appare in molte poesie crepuscolari di Palazzeschi.


La critica ha perfino fatto osservare che dopo il biancore che domina
nella raccolta Cavalli bianchi si nota una prevalenza del colore rosso nei
Poemi.103 Le fanciulle bianche della prima poesia palazzeschiana non
hanno tuttavia nessuna corporeità perché appaiono come figure mute,
quasi manichini pallidi senza aggancio con la realtà,104 e il colore bianco
si fa segno della non appartenenza al mondo reale, come ne Il castello dei
fantocci. Le fanciulle bianche di Palazzeschi vengono evocate come figu-
re della reclusione, tra la dimensione fiabesca e quella onirica: sono in-
felici e inerti – con l’uso di una sintassi fortemente paratattica a rinforza-
re quest’inerzia, con un effetto bloccante –, sono l’oggetto della curiosità
esterna, quasi modelli di una peculiare specie non umana esposta allo
sguardo comune. Si è a un’altra estremità del biancore infantile crepu-
scolare, opposta al bianco bambino che splendeva nell’hortus claustrale
di Govoni o alle giovani comunicande appena intraviste:

102
Aldo Palazzeschi, Mar bianco, ivi, pp. 96-97, vv. 21-24 e 44-49.
103
Cfr. Curi, Perdita d’aureola, p. 93. A proposito del colore bianco in Palazzeschi, il
critico propone un’interpretazione di natura psicoanalitica: il bianco sarebbe simbolo
di un’identificazione con la madre attraverso il seno e il latte, ivi, pp. 67-72.
104
Per un’interpretazione di queste figure: Farinelli, «Vent’anni o poco più», pp. 340-341
e Barbaro, Il saltimbanco di Palazzeschi: dalla coscienza infelice alla fiera carneva-
lesca, p. 194.

224
La condizione crepuscolare del fanciullo

le fanciulle bianche.
Passeggiano lente pel grande giardino.
Non ànno un sorriso.
La gente passando si ferma a guardare.105

4.2.4 La morte
Nella poesia dei crepuscolari i piccoli morti costituiscono un elemento
ricorrente. Moretti, per esempio, riprende il tema pascoliano del dialogo
fra i vivi e i morti nello spazio protetto del giardino domestico con ovvi
riferimenti lessicali al modello (il “gelsomino”, il “limitare”, ecc.), per
evocare la visita alla tomba del fratello maggiore scomparso precoce-
mente all’età di un mese. In questo autobiografico Giardino dei morti,
il poeta ricerca il contatto ultraterreno con il fratellino che risponde,
in corsivo: «E adesso te vedo ed ascolto, / fratello mio buono, fratello /
che vivi al di là del cancello...».106 Poi, nella terza parte della poesia,
interviene la voce di un altro fratello del poeta, morto suicida in piena
gioventù. Si tratta di un doppio colloquio con i cari morti: i due fratelli
defunti di Moretti chiamano dal cimitero il fratello ancora vivo. Martini
intitola addirittura una sua raccolta Le piccole morte, un titolo che molto
probabilmente egli ha attinto da una poesia di Marrone, Per una piccola
morta, nelle sue Liriche del 1902-1903. Lo stesso Martini, nell’intro-
duzione alla raccolta, indica esplicitamente, ma con esagerazione, che
quasi ogni lirica contiene una piccola morta, simile al fiore reciso.107
Nella lirica di Marrone si trova il colore bianco del lenzuolo funebre che
avvolge il piccolo corpo della morta, nell’alba che imbianca, e la meta-
fora floreale liberty («quanta neve di fiori a fiocchi / sopra la tua persona
irrigidita!»108). Civinini presenta anche lui una fanciulla appena morta,
«bionda e sottile»,109 che raggiunge il padre e le due sorelle nell’aldilà.
Ricordo di una piccola morta insiste sulla dimensione patetica dell’e-

105
Aldo Palazzeschi, Le fanciulle bianche, in Id., Tutte le poesie, p. 27, vv. 9-12.
106
Marino Moretti, Il giardino dei morti, in Id., Poesie scritte col lapis, p. 154, vv. 45-47.
107
Cfr. Farinelli, «Perché tu mi dici poeta?», p. 174, nota 21.
108
Tito Marrone, Per una piccola morta, in Id., Antologia poetica, p. 34, vv. 9-10.
109
Guelfo Civinini, Ricordo di una piccola morta, in Id., I sentieri e le nuvole, p. 61, v. 1.

225
Quarto capitolo

vento, mediante l’evocazione della scomparsa della giovane sorella Lisa,


richiamata da «il bambinello Gesù», prima di descrivere la madre ras-
segnata davanti alla malattia dell’altra figlia, chiamandola «Piccina!» (v.
64). Nella già citata Psicologia dei ritratti di Govoni s’incontra, fra tante
figure fotografate:

Un bambolino, morto, nel suo letto,


pallido, sotto il vetro ha il suo mannello
di capelli e sul bianco lenzuoletto
contro il cuore il giocattolo novello.110

Il morticino, esposto come una statua funebre, non è descritto con il


pathos che usano Civinini, Marrone o Martini, ma appare come una
figura sociale fra altre figure senza vita, perché rinchiuse nello spa-
zio delle dagherrotipie e dei quadri incorniciati. Le immagini correnti
legate alla morte infantile (pallore, lenzuolo bianco) non comportano
però nessuna dimensione pietosa da parte del poeta che si accontenta
di sottolineare la giovane età interrotta dalla morte tramite l’uso dei
diminutivi («bambolino, lenzuoletto») e il particolare del giocattolo ap-
pena ricevuto, simbolo dell’ultimo contatto con la vita felice. Sempre
in Govoni, la morte infantile viene evocata mediante la via che por-
ta al camposanto ne La via della certosa, con il caratteristico lessico
crepuscolare già intravisto nei precedenti esempi (corpo esile, fiori,
malattia):

strette casse di gracili fanciulli


morti tra i fiori, morti d’etisia,
corpicciuoli ravvolti in fini tulli
di amare lacrime e di liturgia111

L’evocazione della strada verso il cimitero si risolve nell’enumerazio-


ne delle bare grandi e piccole che vi vengono trasportate. Il particolare

110
Govoni, La psicologia dei ritratti, in I crepuscolari. Saggi e composizioni, p. 239, vv.
33-36.
111
Corrado Govoni, La via della certosa, ivi, p. 247, vv. 17-20.

226
La condizione crepuscolare del fanciullo

della bara rinforza l’idea di perenne reclusione del morticino – proprio


come nello spazio della fotografia –, imprigionato dal lenzuolo, anziché
acquistare la libertà dell’angelo in paradiso, scomparso per una nuova
vita in cielo, come si leggerà in altre poesie. Qui è il piccolo cadavere
già morto e preparato per il sepolcro a prevalere sulla descrizione acco-
rata della morte del bambino. Questo corrisponde allo scarto estetico fra
un crepuscolarismo patetizzante che prende il bambino moribondo per
farne un emblema del dolore e della compassione, e un crepuscolarismo
govoniano di creazione di immagini a partire dalla ripresa e dalla paro-
dia di modelli fissati.
Ma il piccolo morto nei crepuscolari non è sempre la vittima di un de-
stino funesto (come la malattia o un tragico incidente112) da compatire,
anzi la sua scomparsa può assumere l’aspetto di una vera e propria libe-
razione. Con l’ironia del verso finale ne La morte del cardellino, Gozzano
esclama «la tua morte è bella!»,113 mentre aspira a conoscere la stessa
compassione dell’uccello che fa piangere il bambino dopo la sua sepol-
tura. La riduzione di sé al corpicciolo del cardellino sepolto e compianto
da un fanciullo ben corrisponde all’operazione che dimidia la persona
del poeta facendogli aspettare una morte liberatrice. Anche Corazzini
stabilisce l’analogia fra la morte di un giovane (più adolescente che fan-
ciullo, perché ha quindici anni, come si legge in esergo – eppure viene
chiamato «fanciullo», e due volte «bimbo») e la liberazione, in quanto
questa avviene non per malattia ma per la volontà. La morte sembra es-
sere l’unico modo di raggiungere un vago ideale, impossibile da ottenere
sulla terra, anche se in fin dei conti la poesia ci fa vedere il giovane
corpo morto invano, perché «Ne la via / come il suo sogno, egli si giac-
que, infranto».114 Il corpo abbandonato del fanciullo suicida si fa analo-
gia dell’ideale decaduto, come l’aureola del poeta romantico finita nel
fango, nella Perte d’auréole di Baudelaire. L’idea della morte ricercata

112
Si pensi all’evocazione dell’orrenda agonia di una piccola di quattro anni dopo un
incidente, Gasparina, nella novella di Gozzano La novella bianca (“La Gazzetta del
Popolo della Domenica”, 11/11/1906), tra realismo tragico e tono fiabesco.
113
Guido Gozzano, La morte del cardellino, in Id., Tutte le poesie, p. 111, v. 14.
114
Sergio Corazzini, Il fanciullo suicida, in Id., Poesie edite e inedite, p. 53, vv. 27-28.

227
Quarto capitolo

per liberarsi raggiungendo la pacificazione si trova anche ne Il fanciullo


(dedicato a Guido Ruberti), in cui sembra ovvio il riferimento a Pascoli,
pellegrino, in aspettazione della morte per ritrovare i cari.115 Nella rete
intertestuale creata dalle poesie dei crepuscolari che si conoscevano e
si scambiavano versi, Gianelli evoca esplicitamente Corazzini e l’idea
di morte liberatrice e consolatrice, nella sua lirica Visitazione. Il poeta
tisico viene liberato dalla morte personificata da un’esitante visitatrice, e
definisce se stesso, in terza persona, «questo bimbo / orfano»116 al quale
la materna morte deve garantire la vita eterna.
Oltre a questi morticini la lirica crepuscolare ci propone anche un
altro tipo, quello dell’aborto. Il simbolo dell’aborto in Govoni («Abor-
ti nelle fiale, / rachitici e verdastri»117) è assai conosciuto, in quanto
rappresentativo della fragilità del poeta che crea immagini,118 ed è
quindi più interessante soffermarsi su una poesia di Moretti, Piccola
storia scandalosa. Il piccolo abortito non è più simbolo metapoetico,
ma si presenta crudamente come l’immagine del feto incompiuto e
deposto in un vasetto in famiglia. Il corpo viene prima definito sem-
plicemente come «piccol feto» (v. 19), con una connotazione medica,
e in seguito viene chiamato – secondo il modello pascoliano – «quel
pezzo, / quella larva di esistenza» (vv. 21-22); infine nella strofe se-
guente, si legge:

E mi par... mi par che quella


ranocchina sola sola,
quella povera bestiola
sia pur essa mia sorella.119

La progressiva perdita di corporeità e di umanità dell’aborto, ridotto a


creatura animale oggetto di compassione, prepara la conclusione leopar-

115
Cfr. Sergio Corazzini, Il fanciullo, ivi, p. 99, vv. 18-20.
116
Giulio Gianelli Visitazione, in Gozzano e i crepuscolari, p. 295, vv. 10-11.
117
Corrado Govoni, Il palazzo dell’anima, in Id., Poesie 1903-1958, p. 101, vv. 1-2.
118
Cfr. Farinelli, «Vent’anni o poco più», p. 237.
119
Marino Moretti, Piccola storia scandalosa, in Id., Poesie scritte col lapis, p. 112, vv.
25-28.

228
La condizione crepuscolare del fanciullo

diana della poesia: «oh fossi anch’io, / fossi anch’io nato così!» (vv. 35-
36). Oltre all’abituale riduzione dell’io crepuscolare si nota qui l’aspira-
zione alla regressione estrema, non verso l’infanzia ideale e preservata,
ma verso la non esistenza di un aborto diventato oggetto.
Per concludere, la lirica di Martini posteriore all’inizio della Grande
Guerra offre un altro aspetto, quello della morte intesa come sacrifi-
cio consapevole della creatura innocente. Durante il conflitto Martini
scrisse alcune poesie in cui richiama la condizione del soldato malato
o morto, a partire dalla propria esperienza di ferito e convalescente.120
In una di queste poesie, Il fanciullo e i soldati, il poeta evoca la morte
di un bambino malato di quattro anni e lo trasforma in creatura di me-
diazione fra tre soldati morti e la porta del Paradiso. Il piccolo diventa
una figura sacrificale poiché la sua morte per l’Italia ha permesso l’in-
gresso di soldati feriti in Paradiso. La data di pubblicazione del testo,
maggio 1917, ci porta ben oltre l’estetica crepuscolare, ma il fanciullo
vi acquista una valenza originale: egli sceglie di offrire alla Patria una
sua «morte bianca». Il poemetto in prosa è fondato sul colloquio alta-
mente patetico fra la madre e il figlio già morto, ma la nota dell’autore
indica che egli si ispirò a un evento realmente accaduto, vicino al fron-
te, dove tre soldati feriti in ospedale morirono contemporaneamente a
un fanciullo.121 Il piccolo morto in Martini appare in questo caso radi-
calmente opposto al fanciullo suicida di Corazzini – anch’esso ispirato
a un fatto realmente accaduto – perché il primo si fa portatore di un
messaggio di sacrificio patriottico e religioso, nonché intercessore fra i
soldati e l’aldilà, mentre il secondo sceglie di scomparire per dispetto,
delusione, perdita di speranza. Il fanciullo come salvezza per l’adulto
diventerà per Martini davvero reale: nel 1920 gli nasce il primo figlio
che provocherà in lui una sorta di rinascita, come testimonia il roman-
zo Verginità (1921). Un’altra esperienza biografica e lirica di paternità
riguarda anche Govoni, il cui figlio sarà tragicamente ucciso durante
la Seconda guerra mondiale. Il poeta gli dedica un libro di versi, Ala-
dino, pubblicato nel 1946, in cui evoca la cara figura dell’adolescente

120
Cfr. Fausto Maria Martini, Poesie sparse, in Id., Tutte le poesie, pp. 192-214.
121
Cfr. ivi, p. 202-203.

229
Quarto capitolo

scomparso. Nella sesta poesia del libro, egli viene descritto come un
fanciullo, quando aveva tre anni e giocava con i genitori, in commo-
vente contrasto con il cadavere del ragazzo.122 A concludere il libro
accorato di Govoni è un dialogo fra il giovane morto e l’angelo tragico,
che vorrebbe portarlo con sé, dal quale emerge un aspetto nuovo.

4.2.5 Angelismo e innocenza


Quando Gilbert Bosetti ricorda che «i poeti crepuscolari hanno idolatra-
to [i] fanciulli angelici»123 si riferisce non solo all’identificazione dell’io
lirico al fanciullo, in quanto creatura dimidiata ed emarginata dal mondo
degli adulti, ma anche a figure infantili rappresentate da angeli, bambini
sottratti al tempo cronologico e fissati nell’età ideale. Si vedano alcuni
esempi di questi angeli, creature innocenti beatificate dalla poesia cre-
puscolare.
Innanzitutto, l’esperienza biografica di Gianelli sembra paradigma-
tica. Il poeta era orfano, e durante la sua vita ebbe l’occasione di
badare a bambini, anzi di proteggerli, come avrebbero fatto un padre
o un fratello maggiore. Ricoverato all’ospedale San Luigi di Torino,
nel 1902, per tubercolosi, Gianelli vi conobbe un bambino morente,
Mario, che poi trapassò in ospedale nel 1903. Il poeta lo vegliò fino
all’ultimo momento.124 Questa esperienza particolarmente forte diede
origine alla scrittura di un gruppo di sei liriche dedicate al piccolo
Mario, Caro agli angeli, nella silloge Mentre l’esilio dura, pubblicata
nel 1903. L’affetto realmente provato per il «bimbo» – come recita
la dedica della sezione – si trasformò in poesia e suscitò nel giovane
autore – aveva solo venticinque anni – un desiderio di protezione dei
piccoli orfani e abbandonati, una condizione che lui stesso sperimentò
da piccolo. Così, come un missionario dei piccoli, Giannelli impegnò
una parte della sua vita ad occuparsi dei bambini che aveva raccolto,

122
Cfr. Corrado Govoni, VI, in Id., Aladino, Milano, Mondadori, 1946, p. 18.
123
Gilbert Bosetti, Il divino fanciullo e il poeta (culto e poetiche dell’infanzia nel romanzo
italiano del XX secolo), Pesaro, Metauro, 2004, p. 133.
124
Cfr. Giulio Gianelli, Pagine autobiografiche, in Id., Tutte le poesie, a cura di Giuseppe
Farinelli, Milano, IPL, 1973, p. 155, nota 17.

230
La condizione crepuscolare del fanciullo

realizzando quella sorta di universale fratellanza alla quale aspirava


anche Pascoli nei poemetti. Nel 1909, dopo l’esperienza all’ospedale
di Torino, Gianelli, impegnato come milite della Croce Bianca dal ter-
remoto di Messina del 1908, trovò due bambini siciliani abbandonati
(Mario e Ugo Morosi, di nove e undici anni) e decise di occuparsene
portandoli al collegio Nazzareno di Roma e concretizzare in tal modo
il suo sogno di paternità. In effetti, l’identificazione con il fanciullo, in
questo caso, va ben oltre la metafora metapoetica e si presenta come
ideale cristiano di solidarietà verso i piccoli.125 La sezione Caro agli
angeli è fondata sul discorso dell’io al bambino Mario, senza nessun
riferimento alla malattia o al dolore. Si trova l’innocenza determina-
ta dall’ignoranza insita nell’età infantile («Della vita non sai lotte e
rapine / [...] i tuoi occhi [...] / portano i segni d’una pia bellezza»),126
con un lontano ricordo del fanciullo ignaro e felice dell’Aquilone pa-
scoliano. È anche presente la metafora botanica con l’immagine dello
sfiorire delicato, su un fragile «stelo anelante invano di salire»127 de-
stinato a morire precocemente – e si ha l’impressione di rivedere lo
stelo fantasma di Giovannino. La morte, in posizione d’epifora nelle
prime tre poesie della sezione, si rivela finalmente come dolce visita-
trice del bambino e quindi liberatrice per il malato. A questo punto, il
fanciullo viene investito da una carica d’angelismo, perché morendo è
stato trasfigurato e la sua condizione di floreale innocenza lo trasforma
in angelo. Parla la morte al poeta:

“Io, vedi, te lo libero dal male,


io col suo fiore di verginità,
or, mentre spira, gli compongo l’ale
onde sùbito in te ritornerà”.128

125
Cfr. Farinelli, «Vent’anni o poco più», p. 403.
126
Giulio Gianelli, Caro agli angeli, in Gozzano e i crepuscolari, p. 274, I, vv. 5-12.
127
Ivi, II, v. 4.
128
Ivi, p. 275, III, vv. 7-10.

231
Quarto capitolo

Il povero fanciullo malato è diventato angelicato, ideale proiezione


dell’affetto provato dal poeta in un aldilà celeste dove egli crede di
scorgere «uno stuolo di bimbi»,129 ossia il paradiso dei fanciulli scom-
parsi, in cui si fa rimare «un nimbo» con «un bimbo», rima che in-
serisce la dimensione sentimentale privata nella tematica cristiana
celeste.130 Ormai sarà l’angelo infantile a badare al poeta: «Tu, Mario,
mio morto fratello».131 Il fanciullo angelo si fa parola chiave nella
lirica di Gianelli quando si tratta di evocare i bambini che il poeta ha
curato. Per esempio, la parola viene ripetuta tre volte in anafora nella
Ninna nanna della vergine, dedicata «Ai miei piccoli Mario e Ugo», i
due orfani siciliani. L’operazione lirica di angelizzazione dei bambini
realmente conosciuti porta con sé l’aspirazione sincera alla paternità
mediante il soccorso portato ai più piccoli e fragili. In un’altra lirica,
La fiaba, Gianelli immagina di essere un maestro che si rivolge agli
scolari, ma come un padre che si rivolga ai figli raccontando loro una
fiaba. Una volta narrato il racconto e salutato il maestro, i fanciulli
diventano grandi (mediante l’uso del passato remoto «Crebbero», iso-
lato dal resto della strofe, fra gli spazi bianchi e una riga di puntini)132
e conoscono la condizione adulta allontanandosi dal maestro-padre.
L’innocenza perduta prende il gusto amaro dell’ingratitudine inco-
sciente, giacché il poeta si ritrova solo e senza risposta alle sue do-
mande.
Anche nei primi versi del pittore De Pisis – I canti de la Croara – il puer
assurge a una potente forma di angelismo. Una poesia è intitolata Il fan-
ciullino, due L’angiolino, altre due L’angelo. Si osservano in effetti molte
figure tradizionali di bambini paragonati ad angeli, con alcuni particolari
come il colore biondo dei capelli («una testina bionda d’angiolo»133),

129
Ivi, p. 276, V, v. 7.
130
«[...] d’un nimbo / risfolgoro; arresta il mio volo, / d’un tratto l’abbraccio d’un bimbo»,
ivi, p. 277, VI, vv. 6-8. Ma la stessa rima era già presente – in forma baciata – nella
quinta poesia, al plurale: «[...] tra i nimbi / di luce uno stuolo di bimbi», p. 276, vv.
6-7.
131
Ivi, v. 9.
132
Cfr. Giulio Gianelli, La fiaba, in Gozzano e i crepuscolari, p. 297, v. 26.
133
Filippo De Pisis, L’angiolino, in Id., Poesie, Firenze, Vallecchi, 1942, p. 16, v. 9. Ma

232
La condizione crepuscolare del fanciullo

lo «sguardo cèrulo»,134 il diminutivo «le alucce»,135 ecc. Il fanciullo in


preghiera, quale idealizzazione di bontà fissata dalla tradizione cattolica
tra Otto e Novecento, contribuisce a rappresentare l’infanzia come l’età
innocente, non contaminata:

Penso a dei fanciulli


abbandonati in lande
e contrade selvagge.
Vedo una sera mite di luna
in un paese di sogno,
e si inginocchiano
per adorare un Dio,
giunte le piccole mani pure.136

Anche Gianelli ha evocato questa natura innocente del fanciullo quando


rammenta se stesso piccolo, mentre pregava: «Ero bambino allora, / (non
sapevo degli uomini e del mondo) / ché vedevo negli uomini, fratelli…
/ Dicevo la preghiera a mani giunte».137 L’ideale pascoliano di fratellan-
za viene collegato all’innocenza del fanciullo ignaro della realtà adul-
ta, perché rimasto in quello che De Pisis chiama «un paese di sogno»,
ovvero il paese dell’infanzia. Ma De Pisis usa l’immagine dell’angelo
anche a livello denotativo, quando evoca i putti all’interno di una chiesa
barocca.138 In De Pisis l’angelo consolatore è la figurazione di un altro,
protettore, con le sembianze di un fanciullo celeste: «Fanciullo biondo,
grande, docile / alle tue spalle pure / nascere ò sentito due grandi ali /

per il biondo fanciullesco dei capelli si potrebbe citare anche Il fanciullino (ivi, p.
65), L’aquilone (ivi, p. 115) o L’angelo (ivi, p. 161), a partire dal modello pascoliano
offerto, per esempio, da La nonna (Canti di Castelvecchio): «Tra tutti quei riccioli al
vento, / tra tutti quei biondi corimbi», vv. 1-2.
134
Filippo De Pisis, L’aquilone, in Id., Poesie, p. 115, v. 7.
135
De Pisis, L’angiolino, ivi, p. 104, v. 16, e L’aquilone, ivi, p. 115, v. 14.
136
Filippo De Pisis, Testimoni, ivi, p. 123, vv. 1-8. Si potrebbe anche citare Preghiera
con l’idea di purezza: «Il dolore non aveva toccato il mio cuore / e forse non à ancora
davvero», ivi, p. 96, vv. 6-7.
137
Giulio Gianelli, “Una volta dicevo”, in Id., Tutte le poesie, p. 390, vv. 4-7.
138
Cfr. Filippo De Pisis, Attimo, in Id., Poesie, p. 97.

233
Quarto capitolo

e a un tratto sei forse volato via».139 Si potrebbe perfino vedere in questi


fanciulli di De Pisis una transizione tra il fanciullo ideale di Pascoli –
mediatore primordiale fra il poeta e il mondo –, l’innocente bambino
crepuscolare che consola l’adulto, e i futuri ragazzi presenti nella lirica
di Sandro Penna. In effetti, leggendo la poesia L’angelo [Angelo biondo
di dove sei venuto], si assiste alla trasformazione lessicale del piccolo
biondo e consolatore in «giovane atleta»,140 sul cui petto l’io fa il segno
della croce, dopo avergli baciato la fronte. Il fanciullo, morettianamente
“puro di cuore”, è ormai stato sostituito dal ragazzo efebo, quale viene
descritto nel diario depisisiano Vaghe stelle dell’orsa.141
Nella lirica di Gianelli i puri fanciulli angelicati hanno una funzione
consolatrice per i vecchi che stanno per morire:

Bimbi: voi siete l’ultima visione


gentile e cara degli stanchi nonni;
loro passate in lieta processione
dinnanzi a gli occhi nelle notti insonni.142

Ma la facoltà consolatrice del fanciullo angelo non ha solo una connota-


zione religiosa, così come in una poesia di Gozzano dedicata a un bam-
bino pianista dove il piccolo viene definito «nostro piccolo gran consola-
tore!»,143 simile a un angelo custode che ispira ai poeti il canto. Tuttavia,
sempre in Gozzano, esiste l’immagine radicalmente opposta a tutti questi
puri angeli infantili, cioè un adolescente di diciassette anni, colpevole
di un doppio omicidio. Nella prosa Intossicazione144 Gozzano evoca un
fatto di cronaca nel quale il «fanciullo non malvagio» Stefano Ala finisce
per uccidere la donna a cui rivolgeva versi d’amore perché lo sprezzava
e si era fidanzata con un altro. Oltre al tragico fatto realmente accaduto,

139
Filippo De Pisis, L’angelo [Un bell’angelo è venuto a consolarmi], ivi, p. 145, vv. 11-14.
140
Filippo De Pisis, L’angelo [Angelo biondo di dove sei venuto], ivi, p. 161, v. 13.
141
Cfr. Filippo De Pisis, Vaghe stelle dell’Orsa. Diario di Bologna (1916-1918), Milano,
Longanesi, 1970.
142
Giulio Gianelli, Bimbi e nonni, in Id., Tutte le poesie, vv. 1-4.
143
Guido Gozzano, Miecio Horszovski, in Id., Tutte le poesie, p. 116, v. 11.
144
Cfr. Guido Gozzano, Intossicazione, in Id., Poesie e prose, pp. 299-303.

234
La condizione crepuscolare del fanciullo

il giovane poeta, ossia il puer ut poeta – chiaramente rievocato nel testo


tramite il riferimento al «fanciullo musico» di Cebes Tebano – viene pre-
sentato in chiave dissacratoria, poiché l’ispirazione letteraria ha portato
al delitto. Contro l’ideale poietico del Fanciullino pascoliano e l’unione
dannunziana fra vita e arte, questa prosa di Gozzano cerca di identifi-
care come la poesia possa diventare per un ragazzo una vera e propria
intossicazione. Né angelo né innocente, benché vittima della letteratura,
il ragazzo adolescente ha perduto l’aureola del fanciullo ideale e ispira-
tore, quale De Pisis lo descriveva ne L’aquilone: «Tutti fratelli i fanciulli
al poeta»,145 in un sognato paese dell’infanzia.

4.3 Alla ricerca dell’infanzia

Moretti chiedeva sul tono dell’elegia, ai compagni di scuola rievocati


dalla memoria: «Chi mi darà, chi mi darà quell’ore / così perdute
dell’infanzia mia?».146 L’infanzia si rivela in effetti come un reper-
torio di immagini per la creazione lirica nonché un rifugio ideale,
ma vano, per l’adulto, estraneo al proprio mondo dove è costretto a
vivere. La ricerca dell’infanzia per i poeti della generazione nata alla
fine dell’Ottocento si esprime quindi mediante la correlazione fra un
autentico «sognare fanciullesco»147 di natura nostalgica – attraverso
la visita alla casa d’infanzia, la memoria della scuola o la regressio-
ne verso la figura materna – e, spesso contemporaneamente, il riso
che ne deriva e ne costituisce la conseguenza. La ricerca dell’infanzia
assume una funzione di rifiuto e di negazione dei valori proposti dal
presente, pur ravvisando l’inanità di tale rifugio. Occorre riconosce-
re però che l’infanzia va considerata anche nella sua forma positiva,
anzi vitale, per incarnare, nei versi crepuscolari, la grazia e la gioia,

145
De Pisis, L’aquilone, in Id., Poesie, p. 115, v. 10.
146
Marino Moretti, Le prime tristezze, in Id., Poesie scritte col lapis, p. 116, vv. 37-38.
147
«[...] Commedïante / del mio sognare fanciullesco, rido!», Guido Gozzano, L’esperi-
mento, in Id., Tutte le poesie, p. 263, vv. 83-84.

235
Quarto capitolo

perfino l’estasi, ossia quello che Gozzano chiama «le ore di gaudi»,148
un’infanzia quindi necessaria.

4.3.1 L’infanzia come repertorio di immagini e rifugio


Invitando la compagna lirica a ritrovare il passato, Francis Jammes de-
scrive il paesaggio nel quale un tempo fu «un petit garçon triste et sa-
ge»,149 ovvero lo spazio e l’epoca del suo paese d’infanzia, dove il piccolo
si confondeva con le immagini del mondo semplice e preservato del-
la campagna. Anche De Pisis rammenta, in Paese antico, il mondo dei
sogni puerili, al suono delle campane serali, in un paesaggio rurale.150
Corazzini invece, alla fine della sesta strofa di Desolazione del povero
poeta sentimentale, evoca un «angolo oscuro» quale luogo di rifugio re-
moto, dove il «piccolo e dolce fanciullo» potrà piangere. Questo angolo,
in cui il piccolo gode della propria solitudine, sembra essere, più che
luogo d’angoscia e d’esclusione, il simbolo di uno spazio e di un tempo
privilegiati, quelli della memoria infantile remota e misteriosa.151 Attra-
verso questi primi esempi diversi risulta evidente come il paese dell’in-
fanzia, per il poeta adulto, tra una rêverie del paesaggio mitizzato e un
mistero delle oscure profondità, possa essere identificato con quello che
Alain-Fournier, negli anni Dieci del Novecento, aveva non a caso chia-
mato Le pays sans nom, titolo originario de Le Grand Meaulnes.
Il paese indeterminato e senza nome è anche quello privo di tempo, poi-
ché lo spazio dell’infanzia viene liberato da qualsiasi cronologia laddove
il tempo dell’infanzia rimane nella nebbia, con una durata non definita.
Evocando il Natale della sua infanzia, Govoni parla per esempio di un
«paese abbandonato, / di tra le dense nebbie e dolcemente / scampa-
nante»,152 ossia un luogo sottratto al tempo, quello che Rilke, nella sua

148
Gozzano, L’altro, in Id., Tutte le poesie, p. 309, v. 21.
149
Francis Jammes, Amie, souviens-toi, in Id., Oeuvres, Paris, Mercure de France, vol. I, p.
200, v. 17.
150
Cfr. Filippo De Pisis, Paese antico, in Id., Poesie, p. 79, vv. 10-11.
151
Cfr. Angelo R. Pupino, L’astrazione e le cose nella lirica di Sergio Corazzini, Bari,
Adriatica, 1969, p. 112.
152
Corrado Govoni, Natale, in Id., Le fiale, Firenze, Lumachi, 1903, p. 25, vv. 1-3.

236
La condizione crepuscolare del fanciullo

Quarta Elegia, definisce segnatamente come senza futuro.153 Il paese


dell’infanzia nel quale si formano il repertorio di immagini e il rifugio
per l’adulto garantisce un’evasione dallo svolgersi temporale e dalla gab-
bia sociale. Afferma Bachelard che la rêverie dell’infanzia risiede proprio
fuori dalla storia; si tratta di uno stato che esiste solo per «attimi d’illu-
minazione», ossia quelli che costituiscono «l’esistenza poetica»,154 inco-
sciente nel fanciullo e verso cui si dirige l’adulto. Restano da evidenzia-
re, da una parte, una direzione verso i luoghi dell’infanzia, intesa come
slancio verso un altrove immaginario – il «mondo altro»,155 insito nel
fanciullo – e, dall’altra, una direzione regressiva di rifugio o riduzione.
La forma più classica del paese dell’infanzia dove si torna fanciulli è
l’eden perduto degli anni innocenti, il baudelairiano verde paradiso di
Moesta et Errabunda. Punto di riferimento per l’intera esistenza dell’in-
dividuo, l’infanzia – a condizione che sia stata un momento felice, ovvia-
mente, o per lo meno non traumatico – serba l’atmosfera di un paradiso
innocente verso cui ci si rivolge, sia con triste nostalgia che con dolce
rammarico, perché si ha l’impressione che con l’infanzia sia stata per-
duta una forma di autenticità, una percezione innocente del vero, cioè
la comprensione intuitiva del mondo e delle cose. Scrive infatti Chiaves:

Vorrei essere, com’ero


a sei anni,
quando lieve era il pensiero,
quando ancor, fra i dolci inganni,
traspariva, a pena, il vero.156

153
Cfr. Rainer Maria Rilke, Die vierte Elegie, in Duineser Elegien, vv. 60-62. «Oh, ore
dell’infanzia, / quando dietro le figure c’era più che passato soltanto / e dinanzi a noi
il futuro non c’era», traduzione italiana di Enrico e Igea De Portu, in Elegie duinesi,
Torino, Einaudi, 1978.
154
Gaston Bachelard, La poétique de la rêverie, p. 85. Lo studioso parla anche della
«détemporalisation» degli stati di grande rêverie, ivi, p. 95.
155
L’espressione «mondo altro» è mutuata dal saggio di Marie-José Chombart de Lauwe,
Un monde autre: l’enfance, Paris, Payot, 1979, p. 96, ossia «un réel idéalisé que [l’en-
fant] est seul à voir».
156
Carlo Chiaves, Fanciullezza, in Id., Tutte le poesie edite e inedite, p. 200, vv. 1-5.

237
Quarto capitolo

Anche Govoni, alla fine della sua vita, quasi settantenne, esclamava an-
cora: «Vorrei essere ancora quel bambino / che [...] / correva nel cortile /
a perdifiato [...]».157 E ancora Chiaves celebra «l’età dei giochi»158 della
felicità infantile natalizia, contrapposta alla solitudine del presente vuo-
to, mentre Marrone propone una versione meno nostalgica e più amara
dello stesso ricordo natalizio, puntando sulla scomparsa, tramite l’im-
magine del naufrago che è diventato adulto: «Dove son io fanciullo? / Il
mio presepio è brullo, / abbandonato, spento».159 La forma condizionale
del ricordo d’infanzia («Vorrei», nei versi di Chiaves e Govoni) si trasfor-
ma, per Marrone, in inutile domanda sulla propria condizione adulta in
cerca del fanciullo, mentre il finale disilluso della poesia, sostenuto da
tre aggettivi negativi consecutivi, si contrappone alla nostalgia allegra di
Chiaves; si noti fra l’altro che «fanciullo» rima con «brullo», pure come
nel già citato Un pianto nella sera di Civinini.
L’appartenenza del fanciullo a questo dolce e irraggiungibile “mondo
altro” lo rende dunque simile al poeta creatore di immagini, e viceversa
il poeta estraneo al mondo sociale si identifica al fanciullo scoprendo
il proprio paese dell’infanzia. Il primo opera uno slancio intuente ver-
so l’immaginazione, il secondo segue una strada lirica verso il paradiso
perduto. Un’immagine di questo paradiso perduto è offerta per esempio
dal parco nel quale Vallini immagina – in quattro sonetti – di vedere una
donna misteriosa. Rivolgendosi a lei, il poeta evoca un «infinito ritorno
delle cose / nel tempo!»,160 simile al ciclo della natura che rifiorisce, ma
questo ritorno assume una valenza nuova perché si riferisce anche alla
disposizione infantile al ciclo dell’immaginazione feconda:

Ben ti conobbi allora ch’io bambino


di tutto ignaro, presentivo il lento
svolgersi della favola infinita,

157
Corrado Govoni, Vorrei essere ancora, in Id., Poesie 1903-1958, p. 347.
158
Carlo Chiaves, Il presepio della mia infanzia, in Felicità e malinconia. Gozzano e i
crepuscolari, p. 168, v. 75.
159
Tito Marrone, L’albergo, in Id., Antologia poetica, vv. 25-27.
160
Carlo Vallini, La donna del parco, in Id., Un giorno e altre poesie, p. 54, IV, vv. 5-6.

238
La condizione crepuscolare del fanciullo

quando, fiorendo a maggio il mio giardino


triste, con indicibile sgomento
m’atterrivo a quell’impeto di vita!161

Vallini ritrova se stesso fanciullo innocente, ma già intuente di una


«favola infinita» che avrebbe costituito una fonte d’immagini per la sua
futura ispirazione. L’età infantile in questa poesia permette il ricordo
dell’intuizione di un «impeto di vita» – di sapore dannunziano – che
contraddistingue la mente fanciulla. Nondimeno, questo movimento
del poeta adulto verso l’infanzia non si limita a un nostalgico viaggio
a ritroso, ma comporta anche la conferma che tale cammino à rebours
presuppone la delusione dell’impossibilità.162 Il proprio essere “poeta
fanciullo” non è più solo la nostalgia dell’eden, ma diventa altresì una
forma di fuga irrisoria dal presente: «un poeta che si mostra / su un
cavallo della giostra / sembra il pagliaccio ch’egli è!».163 L’età primor-
diale, quale venne delineata da Vico, viene ridotta dai crepuscolari a
uno stato di eterna fanciullezza simbolica per l’adulto che si illude di
poter vincere i misteri, mentre in realtà rimane impotente di fronte ad
essi, limitandosi quindi al gioco:

È dell’uomo l’età sempre fanciulla.


Egli con cuore indomito si scaglia
contra i misteri: nella sua battaglia
crede operare e invece si trastulla.164

Ricordarsi dell’infanzia e ritrovare se stesso fanciullo significano negare


il quotidiano e la sua invalidità, e nel contempo affermare un bisogno di
origini verso cui dirigere la propria nostalgia. Una lirica di Oxilia ci offre
un esempio di questo viaggio a ritroso. La pioggia viene considerata qui
come l’elemento della memoria involontaria incentrata sul motivo della

161
Ivi, vv. 9-14.
162
Cfr. Ferdinando Pappalardo, Introduzione, in Marino Moretti, Poesie scritte col lapis,
Bari, Palomar, 2002, p. 13.
163
Moretti, La giostra, in Id., Poesie scritte col lapis, ivi, p. 124, vv. 59-64.
164
Giulio Gianelli, L’uomo, in Id., Tutte le poesie, vv. 1-4.

239
Quarto capitolo

scoperta dei sensi tra fanciulli. Si trovano le future figure proustiane


delle fanciulle in fiore a fare del ricordo d’infanzia una rêverie in quat-
tro terzine, in corsivo rispetto alla descrizione del presente. Studio di
bianco e nero contrappone quindi il presente in bianco, nero e grigio di
una triste passeggiata lungo il Po al ricordo pieno di fresche sensazioni
di un bacio innocente che l’io bambino diede ad una fanciulla. La poe-
sia (interrotta da una riga di puntini) si conclude con la tristezza, quale
condizione esistenziale ribadita in anafora con la semplice e dimessa
formula: «Sono solo. Ha piovuto [...] / Sono triste e non so perché. / [...]
Sono triste...».165 La condizione presente giustifica il bisogno del ricordo
che si trasforma in aspirazione alla regressione, non più solo come rim-
pianto bensì come rifugio necessario, quale lo evoca Chiaves parlando
della «fanciullezza che scordar non so»,166 costantemente suscitata da
elementi del presente.
La regressione verso l’infanzia non si limita alla mera nostalgia ma assu-
me la valenza di una vera e propria difesa contro la condizione presente.
È il caso di Corazzini che fa dell’infanzia uno schermo contro l’assenza
di prospettiva, per via della malattia che gli nega ogni speranza nella
vita adulta. Il ritorno alla stato puerile per Corazzini, oltre alla sua fun-
zione di desublimazione, si presenta quale «unica forma di vita».167 La
condizione del fanciullo, intesa come condizione esistenziale, si trasfor-
ma di conseguenza in mito personale dell’innocenza («la santa felicità
infantile»):

Mamma questa è la vita? Allor la santa


felicità infantile non perdura?
Il riso che irradiava la mia pura
fronte, non verrà più?! Ah mi si schianta

165
Nino Oxilia, Studio di bianco e nero, in I crepuscolari. Saggi e composizioni, p. 149-
150.
166
Carlo Chiaves, Ritornando, in Id., Tutte le poesie edite e inedite, p. 205, v. 8.
167
Giorgio Savoca, Forme della regressione nella poesia di Corazzini, in «Io non sono un
poeta», p. 231.

240
La condizione crepuscolare del fanciullo

l’anima, mamma mia, ed ho paura!


Io mi sento morire! Quanta, quanta
dolce felicità di bimbo, ha infranta
con l’andar della vita, la sventura!168

Esortando il fratello, il poeta afferma la negazione della vita in corso per


una fissazione nel passato infantile, nella puerizia idealizzata: «Tu non
vivrai che di Passato: ti sarà, in tal modo, assai men grave fuggir la spe-
ranza e la vana felicità».169 La non speranza che contraddistingue la con-
dizione del poeta adulto implica di conseguenza un movimento a ritroso
verso la fanciullezza ideale, perché la speranza appartiene proprio al
mondo dell’infanzia. La generazione crepuscolare non si riconosce nelle
norme del suo tempo, perciò va in cerca di un’anteriorità esistenziale.
Nondimeno, la condizione infantile e le figure di fanciulli permettono
anche di decifrare soggettivamente e poeticamente il tempo presente,
diventano perfino strumenti per formare una «contro-immagine» sociale:

Rievocare l’infanzia e considerare importante quel ricordo è possibile sol-


tanto in una società nella quale i bambini non sono più piccoli adulti e gli
adulti non sono più dei grandi bambini, cioè una società nella quale chi
vuole diventare uomo deve scomparire come bambino. L’infanzia ricordata
può esistere soltanto come contro-immagine di una società che definisce
l’“essere umano” come illuminato, razionale, civilizzato ed educato, cioè
come un adulto (o piuttosto l’ideale di adulto).170

La narrativa inglese ha offerto, a questo proposito, un personaggio emble-


matico, Sebastian Flyte, protagonista di Brideshead revisited di Evelyn
Waugh (1945). Il ragazzo ventenne, nato nella cosiddetta “generazione
perduta”, nega il presente usando lo schermo di un orsacchiotto, ver-
sione irrisoria del ritorno verso l’infanzia, giocattolo esibito a simbolo
del rifiuto di assumere la responsabilità che gli impone la società degli

168
Sergio Corazzini, Vinto, in Id., Poesie edite e inedite, p. 191, vv. 1-8.
169
Sergio Corazzini, Esortazione al fratello, ivi, p. 112.
170
Dieter Richter, Il bambino estraneo (la nascita dell’immagine dell’infanzia nel mondo
borghese), Scandicci (Fi), La Nuova Italia, 1992, p. 309.

241
Quarto capitolo

adulti. La regressione tende a compensare la vanità e la nullità del tempo


presente tramite la radice del passato personale pre-adolescente. I po-
eti crepuscolari non sono giovani adulti che rifiutano l’età adulta, bensì
adulti che si proteggono con una rêverie d’infanzia, visto che la lirica ha
perduto ormai ogni sua funzione civile e sublime. L’infanzia idealizzata
dal ricordo fa da contraltare al presente nonché al futuro che essa ignora,
poiché rimane fuori dal tempo e porta una sorta di «appagamento affet-
tivo»171 al poeta adulto: «l’unica salvezza dal cedere al buon senso di
una esistenza borghese, risulta essere l’assenza, pura condizione dell’in-
tellettuale, il quale, negando sentimento e azione, nega nel contempo,
l’inammissibilità della regola sociale»,172 donde la ricerca del passato
come «salvezza».173 Il poeta adulto crepuscolare (ma non si dimentichi
che questi poeti, negli anni dal 1900 al 1910, avevano solo tra venti
e trent’anni) sceglie la negazione della storia, l’autocompiacimento del
malato, il gioco del saltimbanco, o il dolce ricordo regressivo, in rapporto
con il fanciullo che egli rappresenta o tenta di ridiventare nei versi.174 La
ricerca della «santa felicità infantile» (Corazzini, Vinto) è un’alternativa
alla serietà del mondo adulto. Il ritorno al passato infantile assume quin-
di l’aspetto di pulsioni regressive di autocompiacimento (in Corazzini),
oppure di dolce e falsamente consolatoria nostalgia (in Moretti), o ancora
di riso e falsa ingenuità (nella trasgressione infantile di Palazzeschi). Il
poeta si lascia quindi guidare:

Tu che mi guidi per mano


lungo le gelide vie,
senza parlarmi, straniero,
dove mi porti? Io ti seguo

171
La formula è mutuata da Rita Fantasia - Gennaro Tallini, Poesia e rivoluzione (simbo-
lismo, crepuscolarismo, futurismo), Milano, Angeli, 2004, p. 114.
172
Ivi, p. 144.
173
Il sostantivo «salvezza» viene anche usato da Angelo R. Pupino in L’astrazione e le
cose nella lirica di Sergio Corazzini, p. 174.
174
Cfr. Giuliano Ladolfi, Proposta di interpretazione del Decadentismo, in “Otto/Nove-
cento”, n. 2 (marzo-aprile 1995), pp. 127-169, 144.

242
La condizione crepuscolare del fanciullo

docile: sono un fanciullo


docile. Oh portami al sole!
Io non so stare nell’ombra
senza la mamma vicina.175

Marrone in questa lirica esprime una regressione ispiratrice mediante


l’interessante aggettivo «docile», evidenziato dall’enjambement e dall’a-
nafora. L’aggettivo significa la disposizione dell’adulto per una regres-
sione verso l’infanzia – ossia dalla tenebra gelida verso la luce calda del
sole, dai mali terreni all’innocenza primeva –, e nel contempo si rinforza
la natura sentimentale di tale ritorno, giacché il bisogno di ritrovare la
propria condizione infantile determina il riconoscimento autoirrisorio di
un bisogno materno.
Non si dimentichi, per concludere, che alcuni poeti crepuscolari si sono, a
un momento della loro produzione, rivolti direttamente o indirettamente ai
fanciulli, scrivendo veri e propri testi per i piccoli, oppure usando nei loro
versi la dimensione fiabesca propria dei racconti per l’infanzia. Così, nel
1919, Govoni partecipò all’elaborazione di una raccolta di poesie e prose
illustrate per l’infanzia, Il libro del bambino, nel quale scrisse liriche su
San Francesco, Dante e Garibaldi.176 Anche Gozzano scrisse varie poesie
per l’infanzia, come La canzone di Piccolino.177 Il mondo della fiaba per i
bambini costituisce materia lirica pure per Marrone, in cerca di un «para-
diso dell’immaginazione» dove rifugiarsi. In Puccettino, incluso in Favole
e fiabe, s’incontra il personaggio ben conosciuto dai piccoli che si esprime
in prima persona per descrivere il suo cammino.178 Tuttavia, la nota figura
fiabesca non serve a raccontare una storia ai piccoli, ma si potrebbe dire

175
Tito Marrone, Un fanciullo, in I crepuscolari. Saggi e composizioni, p. 358, vv. 1-8.
176
Cfr. Edoardo Sanguineti, Il bambino déco, in Id., La missione del critico, Genova,
Marietti, 1987, pp. 50-59.
177
Pochi indizi rimangono sulla probabile partecipazione di Gozzano a riviste per l’in-
fanzia (“Il Corriere dei piccoli” e “Adolescenza”), come indica la nota a un gruppo di
sei liriche sparse, nel volume Tutte le poesie, pp. 784-785. Si possono citare Pasqua,
La Befana, Natale. Tuttavia il poeta pubblicò anche raccolte di fiabe e racconti per i
piccoli (I tre talismani e La principessa si sposa, postuma).
178
Cfr. Tito Marrone, Puccettino, citato in Farinelli, «Perché tu mi dici poeta?», pp.
90-91, vv. 1-5.

243
Quarto capitolo

che essa acquisti una valenza autobiografica – quale risposta fanciullesca


alla ricorrente domanda crepuscolare “chi sono?” –, giacché Puccettino
condivide con l’autore la condizione del giovane adulto in cerca del cam-
mino verso il ricordo d’infanzia, grazie alle pietre seminate lungo la strada.
Per Chiaves, invece, la fiaba viene impiegata in modo più palesemente
dissacratorio: adopera la materia immaginaria del mondo infantile per pa-
rodiarla. Il riferimento è ovviamente alle tre poesie Cenerentola, Cappuc-
cetto rosso e La bella e la bestia, tutte pubblicate su un settimanale umori-
stico (“Numero”) e non su una rivista per i piccoli. Nei primi due testi, le
tradizionali figure delle bimbe innocenti sono in realtà delle adolescenti,
in età di sposarsi per la prima e di perdere la verginità per l’altra. Chiaves
usa qui il vocabolo «bimba»179 per effettuare una parodia dell’ingenuità e
dell’innocenza infantili, traviando la fiaba per i piccoli quale venne tra-
mandata dalla tradizione, ma ritrovando forse l’ambiguità primitiva che
comportavano questi racconti. Nelle tre fiabe la bambina conosce in modo
più o meno violento la realtà dei sensi.180 Il mondo fiabesco sovvertito dalla
parodia trasforma le fanciulle in giovani donne: l’imprudente Ceneren-
tola sposa il principe, mentre Cappuccetto si beffa del lupo che aveva
preso la sua verginità. Moretti ha pure evocato le figure infantili di «Puc-
cetto e Cappuccetto», come due eroi autentici e nostalgici di un mondo
perduto, quello della scuola e della lettura di fiabe.181 All’interno di un
quadro fiabesco, si trovava già, in Moretti, una versione generica della fan-
ciulla, protagonista di molte liriche della silloge La serenata delle zanzare
(1908).182 In questi poemetti, l’infanzia è «una regione infestata di mostri
[...], tratteggiata dal poeta come un’inevitabile arrendevolezza alla violen-
za, all’effrazione».183 Nella lirica Gli uccelli della nonna, per esempio, si
vede una giovane orfana paragonata all’uccellino abbandonato, e diventa
poi una giovane sposa impaurita dall’amore – proprio come nella fantasti-

179
Ai vv. 18 e 28 per Cenerentola, e al v. 9 per Cappuccetto rosso, in Gozzano e i crepu-
scolari, pp. 147-151.
180
Cfr. ivi, p. 150, vv. 49-52.
181
Cfr. Marino Moretti, Elegia dei libri perduti, in Id., Il giardino dei frutti.
182
Cfr. Marino Moretti, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1966.
183
François Livi, La parola crepuscolare: Corazzini, Gozzano, Moretti, Milano, IPL, 1986,
p. 172.

244
La condizione crepuscolare del fanciullo

cheria della giovane Viola di Pascoli, nel Chiù –, che tende a menomare
la propria persona di fronte all’uomo, visto fanciullescamente come un bel
cavaliere. Moretti delinea, in questa raccolta, figure di bambine fragili,
innocenti e diminuite ma inserite nella realtà della vita, con il matrimonio,
per esempio. Esse sono delle giovani impotenti di fronte all’uomo preda-
tore (si veda il poemetto La favola dell’orco) o destinate alla morte precoce
(si veda Gelosia). In Palazzeschi, invece, il mondo della fiaba si unisce a
quello della favola, e si deve intendere come una chiave di lettura. Egli
offre uno scenario fantastico alle prime poesie delle sillogi Cavalli bianchi
e Lanterna, tramite giovani principi (per esempio ne La gavotta di Kirò,
Il principe bianco, Vela lontana). Il mondo fantastico dell’infanzia propone
un modello al poeta per filtrare la propria immaginazione lirica: non si trat-
ta di poesia per l’infanzia, bensì di una poesia che gioca con i codici delle
favole per i bambini.184 Più che il nostalgico ritorno al paese dell’infanzia è
quindi la feconda immaginazione infantile ad ispirare Palazzeschi, un’im-
maginazione che agisce nella temporalità magica delle fiabe e delle favole.

4.3.2 Il cronotopo della casa d’infanzia


Rodenbach proponeva la descrizione della casa d’infanzia come meta
del viaggio verso la puerizia. In Le miroir du ciel natal (1898) si ve-
dono in effetti molte immagini topiche, che saranno riprese tali quali
dal crepuscolarismo, soprattutto il luogo magico della vecchia casa.185
Rodenbach evoca un vero e proprio cronotopo, in quanto stabilisce un
rapporto diretto fra la struttura spaziale (la vecchia casa) e quella tem-
porale (la fanciullezza). Mentre evoca con un tono elegiaco la casa di suo
padre, Govoni riconosce, nell’idillio agreste Casa paterna: «ed io son
grande e non credo più nulla».186 Govoni vi esprime infatti l’imminen-

184
Adele Dei parla di un «meccanismo regressivo e ludico» verso il paese dell’infanzia,
ma fungendo «da copertura, da difesa» per il poeta mistificatore alla ricerca della
propria libertà lirica, in Giocare col fuoco, in Palazzeschi, Tutte le poesie, p. XXI.
185
Cfr. Georges Rodenbach, Les femmes en mante, in Id., Le miroir du ciel natal, Biblio-
thèque-Charpentier. Fasquelle, 1989, p. 36, XIV, vv. 1-8.
186
Corrado Govoni, Casa paterna, in Id., Antologia poetica, a cura di Giacinto Spagno-
letti, Firenze, Sansoni, 1953, pp. 92-96. Una lirica sullo stesso argomento si trovava
già nella silloge del 1905, Fuochi d’artifizio, con il titolo Nella casa paterna, ivi, p. 45.

245
Quarto capitolo

te perdita dei terreni di famiglia che egli dovette vendere per difficoltà
economiche nel 1914, e in generale la perdita del mondo domestico. La
visita lirica alla casa d’infanzia permette di esprimere un sentimento di
negatività nei confronti del presente, insieme al balsamo positivo del
dolce ricordo familiare, sicché questo cronotopo permette di ritrovare
non solo un luogo o un tempo felici, ma anche il ricordo di uno stato di
cui si è tranquillamente malinconici.187
Due poeti crepuscolari hanno elaborato un gruppo di liriche specifi-
camente dedicate alla visita alla casa d’infanzia: Gozzano ne I sonetti
del ritorno (in cui evoca la casa di Agliè) e Vallini ne I sonetti della
casa (in cui evoca la casa di Montecavolo). Il fatto che Vallini abbia
scritto un gruppo simile a quello di Gozzano non è però affatto casuale,
dato che i due poeti torinesi erano amici, e il primo ha concepito le
liriche a partire dal modello offerto dal secondo. Il motivo del ritorno
nello spazio domestico dell’infanzia costituisce un topos della lirica
simbolista, e per la poesia italiana un modello, già ben studiato, fu il
Poema paradisiaco di d’Annunzio. Descrivere la casa dove si è vissuti
da piccoli significa quindi ripiegarsi sopra la memoria dell’infanzia,
ritrovare lo spazio protetto e chiuso della famiglia; tale operazione re-
gressiva comporta però la triste coscienza dell’irrimediabile trascorre-
re del tempo e, di conseguenza, l’idea del “non più”, il sentimento del
tempo perduto. La visita alla casa d’infanzia presuppone l’illusione di
tornare fanciulli e la simultanea consapevolezza dell’impossibilità di
questo ritorno, donde un disagio. Nella sua silloge di sonetti, Gozzano
rivisita la casa del padre di suo padre (mentre Vallini visita la casa del
nonno materno), benché in realtà il cronotopo gozzaniano risulti dalla
mescolanza ideale fra la casa del nonno paterno con quella materna
di Agliè. Il luogo viene dapprima nominato con l’iniziale maiuscola in
forma di vocativo: «o Casa, perché sbarri con le corde / di glicine la
porta del ricovero?».188 Si noti come la pianta invadente – immagine
del tempo trascorso – venga usata come simbolo della separazione fra
il presente e il tempo ritrovato, quale un «ricovero» al quale si possa

187
Cfr. Bachelard, La poétique de la rêverie, p. 111.
188
Guido Gozzano, I sonetti del ritorno, in Id., Tutte le poesie, p. 98, I, vv. 3-4.

246
La condizione crepuscolare del fanciullo

accedere dopo un passaggio di natura quasi fiabesca («La clausura dei


tralci mi rimorde / l’anima come un gesto di rimprovero»).189 La casa e
il giardino diventano un luogo ideale perché sono situati in campagna
e non nello spazio urbano metropolitano della capitale piemontese. Il
fatto che nel quinto sonetto venga ripetuto, con rima interna, il voca-
bolo «frutteto», in due versi consecutivi, rinforza la valenza concreta
e simbolica della natura campestre, ora dispensatrice di frutti per la
casa (le delizie della natura concesse da Gesù, nel quarto sonetto),
ora luogo topico della memoria perduta da ritrovare («tra i frutti del
frutteto solatio. // Verresti dal frutteto dell’oblio»).190 La casa descritta
diventa così luogo del ritorno allo spazio campagnolo, quindi al tem-
po primordiale dell’infanzia, nonché al tempo della scoperta e della
rivelazione di misteri.191 In effetti, le piante e gli alberi suggeriti nelle
liriche sulla nostalgia della casa d’infanzia costituiscono elementi pri-
mordiali nell’operazione memoriale. Fra dolce parodia di certa lirica
georgico-sentimentale e sincera nostalgia per la casa del passato, la
prima terzina del secondo sonetto di Gozzano appare quindi come un
paradiso protetto, un «dolce romitaggio!».192
In ambedue le collane di sonetti, le caratteristiche di questo cronotopo
casa-giardino-infanzia sono il silenzio, la fissità, ossia uno spazio senza
tempo («senza vita e senza suono / [...] nel tuo sonno eterno»,193 scrive
Vallini) dove rimangono vecchi oggetti testimoni muti, e l’odore del
vecchio, confusi in una sinestesia tramite la quale la memoria viene
messa in moto dalle sensazioni. L’aspetto, l’odore e gli oggetti della
vecchia casa abbandonata suscitano un movimento che porta verso il
passato infantile, perché il ritorno ad esso interviene soprattutto, se
non esclusivamente, “proustianamente”, ossia sul piano delle sensa-
zioni provate durante la visita al mondo perduto. Per esempio, Goz-
zano, rivedendo le decorazioni di alabastro nel salotto, apre un inciso

189
Ibid., vv. 5-6.
190
Ivi, p. 102, V, vv. 4-5.
191
Cfr. Chombart de Lauwe, Un monde autre: l’enfance, p. 272.
192
Gozzano, I sonetti del ritorno, in Id., Tutte le poesie, p. 99, II, v. 11.
193
Carlo Vallini, I sonetti della casa, in Felicità e malinconia. Gozzano e i crepuscolari,
p. 172, II, vv. 3 e 12.

247
Quarto capitolo

nel quale descrive se stesso piccolo, avido dei frutti finti: «martirio
un tempo del fanciullo ghiotto»,194 mentre Vallini evoca con più acuta
nostalgia «la vera / anima mia di bimbo» oppure «[la] mia innocenza
prima»,195 irrimediabilmente perduta. In ambedue i casi, la visita alla
casa d’infanzia provoca un movimento memoriale che porta l’adulto
a cercare nella propria fanciullezza l’origine dell’ispirazione, quindi
della poesia: Gozzano rivede i «princìpi» del proprio sogno (ossia il
fantasticare sui frutti finti del salotto), mentre Vallini tenta con la scrit-
tura di ritrovare invano il «bimbo» mediante «il buono [...] domestico
spirito custode»196 del nonno. Simbolo del passato e delle sue virtù, il
nonno costituisce nelle due raccolte un motivo per destare l’impulso
della fantasticheria infantile – in Gozzano –, e ricordare la saggezza
dei consigli ricevuti da piccolo – in Vallini. Gozzano invoca il padre
del padre che gli ha insegnato, vent’anni prima, la scienza della cam-
pagna insieme all’amore per i libri. Se il primo insegnamento sembra
esser stato dimenticato dal poeta torinese (la perdita del senso concre-
to della natura sarebbe qui una perdita dell’infanzia),197 la letteratura
invece ha provocato in lui una malattia incurabile che ha germinato,
come un vizio. Anche nella lirica L’analfabeta Gozzano evoca un an-
ziano ottuagenario, identico al nonno dei sonetti, simbolo di saggezza e
mediatore per il fanciullo che era l’io poeta. Con un’eco di Baudelaire,
Gozzano ricorda se stesso bambino «illuso dalle stampe in rame».198
Mentre per Vallini il nonno rappresenta prevalentemente un modello
ideale e perduto di virtù da cui il fanciullo ricevette consigli: «Ancora
la tua bella faccia onesta / tutta nella mia mente si rischiara, / quando
mi consigliavi».199 Qui appare il fanciullo ignaro, innocente, che im-
para dal nonno, secondo un ordine naturale dell’esistenza. Nel crono-
topo dalla casa d’infanzia Vallini rivede il nonno, ma improvvisamen-

194
Gozzano, I sonetti del ritorno, II, p. 99, v. 6.
195
Vallini, I sonetti della casa, p. 171, I, vv. 9-10 e p. 172, II, v. 11.
196
Ivi, p. 172, II, vv. 7-8.
197
«La scienza dei concimi / dell’api delle viti degli innesti!», in Gozzano, I sonetti del
ritorno, p. 100, III, vv. 3-4.
198
Guido Gozzano, L’analfabeta, in Id., Tutte le poesie, p. 81, v. 180.
199
Vallini, I sonetti della casa, p. 173, III, vv. 1-3.

248
La condizione crepuscolare del fanciullo

te, mediante una continuità sintattica fra il terzo e il quarto sonetto,


irrompe la consapevolezza del presente che fa scomparire il nipotino
ricordato nella lirica precedente.200 La visita nel paese dell’infanzia sta
diventando una visita nel museo della propria vacuità, perché il poe-
ta riconosce l’inganno dell’illusione e del sogno; Vallini lamenta, alla
fine, la «triste illusione / d’un tempo».201 Per Gozzano invece, con più
ironica amarezza, la coscienza del tempo irrimediabilmente perduto si
esprime sotto la forma di un lamento quasi metafisico: «l’implacabilità
dell’Universo / ride d’un riso che mi fa paura»,202 preludio all’ultimo
sonetto della raccolta nel quale l’autore alza il discorso a considerazio-
ni generali sulla possibilità di morire in mezzo alle cose dello spazio
desiderato. Per Gozzano e Vallini, morto il nonno, sono anche scompar-
si i suoi valori. Il primo poeta sancisce la scomparsa di Gesù e quindi
della speranza,203 mentre per Vallini rimane solo l’illusione offerta dal
sogno: «ma tu non [...] fuggire, anima: sogna»,204 solo vero rifugio di
fronte alla situazione di blocco esistenziale definita in conclusione del
secondo sonetto della sezione, con il «pianto non pianto».
Per quanto riguarda gli altri poeti crepuscolari, la casa d’infanzia assume
pressappoco le stesse caratteristiche, come per esempio in varie liriche
di Chiaves dove spicca la vecchia dimora in campagna, rovinata, piena
di ricordi emblematici del passato e simboli del dissolvimento operato
dal tempo (si vedano Il pino, Il cespuglio, La vecchia porta e La pietra cor-
rosa, nella silloge Sogno e ironia). Ne Il pino però è l’elemento vegetale
nel giardino della casa d’infanzia a suscitare il ricordo di se stesso fan-
ciullo205 e, anziché provocare l’idea del decadimento, la sua forza natura-
le fa simbolicamente da contraltare alla precarietà dell’essere umano. La
stessa idea di contrapposizione si trova d’altronde nell’albero del parco

200
Cfr. ivi, p. 174, IV, vv. 1-4.
201
Ivi, p. 176, VI, vv. 1-2.
202
Gozzano, I sonetti del ritorno, p. 102, V, vv. 13-14.
203
Cfr. ivi, p. 101, IV, v. 14.
204
Vallini, I sonetti della casa, p. 176, VI, v. 14.
205
«Per forza e per beltà / primo del mio giardino, / io ti guardai, bambino, / con pavida
umiltà», Carlo Chiaves, Il pino, in Id., Tutte le poesie, p. 95, vv. 13-16.

249
Quarto capitolo

d’infanzia evocato da Martini, ne Il cipresso.206 La descrizione della casa


del passato offre a Oxilia l’occasione di un sonetto rovesciato con la terza
lirica di Secondo intermezzo, in cui il poeta, nostalgico del paese alpino
piemontese, esclama, imitando Gozzano, ma senza l’ironia del pessimo
gusto delle «buone cose»: «O mia casa! Con quale dolce fiato / ritornerò
ad aprire le tue porte / e rivedrò tutte le cose morte, / tutte le buone cose
del Passato!».207 Il cronotopo acquista la sua piena valenza in quanto
l’interno della casa familiare rinchiude la materia del tempo felice per-
duto, allegorizzato con la maiuscola, perché include il ricordo di tutte le
immagini della casa. La nostalgia della casa d’infanzia significa in real-
tà il rimpianto d’un frammento di tempo, perché l’immagine nostalgica
non è che la forma concreta del rimpianto dell’attimo. Il cronotopo della
casa d’infanzia viene determinato da un bisogno di origini che provoca
la nostalgia del “non più”, sicché, secondo Jankélévitch, per colmare
l’assenza del luogo felice non occorre tornare sul posto, bensì praticare
un movimento a ritroso nel tempo, cioè una «retrogradazione verso il
passato»,208 che la poesia crepuscolare interpreta in termini di regressio-
ne temporale della forte valenza esistenziale.

4.3.3 La scuola e la madre


Il poeta crepuscolare più propenso ad evocare la dimensione scolastica
del proprio paese dell’infanzia, idoleggiandola tramite i ricordi, è certa-
mente Moretti. Basti pensare alla sezione della silloge Il giardino dei frutti
intitolata Poesie scolastiche che fa rivivere la realtà dei banchi di scuo-
la. La scuola, nel poeta romagnolo, è particolarmente connotata come un
momento felice e irrepetibile; nella sua lirica lo scolare, l’ambiente della
scuola e la maestra tengono un posto tutt’altro che secondario o strumen-
tale. Dal punto di vista biografico, bisogna ricordare che la madre del po-
eta fu maestra alle scuole elementari, e questo personaggio ricreato più

206
Cfr. Fausto Maria Martini, Meditazione – Il cipresso, in Id., Le piccole morte, Tori-
no-Genova, Streglio, 1906.
207
Nino Oxilia, Secondo intermezzo, in Id., Poesie, p. 154, III, vv. 11-14.
208
Vladimir Jankélevitch, L’irréversible et la nostalgie, Paris, Champs Essais, 1974, p.
368.

250
La condizione crepuscolare del fanciullo

tardi dall’ispirazione poetica fa rinascere il mondo delle aule. Ma anche


la sorella del poeta, quella evocata da giovane sposa, esercitò lo stesso
mestiere della madre, e viene ricordata per esempio ne La maestrina, men-
tre lavorava a Forlì prima di fidanzarsi. La domenica della signora Lalla,
rievoca invece un’altra maestra, attraverso le care memorie dell’infanzia
morettiana, generando nei versi un repertorio di oggetti e immagini, simili
agli elenchi di oggetti osservati nella casa d’infanzia rivisitata da Gozzano
e Vallini. L’operazione memoriale consiste in questo caso nel ritrovare con
l’immaginazione il mondo della scuola, considerato come un equivalente
del rifugio ricercato dall’adulto in cerca dell’autenticità e dell’innocenza,
da contrappore alla noia provata, ossia a «l’anima stanca»:

Quando l’anima è stanca e troppo sola


e il cuor non basta a farle compagnia
si tornerebbe discoli per via,
si tornerebbe scolaretti a scuola.

Oh sì! Prendiamo la cartella scura,


il calamaio in forma di barchetta,
i pennini la gomma e la cannetta,
la storia sacra e il libro di lettura...209

La memoria del passato trascorso a scuola non comporta, per ora, nessun
ricordo negativo e doloroso, anzi viene rivissuto idealmente dalla mente
adulta che lo ha sublimato, quasi fosse una favola per i bambini traman-
data all’uomo adulto. In effetti, nella stessa lirica, Moretti precisa: «C’era
una volta – ora mi viene in mente – / la scuola della festa... Era una scuola
/ alla buona [...]».210 Il tempo della memoria, abolendo le coordinate og-
gettive, diventa quello soggettivo della mente mentre sta fantasticando a
partire dai propri ricordi. Nondimeno, alla fine della poesia, un legame
viene stabilito tra il fanciullo apprendista poeta a scuola e il poeta adulto
che si identifica al fanciullo: il primo scriveva i compiti mentre il secon-

209
Marino Moretti, La domenica della signora Lalla, in Id., Poesie scritte col lapis, p.
55, vv. 1-8.
210
Ivi, vv. 21-23.

251
Quarto capitolo

do, quasi vergognandosi, scrive versi che definisce come «vani [...] / uno
scherzo»,211 e vorrebbe che la maestra li leggesse come se correggesse
ancora un compito; si tratta di una regressione nella quale la maestra Lalla
potrebbe anche essere la madre stessa del poeta («Io t’amo, e tu sei viva,
o muta / imagine che guardi i miei quaderni / d’ora»).212 Il legame d’affetto
filiale per la madre maestra si mescola, nelle liriche, al legame d’affetto
provato dal fanciullo maschio per la giovane maestra che doveva essere la
prima figura femminile veramente contemplata fuori dall’ambiente dome-
stico, come nel ricordo che costituisce la materia de La signora più vecchia
di me. In un’ambigua manifestazione d’affetto (un morettiano complesso di
Edipo?) si leggano le ultime quartine della lirica, nelle quali il poeta adul-
to si rivolge alla giovane maestra, appena ventenne, che aveva a scuola:

E vi direi prendendovi le dita


un po’ indurite, un po’ forate in cima:
“Posso giurarti che tu sei la prima
donna che adoro, che amo per la vita!”

E allora, con un gesto un po’ materno,


voi mi direste, flebile, “Bambino!”,
ma mi verreste sempre più vicino
per sussurrarmi: “T’amerò in eterno!”213

Si noti come Marrone darà invece una rappresentazione radicalmente


differente della maestra, nella sua poesia Scuola, in cui appare una
donna già vecchia, in mezzo ad oggetti che rinforzano soprattutto l’i-
dea di decadimento generale più che di dolce memoria.214 In Moretti,
l’affetto provato per la figura femminile a scuola risponde all’affetto
dell’adulta per il bambino, come una seconda madre che restasse pe-
rennemente nella memoria. La prova d’affetto per la maestra viene però
controbilanciata da quella antitetica per il «pedagogo», cioè il severo

211
Ivi, vv. 49 e 52.
212
Ivi, vv. 41-42.
213
Marino Moretti, La signora più vecchia di me, ivi, p. 95, vv. 25-32.
214
Cfr. Tito Marrone, Scuola, in Id., Antologia poetica, p. 46.

252
La condizione crepuscolare del fanciullo

professore al ginnasio. In effetti, nella poesia di Moretti, se il mondo


della scuola corrisponde a quello sublimato dell’infanzia, gli anni del
ginnasio sembrano invece ricollegarsi ai ricordi meno felici dell’ado-
lescenza, come nelle poesie Il pedagogo oppure Omonimia.215 Il luogo
del ginnasio corrisponde infatti all’età della quasi adolescenza, e delle
prime manifestazioni di malinconia, in una condizione di solitudine
giovanile: «Nel collegio una bimba dai tratti confusi / tamburella con
la mano sui vetri chiusi».216 Il ginnasio viene visto come un preambolo
della vita adulta: in Moretti, il fanciullo innamorato della maestra a
scuola diventa in collegio un giovane ragazzo alla scoperta della pro-
pria sessualità. Così Il poeta nuovo permette di ricordare un episodio
del ginnasio – il poeta dice di aver tredici anni in quel momento – nel
quale gli alunni scoprirono l’effetto provocato dalla lettura di alcuni
passi di un libro che il maestro aveva formalmente proibito, ossia il
Trionfo della morte di d’Annunzio, che aprì al tredicenne «la voce acre
dei sensi».217 Nel presunto edipo scolastico morettiano, la dolce mae-
stra proteggeva e amava il fanciullo, mentre il duro professore rappre-
senta la figura paterna da sfidare (l’alunno dice addirittura di odiarlo,
in Un pedagogo), tramite l’ardita lettura di nascosto del libro proibito.
Nel ricordo crepuscolare dell’età scolastica, è anche interessante
prendere in esame il compagno fanciullo dell’io. Moretti immagina per
esempio un sodale che la memoria risuscita tramite la fantasticheria
dell’adulto in preda alla noia del presente, in Poggiolini. Partendo da
un incipit che possa rifarsi a L’aquilone di Pascoli, Moretti evoca il
bambino – tra maschile e femminile, perché rappresenta la figura ide-
ale che non ha ancora acquisito i connotati del proprio sesso – come se
fosse ancora vivo, quale mediatore per suscitare l’universo preservato
della scuola:

215
Per un’analisi di queste poesie cfr. Farinelli, «Perché tu mi dici poeta?», pp. 327-
328.
216
Corrado Govoni, In un vasto giardino, in I crepuscolari. Saggi e composizioni, p. 236,
vv. 7-8.
217
Marino Moretti, Il poeta nuovo, in Gozzano e i crepuscolari, p. 488, v. 24.

253
Quarto capitolo

Oh Poggiolini! Lo rivedo ancora


con quel suo mite sguardo di fanciulla,
e lo risento chiedermi un nonnulla
con una voce che... non so... m’accora.

Che cosa vuoi? Son pronto a darti tutto:


un pennino, un quaderno, un taccuino,
purché tu venga per un po’ vicino
al cuore che ti cerca dappertutto.218

Ma il compagno fanciullo deve rimanere fanciullo perché l’operazio-


ne memoriale possa raggiungere la meta, sicché l’io lirico rimuove la
sua espressione adulta, descritta attraverso il filtro dello statuto sociale
borghese garantito dal posto di lavoro («avvocato, chimico, tenente», v.
10, tre simboli dell’ordine sociale). Il compagno resta piccolo, quale è
rimasto nella fantasticheria del poeta, allo stato d’innocente scolare, e
solo così potrà ridare il sapore dell’infanzia perduta e quindi mettere in
moto la scrittura. Il puer divino ispiratore ideale della tradizione classica
assume ormai, in questa poesia, i connotati di uno scolare ben concreto,
immortalato prosaicamente dal suo cognome, e ancorato nella vita bor-
ghese di un adulto (si vedano le quartine in cui il poeta immagina la vita
quotidiana di Poggiolini in famiglia). Dopo un’invocazione alla ricerca di
questo tempo perduto comincia la rievocazione immaginaria del tempo
scolastico, rinforzata dall’elenco di cognomi di altri compagni. La con-
clusione ci porta invece al topos crepuscolare della presa di coscienza
della propria vacuità, con un’allusione simile a quella della fine de La
domenica della signora Lalla sull’attività poetica, dimidiata a confron-
to della vita probabilmente ben ordinata dei compagni diventati adulti.
Ritrovare la propria infanzia, tramite l’ambiente della scuola, implica
anche per Moretti il fatto di dover confrontarsi all’estraneità della pro-
pria situazione, rispetto a quella degli amici cresciuti, il che provoca la
dolcezza dell’affetto ritrovato insieme all’amarezza del dover tornare nel

218
Moretti, Poggiolini, in Id., Poesie scritte col lapis, p. 117, vv. 1-8.

254
La condizione crepuscolare del fanciullo

presente.219 Ma se l’estraneità sociale del poeta può apparire come una


prova della sua immaturità nel mondo regolato in cui è costretto a vivere,
il fatto di riconoscere la propria nullità conferma che forse l’unico adulto
vero è segnatamente il poeta, perché ha il coraggio di dichiarare questa
nullità e di farne dei versi, evitando di perdersi nell’illusione della norma
sociale. Lo stesso discorso è d’altronde tenuto da Chiaves, nella lirica Ad
un compagno di scuola, mentre evoca un giovane amico cresciuto adulto
e incontrato per strada. L’estraneità del poeta rispetto agli altri lo spinge
a rifiutare di andargli incontro, riconoscendo che, da una parte il tem-
po trascorso ha cancellato l’infantile «dolcezza / morta per sempre»,220
dall’altra si vergogna di essere diverso, in quanto poeta: «[...] voi mutaste
ed io no, / io solo, il vostro poeta!».221 L’attività di scrivere versi sembra
considerata come insita nella giovinezza, ossia incompatibile con la vita
adulta e i suoi impegni (nella seconda quartina del testo si legge in effetti
che il compagno intravisto è preso da «turbinose faccende, / immerso nei
gravi pensieri», vv. 5-6). Essere poeta da adulto verrebbe quindi assimi-
lato all’impossibilità di lasciare, di dimenticare l’età infantile, giacché
nel seguito della lirica si oppongono «le catene dei bisogni» (v. 41) della
vita adulta e «i sogni / [i] desideri, [gli] istinti» (vv. 43-44) della vita
passata a scuola. Il poeta adulto riconosce di esser rimasto, nel cuore,
com’era prima, e quindi di non aver subito la mutazione che lo avrebbe
trasformato in «un uomo che vada / perdutamente d’attorno // per turbi-
nose faccende» (vv. 3-5). La condizione crepuscolare del fanciullo risie-
de, per Chiaves, in tale riconoscimento all’interno della propria poesia,
senza rammarico: «il mio cuore è quello d’un giorno!» (v. 56), augurando
lo scatenarsi di un’energia infantile quale «un’eco possente, sonora, /
come di cinquanta canzoni!» (vv. 67-68).
Si consideri ora la regressione infantile in direzione della figura materna,
già intravista mediante l’evocazione della maestra in Moretti. Pascoli,
nel secondo canto de Il ciocco, aveva delineato l’emblematica figura ma-

219
Ivi, vv. 45-48.
220
Carlo Chiaves, Ad un compagno di scuola, in Felicità e malinconia. Gozzano e i cre-
puscolari, p. 153, vv. 13-14.
221
Ivi, vv. 19-20.

255
Quarto capitolo

terna consolatrice per il piccolo “malato”, ossia l’uomo pellegrino nella


vita: «[fanciulletto mesto!] / felice, se vicina al bianco letto / s’indugia la
tua madre che conduce / la tua manina dalla fronte al petto».222 La ver-
sione crepuscolare della madre riprende questo desiderio di protezione
nella vita adulta assimilata a una pena. Una lirica di Ruberti offre una
terzina particolarmente significativa di questa concretizzazione dell’af-
fetto materno originario ricercato in contrapposizione alla vita tormen-
tosa. In questo testo non è tanto la nostalgia dell’infanzia a motivare la
lirica bensì la pulsione di un passivo “vegetare” che spinge a ritrovare
la condizione primordiale di feto, allo stato soltanto abbozzato dell’e-
sperienza umana, quasi una pianta che stesse per sfiorire: «ma piango il
tempo quando senza voto, / senza pensiero e solo vegetando / ero germe
nell’alvo di mia madre».223 Il ricordo d’infanzia implica di ritrovare le
condizioni affettive dell’età infantile quando si era protetti dalla madre,
di conseguenza l’adulto prova ogni tanto il bisogno di ritrovare nella
memoria le dolci sensazioni dell’amore materno, ora considerato come
un rifugio, ora visto addirittura come una consolazione illusoria che dà
l’impressione di rimanere fanciulli. Marrone, in Un fanciullo, dichiara
di seguire docilmente lo slancio della memoria regressiva rivedendosi
piccolo e pauroso nel buio, senza la protezione della mamma:

[...] sono un fanciullo


docile. Oh portami al sole!
Io non so stare nell’ombra
senza la mamma vicina.

Quando la notte, dormivo,


io non temevo di niente;
c’era con me la mia mamma:
c’era nell’ombra la luce.224

222
Giovanni Pascoli, Il ciocco, in Id., Tutte le poesie, a cura di Arnaldo Colasanti, Roma,
Newton Compton, 2001, p. 310, II, vv. 167-169. Il movimento materno della mano
evoca il segno della croce.
223
Guido Ruberti, I rimpianti, in I crepuscolari. Saggi e composizioni, p. 401, vv. 13-15.
224
Marrone, Un fanciullo, ivi, p. 358, vv. 5-12.

256
La condizione crepuscolare del fanciullo

L’analogia tra la madre consolatrice e la luce rassicurante nel buio era già
stata usata nel poemetto di Pascoli I due fanciulli, ma qui non si tratta di
un apologo con valenza universale che possa parlare a tutti gli uomini, anzi
Marrone riduce la paura del buio a un probabile disagio provato nel tempo
presente, contro cui esprime liricamente un ritorno alla figura materna
protettrice, indispensabile guida per i «piccoli amici» fantasticati dall’io:
«Vedo lontani fanciulli. / Sono i miei piccoli amici?... / C’è la mamma
con loro?... / Sono contento. Sorrido».225 Il bisogno della madre viene an-
che riferito, nelle stesso poeta, al fatto di non poter vivere nel presente, e
nemmeno nel futuro – a causa della malattia –, sicché la madre diventa
patetica espressione della liberazione che fa intravedere la morte come
unica soluzione all’insopportabile sorte riservata da una vita nella quale il
gioco non è più possibile. È l’argomento di Canzone d’ospedale in cui, dopo
aver riconosciuto leopardianamente che la vita porta solo la delusione,226
il personaggio infantile identificatosi a una marionetta con cui giocava da
piccolo, chiama la madre per farlo morire (cioè, come recita il v. 35, per
portare al figlio «l’ultimo tuo balocco»): «Oggi il tuo Pulcinella / invoca più
benevola la sorte: / che tu, col tuo sorriso, / gli regali la morte».227 Ma nella
seconda parte del Secondo intermezzo, Oxilia, rievocando nel ricordo il pa-
ese alpino della sua infanzia, descrive il fluire intenso della linfa vegetale,
simile al proprio sangue, ed esclama improvvisamente: «te cerco, Madre,
origine di bene. // Madre!».228 La maiuscola consente di intendere il voca-
tivo sia come la genitrice dell’io sia come l’origine naturale dell’uomo, la
madre natura da cui tutto procede. In ambedue i casi si tratta di ritrovare
uno stato primordiale, quello che il poeta chiama «lo spirito di vita», nel-
la prima parte del testo. Alla fine del poemetto, si riprende l’invocazione
alla Madre in una visione di palingenesi vitalistica, insolita nella consueta
estetica crepuscolare, radicalmente opposta al sogno di scomparsa espres-
so nella lirica di Marrone in cui il bambino chiedeva alla madre l’ultimo
gioco per farlo morire. Qui invece Oxilia esalta una «felicità d’esistere al

225
Ivi, vv. 22-24.
226
Cfr. Tito Marrone, Canzone d’ospedale, in Id., Antologia poetica, v. 35.
227
Ivi, vv. 37-40.
228
Oxilia, Secondo intermezzo, in Id., Poesie, p. 153, II, vv. 6-7.

257
Quarto capitolo

mondo»,229 in stretto rapporto con la madre allegorizzata di cui dichiara


di essere il «figlio vagabondo» (v. 7). In effetti, la madre non incita qui a
nessuna regressione, ma provoca uno slancio vitale poiché, come ricordato
nella più famosa lirica dell’autore, Contraddizione, l’io reificato è «sperma
e mani e occhi e creta». La madre di questa poesia di Oxilia non appare
come una consolatrice, bensì una divina figura originaria che genera una
«maschia forza della vita».230
La regressione verso l’infanzia mediante l’evocazione della madre giun-
ge, nella lirica di Moretti, alla forma di un sogno di natura prenatale,
quale versione radicale del ritorno al passato e dell’identificazione
dell’io al fanciullo che era:

Forse io ricordo un dolce tempo ch’ero


tutto tuo, del tuo corpo e del tuo cuore,
quando non era in te, vivo pensiero
che non fosse di mia vita un bagliore.

Forse io sentivo ciò che tu sentivi


tacito nel mio chiuso nascondiglio;
[...]

ero come la docile bestiola


che nulla teme e nulla cerca e sa.
[...]

Ma un giorno uscii dal tuo sangue: m’arresi.


Fui cuor che piange, carne che dolora.
Troppo ero vecchio, avevo troppi mesi
per viver quella calda vita ancora.231

La versione prenatale della regressione assume in questa poesia, inti-


tolata appunto Il ricordo più lontano, una classica valenza di leopar-

229
Ivi, p. 155, V, v. 14.
230
Ivi, v. 8.
231
Marino Moretti, Il ricordo più lontano, in Id., In verso e in prosa, a cura di Geno Pam-
paloni, Milano, Mondadori, 1979, p. 22-23.

258
La condizione crepuscolare del fanciullo

diano rimpianto della nascita, insieme al riconoscimento crepuscolare


dell’esistenza come delusione rispetto all’eden primordiale della «calda
vita» nel ventre materno da cui ci si deve separare. In effetti, il mo-
mento natale viene laconicamente definito attraverso il verbo «m’arresi»,
isolato dall’interpunzione alla fine del secondo emistichio, con l’idea di
un’irrimediabile perdita che fonda la dolceamara nostalgia. Ma in questa
poesia la regressione alla figura materna si presenta come la dolorosa
perdita di un’identificazione originaria con il corpo materno («ero / tutto
tuo»), protettore e fine a se stesso in quanto costituiva l’unico universo
sensibile del fanciullo non ancora nato e nominato «bestiola», quella
che si ritrova nel vasetto trasparente che contiene «il piccol feto // [...]
quel pezzo, / quella larva di esistenza»,232 cioè l’abortito della lirica Pic-
cola storia scandalosa. Per Moretti la madre ha quindi una «funzione
tranquillante»233 in quanto permette al poeta, a partire dall’episodio pre-
natale, di rievocare il mondo quotidiano domestico, il paese natale e la
scuola dell’infanzia dove insegnava la madre. La scrittura poetica sareb-
be in questo caso un’operazione rivolta al fantastico ritorno all’infanzia e
alla madre, una risposta rivolta alla separazione provocata dalla nascita
e dalla delusione portata dal fatto di dover vivere “da adulto”.234
Anche Gianelli propone una materna consolatrice nella sua lirica. Di
fronte alle paure provocate dalla perdita di slancio vitale, alla consape-
volezza di una vacuità esistenziale,235 l’io lirico confessa di dover regre-
dire verso la protezione offerta dal ricordo materno: «...Io, come un bim-
bo, / con immenso desìo cerco mia madre».236 In un’altra lirica, si legge
l’invocazione patetico-sentimentale – al limite della pulsione rimossa
d’incesto – dell’adulto alla madre, per trovare conforto e consolazione,
sicché la lirica non sembra bastare a contenere la pena di vivere, dato
che lo stesso poeta riconosce l’insufficienza della poesia a consolarlo,
per questo cerca l’identificazione regressiva con la figura materna (il ver-

232
Moretti, Piccola storia scandalosa, in Id., Poesie scritte col lapis, p. 112, vv. 19-22.
233
Bàrberi Squarotti, Poesia e ideologia, p. 185.
234
Cfr. Anna Folli, Moretti da Pascoli a Govoni, in “La Rassegna della Letteratura italia-
na”, gennaio-agosto (1977), pp. 90-102.
235
Cfr. Giulio Gianelli, Val Salice, in Id., Tutte le poesie, p. 230, vv. 9-11.
236
Ivi, vv. 13-14.

259
Quarto capitolo

bo «confonderci» ha qui un significato molto simile al prenatale «ero /


tutto tuo» de Il ricordo più lontano in Moretti):

Io non bastavo al mio compianto. Oh avessi


la madre! un’ora sola! Non per dirle
quel ch’ho perduto e quel che sogno, no:
ma per stringermi a lei tanto, ma tanto
da confonderci entrambi in un cor solo
e vivere, guardandoci negli occhi
spirituale poesia celeste.237

Per quanto riguarda Palazzeschi, invece, la madre assume tutt’altra va-


lenza. Secondo la chiave interpretativa proposta da Fausto Curi, il colore
bianco nelle sue prime poesie viene associato al latte e allude indiret-
tamente all’assenza del padre – dunque a quella del triangolo edipico
–, donde un rapporto figlio-madre poeticamente evocato attraverso la
dimensione fiabesca, come per esempio ne Il Principe bianco. Questa
lirica del 1907 descrive un amplesso ambiguo tra il giovane principe e
una dama di cui sfiora il petto con le labbra, quasi ad evocare il «simbolo
dell’atto fondamentale dell’introiettare il seno materno»: 238

s’inchina la dama
e il Principe il petto ne sfiora
con labbro bianchissimo,
non perla ne sugge,
un bacio soltanto vi pone.239

L’interpretazione psicanalitica avanzata da Curi vede la madre come


mediatrice per trovare uno «stato di appagamento e di benessere»,240

237
Giulio Gianelli, «Io non bastavo», in Id., Tutte le poesie, p. 377, vv. 1-7.
238
Curi, Perdita d’aureola, p. 69.
239
Aldo Palazzeschi, Il Principe bianco, in Id., Tutte le poesie, p. 50, vv. 39-43.
240
Curi, Perdita d’aureola, p. 70. Per spiegare il titolo della silloge I cavalli bianchi
l’analisi di Curi si fonda, tra l’altro, sul saggio Analisi della fobia di un bambino di
cinque anni (caso clinico del piccolo Hans), in Sigmund Freud, Opere, Torino, Bollati
Boringhieri, 1972, vol. V, p. 562.

260
La condizione crepuscolare del fanciullo

nel quale il colore bianco assumerebbe una funzione simbolica di primo


piano per l’identificazione con la madre. Qui, in effetti, il «labbro bian-
chissimo» del principe bianco allude chiaramente al bambino lattante
nutrito dalla madre, e l’impossibilità di trovarvi latte si risolve in un atto
d’affetto con il bacio.
Un ultimo caso della presenza materna e femminile per la formazione della
figura del fanciullo nella poesia crepuscolare si trova in Cocotte.241 Nel
ricordo all’origine della lirica il piccolo Gozzano, quattrenne, incontra nel
giardino della casa una bella donna, considerata a quel tempo come legge-
ra, ma di cui il fanciullo non percepisce ancora la natura sociale. Quell’in-
contro fu senz’altro il primo contatto infantile con la bellezza femminile,
la prima sensazione alle soglie della vita sensibile del fanciullo. Una si-
tuazione simile aveva d’altronde fornito la materia per un testo in prosa, I
sandali della diva. Il bambino autobiografico, in questa prosa, ha sei anni
e diventa oggetto d’affetto e di tenerezza da parte della danzatrice «mon-
dana».242 La prova d’affetto manifestata dalla cocotte nella prima quartina
della lirica si evolve, nella seconda, in una battuta rivolta al «Piccolino»
(v. 5), che diventa figura filiale. Il fatto che la donna stia dietro il cancello
del giardino dove gioca il bambino non impedisce il contatto fisico tra
i due, anzi diventa simbolo della separazione, oltre che sociale, fra due
età, due mondi diversi, quello protetto della fantasticheria insita nella fan-
ciullezza (si leggano i versi 31-36, nei quali il piccolo divaga sul vocabo-
lo straniero appena pronunciato dalla madre, cocotte) e quello misterioso
dell’età adulta retto da altre regole: «[...] e mi baciò di tra le sbarre / come
si bacia un uccellino in gabbia» (vv. 11-12). Il cuore della lirica risiede
nel ricordo del dolce affetto dimostrato dalla donna estranea nei confronti
del piccolo, considerato come un tesoro della memoria da serbare per l’e-
ternità, quale prima sensazione di piacere (si usa il vocabolo «l’incanto»,
al v. 13), diverso da quello già provato sin dalla condizione prenatale per
la madre. Per l’appunto, la madre («mammina», v. 25) assume qui una
valenza educatrice morale, perché serve a spiegare al bambino ignaro i
codici sociali borghesi. Tuttavia, nei versi successivi, il fanciullo ormai

241
Cfr. Guido Gozzano, Cocotte, in Id., Tutte le poesie, pp. 190-193.
242
Guido Gozzano, I sandali della diva, in Id., Poesie e prose, p. 336.

261
Quarto capitolo

ventenne immagina la donna invecchiata, abbandonata, e sogna di amarla


davvero, dando un significato ben più concreto alla dolce e strana sensa-
zione d’incanto provata un tempo, «quel mattino dell’infanzia pura» (v.
56). Nella fantasticheria del ventenne, il nuovo incontro immaginato con
la donna non significa affatto la realizzazione di un amore carnale al quale
si potesse accedere, anzi viene evocato dal poeta come una vera e propria
regressione all’infanzia, per provare di nuovo il dolce incanto: «Il bimbo
parlerà con la Signora» (v. 81). La fine della lirica propone l’illusione del
ritorno alla felicità infantile, nonché dell’amore non realizzato, attraverso
una figura femminile che non è appunto quella materna, ma una immagine
affettiva alternativa che appartenga ormai al mondo del sogno.243 Molto di-
versa invece è la donna evocata in Diva di Moretti, perché il «fanciullo»244
è in realtà un adolescente di quattordici anni al quale la signorina artista,
ospitata dalla madre, offre una sigaretta. In questo episodio si tratta d’ini-
ziazione, di seduzione, e non di affetto materno, tanto che il ragazzo rimane
indifferente di fronte alle proposte della diva. Tuttavia, la lirica che segue
Diva evoca la presa di coscienza del Vizio acerbo. Il ragazzo adolescente
fa un vero sogno erotico, immaginando un amplesso con la diva.245 Il so-
gno viene interpretato dal poeta come una concreta iniziazione del ragazzo
alla carne, e di conseguenza un’entrata nel mondo degli adulti, quindi nel
mondo che comporta anche il sesso e la tristezza che talvolta ne consegue,
donde il titolo Il vizio acerbo. La fine della lirica rinforza l’idea d’iniziazio-
ne all’età quasi adulta e quella di straniamento dalla quasi infanzia – quin-
di dalla madre –, perché il «figliolo» (vv. 7 e 33) della mamma, nonché «lo
scolaro timido» (v. 34), sanno di essere diventati «lui» (v. 34), un essere
maschile chiamato con vari nomi dall’amante, vale a dire un’altra perso-
na rispetto al fanciullo che era: «e forse Edmondo o Augusto: altrui» (v.
35). Si tratta di uno degli episodi lirici più interessanti per evocare la fine
dell’infanzia e la scoperta dell’erotismo che, necessariamente, allontana la
figura materna. In un’altra poesia, Moretti nondimeno ritrova la madre nel
pascoliano dialogo con i cari fratelli defunti; uno dei fratelli chiede dall’al-

243
Cfr. Edoardo Sanguineti, Guido Gozzano: indagini e letture, Torino, Einaudi, 1975, p. 122.
244
Marino Moretti, Diva, in Gozzano e i crepuscolari, p. 476, v. 20.
245
Cfr. Marino Moretti, Il vizio acerbo, ivi, p. 478, vv. 11-12.

262
La condizione crepuscolare del fanciullo

dilà un utopico ricongiungimento con essa: «Potessi ora darti un conforto,


/ ma sempre io son stato cattivo...».246 La madre risponde al figlio morto
che deve ancora rimanere viva perché l’ultimo figlio ha bisogno di lei, e
questo pensiero viene confermato dalla forte valenza insieme consolatrice
e ispiratrice della replica:

“Verrei: ma il figliuolo poeta?


È giovane ancora ed à tanto
bisogno pel dolce suo canto
d’aver chi lo ispira e lo allieta...”247

4.3.4 L’infanzia necessaria


Le scoperte scientifiche nel campo della psicologia infantile e l’evolversi
della metodologia psicoanalitica nei primi anni del Novecento hanno con-
sentito di vedere nell’infanzia e nella condizione del fanciullo una serie di
esperienze fondamentali per la costruzione dell’identità dell’adulto, sicché
l’infanzia venne considerata come necessaria per la formazione identitaria.
La lirica crepuscolare, pur lontana dalla psicanalisi praticata nel tempo,
è riuscita a dare un’immagine particolare del poeta in quanto egli deve
essere capace di ritrovare se stesso fanciullo per trovare i mezzi espressivi
in grado di esprimere la propria condizione adulta. L’infanzia diventa ne-
cessaria ai poeti per interpretare il presente, si tratta cioè di una maniera
di vivere e di esercitare la creazione lirica secondo il riconoscimento iro-
nicamente ossessivo della propria natura fanciullesca:

Sii semplice e puro come il fanciullo [...] Tu non vivrai che di Passato: ti
sarà, in tal modo, assai men grave fuggir la speranza e la vana semplicità.
E dovrai viverne fino a morire. Lo spasimo bianco sarà per tenerti ognuna
ora: tutto che di più infantile e di più lontano verrà a battere alla tua porta,
dovrai accogliere nel profondo e goderti.248

246
Moretti, Il giardino dei morti, in Id., Poesie scritte col lapis, p. 155, III, vv. 69-70.
Corsivo dell’autore.
247
Ivi, p. 157, vv. 125-128.
248
Corazzini, Esortazione al fratello, in Id., Poesie edite e inedite, p. 112.

263
Quarto capitolo

In effetti, in epigrafe a questo testo, Corazzini aveva prima citato San


Francesco e poi Nietzsche, sull’idea dell’apprendimento della solitu-
dine. Il filosofo tedesco aveva mostrato, in Umano, troppo umano, che
bisogna «saper essere piccoli»,249 cioè all’altezza del bambino, in modo
da poter considerare i fiori, l’erba e le farfalle, dunque trovare un punto
di vista nuovo per considerare il mondo. L’adulto deve trovare le ore in
cui diventa più piccolo, e per i poeti crepuscolari si tratta di accettare di
fare della condizione infantile una fonte di poesia, fare del ricordo una
poetica, fare della nostalgia d’infanzia uno stile. Si tratta segnatamente
della «santa / felicità infantile»250 da salvare con la lirica. L’infanzia vie-
ne vista come una necessità nella scrittura in quanto essa fonda l’essenza
del poeta adulto, e contemporaneamente ne costituisce la meta regressi-
va, l’ideale rifugio da idoleggiare. Si tratta adesso di prendere in esame
la connotazione positiva, allegra e vitalistica di tale figura e del ricordo
d’infanzia.
Vallini, alla fine della sua infanzia e alla soglia della maturità – aveva in
effetti diciassette anni – ha vissuto un’esperienza straordinaria, da moz-
zo su una nave in partenza per la Giamaica, e ne trasse un diario di navi-
gazione (Da mozzo a poeta. Storia vera di Carlo Vallini251) che si ritrova,
in sostanza, nella sua lirica La canzone del mare. Egli vi canta il ricordo
della giovanile felicità, l’avventura per il piccolo «bimbo ignaro», pron-
to ad immergersi nel flusso dell’isotopia mare-vita. Il «bimbo» acquista
una valenza diversa perché diventa annunciatore di gioia futura.252 La
canzone marittima di Vallini evidenzia la gioia della giovinezza in cui
tutto diventa possibile, ossia le fantastiche «ore di gaudi» che evoca
Gozzano. In una poesia sull’ironico destino che ha fatto del fanciullo un
poeta «un po’ scimunito, ma greggio», Gozzano descrive se stesso, a tre
anni, come un altro, un doppio che potesse accompagnare l’adulto («un
minore fratello») e fargli ricordare ogni tanto la felicità perduta:

249
Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, Milano, Adelphi, 1981, vol. II, p. 164
[51].
250
Sergio Corazzini, Vinto, in Id., Tutte le poesie, p. 191, vv. 1-2.
251
Nell’antologia Scuola nostra. Letture per la scuola Media, a cura di Carlo Calcaterra,
Torino, Sei, 1941.
252
Cfr. Carlo Vallini, La canzone del mare, in Id., Un giorno e altre poesie, p. 60, vv. 33-39.

264
La condizione crepuscolare del fanciullo

Gli devo le ore di gaudi


più dolci! Lo tengo vicino
non cedo per tutte Le Laudi
quest’altro gozzano bambino.253

Il ricordo dell’allegria infantile in questa poesia è simile a quello del


giovane adolescente futuro mozzo, nella canzone di Vallini, giacché in
ambedue i casi la fanciullezza viene associata al sentimento di essere
«tanto felice d’esistere al mondo», con il «cuore monello» di un tempo.254
Il fatto di ritrovare se stesso fanciullo, nella lirica, prende perfino una
dimensione non più strettamente autobiografica ma universale, esisten-
ziale, nel lungo poemetto Fascino di Govoni (Poesie elettriche), in quanto
ridiventare fanciullo significa non più la regressione privata, bensì tro-
vare l’autenticità e l’innocenza, l’immediatezza della fantasticheria in-
fantile e, in una prospettiva metapoetica, significa dare un ritmo di gioia
infantile alla scrittura, ossia contrapporre la condizione infantile ideale
ai codici letterari. Qui la regressione non porta al nostalgico ricordo di
una condizione perduta e rimpianta ma alla ricerca di uno stato estatico
simile a quello del fanciullo quando scopre il mondo, in una versione
vitalistica e versoliberista del Fanciullino pascoliano:255

Tornammo bambini coi fiori graziosi


con gli insetti innocenti.
Ci commossero le belle nuvole in fuga;
ascoltammo tutte le voci della campagna;
[...]
E trovammo la felicità
in un vivo colore
d’un fiore.256

253
Gozzano, L’altro, in Id., Tutte le poesie, p. 309, vv. 21-24.
254
Cfr. Guido Gozzano, Alle soglie, ivi, p. 157, vv. 1-2.
255
Afferma in effetti François Livi: «Ridiventare fanciullo, in questo contesto, appare come
una conseguenza immediata del rifiuto di ogni codice letterario: i rapporti con la realtà
devono essere contemplati in una prospettiva di comunione e di simpatia immediata ed
attiva», in Tra crepuscolarismo e futurismo: Govoni e Palazzeschi, p. 172.
256
Corrado Govoni, Fascino, in Id., Poesie 1903-1958, p. 142. Si tratta della quarta
sequenza del poemetto che conta più di 450 versi.

265
Quarto capitolo

Anche Giovanni Giudici, quasi settantenne, esclamerà: «Finalmente


bambino / insieme a voi giocare sul prato di Parigi!»,257 versi in cui il
personaggio autobiografico infantile si confonde con l’autenticità del
bambino ideale ritrovato.
Ritrovarsi fanciulli mediante il ricordo provoca la gioia del movimento
regressivo di autocompiacimento, consente di godere «un più soave
conforto».258 Quando Gozzano descrive la sua città con affetto e no-
stalgia, si crea un cronotopo con il nesso Torino-infanzia-gioia, che
assume la valenza di un rifugio memoriale che conforta l’adulto, certo,
nonché una reificazione dello stesso ricordo, quale una natura morta
protetta sotto il vetro. La terza parte di Torino presenta in effetti il nes-
so città-fanciullezza allegra, ma esso viene prosaicamente paragonato
a vecchi panni rinchiusi aspettando di essere indossati, e perde ogni
sua freschezza (perde cioè la natura del «fanciullo trasognato», lo stato
di grazia, evocato per esempio nella lirica Ora di grazia), e diventa
un vecchio oggetto feticizzato dalla rêverie. Gozzano reifica l’infanzia
come un tesoro da serbare per illudersi di dimenticare il presente, don-
de l’immagine dell’armadio che contiene i vecchi ricordi:

[...]
in te ritrovo me stesso bambino,
ritrovo la mia grazia fanciullesca
e mi sei cara come la fantesca
che m’ha veduto nascere, o Torino!

Tu m’hai veduto nascere, indulgesti


ai sogni del fanciullo trasognato:
tutto me stesso, tutto il mio passato
i miei ricordi più teneri e mesti
dormono in te, sepolti come vesti
sepolte in un armadio canforato.259

257
Giovanni Giudici, Frate Tommaso, in Id., Poesie (1953-1990), Milano, Garzanti, 1991,
p. 389.
258
Curi, Metamorfosi del fanciullino, p. 17.
259
Guido Gozzano, Torino, in Id., Tutte le poesie, pp. 210-211, III, vv. 42-54.

266
La condizione crepuscolare del fanciullo

La condizione del fanciullo nella lirica crepuscolare non si limita quin-


di al ricordo accorato della propria infanzia né alla raffigurazione di
tristi bambini liberty,260 esiste anche l’affermazione stilistica di una
vera e propria libertà insita nel fanciullo, una gioia naturale che rende
perciò l’infanzia necessaria al poeta e alla sua ispirazione. Lo stile di
Govoni è stato più volte definito dalla critica come un riflesso del vi-
talismo istintivo di tipo fanciullesco. In effetti, il poeta rappresenta il
fanciullo ideale per esprimere un’adesione e un’accettazione del flusso
naturale.261 La figura infantile si fa in Govoni parte dell’operazione de-
scrittiva affermando in tal modo la propria libertà stilistica. Per esem-
pio, nelle sue varie sillogi del periodo crepuscolare s’incontrano dei
«monelli // [che] danno l’assalto a l’albero de la cuccagna»,262 i «bam-
bini che giuocano nei viali al cerchio»,263 oppure una «bambina / [che]
impigliava il suo cervo volante in un noce».264 Però, accanto a questi
fanciulli allegri e attivi, si osservano al contempo i «rachitici bambini
/ che piangono sui lor trastulli infranti»,265 quasi fosse una formula,
oppure la «giovine incurabile / [...] povera bimba spedita».266 Qui si
tratta di un’ispirazione poetica che cerca di assimilare la composizione
dei versi al procedimento d’immaginazione non logica dei fanciulli,
sicché, come fa osservare Sanguineti, Govoni fu per molto tempo consi-
derato come un poeta per l’infanzia, le cui liriche si potevano imparare
sui manuali per la scuola. Il critico fa notare che la famosa poesia La
trombettina, posteriore al crepuscolarismo, ha fortemente contribuito a
questa fissazione.267 L’ossessione malinconica come rimedio alla vergo-
gna di essere poeta e la dolce spinta regressiva osservati nella maggior

260
Un esempio che vale per molti altri: «strette casse di gracili fanciulli / morti tra i
fiori, morti d’etisia, / corpicciuoli ravvolti in fini tulli / di amare lacrime e di liturgia»,
Corrado Govoni, La via della Certosa, in I crepuscolari. Saggi e composizioni, p. 247,
vv. 17-20.
261
Cfr. Govoni, Fascino, in Id., Poesie 1903-1958, p. 144.
262
Corrado Govoni, La fiera, ivi, p. 74, vv. 24-25.
263
Govoni, Le cose che fanno la domenica, ivi, p. 116, v. 30.
264
Corrado Govoni, Oro appassito e lilla smontata, ivi, p. 85, vv. 19-20.
265
Govoni, Alla musa, ivi, p. 99, vv. 83-84.
266
Corrado Govoni, Il piano, in I crepuscolari. Saggi e composizioni, p. 252, vv. 9-21.
267
Cfr. Edoardo Sanguineti, Il bambino déco, p. 52.

267
Quarto capitolo

parte degli altri crepuscolari non esistono in Govoni quando descrive


l’infanzia e i fanciulli, anzi sembra che egli voglia esprimere un’altra
dimensione, più universale, dell’infanzia, quella della libertà di fanta-
sticare e di abbandonarsi con grazia alla vita e alle sue avventure. An-
che Civinini aveva già fornito tale immagine del “poeta fanciullo” alla
scoperta del mondo, fondamentale per la poesia de Novecento. Propo-
ne per esempio un ritratto solare di poeta da piccolo vagabondo, «figlio
dell’Aprile», e «coronato di sole», come recita l’epigrafe («Giunge, fra
le Rose e i Cipressi, avvolto nel manto dell’Aurora, il Poeta fanciullo,
coronato di sole»):

Primavera, Primavera,
io sono un fanciul vagabondo
in cerca d’un capo biondo
per offrirgli un bel monile.
Il mio cuore è quello del mondo,
che in questo mattino d’Aprile
dà come singulti di troppa
dolcezza, di troppo gioire;
per ogni sua querula bocca.268

Si tratta dell’infanzia estatica e idealizzata, ben lontana dall’immagine


estenuata del caro e buono fanciullo. Questo nesso fra l’età fanciulla e
la stagione primaverile si trova anche in un sonetto di Vallini, in cui, nel
topos decadente del triste giardino, l’io rammenta la propria condizione
infantile davanti allo sbocciar di un «impeto di vita».269 Govoni, Civinini
e Vallini si servono della metafora primaverile (la silloge Inaugurazione
della primavera per il primo, il vocativo celebrativo «Primavera, Prima-
vera» per il secondo, il giardino per il terzo), creando con ciò un’isotopia
infanzia-stagione-estasi (con il «gioire» per Civinini, e «l’impeto» per
Vallini), pure presente nel celeberrimo Commiato di Oxilia, ma sotto la
forma di un’esordiente condizione adulta che permette di superare l’età

268
Guelfo Civinini, Il poeta fanciullo, in Id., I sentieri e le nuvole, p. 45, vv. 48-56.
269
Vallini, La donna del parco, in Id., Un giorno e altre poesie, p. 55, IV, v. 14.

268
La condizione crepuscolare del fanciullo

infantile e la spensieratezza adolescenziale.270 In questo contesto la pue-


rizia viene respinta nella memoria felice tramite un’operazione catartica
che porta l’io a diventare adulto – nel caso di Oxilia, significa addirittura
diventare soldato.
La capacità del fanciullo a conoscere la felicità in modo inconscio costi-
tuisce una forza che viene evocata quale immagine della libertà. Moretti,
ricordando la sorella quando era piccola, sottolinea il fatto che essa pos-
siede proprio questa forza:

Oh non cessar per questo il tuo giocondo


riso! Che vuoi? Siam piccoli,
e il viver nostro è appena un giro a tondo...
Ma intanto tu consolati,
ché tu lo tieni nel tuo pugno, il mondo!271

La fanciullezza non è vista qui attraverso il filtro della memoria nostal-


gica bensì mediante l’idea che essa significa un esordio, la promessa
secondo cui tutto potrebbe diventare possibile. Altro non dice Vallini
quando, parlando di se stesso bambino spensierato, afferma: «quando
ero triste o giocondo / senza sapere il perché / e non pensando che a me, /
avevo in me tutto il mondo»,272 prima di lamentare, nella strofe successi-
va, l’irrimediabile perdita di quel mondo infantile, «caduto nel niente».
La figura ideale del fanciullo nella lirica crepuscolare possiede dunque
la libertà conferita dal gioco e dalla spensieratezza nell’immaginazione,
ma soprattutto possiede la gioia dell’esordio dove il mondo appare come
un infinito da scoprire. Oxilia aveva salutato la giovinezza per scoprire
l’impegno bellico, ma Gianelli invece descrive un bambino meravigliato
che gioca alla guerra, con una forza felice e ignara: «E ne l’ebrietà della
vittoria, / piccolo re, contempla il suo dominio, / esaltandosi in inni alti
di gloria».273
Accanto ai fanciulli malati, tristi e piangenti intravisti nella lirica dei

270
Cfr. Nino Oxilia, Il commiato, in Id., Poesie, p. 238, vv. 9-12.
271
Marino Moretti, Il mondo e mia sorella, in Id., Poesie scritte col lapis, p. 133, vv. 16-20.
272
Vallini, Un giorno – Gli affetti, in Id., Un giorno e altre poesie, p. 76.
273
Giulio Gianelli, Bimbo in campagna, in Id., Tutte le poesie, p. 22, vv. 12-14.

269
Quarto capitolo

crepuscolari esistono dunque figure dell’allegria, del gioco, dello slancio


vitale, graziosi piccoli che, per dirla con Leopardi, «fanno lieto rumo-
re». Oxilia, mentre evoca con prosastico affetto la presenza della piccola
nipote a casa sua, insiste sulla vitalità che essa porta nell’ambiente do-
mestico:

La mia casa non è più muta


l’ombra non è paurosa
e in lei rivive ogni cosa.
Mia sorella è venuta
con la sua bambina bionda e rosa.

Quella piccola testolina


non à paura del mondo infido
à il dolce profumo del nido
ancora [...].274

Gozzano, fantasticando su elementi della natura, tenta di provare


questa sensazione da contrapporre al suo presente, facendone un ele-
mento poietico: «Oggi il mio cuore è quello di un fanciullo»,275 dove
l’io ritrova una grazia che corrisponde sia all’illusione di sentirsi pic-
colo e felice, sia alla meraviglia dell’adulto che ritrova il fanciullo
interiore.
Da una parte la lirica crepuscolare esprime il richiamo delle origini,
la nostalgia di non esser più fanciullo come rifiuto contrapposto a un
male di vivere, dall’altra certi poeti crepuscolari celebrano la vitalità
insita nel fanciullo disposto a scoprire il mondo e istintivamente rivolto
al futuro – talvolta nella lirica di uno stesso autore, quale Vallini.276 Da
questa osservazione è possibile definire un aspetto fondamentale della
condizione del poeta contemporaneo: la complementarietà tra il neces-
sario buon fanciullo interiore che accompagna e protegge l’adulto, e l’es-
sere sensitivo ideale che percepisce le possibilità offerte dal mondo e

274
Nino Oxilia, La mia casa non è muta, in Id., Poesie, p. 236-237, vv. 1-9.
275
Guido Gozzano, Ora di grazia, in Id., Tutte le poesie, p. 106, v. 7.
276
Cfr. Vallini, Un giorno – Gli affetti, in Id., Un giorno e altre poesie, p. 76.

270
La condizione crepuscolare del fanciullo

simboleggia una forma di speranza. Moretti, ormai anziano, scrisse, negli


anni Sessanta, una poesia sull’attesa curiosa provata da bambino davanti
alla realtà del mondo, immaginata a partire dal fantasticare infantile, ma
ben presto limitata alla sua prosaica autoreferenzialità. La lirica prende
una connotazione esistenziale che non potevano pienamente comportare
i testi scritti nel periodo crepuscolare:

Oggi ricordo che salii su un tiglio


a dodici anni per vedere il mondo.
L’albero disse: “Ebbene, io ti nascondo,
ma tu poco vedrai, povero figlio”.

E poco vidi. Solo cielo e mare:


cielo non è che cielo,
mare non è che mare,
il mare e il cielo insieme erano il nulla.
Così passò la mia gioia fanciulla
in attesa di cielo e di mare.277

Lo stesso Moretti, ancora più vecchio (sono gli anni Settanta), seppe
serbare questa «gioia fanciulla» e riconoscere, pascolianamente,278 un
fanciullo intimo: L’altro me stesso evoca la «prigione» della vecchiaia
che fa da contraltare alla «sfida» del bambino interiore, considerato per
appunto «l’altro me stesso»: «Perch’io son quel bambino / con la sua
sfida nella mia prigione».279 L’infanzia necessaria sta proprio in questa
persona intima, non più intesa solo come consolatoria o rimedio, ma mo-
tore poietico della propria ricerca interiore che porta alla fissazione di
valori validi per la tutta l’esistenza.280 Questa figura di autenticità, libera
dalle norme esterne, accompagna il poeta fino alle soglie estreme della
vita e interviene nel processo di scrittura in quanto elemento primario

277
Marino Moretti, Il tiglio, in Id., In verso e in prosa, p. 58.
278
Cfr. Geno Pampaloni, Il giuoco della verità in Marino Moretti, in Moretti, In verso e
in prosa, p. XXI.
279
Marino Moretti, L’altro me stesso, ivi, p. 199.
280
Cfr. Chombart de Lauwe, Un monde autre: l’enfance, p. 232.

271
Quarto capitolo

del ricongiungimento alle origini, al passato profondo dell’essere, vale a


dire, per usare una formula di Bachelard, a una «antecedenza dell’es-
sere».281 Tale ricongiungimento all’antecedenza permette la formazione
di una coscienza insieme etica ed estetica, consente cioè «una relazione
“poetica” con il mondo».282

281
Bachelard, La poétique de la rêverie, p. 95. Il filosofo parla di «retrouver notre être
inconnu, somme de tout l’inconnaissable qu’est une âme d’enfant», ivi, p. 99. Per Elio
Gioanola: «Si può dire che la poetica del fanciullino rappresenti, in un linguaggio
sentimentale e ancora provincialmente romantico, l’equivalente della scoperta deca-
dente dell’inconscio, e anche un tentativo per addomesticarne i torbidi e conturbanti
contenuti istintivi», in La poesia del decadentismo (Pascoli e d’Annunzio), Torino, Sei,
1972, p. 22.
282
Erminia Ardissino, Immagini dell’infanzia nella poesia del Novecento, in “Testo”, n.
56 (2008), pp. 31-44, 33.

272
CONCLUSIONE

La lirica, segnatamente dopo l’esperienza di transizione tra Ottocento e


Novecento, rivela l’impossibilità di separare l’uomo e il fanciullo nell’o-
perazione di ritrovamento dell’io che condiziona la scrittura. Mentre si
fissano il mito dell’infanzia ideale e della figura del fanciullo buono, incor-
rotto, visto come un modello per l’adulto e per il poeta – perché «il mito
dell’infanzia è quello di una splendida incoscienza, di un essere solidali
col mondo sottratto alla temporalità»1 –, contemporaneamente questa fi-
gura si carica delle ansie e dei tormenti che vi proietta l’essere adulto.
Così alcuni fanciulli evocati da certi crepuscolari diventano adolescenti
e giovani adulti, come il paradigmatico venticinquenne Totò Merùmeni di
Gozzano – incarnazione dell’interrogazione sulla validità e la legittimità
dell’io nel mondo moderno –,2 o come il bambino di Moretti, prima indif-
ferente alla “diva”, poi attratto dal “vizio acerbo” che gli fa conoscere i
primi turbamenti dei sensi.3 Totò diventa la maschera definitiva del poeta
adulto indifferente,4 mentre il secondo cresce perdendo l’innocenza del

1
Giuseppe Scaraffia, Infanzia, Palermo, Sellerio, 1987, p. 11.
2
Cfr. Guido Gozzano, Totò Merùmeni, in Id., Tutte le poesie, a cura di Andrea Rocca,
Milano, Mondadori, 1980, pp. 197-199.
3
Cfr. Marino Moretti, Il vizio acerbo, in Gozzano e i crepuscolari, a cura di Cecilia
Ghelli, Milano, Garzanti, 1983, pp. 478-479.
4
Cfr. Marziano Guglielminetti, Introduzione, in Guido Gozzano, Tutte le poesie, p.
XXXVII, e Giorgio Bàrberi Squarotti, Poesia e ideologia borghese, Napoli, Liguori,
1976, pp. 84-102.

273
Conclusione

fanciullo. Nondimeno, Gozzano mostra di voler estendere lo stato di fan-


ciullezza all’età adolescente, come per respingere – ritardare – l’età adulta
e le sue responsabilità, sicché calcando un verso di Jammes nel quale si
parlava di un «jeune homme un peu antique et tendre»5 egli lo trasforma in
paradossale «fanciullo tenero e antico» eternamente ventenne.6 Il piccolo
e il giovanotto si confondono, la figura infantile diventa ambigua e il primi-
tivo Fanciullino di Pascoli si arricchisce di una coscienza adolescenziale
inedita, perché divenuta necessaria alla compiutezza dello scrittore. Il fan-
ciullo novecentesco si presenta in effetti come padre dell’uomo poeta (si
ricordi Wordsworth), ma egli non costituisce più solo un rifugio per l’aspi-
razione regressiva, bensì rivela un serbatoio di sensazioni e ansie che fon-
dano la condizione adulta. Essere intuente, precursore e immagine della
libertà e della creazione, il fanciullo rappresenta la positività nel conflitto
tra desiderio e realtà, spontaneità e norme sociali,7 diventa perfino un sal-
vatore, un nuovo dio, l’oggetto di un culto consolatorio.8 Così si perpetua
nella letteratura del Novecento la tradizione dell’infanzia positiva,9 trami-
te la mitizzazione lirica del ricordo d’infanzia e dell’innocenza perduta,
contemporaneamente però all’affermarsi di un’infanzia più oscura – ossia
inquietante, ansiosa, fantastica –; si pensi agli Enfants terribles di Cocteau,
o all’Agostino di Moravia, per citare due esempi tra i più noti. O ancora:
nelle prose dei Trucioli, Sbarbaro descrive una «bambina diabolica» che
contrasta con la visione idealizzata dell’innocenza quale lo stesso poeta la

5
Francis Jammes, Elégie seconde, in Id., Oeuvres, Paris, Mercure de France, vol. II, p.
48, v. 5. Qui in francese «jeune homme» significa ragazzo, adolescente, non fanciullo.
6
Guido Gozzano, I colloqui, in Id., Tutte le poesie, p. 218, v. 33. Ma si legga anche Il
frutteto (vv. 15-16), nelle Poesie sparse, dove scrive «mi rivedo fanciullo, adolescen-
te», con una valenza particolare della virgola che rende ambiguo il nesso tra infanzia
e adolescenza.
7
Cfr. Marie-José Chombart de Lauwe, Un monde autre: l’enfance, Paris, Payot, 1979,
p. 422.
8
Cfr. Gilbert Bosetti, Il divino fanciullo e il poeta (Culto e poetiche dell’infanzia nel
romanzo italiano del XX secolo), Pesaro, Metauro, 2004, p. 15. Autori un tempo cre-
puscolari, come Fausto Maria Martini (La porta del paradiso, Milano, Mondadori,
1931) o Guelfo Civinini (Il libro dei sogni, Milano, Mondadori, 1949), propongono
nella loro narrativa questa figura infantile mediatrice e consolatoria.
9
La formula di «positività dell’infanzia» viene proposta in Egle Becchi – Dominique
Julia, Histoire de l’enfance en Occident, Paris, Seuil, 2004, 2 voll., vol. I, p. 97.

274
Conclusione

delinea nei versi de La bambina che va sotto gli alberi (in Rimanenze).10
La narrativa tra Ottocento e Novecento tendeva a raffigurare fanciulli
vittime del mondo degli adulti, delle strutture socio-economiche e del
declino della società borghese, mentre la lirica faceva prevalere un fan-
ciullo immaginario, per lo meno identificato in un ideale etico ed estetico
del poeta, passando cioè dal fanciullo alcyonio dannunziano al Pirro pa-
scoliano dell’Aquilone e al poeta “imbambolato” crepuscolare. Il Nove-
cento lirico ha creato, su questa base, delle nuove figure più inquiete, so-
litarie, escluse, torbide, che si aggiungono – senza escluderle – a quelle
ideali del dolce ricordo, evidenziando una necessaria complementarietà.
Il fanciullo rivela tradizionalmente schegge del paradiso perduto, ma
diventa quindi progressivamente una fonte destabilizzante per la rivela-
zione di se stessi, perché egli costituisce insieme un simbolo dell’eden
da ritrovare e l’origine psichica complessa – perché rimossa – dell’adul-
to. Così Ungaretti e il suo mito del paese innocente; Saba e il nesso in-
fanzia-trauma come ragion d’essere della poesia; Bertolucci e la ricerca
dell’io fanciullo con l’iniziale A. nel suo poema autobiografico; Pasolini
e il puer aeternus “donzel” di Casarsa; Penna e il nesso fanciullo-desi-
derio, ecc. Sono questi solo alcuni esempi novecenteschi della figura
infantile quale coscienza poietica e condizione iniziale per la formazione
di un punto di vista estetico; una figura letteraria che si è in parte fissata
tra i due secoli nell’opera di d’Annunzio (in prosa narrativa e in versi),
di Pascoli (il poeta e il pedagogo) e dei crepuscolari che hanno assorbito
la loro eredità. Dal romantico fanciullo-guida verso la felicità si è passati
al fanciullo che porta alla ricerca e alla presa di coscienza di se stessi.11
Questo fanciullo di carta, non sempre corrispondente a una realtà socia-
le o demografica, rivela una moderna concezione dell’io letterario che
decifra il presente tramite il sondaggio del proprio essere primordiale.

10
Con Sbarbaro si ha un esempio della fine dell’infanzia considerata come un rifugio e
del fanciullo angelo: cfr. Donato Valli, Vita e morte del “frammento” in Italia, Lecce,
Milella, 1980, pp. 132-133.
11
Afferma molto giustamente Maurice Maeterlinck ne Le Temple enseveli (1902): «En
nous se trouve un être qui est notre moi véritable, notre premier-né, immémorial, illi-
mité, universel, et probablement immortel […] Cet être vit sur un autre plan et dans
un autre monde que notre intelligence», citato in Jean-Nicolas Illouz, Le symbolisme,
Paris, Le Livre de Poche, 2004, p. 143.

275
INDICE DEI NOMI

Abrugiati Luigia 65 Balducci Marino Alberto 113


Agamben Giorgio 125, 208 Bani Luca 72, 118, 138
Agostino da Ippona (santo) 15 Banti Cristiano 31
Alain-Fournier (pseud. di Henri Barbaro Mario 207, 224
Alban Fournier) 236 Bàrberi Squarotti Giorgio 89, 126,
Alfieri Vittorio 20 138, 144, 161, 206, 259, 273
Alighieri Dante 114, 165, 179, Barilli Renato 126
243 Barlow Nora 25
Ala Stefano 234 Barrie James Matthew 29
Alvino Luca 113 Battistini Andrea 129, 135, 138
Anceschi Luciano 83 Baudelaire Charles 28, 49, 83, 96,
Andersen Hans Christian 34, 36 227, 248
Andreoli Annamaria 46, 52, 57, Bauernfeld Eduard von 143
59, 62, 73, 83, 95, 100, 104 Becchi Egle 13, 14, 17, 20, 22, 23,
Ardissino Erminia 272 25-27, 31, 32, 36-38, 128, 274
Ariès Philippe 13, 14, 27 Becherini Odoardo 158
Aristotele 12 Benussi Cristina 118
Arrighi Valente 169 Bertelli Sergio 16
Bertolucci Attilio 216, 275
Bacchetti Flavia 26 Bethlenfalvay Marina 134, 139
Bachelard Gaston 96, 214, 237, Bianchetti Enrica 104
246, 272 Binni Walter 92, 115, 116, 126,
Baldacci Luigi 193 138, 195
Balducci Maria Giulia 65, 71 Blake William 23, 34

277
Indice dei nomi

Boas George 24, 129, 156 Cattaneo Giulio 20


Boccaccio Giovanni 114 Cebes Tebano vd. Cebete di Tebe
Bonito Vito M. 166 Cebete di Tebe 235
Bonnefoy Yves 192 Cellini Benvenuto 16
Borelli Lydia 211 Ceserani Remo 8, 11
Borgese Giuseppe Antonio 49, Chiabrera Gabriello 16
196 Chiara Piero 17, 45, 46, 49, 50, 93
Bosetti Gilbert 131,135, 156, 162, Chiaves Carlo 197, 199, 206, 215,
181, 230, 274 216, 237, 238, 240, 244, 249,
Bosisio Paolo 16 255
Bottone Umberto 182 Chimenz Siro A. 125, 182, 185
Brentano Clemens 22 Chiummo Carla 50, 140
Breschi Donatella 175 Chombart de Lauwe Marie-José 7,
Browning Elizabeth Barrett 33, 130, 136, 181, 237, 247, 271,
140 274
Busch William 36 Ciani Ivanos 51, 53, 57
Cagnoni Bartolomeo 151 Civinini Guelfo 197, 212, 221,
Cagnoni Enrico 151 225, 226, 238, 268, 274
Cagnoni Isabella 151 Civinini Lisa 226
Calcaterra Carlo 264 Cocteau Jean 274
Caliaro Ilvano 108, 113, 115 Codino Fausto 12
Calzecchi Onesti Rosa 12 Colasanti Angelo 133, 153
Cambi Franco 9, 34, 129, 139, Coleridge Hartley 181
146, 157 Colin Mariella 37, 132, 186, 187,
Campanella Tommaso 16 191, 193
Carabba Rocco 83 Collodi Carlo (pseud. di Carlo Lo-
Cardano Gerolamo 16 renzini) 28, 36
Carducci Giosue 49, 83, 85, 94 Conti Angelo 91, 100, 108, 109,
Carnero Roberto 206 112, 123, 131
Carroll Lewis (pseud. di Charles Conti Augusto 143
Lutwidge Dodgson) 36 Corazzini Sergio 94, 145, 146,
Caruso Giuseppe 204 182, 197, 200, 201, 203, 204,
Casanova Giacomo 17 207, 210, 213, 214, 216-218,
Castoldi Alberto 97, 223 222, 227-229, 236, 240-242,
Castoldi Massimo 126, 132 263, 264

278
Indice dei nomi

Curi Fausto 126, 128,138, 146, Domenichelli Mario 8, 11


171, 172, 199, 208, 217, 224, Donaghy Michael 181
260, 266 Donatello (pseud. di Donato di
Niccolò di Betto Bardi) 114
D’Annunzio Anna 98 Donnini Filippo 204
D’Annunzio Gabriele 7, 9, 45-50, Doré Gustav 31, 36
52-54, 56-68, 70, 72-74, 76, Dostoevskij Fëdor Michajlovič 98
82, 83, 85, 86, 90-115, 117, Duse Eleonora 47, 110
118, 122, 131, 193, 195, 197,
217, 246, 253, 275 Elefante Chiara 192
Da Ponte Lorenzo 17 Eliot Thomas Stearns 102
Danza Diego 12 Engels Friedrich 32, 33
Darwin Charles 25, 26 Eschenbach Wolfran von 14
Darwin Francis 25 Ewers Hans-Heino 22, 36
Darwin Williams Erasmus 25
Daverio Rossella 56 Faeti Antonio 37, 126, 154
David Placido 158 Fantasia Rita 242
De Amicis Edmondo 34, 36 Farinelli Giuseppe 196, 197, 199,
De Bosis Adolfo 90 211, 219, 224, 225, 228, 230,
De Marco Marina 46 231, 243, 253
De Maria Luciano 207 Fasano Pino 8, 11
De’ Medici Lorenzo 114 Ferri Carla 56
De Nino Antonio 59 Fielding Henry 30
De Pisis Filippo 197, 232-236 Filarete (Antonio di Pietro Averli-
De Portu Enrico 143, 237 no detto il) 16
De Portu Igea 143, 237 Fioretti Daniele 30
De Quincey Thomas 96 Flaubert Gustave 49
De Roberto Federico 81 Folli Anna 199, 259
Degas Edgar 31 Forcella Roberto 104
Dei Adele 202, 245 Fort Paul 198
Della Robbia Luca 114 Fortini Franco 134
Di Lieto Carmine 183 Fourier Charles 16
Diano Carlo 111 Francesco d’Assisi (santo) 243,
Dickens Charles 28-30, 32 264
Dillon Wanke Matilde 43, 207 Franzini Elio 22

279
Indice dei nomi

Freud Sigmund 15, 26, 39, 40, 236, 243, 246-251, 261, 264-
146, 172, 260 266, 270, 273, 274
Fumi Lionello 209 Gramsci Antonio 127
Grimm (fratelli) 36
Garboli Cesare 129, 138, 155, Groos Karl 26
165, 180 Grossi Aldo 118
Garibaldi Giuseppe 137, 138, 243 Guerrini Olindo 83
Gavazzeni Franco 108, 112 Guglielminetti Marziano 273
Gennaro Erminio 72 Guyau Jean-Baptiste 131
Gentile Maria Teresa 47
Gesù Cristo 14, 15, 59, 60, 96, Haeckel Ernst 188
156, 210, 226, 247, 249 Hardy Thomas 23
Ghelli Cecilia 126, 197, 273 Hawthorne Nathaniel 28
Gianelli Giulio 128, 197, 200, Hérelle Georges 57
216, 228, 230-234, 239, 259, Hoffmann Ernst Theodor Amadeus
260, 269 28
Giannangeli Ottaviano 53 Hölderlin Friedrich 22
Giannone Pietro 16 Hugo Victor 34, 83, 140, 143, 145,
Gibellini Pietro 108, 110-113 164
Gioanola Elio 210, 272
Gioberti Vincenzo 123 Illouz Jean-Nicolas 275
Giudici Giovanni 266 Invernizio Carolina 34
Goethe Johann Wolfgang von 22, 30 Iser Wolfgang 191
Golding William 16
Goldoni Carlo 16 Jacomuzzi Angelo 52
Goncourt (fratelli) 62 Jacomuzzi Stefano 197, 204, 217
Gori Gianfranco Miro 138 James Henry 39-41
Gouchan Yannick 189 Jammes Francis 198, 201, 211,
Govoni Corrado 128, 136, 170, 214, 236, 274
197, 200, 208, 209, 216, 218- Jankélévitch Vladimir 195, 250
224, 226, 228-230, 236, 238, Jean Paul (pseud. di Johann Paul
243, 245, 253, 265, 267, 268 Friedrich Richter) 22, 23
Gozzano Guido 135, 144, 180, Jerrold Blanchard 31
196, 197, 200-202, 204, 205, Julia Dominique 17, 36, 128, 274
210, 214-216, 222, 227, 234- Jung Carl Gustav 111

280
Indice dei nomi

Keats John 49 Marianelli Marianello 82


Keller Gottfried 30 Mariano Emilio 93
Kerényi Karoly 111 Marinetti Filippo Tommaso 207
Kleist Heinrich von 22 Mario 230 (il bambino incontrato
in ospedale da Gianelli)
La Valva Rosa Maria 136, 142, 172 Marradi Giovanni 83
Ladolfi Giuliano 242 Marrone Tito 128, 175, 176, 197,
Lagazzi Paolo 216 200, 216, 225, 226, 238, 243,
Lamb Charles 23 252, 256, 257
Lampsaco 148 Martellini Luigi 118
Lanza Tomasi Gioacchino 60 Martini Fausto Maria 93, 197,
Lavagetto Mario 43 201, 211, 216, 218, 219, 225,
Lenzini Luca 205 226, 229, 250, 274
Leoni Barbara 102 Martini Ferdinando 185
Leopardi Giacomo 9, 112, 129, Matteo (santo ed evangelista) 14,
130, 156, 204, 270 15
Levergeois Bertrand 131 Mattia Luisa 31
Livi François 195, 197, 198, 199, Maupassant Henri René Albert
244, 265 Guy de 63
Locke John 20 Mazza Donatella 22, 164, 170
Lorenzini Niva 83, 95, 118 Mazzotta Clemente 138
Lorenzo il Magnifico vd. Lorenzo Mencaroni Zoppetti Maria 72
de’ Medici Menesseno 148
Mengaldo Pier Vincenzo 197, 200
Maeterlinck Maurice Polydore Michelet Jules 37
Marie Bernard 93, 275 Michetti Francesco Paolo 91
Magris Claudio 39, 118 Monod Auguste 129
Malato Enrico 185 Montale Eugenio 136, 208
Mallarmé Stéphane Étienne 49 Montinari Mazzino 91
Malot Hector 34 Moraldi Luigi 14
Manferlotti Stefano 217 Moravia Alberto 274
Mann Thomas 27, 39, 41, 42, 82 Morello Vincenzo 73
Manzoni Alessandro 166, 167 Moretti Franco 30
Marco (santo ed evangelista) 14, Moretti Marino 135, 145, 178,
Marcon Giorgio 166 196, 197, 202, 203, 205-207,

281
Indice dei nomi

210, 216, 225, 228, 235, 239, 216, 222-225, 242, 245, 260
242, 244, 245, 250-255, 258- Palli Baroni Gabriella 216
260, 262, 263, 269, 271, 273 Pampaloni Geno 258, 271
Moretti Vito 66 Paolo (santo) 15
Morosi Mario 231, 232 Papini Maria Carla 30
Morosi Ugo 231, 232 Pappalardo Ferdinando 135, 196,
Munch Edvard 217 239
Musil Robert 30 Paratore Ettore 53, 86, 87
Mutterle Anco Marzio 58 Parravicini Luigi Alessandro 36
Pascoli Vincenzi Allocatelli Cate-
Nardi Isabella 48 rina 162
Nassi Francesca 153 Pascoli Giacomo 163, 164
Nava Giuseppe 141, 148, 185 Pascoli Giovanni 7, 9, 47, 49, 50,
Neri Ildefonso 191 94, 100, 112, 125-193, 197,
Nerval Gérard de 18, 29 200, 204, 208, 217, 221, 228,
Nietzsche Friedrich 91, 264 231, 234, 245, 253, 255, 256,
Nievo Ippolito 29 257, 274, 275
Noferi Adelia 100, 101 Pascoli Ida 150, 158, 161, 172
Nogara Benito 94 Pascoli Luigi 163
Nonno di Panopoli 13 Pascoli Maria 172, 184, 189, 190,
Novalis (pseud. di Friedrich Leo- 193
pold von Hardenberg) 22, 30 Pascoli Ruggero (padre di Giovan-
ni Pascoli) 162
Olga (cugina di Giovanni Pascoli) Pascoli Ruggero (nipote di Gio-
147 vanni Pascoli) 147
Oliva Gianni 50 Pasolini Pier Paolo 275
Omero 12, 112, 133, 166, 188 Pasquali Giorgio 111
Orlando Francesco 18, 19 Pater Walter Horatio 155
Oxilia Nino 197, 201, 206, 211, Pazzaglia Mario 177
213, 214, 216, 219, 239, 240, Peel Robert 33
250, 257, 258, 268-270 Pellizza da Volpedo Giuseppe
153, 222, 223
Pagliano Graziella 34 Penna Sandro 234, 275
Palazzeschi Aldo (pseud. di Aldo Pérez Bernard 26
Giurlani) 197, 202, 207, 208, Perrault Charles 36

282
Indice dei nomi

Perugi Maurizio 125, 129, 135, 98, 102, 103, 108, 111, 114,
136, 156 119, 123
Pestalozzi Johann Heinrich 26 Rossi Paolo 9
Petrarca Francesco 16 Rossini Gioacchino 134, 179
Petrocchi Giorgio 70 Rousseau Jean-Jacques 17-21,
Piaget Jean 8, 130, 136 28, 29, 156
Pietro (santo) 210 Ruberti Guido 228, 256
Pinnelli Antonella 139 Ruskin John 138
Pirandello Luigi 82 Russi Valentina 177
Platone 16 Russo Carlo Ferdinando 111
Pocar Ervino 82
Praz Mario 65 Saba Umberto 43, 182, 204, 275
Preyer William Thierry 26 Salgari Emilio 36
Pseudo Matteo 14 Salibra Elena 132
Pulcini Elena 20 Salinari Carlo 90, 91, 159, 193
Pupino Angelo Raffaele 236, 242 Sand George (pseud. di Amantine
Aurore Lucile Dupin) 18
Rabelais François 16 Sanguineti Edoardo 9, 135, 158,
Racine Luc 132 193, 199, 202, 204, 223, 243,
Raimondi Ezio 59, 66 262, 267
Rapagnetta Maria 66 Sanjust Maria Giovanna 91
Rapagnetta Vincenzo 66 Savoca Giuseppe 240
Renoir Pierre-Auguste 31 Sbarbaro Camillo 144, 274, 275
Rho Anita 42 Scaraffia Giuseppe 21, 24, 273
Ricci Giustino 83 Scarfoglio Edoardo 104
Richter Dieter 14, 18, 25, 132, Schiller Friedrich 21, 22
185, 241 Scotti Walter 22
Rilke Rainer Maria 29, 143, 236, Senofonte 16
237 Sensini Francesca 150
Rocca Andrea 135, 196, 273 Simone Simonetta 199
Rodenbach Georges 200, 214, Socrate 148, 149
217, 245 Sofocle 119
Romanov Aleksej Nikolaevič (za- Sofronisco 148
revič di Russia) 221 Solmi Sergio 93, 94, 216
Roncoroni Federico 17, 93, 94, Sommaruga (editore) 50, 85

283
Indice dei nomi

Sommaruga Angelo 50 Ungaretti Giuseppe 275


Sonnino Eugenio 139
Soriano Marc 37 Valgimigli Manara 187
Spagnoletti Giacinto 245 Valli Donato 275
Spignoli Teresa 30 Vallini Carlo 135, 197, 202, 211,
Stara Arrigo 43, 182, 204 212, 216-218, 220, 238, 239,
Sully James 26, 125, 129, 131, 246-249, 251, 264, 265, 268-
147, 156, 178 270
Suppa Francesco 112 Vegetti Mario 12
Swinburne Algernon Charles 49 Verga Giovanni 34
Verlaine Paul Marie 93
Tallini Gennaro 242 Vermicelli Michela 127, 189
Tellini Gino 207, 208 Verne Jules 36
Tessari Roberto 201 Vico Giambattista 9, 131, 188,
Tiboni Edoardo 65 204, 239
Tito Livio 13 Virgilio Marone Publio 13, 113,
Tolstoj Lev 27, 29, 186 132, 156
Tomasi di Lampedusa Giuseppe 60 Vittori Gérard 130
Tommaseo Niccolò 26 Viviani Pirro 154-156, 165
Torchio Emilio 50
Tosi Guy 62 Waugh Evelyn 241
Traherne Thomas 195 Wordsworth William 22, 23, 140,
Travers Pamela Lyndon (pseud. di 155, 156, 274
Helen Lyndon “Guinty” Goff) 27
Treves (editore) 53, 85, 90 Zampa Giorgio 136, 208
Treves Emilio 57 Zanotti Paolo 8, 11, 14, 17, 28
Tripodi Nicola 197, 205, 218, 240, Zanzotto Andrea 171, 182, 183,
267 189, 190, 208
Twain Mark (pseud. di Samuel Zi’ Meo vd. Cagnoni Bartolomeo
Longhorne Clemens) 38 Zingone Alexandra 199
Zola Émile 49
Ulivieri Simonetta 9, 34, 129, 139, Zucconi Elda 85
146, 157

284
CISAM
Saggi

La Collana Saggi del CISAM ha lo scopo di proporre all’attenzione della


comunità scientifica nazionale e internazionale studi monografici, com-
paratistici o volumi miscellanei frutto di progetti comuni o di giornate di
studio incentrati sulle tematiche della modernità e delle avanguardie nelle
varie loro articolazioni e interconnessioni di genere, tra letteratura, arte,
cinema e spettacolo.
Se ampia e inclusiva può essere l’accezione della nozione di “moderno”
si è scelto di privilegiare temi, autori e problematiche il cui ambito crono-
logico si estende dalla stagione post-romantica e simbolista fino ai giorni
nostri.
È infatti in questo alveo che vengono alla luce con maggiore consapevolez-
za e forza propulsiva le istanze di rinnovamento e di trasgressione che più
durevolmente segnano la contemporaneità, inaugurando un progressivo
superamento della separazione fra i generi.
Sensibili allo stretto legame fra testo e immagine, tra spazio e tempo, fra
contaminazioni artistico-letterarie di vario tipo, le proposte della Collana
Saggi intendono nel modo più aperto possibile (e all’occorrenza plurilin-
gue) coniugare la riflessione storico-culturale, nelle sue accezioni di gene-
re, stile e poetica estese a ogni produzione (romanzo, poesia, teatro, arte,
cinema, scrittura pubblicistica), con le domande più stringenti della con-
temporaneità, nella convinzione che non esista mai rottura definitiva fra le
epoche, ma che tutto vada sempre ripensato alla luce di quel continuo flu-
ire diacronico del pensiero e della creatività umana da che essi esistono.

285
1. Poeti pittori e pittori poeti
Poesia e arte tra ºtto e Novecento, a cura di Fabio Scotto e Marco Sirtori
Fabio Scotto, Introduzione - Ugo Persi, Maksimilian Vološin poeta e pitto-
re nell’epoca del Simbolismo russo - Gabriele Morelli, I disegni di Federico
García Lorca: idee estetiche e corrispondenza epistolare - Antonio Jiménez
Millán, Los poemas de Pablo Picasso - Fabio Scotto, Yves Bonnefoy critico
d’arte: da Giacometti a Goya - Hervé Carn, Méditation d’un auteur rattrapé
par l’image - Luca Bani, Carlo Michelstaedter poeta e pittore - Marco Sirtori,
L’album e il quaderno. Emilio Praga pittore poeta - Indice dei nomi
2014 pp. 212 ill.

2. Luca Bani – Yannick Gouchan, La figura del fanciullo nell’opera di d’Annun-


zio, di Pascoli e dei crepuscolari
Primo capitolo. Il tema del fanciullo in letteratura dalla classicità al XIX
secolo - Secondo capitolo. La figura del fanciullo in d’Annunzio - Terzo ca-
pitolo. Pascoli: dal Fanciullino ai fanciulli - Quarto capitolo. La condizione
crepuscolare del fanciullo - Conclusioni - Indice dei nomi
2015 pp. 286

286

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