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Giuseppe Rocco
COMPENDIO DI LETTERATURA
ITALIANA
Per la scuola media
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INDICE
INTRODUZIONE ………………………………………………………………………………5
IL MEDIOEVO …………………………………………………………………………………6
Il quadro storico-politico. ………………………………………………….............................6
Il quadro culturale. …………………………………………………………………………....7
Il volgare italiano. …………………………………………………………………………….8
L’attività letteraria in Italia. ………………………………………………..............................8
La poesia in volgare. ………………………………………………………………………….9
La poesia religiosa umbra. ……………………………………………………………………9
Le sacre rappresentazioni. …………………………………………………….........................9
La Scuola siciliana. ……………………………………………………………………………9
Il Dolce Stil Novo. ……………………………………………………………………………10
Dante e il Dolce Stil Novo. …………………………………………………………………..10
La poesia comica toscana. ……………………………………………………………………10
Cecco Angiolieri. ……………………………………………………………………………..10
Il mondo della Divina Commedia di Dante Alighieri. ………………………………………..11
Il mondo del Canzoniere di Francesco Petrarca. ……………………………………………...16
Il mondo del Decameron di Giovanni Boccaccio. …………………………………………………18
IL RINASCIMENTO …………………………………………………………………………….21
Il quadro storico-politico. ……………………………………………………………………...21
Il quadro culturale. …………………………………………………………………………….22
L’attività letteraria in Italia. ……………………………………………………………………23
L’epica rinascimentale italiana. ………………………………………………………………..23
Tre grandi protagonisti del Rinascimento italiano. ……………………………………………24
Niccolò Machiavelli. …………………………………………………………………………..24
Ludovico Ariosto. ……………………………………………………………………………..25
Torquato Tasso. ……………………………………………………………………………….27
IL SEICENTO E IL SETTECENTO. ………………………………………………………….29
Il quadro storico-politico. ……………………………………………………………………..29
Il quadro culturale del Seicento. ………………………………………………………………29
L’attività letteraria nell’Italia del Seicento. …………………………………………………...30
Il quadro culturale del Settecento. …………………………………………………………….30
L’attività letteraria nell’Italia del Settecento. …………………………………………………31
Nuove forme espressive nel Seicento e nel Settecento italiano. ………………………………31
La Commedia dell’arte. ……………………………………………………………………….31
Le maschere della Commedia dell’arte. ………………………………………………………31
Giuseppe Parini. …………………………………………………………….............................33
Carlo Goldoni. …………………………………………………………………………………34
L’OTTOCENTO …………………………………………………………………………………36
Il quadro storico-politico. ……………………………………………………………………...36
Il quadro culturale. ……………………………………………………………………………..37
Il Romanticismo. ………………………………………………………………………………37
I TEMI DEL ROMANTICISMO………………………………………………………………37
I DUE VOLTI DEL ROMANTICISMO. ……………………………………………………...38
La letteratura romantica in Italia. ………………………………………………………………38
Il Positivismo……………………………………………………………………………………39
IL RUOLO DELLO SCRITTORE. …………………………………………………………….39
IL ROMANZO NATURALISTA. ……………………………………………………………..39
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INTRODUZIONE
Con il termine “Letteratura” si designò in origine l’arte del leggere e dello scrivere e, in seguito, la
conoscenza di tutto ciò che veniva affidato alla scrittura, cioè, come dicevano i latini, alle litterae.
“Letteratura” divenne quindi sinonimo di cultura e di dottrina umana. Ma per orientarsi
nell’immensa materia di opere affidate alla scrittura si è sentita la necessità di procedere a una loro
sistemazione, creando precise partizioni relative all’argomento trattato ora da storici, ora da filosofi,
scienziati, artisti. Nascono così diverse tipologie di letteratura, dalla storiografia alla filosofia, dalle
opere scientifiche a quelle sull’arte.
Attualmente per “Letteratura” si intende l’insieme delle opere affidate, naturalmente, alla
scrittura, nelle quali però emerge un aspetto particolare, quello che trasmette stati d’animo,
ideali, valori, giudizi sul mondo.
Ma quale mondo? Certo quello in cui è vissuto l’autore e che è costruito sulle esperienze del
passato. Ecco perché parliamo di storia della letteratura e precisiamo anche l’ambito geografico in
cui essa si è formata (storia della letteratura italiana, o francese, o inglese ecc.).
Occorre dunque collocare l’opera e il suo autore nel cuore della storia, indicandone i tempi e
individuandone l’evoluzione nei vari movimenti culturali che hanno accompagnato sempre, a
sostegno o a contrasto, gli avvenimenti politici, economici e sociali della storia di un popolo.
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IL MEDIOEVO
Prima di iniziare lo studio dei grandi autori della Letteratura italiana dell’età medievale è necessario
rispondere a queste domande:
Qual era il quadro storico e politico del nostro Paese?
Qual era il pensiero dominante che caratterizzava gli uomini di cultura di questo periodo?
Quale lingua parlavano e in quale lingua scrivevano gli uomini che abitavano la nostra
penisola nel cosiddetto basso Medioevo, cioè nel Duecento e nel Trecento?
Quando avremo chiarito tali questioni, potremo iniziare la rassegna dei grandi poeti e scrittori che
da quei lontani secoli fino ad oggi hanno reso illustre la cultura del nostro Paese.
Il quadro storico-politico.
L’Impero e il Papato.
I fondamenti sui quali si reggeva il mondo medievale erano due grandi istituzioni: l’Impero e il
Papato. Ambedue erano ritenute istituzioni universali e sacre e si disputavano la funzione di guida
di tutto il genere umano. Da questa disputa erano nate tante contese e si erano creati due partiti,
quello dei Guelfi, che appoggiavano il Papato, e quello dei Ghibellini, che appoggiavano
l’imperatore. La maggior parte delle città italiane erano sconvolte da queste due opposte fazioni,
che rivaleggiavano per ottenere il potere cittadino. Ma i Ghibellini subirono un durissimo colpo nel
1266, quando, sul campo di battaglia di Benevento, morì Manfredi, figlio di Federico II di Svevia,
ultimo rappresentante del partito imperiale. A sconfiggerlo era stato il francese Carlo d’Angiò, che
il papa aveva chiamato in aiuto contro il suo avversario Manfredi. I Ghibellini persero il potere in
quasi tutte le città italiane; i Guelfi trionfarono. Ma, se l’Impero, con il crollo del partito ghibellino,
perse il suo prestigio, anche il Papato si venne ben presto a trovare in gravi difficoltà, quando fu
costretto a fare i conti con chi era venuto in suo aiuto ed esigeva ora una pesante ricompensa: il re
francese Filippo il Bello, infatti, pretendeva di sottoporre alla sua autorità non solo alcuni territori
della penisola, ma lo stesso Papato. Dallo scontro con lo Stato nazionale francese il Papato uscì
sconfitto. La Chiesa dovette piegarsi alla volontà e alla potenza della corona francese, trasferendo la
sede papale ad Avignone, nel sud della Francia. La “cattività avignonese”, cioè la prigionia del
Papato nella città francese, durò per circa settant’anni, dal 1309 al 1377: durante questo lungo
periodo, la Chiesa fu guidata da papi francesi e fu amministrata da funzionari francesi. L’”esilio”
ridusse notevolmente la libertà d’azione della Chiesa in Europa e in Italia, e si fece sentire
soprattutto a Roma, lacerata dalle discordie tra le grandi famiglie, che aspiravano al potere della
città.
Il Comune.
Accanto alle due grandi istituzioni dell’Impero e del Papato si era sviluppata in Italia, a partire
dall’XI secolo, un’altra particolare forma di governo, che operava all’interno delle città: il Comune.
Questo organismo politico, che si affermò soprattutto nel centro-nord, fu promosso dalla borghesia
cittadina; si fondava, infatti, sulla libera associazione di artigiani e mercanti (Arti e Corporazioni),
sulla libertà dei commerci e sulla libera espressione delle opinioni politiche, anche se tutti i Comuni
dell’Italia centro-settentrionale appartenevano territorialmente all’imperatore germanico. La
diversità delle opinioni politiche fu causa, all’interno di ogni Comune, di dure contese e di lotte
fratricide, determinate dal desiderio di ciascun partito di ottenere il potere nella città. In particolare,
a Firenze, dopo la sconfitta dei Ghibellini, la lotta politica si svolse tutta nell’ambito della parte
guelfa, a sua volta divisa nelle fazioni dei Bianchi e dei Neri. Fra il 1300 e il 1301 la parte nera,
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sostenuta dal pontefice Bonifacio VIII, ebbe il sopravvento e impose nella città un proprio governo,
che decretò l’esilio di tutti i Bianchi, fra i quali il poeta Dante Alighieri, che apparteneva a questo
partito.
Le Signorie.
Nel corso del Trecento si assistette al progressivo ampliarsi della sfera politica dei Comuni: dalla
città, attraverso l’assoggettamento del contado, si giunse alla formazione di Stati più ampi, le
Signorie, così chiamate perché soggette alla guida di un unico “signore”. In un primo tempo il
regime signorile mantenne, almeno formalmente, le istituzioni del Comune (consigli, magistrature,
organi vari), che però, in seguito, persero di valore. Il signore, infatti, rafforzò il suo potere, che
veniva trasmesso all’erede, e cercò di rendere legittima la propria posizione, richiedendo che fosse
riconosciuta dall’imperatore o dal papa.
Il quadro culturale.
La cultura medievale è profondamente influenzata in ogni suo aspetto dalla Chiesa. Se la
cultura antica poneva ogni felicità nei beni della terra e nella vita che l’uomo vi conduce, in questo
nuovo clima la vera patria è il cielo; la dimora sulla terra è sentita come un periodo di attesa o di
preparazione a quel felice momento in cui l’anima, con la morte fisica, si libererà del peso e
dell’impaccio del corpo e volerà verso la sua vera sede, il cielo.
Il mondo pagano considerava la vita come dominata e oppressa da un fato misterioso e spesso
avverso agli uomini, contro cui era vano anche l’eroismo dei singoli. Ora invece, il mondo cristiano
sosteneva che l’esistenza dell’uomo è vegliata dalla Provvidenza di Dio, i cui segreti sfuggono alla
nostra comprensione, ma che ci conduce alla felicità e alla salvezza.
Accanto a queste posizioni religiose, nel corso del Trecento, si affermano anche correnti di pensiero
“laico”, cioè non soggetto all’influenza della Chiesa. La società comunale e mercantile tende a
valorizzare le virtù dell’intelligenza, dell’astuzia, dell’accorta amministrazione.
Anche l’uomo nel suo aspetto “naturale” appare degno di considerazione. E a poco a poco si
riscoprono, attraverso le testimonianze dell’antichità classica, i valori celebrati dagli antichi
scrittori. E’ su questi nuovi interessi che viene formandosi, verso la fine del Trecento, la cultura
dell’Umanesimo, che avrà grande sviluppo nel secolo successivo.
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Il volgare italiano.
Per oltre cinquecento anni, dalla caduta dell’Impero romano (476 d. C.) sino a qualche decennio
dopo il Mille, in Italia si parlava una lingua che in realtà non era più il latino (almeno quello
“classico” usato al momento del maggiore fulgore di Roma) e non era ancora quello italiano. Era la
lingua parlata del “volgo” cioè dal popolo e per questo chiamata volgare.
Il volgare a lungo fu solo parlato: era dunque una lingua orale, mentre il latino, pur trasformato e
quindi diverso da quello classico, restava patrimonio della classe dei dotti che continuavano a
scrivere nell’antica lingua di Roma.
Alla fine del Duecento, un grande letterato e poeta, Dante Alighieri, affidò al volgare anche la
parola scritta. Dante, infatti, rendendosi conto che il latino non poteva essere compreso che da un
numero limitato di persone, decise di scegliere per il suo imponente poema, la Divina Commedia, il
volgare. E proprio sulla lingua volgare, Dante scrisse un’opera, De vulgari eloquentia, nella quale
definì la sua posizione nei riguardi della lingua letteraria capace di competere con il latino. Come
lui, più tardi usarono il volgare anche Francesco Petrarca per il suo Canzoniere e Giovanni
Boccaccio per il suo Decameron. Attraverso l’opera di questi grandissimi autori, il volgare, e in
particolare il volgare toscano (gli autori erano nati tutti e tre in questa regione), dimostrava di essere
una lingua non solo nuova, ricca, varia, ma utilizzabile per qualsiasi componimento letterario, sia in
prosa che in poesia.
La poesia in volgare.
La poesia religiosa umbra.
La prima voce della letteratura italiana è quella della lirica religiosa in volgare umbro: la voce di
San Francesco, che innalza la sua lode a Dio con il Cantico delle Creature. La poesia religiosa si
esprime infatti soprattutto attraverso la lauda, un canto ritmato, inizialmente in latino, nel quale
hanno modo di esprimersi anche i fedeli. Confraternite di laici, i laudesi, raccolgono testi che
vengono destinati al canto in chiesa, durante le processioni o le ricorrenze religiose.
Una di queste laudi è appunto il Cantico delle Creature di San Francesco. E lauda è anche il Pianto
della Madonna di Jacopone da Todi.
Le sacre rappresentazioni.
Jacopo de’ Benedetti (che usa riferirsi a se stesso col soprannome di Jacopone), vissuto nella
seconda metà del Duecento, dopo una profonda crisi religiosa entrò nell’ordine dei Francescani. La
sua fama è legata alle laudi drammatiche in volgare umbro e in particolare a quella intitolata Pianto
della Madonna. Ma che cos’erano queste laudi drammatiche, e quali esiti hanno avuto? Cerchiamo
di rispondere a queste domande.
Quando la lauda, di cui è esempio il Cantico delle creature di San Francesco, si articola in un
dialogo a due o più voci, essa si trasforma facilmente in uno spettacolo, che ha come scopo quello
di essere presentato a un pubblico, naturalmente di fedeli. Nasce così la lauda drammatica o sacra
rappresentazione, una forma di teatro abbastanza diffusa nel Duecento e nel Trecento, quando
nelle chiese e nei monasteri i fedeli rappresentavano i momenti più importanti della vita di Gesù
Cristo. In Italia si manifestò soprattutto ad opera dei flagellanti, una confraternita religiosa che
durante le processioni si flagellava e nel contempo rievocava, a più voci, fatti della vita di Gesù. Col
tempo si andarono precisando le parti degli attori, la scenografia, i luoghi scelti per l’azione. La
direzione era affidata al festaiolo, una specie di impresario, che era anche il suggeritore e il
macchinista nel caso di utilizzo di macchinari per l’intervento di angeli o di diavoli.
Il Pianto della Madonna di Jacopone, costruito con un dialogo a più voci in versi, da recitare in
chiesa, è dunque una lauda drammatica, prima espressione del teatro popolare italiano.
La Scuola siciliana.
Avrai letto nel libro di storia che alla corte palermitana di Federico II di Svevia, re di Sicilia, si
riunivano numerosi poeti, che dettero vita alla Scuola siciliana. Siamo nella prima metà del
Duecento e questi poeti traggono la loro ispirazione dai trovatori provenzali, cantori e poeti del sud
della Francia che vagavano di corte in corte per celebrare la bellezza della donna amata secondo
uno stile molto raffinato. I poeti della scuola siciliana che utilizzano contenuti simili a quelli dei
trovatori cantano la donna amata come una creatura superiore a cui dichiarano la propria servitù. Ad
essa infatti dedicano la loro poesia come un atto di omaggio, simile a quello del vassallo nei
confronti del proprio signore. La preziosità del linguaggio, lo schema raffinato delle rime,
l’”invenzione” del sonetto fanno di questa scuola poetica un modello a cui si ispireranno poi anche
gli stilnovisti. Tra i più noti esponenti della Scuola siciliana vi furono, oltre allo stesso Federico II,
Pier delle Vigne, celebrato da Dante nella Divina Commedia, Jacopo da Lentini, Guido delle
Colonne.
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Cecco Angiolieri.
Contemporaneo di Dante, Cecco Angiolieri sembra divertirsi a rovesciare in modo burlesco i
modelli stilnovisti; in particolar modo, alla caratteristica celebrazione della donna come creatura
angelica sostituisce, soprattutto nei sonetti dedicati alla donna amata, Becchina, le offese, le ingiurie
e un linguaggio rozzo e volgare. La poesia più celebre dell’Angiolieri è comunque S’i’ fosse foco,
una elencazione di desideri tra i più empi e malvagi, la cui sostanziale scherzosità appare chiara
solo nel finale.
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DA RICORDARE.
La cronologia del viaggio ultraterreno.
Dante immagina di compiere il suo viaggio nell’anno 1300, durante la settimana santa (fra l’8 e il
15 aprile, secondo alcuni studiosi).
L’autore.
Dante Alighieri nasce nel 1265 a Firenze da una famiglia di piccola nobiltà, che parteggia per il
partito politico dei Guelfi. Riceve un’istruzione accurata e si perfeziona negli studi di retorica e di
filosofia. Dedicatosi assai presto alla poesia, canta il suo amore per Beatrice, che gli appare simile a
un angelo inviato da Dio a lui e all’umanità intera per elevare al cielo chiunque la veda. Alla morte
della donna, Dante raccoglie in un’opera, che intitola Vita Nuova, le rime e le prose che aveva
composto in suo onore, decidendo poi di celebrarla in un’opera più degna. Quest’opera sarà la
Divina Commedia, nella quale Beatrice ha il ruolo di guida di Dante nel Paradiso.
Attivo uomo politico (scrive anche un trattato politico, il De Monarchia), Dante prende parte alle
drammatiche discordie tra le famiglie fiorentine guelfe del tempo, divise tra la fazione dei Bianchi,
di cui egli è sostenitore, e quella dei Neri; da questi ultimi, vittoriosi, è costretto all’esilio. A
trentasette anni deve separarsi dalla casa natale, dalla famiglia, dagli amici e, soprattutto, dalla città
che ama d’un affetto profondissimo. Al dolore dell’esilio si aggiungerà poi l’umiliazione di dover
chiedere protezione e assistenza ai potenti principi del tempo. E presso uno di questi, Guido da
Polenta, signore di Ravenna, egli muore nel 1321.
Dante è autore anche di un’opera dottrinale in volgare, il Convivio, di un trattato in latino sulla
lingua, De vulgari eloquentia, di versi in volgare, Rime, e di 13 Epistole in latino, nelle quali parla
anche di vari argomenti che riguardano la sua vita, l’esilio e il suo grande poema.
In tre punti si può sintetizzare l’esperienza di Dante:
1. la fede cristiana;
2. la passione politica;
3. l’esilio da Firenze.
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Il sonetto.
Il sonetto è una breve composizione nata nel Medioevo in Provenza e diffusa in Italia dalla
Scuola siciliana. Fin dalle sue origini il sonetto è composto di quattro strofe: due quartine (strofe di
4 versi) e due terzine (strofe di 3 versi), per un totale di 14 versi. Il sonetto è stata una delle forme
più diffuse nella poesia italiana, fin dai suoi inizi: anche Dante scrisse sonetti e così tanti altri poeti
che incontrerai proseguendo lo studio della letteratura.
Il sonetto è una delle composizioni preferite dal Petrarca, che in esso esprime la pena del suo
sentimento amoroso non corrisposto o il dolore per la morte di Laura, la donna da lui amata. La
pena del sentimento non corrisposto lo ferisce ed egli cerca luoghi deserti perché nessuno gli possa
leggere in viso la sofferenza che prova nell’animo. Solo la natura potrà confortarlo. Ma è una fuga
inutile: può sfuggire agli uomini, non all’amore. Questa pena determina dunque nel poeta due stati
d’animo strettamente legati l’uno all’altro: il desiderio di solitudine e l’aspirazione alla riflessione.
Essi sono resi con grande efficacia rappresentativa nel sonetto Solo e pensoso…Infatti il ritmo grave
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del primo verso (Solo e pensoso i più deserti campi) esprime perfettamente la stanchezza interiore
del poeta vittima d’Amore; l’andamento solenne del secondo (vo mesurando a passi tardi e lenti)
introduce il motivo della solitaria, ininterrotta meditazione. Ecco così delineato lo sfondo su cui
prende rilievo la dolorosa vicenda del protagonista.
La canzone.
Anche la canzone, come il sonetto, è una forma di composizione poetica usata dal Petrarca. La
canzone si compone di strofe, chiamate stanze, in numero variabile da cinque a sette; chiude la
canzone una stanza più breve, detta commiato. Essa può, come il sonetto, avere contenuti diversi.
Quella petrarchesca canta soprattutto l’amore del suo poeta per Laura, motivo fondamentale del
Canzoniere.
L’autore.
Francesco Petrarca nasce ad Arezzo nel 1304, da esuli fiorentini. Giovanissimo, si trasferisce con
la sua famiglia in Provenza, ad Avignone, la città che, per volontà dei re francesi, è divenuta la sede
del Papato. Per ubbidire al padre, segue gli studi di giurisprudenza, ma in realtà predilige quelli
letterari. Il venerdì santo del 1327, nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone, vede una bellissima
donna, Laura, e si innamora di lei. Questo amore, non corrisposto, sarà l’argomento della sua opera
maggiore, il Canzoniere, composto di 366 liriche. Le sue poesie lo rendono presto famoso, tanto
che egli ottiene la corona di poeta dal re di Napoli, Roberto d’Angiò. Postosi al servizio della curia
papale e di potenti famiglie del suo tempo, riceve molti incarichi diplomatici e si reca in varie città
italiane, presso le corti di principi e signori. Trascorre gli ultimi anni della vita tra Padova, Venezia
e ad Arquà, sui colli Euganei presso Padova, dove muore nel 1374.
Oltre che del celebre Canzoniere, Petrarca è autore di molte altre opere, quasi tutte in latino. Tra
quelle in versi, si ricordano particolarmente il Bucolicum carmen e il poema Africa; tra quelle in
prosa, alcuni trattati (come il Secretum e il De vita solitaria) e le Epistole. L’unica altra sua opera in
volgare è il poema allegorico I Trionfi.
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L’autore.
La splendida corte di Napoli dove regna Roberto d’Angiò è l’ambiente in cui si manifestano i primi
interessi letterari di Giovanni Boccaccio che, nato nel 1313 a Certaldo (presso Firenze), si reca
giovanissimo nella città partenopea e lì soggiorna per oltre un decennio (1327 – 1340). Gli anni
felici trascorsi a Napoli si riflettono nelle sue prime composizioni in prosa e in poesia. A Firenze,
nel 1348, Boccaccio è testimone della terribile pestilenza che colpisce la città e che diventa lo
scenario e lo sfondo della sua opera maggiore, il Decameron, a cui è affidata la sua fama. Muore nel
1375 a Certaldo, dove si era ritirato negli ultimi anni della vita per dedicarsi allo studio di testi latini
e greci.
Conosciuto quasi esclusivamente per il Decameron, massimo capolavoro della prosa trecentesca,
Boccaccio è tuttavia autore di molte altre opere in volgare, come le Rime, diversi poemi e poemetti
(tra cui il Filostrato, l’Amorosa visione e il Ninfale fiesolano), alcuni romanzi (Filocolo, Elegia di
Madonna Fiammetta), il Ninfale d’Ameto (misto di prosa e poesia), il Trattatello in laude di Dante.
Dedicatosi, negli ultimi anni della vita, agli studi eruditi sulle lingue classiche, Boccaccio ha
lasciato anche diverse opere in latino.
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IL RINASCIMENTO
Il Rinascimento italiano, forse la stagione più bella e vitale di tutta la nostra cultura, influenzò, con
la poesia, con il pensiero e con l’arte, tutte le letterature europee. Fu un’età caratterizzata da una
nuova concezione dell’uomo, di cui non si esaltavano più, come nel Medioevo, le virtù della
contemplazione e della rinuncia, bensì l’azione, l’energia, la forza della volontà.
Se il monaco era stato l’uomo-tipo del Medioevo, il protagonista della nuova età fu il capitano di
ventura, il Signore, colui che, con la forza dell’ingegno e delle armi, cioè con virtù attive, creava la
propria fortuna. In questo periodo la cultura e l’arte classica vennero studiate con nuovo amore. Si
leggevano gli antichi testi con venerazione, con umiltà e con rispetto, se ne studiava la lingua
originale, esempio anch’essa di armonia e di eleganza: in quegli antichi autori, secondo il pensiero
del Rinascimento, si ritrovavano i principi della saggezza e della capacità umana. Da ciò nacque la
condanna del Medioevo, avvertito come un’età di barbarie e di ignoranza, mentre ci si sentiva
orgogliosi di scoprirsi eredi della civiltà classica e continuatori del suo messaggio.
Il quadro storico-politico.
Dalla Signoria al Principato.
Nel corso del Quattrocento la maggior parte dei Comuni dell’Italia centro settentrionale si era
ormai evoluta nella forma della Signoria.
A Milano si era costituito il potere dei Visconti, con un’estensione regionale che giungeva fino al
Piemonte, e che confinava con lo Stato veneziano, con la Toscana, con l’Emilia e con l’Umbria. A
Verona e Vicenza dominavano gli Scaligeri, a Mantova i Gonzaga, a Ferrara (e poi anche a Modena
e Reggio) gli Estensi, a Firenze i Medici. Quando poi il papa o l’imperatore riconobbero
ufficialmente ai vari signori il possesso dei domini territoriali, alle Signorie si sostituì una nuova
forma di governo che prese il nome di Principato e il signore acquistò il titolo di duca. La divisione
dell’Italia centro settentrionale in vari Principati dette inizio a una serie di contese che logorarono la
vita politica di ciascuno di essi e che spinsero i vari principi a chiedere l’aiuto delle potenze
straniere. Queste volentieri intervennero nelle vicende interne dell’Italia, per assicurare la pace ma
in realtà con lo scopo di imporre la propria “protezione”. Ebbe così inizio la dominazione delle case
regnanti d’oltralpe nel nostro Paese: Francia, Spagna, Germania portarono i loro eserciti in Italia e
qui, ora affiancati, ora osteggiati dai vari principi e dal papa, sconvolsero il territorio della penisola,
che diventò campo di battaglia delle loro contese non solo per il predominio sull’Italia, ma anche
sull’Europa.
Un’Europa in fiamme.
Il Cinquecento fu per l’Europa, scossa da gravi conflitti politici e religiosi, un secolo di grandi
turbamenti. Protagoniste ne furono le corone di Francia, d’Inghilterra, ma soprattutto quella di
Spagna, quando ascese al trono imperiale Carlo V, erede da parte di madre del regno spagnolo e da
parte di padre dell’impero germanico. La posizione di grande potere e prestigio della Spagna fu
causa di rivalità con le altre potenze europee, in particolare Francia e Inghilterra, con le quali
scoppiarono violente guerre che si protrassero per decenni e si complicarono, poi, in seguito a
sanguinosi conflitti religiosi.
La riforma luterana.
Nel 1517, infatti, il monaco agostiniano tedesco Martin Lutero, traendo occasione dalla vergognosa
campagna di commercio delle indulgenze promossa da papa Leone X per la costruzione della
basilica di San Pietro, pubblicò le sue tesi di riforma della Chiesa di Roma. Il papa tentò, senza però
riuscirvi, di soffocare le tesi luterane, che erano state accolte da numerosi principi tedeschi, e trovò
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un alleato nell’imperatore Carlo V. Questi, infatti, condannò Lutero come fuorilegge, sollevando
però le proteste dei principi tedeschi sostenitori della riforma luterana. Di qui il termine di
“protestanti” per i seguaci di Lutero a cui si contrappongono i seguaci della Chiesa universale di
Roma, che prendono il nome di “cattolici” (dal greco katholikòs = universale).
Il quadro culturale.
Umanesimo e Rinascimento.
Fra il XV e il XVI secolo l’Italia vive e trasmette all’Europa quel rinnovamento culturale che va
sotto il nome di Rinascimento.
In questo periodo, portando a compimento un indirizzo cominciato già nel XIV secolo, la cultura e
l’arte classica vengono studiate con nuovo amore: si cercano nelle biblioteche dei monasteri e si
leggono gli antichi testi latini e greci, le cosiddette humanae litterae. Da questa espressione nasce il
termine Umanesimo, con cui viene indicato il nuovo fervore verso il mondo classico. L’humanitas
recuperata nei classici sembra offrire il modello di un uomo libero, ricco di forze creative, in
armonioso rapporto con la natura. Un uomo, dunque, che è considerato centro dell’universo, misura
di tutte le cose, libero artefice del proprio destino.
L’esaltazione dell’uomo non si limita solo al valore del suo ingegno ma si estende anche a
celebrarne l’armonia del corpo, la bellezza, così come si ricerca la perfetta armonia degli edifici e
delle figure nelle rappresentazioni pittoriche. Si studia ora la legge della prospettiva, che consente di
riprodurre sul piano lo spazio nelle sue proporzioni reali.
Anche il rapporto con il tempo si modifica: si comincia ora a comprendere la diversità delle varie
epoche. Nasce una coscienza storica che comporta uno studio critico degli eventi e dei suoi
protagonisti.
della caricatura e dell’”avventura”, sia trame secondarie che si sviluppavano e si dilatavano a spese
della principale.
Giullari e cantori in realtà adattavano, forse inconsapevolmente, la materia del ciclo carolingio allo
spirito dei tempi, assai diversi, nei quali si trovavano a vivere e dei quali essi, a continuo contatto
con la folla, erano, per il loro stesso mestiere, i primi a cogliere le nuove esigenze e i mutamenti del
gusto.
Due sono i grandi filoni del poema epico-cavalleresco in Italia: il primo, che fa capo a Matteo
Maria Boiardo e a Ludovico Ariosto, sviluppa il motivo dell’avventura fino a risolverlo in una
stupenda e remota fiaba, in un’evasione romanzesca; l’altro, più legato alla cultura dei giullari,
sottolinea l’aspetto comico e grottesco di quel mondo: Luigi Pulci ne è il massimo rappresentante.
Poi sarà la fine anche di questa nuova fase del poema cavalleresco. Il cavaliere non ricomparirà più
nella cultura occidentale. Ci ha salutato con l’angoscia e la malinconia del solenne paladino di
Cristo di Torquato Tasso e con l’amarezza disincantata di Don Chisciotte, grottesco e solitario
personaggio di Miguel de Cervantes.
Niccolò Machiavelli.
Niccolò Machiavelli è, insieme a Ludovico Ariosto e Torquato Tasso, uno dei grandi protagonisti
della cultura rinascimentale. Come tutti gli intellettuali del suo tempo, egli vede l’uomo nella sua
dimensione terrena. Ma mentre gli altri scrittori, poeti, filosofi ne celebrano la supremazia,
ponendolo al centro del creato, Machiavelli ne riscontra gli aspetti negativi: l’egoismo, la volontà di
sopraffazione, il desiderio smodato di ricchezze. Per Machiavelli, insomma, l’uomo è malvagio.
Chi, a questo punto, può intervenire a controllare e a moderare la malvagità umana? Nella
prospettiva tutta terrena del Rinascimento, non può più trattarsi di Dio, come pensava l’intellettuale
del Medioevo: guardando con coraggio le cose nella loro realtà, senza finzioni né vane illusioni,
Machiavelli giunge alla conclusione che solo uno Stato forte, ben guidato da un Principe può
vincere la crudeltà dei singoli individui e costituire un organismo saldo e pacifico al suo
interno.
L’autore.
Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469 e fin da piccolo studia con passione i classici latini,
in particolare le Storie di Tito Livio. Verso i trent’anni inizia la sua carriera politica, entrando al
servizio della Repubblica fiorentina instaurata a seguito della cacciata dei Medici dalla città.
Numerose sono le sue “missioni” diplomatiche, sia in Italia sia all’estero: egli ha modo così di
confrontare le forme di governo e le teorie politiche degli antichi con l’esperienza diretta della
realtà contemporanea. Tutto questo contribuisce alla formazione del suo pensiero politico. La
caduta della Repubblica fiorentina e il ritorno dei Medici al governo della città costringono
Machiavelli a un forzato esilio nei suoi possedimenti di San Casciano, nei pressi di Firenze, dove la
meditazione sui fatti politici del presente e del passato fa scaturire le sue opere più importanti: il
trattato Il Principe, la commedia La Mandragola, i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio,
Dell’arte della guerra e la novella comica Belfagor Arcidiavolo. Egli si riavvicina, poi, ai Medici,
che gli danno l’incarico di occuparsi della difesa della città, minacciata dalle truppe di Carlo V. Ma
la vittoria di quest’ultimo e la nuova cacciata dei Medici segnano per lui la fine di ogni attività
politica. Muore a Firenze nel 1527.
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Ludovico Ariosto.
Nell’universo dell’Orlando furioso, il poema cavalleresco per il quale Ludovico Ariosto è
universalmente celebre, si proietta il mondo del Rinascimento con i suoi valori: l’esaltazione
dell’uomo e della sua capacità di reagire al caso, al destino avverso; la celebrazione
dell’amore come l’elemento che muove tutte le cose; la gioia di vivere, sia pure con la
consapevolezza che tutto ciò che è più bello è destinato presto a finire. Ed è proprio questa
concezione della vita che caratterizza la poesia narrativa dell’Ariosto: essa non si propone gli scopi
che, circa duecento anni prima, si era prefisso Dante: non vuole insegnare valori morali o educare
alla religiosità. Si tratta invece di una poesia che, attraverso l’immaginazione, mira a creare un
mondo fantastico di felicità e bellezza, nel quale trovano equilibrio e armonia anche le numerose
vicende a cui l’autore dà vita.
L’Orlando furioso comprende quarantasei canti, ciascuno diviso in una serie di ottave, cioè strofe (o
stanze) di otto versi endecasillabi (ovvero di undici sillabe).
L’ottava, già presente nella poesia narrativa tradizionale, diventa qui uno strumento prezioso
mediante cui l’autore riesce a dare ordine alle vicende raccontate: nel poema ariostesco contenuto
e forma si fondono, cioè, in modo tale da assicurare un andamento ordinato alla materia
estremamente varia e al complesso intrecciarsi dei vari “fili” narrativi. Si tratta di un aspetto molto
importante, in quanto il fine dell’Ariosto consiste proprio nel piacere della narrazione,
dell’immaginazione fantastica, della creazione di un mondo equilibrato e armonico.
Sebbene la sua poesia non sia volta a insegnare né a educare con precetti morali, nelle avventure
che egli racconta e nei personaggi che ne sono protagonisti è comunque possibile cogliere aspetti
della vita reale, leggere, come in uno specchio, i sogni, le illusioni, le delusioni, gli inganni, le
passioni che fanno parte della esistenza dell’uomo.
I personaggi dell’Orlando furioso sono sempre in movimento, sempre alla ricerca di qualcosa: il
caso li fa incontrare, li fa scontrare, li fa ritrovare, proprio come accade nella vita quotidiana, dove
ciascuno di noi è sempre, giorno dopo giorno, in movimento alla ricerca di qualcosa che dovrebbe
soddisfarlo pienamente. Ma anche se riusciamo a raggiungere la nostra mèta, un’altra, subito dopo,
se ne presenta, e così via, fino alla fine della nostra esistenza. E su questa corsa degli uomini verso
l’oggetto del loro desiderio cala l’ironia del poeta che, se da una parte esalta la natura umana,
dall’altra ne mette in luce le debolezze e sa accettarne i limiti con sorridente consapevolezza.
Le avventure narrate nel poema ariostesco traggono occasione da quelle narrate dal poema Orlando
innamorato di Matteo Maria Boiardo e interrotte dalla morte dell’autore. La conoscenza di queste
avventure è quindi necessaria per la comprensione di quelle narrate dall’Ariosto.
Il poema di Matteo Maria Boiardo, che fin dal titolo dichiara di voler fondere l’elemento eroico del
ciclo carolingio (Orlando) con quello amoroso del ciclo bretone (innamorato), si sviluppa in un
intreccio complesso di trame, di cui la principale è la seguente.
La bellissima Angelica, figlia del re del Catai, giunge a Parigi, presso la corte di Carlo Magno dove
migliaia di cavalieri cristiani e pagani sono riuniti per un torneo. Essa è accompagnata dal fratello
Aralia e si promette al cavaliere che riuscirà a sconfiggere quest’ultimo. Quando però Ferraguto
uccide Aralia, Angelica non tiene fede al patto e fugge verso l’Oriente, inseguita da tutti i paladini,
che nel frattempo si sono innamorati di lei, in primo luogo Orlando e Ranaldo. Nella foresta delle
Ardenne la fanciulla beve alla magica fonte dell’amore e si innamora di Ranaldo, il quale, invece,
ha bevuto a quella dell’odio e la sfugge, mentre il fido Orlando la protegge. Dopo varie peripezie,
l’inseguimento d’amore riporta i personaggi nella foresta delle Ardenne, dove Ranaldo e Angelica
devono nuovamente alle due fonti magiche, ma scambiando l’incanto: ora è il paladino innamorato
a inseguire la fanciulla che fugge. Per amore di lei, Orlando e Ranaldo, a Parigi, si azzuffano e il re
Carlo Magno è costretto a separarli, affidando Angelica alla custodia del duca Namo e
promettendola a colui che più valorosamente combatterà i Saraceni.
Qui termina il poema interrotto, come si è detto, dalla morte dell’autore. Ma la sua storia sarà
ripresa e proseguita da questo punto nell’Orlando furioso dell’Ariosto.
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L’autore.
Quando Ludovico Ariosto, nel 1516, pubblica la prima edizione dell’Orlando furioso ha 42 anni.
Nato infatti, a Reggio Emilia, nel 1474, è entrato nel 1504 al servizio del cardinale Ippolito d’Este,
fratello del duca Alfonso, signore di Ferrara. A quest’epoca ha già scritto due commedie e dei carmi
in latino, ma il suo interesse è rivolto ai poemi cavallereschi e, in particolare, all’Orlando
innamorato che l’autore, il Boiardo, non ha potuto completare. Perché non continuare questa bella
storia che narra, fra l’altro, anche l’amore contrastato di due giovani, Bradamante e Ruggiero,
indicati nel poema del Boiardo come i progenitori degli Estensi?. Potrà in tal modo celebrare la
gloria della famiglia d’Este, presso la quale è impiegato come poeta di corte. Nasce così il grande
poema che canta le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, le audaci imprese dell’antico
mondo cavalleresco.
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Come poeta di corte l’Ariosto accompagna i suoi signori, prima il cardinale Ippolito, poi il duca
Alfonso, in varie missioni politiche ed ha svariati incarichi amministrativi, che svolge con grande
capacità. Trascorre gli ultimi anni della vita a Ferrara, dove muore nel 1533.
Oltre che del poema che rappresenta il suo capolavoro, Ariosto è autore di Rime petrarchesche di
argomento amoroso, di sette Satire in versi e di cinque commedie – importanti in quanto sono le
prime scritte in lingua italiana – tra le quali si ricordano particolarmente La Lena e Il Negromante.
Torquato Tasso.
Già dalla scelta dell’argomento, i fatti della Prima crociata, e dallo sfondo religioso sul quale si
colloca la trama del suo capolavoro, il poema eroico Gerusalemme liberata, Torquato Tasso
dimostra di esprimere lo spirito dei tempi nuovi. Siamo, infatti, ancora nel Cinquecento, ma il
Rinascimento ha ormai ceduto il passo all’età della Controriforma e anche l’arte non può non
tenerne conto.
L’immaginazione creativa dell’artista deve ora essere temperata dalla religiosità; le sue
narrazioni devono tendere all’elevazione morale del lettore; sentimenti e passioni umane devono
risultare alla fine meno importanti del dovere morale e dei precetti divini.
In questa nuova prospettiva, è ovvio che l’elemento fantastico fine a se stesso, che ha caratterizzato
la letteratura cavalleresca e lo stesso Orlando furioso, non sia più gradito; magie e incantesimi, che
pure esistono e hanno importanza nel poema del Tasso, trovano così una spiegazione accettabile per
il buon cristiano: altro non sono che i mezzi usati dal Maligno per ingannare gli uomini.
Con la Gerusalemme liberata, poema in ottave diviso in venti canti, il poema cavalleresco
diviene poema eroico. Il Tasso cerca infatti di conciliare la libera creazione della fantasia e il
fine morale e religioso, che l’arte deve avere secondo i valori imposti dalla Chiesa cattolica
della Controriforma. E’ per questo che il poema è caratterizzato dall’elemento eroico-drammatico:
nelle vicende narrate, che hanno esiti talvolta tragici, ma anche nel modo stesso in cui i personaggi
le vivono. L’amore, ad esempio fra Clorinda saracena e Tancredi cristiano, non solo non si può
realizzare, ma nemmeno manifestarsi e su tutti i protagonisti incombe un oscuro destino di fronte al
quale ogni sforzo umano risulta vano. La sofferenza deve sollecitare l’uomo a guardare oltre la vita
terrena: questo è l’insegnamento morale del Tasso. Attraverso il dolore ogni uomo può correggersi,
migliorarsi in vista della futura vita ultraterrena.
Ma la grandezza dell’opera sta anche nella piacevolezza di un racconto che, pur avendo le sue radici
nella storia (la prima crociata), offre al poeta la possibilità di arricchire la vicenda con prodigi e fatti
soprannaturali e fantastici. Foreste incantate, apparizioni di demoni e di angeli, maghe bellissime
possono benissimo essere materia di un poema cristiano, solo se, però, questo mondo meraviglioso
è finalizzato al rinnovamento morale e religioso del lettore.
L’autore.
Torquato Tasso vive nella seconda metà del Cinquecento, periodo in cui la grande stagione del
Rinascimento entra in crisi: alla Riforma di Martin Lutero la Chiesa risponde con la Controriforma;
sono fissate le prescrizioni religiose e le terribili punizioni per chi trasgredisce. E’ questo clima, che
naturalmente coinvolge anche la cultura, ad alimentare la poesia del Tasso. Nato a Sorrento nel
1544, egli dimostra fin da giovane un grande amore per la lirica, tanto da comporre a soli quindici
anni un primo abbozzo del suo futuro capolavoro, la Gerusalemme liberata, che vedrà la luce nel
1580. Tasso è intanto stato assunto come poeta di corte presso gli Estensi, al servizio del duca
Alfonso II. Il timore di aver composto opere che non siano corrispondenti al dettato della
Controriforma turba però profondamente l’equilibrio mentale del poeta, che comincia a manifestare
una sorta di fissazione religiosa, tanto da venir rinchiuso in manicomio, per ben sette anni, fino al
1586. Gli ultimi nove anni della vita il Tasso li trascorre peregrinando per l’Italia, finché non si
ferma a Roma, dove godrà della protezione di papa Clemente VIII fino alla morte, avvenuta nel
1595. Fra le altre opere lasciate dall’autore della Gerusalemme liberata, si ricordano
particolarmente le circa 2000 Rime, il romanzo cavalleresco Rinaldo, l’Aminta, una favola pastorale
in versi adatta alla rappresentazione teatrale, e il rifacimento in toni assai più cupi e severi del suo
poema, con il titolo di Gerusalemme conquistata.
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IL SEICENTO E IL SETTECENTO
Il quadro storico-politico.
Nei grandi Paesi europei si affermò nel Seicento l’assolutismo, cioè quel regime in cui il regnante
ha potere assoluto, illimitato. Simbolo di questo potere fu Luigi XIV, re di Francia, chiamato “Re
Sole”. Contemporaneamente l’Italia era ormai soggetta al predominio della Spagna che mostrava
già i segni della sua decadenza politica ed economica, dovuta soprattutto al ridursi dell’afflusso di
metalli preziosi dalle colonie americane e alle ingenti spese militari richieste dalle guerre nelle quali
era coinvolta.
Il Seicento fu infatti un secolo di grandi conflitti fra le potenze europee e all’interno degli stessi
Stati nazionali (la guerra dei Trent’anni, le guerre di successione, le guerre di religione).
Alla conclusione di tali conflitti, importanti furono i mutamenti per l’Italia. I possedimenti spagnoli
passarono infatti all’Austria, il ducato di Savoia s’ingrandì con l’acquisto della Sardegna e i duchi
di Savoia assunsero il titolo di re di Sardegna.
Nella seconda metà del Settecento fino alle guerre rivoluzionarie di fine secolo, l’Italia poté godere
di un lungo periodo di pace, durante il quale fu realizzato un vasto programma di riforme. Fu in
questo periodo, infatti, che in tutta Europa i sovrani assoluti promossero una serie di riforme, allo
scopo di rendere lo Stato più efficiente e più moderno.
Ma questo “dispotismo illuminato”, così viene definita tale particolare forma di assolutismo
riformatore, non sfiorò la Francia, sebbene proprio là fosse nata la spinta al rinnovamento. Un
generale malcontento iniziò allora a serpeggiare fra le file della borghesia francese contro la nobiltà
oziosa e parassitaria e contro l’alto clero, che accresceva ogni giorno il suo potere.
Il Barocco.
Parallelamente, anche nelle arti si affermarono, con il Barocco, una nuova visione della realtà e
nuove forme espressive. Il Barocco (termine derivante da una parola spagnola che significa
“irregolare, bizzarro”) mirava a cogliere nella natura la continua trasformazione, il divenire, il
nuovo per trasferirli nella rappresentazione artistica: al posto della misura e dell’equilibrio
rinascimentali, il Barocco ricercava l’effetto dello stupore e della meraviglia; contemporaneamente,
l’arte non si proponeva il fine di educare, bensì quello di suscitare il piacere e il diletto.
L’Illuminismo.
In conseguenza di quanto sopra accennato, la cultura e il pensiero del Settecento sono dominati
dall’Illuminismo, un movimento di idee vasto e complesso, fondato sulla fiducia nelle capacità
razionali dell’uomo e sulla coscienza della sua dignità. Il suo nome deriva appunto dai “lumi” della
ragione, chiamata a squarciare le “tenebre” della superstizione e dell’ignoranza, per trasformare e
migliorare la società.
L’Illuminismo fu pertanto un movimento progressista e riformatore, animato da una grande fiducia
nel progresso e nella possibilità di rendere la società sempre più rispondente ad un ideale di
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razionalità e di giustizia. Questo progetto è realizzabile, secondo gli illuministi, attraverso una
diffusione sempre più ampia del sapere, sia fra le classi più elevate che fra quelle più umili.
Le nuove idee penetrarono anche nelle corti dei sovrani europei, che, come si è visto, realizzarono
una serie di riforme nei loro Paesi. L’aspirazione alle riforme trovò un efficace canale di diffusione
nei club, nei caffè, nei salotti ma soprattutto attraverso la stampa periodica: giornali e riviste si
trasformarono in efficaci strumenti per la formazione di una opinione pubblica, stimolando vivaci
dibattiti su argomenti di varia natura ma sempre legati all’attualità.
Qui di seguito ti offriamo un panorama delle principali maschere e dei ruoli che esse svolgevano
negli spettacoli improvvisati della Commedia dell’arte.
PANTALONE.
E’ un vecchio avaro, brontolone, gretto, nemico dei giovani se non delle giovani, alle volte
innamorato, ridicolo, ma naturalmente beffato e scornacchiato. Quando si affaccia sul palcoscenico
la sua figura tutta spigoli – naso adunco, barba aguzza, scarpe a punta rialzata – ecco subito
borbottii cavernosi, piagnistei e maledizioni.
LE SERVETTE.
Di solito intriganti, favoreggiatrici, spesso coinvolte in prima persona in vicende amorose, sanno
con abilità trarsi facilmente d’impaccio e aiutare a uscire dai guai la propria padroncina, cui restano
sempre incrollabilmente fedeli.
Tra i nomi più ricorrenti: Fraschina, Smeraldina, Pasquetta, Turchetta, Ricciolina, Diamantina,
Corallina, Colombina.
IL CAPITANO.
Un’altra maschera tipica è quella del Capitano, il cavaliere, di solito ridicolo e dai nomi più
stravaganti: Capitan Spaventa da Villinferna, Rodomonte, Matamoros, Coccodrillo, Bombardone,
Scaricabombardone, Spezzaferro, Spaccamonti, Fracassa, Bellavista, Zerbino. E’ uno smargiasso,
coraggioso a parole, vigliacco e pauroso nel momento del pericolo.
PULCINELLA.
Pulcinella, nome antico che significa “piccolo pulcino”, è la tipica maschera napoletana.
L’ideale di Pulcinella è il dolce far niente, i suoi sospiri sono per i maccheroni; Pulcinella si adatta a
tutte le parti, compresa quella del ladro, truffatore, mezzano; s’ubriaca, si lascia bastonare, alle volte
gli capita anche di peggio. Pulcinella ha tuttavia, per tirare avanti, un doppio segreto: cantare e
prendere il mondo con filosofia.
BALANZONE.
Esperto in giurisprudenza, talvolta medico, indossa sempre una lunga toga nera. Il suo cognome
nasce probabilmente dalla parola “baldanza” che significa bilancia, oggetto che è il simbolo della
giustizia; oppure dalle “balle”, dalle frottole cha va spacciando.
Giuseppe Parini.
Con Giuseppe Parini si comincia ad affermare la moderna figura dell’intellettuale protagonista di
una funzione sociale. L’interesse per la “pubblica utilità” pone infatti il poeta milanese nel clima
dell’Illuminismo, del quale egli accetta con convinzione l’impegno per il trionfo dell’uguaglianza,
della giustizia, della libertà dai soprusi e dall’ignoranza. Traguardi da raggiungere attraverso
riforme, senza ricorrere alla violenza rivoluzionaria. Anche la poesia, dunque, può dare il proprio
contributo, denunciando gli aspetti negativi della società, in particolare del mondo vuoto, fatuo e
ostile della nobiltà, che Parini colpisce con la sua satira, ora leggera e ironica, ora più feroce e
sarcastica. Egli, infatti, crede in una poesia che, pur procurando piacere con la bellezza e l’eleganza
dei versi, non deve essere puro divertimento o fantasticheria, bensì impegnarsi come strumento di
diffusione delle idee, di formazione morale dei cittadini-lettori per il bene pubblico.
Precettore del Giovin Signore nella finzione narrativa del Giorno, il Parini fu realmente precettore
in una casa aristocratica per molti anni. Ebbe così una posizione privilegiata per osservare i
comportamenti del “bel mondo”, dei quali è esempio caratteristico quello della nobile dama nel
brano La vergine cuccia. Si tratta di un comportamento così palesemente sciocco e ridicolo, da
indurre immediatamente il lettore a un giudizio negativo sulla nobile società settecentesca. La dama
che venera la propria cagnetta e, per il preteso affronto recato ad essa, rovina un uomo e la sua
famiglia non è solo sciocca e ridicola, ma anche malvagia, incapace di giudicare con equilibrio e
pronta a sfruttare la sua posizione per colpire i più deboli. A questo punto il sorriso cede il posto
all’amarezza e alla giusta ribellione nei confronti di un mondo corrotto, ormai intollerabile. Ed è
proprio questa reazione che l’autore vuole suscitare.
Il protagonista del poemetto è il Giovin Signore (al quale, nel testo, il Parini, precettore-narratore, si
rivolge come interlocutore col “tu”): prototipo del nobile settecentesco fatuo e ignorante, immerso
nel suo mondo di lusso, ozioso e noncurante della realtà che lo circonda.
L’opera ha inizio con Il Mattino: all’alba, mentre i contadini e gli operai iniziano la loro giornata di
duro lavoro, il Giovin Signore si è appena addormentato del giusto sonno di chi è da poco rientrato
da una notte di faticosi svaghi mondani. Più tardi egli si alzerà e sarà subito impegnato in una
complessa serie di operazioni: far colazione; ricevere i maestri di canto, di ballo, di francese;
pettinarsi, incipriarsi, vestirsi e agghindarsi per poi precipitarsi alla dimora dell’aristocratica dama
della quale è il “cavalier servente”.
Al Mezzogiorno, la stanza da pranzo della dama apre le sue porte ad un gruppo di invitati, tra i quali
il Giovin Signore eccelle per la sua eleganza e per lo sfoggio della sua apparente cultura. Alla fine
del pasto, una folla di miserabili si accalca all’esterno del palazzo per raccogliere gli avanzi della
mensa. Intanto, per la nobile compagnia, il tempo passa tra un gioco e l’altro: arriva il momento
della passeggiata in carrozza e poi, al Vespro, quello della visita agli amici per amabili chiacchiere e
lievi pettegolezzi. La Notte è infine dedicata al gioco: si preparano i tavoli ed è a questo punto che il
poemetto si interrompe.
L’autore.
Nato nel 1729 a Bosisio, in Brianza, da una famiglia modesta, Giuseppe Parini studia a Milano,
dove nel 1754 diviene sacerdote. Entrato come precettore nel palazzo dei duchi Serbelloni,
partecipa attivamente alla vita intellettuale della Milano illuminista.
Durante la permanenza in casa Serbelloni, durata dieci anni, Parini compone le prime odi di
argomento civile, tra cui si ricorda La salubrità dell’aria. In esse, ispirandosi ai nuovi principi
dell’illuminismo, esalta il ruolo della ragione e i giusti diritti dell’uomo di fronte ai vizi e agli
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ingiusti privilegi della nobiltà del tempo. Egli è infatti sostenitore di una poesia capace, insieme,
di dilettare e insegnare contenuti morali (Discorso sulla poesia). Licenziatosi da casa Serbelloni,
nel 1763 Parini dà alle stampe le prime due parti del poemetto Il Giorno: Il Mattino e Il
Mezzogiorno. Alla terza, Il Vespro, lavora dal 1767 fino al 1780, anno in cui comincia l’ultima, La
Notte, che non riuscirà però a terminare. Sempre a questi anni risalgono nuove odi, fra le quali
L’innesto del vaiuolo, Il bisogno, La musica.
La fama ottenuta attraverso Il Mattino, Il Mezzogiorno e le Odi gli procura, nel 1769, l’incarico da
parte del governo austriaco di dirigere il giornale la “Gazzetta di Milano”. Sempre in questo periodo
ottiene incarichi importanti nel campo dell’educazione. Del 1785 è la sua ode forse più famosa, La
caduta.
Quando, nel 1796, i Francesi occupano Milano, cacciandone gli Austriaci, Parini, fedele al suo
antico impegno civile, entra a far parte della Municipalità, tentando di opporsi agli abusi dei
conquistatori. Proprio l’anno del ritorno degli Austriaci (1799) il poeta muore, lasciando incompiuta
la sua opera più importante, Il Giorno.
Carlo Goldoni.
Prima di Goldoni il teatro italiano era dominato dalla Commedia dell’arte, che, come sappiamo, non
si basava su testi scritti ma utilizzava una semplice trama, il canovaccio, affidando al capocomico e
agli altri attori la scelta delle scene, dei dialoghi, del linguaggio da usare. Le prime commedie di
Goldoni presentano ancora parecchi elementi della Commedia dell’arte. La sua “riforma”, che
aveva come scopo finale la scrittura dell’intera commedia, fu infatti graduale, in modo che il
pubblico si abituasse a poco a poco alla nuova maniera di fare teatro. Con la riforma goldoniana è
affidato all’autore il messaggio che anche questa particolare forma di comunicazione intende
rivolgere al pubblico: un messaggio che non si esaurisce nel far ridere e divertire, ma mira a
cogliere e mostrare i vari aspetti della società e a far riflettere il pubblico sui vizi e le virtù degli
uomini.
La locandiera, protagonista dell’omonima commedia, è una donna indipendente, che domina la
propria vita: nel lavoro e negli affetti sa, infatti, come muoversi e come scegliere. Non è né
un’intellettuale saccente, né una nobile presuntuosa; le sue virtù principali sono la concretezza e il
senso della misura. Anche nella “battaglia” con il cavaliere essa si impone con l’intelligenza di chi
sa ben utilizzare le arti della civetteria, della cortesia, del garbo malizioso; di chi sa raggiungere il
proprio scopo senza umiliare l’antagonista, pur coprendolo di ridicolo agli occhi del pubblico.
Mirandolina rappresenta dunque uno dei “caratteri” meglio riusciti di Goldoni, che rinnova il teatro
portando sul palcoscenico la realtà settecentesca. Le sue commedie, infatti, si possono dividere in
commedie “di carattere” e commedie “di ambiente”: La locandiera è senza dubbio un perfetto
esempio di commedia”di carattere”; sono invece commedie “di ambiente” quelle che, oltre
all’analisi dei caratteri dei singoli personaggi, colgono gli aspetti di una intera collettività vista nel
proprio particolare ambiente: i piccoli artigiani e commercianti del Campiello o i pescatori delle
Baruffe chiozzotte, quest’ultima scritta, per maggior realismo, in dialetto chioggiano.
L’opera del commediografo veneziano nasce infatti dallo stretto rapporto fra la realtà umana e
sociale del suo tempo e la finzione teatrale. “Il mondo – scrive lo stesso Goldoni – mi offre con
straordinaria ricchezza i caratteri di persone che sembrano fatte apposta per essere rappresentate in
commedie istruttive e gradevoli. Il teatro, d’altra parte, mi offre l’occasione e i modi per
rappresentare quei caratteri in modo tale da dare loro il maggior rilievo possibile, coinvolgendo i
personaggi in vicende che risultano gradite al pubblico”.
L’autore.
Nato a Venezia nel 1707, Carlo Goldoni è il più noto e importante autore di commedie del
Settecento italiano. Appassionato ammiratore del teatro e delle compagnie di comici (tanto che,
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giovanissimo, fugge di casa per seguirne una), egli inizia collaborando con i comici della
Commedia dell’arte. Nonostante che il pubblico sembri gradire questo tipo di teatro, Goldoni sente
l’esigenza di un rinnovamento, non solo nella forma, ma anche nei contenuti delle rappresentazioni.
Commedia dopo commedia, egli realizza così la riforma del teatro comico italiano: la recitazione si
basa ora su un testo scritto, che deve essere imparato a memoria; i personaggi sono sempre meno
legati alle maschere tradizionali; le trame si fanno via via più vicine alla realtà; il dialetto veneziano
giunge a sostituire la lingua italiana, nella quale sono però scritti alcuni suoi capolavori. Tra le
opere più famose si ricordano La bottega del caffè, La locandiera, Il campiello, I rusteghi, Sior
Tòdero brontolon, Le baruffe chiozzotte. Il teatro goldoniano riscuote grande successo presso i
contemporanei, ma suscita anche molte critiche soprattutto dagli autori ancora legati alla Commedia
dell’arte. Così, irritato dai contrasti, egli decide di abbandonare l’Italia e di recarsi in Francia, alla
corte del re Luigi XVI presso cui sarà precettore dei principino. A Parigi, dove scrive in francese le
sue Memorie, Goldoni viene colto dalla Rivoluzione del 1789 e quattro anni dopo muore, povero e
dimenticato.
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L’OTTOCENTO
La prima metà del secolo è caratterizzata dalle grandi lotte per la libertà e l’indipendenza di quei
Paesi, come l’Italia e la Germania, che erano divisi in tanti Stati e spesso soggetti al controllo di
potenze straniere. Culturalmente, si sviluppa in questo periodo la corrente letteraria e artistica del
Romanticismo, in seno alla quale fioriscono straordinarie personalità italiane.
In seguito, il progresso economico, derivato dalla rapida industrializzazione, determina, a livello
europeo, un contrasto sempre più stridente fra l’emergente borghesia, con la sua forza economica e i
suoi privilegi, e il proletariato, sfruttato nel lavoro e costretto a vivere in condizioni di miseria. In
questa fase diventa soggetto di studio e oggetto della produzione artistica la “società” nei suoi
aspetti di divisione in classi e di struttura economica: nasce così una nuova corrente culturale, il
Realismo.
Il quadro storico-politico.
Le invasioni napoleoniche.
All’indomani della Rivoluzione francese, emerse per le sue capacità militari e politiche la figura di
Napoleone Bonaparte; convinto assertore degli ideali di uguaglianza, fratellanza e libertà,
Napoleone rappresentava agli occhi di molti una grande speranza: l’ideologia rivoluzionaria si
sarebbe certo diffusa e propagata in tutta Europa, provocando una generale ondata di
trasformazioni e capovolgimenti.
Ma le cose andarono diversamente: Napoleone ben presto rivelò la natura dell’espansione francese
in Europa. La Francia, infatti, mirava a rafforzare la propria potenza e il proprio dominio sul resto
dell’Europa piuttosto che ad aiutare i popoli a migliorare le loro condizioni politiche ed
economiche.
Tuttavia, la presenza delle truppe napoleoniche ebbe, sia pure indirettamente, effetti storicamente
positivi: infatti, da una parte permise il diffondersi degli ideali rivoluzionari e dall’altra sollecitò nei
vari popoli, in genere ostili agli eserciti stranieri, il sentimento dell’amor patrio.
In seguito alla caduta di Napoleone, i rappresentanti delle potenze vincitrici, riuniti in congresso a
Vienna nel 1814-1815, ripristinarono le antiche dinastie sui loro troni: ma gli intellettuali e molti fra
gli appartenenti al ceto borghese, non accettando questo ritorno al passato, all’Ancien Régime,
dettero vita alle cosiddette “Società segrete”. Eredi dello spirito rivoluzionario, queste società
prevedevano in tutta Europa un programma articolato di moti, insurrezioni e ribellioni che miravano
ad ottenere una Costituzione. Questa avrebbe assicurato i diritti politici e civili ai cittadini e, nei
Paesi soggetti ad una potenza straniera, avrebbe aperto la strada all’indipendenza.
problemi potevano essere risolti solo attraverso l’occupazione di vasto territori nei vari continenti
extraeuropei. Si realizzò così la colonizzazione di intere regioni dell’Asia e dell’Africa, per il cui
controllo si scontrarono gli interessi della Francia, dell’Inghilterra e della Germania.
L’espansione coloniale dilatò il potere economico degli Stati che ne erano stati promotori. Si
ampliarono le industrie, se ne svilupparono di nuove che si dotarono di macchinari sempre più
efficienti e veloci e di una manodopera ben organizzata, sempre più numerosa e valida.
Ma questa potenza economica evidenziò il grande divario fra due classi sociali: da una parte la
classe, potente ma poco numerosa, dei grandi industriali proprietari delle fabbriche, dei macchinari,
delle materie prime e delle merci; dall’altra la massa degli operai, forti solo del proprio numero e
della propria miseria, che nient’altro possedevano se non la prole (da qui deriva appunto il termine
“proletario”). Questi, per un misero compenso, senza alcun tipo di assicurazione in caso di malattie,
vecchiaia, morte, con il loro pesante lavoro, che arrivava anche alle dodici ore giornaliere,
assicuravano che tutte le fasi della produzione previste dalla fabbrica funzionassero a dovere,
garantendo così anche un ottimo guadagno ai loro datori di lavoro.
Le lotte sociali.
Il desiderio di migliorare le condizioni di lavoro e di vita della classe operaia provocò la nascita
della lotta di classe, promossa anche da numerosi intellettuali del tempo. Fra questi, Karl Marx
espresse le sue nuove teorie economico-sociali nel Manifesto del partito comunista del 1848. Il
proletariato doveva battersi per eliminare le contraddizioni della società contemporanea, dominata
dalla classe borghese, e doveva impegnarsi a conquistare il potere. Questo programma improntò di
sé gli ultimi decenni dell’Ottocento e gran parte del secolo successivo.
Il quadro culturale.
Il Romanticismo.
Contemporaneo al risveglio dei popoli nel clima risorgimentale europeo, si sviluppò nei primi
decenni dell’Ottocento un nuovo orientamento culturale, che prese il nome di Romanticismo. Il
poeta, lo scrittore, l’artista in genere celebravano un mondo costruito su nobili ideali: la libertà della
patria, il valore degli affetti, il culto della famiglia, l’amore e l’ammirazione per la natura.
Ma alla realizzazione di questi ideali si opponevano le forze negative che operano da sempre nel
mondo: l’egoismo, la prepotente passione per il denaro, la sopraffazione, il sopruso. L’artista si leva
contro di esse e anche se è cosciente dell’inutilità della sua lotta continua a combattere come un
“titano” contro queste forze negative fino alla propria drammatica fine.
Solo chi scopre la fede religiosa troverà un profondo conforto ai mali della vita, nella certezza che
la Provvidenza divina non abbandona mai i suoi figli.
L’amore. In un clima nel quale veniva esaltata la forza del sentimento, un ruolo privilegiato ricoprì
la passione amorosa: l’uomo romantico, dotato di particolare sensibilità, vive l’amore come
passione travolgente e nell’amore sembra quasi annullarsi; la donna, che è l’oggetto di questa
passione, può essere per l’uomo fonte di gioia, di felicità sovrumana quando egli riesce a
conquistarne l’amore. Ma più spesso l’amore si presenta come un desiderio che non può essere
realizzato: e allora colui che ama, ma non è corrisposto, è tormentato da una straziante inquietudine,
da una infelicità profonda che induce alla morte. Amore e morte sono per l’uomo romantico
esperienze estreme che appaiono spesso congiunte.
La natura. Anche la natura assume un significato particolare nella cultura romantica. Sulla natura,
infatti, si proiettano frequentemente le profonde inquietudini dell’uomo. Insofferente di ogni limite
e costrizione, egli trova infatti un riflesso di se stesso negli spettacoli “sublimi” della natura: mari in
furiose tempeste, sconfinate distese ghiacciate, catastrofiche esplosioni vulcaniche, la grandezza e la
forza terribile della natura. Il sublime turba e allo stesso tempo affascina l’uomo, allontanandolo
dalle realtà quotidiane che non lo soddisfano più. La sua ansia, il suo tormento, che nascono dal
contrasto fra illusioni e delusioni, fra ideale e reale, possono finalmente trovare pace solo quando
l’anima riesce a cogliere il senso dell’infinito (sia esso la morte, sia esso Dio) a cui anela l’uomo
romantico. L’infinito è infatti uno dei temi ricorrenti della cultura romantica, dalla letteratura, alla
musica, alla pittura.
Il Positivismo.
Nella seconda metà dell’Ottocento si sviluppa, ad opera di numerosi letterati e pensatori, un nuovo
atteggiamento culturale. La fiducia nel progresso che aveva assicurato il successo
dell’industrializzazione si riflette anche nell’indagine sui comportamenti dell’individuo. Si pensa
che, attraverso uno studio accurato simile a quello utilizzato nelle scienze naturali, si potrà trovare
anche il mezzo di liberare l’uomo dai suoi vizi, avviandolo verso il benessere e la felicità.
Questo nuovo modo di concepire la realtà prende il nome di Positivismo per la sua caratteristica di
basarsi sui fatti, cioè sul dato “positivo” e non sulle creazioni della fantasia o del sentimento come
accadeva nel Romanticismo.
IL ROMANZO NATURALISTA.
Il primo scrittore che applicò il Positivismo alla letteratura, e in particolare al romanzo, fu il
francese Emile Zola (1840-1902), che dette vita alla corrente del Naturalismo. Egli infatti
affermava che si dovevano applicare al romanzo quegli stessi procedimenti scientifici che venivano
applicati alla medicina. La medicina infatti era ritenuta una scienza basata sulla formulazione di
ipotesi da “sperimentare” cioè da mettere alla prova per ricavarne delle leggi valide universalmente.
Anche il romanzo doveva essere sperimentale, cioè seguire dei precisi procedimenti: doveva infatti
essere realizzato cominciando dall’analisi dell’ambiente materiale, morale, sociale da cui è
influenzato l’uomo.
In sostanza, con il Naturalismo, il romanzo diventava un “documento umano”, in cui lo scienziato-
scrittore indagava scientificamente tutte le leggi che regolano i pensieri, i sentimenti e le azioni
degli individui.
In fondo le vicende spirituali non erano altro che un “dato di natura”: come affermava uno dei più
noti pensatori del Positivismo, Hyppolite Taine, “il vizio e la virtù sono prodotti come il vetriolo e
lo zucchero”.
Il Verismo italiano.
Nella seconda metà dell’Ottocento il Naturalismo, penetrando dalla Francia in Italia, cambia nome e
si chiama Verismo. Il termine deriva dalla preferenza che gli scrittori accordano al “vero”, cioè
dall’attenzione che rivolgono al fatto accaduto, al cosiddetto “documento umano”, che viene
rappresentato secondo i metodi delle scienze sperimentali. Gli autori più rappresentativi della
corrente verista sono i siciliani Luigi Capuana e Giovanni Verga, cui si affiancano Federico De
Roberto e Grazia Deledda, che ambienta le sue storie nella natia Sardegna. Essi rivolgono il
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proprio interesse al mondo umile ma dignitoso dei contadini, dei pastori, dei pescatori delle loro
regioni, che esprimono nei loro romanzi e nelle loro novelle.
La forma della prosa si prestava infatti, assai più dei versi, a rappresentare i “casi” umani con il
rigore e l’impassibilità di uno scienziato, a descrivere, cioè, ambienti, eventi e personaggi nella loro
realtà.
Se di poesia realista si vuole parlare, la si dovrà dunque intendere nel senso che il poeta trova lo
spunto in fatti e situazioni della realtà contemporanea e tende ad esprimerli con un linguaggio
chiaro e facilmente comprensibile; caratteristica, questa, che mantiene anche quando affronta temi
personali e intimi, o il rapporto con la natura, la memoria del proprio passato, la storia della patria.
La poesia realista ha il suo maggior rappresentante in Giosue Carducci.
Ugo Foscolo.
Primo nel tempo fra i protagonisti del Romanticismo italiano è Ugo Foscolo. Nella sua opera, sia in
prosa (il romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis) sia in poesia (i 12 Sonetti, il carme Dei Sepolcri,
le Odi, il poemetto Le Grazie) egli esprime la sua partecipazione alla nuova corrente letteraria, non
escludendo però i temi cari ai classici, che celebravano la poesia come canto della bellezza e
dell’armonia delle cose. Per questo egli viene considerato non solo un romantico, ma anche un
“neoclassico”, cioè un nuovo classico.
Nel complesso dell’opera foscoliana si possono distinguere infatti le due tendenze, quella
neoclassica e quella romantica. Alla prima appartengono le Odi e Le Grazie, celebrazione della
bellezza e dell’armonia che riescono ad acquietare le tormentose angosce dell’animo umano.
Alla seconda fanno capo le Ultime lettere di Jacopo Ortis, i Sonetti e il carme Dei Sepolcri.
Il romanzo ha come tema centrale quello dell’infelicità e della disperazione, sia sul piano politico,
sia su quello personale: Jacopo, giovane e passionale rivoluzionario veneziano, in cui si riflette la
natura dello stesso Foscolo, è infatti spinto al suicidio dalla terribile delusione procuratagli da
Napoleone con la cessione del Veneto all’Austria e dall’angoscia per un amore che non può essere
corrisposto.
Nei Sonetti dominano invece il tema dell’amore e degli affetti familiari, la nostalgia dell’isola
natale, Zacinto, e il presentimento dell’esilio.
Il carme Dei Sepolcri, infine, si ispira all’esigenza di salvare ciò che è grande e bello dalla morte,
dal nulla eterno a cui tutte le cose e gli uomini stessi sono destinati. Foscolo infatti, non ha la fede in
un Dio creatore e in una Provvidenza che anima tutto l’universo e da tale consapevolezza deriva il
suo amaro sconforto, la sua pena profonda per l’esistenza. L’unica forma di eternità possibile per le
cose umane che siano degne di essere ricordate è quella offerta dalla poesia, che le affiderà alla
fama e le farà vivere per sempre.
L’autore.
Ugo Foscolo nasce nel 1778 a Zacinto, nelle isole Ionie; ben presto però si trasferisce con la
famiglia a Venezia dove partecipa attivamente alla vita politica del suo tempo, subendo le
persecuzioni del governo austriaco. Arruolatosi nell’esercito napoleonico, rimane però deluso dalla
politica francese e abbandona Venezia in volontario esilio. A soli venti anni scrive il romanzo
epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis, più volte poi modificato nel corso del tempo. Gli anni
successivi lo vedono a Milano, a Genova, a Firenze, impegnato in missioni militari, in travolgenti
passioni amorose e nella stesura di dodici Sonetti e due Odi. Al 1806 risale la composizione del
carme Dei Sepolcri e al 1812-1814 quella del poemetto Le Grazie, rimasto però incompiuto.
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Con il ritorno degli Austriaci a Milano in seguito alla caduta di Napoleone, Foscolo, ripara prima in
Svizzera poi presso Londra, a Turnham Green, dove muore nel 1827. Nel 1871 le sue ossa vengono
trasferite a Firenze e accolte fra i grandi di Santa Croce che egli aveva cantato nella sua opera Dei
Sepolcri.
Giacomo Leopardi.
Come Foscolo, anche Giacomo Leopardi esprime il suo pensiero sul dolore umano attraverso opere
in poesia ( i Canti) e in prosa (le Operette morali e alcune raccolte di Pensieri). La sua poesia si
nutre infatti di una trama di riflessioni dalle quali derivano un profondo pessimismo e una dolorosa
visione della vita.
I concetti fondamentali della meditazione leopardiana sull’uomo e sulla sofferenza possono essere
indicati in quattro momenti che riguardano la natura, la ragione, il vero, le illusioni.
La natura. Quando si è giovani, essa appare come una buona madre, che fa sognare e
sperare in un mondo felice. Ma, una volta passata la giovinezza, crollano le speranze e le
illusioni di poter raggiungere la felicità: non rimane che il nulla, la morte dopo un’esistenza
di affanni. La natura si mostra allora per quello che è veramente: non una madre, ma una
matrigna, che inganna i suoi figli e li tradisce, prima promettendo loro la felicità, poi
negandogliela senza alcuna pietà.
La ragione. La ragione è senza dubbio la luce che illumina il pensiero dell’uomo, dandogli
la possibilità di prendere coscienza della realtà delle cose. Ma è proprio attraverso la ragione
che l’uomo giunge a una dolorosa scoperta: quella dell’arido vero, dell’inutilità della vita,
che rende ancora più dura la sua angoscia.
Il vero. Che cos’è dunque la realtà? Essa è solo materia; tutte le creature sono solo materia,
destinate a nascere, riprodursi, morire mosse da un meccanismo cieco e crudele. L’uomo
può solo, coraggiosamente, prendere atto della legge malvagia che guida la natura; non vale
ribellarsi, vale piuttosto creare un rapporto di solidarietà e di fraternità con i propri simili,
tutti soggetti allo stesso destino di infelicità.
Le illusioni. Esse nascono dall’immaginazione che rende varia, ricca, bella la vita. Ma
quando all’immaginazione subentra la ragione, le illusioni allora appaiono per come
realmente sono: di breve durata, vane e causa di false opinioni e di errori.
Su questi temi si fonda la poesia di Leopardi, che supera comunque l’aspetto arido e freddo del
pensiero per levarsi come un canto sul dolore umano. Essa si esprime attraverso i Canti, 41
componimenti così scanditi:
canzoni civili e patriottiche;
primi “idilli” fra cui L’infinito, e canzoni “filosofiche” (Bruto Minore, Ultimo canto di
Saffo);
“grandi idilli” fra cui A Silvia, Il passero solitario;
poesie ispirate da un amore infelice (Amore e morte, A se stesso, ecc.);
La ginestra, l’ultimo canto leopardiano in cui il poeta esprime le sue definitive riflessioni
sulla comune sventura dell’uomo che deve però dignitosamente affrontare la propria sorte.
L’”idillio” leopardiano.
A Silvia appartiene alla raccolta dei Canti leopardiani ed è una di quel gruppo di poesie che il poeta
definisce “idilli” (per la precisione, si tratta di uno dei “grandi idilli”). Col termine idillio egli,
secondo le sue stesse parole, intendeva quegli stati d’animo e quelle memorie che, nel momento
dell’ispirazione poetica, si andavano precisando in immagini e suoni. Queste composizioni, infatti,
sono per lo più legate a temi del ricordo: passata la gioventù, cadute le speranze e le illusioni, il
passato ritorna, non come è stato nella realtà, per il poeta sempre penosa, ma illuminato dai sogni e
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dalle speranze di allora. Questo è ciò che avviene in A Silvia: tutta la lirica è infatti un colloquio con
la fanciulla, con la quale il poeta sente una profonda rispondenza di sogni e speranze, troncati però
dalla morte.
Protagonista della prima parte, Silvia rappresenta la dolcezza del ricordo e il fascino delle illusioni
giovanili. Nella seconda parte, dove più forte è la presenza del poeta stesso, si leva dolorosa l’amara
coscienza del presente. I sogni di un tempo sono rivissuti da Leopardi alla luce della sofferenza del
presente: diversamente dall’ingenua fanciulla, egli è sopravvissuto alle proprie speranze e la
malinconia delle sue riflessioni è ancora più amara della prematura morte di lei.
L’autore.
Giacomo Leopardi nasce a Recanati, nelle Marche, nel 1798. Benché trascorra la giovinezza in
una regione lontana dalle grandi correnti culturali internazionali, con gli studi si crea una vasta
cultura, che unisce la tradizione del passato agli stimoli nuovi del presente, interpretando con alcune
i principi dell’Illuminismo e del Romanticismo. La sua natura, portata alla solitudine e alla
meditazione, rende più acuto il suo senso di infelicità e più approfondite le sue riflessioni: egli
canta, così, il contrasto fra le illusioni del cuore e l’amara realtà della vita, la solitudine umana, il
mistero dell’infinito, l’assurdità del vivere. Leopardi è anche un profondo pensatore che medita,
lungo il corso dell’intera vita, sulla natura, sull’universo, sull’uomo. Queste meditazioni trovano
ampio spazio non solo nei suoi “appunti” di carattere filosofico (raccolti nello Zibaldone e nei
Pensieri), ma anche nei suoi scritti letterari in prosa (le Operette morali) e in versi (Canti), che si
alimentano della sua sensibilità, ma anche del suo pensiero per così dire “filosofico”.
Gli ultimi anni della vita, che lo aveva visto prima a Roma, poi a Firenze e a Pisa, li trascorre a
Napoli, dove è tormentato da lunghe e dolorose infermità, alleviate solo dalla presenza di un caro e
sincero amico, Antonio Ranieri. In questo periodo la sua poesia riflette il presagio della morte
imminente, che avviene a Napoli nel 1837.
Alessandro Manzoni.
Tra le caratteristiche del Romanticismo, come abbiamo già detto, grande è l’interesse per la storia,
cioè per quella realtà in cui si realizza lo spirito umano. Indagare gli eventi storici equivale dunque
a ricercare il “vero”. Alessandro Manzoni condivide questa prospettiva in tutta la sua produzione
in prosa (il romanzo I Promessi Sposi) e in poesia (le Odi), nelle due opere teatrali (Adelchi e Il
Conte di Carmagnola), negli scritti storici (Storia della colonna infame) e quelli etico-religiosi
(Osservazioni sulla morale cattolica): in questo senso egli è un autore romantico.
Lo scrittore milanese arricchisce tuttavia questa adesione al Romanticismo con motivi e valori
personali. Nel romanzo I Promessi Sposi l’oggetto di studio è infatti una vicenda storica, quella del
Seicento milanese; ma nella rappresentazione della società seicentesca Manzoni trova l’occasione di
esprimere la propria visione religiosa della vita. Il male, il peccato esistono, ma la fede in Dio e
nella sua Provvidenza dà all’uomo la forza di affrontarli e lo illumina nelle sue scelte interiori,
rendendolo capace di trarre, anche dalle sofferenze, una lezione positiva. Questo è il “vero” che
Manzoni vuole mostrare.
Egli pensa infatti che uno scrittore debba contribuire all’educazione e alla formazione morale del
suo pubblico, sollecitandolo a prendere coscienza del bene e del male, dei vizi e delle virtù, di
quello che siamo e di quello che invece dovremmo essere. Ritiene, inoltre, di poter ottenere questo
risultato solo se la lettura sarà un piacere, se, cioè, l’autore sarà stato capace di interessare e
divertire il pubblico stesso.
Per dirla con le sue parole, per Manzoni l’arte deve avere “l’utile per scopo, il vero per oggetto,
l’interessante per mezzo”.
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I Promessi Sposi.
L’opera appartiene al genere del romanzo storico anche se, per la varietà dei temi trattati, contiene
elementi che potrebbero qualificarla come romanzo d’avventura (le avventure di Renzo e Lucia),
come romanzo “di formazione” (il processo di maturazione di Renzo in seguito alle sue dolorose
esperienze), come romanzo d’amore (il legame che unisce, al di là di ogni ostacolo, i due giovani
“promessi sposi”).
Dal punto di vista del romanzo storico, assume particolare importanza la scelta del tempo in cui
Manzoni ambienta l’intreccio, cioè il Seicento milanese, un’età “sudicia e sfarzosa” nella quale,
dietro gli apparati pomposi della nobiltà cui sono affidate le redini del governo, si celano
l’inefficienza delle leggi, l’intolleranza e la superstizione. A questi mali si aggiungono tre calamità:
la carestia, la guerra e la peste, che infierirono dal 1628 al 1630 e nelle quali si trovano coinvolti
tutti i personaggi dei Promessi Sposi. Tutto ciò costituisce un imponente quadro di riferimento, che
permette all’autore di evidenziare da una parte il comportamento degli uomini di fronte ai casi più o
meno drammatici della vita e dall’altra di richiamarsi alla storia contemporanea, che con il Seicento
ha in comune la divisione dell’Italia e la soggezione alle potenze straniere.
Don Rodrigo, invaghitosi di Lucia, ne ostacola il matrimonio con Renzo, costringendo il pauroso
parroco don Abbondio a non celebrare le nozze.
Fra Cristoforo, confessore di Lucia, saputa la cosa, cerca invano di convincere don Rodrigo a
lasciare in pace i due giovani: questi non gli dà ascolto e anzi organizza il rapimento di Lucia. La
fanciulla però sfugge ai rapimento perché nel frattempo si è recata con Renzo in casa del curato nel
vano tentativo di concludere il matrimonio segretamente.
I due giovani, saputo del tentativo di rapimento, fuggono: Lucia va nel convento di Monza sotto la
protezione di Gertrude, una suora molto potente ma anche corrotta. Renzo si reca a Milano e arriva
proprio quando la città è sconvolta da una sommossa popolare, nella quale egli rimane coinvolto.
Renzo fugge da Milano, dove, avendo preso parte alla rivolta, ha rischiato la galera e la forca, e si
rifugia presso il cugino Bortolo a Bergamo, territorio della Repubblica veneta.
Don Rodrigo, fortemente irritato per la fuga di Lucia, cerca l’intervento di un potente signore,
l’innominato, per riuscire a ottenere la giovane. L’innominato, con l’aiuto di Gertrude, fa rapire
Lucia.
L’innominato, tuttavia, di fronte al pianto e alle preghiere di Lucia la libera e si converte.
Quando una violenta epidemia di peste si diffonde a Milano, Lucia, che dopo la liberazione è stata
accolta da una famiglia nobile in quella città, viene colpita dalla malattia e condotta al lazzaretto,
l’ospedale in cui si trovano gli appestati. Anche Renzo a Bergamo viene infettato dalla peste, ma
guarisce e si reca a Milano in cerca di Lucia.
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Renzo giunge al lazzaretto dove incontra padre Cristoforo con i segni della malattia sul volto. Il
frate induce il giovane a perdonare don Rodrigo, ora morente su un pagliericcio. Renzo, dopo
qualche esitazione, lo perdona e riprende la ricerca di Lucia.
Renzo ritrova Lucia ormai guarita dalla peste che, sebbene lieta di rivederlo sano e salvo, è decisa a
non sposarlo per il voto di castità che durante la prigionia nel castello dell’innominato aveva fatto
alla Madonna. Fra Cristoforo però scioglie dal voto la giovane.
I due “promessi” possono finalmente sposarsi.
IL ROMANZO STORICO.
I Promessi Sposi è il primo vero romanzo della letteratura italiana. Per romanzo si intende un’opera
letteraria in cui viene narrata una storia (o anche più storie), cioè una successione di avvenimenti,
collegati fra loro nel tempo in vario modo, da un principio a una fine. In genere, nel caso di un
romanzo storico, com’è quello manzoniano, l’autore ha come base una vicenda storica, che però
ricostruisce con la propria immaginazione. Ambienti, vicende, personaggi prendono vita in modo da
ricreare un aspetto verosimile di quella realtà che l’autore intende prendere in esame.
Manzoni rifiuta qualsiasi elemento fantastico: per questo sceglie la forma del romanzo storico, che
realizza la fusione fra la realtà storicamente verificabile e l’invenzione di fatti e personaggi
“verosimili”.
L’autore.
Alessandro Manzoni nasce a Milano nel 1785. Nel 1800 segue la madre Giulia Beccarla (figlia di
Cesare, importante intellettuale illuminista) a Parigi, il centro più vivo e stimolante della nuova
cultura europea, dove frequenta i maggiori letterati e pensatori dell’epoca e si dedica allo studio
della letteratura. Nel 1810 Manzoni, che nel frattempo si è sposato, ritorna al cattolicesimo, da cui si
era allontanato nella fanciullezza e, negli anni seguenti, compone cinque Inni Sacri, che celebrano
le principali feste liturgiche: La Resurrezione, Il Nome di Maria, Il Natale, La Passione e infine
quella più celebre, La Pentecoste. La conversione ha una straordinaria influenza sulla sua
produzione letteraria e in particolare sulla sua opera maggiore, I Promessi Sposi, alla cui stesura si
dedica fin dal 1821 con il titolo di Fermo e Lucia; essa non allontana però lo scrittore dall’impegno
civile, frutto del quale sono, nello stesso periodo, le due odi di argomento storico: Il cinque maggio,
in cui medita sulla vita e la morte di Napoleone, e Marzo 1821, che celebra i moti rivoluzionari del
Piemonte. Anche le due tragedie, Adelchi e Il Conte di Carmagnola, che egli ha composto nel
frattempo, sono di contenuto storico e ugualmente ispirate alla riflessione sui valori etico-religiosi
che, del resto, caratterizza tutta l’opera manzoniana. Nel 1827 Manzoni pubblica il suo romanzo,
che ha profondamente modificato e che ha definitivamente intitolato I Promessi Sposi; tuttavia non
è soddisfatto della lingua in cui l’ha scritto e quindi si dedica ad un’opera di correzione e revisione
che si protrae per tredici anni e che dà luogo alla seconda edizione del testo (1840-1842), nella
forma in cui lo leggiamo oggi.
Nei decenni successivi, lo scrittore milanese coltiva la propria riflessione sull’intreccio fra storia e
morale, la letteratura, la lingua, pubblicando scritti di grande importanza critica e di profondo
significato religioso. La sua fama di letterato è ormai grande, ma, in conseguenza di una serie di
tragici lutti familiari, sceglie di isolarsi dal mondo. Muore a Milano nel 1873.
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Luigi Capuana.
Nato a Catania, Luigi Capuana (1839-1915) fu il primo scrittore verista e il teorico del movimento.
Si interessò di letteratura, poesia popolare e folklore e ben presto si aprì alle esperienze del
Naturalismo francese, del quale accolse e praticò l’approccio “scientifico”.
Instancabile sperimentatore, lasciò una vasta produzione narrativa, di cui si ricordano
particolarmente le novelle (poi riunite in varie raccolte) e i romanzi Giacinta, Profumo e Il
marchese di Roccaverdina.
Nel romanzo si riflette dunque tutto il pessimismo di Verga. L’ordine sociale, come la natura, è e
resta immutabile: l’”umile” che lo mette in discussione, che cerca di emergere è destinato ad essere
un “vinto”, come avviene ai Malavoglia. Questo ordine sociale offre però una serie di valori,
rappresentati dalla dignità del lavoro, dal sentimento del dovere, dall’unità familiare, dalla
solidarietà: la perdita della “Provvidenza” e la morte di Bastianazzo non colpiscono solo la famiglia
di padron ‘Ntoni, ma l’intero paese, che è partecipe prima dell’attesa e dell’ansia, poi del dolore e
dello strazio dei Malavoglia. La Longa che si reca lungo la riva del mare per vedere sia pur da
lontano la barca in difficoltà, non è mai sola: le sono vicini i suoi figli stretti alle sue gonne, che, col
loro pianto, la richiamano alla realtà della vita di tutti i giorni; e le sono vicini i compaesani che,
con la loro presenza, danno alla povera donna la consapevolezza della tragedia.
Chi tradisce questi valori, come ha fatto ‘Ntoni, sarà allora doppiamente “vinto”, condannato a
vivere emarginato, senza più alcuna radice.
L’autore.
Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840, da una famiglia benestante di antica origine nobiliare, e
vi muore nel 1922: la sua sembrerebbe, a prima vista, una vita interamente legata all’isola natale,
ma non è così. Se da una lato è vero che la Sicilia e la sua gente costituiscono la principale fonte di
ispirazione degli scritti di Verga, dall’altro è pure vero che egli trascorre diversi anni della sua
esistenza in città “continentali”, Firenze e Milano. E proprio in queste città entra in contatto con le
esperienze culturali più vivaci, in particolare con gli scrittori naturalisti francesi, riuscendo a
mettere a fuoco in modo nuovo la sua esigenza di riportare nelle proprie opere personaggi,
ambienti, situazioni che si ispirino alla realtà. A Milano vedono la luce i primi romanzi di Verga,
legati ancora ai temi del Romanticismo.
Nel 1874 Verga pubblica una novella di ambiente siciliano, Nedda, con cui inizia la sua produzione
verista. Negli anni successivi, lo scrittore pubblica una prima raccolta di novelle, Vita dei campi,
nelle quali sono protagonisti umili personaggi della sua terra, rassegnati ad una vita di stenti,
tenacemente attaccati alla propria famiglia, al proprio paese come l’ostrica si attacca allo scoglio.
Contemporaneamente egli idea un ciclo di cinque romanzi, il “ciclo dei vinti”, nel quale avrebbe
voluto evidenziare la vana lotta degli uomini per raggiungere la ricchezza o il successo. Tutti
cadono vinti. Di questo ciclo però Verga compose solo I Malavoglia e Mastro don Gesualdo.
In seguito pubblica la seconda raccolta di racconti, Novelle rusticane, nella quale il suo pessimismo,
già espresso nei Malavoglia, diviene ancora più assoluto. Nel 1884 inizia la produzione teatrale,
contribuendo al sorgere del teatro verista, con Cavalleria rusticana, che sarà in seguito musicata dal
livornese Pietro Ma scagni. La sua opera per il teatro prosegue fino all’ultimo periodo della vita,
con La lupa e Dal tuo al mio.
Giosue Carducci.
L’opera di Giosue Carducci è caratterizzata per lo più dai temi autobiografici legati agli affetti e alle
memorie familiari ed alla nostalgia per il paesaggio maremmano, anche se vi sono presenti
componimenti che rievocano grandi momenti della storia patria. Ci sono infatti, nella sua poesia,
due diverse ispirazioni: una ancora legata al Romanticismo (in particolare al concetto della missione
che il poeta ha nella società, di difendere e diffondere valori e ideali); l’altra più moderna,
rispondente a quanto egli stesso dichiara: “Il poeta deve esprimere se stesso nel modo più sincero e
schietto: il resto non è affar suo”.
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Il ricordo è il motivo dominante di molte delle sue liriche, tra le quali Traversando la Maremma
toscana. In essa il poeta sviluppa il rapporto tra passato, presente e futuro. Tornare nella Maremma
toscana, rivedere i suoi più noti aspetti è l’occasione che gli rende possibile confrontare l’io di ora
con quello di un tempo e, così, rimeditare l’intera propria vita.
All’inizio del sonetto egli si sente partecipe di quel paesaggio: la fierezza selvaggia dei luoghi è la
stessa della sua natura di uomo. Ma, subito dopo, al sentimento di gioia si unisce quello di una
struggente nostalgia, tanto che non si può dire se il pianto che brilla nei suoi occhi sia di felicità o di
dolore. Egli ha la certezza di aver vissuto senza raggiungere la mèta, ma non per questo si
abbandona alla disperazione.
In altre liriche, come in Alla stazione in una mattina d’autunno, pur ritornando gli stessi motivi
della memoria, l’autore si esprime in maniera più realistica, usando i simboli della modernità
(come, appunto, il treno) per trattare queste tematiche senza sentimentalismo, oggi diremmo in
modo “sperimentale”.
L’autore.
Giosue Carducci nasce nel 1835 a Val di Castello, nella Versilia toscana. A causa del trasferimento
del padre, medico condotto, trascorre la giovinezza in Maremma, proseguendo poi gli studi prima a
Firenze, poi a Pisa dove si laurea in lettere. Dopo un breve periodo di insegnamento nelle scuole, è
chiamato alla cattedra di Letteratura italiana presso l’Università di Bologna, dove rimane fino alla
morte, avvenuta nel 1906, dopo che egli ha ottenuto il premio Nobel per la letteratura.
Le sue poesie sono riunite in varie raccolte: Iuvenilia, cioè “poesie giovanili”; Levia gravia, cioè
“poesie un po’ più serie”; Giambi ed epodi, che richiamano nel titolo i versi greci e latini che il
poeta vuole imitare; Rime nuove e Odi barbare, così chiamate perché riprendono la metrica dell’ode
classica in una lingua dalle caratteristiche completamente diverse e quindi suonerebbero “barbare”
all’orecchio degli antichi Greci e Romani; Rime e ritmi.
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IL PRIMO NOVECENTO
Nella prima metà del Novecento il sistema economico basato sulla libera concorrenza viene
sostituito da un nuovo capitalismo, nel quale un ristretto numero di grandi industrie si divide il
mercato mondiale. Contro questi nuovi gruppi di potere, il proletariato potenzia le proprie
organizzazioni sindacali e politiche, rivendicando il diritto a migliori e più democratiche condizioni
di vita. La repressione dei governi, affiancati al grande capitale, è violentissima, mentre i ceti medi
perdono il ruolo conquistato nell’Ottocento e divengono spettatori passivi. Si affermano governi
autoritari che, oltre a soffocare qualsiasi movimento rivoluzionario interno, mirano a rafforzare la
propria potenza con l’occupazione di territori, anche europei, che ritengono di loro spettanza.
Scoppiano così, nell’arco di tempo di tre soli decenni, le due guerre mondiali.
Per quanto riguarda la cultura, se agli albori del secolo lo scrittore, superando il ruolo di guida
ideale avuto nel Romanticismo e quello di testimone oggettivo nel Realismo, diviene protagonista
di esperienze eccezionali, che ne fanno ora un privilegiato per la raffinatezza del suo sentire, ora
una vittima per la sua incapacità di impegnarsi nell’azione.
Nei decenni fra i due conflitti mondiali, l’artista approda a soluzioni diverse e spesso
contraddittorie: o esalta la nuova civiltà, le macchine, la guerra, il dominio sugli altri, emergendo
come un superuomo dalla massa amorfa dell’umanità; oppure si sente incapace di agire, di operare
in qualche modo nella società e ripiega su una dolente, amara impotenza.
Il quadro storico-politico.
Il passaggio al nuovo secolo.
Alla fine dell’Ottocento si registrò in Europa un intensificarsi di quei mutamenti che avevano
cominciato a caratterizzare il continente nei decenni precedenti: un enorme sviluppo
dell’industrializzazione e l’infittirsi delle guerre imperialistiche e coloniali, soprattutto in Africa e in
Asia, che trovavano da parte degli Stati promotori anche una giustificazione ideologica. Si andava
infatti sempre più diffondendo il concetto della superiorità della “razza” bianca europea, incaricata
di una missione civilizzatrice sui popoli “primitivi” e “barbari” e destinata alla guida del mondo.
Anche la rivalità tra gli Stati europei andava però aumentando e si faceva conflittuale: il delicato
equilibrio si sarebbe presto rotto, dando luogo alla immane tragedia della Prima guerra mondiale.
All’interno degli Stati più avanzati si stava verificando, inoltre, una ulteriore profonda
trasformazione del sistema produttivo, sempre più dominato dalle grandi industrie e dal capitale
finanziario ad esse legato e concentrato nelle mani dei ricchi affaristi.
In conseguenza di ciò si veniva modificando anche il sistema sociale, con la crescente
contrapposizione fra capitale e lavoro. In questo ambito si andavano espandendo e consolidando le
organizzazioni dei lavoratori, per lo più legate alle teorie economiche-sociali di Karl Marx
(Manifesto del Partito Comunista, 1848): il proletariato, unica e vera forza produttiva di ogni Paese,
doveva battersi per eliminare le contraddizioni della società contemporanea, dominata dalla classe
borghese capitalista, e impegnarsi a conquistare il potere.
esportava e investiva soprattutto capitali negli Stati sottosviluppati, per poterne meglio sfruttare le
materie prime e ricavarne quindi altissimi profitti.
In questo clima di grande espansione economica si acuirono i conflitti tra le classi sociali nelle
grandi metropoli industriali, dove ricchezza e benessere non erano equamente distribuiti. D’altra
parte, l’aspirazione delle grandi industrie ad ottenere un ruolo di prestigio in tutti i Paesi del mondo
era all’origine di sorde rivalità fra le potenze europee. Al passaggio del secolo, il continente era
ormai divenuto una enorme polveriera. Ancora per circa un decennio fu possibile mantenere, seppur
con grandi difficoltà, il precario equilibrio politico, ma nel 1914 fu sufficiente una piccola scintilla a
provocare la grande conflagrazione della Prima guerra mondiale: l’uccisione dell’arciduca
d’Austria, avvenuta a Sarajevo, innescò infatti un meccanismo di interventi armati in cui furono via
via coinvolte tutte le potenze europee e in seguito anche gli Stati Uniti.
L’intensità del conflitto, la sua durata, la vastità dei fronti obbligarono i vari Stati a mobilitare tutte
le risorse naturali e umane di cui disponevano e milioni di uomini furono scagliati nell’inferno delle
trincee, mentre tutte le industrie si indirizzavano alla produzione bellica.
Il quadro culturale.
La crisi di inizio secolo.
Nella complessa situazione sociale che caratterizza gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi anni
del Novecento, entrano in crisi sia la cultura romantica, sia quella positivista. Lo scrittore, che
durante il Romanticismo aveva assunto la funzione di guida verso il mondo degli ideali e nell’età
del Realismo aveva creduto di poter risolvere i mali della società attraverso una accurata indagine
della società stessa, vede ora fallire miseramente i propri obiettivi. Egli, infatti, si sente emarginato,
in quanto elemento estraneo al mondo della produzione, e reagisce con un atteggiamento di rifiuto
della società del momento e di opposizione ai suoi miti. Si ripiega in se stesso e diviene
protagonista di una serie di esperienze eccezionali, che ne fanno ora un privilegiato, un
“superuomo”, per la raffinatezza del suo sentire, ora una vittima, per la sua incapacità di
impegnarsi nell’azione: in ogni caso, sempre un “diverso”.
La perdita di fiducia nella ragione, il senso di smarrimento, il sentimento inquieto del mistero che
circonda l’uomo, l’esasperata solitudine ispirano dunque la letteratura del periodo precedente la
prima guerra mondiale. A questa produzione artistica viene dato il nome di Decadentismo.
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Il Decadentismo.
Il termine “decadente” nasce in Francia per indicare quegli artisti anticonformisti, la cui vita e la cui
opera provocavano scandalo nel pubblico borghese.
Dal termine “decadente” deriva poi anche il nome di Decadentismo, con cui viene indicata quella
complessa corrente culturale di dimensioni europee che, pur nella varietà delle sue manifestazioni,
presenta alcuni denominatori comuni, fra i quali un diffuso senso di sconfitta e l’assenza di fede
nella ragione.
Per i decadenti una realtà vera, indecifrabile e misteriosa, sta dietro la realtà sensibile; i fenomeni
sono la manifestazione di qualcosa di più profondo e, al di là della loro diversità apparente,
risultano uniti da una rete di segrete corrispondenze che solo l’artista può decifrare. Egli, infatti,
come un “veggente”, è capace di spingere lo sguardo là dove l’occhio umano comunemente non
arriva, trascurando di conseguenza gli aspetti della realtà e della società contemporanea.
Il Simbolismo.
Per rappresentare questo mondo misterioso, i decadenti utilizzano lo strumento del simbolo, sia in
letteratura che nelle arti figurative.
Il Simbolismo è l’orientamento letterario e artistico che più efficacemente sviluppa i motivi del
Decadentismo, rinnovando profondamente le forme espressive. La parola poetica, infatti, perde il
suo valore razionale per diventare soprattutto “parola-musica”, adatta ad evocare suggestioni e
sensazioni singolari.
Le Avanguardie.
Nel periodo fra le due guerre, la creazione letteraria risente naturalmente di tutte queste grandi
innovazioni culturali e ne assimila completamente i tratti salienti. Le “Avanguardie”, così
chiamate proprio perché rappresentano uno slancio verso il nuovo, sono la prima manifestazione di
quest’ansia di rottura con il passato e del desiderio di aprirsi a nuove modalità espressive; esse
creano così in ogni campo (dalle arti visive alla letteratura, alla musica) forme artistiche che meglio
possano corrispondere al nuovo mondo che viene via via maturando.
Una eccezionale carica rivoluzionaria caratterizza questi artisti, che scelgono la via della
provocazione, della demolizione di tutto ciò che è vecchio e tradizionale, per sostituirvi un’arte
ispirata agli elementi e ai prodotti della modernità: l’industria, la macchina, la pubblicità, la città.
Ma gli entusiasmi di questo nuovo clima culturale hanno breve vita: lo scoppio del nuovo conflitto
mondiale apre ben presto una fase di incertezza e ripensamento, che investirà il panorama culturale
fino agli anni Sessanta.
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questi nuovi “eroi” assurda, paradossale e soprattutto come un instabile gioco di parvenze, di
ipocrite finzioni.
Infine, nella narrativa di Federigo Tozzi la meschinità dei personaggi e delle situazioni appare
rappresentata dall’autore con impietosa lucidità.
Anche la rappresentazione teatrale in questi anni propone gli stessi interrogativi sull’uomo, la sua
identità e il suo rapporto con la realtà del mondo. Se, come si è detto, il punto più alto di questa
ricerca è rappresentato dall’opera di Luigi Pirandello, che sviluppa i motivi centrali della sua
narrativa, altri autori affrontano con successo queste problematiche. E’ il caso del “teatro grottesco”
di Massimo Bontempelli, le cui commedie portano alla luce gli elementi di irrazionalità presenti
nelle situazioni quotidiane; è il caso del “teatro dei processi morali” di Ugo Betti, che propone con
nuova forza l’antico conflitto tra bene e male, tra innocenza e corruzione, delineando la necessità
per l’uomo di un profondo rinnovamento morale.
IL “SIMBOLISMO” PASCOLIANO.
Myricae (che nel titolo rievoca un verso di Virgilio: mi piacciono gli arbusti e le umili mirice, cioè
le tamerici) contiene le poesie giovanili. In esse il motivo dominante è quello delle “piccole cose”:
queste, pur nella loro semplice quotidianità, diventano per il poeta simboli di “altre cose”, che egli
solo riesce a intuire e decifrare, poiché, come un “fanciullino”, sa osservare e ascoltare la realtà con
serena meraviglia. Nasce così il simbolismo pascoliano per cui ogni oggetto, ogni essere vivente,
addirittura il paesaggio richiamano qualche altra cosa: ne è un esempio, in Lavandaie, l’aratro
abbandonato in mezzo al campo, che è simbolo di uno stato d’animo pervaso da tristezza e
malinconia.
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I Primi poemetti proseguono il discorso poetico iniziato con le Myricae ma sono, secondo quanto
dice il Pascoli stesso, di genere più elevato. Si tratta di poesie spesso più narrative che liriche, in
molti casi legate, piuttosto che alla quotidianità (come I due fanciulli), a riflessioni di carattere
simbolico sull’uomo, il dolore, il mistero stesso della vita: ne è chiaro esempio Il libro.
I Canti di Castelvecchio, ambientati nel mondo rustico della campagna lucchese raccolgono
anch’essi liriche che cantano le umili cose quotidiane, con un linguaggio semplice e simile al
parlato: quasi una riflessione rivolta a se stesso. In La mia sera ritorna un motivo caro al poeta, il
tema della memoria: dal passato emergono un luogo, una data, un suono, un profumo che fanno
riaffiorare eventi in apparenza dimenticati, presenti però nelle profondità della coscienza. La
memoria reca quindi con sé una componente di dolcezza: infatti, recuperando gli affetti perduti,
intenerisce l’animo e porta un senso profondo di pace. In questa lirica è esplicito il rapporto fra il
succedersi degli eventi naturali e la vicenda biografica dell’autore. La tempesta, con tuoni e lampi,
ha infuriato per tutto il giorno. Ma ora, a sera, si è placata: di tanti suoni paurosi resta solo il canto
delle rane; di tanta pioggia, solo il gorgogliare di un piccolo corso d’acqua. Secondo il simbolismo
pascoliano, la tempesta corrisponde alla vita, la sera alla morte, il suono delle campane diviene la
voce della tomba, cioè dei cari scomparsi, che rivivono nel ricordo. L’immagine del volo di rondini
nell’aria tornata serena riconduce al nido, il nido riporta alla casa della fanciullezza, al suono delle
campane e questo si confonde e sfuma nel canto della madre, che induceva al sonno il fanciullo di
allora. Di suggestione in suggestione il tempo si è annullato: perciò indefinito e non doloroso resta
anche l’implicito accenno alla morte, sentito come un dolce abbandono nelle braccia della madre.
Il “simbolo”.
Nel suo significato originario il simbolo (dal greco sumballo: “metto insieme”) è il mezzo di
riconoscimento che si otteneva spezzando un oggetto in due parti irregolari, in modo che i
possessori di ciascuna di esse, facendole combaciare, potessero reciprocamente riconoscersi. Il
simbolo è quindi un elemento rivelatore, qualcosa che permette di capire, ma solo a una condizione:
che sussista l’altra metà. Questa originaria duplicità si ritrova anche nel significato più comune
della parola. Infatti oggi per “simbolo” si intende una cosa che ne rappresenta un’altra, con la quale
è in qualche modo collegata da un rapporto più o meno evidente di somiglianza o di richiamo. Il
simbolo quindi rivela, ma al tempo stesso nasconde, lasciando sempre un margine di incertezza, un
alone inafferrabile, un’ombra di mistero.
L’autore.
È la Romagna la terra dove Giovanni Pascoli nasce (a San Mauro) nel 1855 e dove trascorre una
fanciullezza serena e lieta finché, nel 1867, la morte del padre, assassinato da ignoti, e poi quella
della madre e di tre fratelli non rompono la tranquilla felicità. I lutti familiari incidono
profondamente sul carattere del poeta e condizionano in senso pessimistico la sua visione del
mondo: l’intero universo, dove egli non riesce a vedere nessun disegno provvidenziale, gli appare
avvolto in un profondo mistero. Sulla terra l’uomo si muove smarrito, fragile preda del male e del
dolore. Come reagire a questa condizione, comune a tutti gli uomini? Solo tornando alle cose
buone, a un rapporto dolce e amichevole con la natura si potrà trovare un po’ di pace e vivete in
fraternità con gli altri uomini. Queste opinioni sono alla base della poesia di Pascoli, per il quale il
poeta deve essere come un “fanciullino”, che sa trarre gioia dalle piccole cose.
Le sue liriche sono raccolte nelle Myricae; nei Poemetti, che tra l’altro sviluppano la vicenda di
un’umile famiglia contadina di Barga, in provincia di Lucca; nei Canti di Castelvecchio, il paese
presso Barga dove il poeta dapprima soggiorna in vacanza, durante il periodo di insegnamento
all’università di Messina, e dove poi si trasferisce con l’amata sorella Mariù; nei Poemi conviviali,
che si ispirano al mondo greco e orientale; in Odi e Inni, che celebrano il lavoro e il progresso
umano. Autore anche di importanti saggi danteschi, Pascoli muore nel 1912 a Bologna, dove era
stato chiamato nel 1907 a succedere a Carducci nella cattedra universitaria di Letteratura italiana.
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D’ANNUNZIO E IL DECADENTISMO.
La sera fiesolana e La pioggia nel pineto appartengono entrambe alla raccolta Alcione, che contiene
alcune delle più belle liriche dannunziane. Esse testimoniano l’adesione del poeta al gusto
decadente per le immagini preziose, splendide, raffinate che le parole, così accuratamente scelte e
accostate, riescono a creare: immagini che coinvolgono non solo il senso della vista, ma anche
l’udito e, addirittura, l’olfatto.
La prima delle due poesie è anche la prima composta da D’Annunzio per Alcione. Come si nota,
essa è impostata in forma di lauda, tanto da ricordare nel “ritornello” (Caudata sii…) il Cantico
delle creature di San Francesco, che hai letto lo scorso anno. Nella lirica non c’è una trama
narrativa, ma la ricerca di suggestioni visive e uditive complesse, in grado di restituirci le emozioni
provate dal poeta una precisa sera all’inizio dell’estate 1919 quando si era trovato nella sua villa
presso Fiesole, vicino a Firenze, al levare della luna, di fronte allo splendido panorama che si apre
sul paesaggio dei colli circostanti, nel quale l’anima vorrebbe annullarsi.
Una trama narrativa non c’è neppure nella seconda poesia; ci sono infatti solo sensazioni, suggerite
dalla musicalità dei versi. Il poeta e la sua donna vagano all’interno di un bosco solitario, dove la
pioggia porta un refrigerio alla calura estiva, quasi rigenerasse la vita. Avvertiamo, attraverso vari
richiami, che esiste nella natura un’armonica corrispondenza di voci: quella della pioggia, quella
delle foglie che ad essa rispondono ciascuna con un suono diverso, quella della cicala e della rana.
A mano a mano che la musica cresce (sia il pianto della pioggia, che il canto delle creature),
l’armonia della natura si comunica agli esseri umani. Si avverte un totale distacco dal tempo e dallo
spazio reali: il bosco pare infinito, la pioggia sembra durare da sempre e per sempre. Il poeta, senza
che ci sia un passaggio logico, si rende conto di provare sensazioni nuove, quali solo creature
vegetali (volti silvani) possono sperimentare: egli ed Ermione sentono, come se fossero foglie, il
refrigerio della pioggia e si muovono nel bosco con un ritmo di danza, in sintonia con la musica che
si diffonde nella natura e con i profumi che questa dispiega nell’aria dopo la pioggia.
L’autore.
Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara nel 1863, da un’agiata famiglia. Studia nel collegio
Cicognini di Prato, rivelando precoci attitudini letterarie; si iscrive alla facoltà di Lettere di Roma,
dove frequenta gli ambienti mondani diventando ben presto celebre non solo per i duelli, gli
scandali, gli amori, la vita dispendiosa, ma soprattutto per i suoi romanzi e i suoi versi. Angustiato
dai debiti, nel 1910 va in volontario esilio in Francia. Allo scoppio della Prima guerra mondiale è
tra i sostenitori dell’intervento italiano contro l’Austria e, tornato in Italia, partecipa egli stesso alla
guerra, ricevendo una grave lesione all’occhio destro.
Nell’immediato dopoguerra, si lega al nascente movimento fascista ed ha contatti con lo stesso
Mussolini. Ritiratosi nella sua villa sul lago di Garda, vi muore nel 1938.
La sua produzione spazia nel campo della poesia, della prosa, del teatro.
Le poesie sono raggruppate in tre raccolte: Canto novo, Poema paradisiaco, Laudi; queste ultime
sono divise in libri, fra i quali Alcione, che contiene le liriche più belle.
I romanzi più noti sono Il piacere, L’innocente, Il trionfo della morte, Il fuoco.
Per il teatro scrive un gran numero di testi, che segnano il gusto di un’intera epoca: La città morta,
Francesca da Rimini, La figlia di Iorio, La fiaccola sotto il moggio, interpretate da una delle più
grandi attrici del tempo, Eleonora Duse, con la quale D’Annunzio ebbe un’appassionata relazione
amorosa.
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Sergio Corazzini.
Sergio Corazzini nasce a Roma nel 1886 e vi muore, poco più che ventenne, nel 1907. Costretto ad
abbandonare gli studi ginnasiali in seguito ad un grande dissesto finanziario che colpisce la
famiglia, conduce una vita scialba e grama, consolato solo dall’amore per la poesia. Fin dal 1902
comincia a pubblicare liriche in lingua e in dialetto romanesco. Nel 1904 escono le raccolte
Dolcezze e L’amaro calice; l’anno successivo Le aureole e in seguito Piccolo libro inutile, Elegie e
Libro per la sera della domenica. Tutte queste opere saranno raccolte, assieme ad altre poesie non
pubblicate, nel volume postumo delle Liriche. I suoi versi esprimono una malinconia temperata da
un certo ironico distacco, che fa della sua poesia un originale punto di avvio del Crepuscolarismo.
Guido Gozzano.
Guido Gozzano nasce a Torino, nel 1883, in una famiglia dell’alta borghesia, che gli consente di
trascurare gli studi di giurisprudenza per coltivare le relazioni sociali, le amicizie con molti
intellettuali e la precoce passione per la poesia. Appena ventenne, inizia infatti a pubblicare con
successo le proprie composizioni su varie riviste e nel 1907 esce la prima raccolta, La via del
rifugio, che sarà seguita dalla più celebre, I colloqui. Gozzano è ormai un poeta di successo,
l’esponente di maggior spicco del Crepuscolarismo, con un brillante futuro, quando viene colpito
dalla tubercolosi, una malattia polmonare all’epoca praticamente incurabile. Nonostante ciò, nel
1912 affronta un viaggio in India, del quale narra nell’opera in prosa Verso la cuna del mondo, che
sarà pubblicata postuma: il poeta muore infatti, poco più che trentenne, nel 1916.
Marino Moretti.
Marino Moretti nasce a Cesenatico (Forlì-Cesena) nel 1885 e si avvicina giovanissimo alla
letteratura, nel clima culturale del Crepuscolarismo, pubblicando appena ventenne la prima raccolta
di versi, Fraternità, e successivamente le più famose Poesie scritte col lapis, Poesie di tutti i giorni
e Il giardino dei frutti. Pure di stampo crepuscolare, per la scelta di argomenti dimessi e quotidiani
sullo sfondo di ambienti provinciali, ma caratterizzata da un più vivace realismo e da una vena di
sottile ironia, è la sua produzione in prosa: romanzi e racconti tra cui si ricordano particolarmente I
puri di cuore, La vedova Fioravanti, La camera degli sposi. Tornato alla poesia negli ultimi anni
della vita, pubblica tre raccolte di liriche che sviluppano in senso moderno il suo originale
crepuscolarismo. Muore a Cesenatico nel 1979.
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Aldo Palazzeschi.
Nato a Firenze nel 1885 e morto a Roma nel 1974, Aldo Palazzeschi ha attraversato quasi un intero
secolo della letteratura italiana, interpretando nelle sue opere tendenze culturali diverse.
Avvicinatosi giovanissimo alla poesia, agli inizi del Novecento, nel clima del Crepuscolarismo, si
orienta verso forme espressive nuove e compone versi caratterizzati da una sottile vena ironica. E’
autore di raccolte poetiche (I cavalli bianchi, Poemi, L’incendiario, Poesie, Cuor mio) e di romanzi
(Il codice di Perelà, Sorelle Materassi, Stefanino).
Camillo Sbarbaro.
Nato a Santa Margherita Ligure nel 1888, morto a Spotorno nel 1967, Camillo Sbarbaro ha vissuto
un’esistenza appartata e solitaria. E’ autore di versi (raccolti in Resine, Pianissimo, Rimanenze,
Primizie) e di prose poetiche (Trucioli, Liquidazione, Gocce). Nelle sue opere, con una forma
semplice ed essenziale egli esprime la propria solitudine, l’incapacità di provare sofferenza e gioia,
la convinzione che il mondo in cui l’uomo vive è privo di speranza e incomprensibile nella sua
essenza più profonda.
Dino Campana.
Nato a Marrani (Firenze) nel 1855, morto a Castel Pulci (Firenze) nel 1932, Dino Campana vive
un’esistenza travagliata, segnata dalla malattia mentale, che si manifesta fin dall’adolescenza,
impedendogli studi regolari e condannandolo alla morte in manicomio. Nella sua vita la poesia
rappresenta dunque l’unica consolazione. La sua è una voce originalissima e solitaria, in cui
l’espressione è ricca di simboli e di immagini legate al sogno o addirittura al delirio, con rari
momenti di serenità. Le sue liriche più importanti sono raccolte nei Canti orfici.
Clemente Rebora.
Clemente Rebora nasce a Milano nel 1885. Dopo la laurea in lettere, collabora con la rivista “La
Voce” e pubblica liriche di grande novità, sia per i contenuti che per il linguaggio. Tornato dalla
guerra, in cui ha combattuto come ufficiale, matura una profonda crisi spirituale e in seguito diviene
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sacerdote. La sua poesia – raccolta tra l’altro in Frammenti lirici, Canti anonimi e Canti
dell’infermità – si distingue per la coscienza del lacerante conflitto tra il bene e il male che pervade
l’esistenza umana e per l’intensità dell’anelito umano e religioso. Muore a Stresa (Novara) nel
1957.
Vincenzo Cardarelli.
Nato nel 1887 presso Orvieto, in una famiglia modesta, Vincenzo Cardarelli deve interrompere gli
studi dopo le elementari e si forma culturalmente attraverso le letture. Diciassettenne, si trasferisce a
Roma dove svolge lavori umili e infine diviene giornalista. Tra il 1919 e il 1923 dirige la rivista
letteraria “La Ronda”.
E’ esponente di quella tendenza culturale che, nel periodo fra le due guerre, si impegna in un
tentativo di rinnovare il linguaggio poetico stabilendo una continuità con la grande tradizione del
passato. Ispirandosi quindi alla sobria eleganza dei classici, come Leopardi, e modernizzandola,
Cardarelli compone liriche (Poesie, Poesie nuove) nelle quali convivono immagini intense e
attenzione alle più sottili sfumature. Muore a Roma nel 1959.
L’autore.
Giuseppe Ungaretti nasce nel 1888 ad Alessandria d’Egitto. Nel 1912 torna in Europa: visita
l’Italia, si stabilisce a Parigi e quindi combatte volontario nella Prima guerra mondiale, vivendo in
prima persona la traumatica esperienza di soldato al fronte, che segna profondamente le poesie
scritte in quegli anni. Finita la guerra, aderisce al fascismo e trascorre alcuni anni in Italia come
funzionario ministeriale; nel 1936 si trasferisce in Brasile, dove insegna Letteratura italiana presso
l’Università di San Paolo. Rientrato in Italia, dal 1942 vive a Roma, dove tiene una cattedra
universitaria di Letteratura italiana e dove muore nel 1970.
Protagonista tra i maggiori della poesia del nostro Novecento, ha pubblicato le sue liriche in
numerose raccolte, le più importanti delle quali sono Il porto sepolto; L’Allegria, che contiene le
liriche scritte negli anni di guerra (l’”allegria” è quella del marinaio che è riuscito a sopravvivere al
naufragio); Sentimento del tempo; Il dolore; Il taccuino del vecchio.
Ungaretti è autore anche di numerose traduzioni poetiche, di prose e saggi.
propria condizione di eterno sconfitto e continua a sognare possibili evasioni e vie d’uscita dal suo
stesso modo di essere, che lo imprigiona.
Un inetto è dunque Zeno Cosini, che, su consiglio del suo psicanalista (la nascente prospettiva
psicanalitica ha grande importanza nella struttura del romanzo), scrive il diario della propria vita
ripercorrendone gli eventi più significativi. Libero da ogni impegno di lavoro, Zeno si dedica
interamente a studiare gli innumerevoli sintomi dei suoi mali. Si delinea così la sua figura di uomo
“inetto” (totalmente incapace) a vivere, insidiato non tanto da una malattia fisica, quanto piuttosto
da una malattia morale, che smorza ogni impulso all’azione. Ma di questa malattia morale Zeno
raggiunge la “coscienza” che, se non gli consente di guarire, gli consente però di affrontare la vita
con lucida ironia.
Ad esempio, nel brano La triplice dichiarazione d’amore, Zeno è ospite della famiglia Malfenti,
deciso a dichiararsi alla bella Ada di cui è innamorato e della quale è innamorato anche un giovane
molto più brillante di lui, Guido Speier, che poi la sposerà. Con Ada sono presenti anche le sue
sorelle, Augusta, Alberta e Anna; Zeno di fronte al momento decisivo della dichiarazione d’amore è
afflitto da mille ripensamenti: il terrore di sbagliare a scegliere la donna della sua vita lo porterà alla
paralisi totale e infine a prendere una decisione che non aveva assolutamente previsto. L’inetto,
infatti, per l’abulia che lo contraddistingue, non riesce mai a prendere delle decisioni e si trova
sempre a subire ogni evento: anche in questo episodio si ha la prova che è il caso a decidere per
Zeno e non certo la sua volontà.
L’autore.
Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz) nasce a Trieste nel 1861. Problemi economici della
famiglia lo costringono, neppure ventenne, ad abbandonare gli studi per impiegarsi in banca.
Contemporaneamente egli inizia a scrivere racconti e novelle, e nel 1892 pubblica il primo
romanzo, Una vita, mentre il secondo, Senilità, esce sei anni dopo. Entrambe le opere non
riscuotono successo e Svevo abbandona la letteratura per dedicarsi all’attività commerciale, della
quale diviene esperto dirigente. Seguono anni di tranquilla vita borghese, di viaggi e lunghe
permanenze all’estero, durante i quali vede la luce La coscienza di Zeno, romanzo pubblicato nel
1923, che è considerato il suo capolavoro e uno dei testi fondamentali del Novecento europeo. Esso
viene accolto con favore da importanti critici e Svevo comincia ad essere conosciuto come scrittore,
ma nel 1928 muore in un incidente automobilistico. Le altre sue opere, di narrativa (novelle) e di
teatro, saranno pubblicate postume.
Del resto Pirandello sostiene che la sola forma d’arte possibile nel mondo moderno è l’umorismo,
che permette di cogliere gli aspetti anormali del comportamento umano. L’artista, infatti, non deve
suggerire sogni ed evasioni dalla realtà, ma sottolineare gli atteggiamenti che l’uomo assume nella
vita quotidiana: da essi possono emergere elementi in apparenza ridicoli, ma in realtà drammatici.
Così, ad esempio, la vista di una vecchia signora piena di rughe, tutta dipinta e imbellettata, può
provocare il riso; ma quando interviene la riflessione, il riso si trasforma in pena, se si pensa alle
ragioni che hanno determinato quel modo di agire e che si riassumono nell’illusione drammatica di
poter ritrovare la giovinezza attraverso rossetti, ciprie, tinture per capelli. Quando crea un
personaggio tratto dalla realtà quotidiana lo scrittore deve quindi riflettere su di esso, metterne a
nudo l’anima, liberandolo da quella maschera in cui le opinioni proprie o altrui lo hanno
imprigionato. In un certo senso, dunque, tutte le opere di Pirandello, le sue novelle, i suoi romanzi, i
suoi drammi, sono testi umoristici. In essi il tragico si mescola al comico, la serietà al riso: ne
emerge un mondo di sentimenti e di comportamenti nel quale non esiste alcuna armonia e la vita
mostra così tutta la sua assurdità.
L’autore.
Luigi Pirandello nasce nel 1867 ad Agrigento (allora chiamata Girgenti) da una famiglia agiata,
che gli consente di avere un’istruzione superiore. Dapprima inizia gli studi tecnici, poi sceglie quelli
letterari, che prosegue a livello universitario, prima a Palermo, quindi a Roma e infine a Bonn, in
Germania. Nel 1894 rientra in Italia e si stabilisce a Roma, insegnando per 25 anni Letteratura
italiana alla facoltà di Magistero. Nel frattempo si è sposato e il matrimonio lo influenza
profondamente anche come scrittore: la moglie, infatti, soffre di una malattia mentale e il contatto
con questa problematica porta Pirandello a interessarsi della follia, che sarà un tema centrale della
sua opera. Entrato in rapporto con alcuni protagonisti del Verismo, e in particolare con Luigi
Capuana, negli anni che seguono scrive e pubblica i suoi romanzi (Il fu Mattia Pascal, I vecchi e i
giovani, Si gira), le Novelle per una anno, un saggio intitolato L’umorismo. Dal 1916 in poi scrive e
rappresenta le sue numerose opere teatrali fra cui ricordiamo Pensaci Giacomino, Il berretto a
sonagli, Sei personaggi in cerca d’autore, Così è (se vi pare), Questa sera si recita a soggetto,
Enrico IV. Dal 1929 collabora con la nascente industria del cinema, cercando di adattare i propri
testi alle esigenze del nuovo mezzo di comunicazione. Ormai la sua fama si è diffusa a livello
mondiale e nel 1934 riceve il premio Nobel per la letteratura. Muore a Roma nel 1936 e, secondo le
sue ultime volontà, le ceneri sono conservate in un’urna greca posta sotto un grande pino nella
pianura vicino ad Agrigento.
crea trame e intrecci complessi, ma racconta eventi e situazioni quotidiani, la cui drammaticità
deriva unicamente dagli impulsi, dalle emozioni, dalle reazioni psicologiche dei personaggi.
Uno dei temi centrali, come si può vedere anche dal racconto Il padre, è quello del rapporto tra
padre e figlio, che ha profonde radici nella sua biografia. In base all’esperienza da lui vissuta, dopo
la morte della madre, di un’infanzia e un’adolescenza lacerate dal continuo conflitto con il padre,
Tozzi matura infatti la convinzione che questo rapporto si basi sempre e ovunque sulla schiacciante
e umiliante supremazia paterna nei confronti del figlio, il quale risulta impotente e incapace di
reagire e ribellarsi. In tal modo il “figlio”, nella narrativa di Tozzi, rappresenta un’altra figura di
inetto, che si aggiunge a quelle create da Svevo e Pirandello: un individuo problematico e
sostanzialmente inadeguato alla vita.
L’autore.
Federigo Tozzi nasce a Siena nel 1883, figlio di un contadino arricchito, proprietario e gestore di
una trattoria. Dopo un’infanzia infelice – determinata dalla morte prematura della madre e dai
difficili rapporti con il padre – e studi discontinui, si avvicina alla letteratura, collaborando ad
alcune riviste. Nel 1914 si trasferisce a Roma, dove completa negli anni la stesura delle opere di
narrativa che ne fanno uno dei maggiori scrittori del Novecento italiano: i romanzi Con gli occhi
chiusi, Il podere, Tre croci e le novelle. E’ autore anche di testi teatrali, versi e memorie
autobiografiche. Muore a Roma nel 1920.
rapporto dell’individuo con la società (Corruzione al palazzo di giustizia). Sulla sua linea si
disporranno in seguito vari altri autori, fra i quali ricordiamo Diego Fabbri, la cui problematica è
particolarmente legata ad una visione religiosa del mondo, e Ignazio Silone.
UN TEMA PIRANDELLIANO.
Nostra Dea di Massimo Bontempelli rappresenta una variante del tema pirandelliano della
mancanza di identità e, insieme, delle innumerevoli identità che sono possibili. Pirandello stesso
apprezzò l’opera, che aveva seguito durante l’elaborazione con consigli e incoraggiamenti. Certo si
tratta di un testo assai diverso, sul piano stilistico, da quelli pirandelliani. In esso sono infatti molto
evidenti gli elementi del paradosso o addirittura dell’assurdo: quel senso di irrazionalità che
caratterizza per Bontempelli la realtà quotidiana dell’uomo. Per questo egli era molto attento anche
alla messa in scena e alla regia: nelle Avvertenze per la rappresentazione da lui scritte, si legge
infatti che la sua commedia “non va ridotta né a dramma filosofico né a balletto…In questo genere
d’espressione artistica è necessario saper dire le cose più sorprendenti e inattuali con piglio
semplice e ingenuo. Sarebbe grave errore darle, con scenari morbosi o con una direzione allucinata,
colori di mistero o di inverosimile fiaba”.
L’autore.
Massimo Bontempelli nasce a Como nel 1878. Dopo aver insegnato italiano in varie città del Nord,
si stabilisce a Firenze e poi a Roma, dedicandosi al giornalismo e alla letteratura. Tra il 1915 e il
1919 aderisce al Futurismo, per la sua carica di rottura con la tradizione, ma in seguito abbandona il
movimento e si indirizza verso una produzione letteraria in cui è forte la presenza dell’elemento
irrazionale che pervade la realtà: “realismo magico”, la definisce egli stesso. Tra le sue maggiori
opere di narrativa si ricordano La scacchiera davanti allo specchio, Gente nel tempo, La donna dei
miei sogni e altre avventure moderne, L’amante fedele. Legatosi d’amicizia a Pirandello, si
interessa di teatro, trasferendo la propria visione del mondo in commedie quali Nostra Dea, Eva
ultima e Minnie, la candida. E’ inoltre autore di importanti saggi critici. Muore a Roma nel 1960.
ad una conoscenza oggettiva della realtà, Betti introduce l’impossibilità di dare, su questa realtà,
giudizi di valore assoluti.
La visione che Betti ha dell’uomo è sconsolata, ma anche venata di pietà; come ad esempio nella
conclusione di Corruzione al Palazzo di giustizia, il suo dramma più famoso, in cui diviene
emblematico luogo di corruzione proprio quello in cui la giustizia dovrebbe trovare concreta
attuazione. Questa la trama dell’opera.
Nel Palazzo di giustizia di una città imprecisata è stato ucciso un uomo potente, coinvolto in trame
oscure, il quale stava per essere processato: evidentemente qualcuno ha avuto paura di ciò che egli
avrebbe potuto rivelare e lo ha fatto eliminare. Si apre un’inchiesta, che coinvolge tutti i funzionari,
e i sospetti cadono sul magistrato più anziano, il Presidente Vanan. In questo clima di tensione, in
cui tutti accusano tutti, la figlia di Vanan, Elena, chiede un incontro al giudice Cust, sicura di
trovare in lui un sostegno al proprio turbamento. Profondamente convinta dell’assoluta innocenza
del padre, Elena è infatti disorientata dal comportamento di lui, che le appare diverso, chiuso in se
stesso e sfuggente alla consueta confidenza. Ma proprio questo colloquio con Cust, che è il vero
colpevole, sarà fatale alla giovane donna, in quanto il giudice approfitta della circostanza per
scuotere la fiducia di lei, non solo nel padre, ma negli stessi valori morali in cui ella crede. E poco
dopo Elena si uccide.
L’autore.
Nato a Camerino (Macerata) nel 1892, Ugo Betti combatte nella Prima guerra mondiale e poi entra
nella Magistratura. Esordisce come poeta (Il re pensieroso, Uomo e donna) e pubblica opere di
narrativa (Caino, Una strana serata, La pietra alta), prima di dedicarsi al teatro, dove raccoglie i
maggiori successi e consegue i più alti risultati. Come drammaturgo è autore di molti testi, fra cui si
ricordano in particolare La padrona, Il giocatore, La fuggitiva e Corruzione al Palazzo di giustizia,
che di essi è certamente il più noto. Muore a Roma nel 1953.
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IL SECONDO NOVECENTO
L’epoca dei conflitti “totali” si conclude con il 1945. Le generazioni di questo periodo sono segnate
indelebilmente da tale esperienza. Nei cinquanta anni che seguono, si assiste a grandissime
trasformazioni sociali, economiche e politiche e, insieme, all’affermarsi di contraddizioni che oggi,
nel terzo millennio, paiono ormai insanabili: ne sono esempio significativo, la costruzione di una
società “planetaria”, da una parte, e il radicale imporsi dell’individualismo nella maggior parte delle
società civili, dall’altra.
Contraddittorietà e molteplicità di aspetti segnano anche la cultura della seconda metà del secolo,
che offre fenomeni difficili da classificare e da interpretare, poiché rispecchiano la complessità
stessa dei tempi. Se per i primi decenni del secondo dopoguerra si possono tracciare delle linee di
tendenza nel panorama letterario italiano ed internazionale, questa possibilità viene poi a mancare:
oggi infatti le testimonianze letterarie si frantumano in un’incredibile varietà di esperienze,
accomunate solo dal tentativo di trovare forme e temi nuovi in un’era che sembra aver sperimentato
ormai tutto lo “sperimentabile”, anche dal punto di vista letterario.
Il quadro storico-politico.
Gli anni della “guerra fredda”.
I successi militari ottenuti con la fine della Seconda guerra mondiale consentirono all’Unione
Sovietica di stabilire l’egemonia sui Paesi dell’Europa dell’Est, dove si costituirono regimi
autoritari controllati dai partiti comunisti locali. Il timore di un’ulteriore espansione dell’influenza
sovietica indusse gli Stati Uniti a promuovere una politica di decisa contrapposizione all’URSS,
considerata il principale pericolo per la sicurezza dell’Occidente. Nel 1949 venne firmato il “Patto
Atlantico”, l’alleanza politico-militare tra i Paesi dell’Europa occidentale e gli Stati Uniti, in
contrapposizione all’alleanza dell’Est, il “Patto di Varsavia”. Ebbe così inizio la “guerra fredda”, un
periodo di netta contrapposizione fra i due “blocchi”, che sembrò preludere a un catastrofico
conflitto. Tuttavia, pur nella reciproca diffidenza e attraverso gravi crisi, Unione Sovietica e Stati
Uniti accettarono il principio della “coesistenza pacifica”, garantita dall’equilibrio degli armamenti.
Ma, mentre l’Occidente si avviava a una crescente prosperità, i Paesi comunisti maturavano pesanti
contraddizioni, legate a un’economia inefficiente e al soffocamento della libertà.
Il quadro culturale.
La cultura verso il terzo millennio.
Sulle “ceneri” delle distruzioni e degli orribili crimini perpetrati durante il secondo conflitto
mondiale (1939-1945) si aprì una muova epoca, quella che ci ha condotti, oggi, al nuovo millennio.
Il dramma bellico scosse, in tutta Europa, le coscienze degli intellettuali, mise in movimento le loro
energie, spingendoli a porre la propria esperienza culturale al servizio della comune utilità. Il
mondo della cultura si sentiva infatti coinvolto nel clima di rinnovamento sociale, politico e morale
del dopoguerra e scelse l’”impegno”, rifiutando il modello dell’artista chiuso nella sua “torre
d’avorio”, distaccato dalla comunità civile. Molti autori fecero delle loro opere un mezzo per
testimoniare il recente passato: gli orrori della guerra, l’Olocausto (lo sterminio degli Ebrei da parte
dei nazisti), la violenza dei regimi totalitari. Ma già dalla fine degli anni Cinquanta iniziarono a
profilarsi le grandi contraddizioni che segnano l’epoca in cui viviamo: la crescita economica
smisurata di una parte del mondo, a cui si contrappone la miseria di un’altra parte, ancora più
grande; l’affermarsi di una “civiltà del benessere” e di una pace apparente, dietro la quale si
nascondono tensioni pronte ad esplodere violentemente.
Agli inizi degli anni Sessanta, si assisté dunque all’avvento di nuove forme e nuovi progetti letterari
in opposizione alla letteratura dell’impegno; nacque lo sperimentalismo che, proponendosi di
illuminare gli aspetti contraddittori della società contemporanea, cercava di confrontarsi con la
nuova realtà industriale e con la “modernità”; gli artisti tentarono di usare nuovi linguaggi per
esprimere il senso di vuoto e di alienazione innescato nell’uomo moderno: è il caso ad esempio del
teatro, in cui usarono tecniche e forme rivoluzionarie per esprimere proprio l’assurdità e la vacuità
dell’esistenza umana.
Negli ultimi decenni del secolo scorso gli uomini, e gli intellettuali con loro, hanno assistito a
fenomeni destabilizzanti: dapprima la disgregazione del mondo politico tradizionale e il tramonto
delle vecchie ideologie (il crollo dei regimi comunisti); poi il progressivo allargarsi del divario
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economico fra Nord e Sud del mondo, l’esplodere dei conflitti etnici e degli integralismi religiosi;
infine l’affermarsi preponderante dei mezzi di comunicazione di massa, che hanno stravolto i
rapporti sociali, e l’irrompere della crisi ecologica come fenomeno globale.
Di fronte a questa situazione, l’intellettuale sembra oggi aver perso qualsiasi punto di riferimento ed
è alla ricerca di “nuovi itinerari” che possano guidare la società verso un futuro più vivibile.
La nuova poesia.
Il clima poetico del dopoguerra.
La Seconda guerra mondiale, con le sue lacerazioni in tutta Europa, occupa il panorama politico,
sociale e culturale dei primi decenni della seconda metà del Novecento. E’ naturale, quindi, che
anche il mondo degli intellettuali ne sia profondamente toccato e tragga ispirazione dalle
drammatiche situazioni nelle quali è stato coinvolto.
Per molti poeti l’impatto con la realtà della guerra, con i suoi messaggi e i suoi orrori porta alla
consapevolezza delle contraddizioni del vivere umano, alla coscienza dell’impossibilità di qualsiasi
intervento, ad un senso di grande fragilità, di profonda pena, riassunti nell’espressione “il male di
vivere”, coniata da Eugenio Montale. Se alcuni fanno diretto riferimento all’esperienza del conflitto
e dell’occupazione straniera, portando nei loro versi quella tendenza all’impegno politico-sociale
che caratterizza il periodo, altri ne interpretano il dolore e le lacerazioni come il sintomo di un male
più profondo, che investe tutta la condizione umana, e altri ancora cercano una spiegazione
all’infelicità attraverso la memoria oppure trovano una sorta di consolazione nella semplicità e
bellezza della natura o negli affetti personali.
Sul piano stilistico, pur nella grande diversità delle esperienze e dei singoli autori, la maggior parte
della poesia di questi anni presenta versi scarni, che recuperano la “poetica del frammento”
inaugurata da Ungaretti nel primo dopoguerra. La frase, quindi, viene ridotta all’essenziale, talvolta
a una sola parola che si carica di significati per esprimere la pena di vivere. La poesia non deve più
descrivere, deve evocare, cioè suscitare nel lettore una particolare impressione, uno stimolo
all’immaginazione, una singolare intuizione.
Tra i numerosissimi autori che animano la variegata scena poetica del secondo Novecento, abbiamo
scelto alcuni nomi, che ci sembrano essere protagonisti delle differenti tendenze di questo clima
poetico: essi sono Eugenio Montale, Umberto Saba, Salvatore Quasimodo, Sandro Penna,
Mario Luzi, Giorgio Caproni, Giovanni Giudici.
ogni vita è come chiusa in un ambiente ristretto, da cui non si può uscire, simile a quell’orto nel
quale si trova. L’uomo non può comunicare con i suoi simili, né rivelare i propri sentimenti: lo
divide dagli altri quel muro insuperabile (i cocci aguzzi di bottiglia esprimono proprio
l’impossibilità di andare oltre, di saltare al di là). Non resta così che contemplare un mondo,
simboleggiato dall’orto, che non si comprende più e camminare illuminati da un sole nemico, che
non conforta, procedendo senza nessuna ragione, né meta alcuna da raggiungere.
L’autore.
Nato a Genova nel 1896, Eugenio Montale passa l’infanzia e la prima giovinezza in Liguria, a
contatto con quel mare e quel paesaggio che saranno fonte di ispirazione per le sue prime prove
poetiche. Partecipa come ufficiale alla Prima guerra mondiale. Nel 1927 si trasferisce a Firenze,
dove lavora per una casa editrice e diviene direttore di una importante istituzione culturale ma, nel
1938, perde questo incarico per aver rifiutato di iscriversi al partito fascista. E’ quindi costretto a
guadagnarsi da vivere attraverso traduzioni e collaborazioni giornalistiche, mentre continua a
comporre versi. Nel 1948 lascia Firenze per Milano, dove resterà fino alla morte, avvenuta nel
1981, divenendo uno dei protagonisti della cultura italiana; nel 1975 gli viene assegnato il premio
Nobel per la letteratura.
Montale, famoso a livello mondiale come poeta ma anche come autore di prose poetiche, di
traduzioni, di saggi e interventi culturali, ha pubblicato molte raccolte. Le più importanti fra quelle
poetiche sono Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera, Satura.
Fra le sue opere di altro genere si ricordano in particolare Farfalla di Dinard, Auto da fé e Fuori di
casa.
Il Canzoniere di Saba.
Saba comincia a progettare il Canzoniere già nel lontano 1913 (molte importanti poesie risalgono
infatti a quell’epoca), ma l’edizione definitiva di esso, quella che oggi leggiamo, avviene – dopo
molti e molti ripensamenti, interventi e risistemazioni – addirittura nel 1961, cioè quattro anni dopo
la morte del suo autore, realizzata secondo le precise indicazioni da lui lasciate.
Il Canzoniere, che nel titolo riprende quello della somma opera del Petrarca, raccoglie l’insieme
delle liriche del poeta triestino, organizzate in sezioni e tutte rigorosamente “autobiografiche”.
L’intreccio fra vita e poesia costituisce infatti uno dei motivi di fondo della poesia di Saba, che lo
porta alla scelta di uno stile “realista”, “semplice” e “comprensibile”. In un certo qual modo, il
Canzoniere, per la continuità e l’omogeneità dei contenuti, rappresenta il “romanzo” in versi della
vita del suo autore: vita vissuta realmente e vita interiore.
Per questo, ma anche e soprattutto per la modernità e originalità della sua poesia, possiamo
considerare Saba come un autore appartenente a pieno titolo alla seconda metà del Novecento.
Le sezioni più importanti del Canzoniere sono Casa e campagna, Trieste e una donna, Cose
leggere e vaganti, Autobiografia, Cuor morituro, Mediterranee, Quasi un racconto.
L’autore.
Nato a Trieste nel 1883, Umberto Saba cresce senza il padre, che ha abbandonato la moglie ancor
prima che egli nascesse e del quale più tardi rifiuterà il cognome (Poli) per assumere quello di Saba
(che in ebraico significa “pane”), in omaggio alla madre, che era ebrea. Egli vive l’infanzia in una
estrema povertà, tanto da dover abbandonare prestissimo gli studi, prima per imbarcarsi come
mozzo, poi per impiegarsi in una ditta della sua città. Nel frattempo ha cominciato a scrivere versi,
ma la sua prima raccolta, il Canzoniere, viene pubblicata solo nel 1921. Nel 1938, con l’inizio delle
persecuzioni razziali, Saba, ebreo per parte materna, è costretto a lasciare Trieste dove potrà tornare
solo nel dopoguerra. Nel 1948 esce la seconda edizione del Canzoniere, che incontra notevole
successo. Saba è finalmente un poeta riconosciuto e affianca ai propri versi un volume nel quale
parla della propria poesia e ne spiega i motivi: Storia e cronistoria del Canzoniere. Seguono via via
altre edizioni rinnovate della raccolta (nelle quali confluisce la sua intera produzione lirica), i
Ricordi-Racconti, e il romanzo incompiuto Ernesto.
Il poeta muore a Gorizia nel 1957.
Nella lirica Alle fronde dei salici, il poeta rievoca gli anni del conflitto e dell’occupazione nazista;
nell’orrore di un mondo che ha rinunciato alla sua umanità, in un clima di schiavitù e di dolore, egli
ha appeso la sua cetra, cioè la sua arte, scegliendo il silenzio in rispetto alla tragedia collettiva. La
poesia si ispira a un Salmo biblico dedicato alla prigionia babilonese degli Ebrei (Ai salici lungo le
rive avevamo appeso le nostre cetre… Come cantare i canti del Signore in terra straniera?) ed è
articolata in soli due periodi: il primo, più lungo, è costituito da un ansioso interrogativo, mentre la
risposta è concentrata negli ultimi versi.
L’autore.
Salvatore Quasimodo nasce a Modica (Siracusa) nel 1901, in una famiglia modesta. Trascorre
l’infanzia e l’adolescenza nell’isola, a cui rimarrà sempre profondamente legato, e appena
diciottenne si trasferisce a Roma per frequentare l’università. Le condizioni economiche, però, lo
costringono a interrompere gli studi e a impiegarsi. Tuttavia legge, studia, impara da sé il greco e il
latino (bellissime sono le sue traduzioni di brani dell’Iliade e dell’Odissea di Omero) e comincia a
scrivere versi.
Fra il 1930 e il 1936 escono le sue prime raccolte: Acque e terre, Oboe sommerso, Erato e Apollion.
Nel frattempo si è trasferito a Milano, dove pubblica le sue traduzioni dei Lirici greci e la nuova
raccolta Ed è subito sera. Sono gli anni terribili della guerra e dell’occupazione nazista, ed anche la
poesia di Quasimodo ne resta profondamente influenzata. Escono nel dopoguerra altre opere
importanti: Giorno dopo giorno, La vita non è sogno, Il falso e vero verde, La terra impareggiabile.
Nel 1959 egli viene insignito del premio Nobel per la letteratura.
Muore a Napoli nel 1968.
L’autore.
Nato a Perugina nel 1906 in una famiglia borghese, Sandro Penna termina gli studi superiori,
condotti in maniera irregolare, con il diploma di ragioniere. Nel 1929 si trasferisce a Roma, dove
vivrà sino alla morte, avvenuta nel 1977, senza un’occupazione stabile ma facendo mille mestieri e
collaborando a varie riviste. Conduce quindi un’esistenza modesta, riservata e solitaria, interamente
dedicata alla poesia. Le sue liriche sono raccolte in Poesie, Tutte le poesie, Stranezze e Il
viaggiatore insonne.
Giorgio Caproni.
Giorgio Caproni nasce a Livorno nel 1912 ma presto si trasferisce con la famiglia a Genova.
Completati gli studi liceali, si impiega come maestro elementare, quindi combatte nella Seconda
guerra mondiale e partecipa alla Resistenza. In seguito si sposta a Roma, dove unisce l’attività di
insegnante a quella di traduttore e critico. I suoi versi sono raccolti principalmente in Come
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un’allegoria, Il passaggio di Enea, Il seme del piangere, Congedo del viaggiatore cerimonioso, Il
franco cacciatore. Muore a Roma nel 1990.
L’autore.
Mario Luzi nasce a Firenze nel 1914 e in questa città trascorre l’intera vita, partecipando con
importanti contributi alla cultura del Novecento. La sua raccolta Avvento notturno, ad esempio,
rappresenta uno dei testi fondamentali dell’Ermetismo. Per molti anni ha insegnato Letteratura
francese all’Università, pubblicando saggi critici su quell’argomento e studi su Dante. Dopo la
conclusione dell’esperienza ermetica, la sua poesia si apre a temi religiosi e ad una sofferta
riflessione sul mistero della vita, il tempo, l’eternità. Oltre alle opere citate, è autore di molte
raccolte poetiche, tra le quali La barca, Primizie del deserto, Per il battesimo dei nostri frammenti e
di alcune opere per il teatro.
L’autore.
Nato presso La Spezia nel 1924, Giovanni Giudici studia a Roma e si laurea in Letteratura
francese. Dopo alcuni anni vissuti nella capitale, si trasferisce in Piemonte e poi a Milano, dove
lavora come pubblicitario presso una grande azienda e collabora alle pagine culturali di alcuni
74
quotidiani. Dagli anni Cinquanta comincia a pubblicare i propri versi, in varie raccolte uscite nel
corso degli anni. Tra di esse si ricordano particolarmente La vita in versi, Autobiologia e Il
ristorante dei morti. E’ anche saggista e traduttore di poesia angloamericana e russa.
L’autore.
Ignazio Silone nasce nel 1900 in un piccolo paese della Marsica, presso L’Aquila, in una famiglia
poverissima e sfortunata. Per completare gli studi, si trasferisce a Roma, dove ben presto si occupa
di politica e, in quanto antifascista, nel 1927 è costretto a fuggire all’estero. Rientra in Italia nel
1945 e vive facendo il giornalista; viene anche eletto deputato al Parlamento. Muore a Ginevra nel
1978.
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Tra i suoi romanzi si ricordano in particolare Fontamara, Pane e vino, Una manciata di more, Il
segreto di Luca e L’avventura di un povero cristiano, poi adattato per il teatro. Silone è autore
anche di saggi e di testi teatrali.
L’autore.
Vasco Pratolini è nato a Firenze nel 1913. Di famiglia modesta, in gioventù ha svolto molti
mestieri, a contatto con l’ambiente più popolare della sua città, che costituirà poi lo sfondo dei suoi
romanzi (tra cui si ricordano Cronache di poveri amanti, Le ragazze di San Frediano, Metello, Lo
scialo, La costanza della ragione). Dal 1951 lo scrittore ha vissuto a Roma, dove ha collaborato con
il cinema come sceneggiatore e dove è morto nel 1991. Dalle sue opere sono stati tratti diversi film
e uno sceneggiato televisivo.
Corrado sono quelle di Pavese stesso, il quale si rende conto che fuggire davanti alle responsabilità
che la storia e la vita ci impongono significa fallire come esseri umani.
L’autore.
Cesare Pavese nasce a Santo Stefano Belbo (Cuneo) nel 1908. Originario delle Langhe, la regione
collinare piemontese che si stende a sud di Alba, a questo paesaggio lo scrittore resta legato per
tutta la vita e ne fa lo sfondo di quasi tutta la propria narrativa. Dopo gli studi, compiuti a Torino, e
la laurea in Lettere, Pavese diviene antifascista e pertanto è costretto a rinunciare all’insegnamento;
nel 1935 viene addirittura mandato al confino in Calabria. Nel frattempo ha iniziato a scrivere.
Rientrato a Torino prima della guerra, si impiega in una casa editrice e continua a scrivere; ma nel
1950, nonostante i successi letterari, un’ultima serie di delusioni affettive e personali lo spinge a
togliersi la vita.
Tra le sue opere narrative si ricordano i romanzi Paesi tuoi, Feria d’agosto, Il compagno, La casa
in collina, La luna e i falò e alcuni racconti; le poesie sono raccolte in Lavorare stanca e Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi; di rilievo è anche il diario, Il mestiere di vivere, pubblicato postumo. Tra i
primi intellettuali ad aver apprezzato e introdotto in Italia la letteratura nordamericana, Pavese si
distingue, inoltre, per l’impegno come traduttore.
L’autore.
Alberto Moravia, nato nel 1907 a Roma, dove morirà nel 1990, esordisce poco più che ventenne
con il romanzo Gli indifferenti, seguito da molti altri – tra cui si ricordano particolarmente Agostino,
La romana, Il conformista, La ciociara, La noia – e da diverse raccolte di racconti (Racconti
romani, Nuovi racconti romani, Il paradiso). E’ anche autore di saggi e di testi teatrali ed ha inoltre
collaborato a quotidiani e periodici con interventi di costume, critiche cinematografiche, reportage
di viaggi. Personalità di forte impegno civile e culturale, Moravia ha sperimentato tipi diversi di
letteratura, ma sempre nell’ambito di un fondamentale realismo.
Dalle sue opere narrative sono stati tratti diversi film famosi e alcuni lavori televisivi.
Critica sociale, denuncia morale e forte realismo narrativo sono comunque le caratteristiche
fondamentali dei suoi due romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta. Entrambi hanno come
sfondo le squallide borgate romane negli anni del dopoguerra, segnate dalla fame, dalla miseria e
dalla lotta per la sopravvivenza quotidiana.
I personaggi sono adolescenti o giovani emarginati che trascinano le giornate in avventure
miserabili, alle prese con un ambiente degradato e degradante, duro e violento, talvolta addirittura
feroce. In lontananza, con terribile contrasto, si intravedono le bellezze monumentali della città e i
verdi quartieri della borghesia: come se fossero un altro pianeta, essi fanno balenare gli scintillanti
richiami di una società che si avvia al “benessere” e dalla quale i giovani della borgata resteranno
sempre esclusi. In un mondo nel quale non sembra esistere la possibilità di salire onestamente la
scala sociale, l’unica via aperta a questi ragazzi per emergere in qualche modo è quella della
violenza, della sopraffazione, della corruzione morale: risse, furti, prostituzione divengono così le
attività quotidiane. Il loro destino è ormai segnato.
Una vita violenta, dal quale è tratto il brano Nella borgata, narra la storia di Tommaso, un piccolo
teppista di borgata che, attraverso terribili esperienze, tra cui anche il carcere, inizia a maturare una
coscienza politica. Il suo “percorso di formazione” è però tutt’altro che a lieto fine: avvicinatosi
all’impegno politico, Tommaso partecipa con i compagni al tentativo di salvare alcuni baraccati
minacciati dal Tevere in piena e in conseguenza di questo atto morirà, per l’aggravarsi della
tubercolosi della quale è già ammalato.
Per dare voce pienamente a questa realtà, Pasolini elabora, come si è detto, uno stile espressivo che
colpisce per il suo realismo: egli cerca infatti di riprodurre nella pagina non solo la lingua parlata
dalla gente delle borgate, ma anche i gesti, i comportamenti, i modi espressivi. Come se lo scrittore
volesse essere semplicemente il tramite attraverso il quale un mondo intero può finalmente
raccontare se stesso.
L’autore.
Pier Paolo Pasolini nasce nel 1922 a Bologna, dove compie gli studi fino alla laurea in Lettere.
Durante il periodo della guerra è a Casarsa, in Friuli, terra cui resterà sempre molto legato e alla
quale dedicherà poesie composte in dialetto friulano (La meglio gioventù). In questi anni si dà
all’insegnamento, al giornalismo e all’impegno politico. Nel 1950 si trasferisce con la madre a
Roma, dove viene a contatto con i giovani che vivono l’esistenza dura e violenta delle borgate e
proprio con l’interesse per questo ambiente inizia la sua attività di scrittore. Comincia anche a
collaborare al cinema e a tale forma di comunicazione si appassiona in maniera crescente, tanto che
in seguito vi si dedicherà a “tempo pieno”, diventando uno dei più importanti registi italiani.
Autore di versi (Le ceneri di Gramsci, Poesia in forma di rosa), di romanzi (Ragazzi di vita, Una
vita violenta, Petrolio), di saggi, articoli e interventi di attualità (Scritti corsari), lo scrittore diviene,
negli anni Sessanta, una delle maggiori e più discusse personalità intellettuali del Paese: spesso,
infatti, egli assume posizioni critiche “scomode” nei confronti tanto della società borghese quanto
della cultura della “contestazione” giovanile.
Dal 1960 fino alla morte – che avviene a Roma nel 1975 in seguito a un atto di violenza e in
circostanze mai del tutto chiarite – Pasolini si impegna prevalentemente nel cinema, realizzando
film importanti, tra cui si ricordano in particolare Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo
secondo Matteo, Il Decameron.
L’ultima narrativa.
Verso gli anni Sessanta, esauritasi l’esperienza neorealista anche per il mutare della situazione
storica e sociale nel Paese, si assiste a una trasformazione, a una “individualizzazione” della
letteratura. Questa, infatti, non cessa di presentare figure grandi o comunque interessanti, ma
ciascuna di esse ha ormai caratteristiche tutte proprie, non fa più riferimento a “scuole” o
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“movimenti”. Un altro elemento di diversità con il passato, che non va trascurato di osservare, è il
crescente numero di presenze femminili che da ora in poi animerà la scena letteraria.
Nei decenni fino alla conclusione del secolo, se da un lato continuano a operare alcuni dei
precedenti protagonisti, come Pasolini, Moravia e Italo Calvino (per citare solo i maggiori),
nascono dall’altro, nel nostro Paese, figure di narratori dalle più diverse caratteristiche tematiche e
stilistiche. Da ciò emerge un panorama complesso e di enorme varietà, che sfugge a ogni
classificazione.
Carlo Emilio Gadda dà vita a romanzi e racconti del più avanzato sperimentalismo linguistico (Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana, L’Adalgisa, La cognizione del dolore). Giorgio Bassani porta
nella letteratura la sua sottile analisi sulla crudeltà della storia e sulla solitudine umana (Il giardino
dei Finzi Contini, Gli occhiali d’oro). Giuseppe Tomasi di Lampedusa recupera la grande tradizione
del romanzo storico per dare, con Il Gattopardo, un quadro lucido e impietoso della società italiana.
Leonardo Sciascia utilizza spesso il genere del “giallo” per esprimere il proprio pessimismo sui
conflitti, le contraddizioni e le piaghe che inquinano la vita democratica (A ciascuno il suo, Il
contesto, Todo modo). Elsa Morante, con La storia, riprende il filo del romanzo realista di grande
tradizione. Antonio Tabucchi nei suoi romanzi e racconti intreccia realtà e assurdo, verità e
finzione. Umberto Eco, con Il nome della rosa, rappresenta i conflitti ideologici e sociali del
presente proiettandoli in una vicenda del tardo Medioevo.
L’autore.
Italo Calvino nasce nel 1923 nell’isola di Cuba, ma trascorre l’infanzia e l’adolescenza in Liguria
fino a quando, nel 1943, entra nella Resistenza, esperienza importante che sarà materia del suo
primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, e di alcuni racconti, che fanno capo alla corrente
neorealista tipica di quel periodo.
In seguito cura una raccolta di Fiabe italiane trascritte dai dialetti di tutte le regioni e pubblica
opere (Il visconte dimezzato, Il barone rampante, Il cavaliere inesistente, Marcovaldo) nelle quali
gli interessi umani e sociali si uniscono a un forte elemento fiabesco.
Successivamente, le molteplici curiosità di Calvino lo portano a cimentarsi in generi diversi:
raffinati esperimenti di “fantascienza” sono ad esempio Le cosmicomiche e Ti con zero, mentre Le
città invisibili, Il castello dei destini incrociati, Se una notte d’inverno un viaggiatore si basano su
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intrecci di grande complessità e Palomar dimostra come in questo scrittore il senso del fantastico
non sia mai disgiunto dalla logica e dalla razionalità. Nell’insieme la sua opera lo rende uno degli
autori più originali e complessi del nostro Novecento.
Intellettuale lucido e ironico, Calvino ha partecipato al dibattito politico e culturale con interventi su
quotidiani e periodici e ha rappresentato un importante punto di riferimento per la cultura italiana,
tanto come scrittore quanto come critico e saggista.
È morto a Siena nel 1985.
L’autore.
Nata nel 1912 a Roma, Elsa Morante esordisce giovanissima come autrice di favole e poesie per
bambini e poi diviene collaboratrice di giornali e riviste. In seguito ha pubblicato romanzi di
successo (Menzogna e sortilegio, L’isola di Arturo, La storia), racconti (Lo scialle Andaluso) e
opere di poesia (Il mondo salvato dai ragazzini). La scrittrice è morta a Roma nel 1985, in estrema
povertà e solitudine.
vivere. Con Sostiene Pereira, Antonio Tabucchi lascia una preziosa testimonianza di impegno civile
alle giovani generazioni, spesso accusate di non porsi in un confronto costruttivo e critico con il
passato e di non avere, quindi, coscienza del loro tempo.
Nel brano Bentornato, Monteiro Rossi, Pereira rivede quest’ultimo. Il giovane rivoluzionario suona
alla porta del vecchio giornalista, che già l’ha aiutato, sicuro di poter nuovamente contare su di lui.
E così è: senza capire fino in fondo perché, Pereira prova un grande affetto per il ragazzo e
spontaneamente lo assiste, anche con la consapevolezza di andare incontro a gravi rischi. Forse lo fa
solo perché sente di avere finalmente un motivo per vivere. Pereira è un personaggio malinconico,
sofferente e problematico. La sua vita è fatta di abitudini, la pacatezza con cui si muove e parla
rivela quell’atteggiamento di rassegnazione che fino all’incontro con Monteiro Rossi ha dominato il
suo modo di essere. Ma già in queste pagine egli ha compiuto la sua scelta. Ha deciso di agire. La
frattura con il passato emerge anche nel rapporto con la memoria della moglie, verso la quale
sembra progressivamente assumere un atteggiamento di distacco. Pereira si lascia il passato alle
spalle e capisce che il presente richiede il suo impegno; perché attraverso l’impegno civile può
vivere coscientemente il proprio tempo e realizzare le sue più alte aspirazioni di uomo.
L’autore.
Antonio Tabucchi, nato presso Pisa nel 1943, è un importante studioso della letteratura portoghese
e vive tra l’Italia e il Portogallo. Docente universitario, narratore, traduttore, critico e saggista, tra le
sue opere di narrativa si ricordano alcune raccolte di racconti (Il gioco del rovescio, Piccoli equivoci
senza importanza, Sogni di sogni) e i romanzi Piazza d’Italia, Notturno indiano, Sostiene Pereira,
La testa perduta di Damasceno Monteiro, Si sta facendo sempre più tardi.