Sei sulla pagina 1di 124

I Convegni di storia e critica d’arte in Italia negli anni Sessanta

Introduzione 2

Capitolo I | Anni Sessanta: problematiche storico-critiche


• “La crisi dei valori” 5
• La “rifondazione” della critica 9
• I criteri di giudizio 12
• Critica dei linguaggi: nuove aperture 14

Capitolo II | I Convegni: 1959-64


• Il contesto storico-critico 19
• I Convegni di Verucchio dal 1959 al 1962 21
• 1963: la IV Biennale di San Marino e il XII Convegno di Verucchio 27
• La polemica fra artisti e critici fra il Convegno di Verucchio e le pagine dell’ “Avanti!” 36
• I Convegni del Gruppo 70 42
• Il XIII Convegno di Verucchio, 1964 46

Capitolo III | I Convegni: 1965-66


• Il contesto storico-critico 49
• Il XIV Convegno di Verucchio - Arte e comunicazione, 1965 53
• Il XV Convegno di Verucchio - Arte Popolare moderna, 1966 60

Capitolo IV | I Convegni: 1967-68


• Il contesto storico-critico 68
• Il XVI Convegno di Verucchio - Lo spazio visivo della città
“Urbanistica e Cinematografo”, 1967 75
• Il XVII Convegno di Verucchio - Strutture ambientali, 1968 81
• Una possibile lettura critica: Argan, i Convegni di Verucchio
e le sorti della critica d’arte alla fine degli anni Sessanta 91

Apparato | Schede analitiche dei Convegni 101

Documentazione fotografica 111

Bibliografia 117
Introduzione

Alle soglie degli anni Sessanta la critica d’arte si trova a dover fronteggiare due questioni: da un
lato la rivendicazione della propria autonomia, sia dall’estetica filosofica, che dalla storia dell’arte
e, dall’altro, la definizione di una strumentazione teorica di carattere interdisciplinare.
La definizione di questo panorama è lucidamente tracciata dal saggio di Luciano Anceschi
pubblicato nel 1959 sulle pagine di “Rivista di estetica”, dal titolo Della critica letteraria e artistica in
generale1: qui Anceschi mette a fuoco la necessità di indipendenza della critica dall’ingombrante
bagaglio costituito dalla tradizione filosofica, superando la concezione idealistica dell’arte volta a
considerare l’operato artistico pura espressione dello spirito, piuttosto che dell’uomo. Questa
matrice, risalente a Hegel, era fortemente radicata in Italia, dato l’autorevole ruolo svolto da
Benedetto Croce nel panorama culturale nazionale. Parallelamente, Anceschi pone il problema
dei molteplici rapporti che la critica d’arte è chiamata a instaurare e sviluppare con le altre
discipline, dalla semiologia, alla psicologia e alla sociologia, necessarie perché l’arte sia considerata
in una prospettiva storica. Ne deriva l’urgenza della critica d’arte, in bilico fra autonomia ed
eteronomia, di ridefinire la propria metodologia, la strumentazione e il senso del proprio operato.
Ciò comporta necessariamente il ripensamento dei rapporti fra critica e storia, evidenziando
differenze e tangenze fra la critica accademica e la critica militante.
I luoghi prediletti in cui si attua la rifondazione della critica d’arte negli anni Sessanta sono le
riviste e i Convegni.
L’intento che questo studio si propone è l’indagine dei Convegni di storia e critica d’arte in Italia,
nel corso del decennio, considerati nella loro valenza storica di strumenti nell’ambito dell’ampio
dibattito critico nazionale. Nell’arco cronologico preso in considerazione, ossia 1959-1968, i
Convegni di storia e critica d’arte sono essenzialmente i Convegni Internazionali di Artisti, Critici
e Studiosi d’Arte organizzati, fin dagli anni Cinquanta, da Gerardo Filiberto Dasi, a Verucchio,
nella provincia romagnola. Accanto a questa realtà, sono presi in considerazione anche gli
incontri organizzati a Firenze dagli artisti del Gruppo Settanta, nel 1963 e 1964, soprattutto alla
luce della contingenza tematica che li avvicina alle esperienze verucchiesi.
Già negli anni Cinquanta l’emancipazione del contesto culturale italiano dalla tradizione e dal
lungo isolamento culturale dovuto al Fascismo prima, e alla Seconda Guerra Mondiale poi, è
reso possibile dalla traduzione e diffusione di molti testi stranieri, fondamentali per l’acquisizione
di nuovi strumenti utili alla critica d’arte, dall’orientamento iconologico di Panofsky, alle filosofie
fenomenologiche e strutturaliste.

1 L. Anceschi, Della critica letteraria e artistica in generale, in “Rivista di estetica”, maggio 1959, pp. 178-196.

2
L’incontro delle realtà accademiche con le ricerche straniere dà origine, nei primi anni Sessanta, al
fiorire di numerose posizioni critiche, generalmente accomunate da un “agile eclettismo, una
totale mancanza di rigidità nell’abbracciare indirizzi scientifici, filosofici o storici in grado di
ravvivare il portato della tradizione critica italiana”2. Tale fervore critico si riversa in numerosi
dibattiti, lasciando emergere l’urgenza, senza precedenti, di delineare i contorni della disciplina.
In questo panorama, il protagonista è Giulio Carlo Argan, allievo di Lionello Venturi e massimo
esempio dell’ “eclettismo colto” della critica italiana. In Argan, infatti, la formazione accademica,
storico-idealistica, si unisce a un approccio marxista, alla solida conoscenza della filosofia
fenomenologica e delle teorie puro-visibiliste. Gli scritti di Argan della fine degli anni Cinquanta,
volti a restituire un disegno completo della realtà culturale contemporanea, evidenziane le
criticità, sono posti in apertura di questo studio quale cornice teorica entro cui le esperienze dei
Convegni prendono forma. Argan riprende da Hegel il concetto della “morte dell’arte” e,
purificandolo dal significato metafisico, lo declina dell’attualità storica, denunciando lo
smarrimento del valore sociale dell’arte nella contemporaneità. Alla luce di questa convinzione,
egli si fa strenuo difensore di una critica tesa al disvelamento di valori storici, culturali e sociali,
non scevra dall’impegno politico. Anzi, proprio negli anni Sessanta, Argan si dichiara a sostegno
delle ricerche gestaltiche, considerando la posizione militante unica strada per la critica, purché
diretta all’epurazione dal mercato dei falsi valori artistici.
La figura di Argan non è qui richiamata esclusivamente in chiave teorica poiché, a partire dal
1963, lo studioso riveste un ruolo fondamentale nell’ambito dei Convegni di Verucchio,
essendone il presidente e avendo un ruolo dominante della definizione delle tematiche e nello
svolgimento dei lavori.
Il primo obiettivo di questo studio è stato la ricostruzione storica delle vicende riguardanti i
Convegni, attraverso l’analisi approfondita degli atti, non sempre pubblicati, e il reperimento di
fonti e della rassegna stampa dell’epoca, comparsa su riviste specialistiche e generiche. Una volta
ottenuto il quadro storico completo, sono stati individuati i nodi critici e le ricorrenze tematiche,
poi collocati nel panorama storico critico contemporaneo, ponendo l’accento sugli aspetti
affrontati durante i Convegni, coscienti della notevole complessità delle vicende artistiche di
questo periodo.
L’analisi critica ha rivelato l’assoluta centralità della figura di Argan, sia a livello organizzativo, sia
nell’orientamento del dibattito sorto durante e dopo i Convegni.
Per quanto la ricostruzione storica delle vicende legate ai Convegni appaia talvolta frammentaria,
la lettura complessiva dimostra come la critica abbia gradualmente mutato il proprio statuto nel

2 A. Vettese, La critica d’arte. I luoghi di un’autoriflessione, in Arte in Italia, 1960-1985, a cura di F. Alfano Miglietti, G.

Politi editore, Flash Art Book, 1988, p. 26.

3
corso del decennio, nello strenuo tentativo di ricercare un canale di dialogo con i cambiamenti
socio-economici che la società stava vivendo, mantenendo vitale il rapporto con le opere, in
difesa dell’autonomia dell’operare critico, sia dall’arbitro del singolo, sia dal condizionamento del
mercato. Gli ausili chiesti agli altri campi del sapere e, a volte, alcune macchinosità teoriche, sono
giustificate dalla preoccupazione di individuare sicuri valori storico critici sui quali basare l’attività
di giudizio. Le ulteriori sperimentazioni artistiche, e di conseguenza critiche, sul finire del
decennio, condurranno a delineare nuove metodologie, conseguenti la crisi dell’interpretazione.

4
Capitolo I | Anni Sessanta: problematiche storico-critiche

“La crisi dei valori”

“Perché s’interroga l’arte moderna per sapere se veramente


una crisi fatale dei supremi valori umani
covi nel profondo dell’anima collettiva
preparando all’umanità un destino atroce:
come se proprio l’arte,
per non so quale ambigua familiarità con l’inconscio,
avesse la facoltà di esplorarlo e rivelarne i misteri?”3

Sul finire degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta “una crisi fatale dei supremi valori umani”
ha coinvolto il sapere umanistico. L’arte, “primaria espressione dello spirito”, non era la causa
della malattia che pervadeva il corpo della società, ma, al contempo, non ne era immune.
Accanto alle teorie rivolte allo studio e al riconoscimento delle potenzialità dell’arte moderna, si è
affiancata una posizione critica4 nei confronti della modernità. Gli atti d’accusa contro l’arte
moderna provenivano da più fronti: Oswald Spengler, nel 1918, fece corrispondere la fase
conclusiva dell’arte tradizionale con l’Illuminismo, definendolo Il tramonto dell’Occidente, e avviando
un pensiero critico “discorde”, ossia basato sul cambiamento di paradigma del sapere umanistico
che Hans Sedlmayr ha chiamato la “perdita del centro”5. In altre parole, ciò è equivalso al totale
distacco dell’arte dall’esperienza della Natura, intesa non solo come mimesi, ma come valore, cioè
come aspirazione all’universale. Queste considerazioni sul futuro dell’arte moderna sono state
riprese e argomentate da Giulio Carlo Argan in un articolo del 1957, intitolato, La crisi dei valori6,
apparso su “Quadrum”. Qui Argan sottolinea che a partire dall’Illuminismo, l’arte moderna ha
avuto una funzione sociale che, nel contesto a lui contemporaneo, risulta essere fortemente
indebolita, al punto da far considerare il rischio della morte dell’arte “un’eventualità tutt’altro che
improbabile”7.
Lo smarrimento del valore ideologico che aveva accompagnato l’arte, specialmente nelle sue
manifestazioni realiste; la crisi delle tipologie artistiche nate con un preciso programma di riforma

3 G. C. Argan, La crisi dei valori, 1957, in “Quadrum”, a. IV, 1957, pp. 3-15; ripreso in G. C. Argan, Salvezza e caduta
nell’arte moderna. Studi e note II, Il Saggiatore, Milano 1964, p. 28.
4 Per la definizione di “critica discorde” cfr. H. Rosenberg, La tradizione del nuovo, 1959, ed. it. Feltrinelli, Milano 1964.

Per una panoramica sull’argomento si veda R. De Fusco, La critica discorde, in “Op. Cit.”, n. 4, settembre 1965, pp. 20-
43. Nell’ambito di un approfondimento dedicato alla critica d’arte contemporanea proposto dalla rivista “Op. Cit.”
fra il 1965 e il 1966, l’articolo propone un’approfondita sintesi degli studi riconducibili alla cosiddetta “critica
discorde”, riassumendo le posizioni di studiosi internazionali dal 1918 agli anni Sessanta.
5 H. Sedlmayr, La perdita del centro. Le arti figurative del XIX e XX secolo come sintomo e simbolo di un'epoca, 1948, ed. it.

Rusconi, Milano 1976.


6 G. C. Argan, La crisi dei valori, 1957, cit., ripreso in Salvezza e caduta, cit., pp. 28-38.
7 Ivi, p. 33.

5
sociale, quali l’urbanistica, il design e l’architettura, rischiavano di subire un impoverimento della
sostanza politica e sociale che conferiva loro un valore, riducendo l’arte stessa a puro formalismo.
Argan cerca le cause di questa situazione di crisi nel trasferimento negli Stati Uniti di molti artisti
e architetti, avvenuto nella seconda metà degli anni Trenta, con il conseguente avvicinamento
dell’arte al capitalismo industriale e la declinazione dell’operatività artistica verso tecnica
specializzata. L’evidente fallimento delle utopie sociali promesse dalle correnti razionaliste spinge
Argan a considerare l’Informale come una reazione alla crisi ideologica della contemporaneità.
Tale posizione antitetica fra la ricerca informale e le sperimentazioni razionaliste, nonché lo
studio approfondito e puntuale della pittura informale ormai indirizzata verso un impoverimento
formale, sono stati oggetto di riflessione di Argan dalla metà degli anni Cinquanta fino ai primi
anni Sessanta. L’articolo citato in apertura inaugura gli scritti sull’argomento, poi raccolti nella
pubblicazione del 1964, intitolata Salvezza e caduta nell’arte moderna 8 . Nucleo di questa
pubblicazione è l’articolo9, da cui prende il titolo la raccolta, apparso nel giugno del 1961 sulle
pagine de “Il Verri” 10, in un numero speciale dedicato all’Informale.
L’incipit di Argan appare, più che una domanda in attesa di risposta, un monito a una lettura
critica dei fatti relativi l’arte contemporanea. Si evidenzia la fase di transizione nella quale il
paradigma dell’arte è in corso di mutazione e i procedimenti artistici, dalla tecnica artigiana della
pittura e della scultura, all’operatività industriale e seriale del design, sembrano svuotati
ideologicamente e caratterizzati da un’indifferenza etica. L’artista, fino alle soglie della
contemporaneità, aveva avuto un ruolo sociale riconosciuto, alla stregua dei capi religiosi e
politici, poiché aveva fornito uno schema universale all’esperienza personale dei singoli individui,
indicando loro una via di salvezza e di superamento della propria condizione particolare. Si tratta,
dunque, di un problema con precisi contorni politici, oltre che morali.
In arte l’opposizione fra “salvezza e caduta” è restituita da Argan come rapporto antitetico fra
spirito e materia, nonché distinzione fra una morale religiosa, caratterizzata dall’avere il proprio
fine “oltre il mondo”, e una morale politica ed economica, con finalità “nel mondo”. In altri
termini, la prassi dell’artigianato è contrapposta all’industria come lo spirito è contrapposto alla
materia. A tale parallelismo, in passato, era corrisposta una distinzione nell’ordine sociale, fra le
persone o i ceti privilegiati che possedevano le idee direttive e avevano funzione di guida, e le
persone e i ceti guidati, ossia la massa. Nel panorama politico-sociale dei primi anni Sessanta,
l’artigianato rappresenta una via per la “salvezza” dell’individuo e fronteggia l’instaurazione di una
tecnica collettiva, industriale, nella quale il contributo del singolo è vanificato, poiché non più

8 G. C. Argan, Salvezza e caduta, cit.


9 G. C. Argan, Salvezza e caduta nell’arte moderna, in “Il Verri”, n. 3, giugno 1961, pp. 3-42, ripreso in Salvezza e caduta,
cit., pp. 39-72.
10 AA.VV., L’Informale, in “Il Verri”, n. 3, 1961.

6
qualificante e privato di consapevolezza. Tale negazione di responsabilità individuale neutralizza il
concetto di “fine”, annullando, di conseguenza, l’idea di “salvezza”, ridotta all’integrazione nella
società e all’adeguamento ai ritmi del fare sociale.
Argan argomenta la propria riflessione considerando, a un’estremità, l’arte informale e, dall’altra,
il design. La pittura informale è stata proposta, all’interno dell’orizzonte artistico, come autre,
insofferente al passato e priva di impegno programmatico per il futuro. Non mirando alla
definizione di nuovi valori, l’opera d’arte informale è stata concepita come assoluta presenza,
puro atto, una violenta ma labile scarica emotiva11, in cui la componente tecnica continua ad
essere centrale: non tanto come modalità operativa, ma come processo costitutivo in grado di
coinvolgere sia l’artista che il fruitore, superando, quindi, la gerarchia fra spirito e materia.
Secondo Argan tale dimensione effimera del gesto pittorico, tipica di Jackson Pollock, ma già
anticipata da Van Gogh, ha un valore antropologico: l’uomo, inteso come singolo, per
sopravvivere è costretto a varcare il limite della propria singolarità, perdersi nella massa per poter
contrastare il potere alienante della massa stessa.
“[…] Van Gogh è stato il primo a respingere la catarsi della rappresentazione e a praticare
una tecnica che palesemente anticipa quella che con Pollock si chiamerà Action painting; e
la sua figurazione di una natura aggressiva e invadente, che assume in proprio e ritorce
contro l’individuo tutto ciò che l’individuo ha alienato da sé accettando di vivere secondo la
normalità del sistema, quasi occupando fisicamente il posto di una individualità dissolta o
fatta imponente e passiva, la quale è la prova ad absurdum della lucida accettazione di un
destino di caduta: di caduta, appunto, nella realtà e nell’urgenza spietata dei suoi
problemi”12.

L’assenza di utopia riconosciuta nell’Informale conduce Argan, non solo a rifiutare tale pittura
come avanguardia, ma a considerarla una “retroguardia”13. Per quanto ammetta che “qualche
volta tocca alle retroguardie decidere le sorti della battaglia”14, il suo giudizio sull’Informale è di
pura negazione, lo considera sterile ribellione senza proposte, dunque pienamente accettabile dal
capitalismo delle società occidentali. L’unico possibile riscatto della pittura informale è ammesso

11 Argan, in proposito, riferì alle parole di Georg Simmel su Van Gogh e gli espressionisti, considerati precursori

dell’Action painting: “L’intera commozione dell’artista si prosegue nell’opera, o meglio ancora, come opera, del tutto
immediatamente, così come viene vissuta. Essa non fa con ciò una forma o non si plasma in una forma che sia a essa
imposta da un’esistenza, vuoi reale o vuoi anche ideale, ad essa esteriore. […] Come se la commozione psichica
dell’artista di prolungasse senz’altro nella mano che tiene il pennello – alla stessa maniera che il gesto esprime l’intera
emotività e il grado di dolore; - come se i movimenti con cui essa commozione si esprime obbedissero senza
resistenza, sicché l’immagine che finisce per trovarsi sulla tela sia l’immediato precipitato della vita interiore, che non
ha lasciato penetrato nel suo svolgimento nulla di esterno e di estraneo”. Cfr. G. C. Argan, Materia tecnica e storia
nell’informale, 1959, in Salvezza e caduta nell’arte moderna, Il Saggiatore, Milano 1964, pp. 81-89 (pp. 82-83)
12 G. C. Argan, Salvezza e caduta, 1964, cit. p. 48.
13 Ivi, p. 72.
14 Ibidem.

7
nel passaggio dalla dimensione speculativa a quella morale15, rintracciata da Argan nell’operare di
Emilio Vedova16.
Dall’altro canto, in merito al design, lo studioso richiama l’esperienza del Bauhaus, nella fase
guidata da Walter Gropius, quale tentativo dell’individuo di preservare la responsabilità della
propria vita, all’interno della società industrializzata: una sorta si riscatto umano attraverso la
tecnica. La scuola di Weimar-Dessau si era caratterizzata per una massiccia componente politica,
poiché l’interazione arte e industria si sarebbe dovuta materializzare in un controllo artistico dello
sviluppo tecnico, operato dall’artista stesso, al fine di educare e formare la società. A differenza
della pittura informale, il design ha conservato intatto il carattere di progetto e il fine dell’utilità
sociale come scopo della propria esistenza, ma anch’esso è pervaso dai segni della crisi.
Le opinioni di Argan in merito alla condizione del design sono condivise anche da Gillo Dorfles,
il quale riconosce tale crisi in alcuni anacronistici ritorni alle estetiche liberty e art nouveau,
sintomatiche anticipazioni della necessità di una trasformazione stilistica. In un articolo 17 ,
intitolato Pittura, architettura e disegno industriale di fronte all’Informale, comparso anch’esso sul terzo
numero de “Il Verri” del 1961, Dorfles sottolinea la vanificazione delle speranze di una
comunione di intenti e di operatività fra architettura, design e pittura, inaugurata da Le Corbusier
e perseguita da André Bloc e dal “gruppo espace” francese, riconoscendo, fra le cause, proprio
l’affermazione totalizzante dell’Informale.
“Ma questo periodo di rosee speranze in una comunione di intenti e di umori tra le diverse
attività artistiche della visualità doveva purtroppo ben presto sfumare. Chi oserebbe
proporre, oggi, un parallelismo tra le pitture di Fautrier, di Michaux, di Pollock, e gli oggetti
prodotti recentemente dall’industria, oppure tra queste stesse pitture e le architetture di un
Rudodolph, di un Tange, di un Mangiarotti? […] Cosa è accaduto dunque negli ultimi anni
nel campo di codeste arti per causarne di bel nuovo il divorzio? Sono accaduti in realtà
parecchi fatti disparati e d’ordine assai diverso […]:
1) lo sviluppo delle correnti informali in pittura e in scultura;
2) l’incremento dei “mass media” come strumento di comunicazione visuale dell’umanità;
3) l’evoluzione del disegno industriale e dell’architettura, superata la fase del funzionalismo
internazionalistico”18.

La pittura informale e la declinazione romantica della tecnica capace di costruire qualcosa di


completamente inedito, seppur privo di contatto diretto con il mondo circostante, è letta, anche
da Dorfles, come un riscatto sull’estetica utilitaria e meccanizzata del rigorismo dell’architettura
post-funzionalista.

15 Cfr. C. Zambianchi, Nota su Giulio Carlo Argan e l’Informale, in Giulio Carlo Argan. Intellettuale e storico dell’arte, a cura di

C. Gamba, Electa, Milano 2012, pp. 352-356.


16 “Il suo furor può avere soltanto giustificazioni morali” e “il suo impegno, sul contingente implica una superiore

posizione di coscienza”, G. C. Argan, Emilio Vedova, XXX Biennale di Venezia, catalogo, Venezia 1960, ripreso in
Salvezza e caduta, cit., pp. 244-247 (p. 245).
17 G. Dorfles, Pittura, architettura e disegno industriale di fronte all’Informale, in “Il Verri”, n. 3, giugno 1961, pp. 187-190.
18 Ibidem, p. 188.

8
Ciò che emerge dagli scritti di Argan presi in considerazione è l’intenzione di esplorare la
condizione dell’arte e dell’artista nel proprio tempo, interrogandosi sulla possibilità stessa
dell’arte, in un complesso contesto politico, economico e sociale19. Non si tratta di contrapporre,
in maniera manichea, il mito dell’individualità a quello della socialità, l’artigianalità pittorica alla
serialità del design, ma di ridare una coscienza storica all’arte, una valenza sociale.
In altre parole la “morte dell’arte” equivale, nel pensiero di Argan, alla fine della sua funzione
sociale.
La posizione messa qui in evidenza non è, ovviamente, l’unica strada percorsa dalla critica negli
anni Sessanta: si è voluto sottolineare la fermezza di opinione esplicitata da Argan quale premessa
indispensabile per ripercorrere il dibattito svolto dalla critica nei Convegni che seguiranno nel
decennio, rivelando reazioni di opposizione e superamento. A partire dal 1963, Argan sarà il
presidente dei Convegni Internazionali di Artisti, Critici e Studiosi d’Arte di Verucchio-Rimini e
San Marino, i quali saranno evidentemente condizionati dalla sua impronta critica. Tale
condizionamento si evince sia dalle tematiche scelte, fra cui Tecnica e ideologia, Arte e comunicazione,
Arte popolare moderna, nonché dalle rassegne che egli cura negli stessi anni, ad esempio Oltre
l’informale e Nuove tecniche dell’immagine, rispettivamente nell’edizione del 1963 e del 1967 della
Biennale di San Marino.
L’interrogativo cui Argan, e la critica italiana che con lui dialoga, cercherà di rispondere è “come e
attraverso quale processo l’esperienza percettiva si costituisca in valore”20, ossia delineare se e
quale posto ha l’arte moderna nella concretezza della società rinnovata degli anni Sessanta.

La “rifondazione” della critica


Osservando “la crisi dei valori” da un altro punto di vista, ossia leggendo il concetto di “morte
dell’arte” in chiave estetica, esso può essere interpretato come cambiamento dell’idea di
artisticità21. Tale lettura è riconducibile al pensiero di Dino Formaggio il quale mette in rilievo
l’insostenibilità critica della tesi crociana della “fine storica dell’arte” e basa la propria idea di
artisticità sulla “morte dialettica di certe figure della coscienza all’interno dell’operare artistico ed
estetico e quindi del perenne trasmutarsi e rigenerarsi nell’autocoscienza avanzante”22. In altri
termini, il suo pensiero si fonda sul superamento dell’idea tradizionale di artisticità, coincidente
con il concetto di bellezza ideale e delle estetiche dogmatiche. In questa ottica, l’estetica non si
qualifica più come “filosofia dell’arte”, ma, aprendosi a una dimensione non dogmatica, coinvolge
19 S. Lux, Giulio Carlo Argan: la militanza nel contemporaneo, in Giulio Carlo Argan. Intellettuale e storico dell’arte, cit., pp. 367-

386, (p. 374).


20 G. C. Argan, Presentazione al catalogo Gruppo 1. Biggi, Carrino, Frascà, Uncini, Galleria del Cavallino, Venezia 4-8

dicembre 1964, ripreso in S. Lux, Giulio Carlo Argan: la militanza nel contemporaneo, cit. p. 374.
21 D. Formaggio, L’idea di artisticità. Dalla “morte dell’arte” al “ricominciamento” dell’estetica filosofica, Casa Editrice Ceschina,

Milano 1962.
22 Ivi, p. 94 e sgg.

9
molti concetti oltre il campo dell’arte e introduce la categoria di “poetica”, intesa come “poesia
della poesia”, ossia teorizzazione legata a precisi fenomeni e non universalizzabile.
L’excurcus storico tracciato da Formaggio sulle pagine de L’idea di artisticità rivela come la “morte
dell’arte”, seppur radicata nella filosofia di Schiller, Hegel e Hölderlin, non sia identificabile
soltanto con i famosi j’accuse dei testi di stampo idealistico, da Bosanquet a Croce; ma corrisponda
a una corrente vasta di opinione, a volte anche pubblica, la quale ha convissuto rumorosamente
con teorie filosofiche ed estetiche, coinvolgendo filosofi come Ugo Spirito e Giovanni Gentile, e
con notazioni giornalistiche.
Risultano significative le parole di Pietro Raffa in proposito:
“L’avanguardia è un’astuzia della storia dell’arte per portare a compimento la ‘morte
dell’arte’, ossia il trapasso dell’arte dalla funzione culturale che ha avuto nel passato una
funzione culturale diversa. Mi servo di una metafora, ‘astuzia della storia’, per esprime
questo concetto, ma è noto che alcune ideologie dell’avanguardia sono esplicitamente
consapevoli del processo e ne fanno addirittura il perno del loro programma […] Questo
mutamento si manifesta nella coscienza artistica con un successo di consapevolezza
razionale rispetto alla capacità di creazione e godimento artistico vero e proprio […] Il fare
artistico esige una consapevolezza critica vieppiù crescente, che vuol dire ideologizzazione
rilevante del prodotto […] onde la sporporzione paradossale esistente fra ciò che le opere
dicono in effetti e il surplus di dottrina che le giustifica”23.

Il “surplus di dottrina” restituisce la magmatica idea identificabile con il concetto di poetica,


ribadendo come l’idea di “morte dell’arte”, in senso crociano, sia oltrepassato. Ciò che accade è,
dunque, una perpetua trasformazione dell’arte che, come mai prima, si rivela in dialogo con ciò
che l’ha preceduta attraverso un procedimento di negazione. Questo senso di trasformazione è
efficacemente - e sorprendentemente - sintetizzato da Formaggio, attraverso le parole di
Francesco De Sanctis:
“È inutile mover lamenti sullo stato dell’arte e voler questo o quello; la scienza si è infiltrata
nella poesia, né la si può discacciare, perché ciò risponde alle presenti condizioni dello
spirito umano. Noi non possiamo volgere lo sguardo a nessuna cosa sì bella, che tosto fra
la nostra ammirazione non s’introduca un: - È ragionevole? -, ed eccoci a vele gonfie in
mezzo alla critica e alla scienza. Vogliamo non solo godere, ma essere consci del nostro
godimento; non solo sentire, ma intendere. La schietta poesia oggi non è tanto possibile,
quanto la schietta fede; che, come non possiamo parlare di religione, senza sentirci assediati
da un molestissimo: - E se non fosse vero? - , così non sentiamo senza filosofare sui nostri
sentimenti, non vediamo senza spiegare la nostra visione. Tale è il fatto: che giova
ricalcitrare? Quelli che l’hanno con Goethe, Schiller, Byron, Leopardi perché fanno – come
essi dicono – della metafisica in versi, hanno l’aria di quei preti, che si incolleriscono contro
la filosofia o la religione, e ripetono a coro: - Fede! Fede! – Ohimè! La fede se n’è ita, la
poesia è morta. Or per dir meglio, la fede e la poesia sono immortali: ciò che è ito via è una
particolare loro maniera di essere. La fede oggi spunta dalla convinzione, la poesia scintilla
dalla meditazione: non sono morte, sono trasformate”24.

23 P. Raffa, Anticipazioni sulla “morte dell’arte”, in “Nuove prospettive della pittura italiana”, Edizioni Alfa, Bologna

1962, pp. 125-126.


24 F. De Sanctis, Saggi e scritti critici, Renon editore, Milano s.d., p. 80.

10
Tendo presente le ovvie differenze fra la situazione socio-culturale in cui De Sanctis scriveva e i
primi anni Sessanta, appare evidente la ragione per cui Formaggio pone alla base della sua idea di
artisticità la trasformazione della “morte dell’arte”, intendendola come “morte della morte
dell’arte”, ossia “negazione della negazione”.
A livello concreto, ovvero considerando il rapporto con le opere d’arte, la sostituzione della
filosofia dell’arte con il concetto di poetica si materializza in una ridefinizione della metodologia
della critica.
Come osserva Umberto Eco25 nelle sue ipotesi interpretative intorno alla “morte dell’arte” –
basandosi, si noti, proprio sul concetto di artisticità delineato da Formaggio – agli inizi degli anni
Sessanta, l’opera d’arte è sempre più enunciazione concreta di una poetica e il primo discorso
intorno ad essa è relativo alla descrizione dei modelli operativi attuati e delle strutture costitutive.
Eco formula due ipotesi relative la “morte dell’arte” dal punto di vista estetico: da un lato la
trasformazione dell’opera d’arte contemporanea in poetica, conseguenza della mutazione del
piacere estetico da emotivo-intuitivo a intellettuale e relativa vanificazione del discorso critico
intorno all’opera; dall’altro la considerazione dell’operare artistico come qualcosa in più della
specifica poetica, poiché la sua formulazione concreta aggiunge un quid alla comprensione e al
godimento estetico, dunque legittima l’esistenza di un pensiero critico.
Questa ulteriore lettura del concetto di “morte dell’arte” lascia emergere la questione della
legittimità di un discorso critico e, di conseguenza, del ruolo del critico nell’arte contemporanea.
Come già ricordato, il termine del dialogo critico non è la Natura, il Bello o i contenuti morali, ma
l’arte stessa, intesa come poetica. La critica non è più chiamata a un giudizio circoscritto, ma deve
riconoscere e affermare l’attualità, cioè la relazione, che può anche non essere in conformità con i
grandi temi della contemporaneità. Ciò che si propone di accertare è la dimensione semantica e
tecnica dell’arte: in questi anni, spesso, il critico si avvicina e associa agli artisti, entrando a far
parte dei loro gruppi, collaborando alla definizione dei programmi e alla stesura dei manifesti,
intraprendendo, conducendo polemiche e divenendo interlocutore prediletto degli artisti per
chiarire ed enunciare le loro poetiche, esortandoli a portare le loro ricerche al massimo livello
intellettuale. Una così stretta collaborazione fra artista e critico non è storicamente nuova, ciò che
cambia negli anni Sessanta è la modalità di comunicazione, ossia l’impiego di mezzi mass
mediatici e la connivenza con il mercato artistico e con le sue regole. Non secondariamente, è da
registrarsi l’ibridazione della storia dell’arte con altre discipline, dalla sociologia, alla psicologia,
dalla teoria dell’informazione alla semiologia.

25 Cfr. U. Eco, Due ipotesi sulla morte dell’arte, 1963, in La definizione dell’arte. Dall’estetica medioevale alle avanguardie,

dall’opera aperta alla morte dell’arte, Garzanti, Milano 1968, pp. 259-277.

11
Questa osmotica compenetrazione, da un lato fra critica e procedimento creativo, dall’altra con
discipline caratterizzate da statui scientifici diversi, porterà all’incapacità della critica di
riconoscere la propria funzione, ossia alla vanificazione dell’idea di giudizio.
Il prevalere della poetica sull’opera conduce all’eliminazione della distinzione tra l’azione
produttiva e l’azione fruitiva: ogni discorso esplicativo dell’opera d’arte è considerato rischioso
per l’integrità dell’arte stessa.
Osservando questa situazione, Argan26 delinea due possibilità: il superamento dei confini dell’arte
verso finalità non artistiche, ossia l’inserimento in un universo di valori globali politici e sociali; e
l’assoluto monadismo dell’arte con la conseguente negazione radicale di ogni spiegazione
“storica” della realtà umana. In questo caso, l’arte continuerà a esistere a partire dall’arte e per
giungere all’arte, negando l’esistenza come valore, rifiutando ogni sistema di valori e ogni
giudizio, in quanto riconoscimento, esso stesso, di un valore.

I criteri di giudizio
“Forse mai come ora è apparso chiaro quanto sia inevitabile che il problema dell’arte e il
problema della critica convergano, e non sono stati, una volta tanto, i critici, che hanno
proposto tale convergenza a proprio vantaggio. Sono stati e sono gli artisti i quali almeno
da mezzo secolo si son messi a dipingere e a scolpire opere sempre più difficilmente
criticabili; fino a che sono arrivati a queste forme d’arte che appare totalmente asemantica;
onde il problema di parlarne in termini pertinenti, insomma di fare critica, s’è imposto a
tutti – anche se per avventura non lo facciano per mestiere -, e in maniera
improrogabile”.27

Le parole di Sergio Bettini esplicitano come la “crisi dei valori” delineata da Argan si sia tramutata
nella difficoltà della critica di riconoscere la propria funzione tradizionale, ossia la formulazione
di un giudizio. Il problema del valore, della valutazione e la necessaria traduzione in criteri di
giudizio, sono temi molto ricorrenti nel dibattito critico degli anni Sessanta. L’individuazione di
una metodologia critica è avvenuta attraverso sperimentazioni di componenti di ordine formale,
psicologico, scientifico e comunicativo che, da fini quali erano, sono diventati criteri di giudizio.
Questo tentativo, ha sottolineato Guido Morpurgo Tagliabue28, proviene dall’estetica americana e
da autori pragmatici come Santayana, Dewey e Whitehead, i quali hanno considerato il valore
dell’arte come funzione risultante da integrazione di esperienze. In particolare il pensiero di John
Dewey29, che ha avuto particolare riscontro in Europa, considera la critica come procedimento di
valutazione, un’indagine analitica che, per formulare un giudizio, ha bisogno di un termine di

26 G. C. Argan, Arte e critica d’arte, Laterza, Bari – Roma 1984, pp. 164-166.
27 S. Bettini, Arte e critica, in “La Biennale di Venezia”, VIII, n. 30, gennaio 1958, p. 3.
28 G. Morpurgo Tagliabue, Scuola critica e scuola semantica nella recente estetica americana, in “Rivista di estetica”, fasc. III,

settembre-dicembre 1956, pp. 19-46.


29 Cfr. J. Dewey, Arte come esperienza, 1934, ed. it. La Nuova Italia, Firenze 1960 e J. Dewey, Teoria della valutazione,

1939, ed. it. La Nuova Italia, Firenze 1960.

12
paragone, fornito, inevitabilmente, dall’esperienza passata. Il relativismo storico, proposto, in
linea teorica, come possibile criterio di valore, rivela un grado di inadeguatezza rispetto l’arte
moderna, in quanto essa è caratterizzata da elementi inediti e quindi difficilmente confrontabili
con termini di paragone storicizzati.
Oltre all’approccio storico-pragmatico statunitense, il criterio più diffuso fra la critica militante
degli anni Sessanta è basato sul concetto di poetica.
“La poetica – scrive Luciano Anceschi - rappresenta la riflessione che gli artisti e i poeti
esercitarono sul loro fare, indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità, gli
ideali. Come quella delle filosofie dogmatiche, anche tale riflessione, prende di presentarsi
sempre come universale, assoluta, esclusiva, ma siffatto modo di sentire corrisponde al
tono di necessaria assolutezza ed esclusività proprie dell’azione, al gesto di scelta, ogni volta
che si fa”30.

In questo caso il criterio di giudizio ipotizzato corrisponde alla maggiore o minore fedeltà alle
norme della poetica in questione. Il limite di tale modalità critica appare evidente nel carattere
sentenzioso che, in taluni casi, la poetica assume. Ne è esplicativo l’impegno della psicologia della
Gestalt, come fondamento delle poetiche costruttiviste: l’applicazione delle leggi gestaltiche,
dell’obiettività, della verificabilità tipica di un’esperienza scientifica si è rivelata eccessivamente
forzata per fenomeni che non sono scientifici, ricadendo nel dogmatismo.
Le due ipotesi considerate dimostrano come si sia tentato di trovare un metodo di giudizio, ma
senza la reale ridefinizione della categoria di valore. Ne è conseguita una dissociazione fra
l’elemento assiologico e quello critico31. Ciò che è divenuto primario, aveva già evidenziato
Morpurgo – Tagliabue32 in occasione del Simposio di Estetica, avvenuto a Venezia nel 1958, è
stato offrire modelli che il pubblico potesse adoperare. La critica ha subìto una trasformazione
avvicinandosi all’analisi semiotica, in grado di mettere in evidenza gli aspetti linguistici
dell’artisticità: il linguaggio critico si è così popolato di termini come “decontestualizzazione”,
“spaesamento”, “ridondanza” “rumore” e l’arte è divenuta mediatrice di funzioni fino ad allora a
essa estranee, quali “funziona fatica”, “conativa”, “metalingusitca”, ossia analizzata alla stregua di
un mezzo di comunicazione.
Accanto all’approccio semantico si è affermato il criterio di giudizio che ha riconociuto nel
“nuovo” un valore. L’inedito assoluto ha fornito un metro di valutazione per l’occhio esperto,
senza particolari sostegni d’ordine teorico. Il sostegno metodologico del “nuovo” come valore
33 34
estetico, sottolinea Dorfles , deriva dalla teoria dell’informazione di Max Bense .

30 L. Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia, in Momenti e problemi di storia dell’estetica, Marzorati, Milano 1961, p.

1584.
31 Cfr. G. Dorfles, La dissociazione tra l’elemento assiologico e critico, in Il divenire della critica, Einaudi, Torino 1975, pp. 22-

23.
32 G. Morpurgo Tagliabue, Giudizio e gusto, in Il giudizio estetico, Atti del Simposio di Estetica, Venezia 1958, ed.

“Rivista di estetica”, Padova.


33 G. Dorfles, Simbolo, comunicazione e consumo, Einaudi, Torino 1962, p. 28.

13
L’informazione, secondo questa teoria, è sempre una “novità” e la sua efficacia non si misura in
base al contenuto o al significato, ma alla quantità numerica di “innovazione”. Mentre per il
messaggio semantico la comprensione si basa sul fatto che alcuni segni sono già noti agli
interlocutori e altri, invece, introducono elementi nuovi; per il messaggio estetico, ossia l’opera
d’arte, l’importanza dell’innovazione, della capacità di sorprendere, il grado di indeterminazione e
l’originalità hanno un ruolo centrale. Maggiore è l’originalità dell’opera d’arte, maggiore è la sua
“informazione”, quindi la sua efficacia e il suo valore, sempre che, non si dimentichi, sia ammessa
l’esistenza di un codice comune tanto all’artista quanto al fruitore, codice determinato da un
quadro sociale e culturale comune a entrambe. Il limite è abbastanza evidente: la difficoltà di
prevedere la durata della “novità”. Non è superfluo evidenziare che, nonostante la relatività di
questo criterio di valore, negli anni Sessanta, ha rivestito un ruolo significativo proprio per le
sperimentazioni che si sono avvalse di strumenti tecnologici, quali l’arte programmata e cinetica35.
Quanto precede restituisce il tentativo di identificare criteri di giudizio, ma anche l’evidente
associazione di tali criteri a contemporanei ambiti di studio e di influenza. Mentre in passato
l’unicità dei criteri di giudizio nasceva da un fondamento prevalentemente speculativo, la pluralità
dei criteri individuati negli anni Sessanta è nata dall’esigenza di un fondamento operativo. Si è
cercata più la funzionalità di un criterio che la propria ontologia. Ciò che è mancato è stata la
reale distinzione fra criterio di giudizio e valore, ponendo l’arte stessa come valore. Ne è
conseguita la difficoltà della critica di adempiere alla propria tradizionale funzione di giudizio,
legittimando un possibilismo che ha avvalorato tutto e niente.

I linguaggi artistici: nuove aperture


L’estate del 1963 si apre con la prima importante manifestazione retrospettiva dedicata alla pittura
informale, in occasione del VII Premio Modigliani a Livorno, guidata da Maurizio Calvesi, dal
titolo L’informale in Italia fino al 195736. Appare condivisa l’opinione critica della necessità del
rinnovamento dei linguaggi e la debolezza dell’Informale, ormai minacciato dal rischio di divenire
maniera di se stesso37.

34 M. Bense, Estetica, 1965, ed. it. Bompiani, Milano, 1974.


35 Cfr. U. Eco (a cura di), Estetica e teoria dell’informazione, Bompiani, Milano 1972, pp. 47-67.
36 VII Premio Biennale di pittura e scultura “Amedeo Modigliani – Città di Livoreno”, Aspetti della ricerca informale in Italia fino al

1957, Palazzo del Museo, marzo – aprile 1963.


37 “Per noi […] informale significa solo ciò che concretamente è stato, cioè un complesso di fermenti che hanno

quale comune denominatore l’impegno, tuttora attuale, di superare le vecchie concezioni idealistiche, spiritualistiche,
razionaleggianti della Forma, e tanto l’immagine astratta come entità eidetica o trascendente il fenomeno, quanto
immagine naturalistica come effige o simbolo […] è stato un’istanza, un punto di convergenza delle ricerche più
nuove, un atteggiamento critico e creativo caratteristico di un’epoca di crisi e di sviluppo”, M. Calvesi, L’informale fino
al 1957, cat. mostra, Livorno, marzo-aprile 1963, poi in Le due avanguardie. Dal Futurismo alla Pop Art, Lerici, Milano
1966, ed. cons. Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 236-237.

14
Negli stessi mesi la rivista “Il Verri” pubblica un’edizione speciale, supplemento al dodicesimo
numero, intitolata Dopo l’informale38, le cui pagine ospitano contributi di critici e storici, tutti volti a
sottolineare il cambiamento ben visibile all’orizzonte. Particolarmente significativo, ai fini di
questo discorso, è il contributo di Maurizio Calvesi 39 , lucido commento a ciò che stava
accadendo. Calvesi individua tre letture della poetica informale: un primo approccio, di matrice
neo-realista, valuta l’Informale come fatto sperimentale e quindi fine a se stesso, senza
implicazioni problematiche o vincolanti per il futuro dell’arte.
Un secondo punto di vista, volto a considerare la pittura informale come una fase di totale
chiusura dell’artista, è superabile con la cosiddetta “pittura relazionista” ispirata a un’oggettività
che
“è una nozione astratta ed eclettica, e necessariamente composita nella sua attuazione
formale, che da un lato fa ricorso a posizioni residue di cubo-futurismo o surrealismo, e
dall’altro si appropria obliquamente di quelle assunzioni d’oggetto che ormai da anni si
vengono sperimentando nell’area del new dada e della pop art americana, ma riportano
questo processo al livello mentale del collage cubista”40.

Tale tentativo di restaurazione iconografica appare, secondo Calvesi, una fuga dai problemi
cruciali aperti dall’Informale, ossia le questioni legate alla forma.
Infine, la terza strada individuata negli artisti impegnati a sviluppare una morfologia
dell’immagine, operando sulla scia dell’Informale; si rivela priva di vigore per realizzare un vero e
proprio superamento. L’unico antidoto, propone Calvesi, è il ridimensionamento del valore
stesso di arte, aprendo a una pluralità di sperimentazioni provvisorie e a-programmatiche, cioè
New dada, Pop art e Neo-costruttivismo:
“ogni linguaggio impegnato in sé, nello sforzo che produce per rinnovarsi ed estendere il
suo raggio”41.

La necessità di modificare i linguaggi artistici in più direzioni rivela l’urgenza di un rinnovamento


dell’operare critico, oltre le funzioni valoriali storicamente riconosciute.
Lo stesso Argan, proprio nel 1963, modifica la propria metodologia critica, considerando
l’atteggiamento “militante” come unica possibilità di azione critica. Ne sono la prova gli scritti,
citati in precedenza, pubblicati su “Quadrum” e “Il Verri”; i tre articoli apparsi sulle pagine de “Il
Messaggero” nell’estate del 1963, attorno all’operatività di gruppo e alla possibilità dell’arte di
rispondere alle nuove condizioni dell’espressione visiva nella società di massa, destinati ad
animare il dibattito fra artisti e critici in occasione del Convegno di Verucchio nel settembre dello

38 Il fascicolo raccoglie interventi critici di notevole rilevanza, utili per tracciare il profilo della situazione artistica in
evoluzione. Fra gli autori: Gillo Dorfles, Maurizio Calvesi, Emilio Tadini, Enrico Crispolti, Filiberto Menna, Renato
Barilli, Edoardo Sanguineti, Cesare Vivaldi, Alberto Boatto.
39 M. Calvesi, Ridimensionamento dei valori, in “Il Verri”, n. 12, 1963, pp. 7-11.
40 Ivi, p. 8.
41 Ivi, p. 11.

15
stesso anno; e, ovviamente, i testi che accompagnano le mostre e le rassegne curate dallo
studioso, dalla IV edizione della Biennale di San Marino, intitolata, Oltre l’informale, agli scritti in
sostegno del Gruppo 1. L’esplicito parere a favore dell’arte programmata e cinetica,
dell’operatività di gruppo, nonché l’opposizione decisa alla Pop art americana – si ricordi
l’articolo Il banchetto della nausea su “La botte e il violino” alla Biennale d’arte del 1964 –
ribadiscono il bisogno di una reazione alla “crisi dei valori”, identificandola con la sostituzione di
valori tradizionali42, come la permanenza e la stabilità, con i loro opposti, ossia l’immediatezza e la
repentina caduta.
Rimangono costanti nel pensiero di Argan, tematiche ricorrenti e radicate nel suo approccio
critico, quali l’importanza della scuola, dei luoghi e dei centri di interesse collettivo,
concretizzazione della dimensione educativa e sociale dell’arte.
Michele Dantini, in una recente rilettura43 delle vicende critiche di Argan nei primi anni Sessanta,
considera Salvezza e caduta il passaggio dalla storia dell’arte all’antropologia culturale, evidenziando
l’attenzione al tema del lavoro e all’intolleranza nei confronti dei procedimenti di
modernizzazione consumistica, considerati alienanti.
“In una condizione storica in cui i ceti dominanti esercitano il potere attraverso la coazione
psicologica, sussiste evidentemente il pericolo che l’artista venga impiegato come uno
specialista delle immagini o come un agente della surrogazione del pensiero astratto con
l’ininterrotto succedersi di immagini che forma il tessuto della vita psichica sottratta al
controllo e alla censura della ragione”44.

Tale “passaggio” appare compiuto in Progetto e destino45, il saggio scritto da Argan nel 1964 e
pubblicato l’anno successivo. Qui lo studioso indaga la situazione di “crisi”, già preannunciata nel
1957, evidenziando il carattere utopico del pensiero tecnologico e il potenziale ruolo dell’arte
nella società presente e futura. A questo punto delle sue riflessioni Argan non oppone più lo
spirito alla materia, come era accaduto in La crisi dei valori, ma un tipo di tecnica, ossia quella
artistica, a un altro tipo di tecnica, ossia quella tecnologica-industriale. Il fulcro del problema è
l’esistenza storica dell’arte nella contemporaneità tecnologica. Nell’analisi della situazione artistica
ribadisce l’opposizione fra le due correnti più significative del momento, il neo-costruttivismo
(corrente gestaltica) e il “reportage sociale” (Pop art-New Dada). La prima si qualifica in un
rapporto rigoroso con lo sviluppo tecnologico, identificando la propria poetica con il
procedimento operativo: l’artista muove da un progetto, ma non lo realizza, lo “reifica” in quanto
tale. La Pop art, invece, è strettamente legata ai mass media e, al contrario della corrente

42 Cfr. G. C. Argan, L’Informale nella situazione odierna, 1962, in Salvezza e caduta, cit., pp. 90-95.
43 M. Dantini, Giulio Argan e l’etica della critica, in “Il Manifesto”, 8 dicembre 2010, p. 11 ripreso in M. Dantini,
Geopolitiche dell’arte, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2012, p. 136.
44 G. C. Argan, Salvezza e caduta, cit., p. 58.
45 G. C. Argan, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano 1965.

16
gestaltica, coincide con l’oggetto, o meglio con l’oggetto “consumato”. Entrambe queste modalità
di fare arte, per quanto fra loro opposte, sono, secondo Argan, “non-ideologiche”: da un lato
esiste il progetto-senza-realtà, dall’altro la realtà-senza-progetto; mentre sarebbe necessario che la
realtà e il progetto procedessero insieme, al fine di ridare all’arte un ruolo nella società.
Sulla base di queste osservazioni Argan approda a identificare, come unica “salvezza” per l’arte, il
paradigma artistico con la nozione di “progetto”. L’operare tecnologico dovrà essere riabilitato
dall’arte, attraverso la reificazione del progetto, ossia la costituzione di un oggetto, affinché il fare
tecnologico sia un procedimento connotato dall’intenzionalità umana. Se l’attività artistica si
qualifica come “serialità intenzionale”, il valore del fare artistico si riconosce nella “quantità” e
non nella “qualità”, come è storicamente avvenuto. Il feticismo dell’oggetto, esplicita Argan, sarà
sostituito dal feticismo del progetto, che, per la propria infinita irripetibilità, sarà condivisibile
dall’intera società, adempiendo alla funzione etica dell’arte.
È evidente il diretto legame con lo studio dedicato da Argan46 a Gropius e all’esperienza della
Bauhaus, nei primi anni Cinquanta: la monografia, edita da Einaudi nel 1951, pone l’accento sulla
figura dell’architetto impegnato in senso politico, nella precisa misura in cui gli edifici da lui
progettati, gli oggetti prodotti dalla scuola da lui diretta e, in ultima analisi, la scuola stessa sono
letti come sintesi del suo operato, nella prospettiva di una società “ideale”. Pur riconoscendo il
fallimento dell’utopia del Bauhaus, le parole di Argan non mancano di ricordare l’incalcolabile
successo ottenuto dal design del Bauhaus e di sottolinearne la duratura attualità. Senza particolari
filtri, Argan legge Gropius guidato dalle categorie marxiste e ne disegna un profilo a
trecentosessanta gradi, quale intellettuale impegnato nella difesa dei problemi sociali e dei valori
culturali.
“Nella giustezza dell’atteggiamento verso la propria opera si compie la funzione sociale
dell’artista; ma poiché l’opera è destinata alla collettività, essa riflette il rapporto tra
individuo e corpo sociale. Dalla chiarezza di questo rapporto dipende l’effettiva validità,
insieme artistica e sociale dell’opera d’arte”47.

In Progetto e destino la profonda crisi della società contemporanea è affiancata alla crisi tedesca che
condusse Gropius alla fondazione della Bauhaus: Argan avvicina le ricerche gestaltiche
all’esperienza di Gropius, in nome della “progettazione”, riponendo estrema fiducia
nell’architettura e nell’urbanistica, quali forme progettuali per eccellenza in quanto espressione
della struttura della società.
In tale reificazione del progetto, l’oggetto del giudizio non potrà più essere solo l’opera compiuta,
bensì anche il processo nel suo farsi e la funzione del critico non può più essere “a posteriori”,

46 G.C. Argan, Walter Gropius e la Bauhaus, Einaudi, Torino 1951.


47 Ivi, p. 21.

17
ma deve accompagnare e integrare l’operazione artistica 48, privata della propria componente
critica dall’apparato tecnologico industriale.

Il centralismo istituzionale e critico di Argan di questi anni si concretizza nelle manifestazioni


verucchiesi, oggetto di questo studio. I Convegni Internazionali di Artisti, Critici e Studiosi d’Arte
degli anni Sessanta sono il luogo della riformulazione della critica d’arte, motivato dai fermenti
artistici contemporanei, passando per scontri generazionali e l’indebolimento del ruolo delle
istituzioni.

48 Cfr. De Fusco, I criteri di valutazione dell’arte contemporanea, in “Op. Cit.”, n. 5, gennaio 1966, pp. 5-30.

18
Capitolo II | 1959 – 64

Il contesto storico-artistico
La panoramica storico-critica fino a ora tracciata ha focalizzato l’attenzione, da un lato
sull’opinione critica di Argan, dall’altro sulle sperimentazioni nate come reazione ai linguaggi
informali.
La crisi dell’Informale si era già manifestata intorno alla metà degli anni Cinquanta, seppur sia,
proprio nel secondo quinquennio del decennio, che si registra il trionfo europeo della pittura
informale, con la grande retrospettiva dedicata a Jackson Pollock a Roma nel 1958 e
l’assegnazione del premio a Hartung, Fautrier e Vedova alla Biennale d’arte di Venezia del 1960.
All’inizio degli anni Sessanta le ricerche artistiche inaugurano strade fra loro differenti, ma
complementari. L’importanza della pittura informale è riconosciuta all’unanimità dalla critica e il
cambiamento non si configura come un rifiuto tout court, ma come un’evoluzione che, per quanto
drastica, parte dall’interno del linguaggio artistico. Già nel 1957 l’avvio de “L’Esperienza
Moderna”49, rivista di cultura contemporanea, non solo limitata alle arti visive, fondata da Achille
Perilli e Gastone Novelli ed edita fino al 1959, aveva reso evidente la necessità di un profondo
rinnovamento della cultura artistica italiana, indagando i punti di continuità e di rottura con le
avanguardie storiche. Fra il 1959 e il 1960 si avvia un cambiamento morfologico dell’operare
artistico che raggiunge il proprio culmine nel 1963-64 e di cui la critica è stata prediletta
interlocutrice proprio durante i Convegni.
Nel 1957, a Milano, gli artisti dell’Arte Nucleare firmano l’ultimo manifesto riconducibile al
movimento, intitolato Contro lo stile50 – fra i firmatari, oltre ai fondatori Baj e Dangelo, compaiono
anche Yves Klein, Pierre Restany e il giovanissimo Piero Manzoni – ponendo le basi di quel
processo che negli immediati anni successivi sarà proposto come “azzeramento”, ossia la
riduzione dell’arte al “grado zero”, anticipando l’importanza della monocromia in pittura e
l’annullamento dell’idea di stile come indice dell’autorialità. Un’opera come Pinze di Piero
Manzoni, del 1956-57, introduce nella pittura lo strumento da lavoro, ossia le pinze, e,
impiegandole come uno stampo, delega all’oggetto meccanico il gesto pittorico quale elemento
riconoscibile e qualificatore dell’opera. Dopo queste prime sperimentazioni, nel giro di pochi
anni, Manzoni giunge agli Achromes del 1957-58, alle Linee di diversa metratura, chiuse in astucci e
autenticate, alle sculture pneumatiche di Fiato d’artista (1959), fino a Basi magiche e Merda d’artista
(1961): la radice informale, in pochissimi anni, sembra essere solo un lontano ricordo.

49 “L’Esperienza Moderna”, rivista fondata da Achille Perilli e Gastone Novelli, nel 1957 a Roma ed edita fino al
1959.
50 Contro lo stile, Milano, settembre 1957. Il manifesto è firmato da Armand, Baj, Bomporad, Bertini, Colonne,

Chapmans, Colucci, Dangelo, De Micheli, D’Haese, Hoeboer, Hundertwasser, Klein, Koenig, Manzoni, Nando,
Noiret, A. Pomodoro, G. Pomodoro, Restany, Saura, Sordini, Vandercam e Verga.

19
Contemporaneamente, alcuni protagonisti della generazione precedente, quali Burri, Fontana,
Colla portano alle estreme conseguenze gli elementi materico-oggettuali insiti nelle loro ricerche,
rinnovando il loro operare proprio a partire dalle suggestioni ereditate dall’Informale. Burri
espone nel 1958 i Ferri51 per poi realizzare le Plastiche in cui l’azione violenta sulla materia priva di
valore la materia stessa per costringere l’osservatore a una “resa” che diviene contemplazione;
Fontana, giunto ai Tagli e alla rivoluzione copernicana che essi comportano nell’idea di
rappresentazione, introduce l’elemento ritmico e ribadisce l’importanza della composizione.
Colla, infine, con le sue sculture-macchine realizzate con elementi di recupero, propone la
“antologia del macchinismo”52 che, seppur nei suoi lavori appare come apologia della morte
perché si tratta di macchine non funzionanti, presto sarà proposta in altri contesti come fonte di
rinnovamento dell’arte.
Sempre negli stessi anni a Milano muovono i primi passi gli artisti cinetico-visuali. Fin dai primi
anni Cinquanta era stata richiamata l’attenzione, attraverso mostre e pubblicazioni, sulle
sperimentazioni relative al movimento e alla percezione ottica. Nel 1952, la Galleria Annunciata
aveva ospitato una collettiva del Movimento Arte Concreta (M.A.C.) in cui Veronesi e Munari
avevano esposto opere cinetiche e meccaniche; mentre nel 1955, a Parigi, alla Galleria René,
Vasarely, Soto e Schoeffer avevano mostrato i risultati delle loro ricerche cinetico-visuali, nella
mostra Le Mouvement. È proprio nell’autunno del 1959 che Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi
e Davide Boriani, presso la Galleria Pater, costituiscono il Gruppo T. Il nome scelto indica con
“T” il fattore “tempo” inteso come elemento compositivo, in seguito all’introduzione
dell’elemento cinetico nelle opere realizzate con materiali industriali. Il 15 gennaio 1960 si tiene la
prima mostra ufficiale del Gruppo T, intitolata Miriorama, dove, fra le opere esposte, alcune
hanno la firma collettiva, rinunciando all’autorialità del singolo a favore dell’operatività di gruppo.
Per evidenziare le radici storiche delle ricerche proposte dal Gruppo T, sono esposte anche
un’opera di Fontana, una di Munari e una Linea di Manzoni, nonché pannelli con riproduzioni di
opere futuriste53 e del costruttivismo russo.
Nel 1960, a Padova, prende forma un altro nucleo importante di sperimentazioni cinetico-visuali,
ossia il Gruppo Enne, formato da Alberto Biasi, Manfredo Massironi, Ennio Chiggio, Tonino
Costa e Edoardo Landi. Anche in occasione della loro prima mostra nel dicembre 1960, al

51 Personale di Alberto Burri, Galleria Blu, Milano, novembre-dicembre 1958.


52 Cfr. M. Fagiolo Dell’Arco, Rapporto 60. Le arti oggi in Italia, Bulzoni Editore, Milano 1966, p. 11.
53 Si ricordi che proprio fra il 1958 e il 1960, il Futurismo aveva vissuto un riesame critico, concretizzatosi nella

grande esposizione alla XXX Biennale d’arte di Venezia del 1960, nella pubblicazione degli Archivi del Futurismo e
nella lettura di Pierre Francastel in, Il Futurismo e il suo tempo, nel quale aveva avvicinato il mito della macchina
futurista alla dimensione tecnologica della civiltà atomica.

20
Circolo Culturale del Pozzetto, le opere sono ricondotte alla collettività del Gruppo, proponendo
un’ “arte nuova che si attua nella società nuova”54.
La città di Milano, protagonista su un fronte con l’arte programmata, è contemporaneamente
scelta come sede per la prima collettiva dei Nouveaux Réalistes nel maggio del 1960 alla Galleria
Apollinaire, diretta da Guido Le Noci. Accanto alle “macchine” degli artisti cinetici, prendono
forma opere che trovano la propria piena realizzazione nell’aderenza al mondo reale. Tale
tendenza oggettuale, oltre a compiersi nell’ambito del Nouveau Réalisme, si diffonde
nell’ambiente romano, anticipando le dinamiche Pop. Un gruppo di giovani artisti inizia a
ritrovarsi al Caffè Rosati, dando origine alla cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo,
reintroducendo la dimensione iconica nella pittura, dopo il grande rifiuto informale. Queste
esperienze sono documentate dalle significative mostre nelle gallerie romane: Possibilità di relazione,
a L’Attico, nel maggio del 1960, la personale di Jannis Kounellis a La Tartaruga nel giugno dello
stesso anno, e ancora Cinque pittori Roma 60 alla Galleria La Salita a ottobre.
Un significativo esempio della molteplicità di esperienze che coesistono nei primissimi anni
Sessanta è restituita dal XII Premio Lissone, nel settembre 1961. Qui, accanto alla pittura
informale di respiro internazionale e la pittura italiana non figurativa, espongono, per la prima
volta insieme, i giovani protagonisti delle più recenti sperimentazioni: il Gruppo T, il Gruppo
Enne, Manzoni, i romani Lo Savio, Angeli, Festa, Schifano, Uncini, i neo-figurativi Adami,
Pozzati, Romagnoni, Aricò.

I Convegni di Verucchio dal 1959 al 1962


Nei primissimi anni Sessanta i germogli del rinnovamento, benché radicati nell’Informale, sono
ormai fioriti.
La critica, in questo contesto, registra i fermenti e tenta le prime letture di ciò che sta accadendo.
La crisi dell’Informale, lo si è visto, è letta da Argan, come una più generica, ma non per questo
meno profonda, “crisi dei valori”, tanto da suggerire un rinnovamento generale della metodologia
critica e di giudizio.
Se gli artisti procedono attraverso nuove sperimentazioni, la critica reagisce al dialogo fra
“passato” e “presente”, proponendo letture storicizzanti della tendenza informale attraverso le
mostre: L’informale in Italia fino al 1957 di Livorno, ma anche con i tentativi di riflessione organica
sulle novità con Oltre l’Informale di San Marino, nel 1963 e, già l’anno precedente, Nuove prospettive
della pittura italiana55, a Bologna, coordinata dalle nuove leve della critica, gli allora trentenni

54 Catalogo della mostra, 11 dicembre 1960. La dichiarazione è sottoscritta, oltre che dai componenti del Gruppo, da

Tino Beroldo e Tolo Custoza.


55 Nuove prospettive della pittura italiana, giugno 1962, Palazzo di Re Enzo, Galleria Comunale d’Arte Moderna, Bologna,

Edizioni Alfa, Bologna 1962.

21
Renato Barilli, Maurizio Calvesi e Enrico Crispolti, con il sostegno di Umberto Eco; e la rassegna
aquilana Alternative attuali56, a cura di Crispolti, Antonio Bandera e Guglielmo Matthiae.
Nuove prospettive della pittura italiana aveva proposto, accanto a opere di derivazione informale, una
maggioranza di sperimentazioni realizzate fra il 1961 e il 1962, purificate dalla dimensione
esistenzialista e “romantica” dell’Informale, a favore di una rinnovata figurazione derivante dalla
realtà contemporanea e accompagnata da una tecnica attenta ai valori formali, chiaramente riferiti
alla pittura “pre-informale”.
Nati fra la fine degli anni Venti e il decennio successivo, gli artisti partecipanti, fra cui Adami,
Angeli, Aricò, Bergolli, Del Pezzo, Festa, Lo Savio, Marotta, Romagnoni, Uncini sono alcuni dei
medesimi protagonisti della mostra de L’Aquila di Crispolti-Bandera, arricchita, quest’ultima, da
presenze straniere, fra cui Louis, Kemeny, Noland e Meyer-Petersen.
Mentre la più giovane generazione di critici d’arte attiva sul panorama nazionale si confronta con
le ultime proposte artistiche, la critica “istituzionale” si riunisce, come ormai accade da un
decennio, nella provincia romagnola, a Verucchio, per il Convegno Internazionale di Artisti,
Critici e Studiosi d’Arte, organizzati da Gerardo Filiberto Dasi.
Non rimangono molte testimonianze dei Convegni di questi anni, se non una sottile
pubblicazione57, comprensiva di alcuni degli interventi ospitati nelle edizioni svolte fra il 1959 e il
1962.
Gli atti del Convegno del 1959, diretto da Ugo Nebbia, restituiscono da un lato uno sguardo a
corto raggio, quasi autoreferenziale e apparentemente distaccato dai fermenti artistici che si
stavano agitando – compare, ad esempio, un intervento dal titolo Le tradizioni artistiche e culturali di
Verucchio - ; ma dall’altro lato si registrano significative aperture, seppur negli atti solamente
riassunte, e importanti partecipazioni, fra cui quelle di Ugo Spirito, Raffaele Borsari e Carmelo
Genovese, volte ad affrontare le relazioni fra arte e scienza. Genovese58, nello specifico, propone
una riflessione sulla ricerca artistica e la psicologia sperimentale, perfettamente in linea con gli
studi, attivi a livello internazionale sull’argomento, quali La psicologia della Gestalt di Wolfang
Köhler59 e La psicologia della forma di David Katz60. Borsari61, invece, interviene ipotizzando la
lettura dei processi artistici attraverso la logica matematica con lo scopo di giungere a un giudizio
estetico.
L’anno successivo la direzione dei lavori è affidata a Umbro Apollonio, in quegli anni già
direttore dell’Archivio Storico della Biennale di Venezia, e l’attenzione complessiva si sposta sugli
56 Alternative attuali, luglio-agosto 1962, Castello Cinquescentesco, L’ Aquila, Edizioni dell’Anteo, Roma 1962.
57 Testimonianze degli atti VIII – IX – X – XI Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, Rimini, Verucchio,
San Marino, 1959-62.
58 C. Genovese, Le determinazioni artistiche ed il giudizio estetico, 1960, in Testimonianze degli atti, cit., pp. 33-37.
59 W. Köhler, La psicologia della Gestalt, Feltrinelli, Milano 1961.
60 D. Katz, La psicologia della forma, Boringhieri, Torino 1960.
61 R. Borsari, Arte e scienza, 1959, in Testimonianze degli atti, cit., pp. 18-20.

22
strumenti della critica e sul ruolo che essa ha ricoperto fino a quel momento. Il pittore Gastone
Breddo, in un intervento dal titolo Idee sulla pittura, sulla critica, sul mercato62, accende la polemica:
“La critica d’arte, oggi, è direttamente responsabile di molta parte della grave confusione
che esiste nel mondo dell’arte in genere. La maggiore responsabilità va soprattutto a certe
schiere di giovani mossi soltanto dall’ambizione di apparire più geniali e indispensabili
dell’arte medesima. Grava pertanto, codesta responsabilità, sulle spalle di chi,
abbandonando i naturali confini assegnati alla critica d’arte, si è presuntuosamente eretto a
giudice infallibile, e peggio, a dittatore di nuove regole, forme, ismi, etc. etc”63.

Il tono restituisce l’indebolimento che la critica appare subire, sicuramente legata a quella “crisi di
valori”, riconosciuta pochi anni prima da Argan e, al contempo, disorientata dai rapidi
cambiamenti che l’arte stava vivendo. Il centro del dibattito è proprio il concetto di “valore”. I
critici intervenuti evidenziano la necessità64 storica e morale del pensiero critico e la sua stessa
evoluzione, oltre alla presa di coscienza del cambiamento di statuto che l’arte aveva subìto, a
seguito dell’incidenza della tecnica e della scienza nel campo artistico. Non mancano tentativi
programmatici per la definizione di parametri di giudizio critico-estetico e per la riformulazione
del concetto di valore:
“Il valore è una qualità potenziale, dipendente dalla facoltà di giudicare, dalla
predisposizione, dall’esperienza e dalla circostanze. La facoltà di giudicare può acquistarsi,
svilupparsi e perfezionarsi. Soltanto in teoria il valore è totale. I valori sono captati in modo
più o meno frammentario. Non si impongono al soggetto perché valutiamo ciò che già
possediamo preventivamente. Ciò che apprezziamo o rifiutiamo in un’opera, un atto in una
qualsiasi realtà che ci si offre, è qualcosa di dipendente dal nostro collocarci di fronte alla
dialettica storica dei fatti, delle necessità, delle condotte”65.

È utile, qui, richiamare l’attenzione su quanto anticipato nel primo capitolo in merito ai criteri di
giudizio. L’estetica e la critica, impegnata a ridisegnare, in questi stessi anni, il concetto di
artisticità si trova, inevitabilmente, chiamata a fornire nuovi strumenti al critico d’arte, intento,
egli stesso, a rifondare la propria metodologia di lavoro.
Nel biennio successivo i temi trattati si avvicinano maggiormente alle dinamiche del momento.
Innanzitutto si registra la partecipazione di relatori stranieri, Vincente Aguilera Cerni, ad esempio
- il quale diventerà una presenza costante anche nelle edizioni successive -; e della nuova
generazione di critici, rappresentati da Apollonio e Crispolti.

62 G. Breddo, Idee sulla pittura, sulla critica, sul mercato, IX Convegno, 1960 in Testimonianze degli atti, cit. p. 16.
63 Ibidem
64 E. Mastrolonardo, Necessità storica e morale della critica d’arte, IX Convegno, 1960 in Testimonianze degli Atti, cit. pp. 43-

46. “La critica ha il compito importantissimo di preparare, suggerire, indicare una soluzione che aderisca eticamente
alle esigenze del nostro tempo, dalla quale possa maturare il nuovo linguaggio artistico. Compito essenzialmente
morale, quindi, che si riallaccia alla funzione naturale di tutta la critica, come necessità storica, nella elaborazione e
nella formazione dell’arte, attraverso i tempi”, (p. 43).
65 V. Aguilera Cerni, Axiologia, critica e vita, X Convegno, 1961 in Testimonianze degli Atti, cit. p. 55.

23
Mentre Crispolti interviene con una lettura critica sulla storiografia dell’Informale, Apollonio66
concentra la propria attenzione sul discorso critico. Riflettendo sulla contemporaneità, evidenzia
la difficoltà del pubblico ad avvicinarsi alle ricerche artistiche più recenti, individuando le cause
nella carenza dell’insegnamento scolastico e nell’egemonia della tecnologia nella vita quotidiana;
aprendo, di conseguenza, alle problematiche legate alle gerarchie valutative e alla legittimità del
discorso critico. Gli strumenti lasciati in eredità dalla critica – esistenzialista, husserliana,
fenomenologica – secondo Apollonio, hanno un’utilità interpretativa, ma non sono funzionali per
esprimere giudizi. La sua attenta analisi giunge lucidamente alla conclusione: la critica è sì capace
di rendere precisa ragione della cronaca artistica, ma non di fornire una convincente spiegazione
delle ragioni più profonde dell’arte recente. L’unica possibilità di reazione a questa debolezza,
continua Apollonio, è riposizionare il focus dello sguardo critico sull’opera stessa. Non è da
trascurare il debito di Apollonio nei confronti di Sergio Bettini e del concetto di “timing”, che egli
elabora già dal 1958 sulle pagine de “La Biennale di Venezia”67.
La riflessione di Bettini sull’efficacia di un discorso critico nella contemporaneità ha le proprie
radici in Etienne Gilson. Nello specifico il riferimento è a Peinture et réalité68, edito in Francia nel
1958, nel quale si ripercorre la difficoltà degli ultimi decenni di un fertile incontro fra la critica
“tradizionale” e l’arte astratta. Gilson non riconosce la legittimità dell’arte astratta come
linguaggio e nega un possibile discorso critico a esso dedicato. Pur considerando il distacco dalla
figurazione quale origine del cambiamento ontologico dell’arte, a seguito del quale le opere non si
riferiscono più al reale, ma affermano, senza equivoci, la propria realtà di fenomeno; Bettini non
rifiuta l’esistenza della critica. Il nucleo di questo rinnovamento critico è il concetto di timing69,
ossia il momento puntuale, l’attualità del tempo, l’attimo giusto in cui l’arte si compie, l’azione
entro il tempo della fruizione. La critica dovrà essere in grado di cogliere, e in seguito mostrare,
questo “atto di tempestività”, ossia discriminare tra il cogliere della forma espressiva e il suo
perdersi nel mondo delle immagini. La vicenda dell’arte contemporanea è riconducibile, continua
Bettini, proprio a questo sforzo di esprimere, entro la struttura formale dell’opera, il tempo
attuale.

66 U. Apollonio, Questioni della ricerca estetica contemporanea, X Convegno, 1961, in Testimonianze degli Atti, cit. pp. 55-61.
67 S. Bettini, Arte e critica, in “La Biennale di Venezia”, VIII, n. 30, gennaio 1958, pp. 3-12
68 E. Gilson, Peinture et réalité, Vrin, Parigi 1958.
69 “Questo timing è indeterminabile in base a leggi o a norme; nessuna dottrina, nessuna scuola lo insegna né lo può

insegnare; e tuttavia il suo potere di discriminare tra la forma perfetta e quella addirittura nulla, è totale. È un
discimen, che non ammette lo scarto d’una frazione infinitesima. L’artigiano più destri non è quegli che conosce
meglio le regole del mestiere, ma quegli che compio ogni gesto nel momento giusto (non un attimo prima, né uno
dopo) e vi impiega il tempo giusto ( e perciò il suo lavoro è bello). […] Ma sembra evidente che, più di ogni altro
esemplare d’umanità, sia l’artista, che possiede questa (che i vecchi dicevano ispirazione o intuizione), che è la più
comune e la più misteriosa di tutte le forme umane: l’artista, che trova non soltanto la libertà e l’incondizionato
azzardo del suo “arbitrio” creativo, ma anche la garanzia di riuscita, la “prova” che ciò che egli fa è un’opera d’arte,
nel timing: in questa emergenza puntuale del tempo, da lui stesso imprevedibile o almeno indeterminabile; e a noi
immensurabile, perché è qualità pura”. S. Bettini, cit., p. 9.

24
Se in queste edizioni del Convegno di Verucchio l’attenzione degli intervenuti è focalizzata su
tematiche critiche di ampio respiro, con brevi accenni alla situazione contemporanea dell’arte, nel
1962 l’impostazione dell’incontro cambia. Sono invitati a intervenire solo tre critici70, Marco
Valsecchi, Mario De Micheli e Franco Russoli, a seguito delle cui relazioni segue un dibattito
aperto. La presidenza del Convegno è affidata a Giuseppe Gatt71, il quale introduce i lavori
riconoscendo tre orientamenti della critica d’arte contemporanea, ognuno corrispondente alla
posizione di uno dei tre critici:
- la critica “tardoromantica”, ossia tesa all’enucleazione e alla esaltazione dei valori
individuali e contenutistici presenti dell’opera d’arte. Tale metodologia prevedeva che il
critico “avesse colto” il messaggio presente nell’opera d’arte, ne fosse rimasto fortemente
impressionato perché contenente illuminazioni inedite e fortemente emotive e lo
restituisse interpretandolo secondo la propria particolare sensibilità di fruitore
eccezionalmente dotato. Questa, in maniera sintetica – e forse banale -, la posizione
identificabile con la critica “tradizionale”, rappresentata da Marco Valsecchi.
- la critica “impegnata”, volta a situare l’opera d’arte in un clima documentaristico, in cui
l’artisticità esisteva in maggiore o minore misura a seconda del grado col quale l’opera
rappresentava il momento storico ad essa contemporaneo. Ovviamente, sottolinea Gatt,
le opere che meglio rientravano in questa metodologia erano quelle “realiste”, di cui il più
acuto interprete è Mario De Micheli.
! la critica filologica, ovvero non impegnata in senso strettamente ideologico, ma vigile nei
confronti dei valori qualitativi dell’arte, rappresentata da Franco Russoli.
Il panorama critico, precisa Gatt, non si esaurisce in queste posizioni, ma comprende altre figure
molto rilevanti, fra cui, ad esempio, Ragghianti e Dorfles. Ludovico Ragghianti, legato a una
formazione idealistica-crociana, fin dagli anni Quaranta si è interrogato sui rapporti fra storia e
critica, ai fini del rinnovamento della metodologia di studio e ha inaugurato gli studi sulle
relazioni fra arti visive e cinema. Negli anni Sessanta, inoltre, avvia un’importante rilettura del
lavoro di Mondrian, vincolante per lo sviluppo dell’arte programmata. Gillo Dorfles, invece,
elabora il proprio pensiero critico a partire dall’idea di opera d’arte come prodotto generato dal
tempo che lo recepisce, indagabile su basi scientifiche e logiche, nonché dalla critica simbologica
e semantica, sulla scia delle teorie positiviste americane di cui si fa portavoce.

70 “Diversamente dalle altre edizioni, quest’anno è stato affidato il compito a tre soli relatori ufficiali di presentare agli
intervenuti i loro studi più recenti, che verranno in seguito, tradotti in più lingue e pubblicati negli atti del Convegno.
I tre relatori sono stati Marco Valsecchi, Mario De Micheli e Franco Russoli”, in E. Mastrolonardo, XI Internazionale
Artisti, Critici e Studiosi d’Arte di Verucchio, in “D’Ars Agency”, n. 5, 15 novembre -15 dicembre 1962, p. 54.
71
G. Gatt, XI Convegno, 1962 in Testimonianze degli Atti, cit. pp. 5-8.

25
L’intervento di Gatt non dimentica la recente scelta di molti critici di rinunciare alla loro funzione
per diventare teorici di una particolare poetica, a seguito del cambiamento del concetto di estetica
che da aprioristica divene a posteriori, fino a identificarsi direttamente con le poetiche.
De Micheli72, critico d’arte de “L’Unità”, introduce il proprio intervento con la dichiarazione di se
stesso come critico militante, sostenuto dalla citazione baudeleriana che invita la critica a essere
“di parte”. Il rinnovamento che caratterizza la contemporaneità è riconosciuto da De Micheli nei
fermenti che da qualche anno abitano l’arte italiana, fin dalla mostra73 organizzata dal quotidiano
“Il Giorno”, nell’aprile del 1958 a Milano, a cura di Valsecchi. Negli scritti redatti in
quell’occasione, il critico registrava un flusso vitale che nei primi anni Cinquanta sembrava essere
congelato su posizioni antitetiche, fra realismo e astrattismo. Ora, un decennio dopo, quel
processo di rinnovamento sta raggiungendo il suo sviluppo massimo, acuendo le reazioni al puro
soggettivismo. De Micheli connette questo cambiamento alle teorie letterarie di Alain Robbe-
Grillet74, secondo cui gli oggetti della narrazione devono rimanere intatti, rinunciando al “cuore
romantico delle cose” – per usare le parole di Roland Barthes. In arte, questo “oggettivismo”
conduce inevitabilmente alle sperimentazioni neo-dadaiste, rovesciando il dominio del soggetto
sull’oggetto. La liberazione dal puro soggettivismo non si concretizza solo nella tendenza neo-
dada, ma è affrontata da più punti di vista. Secondo De Micheli, una delle ricerche più
significative, in questo senso, è quella di Alberto Giacometti, protagonista della Biennale 75
veneziana del 1962. Le sue figure seppur esili, drammatiche, scarnificate, all’apparenza
prosciugate dalla forza vitale, non si arrendono alla riduzione in un “grumo informale” 76 ,
all’implosione nella materia informe; reagiscono, sopravvivono in quanto uomini percorsi da una
forza nervosa che garantisce la loro sopravvivenza. Un altro esempio proposto da De Micheli è
Francis Bacon, citando la mostra77 torinese alla Galleria Galatea, nella quale l’angoscia cosmica
dell’artista ritrova una dimensione più umana, come dimostra la grande Crocifissione esposta,
rappresentata come un assassinio moderno, perpetrato con armi moderne.
Il rinnovato contatto con la realtà delineato da De Micheli, è messo in discussione da Valsecchi78,
critico d’arte de “Il Giorno” e autore della collana divulgativa sulla pittura moderna79 edita da
Garzani, il quale si mostra diffidente in merito al rischio di riduzione dell’arte a un’indagine
puramente visiva, esteriore, affidata alla fangosità del reale. Cosciente dell’estrema

72 M. De Micheli, Il carattere delle tendenze, XI Convegno, 1962 in Testimonianze degli Atti, cit. pp. 77-83.
73 Giovani artisti italiani, Palazzo della Permanente, Milano, 20 aprile - 16 maggio 1958, catalogo della mostra, Società
editrice lombarda, Milano 1958.
74 Cfr. A. Robbe-Grillet, Une voie pour le roman future, 1956, tr. it. Rusconi e Paolazzi, Milano 1961.
75 Mostra personale di Alberto Giacometti alla XXXI Biennale Internazionale d’arte di Venezia, 16 giugno – 7

ottobre 1962. L’artista riceve il premio alla scultura.


76 Ivi, p. 80.
77 Francis Bacon, Galleria Galatea, Torino, dicembre 1958.
78 M. Valsecchi, Realtà o astrazione, XI Convegno, 1962 in Testimonianze degli Atti, cit. pp. 83-85.
79 M. Valsecchi, Maestri Moderni, Garzanti, Milano 1957.

26
drammatizzazione maturata da alcune ricerche informali, ribadisce la strada soggettiva della
pittura. L’opinione “conservatrice” di Valsecchi è comprensibile se si ricorda che negli anni
Cinquanta aveva pubblicato i suoi studi su Van Gogh80, Modigliani81, ma non era ancora attivo
nella curatela presso le gallerie milanesi, come accadrà negli anni Sessanta.
La posizione di Russoli82, al tempo ispettore della Soprintendenza di Milano e non direttamente
impegnato in operazioni di curatela e critica, è metodologica e richiama la critica ad esprimere
giudizi netti, senza legittimare qualsiasi sperimentazione fine a se stessa.
Il dibattito evidenzia alcune criticità delle posizioni esposte: in particolare Italo Tomassoni,83
allora giovane critico alle prese con la scrittura del suo primo saggio, Per un’ipotesi barocca84, edito
nel 1963, nel quale considera il Barocco, non come una corrente artistica storicizzata dalla critica,
ma come attitudine ancora presente nella dinamica fra forme aperte e forme chiuse, ricorrenti
nell’Informale e nelle più recenti sperimentazioni, dagli anni Cinquanta in poi; ribadisce la
necessità di identificare una metodologia critica non come espressione di un giudizio a posteriori,
ma come riflesso dell’operare artistico, in continuo dialogo con l’opera attraverso la poetica.
Dall’altro canto, Giancarlo Politi85, corrispondente culturale per “La Fiera Letteraria”, recrimina
un “nostalgismo figurale ed espressionistico”, valutando anacronistici gli esempi di Giacometti e
Bacon, in quanto le loro ricerche artistiche sarebbero estranee dall’attualità stilistica e rispetto alle
recenti sperimentazioni testimoniate nelle mostre di Bologna e de L’Aquila.
L’opinione critica, riunita a Verucchio, reagisce lentamente sia nella presa in considerazione dei
cambiamenti intrapresi per il superamento dell’Informale, rimanendo ancorata all’impasse
figurazione-non figurazione; sia nella comprensione dei nuovi sviluppi dell’estetica. Appare
evidente un distacco dalle sperimentazioni neo-gestaltiche e dai linguaggi intrapresi dalla Scuola
romana, tralasciati dai tre critici e richiamati solo durante il dibattito86.

1963: la IV Biennale di San Marino e il XII Convegno di Verucchio


Se da un lato Nuove prospettive dell’arte italiana e Alternative attuali, nel 1962, erano state esposizioni
volte a mostrare le più recenti sperimentazioni artistiche e la mostra milanese, Oltre la scultura, oltre
la pittura 87 , nel 1963, aveva focalizzato l’attenzione sulle ricerche cinetico-visuali; dall’altro

80 M. Valsecchi, Van Gogh, Electa, Milano-Firenze 1952.


81 M. Valsecchi, Amedeo Modigliani, Garzanti, Milano 1958.
82 F. Russoli, L’opera d’arte come oggetto e come comprensione della realtà, XI Convegno, 1962 in Testimonianze degli Atti, cit.

pp. 85-89.
83 I. Tomassoni, Elementi per un’indagine sull’arte contemporanea, XI Convegno, 1962 in Testimonianze degli Atti, cit. pp. 95-

98.
84 I. Tomassoni, Per un’ipotesi barocca, Edizioni Ateneo, Roma 1963.
85 G. Politi, Verso una nuova metafisica, XI Convegno, 1962 in Testimonianze degli Atti, cit. pp. 103-105.
86 Cfr. gli interventi di Politi, cit.; M. Bonicatti, Note sulla situazione artistica romana, in Testimonianze degli Atti, cit. pp.

108-109; G. Beringheli, Per un lirismo di derivazione geometrica, in Testimonianze degli Atti, cit. p. 110.
87 Oltre la scultura, oltre la pittura. Mostra di ricerca di arte visiva, Galleria Cadario, Milano, 26 aprile-17 maggio 1963.

27
L’informale in Italia fino al 1957 era stato il tentativo di una storicizzazione; la IV Biennale di San
Marino – Oltre l’Informale 88 , inaugurata nell’estate dello stesso anno, si propone non quale
proclama di un’era conclusa, ma come considerazione di un fenomeno storicamente identificabile
e, in quanto tale, sottoposto a un giudizio critico e valido come elemento dialettico per la lettura
del panorama artistico contemporaneo. I critici alla guida dell’esposizione sono: Giulio Carlo
Argan, Vincente Aguilera Cerni, Palma Bucarelli, Giuseppe Gatt e Umbro Apollonio.
La mostra è composta da tre macro-sezioni. La cosiddetta “Nuova Figurazione” – definizione89
nata in ambito francese e impiegata in Italia in occasione della mostra90 svoltasi a La Strozzina di
Firenze, nel maggio dello stesso anno - con opere, fra gli altri, di Sergio Vacchi, Eduardo Arroyo,
Sergio Dangelo, Jean Dubuffet. La seconda ospita il “neo-dada”, con opere di Valerio Adami,
Lucio Del Pezzo, Ezio Gribaudo, Mimmo Rotella, Roy Lichtestein, Jim Dine, Robert
Rauschenberg e Andy Warhol. La terza sezione ospita le ricerche neo-gestaltiche, con opere di
artisti operanti in gruppo in Italia e all’estero, fra cui Gruppo T, Gruppo Enne, Gruppo Zero,
GRAV, Equipo 57.
Queste ultime sperimentazioni sono favorite dalla giuria in fase di premiazione: il primo premio è
attribuito ex aequo ai Gruppi Enne e Zero e sono riservate menzioni speciali ad artisti91 vicini a
questi linguaggi.
Il giudizio della giuria è accusato, ben presto, di parzialità: Apollonio e Argan avevano già
pubblicamente sostenuto le poetiche neo-gestaltiche ed erano membri anche della commissione
che aveva eseguito gli inviti.
La risposta di Argan alla polemica è netta e ribadisce la propria “scelta” militante esplicitata fra
agosto e settembre 1963 con la pubblicazione di tre articoli92 su le pagine del quotidiano romano
“Il Messaggero”. Nel primo articolo si rammarica per i difficili rapporti fra arte e scienza
prevedendo un possibile arricchimento qualitativo dell’arte attraverso le tecnologie scientifiche;
nel secondo, invece, si sofferma sulle caratteristiche delle ricerche gestaltiche, in un confronto
con l’astrazione storica. A differenza del Neoplasticismo, il quale era animato da una fede
metafisica verso la matematica e la geometria, le ricerche gestaltiche si avvalgono di una
metodologia scientifica fondata su un progetto, una sperimentazione e una verifica. Infine,

88 IV Biennale di San Marino, Oltre l’informale, Palazzo del Kursal, San Marino, 7 luglio – 7 ottobre 1963.
89 La “Nouvelle Figuration” nasce in Francia nell’ambito della Figurazione Narrativa, movimento letterario teorizzato
da Gérard Gassiot-Talobot, a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Ha raccolto artisti interessati a rilanciare la
pittura figurativa, socialmente e politicamente impegnata, in polemica sia con l’astrazione, sia con il Nouveau
Réalisme, ritenendo tautologico il recupero della realtà quotidiana; e proponendosi come alternativa alla Pop Art
anglosassone. Questa tendenza ha trovato la propria consacrazione internazionale in occasione della mostra parigina
Mitologie quotidiane, nel 1964.
90 La nuova figurazione. Mostra internazionale di pittura, 11 giugno – 6 luglio 1963, La Strozzina, Firenze, Valecchi

Editore, Firenze 1963.


91 IV Biennale di San Marino, Oltre l’informale, comunicato stampa n. 5, Archivio Grazia Varisco, Milano.
92 G. C. Argan, Aut – Aut, in “Il Messaggero”, 7 agosto 1963, p. 3; La ricerca gestaltica, in “Il Messaggero”, 24 agosto

1963, p. 3; Le ragioni del gruppo, in “Il Messaggero”, 21 settembre 1963, p. 3.

28
nell’ultimo articolo, difende esplicitamente l’operatività collettiva scelta dagli artisti gestaltici. La
condivisione di un progetto comune è letta da Argan come l’unica possibilità dell’arte per avere
un peso sociale, contrastando concretamente l’azione alienante della massa e il destino solitario
che condanna l’uomo alienato.
In questo contesto il 26 settembre si inaugura a Verucchio il XII Convegno Internazionale di
Artisti, Critici e Studiosi d’Arte93. Per la prima volta, la presidenza è affidata ad Argan ed è
cospicua la partecipazione degli artisti.
Il Convegno è articolato in tre sezioni:
! Arte e libertà. L’impegno ideologico nelle correnti artistiche contemporanee, riservato ad artisti e
critici;
! Poetica ed estetica nel pensiero contemporaneo. Arte e società contemporanea. L’educazione estetica e i suoi
strumenti; affrontato da filosofi, estetologi e sociologi;
! Le più recenti ricerche sperimentali nel campo dell’espressione artistica, con i contributi di psicologi e
scienziati.
In apertura del Convegno Argan cerca di delineare con lucidità le ragioni e le prospettive di un
incontro fra artisti, critici e storici dell’arte, ponendo come fondamento la considerazione della
critica, non già come giudizio a posteriori, ma come funzione.
Qual è il rapporto fra la funzionalità dell’operare artistico e quella dell’operare critico? Si pone il
problema se queste due funzioni si svolgano in due cicli separati o piuttosto in un unico
momento, così da ipotizzare un’associazione fra artista e critico.
Secondo Argan la funzione critica dovrebbe accompagnare il distacco dell’opera dall’artista e il
suo inserimento nel mondo, attribuendo all’oggetto lo statuto di opera d’arte. Tale qualifica è, in
parte - o forse soprattutto? – compiuta dall’artista stesso nel momento in cui considera la sua
opera finita. In altri termini, l’atto critico, letto nella sua complessità e declinato in molteplici
persone, ossia l’artista, il critico, il pubblico; “esercita una sollecitazione dell’operare artistico e,
quindi, concorre allo sviluppo storico dell’arte”94. Il punto di intersezione fra l’interesse del critico
e quello dell’artista è identificato nella poetica, intesa come volontà espressivo-comunicativa che
accompagna l’opera.
“Perché affermiamo che non si può fare opera d’arte senza una poetica e discutiamo se il
raggiungimento della finalità prefissa dalla poetica costituisca, oppure no, il raggiungimento
del valore estetico?”95

93 XII Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, Rimini, Verucchio, San Marino, 26 – 29 settembre 1963.
94 G. C. Argan in Atti del XII Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, Rimini, Verucchio, San Marino
1963, p. 8.
95 Ibidem.

29
Gli atti del Convegno restituiscono una panoramica degli interventi e lasciano emergere alcuni
nuclei tematici principali:
- l’impegno ideologico nelle espressioni contemporanee;
- la socialità dell’arte;
- le sperimentazioni fra arte e scienza.
In merito al primo argomento, il termine di dialogo è riconosciuto nelle poetiche emerse nella
Biennale di San Marino. Aguilera Cerni96 e Nello Ponente97 ne sottolineano, da un lato la vis
polemica (Cerni), dall’altro la parzialità nel testimoniare il panorama contemporaneo, non
riducibile al dualismo “poetiche dell’oggetto – ricerche neo-gestaltiche” (Ponente).
La richiesta di Argan di riflettere sul contenuto ideologico delle poetiche attuali è assecondata da
Cerni individuando tale contenuto nel legame fra l’opera e il contesto storico in cui si manifesta,
affinché la cultura rimanga tale e non si riduca a “culturalismo”, ossia una cultura votata alla
libertà astratta e lontana dalla responsabilità concreta. A sostegno delle proprie riflessioni, Cerni
fa riferimento all’Arte normativa spagnola, articolando l’esempio in due aspetti: il primo è lo
scultore Jorge de Oteiza, il secondo l’Equipo 57.
Jorge de Oteiza, vincitore del Gran Premio alla IV Biennale di San Paolo, nel 1957, propone
sculture caratterizzate da un “funzionalismo ideale”98, dotate di carica religiosa e sociale. La
componente religiosa è espressa suggerendo all’osservatore una riflessione sulla propria solitudine
e la propria salvezza; l’aspetto sociale, invece, si concretizza nella scelta formale molto vicina al
design. Ciò che l’artista spagnolo compie è, secondo Cerni, l’abbandono delle categorie
tradizionali di “scultura” e “opera d’arte” a favore di un’ibridazione con il design e l’urbanistica,
impregnata di religiosità. Un’operatività opposta è scelta dall’Equipo 57, formatosi a Cordova nel
1957, caratterizzato da un metodo di lavoro rigorosamente collettivo e anonimo, rivolto a
indagare la forma, la massa, i colori, ai fini di una lettura dinamica dello spazio plastico. La
diffusione, in ambito spagnolo di un’arte sperimentale e socialmente impegnata aveva portato
alcuni critici, fra cui Cerni, Josè Marìa Molveno Galvàn, Antonio Gimenèz Paricàs a coordinare
questa tendenza sotto la definizione di “Arte Normativa”. Nel 1960 a Valencia c’era stata la prima
esposizione di Arte Normativa Spagnola e, poco dopo, era apparso il manifesto del movimento
sul quarto numero della rivista “Cuadernos de Arte y Pensamiento”, proprio firmato da Cerni, nel
quale era ribadita la necessità di un operare artistico carico di significato etico99. A pochi mesi di

96 G. Aguileria Cerni, in Atti, cit., pp. 12-26.


97 N. Ponente, in Atti, cit. pp. 91-97.
98 G. Aguileria Cerni, in Atti, cit., p. 20.
99 “L’abito creato dalla tradizione culturalista ha fatto che si accetti come normale, non solo la divisione fra etica ed

estetica, ma piuttosto che nella sfera assiologica l’estetico conti esclusivamente per il suo risultato, prescindendo dal
processo e – quello che è peggio – dal motivo iniziale, generatore del primo atto al quale si incatenano gli altri. […]
L’arte ha raggiunto il riconoscimento della sua totale libertà (anche se dipende, di fatto, da innumerevoli fattori
ambientali, dalla richiesta mercantile etc.) ed anche dalla sua totale irresponsabilità. […] La psicologia della forma non

30
distanza, nell’aprile del 1961, l’Equipo 1957 aveva espresso forti critiche100 nei confronti delle
teorizzazioni di Cerni ritenendole eccessivamente intellettualizzanti. Si era registrata, in tempi
brevi, una disintegrazione del fronte comune creato fra arte e critica, caricando l’attenzione
soprattutto sulla “volontà trasformatrice” dell’Arte Normativa: una sorta di interventismo sociale
che aveva assunto le forme artistiche del realismo e si era concretizzato nel nuovo gruppo
Estampa popular.
L’esempio portato da Cerni permette un parallelismo con i gruppi sperimentali esposti alla
Biennale di San Marino: le nozioni di collettività, l’anonimato individuale e il valore etico del
lavoro artistico non coincidono necessariamente con una scelta estetica, ma ammettono una
pluralità di percorsi artistici. Il superamento dell’alienazione, conclude Cerni, è possibile se sono
concesse le condizioni di un’espressione libera e plurale, non costretta in un'unica scelta estetica.
Il binomio ricerche neo-gestaltiche e impegno sociale proposto da Argan è oggetto di riflessione
anche da parte di Ponente. Registrando un’evidente, quanto intenzionale, carenza ideologica
dell’Informale, Ponente sottolinea l’esistenza di una ben più ampia lacuna ideologica che
caratterizza ogni possibile alternativa alla tendenza informale, tanto le “poetiche d’oggetto”
quanto la tendenza gestaltica. A sostegno di tale debolezza, Ponente fa riferimento alla mostra
svoltasi MOMA, nel 1959, intitolata New Imagines of Man101, tentativo, a suo avviso poco riuscito,
di testimoniare l’immagine dell’uomo nell’arte moderna. La mostra ospitava opere riconducibili
alla tendenza informale, con opere di Appel, De Koonig, Pollock e recuperi di opere
“ideologiche”, ad esempio di Leonard Baskin e Balcom Greene, ormai anacronistiche. Ciò che
Ponente recrimina questa mostra è il tentativo di giustificare con una trasformazione apparente
l’immobilità delle ricerche, senza tener conto delle vere sperimentazioni che in quegli stessi anni
si stavano compiendo. La critica alla mostra americana introduce, nelle parole di Ponente, una
polemica anche nei confronti della Biennale di San Marino, della quale sottolinea la mancanza dei
migliori rappresentanti della Pop Art. La controversia di Ponente non si esaurisce nelle critiche
alla mostra sanmarinese, ma coinvolge direttamente le posizioni di Argan espresse sulle pagine de
“Il Messaggero”, ricordando l’esistenza di molteplici percorsi individuali orientati verso altre

si addice al campo della magia, ma al terreno dell’intelligenza, non è una questione di presentire, ma di capire. […]
L’attività artistica, ugualmente a tante altre attività, è un insieme altamente complesso, al quale non è possibile
togliere gli ingredienti etici senza produrgli mortali mutilazioni. La sua norma non si presuppone un insieme di regole
prestabilite, ma piuttosto il riconoscimento di essere allo stesso tempo l’espressione dell’essere, un oggetto di
conoscenza e un modo di conoscere. Implica una versione ed un proposito di trasformazione del mondo. Il fatto che
oggi si accetti così generalmente la sua indipendenza di fronte alla nozione del bene e del male denuncia in modo
opprimente la profonda corruzione delle ruote centrali contemporanee. Possiamo dire che arte normativa è quella
che si produce in funzione dell’intenzionalità, come obbligo morale e servizio del bene. È un’arte dove hanno
importanza tutti i problemi umani e dove è decisivo l’ordine della priorità della sua urgenza” Cerni, in “Cuadernos de
Arte y Pensamiento”, 1960, ripreso in Cerni, in Atti, op. cit., pp. 22-23.
100 Equipo 57, “Accento Cultural”, n. 11, aprile 1961. La polemica fra Cerni, l’Equipo 57 e gli altri critici continua

sulle pagine di “Accento Cultural” n. 31 e n. 34.


101 New Imagines of Man, Museum of Modern Art, New York, 30 settembre – 29 novembre 1959.

31
direzioni, quali, ad esempio, l’esperienza di Piero Dorazio, Achille Perilli e Franco Angeli. Se è
vero che esiste una contrapposizione di segno, estetica e procedurale, fra le ricerche neo-
gestaltiche e il realismo d’oggetto, essa, problematizza Ponente, non equivale necessariamente a
una contrapposizione ideologica. In altri termini: fino a che punto le ricerche neo-gestaltiche non
producono esse stesse un realismo d’oggetto? – chiede ad Argan, ricordando Artériosclérose, opera
di Arman, esposta proprio a San Marino, costituita da vari pezzi di violoncello sezionato, così
simile a oggetti realizzati da Munari negli anni precedenti. Concludendo, Ponente richiama
l’attenzione sulla tangenza fra arte gestaltica e poetiche d’oggetto e, al contempo, fra le differenze
che esistono nell’ambito della ricerca costruttivista.
La risposta102 di Argan è immediata e precisa l’impossibilità di pensare a “ideologie diverse” legate
a linguaggi diversi, a favore di un rapporto dialettico fra i ricerche artistiche, accumunate da un
preciso orientamento ideologico.
Da un lato l’attenzione è posta sul contenuto veicolato dalle espressioni artistiche, ossia il valore
ideologico, dall’altro è messa in discussione la categoria di poetica, aprendo a un approccio
sociologico.
Argan aveva ribadito, nell’ introduzione al Convegno, l’idea di poetica come terreno d’incontro
fra artisti e critici. Se arte e critica cooperano nel definire le poetiche è inevitabile ripensare allo
statuto dell’una e dell’altra. A partire da questa suggestione, Morpurgo Tagliabue103 supera il
carattere paradigmatico del concetto di poetica, così come argomentato dalla filosofia dell’arte,
ritenendo necessario prendere in considerazione la chiave interpretativa di matrice sociologica,
fondata sul concetto di stile, ossia il “carattere aperto” con cui l’artista caratterizza l’opera,
valutando gli schemi stilistici come strumenti di lettura che il critico fornisce al pubblico. Il
riconoscimento della natura “sociale” dell’arte conduce alla considerazione dell’opera, “non più
come prodotto, ma come producente”104.
In questa riflessione la socialità dell’arte non dipende dal contenuto ideologico o dalle
caratteristiche estetiche, ma della posizione dell’opera d’arte nel contesto di fruizione.
In questa direzione si muovono gli interventi di Ugo Spirito e Pierre Restany.
Invitato a dissertare sulla possibilità di un’educazione all’estetica, Spirito 105 propone come
esempio una riflessione dedicata all’arte astratta, restituendo la difficoltà di comprensione per i
non-addetti ai lavori e, al contempo, la necessità di ricerca di nuovi valori manifestatasi proprio
attraverso le forme astratte. La crisi dell’arte tradizionale, la ricerca di “valori” alternativi ha

102 G. C. Argan in Atti, cit., pp. 97-98.


103 G. Morpurgo Tagliabue, in Atti, cit., pp. 52-58.
104 Ivi, p. 56.
105 U. Spirito, in Atti, cit. pp. 35-38.

32
generato un vuoto interpretativo-critico106, proprio attraverso la collaborazione fra arte e critica,
annullando l’azione a posteriori di quest’ultima. Alla luce dei fatti, sintetizza Spirito, l’educazione
estetica nella contemporaneità non può essere altro che il tentativo di porre il rapporto pubblico-
opera sul piano interrogativo, riconoscendo al fruitore un ruolo attivo.
Restany107 legge il rapporto arte-società come variante del tema uomo-natura. Riferendosi alla
pittura informale la considera come una riproposizione artistica della forma e della materia,
recentemente conosciuta attraverso le scoperte scientifiche; l’arte astratta, invece, è letta come
traduzione plastica di una coscienza negativa della natura, tipica della società meccanica,
alienatrice degli individui. Ora, l’introduzione e la diffusione dell’informazione di massa offrono
all’uomo la possibilità di ridisegnare il proprio rapporto con il mondo, concretizzandosi in una
coscienza sociale positiva della natura. In termini artistici ciò si traduce nel Nouveau Réalisme,
quale l’impiego della realtà stessa come materia dell’operare dell’artista e, al contempo, riscatto
critico del fruitore.
Nelle varie opinioni espresse ricorre la considerazione del ruolo attivo auspicato e richiesto
all’osservatore, al fine di ritrovare la validità sociale dell’arte. È evidente, in questa direzione, il
riferimento al concetto di “opera aperta”, formulata da Eco negli stessi anni. La prima
esposizione108 della categoria di “opera aperta”, in Italia, appare sulle pagine de “Il Verri” nel
giugno 1961, proprio strumento di lettura dell’Informale. Eco considera l’ “opera aperta” come
proposta di un campo di possibilità interpretative, ossia come configurazione di stimoli
indeterminati, legati fra loro secondo molteplici combinazioni. Così come sostenuto da Restany
durante il Convegno, l’Informale, in quanto “opera aperta”, si pone come “metafora
epistemologica”, perché ripropone e riconferma le più recenti acquisizioni delle metodologie
scientifiche contemporanee. In altri termini, l’ “opera aperta” restituisce l’immagine della
discontinuità, mediando l’astratta categoria scientifica. Da un altro punto di vista, invece, la
pluralità di letture che sono concesse dall’apertura dell’opera richiama la teoria dell’informazione:
in termini comunicativi, il valore dell’informazione dipende dalla molteplicità di significati
possibili, senza perseguire il significato, l’ordine, l’ovvietà. Nell’opera informale, la totale casualità
della materia ne consente l’apertura e quindi la dialettica di lettura. La pittura informale assume la
libertà della natura, in cui è evidente il gesto della creazione, l’intenzionalità dell’artista:
l’intenzione si collega direttamente alla ricezione, consentendo al fruitore di organizzare le forme
suggerite, negando l’univoca lettura delle forme classiche.

106 “Tra i critici d’arte, tra gli artisti si verifica una fattura simile a quella che si determina tra competenti e
incompetenti, una frattura per la quale – nonostante la esperienza della storia dell’arte approfondita attraverso una
specifica indagine – c’è chi sostiene che l’arte astratta sia una manifestazione di arte superiore e c’è chi sostiene
invece che sia una deviazione anormale del gusto e della creazione artistica, ivi, p. 36.
107 P. Restany, in Atti, cit, pp. 45-52.
108 U. Eco, L’informale come opera aperta, in “Il Verri”, n. 3, giugno 1961, pp. 98-125.

33
Il terzo macro tema affrontato nel corso del Convegno è la cooperazione fra arte e scienza. Più
che mai è evidente l’impronta di Argan il quale considera la vicinanza arte-scienza come possibile
antidoto alla “morte dell’arte”. Oltre a documentare i più recenti studi relativi alla percezione e
alla cibernetica (Silvio Ceccato109, Carmelo Genovese110) e a registrare il sostegno teorico di alcuni
critici, quali Filiberto Menna 111 e Giuseppe Gatt 112 , gli atti testimoniano la massiccia
partecipazione degli artisti, quasi esclusivamente riconducibili ai gruppi gestaltici. Le riflessioni
degli artisti sono accomunate dal rifiuto del concetto romantico di opera come unicum e della
duplice polarità forma-contenuto, in favore della forma stessa. Questo tipo di produzione non è
scindibile dall’operatività collettiva poiché essa rappresenta la componente ideologica di tali
ricerche: operare in gruppo significa da un lato condividere un’ipotesi comune di lavoro (Gruppo
tempo 3 113 ), dall’altro l’affermazione di valori sociali (Gruppo 1 114 ). Manfredo Massironi 115 ,
portavoce del gruppo N, interviene spiegando come sulla base della dialettica marxista tra operaio
e padrone, lavoro e capitale, avvenga la demistificazione dell’arte. Il limite della cultura, all’interno
della società capitalistica, è stato l’incapacità di organizzarsi e rintracciare un proprio posto nella
società contemporanea, ossia riconoscersi in una classe. Una volta acquisiti i principi tecnici
dell’operare artistico, come l’operaio con i mezzi di produzione, si riequilibrerebbe il rapporto
artista-mercato. Ne consegue la considerazione dell’artisticità come elemento qualificatore del
prodotto a tutti i livelli, eliminando l’arte come categoria delle idee, riportandola al suo valore di
tecnica. A tale presa di posizione reagisce Emilio Vedova116, unico artista presente al Convegno
non legato a ricerche gestaltiche.
“Naturalmente non sono del tutto d’accordo – non ritengo che questo mondo europeo:
piccola parte di un mondo di altissime percentuali di ‘MORTI DI FAME’ (la statistica è
oggi una scienza molto alla ribalta) non ritengo, ripeto, anzi dichiaratamente penso che sia
ancora lontana qui una società che possa risolvere in una qualsiasi GHESTALT
CORALE.
L’anonimato, quando non è un falso anonimato, in questa società agglomerato, a mio
avviso può essere comoda sottrazione di responsabilità. Nel nome di un ‘industrial’
ottimistico, dove si confonde Olivetti con Karl Marx; l’operaio ‘alienato dal proprio
lavoro’ con chi fa la rivoluzione magari anche con oggetti da boutique di lusso, disponibili
ai plus-valore dei frenetici mercati libero-borghesi”.

L’accusa di “confondere Olivetti con Marx” era rivolta a “chi fa la rivoluzione magari anche con
oggetti da boutique di lusso” cioè agli artisti dell’arte programmata che avevano partecipato alle
mostre nei negozi Olivetti. Inoltre, Vedova rifiuta l’anonimato del gruppo a favore di un impegno

109 S. Ceccato, in Atti, cit., pp. 40-44.


110 C. Genovese, in Atti, cit., pp. 67-76.
111 F. Menna, in Atti, cit., pp. 116-123.
112 G. Gatt, in Atti, cit., pp. 77-80.
113 Gruppo tempo 3, in Atti, cit., pp. 180-181.
114 Gruppo 1, in Atti, cit., pp. 165-172.
115 M. Massironi, in Atti, cit., pp. 173-178.
116 E. Vedova, in Atti, cit., pp. 201-211.

34
individuale, posizione già esplicitata durante la conferenza117 tenuta da Vedova nel settembre del
1962 in occasione del IV Corso Internazionale di Alta Cultura presso la Fondazione Cini di
Venezia. Qui, l’artista, oltre ad esaltare l’identità tra azione pittorica e azione politica, aveva
concentrato la sua attenzione sulle ricerche cinetico-programmatiche che erano in quel momento
esposte al negozio Olivetti, proprio in occasione della tappa veneziana della mostra Arte
Programmata118. Secondo Vedova queste ricerche stavano rendendo l’uomo succube della tecnica,
producendo “macchinette”, a scapito della pittura, forma espressiva in grado di reagire contro le
imposizioni del potere e della società.
In chiusura Ugo Spirito119 sottolinea la fecondità del Convegno, garantita proprio dall’incontro-
scontro fra artisti e critici e individua le radici della crisi generale riguardante l’arte e la critica
nell’insistente tentativo della filosofia di definire l’arte e le sue manifestazioni. La critica, secondo
Spirito, dovrebbe superare gli attriti con l’arte liberandosi dalle categorie spurie e dagli equivoci
lessicali derivati dalla filosofia.
Argan120 congeda i lavori ripercorrendo gli sviluppi del dibattito e le posizioni emerse e ribadendo
l’ideologia rivoluzionaria come condizione della storicità dell’essere stesso dell’arte: ammette la
disparità di linguaggi attraverso i quali la “rivoluzione” può essere espressa, ma riconosce come
una “volontà dell’arte” l’ideologia rivoluzionaria.
Le vicende della XII edizione del Convegno, soprattutto se lette in continuità con le
manifestazioni espositive dei mesi precedenti, sono uno specchio efficace delle dinamiche
artistiche e critiche dei primi anni Sessanta: i fermenti artistici rendono necessario un
ripensamento della metodologia critica, la quale, a sua volta, è animata da opinioni contrastanti sia
dal punto di vista del metodo che del giudizio. La critica istituzionale, guidata da Argan, appare in
affanno nella lettura delle sperimentazioni più recenti, rivelando l’inadeguatezza delle categorie
critiche tradizionali e della necessità di un cambiamento.

117 “Il rapporto uomo – tecnica ci appare pacificato […] l’uomo non domina la tecnica, ma non ne è neppure
sopraffatto. […] Allora il sogno della Bauhaus è diventato realtà? […] Oppure questo insegnamento, questa
confidenza col gioco di variazioni del meccano, non significherà piuttosto la generazione del problema? […] Il
dramma tecnologia-scienza ci investe. […] Parlo dell’asservimento di alcuni che pretendono di chiamarsi artisti – che
significa anzitutto uomo – e che invece presi dalla tecnica […] così tutti infantilmente affascinati da “diorama” e
dall’oggetto-macchinetta, inconsciamente tranquillizzati da queste macchine docili e innocue, automaticamente
concediamo il nulla osta a qualsiasi uso e abuso della tecnica” , E. Vedova, venerdì 28 settembre 1962, in E. Vedova,
Scontro di una situazione, Quaderni di San Giorgio, Arte e cultura contemporanee, Sansoni, Firenze 1964, pp. 537-553.
118 Arte Programmata, negozio Olivetti, piazza San Marco 2, Venezia, estate 1962.
119 U. Spirito, in Atti, cit., pp. 214-217.
120 G.Carlo Argan, in Atti, cit., pp. 218-223.

35
La polemica fra artisti e critici fra il Convegno di Verucchio e le pagine dell’ “Avanti!”
All’indomani dell’avvio dei lavori, l’incontro fra critici e artisti, auspicato da Argan, assume i
caratteri di uno scontro: un gruppo di artisti romani invia alla segreteria del Convegno una lettera
dall’emblematico titolo Le tentazioni della critica, dichiarando una netta presa di posizione contro il
costume critico diffusosi in Italia negli ultimi anni.
“Noi pittori e scultori, dichiariamo di non voler intervenire sui temi del Convegno ma di
prendere posizione contro le ragioni del Convegno stesso.
Consapevoli delle qualità e del valore dell’arte italiana di oggi, noi abbiamo il dubbio che
ancora una volta ci si trovi di fronte ai segni d’una volontà di sopraffazione, impiegata da
qualche tempo a forzare il corso della realtà e ad alterare la sostanza e la prospettiva
dell’arte attuale utilizzando gli artisti come strumenti di una politica personale e non
rispettandoli come protagonisti del processo creativo. Si tratta di una volontà di arbitrio
anticipatore che sta prendendo la mano ai critici d’arte. Di fronte a tale fenomeno
dichiariamo la nostra diffidenza e la nostra sfiducia.
Dichiariamo la nostra diffidenza e la nostra sfiducia verso un costume critico divenuto
perentorio al punto da volere intervenire nel vivo dell’arte nel momento stesso del suo
elaborarsi o progettarsi, per tracciare schemi sbrigativi e addirittura imporre direttive e
programmazioni. Non vogliamo definire i limiti e la legittimità della critica d’arte
militante, e stabilire in che senso possa configurarsi rispetto al lavoro creativo. È ovvio
che critica non è solo registrazione e che interpretare vuol dire integrare e donare un
senso. Ma affermiamo con assoluta certezza che in nessun caso la critica d’arte può
imporre compiti, né tracciare programmi all’artista. È questa una tentazione a cui la critica
d’arte militante, in questi ultimi tempi, non ha saputo resistere. La tentazione di arrivare in
anticipo sulla pittura e decretarne, già storicamente, i percorsi e i traguardi.
Noi riteniamo che il Professor Carlo Giulio Argan, che ha presieduto il Convegno di
Verucchio, ha assunto in questi ultimi tempi un atteggiamento critico incompatibile con la
sua funzione di studioso e di storico dell’arte. Da qualche tempo le sue affermazioni
critiche hanno assunto la perentorietà di giudizio e addirittura di una sistemazione storica
e non appartengono all’esame critico, ma piuttosto al manifesto artistico.
Noi artisti neghiamo che chiunque possa fare storia prima che storia sia fatta”.

Gastone Novelli, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo, Giuseppe Santomaso, Giulio


Turcato, Toti Scialoja, Carla Accardi, Pietro Consagra, Antonio Corpora, Piero Dorazio,
Umberto Mastroianni

I firmatari della lettera, è bene notare, erano attivi nel contesto romano e operavano
individualmente, pur avendo esordito in espressioni collettive.
In risposta è formulato uno scritto121, la cosiddetta “mozione Spirito”, formulata da Ugo Spirito e
approvato all’unanimità del Convegno, in cui è rimarcato il diritto di libertà della critica d’arte, sia
come giudizio interpretativo sia nel senso di precisare i programmi, direttive e previsioni circa
l’ulteriore sviluppo della pratica artistica, nonché la natura collaborativa dell’attività critica.

121“Si rivendica il diritto di libertà della critica d’arte, non soltanto sul piano del giudizio interpretativo e valutativo,
ma anche nel senso di precisare programmi, direttive e previsioni circa l’ulteriore sviluppo delle attività artistiche. […]
L’opera della critica, infatti, deve intendersi come forma di collaborazione attiva, senza possibilità di discriminazione,
con il processo inventivo e creativo dell’opera d’arte”, U. Spirito in Atti, cit., pp. 214-217, ripreso in “Marcatrè”, a. I,
n. 1, novembre 1963, p. 28.

36
Coinvolto personalmente, Argan rende noti dei telegrammi privati ricevuti da Dorazio, nei quali
l’artista ha espresso il sostegno alle idee critiche dello storico.
Poche settimane dopo la conclusione del Convegno, il 20 ottobre del 1963, il dibattito122 è ripreso
da Nello Ponente sulle pagine dell’ “Avanti!”, “sollecitando il contributo di artisti e critici,
sinceramente preoccupati dell’avvenire dell’arte italiana”123.
Ponente focalizza l’attenzione su due domande:
- fino a che punto e in che termini la critica può sollecitare l’intervento artistico?
- quale può essere il metodo critico?
La prima risposta è firmata dagli artisti romani già schieratisi a Verucchio, nonché sottoscritta da
altri:

“Un po’ di umiltà signori critici! Il nostro scopo è di comprendere gli artisti, spiegarli,
difenderli contro i ciechi e gli sciocchi. Procuriamo di seguire quelli che secondo noi sono
artisti autentici. Facciamo loro credito. Essi sanno ciò che fanno e non sforziamoci di
precederli. Correremmo il rischio di sbarrare loro la strada. Il che sarebbe per noi un’onta
inaccettabile”.

Carla Accardi, Piero Consagra, Antonio Corpora, Nino Franchina, Umberto Mastroianni,
Gastone Novelli, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo, Gastone Santomaso, Toti Scialoja,
Giulio Turcato, Afro, Franco Angeli, Mario Schifano, Tano Festa, Mimmo Rotella, Pietro
Cascella, Zoran Music, Leoncillo, Antonio Scordia, Piero Sadun, Giosetta Fioroni, Paolo
Buggiani, Pericle Fazzini.

Da notare come in questa seconda presa di posizione si sia ampliato il numero di artisti firmatari
e schierati nella polemica. Seguono contributi dei singoli artisti e le risposte di alcuni critici.
Gli artisti si uniscono in un fronte comune in difesa dell’assoluta libertà dell’arte e dell’autonomia
artistica, pur riconoscendo la funzione interpretativa che la critica esercita e, al contempo,
prendono le distanze dal concetto di “poetica”.
Dopo il primo intervento, firmato da Pietro Consagra 124 , il quale pone l’accento sui ritmi
differenti che caratterizzano la critica e l’arte, Piero Dorazio propone un intervento intitolato La
libertà dell’arte 125 . L’artista era coinvolto su un duplice fronte: da un lato quale mittente dei
telegrammi resi noti da Argan e dall’altro in quanto impegnato in un’attività solitaria non
riconoscibile né nelle ricerche gestaltiche, né nelle poetiche d’oggetto. In merito alla prima
questione ribadisce che la polemica avviata dagli artisti romani non è stata un attacco diretto ad

122 Il dibattito scaturito dal Convegno di Verucchio si sviluppa sulle pagine de “Avanti!”, ottobre 1963 – gennaio

1964; ma se ne ritrovano tracce anche in articoli comparsi su “Il Messaggero”, “La Fiera Letteraria” e “Marcatrè”.
Gli articoli sono interamente ripostati nell’appendice della monografia dedicata al Gruppo Enne, I. Mussa, Gruppo
Enne, Bulzoni, Roma 1976
123 N. Ponente, Riaffermare la vitalità dell’arte e della critica, in “Avanti!”, 20 ottobre 1963.
124 P. Consagra, in “Avanti!”, 2 novembre 1963.
125 P. Dorazio, La libertà dell’arte, “Avanti!”, 8 novembre 1963.

37
Argan e precisa che la corrispondenza privata, inviata in occasione della Biennale di San Paolo,
non era equivalsa a un’adesione alle idee del critico; richiamando poi l’attenzione sulle opere:

“Il potere e le pressioni che questi critici esercitano […] minacciano da vicino la libertà e
la serenità del lavoro creativo. Ipotecano e scoraggiano la continuità di elaborazione e lo
sviluppo della ricerca artistica che è personale e non può dipendere dal mercato dell’arte
né da istituzioni di carattere pubblico. Il lavoro creativo richiede tempo in misura assai
diversa dal ritmo della produzione e degli scambi che muove la società d’oggi.
[…] A volte essi peccano per difetto o per eccesso nell’applicazione del pensiero storico e
di teorie estetiche alla realtà. […] Inseguono un’ipotetica idea dell’arte che invece nasce
dalle esperienze reali degli artisti, con il proposito di indovinare e magari determinare
l’attualità”.

E ancora:

“Io sono un pittore e per me, nell’intenso dibattito che oggi vede alternarsi fenomeni
artistici di ogni genere, l’unico punto di rifermento certo è solo la mia pittura. […] Non
erano Picasso né De Chirico che aderivano alle teorie di Apollinaire, ma era Apollinaire
che commentando e incoraggiando la loro pittura elaborava e affermava le sue teorie. È
necessario che i quadri e le sculture tornino ad essere il reale e unico punto di riferimento
per discutere e favorire il progresso dell’arte. […] Non esiste un’idea di arte, […] ma solo i
tentativi e le opere che gli artisti fanno”.

La necessità di rindirizzare lo sguardo sull’opera, piuttosto che sull’elaborazione teorica intorno


ad essa, è rimarcata da Gastone Novelli126, il quale, pur riconoscendo a pieno titolo la libertà della
critica e il diritto ad essere “di parte”, disconosce la critica cosiddetta “profetica” e ricorda
l’importanza dell’ampiezza dell’orizzonte di analisi, affinché non siano tralasciati i destini
particolari. Fino a ora Novelli aveva sempre agito autonomamente, rimanendo estraneo alle
pratiche di gruppo tanto care ad Argan e, spesso, aveva preso le distanze dalle letture critiche che
tentavano di classificare il suo lavoro. La fertile collaborazione fra Novelli e Perilli in
“L’Esperienza Moderna”, già aveva manifestato la chiara considerazione della pittura come rito
personale e privo di descrizioni, “dipinta perché non si può urlare in faccia al prossimo”127. Ciò
non esclude una componente comunicativa e di interazione con il pubblico, ma richiede lunghi
tempi di decodificazione poiché la pittura è proposta come una scrittura con alfabeto ancora da
inventare. È evidente la lontananza dalle idee di Argan, il quale aveva ipotizzato la collaborazione
con l’artista per delineare i contenuti del fare artistico.
Anche Pietro Consagra128 scongiura l’ipotesi di qualsivoglia suggerimento dalla critica all’arte,
considerandolo una minaccia alla libertà creativa dell’artista, nonché la premessa della

126 G. Novelli, La tentazione di troppi critici, “Avanti!”, 8 novembre 1963.


127 G. Novelli, Discorso ai critici, ai poeti, agli amatori, ai passanti, in “L’esperienza moderna”, 1957, ora in Z. Birolli (a
cura di), Gastone Novelli, Feltrinelli, Milano 1976, p. 51.
128 P. Consagra, Un po’ di umiltà signori critici!, in “Avanti!”, 2 novembre 1963.

38
sopraffazione dell’arte, la quale, per la prima volta nella storia, si era manifestata in completa
autonomia da ogni dogma e ogni teoria129.
Il rischio della prevalenza della critica sull’opera è ribadita da Giuseppe Santomaso 130 : la
sistemazione della componente creativa in categorie storiche rigide e manichee rischia di
assoggettare l’arte al formalismo e a un lettura dogmatica. La medesima opinione è sottoscritta da
Toti Scialoja131, Antonio Sanfilippo132 Carla Accardi133 e Antonio Corpora134.
Dal programmatico titolo La critica non può imporre programmi, il contributo di Achille Perilli135 è una
lucida esegesi del dissidio fra artisti e critici, riconducibile all’erroneo tentativo di ridurre tutta la
vasta gamma delle espressioni contemporanee all’unica radice dell’Informale, ossia storicizzando i
processi creativi e schematizzando i valori poetici. Non si dimentichi la posizione assunta da
Ponente durante il Convegno, per sottolineare la limitatezza del “bipolarismo critico” delineato
da Argan. Proprio nelle parole di Perilli, anticipate nell’ottobre dello stesso anno sulle pagine de
“Il Verri”136, è esplicita la presa di distanza dalla tendenza volta a ridurre la vasta gamma di
ricerche contemporanee all’unica matrice informale. Perilli diffida di un procedimento meramente
dialettico che ripeterebbe l’errore critico che ha voluto far nascere tutta la pittura moderna
dall’esperienza impressionista, negando la pluralità di esperienze parallele. Ciò su cui l’artista
insiste è il limite delle storicizzazioni focalizzate su rigide opposizioni, dimenticando l’autonomia
di sistemi linguistici e poetici, riducendoli quindi a letture dogmatiche. Introducendo categorie di
lettura provenienti dal design industriale, egli ricorda come tutte le sperimentazioni artistiche
contemporanee siano accomunate dal concetto di “consumo”, ossia come i valori artistici
abbiano perso il loro carattere eterno per divenire transitori. Alla luce di questa consapevolezza,
le peculiarità stilistiche si riducono a connotazioni estetiche, non qualitative. Diviene, quindi,
necessario maturare coscienza dell’atteggiamento che lo spettatore riserva all’opera d’arte,
permettendo il percorrimento di nuove vie espressive che Perilli riconosce nella dimensione
narrativa, ampliando il tempo e lo spazio della percezione ottica a quello dell’immaginazione.
Oltre agli artisti, il dibattito su “L’Avanti” vede la partecipazione dei critici i cui interventi hanno
caratteri diversi, ma sono orientati alla difesa della categoria professionale, rivendicando la
legittimità dell’azione critica. Marisa Volpi 137 risponde agli artisti individuando nella radice
idealistica il limite della critica e ribadendo la validità delle categorie storico critiche, non come

129 Cfr. P. Consagra, L’agguato c’è, Edizioni della Tartaruga, Roma 1960, ora in Consagra che scrive. Scritti teorici e polemici
1947/89, All’insegna del pesce d’oro, Scheiwiller, Milano 1989, p. 43-45.
130 G. Santomaso, Contro il dogmatismo, “Avanti!”, 16 novembre 1963.
131 T. Scialoja, Sezione di una scheda intitolata: “domani”, “Avanti!”, 15 novembre 1963.
132 A. Sanfilippo, Una diversa idea di gruppo, “Avanti!”, 16 novembre 1963.
133 C. Accardi, Siamo contro ogni super-potere, “Avanti!”, 19 novembre 1963.
134 A. Corpora, Crisi di sfiducia, “Avanti!”, 23 novembre 1963.
135 A. Perilli, La critica non può imporre programmi, “Avanti!”, 24 novembre 1963.
136 A. Perilli, Le ragioni narrative della pittura, “Il Verri”, n. 10, ottobre 1963, pp. 137-140.
137 M. Volpi, I molti problemi della critica d’arte, “Avanti!”, 29 novembre 1963.

39
risultante dell’azione individuale del critico, ma come conseguenza di un dialogo con l’artista. Fra
gli intervenuti si riconoscono due principali posizioni: Maurizio Calvesi,138 Alberto Boatto139 e
Filiberto Menna140 si dissociano dall’esclusività con cui Argan ha riconosciuto nelle ricerche neo-
gestaltiche l’unica alternativa all’Informale; Corrado Maltese 141 , Guido Montana 142 , invece,
confermano l’importanza del lavoro collettivo e lo sperimentalismo tecnico garantito dalle
ricerche gestaltiche.
Calvesi indirizza una lettera aperta ad Argan nel tentativo di comprendere le ragioni della reazione
degli artisti, orientando la riflessione sulla metodologia di lavoro del critico. L’azione di
interpretazione “a posteriori” che il critico ha fino a ora svolto, sottolinea Calvesi, si attua in una
sovrapposizione del pensiero dell’artista con velleità di oggettività; mentre l’operatività critica
proposta da Argan avrebbe i caratteri di una vera e propria coincidenza con la procedura artistica.
Questo atteggiamento può essere lecito solo se giustificato da una legittimità storica e, come tale,
deve essere considerato relativo. Calvesi, considerando la crisi della società moderna, orfana di
miti in cui riconoscere l’identità collettiva, si dimostra d’accordo con Argan nel considerare le
ricerche gestaltiche e collettive quale risposta alla demitizzazione contemporanea, recuperando il
valore estetico e l’utilità sociale dell’opera; ma, al contempo, rifiuta l’esclusività di questa idea,
riconoscendo la validità di altre sperimentazioni. Proprio il concetto di demitizzazione è ripreso
anche da Menna, nel tentativo di individuare i punti di tangenza fra le realtà artistiche risultanti
dal dibattito: entrambe le sperimentazioni si propongono come reazione alla crisi valoriale della
società e tentano di colmare la mancanza di miti collettivi.
Le proposte di Argan incontrano il sostegno di Boatto, la cui analisi, richiamando alla mente le
riflessioni di Ponente, lascia emergere la debolezza ideologica delle ricerche gestaltiche. Così
come le poetiche d’oggetto hanno le loro radici nel Dada e nel Surrealismo, le ricerche
costruttiviste trovano la loro matrice nelle avanguardie russe le quali erano connotate da un
preciso impegno politico. Condividendo la convinzione di Argan di anteporre il pensiero critico
alle sperimentazioni tecniche, per evitare che l’industria da “strumento” divenga “fine” e che
quindi lo scopo dell’arte coincida con quello della produzione industriale, Boatto sottolinea come
le ricerche gestaltiche attuali siano prive di qualunque contenuto politico e ideologico, rischiando
di vanificare il potenziale di opposizione con cui potrebbero aggredire il potere alienante
dell’industria.

138 M. Calvesi, E’ sempre lecito l’intervento del critico?, “Avanti!”, 20 novembre 1963.
139 A. Boatto, Due ipotesi d’intervento, “Avanti!”, 7 dicembre 1963.
140 F. Menna, Processo alla critica, “Avanti!”, 7 dicembre 1963.
141 C. Maltese, Lo sperimentalismo valore fondamentale, “Avanti!”, 5 novembre 1963.
142 G. Montana, Dal “gruppo” lo stimolo alla scoperta individuale, “Avanti!”, 5 novembre 1963.

40
Fra i vari contributi, un momento fondamentale è rappresentato dalle riflessioni suggerite da
Carla Lonzi143, efficacemente riassunte dal titolo del suo articolo: La solitudine del critico.
L’analisi di Lonzi legge la polemica fra artisti e critici quale sintomo di un sottofondo di sfiducia
fra chi produce le opere d’arte e il critico, orfano di una funzione sociale e inconsapevole della
propria inefficienza. Il disperato tentativo dei critici di recuperare credito agli occhi degli artisti e
del pubblico assume i fallaci contorni dell’abuso di potere.

“In una società come l’attuale in cui l’individuo agisce sotto la pressione di incalcolabili
stimoli al prestigio e all’efficienza, la condizione del critico militante, così esposto alla
vanificazione dei suoi titoli di merito, non può essere afferrata pienamente se non si tiene
conto di queste forze che agiscono su di lui in maniera massiccia e spesso drammatica.
[…] Da questo punto di vista ciò che mi preme mettere in evidenza è la condizione
abbastanza rovinosa di una istituzione che, indotta da sollecitazioni molteplici a includere
nell’area dei proprio interessi gli avvenimenti artistici in corso, pretende di parteciparvi
senza rinnegare niente di se stessa in quanto a ufficialità”.

Lonzi riconosce come limite della critica la radice idealistica che essa continua a preservare e si
oppone alla critica che si arrocca in una gerarchia e in un ruolo direttivo, perdendo la propria
funzione di trait d’union fra l’opera e il pubblico. Chiaro ed esplicito il riferimento, in questo
discorso, ad Argan in merito alle posizioni adottate sul tema dell’arte programmata:

“Quando Argan, insigne storico dell’arte, abbraccia improvvisamente la causa delle


poetiche di gruppo negando la possibilità di una creazione individuale non alienata,
compie un gesto paralizzato dalla sua stessa volontà di contare. […] E non mi sembra un
caso che la nuova professione di fede coincida in Argan con una difesa d’ufficio della sua
funzione, quando postula il principio sottoscritto da un filosofo, che le formulazioni
teoriche dei critici possano avere un’incidenza interna alla creazione artistica. Questo in
momento i cui gli artisti, più o meno, dei critici non sanno cosa farsene”.

Michele Dantini144 ha evidenziato come lo scontro Argan-Lonzi sia emblematico esempio di una
disparità di vedute, motivata, probabilmente, da ragioni generazionali: Lonzi sembra, almeno in
parte, non cogliere le “ragioni storiche dell’interlocutore”145, ossia la convinzione di Argan che le
élite culturali debbano avere un ruolo pedagogico, concentrando, invece, l’oggetto della propria
critica sulla personalità, considerata autoritaria, del critico. Inoltre, è esplicita la difesa
dell’individualità quale forma di libertà che garantisce l’accettazione di verità spontanea: il critico
deve avvicinarsi alle opere solo ricordando che esse sono frutto di tale libertà. È negata
l’esistenza, tanto per il critico quanto per l’artista, di qualsiasi riconoscimento di rappresentanza in
anticipo146.Questo intervento ha una particolare rilevanza perché introduce l’atteggiamento critico

143 C. Lonzi, La solitudine del critico, “Avanti!”, 12 dicembre 1963.


144 M. Dantini, Giulio Carlo Argan, Storia dell’arte e etnologia della “mutazione”, in Geopolitiche dell’arte, cit. pp. 140-141.
145 Ibidem.
146 In questo denso articolo sono evidenti le radici della sfiducia espressa da Lonzi nei confronti della critica e

formulate sul finire degli anni Sessanta, cfr. Autoritratto, 1969.

41
che Lonzi porterà avanti, formalizzandolo in Autoritratto147, edito nel 1969 e sulle pagine di
“NAC”148 nel 1970.
La fase conclusiva di questo intenso dibattito è affidata ad Argan149 il quale, senza risparmiare un
tono risentito, valuta la presa di posizione degli artisti come tentativo di negare l’autonomia della
critica e sottolinea la mancata partecipazione alla discussione di artisti come Lucio Fontana e
Alberto Burri.
Tale assenza è sicuramente da registrare, ma alla luce di questo studio ciò che appare più
interessante notare, soprattutto in una prospettiva storica, è la significativa e condivisa reazione
degli artisti uniti non in un gruppo o in un movimento, ma come singoli in difesa di se stessi e
dell’operare artistico. L’idea di Argan di considerare la critica come “funzione” e non come
“giudizio” è messa in crisi dall’arte che, si dichiara, essa stessa, funzione, negando ogni
riconoscimento di rappresentanza dell’arte in anticipo, né per il critico né per l’artista.
Perilli150 citando Klee: “Vogliamo non già la forma, ma la funzione”, tenta di porre l’accento sul
valore della singola opera sulla continuità e sulla persistenza di particolari elementi strutturali.
La tensione fra artisti e critici è il sintomo di un cambiamento nella cultura italiana in cui non è
più sostenibile il ruolo del critico come guida per l’operato dell’artista: è, da un lato,
l’affermazione del procedere, non più sintetico e classificatorio della critica “istituzionale”, ma
paratattico dell’arte e, dall’altro, segna il graduale, ma inevitabile allontanamento di una nuova
generazioni di critici e curatori come Germano Celant, Tommaso Trini, Paolo Fossati, Achille
Bonito Oliva dalle posizioni di Argan.

I Convegni del Gruppo 70


Nel maggio del 1963 gli artisti e i critici erano già stati coinvolti in un Convegno: si era tenuto,
infatti, a Firenze, al Forte del Belvedere, il convegno nazionale di “Arte e Comunicazione”151
organizzato dal Gruppo Settanta, capeggiato da Lamberto Pignotti ed Eugenio Miccini.
Il Convegno fiorentino segna l’atto di nascita del Gruppo 70, comprendente, oltre Pignotti e
Miccini, Antonio Bueno, Giuseppe Chiari, Luciano Ori, Lucia Marcucci, Ketty La Rocca e altri
autori, coinvolti da varie parti d’Italia, impegnati in un linguaggio artistico costituito da immagini
e parole, che sarà poi definito “poesia visiva”. I materiali sono prelevati da rotocalchi e
dall’universo della comunicazione di massa, letti come testimonianze della contemporaneità. La
prima mostra del Gruppo, Tecnologica, avviene alla Galleria Quadrante di Firenze, nel dicembre
147 C. Lonzi, Autoritratto, De Donato editore, Milano 1969.
148 “NAC”, rivista edita dal 1968 al 1974 da Francesco Vincitorio, ospita un’inchiesta sulla critica d’arte
contemporanea fra il 1970 e il 1971.
149 G. C. Argan, Un dibattito di idee, “Avanti!”, 4 gennaio 1964.
150 A. Perilli, Le ragioni narrative della pittura, “Il Verri”, n. 10, ottobre 1963.
151 Convegno nazionale di “Arte e Comunicazione”, organizzato dal Gruppo Settanta sotto gli Auspici dell’Azienda

Autonoma di Turismo, Forte del Belvedere, Firenze, 24 - 26 maggio 1963.

42
dello stesso anno. In occasione dell’esposizione, Pignotti pubblica un testo152 sul catalogo della
mostra, riproponendo alcune considerazioni anticipate in occasione del Convegno al Forte del
Belvedere e identificando i caratteri distintivi dell’operatività del Gruppo, ossia
l’interdisciplinarietà, soprattutto con la letteratura e la musica, l’impiego di tecnologie industriali e
il riferimento al panorama visivo nato dalla comunicazione di massa.
Gli atti del convegno non sono mai stati pubblicati e le uniche notizie reperite per tentare una
ricostruzione della vicenda derivano dalla rassegna stampa153 dell’evento, pubblicata sui quotidiani
dell’epoca.
Il Convegno è inaugurato da Dorfles, il quale sottolinea il legame sempre più stretto fra arte e
comunicazione e l’identificazione dell’opera d’arte con un “messaggio simbolico”, superando la
fumosità di stampo idealistico e metafisico della concezione artistica tradizionale. Riferendosi alle
teorie dell’estetologa americana Susanne Langer154, introduce l’idea di arte come “comunicazione
non concettuale”, secondo cui all’arte non è richiesta, necessariamente, una comunicazione
“concettualmente” comprensibile, poiché essa agisce su una sfera simbolica. L’intervento di
Lamberto Pignotti propone una stagione artistica “oltre l’avanguardia”, ormai uccisa dalla
massificazione e dall’industrializzazione, sottolineando il carattere interdisciplinare delle ricerche
più recenti, ribadito poi da Agostino Pirella e Gianni Scalia.
La partecipazione di Cesare Vivaldi, già autore di riflessioni intorno alle poetiche d’oggetto sulle
pagine de l’Almanacco Bompiani155, “Il Verri”156 e “Tempo presente”157, ripropone sul piano della
lettura storica e del superamento dell’Informale l’interpretazione dei nuovi linguaggi fortemente
condizionati dall’universo mass mediatico. La prima giornata del Convegno ospita anche un
dibattito dedicato ai problemi e ai compiti della critica, con i contributi di Mario Bergomi,

152 L. Pignotti, Tecnologica, catalogo della mostra, Galleria Quadrante, Firenze, dicembre 1963. Contemporaneamente

Pignotti e Miccini sono protagonisti di un’altra mostra, intitolata Area letteraria nella figurazione, alla galleria fiorentina Il
Fiore. Le due esposizioni muovono una vivace polemica: Mario Novi, critico d’arte de “Il Giornale del Mattino”
invita gli artisti a “non fare”, ritenendo le ricerche in questione inutili. Cfr. M. Novi, A proposito di due mostre, in “Il
Giornale del Mattino”, 20 dicembre 1963; M. Novi, Non fare, non dire, in “Il Giornale del Mattino”, 29 dicembre 1963;
U. Baldini, In margine a una polemica. L’area letteraria della figurazione e una rassegna tecnologica, in “La Nazione”, 2 gennaio
1964.
153 M. Bossini, Appunti per un’antologia critica. Estratti da quotidiani nazionale dal 1963 al 1968, in Parole Contro, 1963-1968.

Il tempo della Poesia visiva, Montevarchi – Cantieri la Ginestra, catalogo della mostra, 18 aprile – 21 giugno 2009, Carlo
Cambi editore, 2009, pp. 129-143.
154 In Philosophy in a new Key (1942, tr. it. 1972) Susanne Langer (1895-1985), partendo dal pensiero di Dewey e dal

simbolismo di Cassirer, considera l’arte come una forma di creazione del sentimento umano, espressione simbolica
“non – discorsiva”, cioè non traducibile in parole. Data la non traducibilità di questi simboli, essi si iscrivono in una
sfera completamente astratta, dissociata dalla realtà e riconducibile alla sfera sentimentale individuale, così come
accade per il mito, la memoria, la metafora. Le arti visive si prestano a un apprezzamento sensoriale delle forme, non
equiparabile ad una attività linguistica, dunque l’arte è confinata nel regno del sentimento.
155 C. Vivaldi, Neodada, novorealismo, neo-metafisica, in “Almanacco letterario Bompiani”, Bompiani, Milano 1962 e C.

Vivaldi, A proposito di nuova figurazione, in “Almanacco letterario Bompiani”, Bompiani, Milano 1963.
156 C. Vivaldi, La giovane scuola di Roma, “Il Verri”, n. 12, 1963.
157 C. Vivaldi, Verso un realismo di massa, “Tempo presente”, gennaio 1963.

43
Antonio Bueno, Ermanno Migliori e Abe Nabya. Un altro nucleo tematico affrontato è la musica
e l’avanguardia, con l’intervento, fra gli altri, di Giuseppe Chiari.
Il secondo giorno vede la partecipazione di Eco, il quale sintetizza i suoi recenti studi di impronta
strutturalista e degli architetti Leonardo Ricci, Gianni Klaus Koenig e Paolo Portoghesi.
La sezione conclusiva del Convegno è dedicata a giovani artisti e poeti nel tentativo di legare le
riflessioni svolte durante la kermesse alle concrete sperimentazioni.
Per quanto le informazioni relative al Convegno siano molto sintetiche e lacunose, è importante
segnalare che lo stesso argomento sarà oggetto del XIV Convegno di Verucchio, di cui si dirà.
Nel giugno 1964, il Gruppo 70 organizza un secondo Convegno158, sempre ospitato negli spazi
fiorentini del Forte del Belvedere, dal tema “Arte e tecnologia”. In questo caso la ricostruzione
storica è resa possibile dalla consistente attenzione dedicata all’evento da parte della rivista
“Marcatrè”, che ha dedicato ampio spazio nella pubblicazione159 di febbraio 1965.
Il festival comprende, oltre al Convegno, un’esposizione dedicata a pittori impegnati in ricerche
vicine alla Pop Art, una serie di concerti-letture di poeti e musicisti sperimentali. La curatela della
parte artistica è affidata a Chiari, quella teorico-saggistica a Miccini e Pignotti.
Il centro del dibattito è riconosciuto nella complessità delle relazioni e delle funzioni fra arte e
industria.
I lavori sono suddivisi in alcune sezioni: una parte dedicata alle arti visive, una alla letteratura, una
alla musica e, infine, una lettura interdisciplinare fra i diversi linguaggi.
Innanzitutto gli artisti prendono le distanze dalle letture “apocalittiche” relative all’arte
tecnologica. Miccini 160 , inaugurando il Convegno, pone alla base del dibattito una prima
distinzione fra “linguaggi tecnici” e “linguaggi tecnologici”, i primi dei quali sono confinati in
impieghi specialistici, i secondi, invece, sono il tramite biunivoco fra la scienza e il senso comune,
e trovano la loro applicazione nella comunicazione di massa. L’incontro fra arte e comunicazione

158 Convegno nazionale di “Arte e Ideologia”, organizzato dal Gruppo Settanta sotto gli Auspici dell’Azienda

Autonoma di Turismo, Forte del Belvedere, Firenze, giugno 1964. Durante il convegno c’è stata una polemica
interna al Gruppo Settanta, di cui si riporta qui in nota per completezza, ma non strettamente riferita all’argomento
di questo studio. Un gruppo di artisti ha mosso alcune perplessità da, attraverso una lettera pubblicata sull’edizione
fiorentina de “Il Giornale del Mattino”, 29 giugno 1964: “Illustre signor direttore, i sottoscritti membri del Gruppo
70, libera e indipendente associazione intellettuale fra giovani artisti fiorentini delle diverse espressioni artistiche e
diverse tendenze, messi di fronte al fatto compiuto e cioè all’apertura dei lavori del Convegno al Forte del Belvedere,
intitolato “Arte e tecnologia”, che in qualche modo vuol richiamarsi a un precedente convegno tenuto l’anno passato
col concorso e l’appoggio di tutti: a) protestano contro il sistema anti-democratico e scorretto col quale questo
convegno è stato organizzato e strutturato; b) denunciano l’abuso perpetrato da una parte del gruppo al quale, senza
interpellare la maggioranza dei componenti […] ha indetto questo convegno diramando i relativi inviti di
partecipazione a nome di tutto il Gruppo 70; c) fanno presente la loro perplessità sul tema del convegno […]; d)
dichiarano la loro scarsa fiducia nella strutturazione di un convegno il quale, lungi dall’apparire terreno di vivo e
fecondo dibattito, si configura piuttosto come un giubileo di una determinata tendenza culturale, all’interno della
quale è stata scelta la gran parte dei relatori e di coloro che interverranno; e) deplorano l’assenza […] di scienziati e
tecnici, i quali, con la loro presenza, avrebbero dato a questa assise […] almeno una parvenza di reale
interdisciplinarità”.
159 Gruppo Settanta. Arte e tecnologia, in “Marcatrè”, n. 11/12/13, febbraio 1965, pp. 104-176.
160 E. Miccini, Trasformare i mass media in mass culture, 1964, in “Marcatrè”, n. 11/12/13, febbraio 1965, pp. 106-107.

44
appare necessario per evitare che l’arte perda il proprio posto nella scala dei valori della società,
sostituita all’immagine intesa come “segnale ottico”:
“All’istituto letterario non rimane che l’intelligenza col nemico, o perire”161.
Significativo il contributo di Pignotti162 dal titolo La suggestione di Gordon Flash. L’arte tecnologia si
distanzia dall’arte d’avanguardia di primo Novecento per le caratteristiche che la qualificano:
ovvero il rapporto diretto fra l’artista e la tecnologica, che si concretizza nell’impiego di linguaggi
tecnologici dell’interdisciplinarietà e la necessità di essere comunicata con i più potenti mezzi di
comunicazione e diffusione. L’arte tecnologia è arte di “massa”, realmente democratica.
“Proponiamo emblematicamente che la poesia venga trasmessa dagli altoparlanti degli stadi
nell’intervallo delle partite di campionato o che le mostre di pittura vengano trasferite lungo
le autostrade”.

L’artista agisce con intento autocritico e autoironico, cosciente del cambiamento che il mondo
mass mediatico comporta della nozione di “uomo” rinunciando, definitivamente e grazie alla
tecnologia stessa, a un’arte elitaria, ossia allargando il concetto di pubblico.
Non manca, ovviamente, il contributo di Dorfles163: ripartendo dalla distinzione fra tecnica e
tecnologia, anticipata da Miccini, egli sottolinea come l’errato uso delle tecniche, la perdita della
loro intenzionalità, possa condurre alla feticizzazione della tecnica stessa, considerando la
tecnologia come un fine e non come un mezzo. L’apporto della tecnologia ha cambiato il
concetto di arte, consentendo il suo ampliamento alla dimensione comunicativa e intersoggettiva.
Dorfles, sintetizzando il dibatto storico-critico svoltosi negli ultimi anni, schematizza le forme di
arte tecnologica in:
- l’arte programmata, ossia opere fondate su una progettualità tangente il disegno
industriale e seriali, ma prive di utilità, in cui il dato tecnologico interviene come aspetto
pragmatico e semantico;
- le poetiche d’oggetto, comprendenti le sperimentazioni Pop, Neo Dada e Nuoveau
Réalisme, le quali sono fortemente ancorate alla società mass mediatica e all’iconicità
meccanica.
L’attenzione di Dorfles è volta soprattutto a evidenziare i possibili limiti dell’arte tecnologica: la
feticizzazione della tecnica e dell’oggetto stesso e un’operatività effimera, falsamente mitizzata.
Il binomio “poetiche d’oggetto – ricerche gestaltiche” è oggetto di riflessione anche di Boatto164,
Menna165 e Montana166 i quali ribadiscono la matrice comune di questa duplice polarità, ovvero la

161 Ivi, p. 107.


162 L. Pignotti, La suggestione di Gordon Flash, 1964, in “Marcatrè”, n. 11/12/13, febbraio 1965, pp. 107-109.
163 G. Dorfles, Visualità tecnologica, 1964, in “Marcatrè”, n. 11/12/13, febbraio 1965, pp. 109-111.
164 A. Boatto, Due ipotesi di intervento, 1964, in “Marcatrè”, n. 11/12/13, febbraio 1965, pp. 119-120.
165 F. Menna, Contestazione della realtà, 1964, in “Marcatrè”, n. 11/12/13, febbraio 1965, pp. 121-122.
166 G. Montana, Un’operazione oppositiva, 1964, in “Marcatrè”, n. 11/12/13, febbraio 1965, pp. 122-123.

45
radice tecnologica, scongiurando un orientamento univoco, al fine di evitare ogni possibile
perdita di autonomia dell’arte.
L’approccio puramente teorico è presto interrotto da Chiari167 il quale, richiamando il parallelismo
di Ponente, proposto a Verucchio nel 1963, fra un’opera di Arman e una di Munari, riporta
l’attenzione sulle opere per dimostrare le affinità fra i diversi linguaggi oggetto della polemica.
L’esempio168 che propone affianca un’opera di Arman, Drogues (1962) a una di Chiggio, Bispazio
instabile (1962):
“Prima di tutto notiamo che non si tratta in definitiva né di due quadri, né di due sculture,
ma di due oggetti. Secondo si tratta di due contenitori, ci sono due piccole serie di oggetti e
l’azione pittorica vera e propria è limitata al differente colore degli elementi. Come azione
di colore, Arman e Chiggio sono limitati a dare un colore diverso all’acqua contenuta nelle
siringhe e un colore diverso alle palline, ma è evidente che il gioco di colore sia delle
siringhe che delle palline è assolutamente secondario. […] la similitudine e l’analogia precisa
fra le due strutture è fortissima e il gesto di distacco della pittura sul quadro […] è netto. E
si tratta di un gesto di distacco compiuto parallelamente”.

È significativo che sia proprio un artista a evidenziare, oltre l’analisi formale, la matrice comune
di due linguaggi fra di loro differenti, ma accomunati dalla volontà di superamento l’idea
tradizionale di pittura-scultura a favore di una contaminazione con la realtà.
Gli spunti qui sintetizzati sono oggetto di frequenti dibattiti nei giorni del Convegno e si
ampliano ad altri settori, come la letteratura e la musica.
La conclusione è affidata a Dorfles, il quale, sintetizzando i contenuti del Convegno, riconosce
l’anacronismo delle forme d’arte estranee al linguaggio tecnologico, cosciente della pluralità di
linguaggi e i rischi che il binomio arte-tecnologia possono comportare.

Il XIII Convegno di Verucchio, 1964


A distanza di pochi mesi, si apre il XIII Convegno169 di Verucchio con il medesimo titolo del
festival fiorentino, “Arte e tecnologia”. Di questo Convegno, presieduto da Argan, non sono mai
stati pubblicati gli atti per difficoltà economiche dell’organizzazione, ma si rintracciano le
relazioni di apertura e di chiusura sulle pagine della rivista “Metro”170 del 1964.
Riprendendo le fila della conclusione del Convegno di Verucchio del 1963, Argan apre la nuova
edizione riconoscendo il superamento dell’antitesi fra tecnologia e ideologia e la difficoltà dell’arte

167 G. Chiari, Un gesto di distacco, 1964, in “Marcatrè”, n. 11/12/13, febbraio 1965, pp. 124-125.
168 “Rimanendo invece alle opere, si possono notare alcune similitudini: per esempio un’opera di Arman consistente,
detto in breve, in questo: circa cinque o sei siringhe da iniezione contenute in una scatola trasparente, ognuna di
queste siringhe contiene un colore diverso; e un’altra opera del Gruppo Enne di Padova, che se non sbaglio è di
Chiggio, composta di due scatole, due contenitori comunicati per un foro. In uno di questi contenitori ci sono un
certo numero di palline, e il foro via via ne lascia passare una spostando l’ordine delle palline; ed anche qui le palline
sono di diverso colore e la combinazione di colori cambia”, ivi, p.124.
169 XIII Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, Rimini, Verucchio, San Marino 1964.
170 Un futuro tecnologico per l’arte? Le teorie di Argan e l’opinione di Metro, in “Metro”, n. 9, 1964, s. p.

46
di continuare a occupare il posto che la tradizione le aveva riservato nella gerarchia dei valori
sociali prima dello strapotere della tecnologia. L’analisi da svolgersi durante il Convegno si
propone di:
- indagare le possibilità della tecnocrazia di veicolare contenuti politici e, di conseguenza, la
futura funzione ideologica dell’arte;
- comprendere le possibilità di concreto superamento del concetto di “morte dell’arte”;
- valutare l’arte in rapporto ai cambiamenti dell’estetica, motivati dalla diffusione delle
immagini e della teoria dell’informazione, indagando le strade per il rinnovamento del
linguaggio artistico.
La relazione di conclusione non sintetizza lo sviluppo dei lavori ma riassume il pensiero di Argan,
comprendendo la molteplicità di riflessioni svolte negli ultimi anni, da Salvezza e Caduta a Progetto e
destino. L’Informale, sostiene Argan, è stato l’ultimo tentativo romantico di un’arte “non-
progettata” e in netta opposizione con l’avvento della tecnologia nella società. “Superare” la
tendenza informale ha voluto dire tentare nuove sperimentazioni, con il sostegno o meno della
progettazione e ridefinire i criteri di giudizio. Da un lato sono state concretizzate le ricerche
gestaltiche, fondate su un progetto; dall’altro le poetiche d’oggetto, prive di una progettualità. La
progettualità può essere un elemento di valore? – chiede Argan. Intendendo l’intenzionalità in
senso husserliano, essa è da considerarsi l’elemento distintivo dell’uomo contemporaneo e se la
progettualità è una forma di manifestazione dell’intenzionalità, essa rappresenta essenzialmente
un valore. Non solo, continua Argan, tale valore ha un portato ideologico e quindi veicola il
potenziale etico e sociale dell’arte nella contemporaneità. In questo possibile orizzonte socio-
culturale, l’azione individuale è fortemente minacciata dall’egemonia dei gruppi di potere e,
dunque, l’uomo deve difendersi attraverso la coesione delle proprie forze, anche in campo
artistico, ossia operando in gruppi. Soltanto l’introduzione dell’ideologia come intenzionalità nel
processo meccanico argina il rischio di alienazione dell’uomo e la sola progettualità intenzionale
di un futuro tecnologico dell’operare artistico riscatta l’arte dal pericolo della morte.
La rivista prende le distanze dalla posizione di Argan: pur riconoscendo il valore morale del
funzionalismo e del design industriale, Alfieri riporta l’attenzione sull’idea di arte come forma
espressiva non vincolabile a un ristretto background, ma svincolata da ogni funzione171.

Le vicende dei Convegni di Verucchio fra il 1959 e il 1964 restituiscono la tensione che abita il
mondo dell’arte nei primi anni Sessanta: un fermento vitale e irruento ha interessato i linguaggi

171“Noi crediamo, da molto tempo, nel funzionalismo e nel disegno industriale, nonché in tutte le implicazioni
morali e sociali di esso; d’altra parte riteniamo che l’arte sia invece dominio incontrastabile di una fantasia non
vincolabile se non attraverso l’influenza di un background visuale legato alla storia; anche se essa debba
eventualmente riflettere le preoccupazioni che dominano, spesso, il polo tecnologico […] Ma l’arte figurativa deve
svincolarsi da tesi di funzione e guardare all’individuo come il suo tema, alla sua tesi, fondamentale”, ibidem.

47
artistici, coinvolti in nuove sperimentazioni, e la critica, evidentemente condizionata dal
rinnovamento artistico e alle prese con tentate metodologie operative.
I retaggi della tradizione idealistico-crociana hanno rivelato la loro inadeguatezza, così come, per
altri versi, la lettura dogmatico-marxista ha dimostrato un’eccessiva rigidità e difficoltà di
adattamento alla società mass mediatica.
Nello specifico, fra il 1959 e il 1962, i Convegni sono stati luogo di confronto dominati dai critici,
registrando solo sporadicamente interventi di artisti, prediligendo, di conseguenza, la riflessione
teorica, slegata dai riferimenti alle opere e, per questo, talvolta poco cosciente dei reali
cambiamenti che l’arte stava vivendo. La ricorrenza del rapporto fra arte e scienza dimostra la
graduale ibridazione della storia e della critica d’arte, orientata verso un’interdisciplinarietà teorica
e pratica.
L’edizione del 1963 si è rivelata cruciale per due motivi: da un lato la presidenza di Argan,
dall’altro la polemica fra artisti e critici e fra i critici stessi. La figura di Argan, già centrale nel
panorama culturale nazionale, emerge nel Convegno con tutta la sua autorità sia per la capacità di
orientare il dibattito, sia per la lucida analisi della situazione attuale. La schematizzazione delle
tendenze contemporanee, apparsa prima sulle pagine de “Il Messaggero” e ribadita durante il
Convegno, si è rivelata eccessivamente semplificatoria, ma anche molto efficace per restituire le
peculiarità di ognuna delle ricerche recenti. Si può ipotizzare che proprio la “forzata” lettura di
Argan è stata lo stimolo necessario per innescare il confronto su più piani: l’opposizione artisti e
critici ha evidenziato il cambiamento sociale e culturale che entrambe le categorie stavano
vivendo, sempre più orfani di una posizione sociale riconosciuta e gradualmente indipendenti
l’uno dall’altro; così come la polemica sulle pagine dell’ “Avanti!” ha rivelato la disparità operativa
della critica istituzionale e di quella militante, inaugurando un’autonomia d’azione del singolo che
sarà evidente dopo il 1968.
Fra il 1963 e il 1964 la ricorrenza delle medesime tematiche nei Convegni fiorentini e verucchiesi
è sintomatica dell’urgenza riservata ad alcune problematicità, affrontate poi in maniera differente
nei due contesti. La kermesse del Gruppo 70 è stata proposta come un luogo di confronto e
sperimentazione interdisciplinare, mentre l’incontro presieduto da Argan ha mantenuto un tono
più istituzionale, fortemente condizionato dalla sua presenza: la centralità delle ricerche
gestaltiche, del rapporto arte-scienza fino al discorso conclusivo della XIII edizione anticipano i
contenuti del saggio Progetto e destino, pubblicato da Argan nel 1965.

48
Capitolo III | I Convegni: 1965-66

Il contesto storico-artistico
La ferrea convinzione di Argan di considerare l’arte programmata quale unica via di
rinnovamento dell’arte e di autonomia dal mercato, a scapito delle poetiche d’oggetto, si scontra
con l’approdo della Pop art alla Biennale di Venezia172 del 1964.
Mentre Milano aveva accolto le sperimentazioni cinetiche, Roma diviene lo scenario del dibattito
intorno alla Pop Art, a seguito dei privilegiati rapporti sviluppati negli anni Cinquanta fra la
capitale italiana e New York. Già nei primissimi anni Sessanta, infatti, le gallerie romane avevano
ospitato mostre esplicative di questa tendenza: la prima occasione espositiva rilevante era stata
alla galleria L’Appunto nel 1959, con 5 pittori romani173, ossia Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano,
Uncini; poi ancora insieme alla galleria Il Cancello174 di Bologna, presentati da Emilio Villa e alla
galleria La Salita175, introdotti da Pierre Restany. Negli anni successivi seguono altre mostre di cui
la più significativa è 13 pittori a Roma176 alla galleria La Tartaruga, la medesima galleria dove nel
1959 erano stati esposti per la prima volta i combine paintings di Rauschenberg e le prime personali
di Kounellis, Schifano, Angeli e Festa. I “tredici” sono: Angeli, Bignardi, Festa, Fioroni,
Kounellis, Mambor, Mauri, Novelli, Rotella, Tacchi, Perilli, Saul e Twombly; Uncini era stato
escluso poiché era l’unico a non essere pittore, Lo Savio era recentemente scomparso e Schifano
era già in contatto con Ileana Sonnabend e Leo Castelli, proiettato verso New York. Fra le opere
esposte compaiono le “pedine anonime”, ripetute con stampi sulla tela da Mambor e la finestra
serrata di Festa, lo schermo privo di proiezioni di Mauri e i giorni della settimana scritti sulla tela
da Kounellis: la mostra romana restituisce già la cifra tipicamente italiana del linguaggio pop, sia
nella scelta dei soggetti, sia nella conservazione di una manualità e artigianalità dell’operare
artistico.
Si è visto come la reazione “figurativa” all’Informale aveva tracciato strade diverse, dalla Nuova
Figurazione al Nouveau Réalisme, dal New Dada fino alle sperimentazioni dei giovani pittori
romani; generando reazioni critiche contrastanti. Edoardo Sanguineti 177 aveva ricondotto la
Nuova Figurazione all’ambito nucleare; Fagiolo Dell’Arco 178 in Rapporto 60 considera la

172 XXXII Biennale di Venezia. Esposizione Internazionale d’Arte, 20 giugno – 18 ottobre 1964.
173 Cinque pittori romani, L’Appunto, Roma, 1959.
174 Cinque pittori romani, Il Cancello, Bologna, aprile 1960.
175 5 pittori. Roma ’60, La Salita, Roma, novembre 1960.
176 13 pittori a Roma, La Tartaruga, Roma, febbraio 1963.
177 E. Sanguineti, Per una nuova figurazione, in “Il Verri”, 1963, n. 12, pp. 96-100.
178 M. Fagiolo Dell’Arco, Rapporto 60, Bulzoni, Roma 1966, p. 13. Si noti che questa pubblicazione è risultato di un

premio per la giovane critica, indetto nella fase di preparazione del XIV Convegno (1965) per un saggio di critica
d’arte sullo sviluppo dell’arte italiana negli ultimi cinque anni, compiuto da un critico di età inferiore a trenta anni. Il
premio è stato intestato al giovane critico Alvise Querel, morto tragicamente durante la sua prima missione di studi
in Messico. La commissione, composta da Giulio Carlo Argan, Rosario Assunto, Palma Bucarelli, Vittore Querel,

49
sperimentazione neo-figurativa “una corrente nata vecchia”, quasi un ritorno all’ordine sulle
ceneri dell’Informale. Dorfles179, particolarmente vicino alle sperimentazioni legate al mondo
della comunicazione di massa, individua i punti di contatto fra il New Dada di Rauschenberg e
Johns, i fumetti di Lichtenstein, le sperimentazioni ancora informali di Dubuffet e il nuclearismo
di Baj; mentre Argan180 riconosce le ricerche di Rauschenberg e Johns come derivazioni informali,
ma critica aspramente le opere Pop di Oldenburg, Dine, Lichtenstein e Segal. Sulla scia del
dissenso di Argan, Cesare Vivaldi 181 definisce la Pop Art un’esasperazione della pittura di
Rauschenberg e Johns, una “degenerazione accademica”, tralasciando qualsivoglia declinazione
italiana di tale linguaggio, per le scelte di soggetto e la lettura simbolica che caratterizza le opere
dei pittori italiani.
Con l’inaugurazione della XXXII Biennale d’arte, i giovani artisti romani trovano una
collocazione del panorama internazionale. La sottocommissione per le arti figurative è composta
dai critici Calvesi e Gnudi, dagli artisti Basaldella, Fontana, Minguzzi e da Dell’Acqua, segretario
generale di Biennale. Nella sezione “giovani” Calvesi presenta, tra gli altri, Angeli, Castellani,
Festa, Fioroni e Schifano, ma anche Alviani, Mari e i Gruppi N e T, raccolti nella sezione
“Gruppi di opere”, i quali, per difficoltà logistiche dello spazio messo a loro disposizione,
ottengono un risultato disastroso182.
I veri protagonisti dell’esposizione sono gli artisti pop americani: Rauschenberg, Johns, Dine,
Chamberlain, Oldenburg, Lichtenstein ai quali sono affiancati Noland, Stella, e Morris Louis. La
partecipazione americana è curata da Alan R. Solomon, direttore del Jewish Museum di New
York e molto legato al gallerista Leo Castelli. I premi internazionali sono assegnati a
Rauschenberg e a Kenemy, protagonista del padiglione Svizzero. Per l’Italia si aggiudicano i
riconoscimenti Andrea Cascella e Arnaldo Pomodoro: per la prima volta nella storia della
Biennale sono premiati due scultori.
Il successo dei combine-paintings di Rauschenberg, il mancato riconoscimento dei pittori italiani
legati alla matrice informale nonché l’approdo dei giovani artisti della Scuola di Piazza del Popolo
accendono un animato dibattito.

ferma la propria attenzione su tre scritti: Rapporto sulle arti negli anni 1960 di Maurizio Fagiolo; Appunti su alcune teorie
sviluppate all’interno del movimento di Nuova Tendenza 1959 – 1964 di Tommaso Massironi; L’evoluzione dell’arte in Italia e la
posizione degli artisti italiani nel quadro dell’arte internazionale degli ultimi cinque anni di Italo Tomassoni. Cfr. Atti del XIV
Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, Rimini, Verucchio, San Marino, 1965, p. 9.
179 G. Dorfles, I pericoli di una situazione, in “Il Verri”, 1963, n. 12, pp. 4-6.
180 G. C. Argan, Il banchetto della nausea, in “La botte e il violino”, n. 2, settembre 1964, pp. 3-8.
181 C. Vivaldi, La giovane scuola di Roma, in “Il Verri”, n. 12, 1963, pp. 103-105 “Il repertorio pop è assente dalle loro

tele e i soggetti che con tutta facilità vi si possono leggere non sono insegne stradali, bottiglie di Coca Cola, manifesti
pubblicitari, barattoli, etichette, giornali, personaggi dei “fumetti” […] bensì paesaggi, nudi, persone, oggetti, magari
simboli”, p. 104.
182 Cfr. N. Salvalaggio, La Biennale proibita. L’arte che prende a schiaffi, in “Il Giorno”, 27 giugno 1964; R. Pisu, Tutto è

perduto, anche il pudore, in “A.B.C.”, 28 giugno 1964; G. Ballo, Proposte nuove alla XXXII Biennale di Venezia, in “D’Ars
Agency”, 30 aprile – 20 giugno 1964, p. 37-39; M. Venturoli, Una panoramica della Biennale di Venezia, in “D’Ars
Agency”, 30 aprile – 20 giugno 1964, p. 41-51.

50
Un primo attacco parte, ancor prima dell’inaugurazione della mostra, dagli artisti “figurativi”,
esclusi dalla manifestazione, sostenuti dalle autorità istituzionali, tanto che il Presidente della
Repubblica On. Segni non presenzia, come di consuetudine, all’inaugurazione, delegando il suo
supporto a un telegramma. Una seconda ondata di dissenso è mossa dall’area cattolica: la Curia
veneziana vieta ai chierici, ai sacerdoti e alle religiose di visitare la Biennale e l’ “Osservatore
Romano” definisce i lavori pop quali “grotteschi rottami e cianfrusaglie da ripostiglio con
l’aggiunta di allusive, indecorose ostentazioni che offendono la sensibilità morale”183.
L’operato della giuria è bersaglio di critiche da parte di uomini di cultura, critici, galleristi e della
stampa popolare184. La netta presa di posizione è rincarata dalle parole con preciso valore politico,
scritte da Salomon a presentazione del Padiglione Americano: “ […] nel momento attuale, gli
europei si rendo conto […] della continuità e dell’influsso degli americani nelle arti, riconoscono
che il centro mondiale dell’arte si è spostato da Parigi a New York”185.
L’ “offensiva” della Pop Art - per dirla con le parole di Barilli 186 – non lascia ovviamente
indifferente Argan, il quale aveva già anticipato il suo disappunto nei confronti delle poetiche
d’oggetto sulle pagine de “Il Messaggero”. L’elemento di maggiore problematicità delle ricerche
pop, secondo Argan, non deriva dall’opposizione artigianato-industria, ma dal binomio industria-
capitalismo: “il progresso industriale seguita a svolgersi, ma condizionato, deviato dalla
sovrastruttura capitalistica”187. Mentre le tendenze gestaltiche si riferiscono all’industria come
libera impresa sociale, la Pop Art asseconda la produzione industriale come “strumento di potere
nelle mani di un’oligarchia capitalistica”188. È evidente come la questione non sia meramente
stilistica e limitata all’ambito dell’arte contemporanea, ma abbia una valenza politica. Il dibattito
critico si focalizza sulla considerazione della Pop Art come fenomeno esclusivamente
rappresentativo della società americana o anche come esperienza valida nel contesto europeo, alla
luce della forza comunicativa Pop tale da veicolare l’identità americana, come nessuna
manifestazione artistica era stata in grado di fare fino a quel momento. Ne consegue un’ulteriore

183 La ragione di Venezia, in “Osservatore Romano”, 25 giugno 1964, p. 1.


184 Solo a titolo di esempio si ricorda che sulla copertina dell’ “Europeo” del 19 luglio 1964 si legge Processo alla
Biennale; e ancora l’immediata reazione di Raffaele Carrieri sulle pagine di “Epoca”, con l’articolo intitolato “Ma noi
paghiamo per queste buffonate?”, 24 giugno 1964, p. 26-29; Cfr. Arte moltiplicata. L’immagine del Novecento italiano nello
specchio dei rotocalchi, a cura di B. Cinelli e F. Fergonzi, et alii, Milano 2013.
185 A. R. Salomon, testo di presentazione del Padiglione degli Stati Uniti d’America, catalogo della XXXII Biennale di

Venezia, Stamperia di Venezia 1964, p. 272.


186 R. Barilli, L’offensiva americana alla Biennale, in “Il Verri”, n. 14, aprile 1964, pp. 92-100;. “L’avvenimento che dà il

tono alla XXXII Biennale è senz’altro da ricercare nella partecipazione americana: tanto forte ed esuberante, da non
poter essere contenuta di cui gli Stati Uniti dispongono nell’area tradizionale dei Giardini, e da dover muovere alla
ricerca di una nuova sede; trovata questa, nelle sale dell’ex-consolato di quel paese, nei pressi della Salute. È la che
Rauschenberg e Johns sviluppano tutta la loro incontenibile energia, subito coadiuvati da Oldenburg e altri
comprimari. È la seconda ondata della pittura americana, dopo quella ormai canonizzata dell’action painting:
un’ondata, che come è giusto che avvenga in simili casi, ci sorprende alle spalle, da un punto dell’orizzonte da cui
non ci aspettavamo l’attacco”, p. 92.
187 Ibidem.
188 Ibidem.

51
analisi del fenomeno come celebrazione o come denuncia della civiltà di massa. Da un lato si
grida alla colonizzazione “americana”, dall’altra si accolgono le novità stilistiche come possibilità
di rinnovamento del panorama artistico europeo.
Questa è l’opinione di Calvesi, il quale ammette la possibilità di sperimentare l’arte di “reportage”
internazionale alla luce di una riflessione critica volta a riconoscere la radice del New Dada nelle
avanguardie storiche europee. Già nel dicembre 1963, infatti, Calvesi189 aveva pubblicato sulle
pagine di “Collage” un articolo intitolato Ricognizione e reportage in cui aveva analizzato le
somiglianze e le differenze fra le terminologie Neo Dada, Pop Art e Nouveau Réalisme,
giungendo a prediligere la dicitura “arte di reportage”. Indagando il Neo Dada, quale fase
introduttiva al linguaggio del “reportage”, ne riconosce la connessione con le sperimentazioni
informali, tracciando una connessione fra Rauschenberg, Burri e Schwitters, considerando
quest’ultimi i precedenti culturali che rendono possibili la sintesi di pittura d’azione e dadaismo
dell’artista americano. Se nell’Informale il rapporto con il mondo era violento, in termini di
scontro, con il Neo Dada è sdrammatizzato in una sorta di inventario o “ricognizione”, seppur
rimane sottotraccia il rapporto irrisolto con la realtà. La vera e propria “arte di reportage” supera i
dialogo privato artista-mondo a favore di una dimensione sociale, proprio come dimostrano le
opere di Dine, Oldenburg e Segal. Non manca l’enfatizzazione dei mezzi di comunicazione di
massa, i veri mediatori della realtà contemporanea, che si ritrovano nei fumetti di Lichtenstein. La
plurale relazione del “reportage” con i vari aspetti della società moderna, il paesaggio urbano, i
mezzi di trasporto, i mass media, conferisce un valore internazionale, oltre i confini americani,
seppur con peculiari declinazioni nazionali.
L’approccio antropologico è prediletto da Dorfles nei suoi scritti190 pubblicati all’indomani della
Biennale del 1964. Facendo riferimento all’accezione del termine “pop” elaborata da Reyner
Banham191, Dorfles considera la Pop Art non come “arte di massa” e “di consumo”. Per la prima
volta, i soggetti dell’arte visiva e, in senso lato della cultura, appaiono essere in comune fra cultura
“alta” e “bassa”, ossia rientrano nella medesima categoria di consumo e di comunicazione di
massa. Considerando Flag di Johns, Dorfles evidenzia la capacità del linguaggio pop di proporre i
propri soggetti come nuove icone della civiltà contemporanea: la bandiera, emblema della
nazione, dipinta a mano, ma differenziata da ogni tentativo di resa naturalistica, assume un valore
comunicativo più forte rispetto all’oggetto reale. Gli oggetti che appartengono alla vita quotidiana

189 M. Calvesi, Ricognizione e reportage, in “Collage”, n. 1, dicembre 1963, poi in M. Calvesi, Le due avanguardie. Dal

futurismo alla pop art, Lerici editore, Roma 1965, pp. 300-313.
190 G. Dorfles in La Biennale, Curcio Editore, Roma 1965 e G. Dorfles, Nuovi riti, nuovi miti, Einaudi, Torino 1965, pp.

182 – 206.
191 R. Banham, critico d’architettura inglese, si è occupato del problema della Pop Art in rapporto al disegno

industriale. Lo studioso ha considerato l’oggetto prodotto industrialmente per il consumo di massa come equivalente
della Pop Art e cioè come alcunché di non precisamente artistico, ma avente della caratteristiche di utilità ed
edonismo che lo rendono particolarmente appetibile per il consumatore medio.

52
sono offerti all’osservatore sotto una lente di ingrandimento che, esasperandone alcuni aspetti
visivi, ne enfatizza la fruibilità. Ciò modifica il rapporto opera-pubblico il quale non si basa più su
schemi di giudizio tradizionali, ossia sulla valutazione tecnica della pittura o sulla componente
emotiva, quanto sulla possibilità di “consumo” dell’immagine stessa.
L’arte è privata dalla propria aspirazione all’eternità, a favore di una dimensione transitoria, la
medesima che caratterizza gli oggetti quotidiani.
È condivisa dalla critica, inoltre, l’opinione circa l’impossibilità di interpretare il termine
“popular” come “popolare” ossia, democraticamente “di tutti”, sulla scia del saggio di Leslie
Fiedler192 in cui la locuzione “pop art” non identificava ancora la tendenza pittorica.
Questo aspetto è oggetto di un’inchiesta della rivista “Metro” 193 , proprio all’indomani del
Convegno di Verucchio del 1964. Introdotto dall’efficace titolo, “Pop” uguale “Non Popolare”,
Bruno Alfieri, direttore della rivista, sottolinea come il carattere “pop”, prima di essere una scelta
stilistica, sia una caratteristica della società contemporanea. La trasformazione sociale ha condotto
a un cambiamento dell’arte e delle categorie di comprensione, ma non per questo si è giunti alla
democratizzazione del linguaggio artistico: “I fumetti pittura di Roy Lichetenstein non
interessano i lettori dei fumetti veri di Flash Gordon, Mandrake o L’Uomo mascherato”194,
specifica Alfieri. In altri termini, l’arte continua a rimanere un fenomeno di élite, anche se ha
soggetti pop; ciò che è rivoluzionario è la compenetrazione con i mezzi di comunicazione di
massa e il conseguente graduale sdoppiamento del lessico dell’arte in due livelli, uno d’élite e uno
“borghese”. Non appare più necessario avere una determinata condizione intellettuale per captare
il messaggio, per lo meno a un primo livello di comunicazione, il quale, sorprendentemente, è
sufficiente per suscitare un rapido consenso e una altrettanto immediata fruizione, altrimenti
chiamata “consumo”195.

Il XIV Convegno di Verucchio - Arte e comunicazione, 1965


Le vicende conseguenti l’affermazione della Pop art, rendono centro nevralgico dell’attenzione
della critica i rapporti fra arte e comunicazione di massa e tale è il tema della XIV edizione del
Convegno196 di Verucchio, nel 1965. La presidenza è nuovamente affidata ad Argan e sono
coinvolti, anche in questa edizione, artisti e critici di fama internazionale.

192 L. A. Fiedler, The Middle against both End, in “Encounter”, agosto 1955, pp. 16-23.
193 B. Alfieri, La situazione dell’arte. “Pop” uguale “Non Popolare” e L’avvenire dell’arte. Una nuova dimensione operativa, in
“Metro”, n. 9, 1964, s.p.
194 Cfr. G. Dorfles, La pop-art dell’élite artistica, in Nuovi riti, nuovi miti, cit, pp. 186-189.
195 Cfr. G. Dorfles, Le oscillazioni del gusto, Einaudi, Torino 1958, e J. McHale, The Expandable Icon, in “Architectual

Design”, marzo 1961, ripreso da Dorfles in Nuovi riti, nuovi miti, cit, p. 183.
196 XV Convegno internazionale di artisti, studiosi e critici d’arte, Rimini-Verucchio-San Marino-Ferrara, 16-19 settembre

1966.

53
Nella relazione introduttiva Argan evidenzia l’attualità dell’argomento prescelto alla luce della
crescente importanza della comunicazione nella società contemporanea e, al contempo, del
carattere attivo assunto dall’informazione, non intesa più solo come mezzo, ma come produttrice
di significato attraverso la pubblicità. Le problematicità suggerite da Argan sono focalizzate
sull’idea di una “comunicazione estetica”, da intendersi come una modalità comunicativa
privilegiata. Nella società contemporanea la comunicazione estetica è minacciata perché i canali
d’informazione sono più produttivi e più invadenti rispetto al passato e conducono l’uomo a
“consumare” le informazioni senza dubitare di esse, ossia agendo a un livello inconscio tramite
immagini, le quali sostituiscono progressivamente la centralità del pensiero teorico.
Argan suggerisce ai presenti spunti di riflessione: la comunicazione a livello estetico può avere un
posto nel sistema delle informazioni contemporanee? In che direzione? A livello linguistico, il
condizionamento dell’arte operato dai processi scientifici e tecnologici, quanto può condizionare
l’esperienza estetica? Esiterà ancora una comunicazione a livello estetico?
Fin dalle prime risposte, si intravede un nucleo tematico principale volto a indagare le possibilità
di comunicazione della arti visive nella società contemporanea e alcune riflessioni circa la
distinzione e la relazione fra comunicazione reale e comunicazione estetica nonché i rapporti fra
arte e ricerca scientifica.
Le argomentazioni in merito alle differenze fra la comunicazione reale e la comunicazione
estetica sono svolte principalmente da studiosi della comunicazione. Gillo Dorfles articola le sue
riflessioni a partire da una novella di Andersen nella quale una principessa si rivela di sangue reale
superando una prova di sensibilità, ossia riconoscendo l’esistenza di un pisello sotto otto
materassi su cui giaceva: “ […] ai nostri giorni – commenta Dorfles - la principessa non potrebbe
più avvertire con la sua delicatissima epidermide la presenza del pisello perché i materassi che si
usano oggi sono di Permaflex.”197 Il tono ironico con cui Dorfles interviene è straordinariamente
efficace per indicare come il cambiamento della realtà coincida con una mutazione della
sensibilità. Ciò è più che mai vero nel mondo dell’arte nel quale l’applicazione di tecnologie e la
produttività in serie hanno minato il concetto di unicità dell’opera d’arte, rendendo evidente la
rispondenza del linguaggio artistico alle esigenze storiche. In un’epoca in cui l’opera viene a
contatto con una pluralità di persone attraverso i mezzi di comunicazione di massa è necessario
che la meccanizzazione rientri anche nei procedimenti produttivi. Come è noto lo studioso
dedica, negli stessi anni, ampi studi al design industriale e considera l’inserimento dell’elemento
meccanico nelle opere d’arte un arricchimento in grado di accrescerne le potenzialità, superando
la presunta “incomunicabilità” dell’arte contemporanea. Mentre Dorfles legittima l’esistenza di
una comunicazione estetica come inevitabile evoluzione linguistica dell’arte nella

197 G. Dorfles, XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, 1965, p. 13.

54
contemporaneità, Assunto riporta l’analisi sul riconoscimento del valore artistico. Da un lato ogni
comunicazione può essere potenzialmente “estetica”, dall’altro si riconosce un distacco fra la
comunicazione ordinaria e quella estetica la quale risponde a un preciso piacere sensibile e
intellettuale del ricevente e del mittente. Più legato alla grammatica della comunicazione,
l’intervento di Emilio Garroni 198 , filosofo, assistente di Ugo Spirito alla Sapienza, attivo
nell’ambito dell’arte contemporanea e autore del saggio La crisi semantica della arti199, nel quale ha
evidenziato la problematicità dell’identificazione della semantica dell’opera con un’unica forma, a
partire dalla coscienza della pluralità del linguaggio artistico. Ponendo alla base della propria
riflessione la comunicazione quale processo di trasmissione di un messaggio fra un mittente e un
ricevente secondo delle regole precise, Garroni sottolinea la natura comunicativa di qualsiasi
sperimentazione artistica, a prescindere da peculiarità stilistiche e formali. Premettendo, inoltre,
che ogni sistema di segni deriva da un atto di invenzione, ciò che caratterizza la comunicazione
estetica è la frequenza di rinnovamento linguistico e costituisce la condizione normale e
permanente per lo sviluppo dell’arte. Questo aspetto, evidentemente, richiede un consistente
sforzo di produzione al mittente e di comprensione al ricevente. Il riconoscimento dell’arte quale
forma comunicativa, di per sé non aggiunge elementi utili per definire la comunicazione estetica;
bisogna dunque chiedersi se la comunicazione artistica può coincidere con la comunicazione
reale, ossia se può essere un discorso segnico, comunicativo-referenziale, oppure no.
Concretamente, la prima alternativa corrisponde all’arte “di reportage”, mentre la seconda
rimanda al problema dalla “morte dell’arte”. La comunicazione referenziale si compie quando
non si pone particolare attenzione alla scelta delle parole, ma si bada a restituire una narrazione
sommaria: in questi casi accade di veicolare non un significato determinato, ma una classe di
significati, tutti equivalenti anche se non equiparabili a livello di intenzionalità. Ne consegue che è
proprio l’intenzionalità a qualificare la comunicazione e, nell’ambito dell’arte, a coniugare
l’aspetto comunicativo con la specificità artistica. A questo punto, Garroni individua quali
possono essere i compiti del critico e dello studioso: innanzitutto è necessario che l’intenzionalità
linguistica che qualifica la comunicazione sia riconosciuta e, in qualche modo, istituzionalizzata,
senza che la mediazione del critico ne condizioni l’espressione, ma in modo che possa condurre
un’analisi critica. In secondo luogo è importante collegare la componente di artisticità a un
sistema di comunicazione più ampio, ossia preservare la funzione comunicativa. In altre parole,
conclude Garroni “non basta inserire un pezzo di realtà nell’opera d’arte, non basta trasferire in
un contesto chiuso o estrapolare strutture funzionali o gestaltiche, non basta progettare con meri

198E. Garroni, Arte e comunicazione, in XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, 1965, pp. 100-106.
199E. Garroni, La crisi semantica delle arti, Officina edizioni, Roma 1964. Il saggio pone al centro dell’analisi e della
metodologia strutturale la nozione di semanticità, studiando l’opera d’arte in connessione con l’intera realtà della
storia dell’uomo. Semanticità, infatti, non significa solo significatività, ma anche presenza in un contesto segnico
comunicativo dell’intenzionalità che l’ha posta in essere.

55
criteri tecnologici e sociologici” 200 ; è necessario ricercare un’organicità interna all’opera fra
intenzione e comunicazione.
La problematicità dell’aspetto semantico è oggetto di attenzione anche da parte di Gatt201, ma
analizzato dal punto di vista del critico d’arte e non del filosofo. Secondo Gatt le arti figurative
sono caratterizzate da un tipo di semantica “a posteriori”, cioè non preesistente la qualità
dell’immagine, bensì riscontrabile nei rapporti fra poetica - opera - critica, richiamando alla mente
le disquisizioni sul concetto di poetica svolte nel Convegno del 1963. La questione della
comunicazione non è più primaria, come riconosciuta da Garroni, ma diviene conseguente la
semanticità: un’opera è tanto più comunicativa, quanto maggiore è il suo grado di “traducibilità”
in un linguaggio critico. Questo pensiero si scontra, inevitabilmente, con la realtà fenomenica
delle sperimentazioni artistiche più recenti, ossia caratterizzate da un’idea di spazio e di tempo
proprio, in rapporto dialettico con la realtà e connotate da una semanticità autonoma. Il punto di
intersezione fra la traducibilità e la realtà fenomenica dell’opera avviene, secondo Gatt, solo nelle
ricerche gestaltiche, dove è possibile leggere un parallelismo fra le coordinate spazio temporali
dell’opera e quelle della realtà che, di conseguenza, si concretizzano nell’esistenza di una
progettualità dell’operare artistico.
Con l’intervento di Gatt si riporta l’attenzione al tema principale: la possibilità di comunicazione
delle arti visive. A differenza delle precedenti edizioni del Convegno, per quanto siano presenti
principalmente artisti vicini alle sperimentazioni gestaltiche, le argomentazioni dei critici superano
la lettura dialettica fra ricerche gestaltiche e arte di reportage, a favore di un’analisi delle criticità
comuni. In tale direzione, Tomassoni202 riconosce le specificità comunicative dei due linguaggi: la
Pop Art avvia una comunicazione di tipo contenutistico, nel senso che le forme che predilige
sono i media per comunicare un messaggio; i linguaggi strutturalisti, invece, si fondano
sull’evidenza della tecnica. Come avviene la comunicazione? Il reciproco condizionamento fra
società e struttura dell’opera agisce in concordanza i valori condivisi: i fumetti di Lichtenstein o i
macro oggetti di Oldenburg svelano i valori strutturali della società americana, la quale si è
configurata come società dei consumi; le ricerche degli strutturalisti Geiger e Mack si rivelano
come integrati in una società di ricostruzione e produzione. Ciò dimostra la variabilità del
condizionamento storico, ma al contempo evidenzia la potenzialità di guida del linguaggio
artistico, previa l’intenzionalità dell’artista. Ritorna ancora il concetto di intenzionalità, in questo
caso, volto a ottenere un reciproco condizionamento fra la realtà artistica e la realtà extrartistica,
ossia di usare il linguaggio artistico come mezzo di condizionamento. Portando alle estreme
conseguenze questo pensiero, Tomassoni suggerisce l’idea di una programmazione culturale per

200 E. Garroni, Arte e comunicazione, cit., p. 106.


201 G. Gatt, in XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, cit., pp. 21-23.
202 I. Tomassoni, in XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, cit., pp. 24-26.

56
designare il ruolo sociale dell’arte, declinando, quindi, la componente comunicativa in una
direzione socio-politica. Anche secondo Aguileira Cerni203 le possibilità comunicative delle arti
visive sono indirizzate all’identificazione del ruolo sociale dell’arte. Ponendo in relazione gli
aspetti della grammatica artistica, ossia la forma, l’immagine e un contenuto comunicativo con gli
aspetti connotativi della società contemporanea, ossia la tecnica, la massa e il consumo, ne
evidenzia i cambiamenti. Innanzitutto la proliferazione di ricerche strutturali caratterizzate da un
pensiero logico, l’adesione a forme basiche e la funzionalità; in secondo luogo la predominanza
dell’immagine anche al di fuori del sistema artistico tale da rendere l’immagine stessa uno
strumento funzionale, al servizio della società; in ultima istanza la necessità dell’arte di contrastare
la forza dei mezzi di comunicazione di massa, il che è reso possibile dalle tecniche di persuasione
adoperate. In altre parole, se il ruolo dell’arte è stato schiacciato dalla pseudo-cultura tecnificata,
massificata e succube del consumo, è necessario trovare un’assiologia valida, in accordo con le
nuove realtà; se qualsiasi attività umana produce comunicazione, la potenzialità comunicativa
dell’arte dipenderà dal suo impegno con il reale, al fine di mantenere il ruolo pilota dell’arte nella
gerarchia dei valori.
Alla luce di quanto detto, il ruolo sociale dell’arte si rivela vincolato alla capacità comunicativa
dell’arte stessa, ossia alla componente intersoggettiva, la quale, a sua volta, trova le sue radici nella
componente semantica del linguaggio. Secondo Pietro Raffa204 le difficoltà comunicative dell’arte
contemporanea non sono imputabili agli artisti, ma alla crisi del ruolo dell’arte nella società
contemporanea. Il rapido consumo, la perdita del ruolo illustrativo dell’arte, la progressiva
specializzazione e scientifizzazione dei linguaggi ha condotto l’arte a maturare un eccesso di
cerebralismo, al quale è imputabile lo sfasamento del rapporto semantico: l’arte più recente è
appannaggio di una élite esperta e il discorso critico si riduce a un dibatto teorico sulle poetiche,
dissociandosi dall’opera. L’unica comunicazione di cui l’arte sembra essere capace è assuefatta ai
modi mass-mediatici, con l’evidente rischio, già anticipato da Argan e riconfermato da Raffa, di
cadere nella demagogia culturale.
Il contributo degli artisti in questa edizione del Convegno è meno consistente e problematico
rispetto alle precedenti. Fra gli altri, sono presenti gli esponenti del Gruppo 70 e alcuni
rappresentati delle ricerche strutturaliste. Il Gruppo 70 richiama l’attenzione sulla semanticità,
ripartendo dalle considerazioni svolte durante il Convegno205 al Forte del Belvedere, tenutosi a

203 V. Aguilera Cerni, Sulle possibilità di comunicazioni delle arti visive nelle società attuali, in XIV Convegno internazionale artisti,
critici e studiosi d’arte, cit., pp. 107-114.
204 P. Raffa, Tre difficoltà della comunicazione artistica oggi, in XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, cit., pp.

97-100.
205 Convegno nazionale di “Arte e Comunicazione”, organizzato dal Gruppo Settanta sotto gli Auspici dell’Azienda

Autonoma di Turismo, Forte del Belvedere, Firenze, 24- 26 maggio 1963.

57
Firenze nel 1963, dedicato proprio all’arte e alla comunicazione. Miccini206 e Bueno207 insistono
sulla necessità di riparare la frattura fra pubblico e arte imposta dalla società capitalistica, orientata
al consumo delle immagini fine a se stesso, ribadendo la dimensione intersoggettiva; Pignotti208,
invece, propone non più un rapporto “arte e comunicazione”, ma “arte come comunicazione”,
concretizzato nell’interdisciplinarietà. Le considerazioni sviluppate dagli artisti vicini alle ricerche
gestaltiche si inseriscono, invece, nel nucleo tematico dedicato ai rapporti arte e tecnologia e
all’analisi scientifica della comunicazione. Nella seconda giornata di lavori, infatti, sono presenti
contributi che indagano le possibilità di simulazioni della pratica pittorica (Molnar 209 ), le
210
peculiarità dei procedimenti meccanici (Genovese ), nonché la comunicazione come
procedimento scientifico (Pages 211 , Ceccato 212 e Flarer 213 ). Getulio Alviani 214 , esponente del
Gruppo T, interviene leggendo uno schema del procedimento comunicativo, mentre il Gruppo
1215 analizza gli elementi costitutivi dell’opera, quali lo spazio, la geometria e le strutture unite in
un processo dinamico e collettivo che coincide con l’operatività artistica . In questa direzione si
inserisce anche il contributo di Apollonio216, ormai critico di riferimento delle ricerche gestaltiche,
il quale ribadisce la concretizzazione della produttività dell’artista in una realtà inaugurale, una
dimensione altra che non può essere meramente assimilata alle immagini impiegate dalla
comunicazione e dall’informazione. Non c’è dubbio che l’arte abbia una componente
comunicativa, ma ciò non avviene nel senso di veicolare informazioni, segnali o simboli, bensì
nella proposta di una nuova realtà accreditabile, in sintonia con la realtà attuale.
L’arte di reportage resta in parte in ombra nella maggior parte delle comunicazioni, ad eccezione
dell’intervento di Calvesi217, intitolato Marinetti, Rauschenberg e la comunicazione, nel quale mostra le
connessioni fra la volontà comunicativa futurista e la comunicazione “orizzontale” di
Rauschenberg. Il bisogno orizzontale di comunicare è conseguente alla volontà di superare i

206 E. Miccini, Arte e comunicazione, in XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, cit., pp. 57-58.
207 A. Bueno in XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, cit., pp. 56-57.
208 L. Pignotti, Arte e comunicazione, in in XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, cit., pp. 58-59.
209 F. Molnar, Le probleme du temps dans l’art plastique experimental, in XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi

d’arte, cit., pp. 39-40


210 C. Genovese, Attività grafica e comunicazione, in XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, cit., pp. 67-70.
211 Pages, Processus psycho-sociaux dans la création artistique, in XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, cit.,

pp. 38-39 e 74-75.


212 S. Ceccato, La comunicazione: via linguistica, via d’osservazione, via estetica, in XIV Convegno internazionale artisti, critici e

studiosi d’arte, cit., pp. 80-81.


213 F. Flarer, in XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, cit., pp. 37-38.
214 G. Alviani, Comunicazione, in XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, cit., p. 76.
215 Carrino, Frascà, Uncini - Gruppo 1, Spazio, geometria, strutture e collaborazione, in XIV Convegno internazionale artisti,

critici e studiosi d’arte, cit., pp. 76-77.


216 U. Apollonio, Arte, comunicazione, lettura, giudizio, in XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, cit., pp.

114-120. Cfr. U. Apollonio, Ricerche di strutturazione dinamica della percezione visiva, in “Civiltà delle Macchine”, n. 4,
luglio-agosto 1964; U. Apollonio, Nuova Tendenza, in “Evento”, n. 17-18, settembre 1964.
217 M. Calvesi, Marinetti, Rauschenberg e la comunicazione, in XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, cit., pp.

29-31.

58
confini spazio temporali; per cui l’arte di reportage non è mera conseguenza di una moda, ma la
risposta a un bisogno psicologico dell’uomo di superare i limiti della realtà.
Alla luce di quanto detto, prima di riportare l’intervento conclusivo svolto da Argan, si noti come
il tema proposto è stato affrontato dai vari congressisti da punti di vista differenti, qui selezionati
secondo le principali peculiarità tematiche, ma è evidente la mancanza di una discussione
coordinata sulle singole proposte, ossia da un lato il concetto della comunicazione estetica e
dall’altro il rapporto fra arte, comunicazione e ricerca scientifica. Gli interventi sono apparsi
carichi di spunti di riflessione, ma fra di loro molto frammentati. Neanche la relazione conclusiva
di Argan218 fornisce una visione d’insieme; al punto che più che congedare i lavori del XIV
Convegno, assume i caratteri dell’introduzione al Convegno successivo. Ripercorrendo
sommariamente lo svolgimento delle discussioni, Argan orienta i due macro filoni, ossia il
rapporto arte-comunicazione e arte-ricerche scientifiche, verso un punto di convergenza, per cui
considera inevitabile parlare di comunicazione se non in termini scientifici, pur ammettendo il
rischio di carenza della sensibilità a causa dell’ingerenza della scienza nei procedimenti artistici,
portata all’attenzione da Raffa durante il Convegno. Ricondurre l’arte alla comunicazione da un
lato, oppure, dall’altro, ricondurla ai procedimenti scientifici, significa, in ogni caso, mettere in
discussione la storicità dell’arte. La più recente idea di storicità dell’arte, continua Argan, è
derivata dalla sociologia marxista, ma la società contemporanea sembra imporre un superamento
del rapporto deterministico fra arte e società storica. In altri termini, l’attualità richiede il
superamento dei concetti di una società come struttura di classi e la soggettivazione dell’arte a
una classe piuttosto che a un’altra. Ciò conduce a due conseguenze: la considerazione dell’attività
artistica come limitata a un settore e la definizione delle categorie valoriali da parte di una sola
classe sociale, la quale si imporrebbe come guida. La questione, quindi, è circoscritta nel concetto
di socialità dell’arte e comprende il tema della comunicazione di massa poiché il fatto estetico si
propone nella società come una comunicazione diretta a un ricevente illimitato.
Secondo Argan, il limite di queste discussioni risiede nella valutazione della società come
un’entità astratta, le cui problematicità sono riversate nell’aspirazione a una società ideale: in altre
parole, se si parla di socialità dell’arte e di comunicazione illimitata del fatto artistico, la questione
non è più riconducibile al rapporto arte-comunicazione o arte-scienza, bensì all’ipotesi di
esistenza e alla definizione di un’ “arte popolare moderna”. Il concetto di “arte popolare
moderna” non è da intendersi come folklore o come creatività popolare, quanto più come una
conseguenza della trasformazione delle classi sociali e dei modi di produzione, per cui le classi
prima impegnate nell’artigianato e ora coinvolte nei procedimenti industriali sono prive di
un’espressione di carattere artistico. Argan suggerisce alcuni spunti di riflessione: il design

218 G. C. Argan, Relazione conclusiva, in XIV Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, cit., pp. 50-53.

59
industriale, l’urbanistica, l’architettura sono i campi di partenza poiché l’obiettivo non deve essere
saggiare il gusto estetico di queste classi, ma comprendere come, nell’ambito del loro lavoro,
possano rintracciare un’iniziativa e una costruzione estetica. È evidente la centralità
dell’urbanistica, cioè la determinazione concreta dell’ambiente, dello spazio in cui la vita si svolge,
il quale comprende l’architettura. Di primaria rilevanza è, inoltre, la questione del design
industriale in quanto sintesi della matrice artistica e della tecnica industriale. L’analisi critica di
questi campi, sostiene Argan, dovrà coinvolgere architetti ed etnologi, oltre ai critici e agli
scienziati.
Il XIV Convegno di Verucchio si conclude, quindi, con la proposta di Argan e la sua personale
convinzione che affrontare il tema dell’Arte popolare moderna sia il corollario del discorso
sull’arte e sulla comunicazione, nonché un modo per occuparsi nella concretezza della situazione
artistica contemporanea, richiamando la critica a un impegno analitico concreto.

Il XV Convegno di Verucchio - Arte Popolare moderna, 1966


Il suggerimento di Argan è accolto: il Convegno del 1966 ha come tema l’Arte popolare moderna.
Per la prima volta, gli atti sono raccolti in una pubblicazione 219 edita da Cappelli Editore,
inaugurando una collana intitolata Gli incontri di Verucchio, diretta da Argan stesso.
In apertura dei lavori, Argan, ancora presidente della manifestazione, ribadisce le motivazioni
della scelta del tema, rinnovando i legami con l’edizione precedente, la capacità comunicativa
dell’arte e l’idea di arte stessa come comunicazione. La domanda a cui si era giunti era: l’arte
moderna è o può essere, totalmente o in parte, arte popolare? Da questa questione ne derivano
necessariamente altre due: da un lato la potenzialità della cultura di massa di divenire una forma
di cultura popolare e, dall’altro, che cosa si intenda con “arte popolare moderna”, come possa
manifestarsi nella società, distinguendo questo concetto dall’ “arte di massa”. Argan ribadisce
l’attualità del tema, non tanto a seguito dell’affermazione della società industriale e mass-
mediatica, quanto per le potenzialità culturali che sono veicolate dalla classe popolare le quali
possono rivelarsi utili per il rinnovamento dell’arte stessa.
Il primo nucleo tematico è affidato a Alberto M. Cirese220, professore di etnologia, chiamato a
definire il concetto di “arte popolare”. La nozione di “arte popolare” implica in se stessa
l’opposizione a una dimensione “colta”, “aristocratica”, di derivazione romantica ovvero quando
la nozione di arte è stata dissociata dall’ambito popolare, retaggio ancora presente nella cultura
attuale. Questa contrapposizione introduce un equivoco valutativo in quanto l’arte “popolare”,
altrimenti detta “spontanea” o “folkloristica”; finisce per avere un valore inferiore rispetto all’arte

219 Arte popolare moderna, a cura di F. R. Fratini, Gli incontri di Verucchio, Cappelli editore, Bologna 1968.
220 A. M. Cirese, Per una nozione scientifica di arte popolare, in Arte popolare moderna, cit., pp. 11-21.

60
“colta”. La questione ha radici lontane: già dieci anni prima Bernard Berenson221 aveva pubblicato
un articolo su “Il Corriere della Sera” in cui riconosceva come carattere dell’arte popolare la
copiosità da opere classiche, modelli poi degradati dalle ripetute copie fino a divenire espressione
delle masse; quasi contemporaneamente Lionello Venturi222 si dichiarava affascinato dalle “forme
inattese” e dall’ingenuità che caratterizzano le opere d’arte popolare. Per uscire dall’opposizione,
il suggerimento di Cirese è di abbandonare l’intento valutativo ed esercitarsi in uno sforzo di
intelligenza storica, considerando la pluralità di livelli che compongono la cultura, coscienti che i
prodotti culturali non sono patrimonio esclusivo di un’epoca storica o di una classe sociale, ma
riguardano l’umanità nella sua totalità temporale e sociale. L’analisi dovrebbe essere condotta
dall’interno della società, non dall’esterno, perché altrimenti la percezione continuerebbe a
dialogare secondo il binomio originale-copia. In senso storico, l’arte “popolare” non si qualifica
come invenzione, ma come ripetizione consapevole, radicata in una tradizione. Nell’attualità,
conclude Cirese, il concetto di “arte popolare” deve tener conto dell’idea di “popolo” che è
fortemente eterogenea, sia a livello economico, sia a livello culturale. La contrapposizione “arte
popolare” e “arte di massa” è rischiosa su due fronti: da un lato implica il concetto di “qualità
estetica”, restando legato agli schemi forniti dalla società di massa; dall’altro ipotizza un corpo
culturalmente omogeneo che nulla ha a che fare con la realtà formata, invece, da una pluralità
culturale. Ne deriva che la questione dell’ “arte popolare” deve essere ripensata affrontando la
problematicità del concetto di “popolo”.
Il tema è avvicinato all’arte moderna da Argan223 il quale ammette l’ambiguità della definizione
“arte popolare”224, allontanandola dal folklore e dall’idea di artista come homo ludens contrapposto
all’homo faber, ma anche dall’ornato, inteso come produzione artigianale decorativa. Le idee
intorno all’ “arte popolare”, inoltre, condurrebbero a considerarla disinteressata dalle leggi
economiche, ma ciò non è più vero nella società attuale industrializzata. La parola “popolare”
comprendere la classe operaia, a sua volta costituita da produttori e consumatori, ossia tutti
coloro i quali interagiscono con la produzione industriale, che dall’essere borghese, ora coinvolge
altre classi attraverso il lavoro, da un lato, e la persuasione pubblicitaria dall’altro. Ne deriva la
difficoltà di chiarire l’equivalenza fra “popolare” e “borghese”. Parallelamente, il divario fra arte e
mimesi ha saldato l’arte alla tecnologia, mettendo in crisi la separazione fra ideatori e produttori,
come hanno storicamente dimostrato l’esperienza del Werkbund prima e del Bauhaus poi. A
questo punto possono esistere solo due strade: l’impegno diretto di tutto il popolo nella
221 B. Berenson, in “Il Corriere della sera”, 22 marzo 1956, citato da Cirese durante il Convegno.
222 L. Venturi, in “L’Espresso”, 25 aprile 1856, citato da Cirese durante il Convegno.
223 G. C. Argan, Arte moderna come arte popolare, in Arte popolare moderna, cit., pp. 23-33.
224 “Non voglio, per il momento, propormi di definire che cosa sia “arte popolare”, ma piuttosto che cosa sia “arte

non popolare”. Non credo si possa rispondere a questa domanda dicendo: arte popolare è quella cosa che capiscono
tutti, arte popolare è quella che il popolo capisce immediatamente; e non lo credo perché il puro atto di percezione
ed anche di accettazione non è ancora sufficiente a definire un atteggiamento attivo”, G. C. Argan, ivi, p. 23.

61
produzione artistica, come avveniva nel Medioevo, oppure il design industriale. Essendo la prima
ipotesi evidentemente anacronistica, la figura del designer si inserisce perfettamente in questo
contesto, assolvendo in se stessa le funzioni direttive della borghesia e operative del proletariato.
Il problema che Argan evidenzia, riprendendo le fila dalle sue riflessioni svolte già sul finire degli
anni Cinquanta, è legato alla massificazione che, tramite la pubblicità, trasforma il “popolo” in
“massa”, per orientarne i consumi. Il popolo, per rimanere tale, deve imporsi come forza sia a
livello socio-politico, sia a livello culturale, ossia riconoscendo l’arte moderna come “arte
popolare” per necessità e scelta storica. Le radici di questa consapevolezza artistica si
rintracciano, secondo Argan, nelle ricerche artistiche di Klee e Kandinsky 225 i quali hanno
elaborato un alfabeto di segni con una carica semantica illimitata, non strumentalizzabili da
nessun potere, politico o economico. Liberare l’arte da ogni direzione, cioè dall’obbligo di
comunicare in un sistema di valori istituzionalizzati, significa ricondurla alla semanticità pura,
ossia al design industriale e all’urbanistica.
Le due strade individuate da Argan diventano il centro del dibattito del Convegno, stimolando
reazioni e riflessioni da parte di architetti, urbanisti e teorici.
Bruno Zevi226 estende l’indagine al problema dell’architettura, richiamando alla mente l’impegno
storico degli architetti per la progettazione delle classi popolari, riferendosi al testo di Giuseppe
Pagano, Architettura rurale italiana227, del 1936, nel quale si suggeriva lo studio dell’architettura
rurale “spontanea” al fine di reperire in questa tradizione i primi esempi di architettura funzionale
che negli stessi anni veniva teorizzata in Francia da Le Corbusier. Analizzando le ricostruzioni del
secondo dopoguerra, Zevi puntualizza l’equivoco per cui l’architettura popolare moderna sarebbe
ispirata alle forme rurali, ribadendo la necessità di riferire il termine “popolare” alla destinazione
dell’edificio. È chiaro il riferimento a Frank Lloyd Wright il quale si proponeva di studiare “per
ogni uomo uno stile”. In ultima analisi per Zevi l’architettura popolare moderna sarebbe quella
che tiene conto della necessità dell’utente, condividendo la fase progettuale. Il limite di questa
proposta è bene evidenziato da Adriano Viganò228, architetto vicino a Zevi: dato il carattere
sempre più specializzato della cultura contemporanea, la collaborazione per quanto auspicata è
destinata a coinvolgere sono una élite altamente qualificata. La “collaborazione” progettuale

225 “Ogni qualvolta parliamo di massa, non parliamo di popolo, ma di qualche cosa di antitetico al popolo, di qualche
cosa che toglie al popolo la scienza della sua storicità. Paul Klee nei suoi Diari ha scritto che una sola cosa lo
addolorava profondamente: ‘il popolo non è ancora con noi’, cioè Paul Klee sentiva che il valore al quale bisognava
puntare non era il valore astrattamente astorico della società, comunità, etc., ma il valore storico della parola ‘popolo’,
che poi non è niente altro che una collettività avente scienza della propria subalterna posizione storica”, G. C. Argan,
ivi, p. 30.
226 B. Zevi, Arte popolare come architettura moderna, in Arte popolare moderna, cit., pp. 36-46.
227 G. Pagano – G. Daniel, Architettura rurale italiana, Quaderni della Triennale, Hoepli, Milano 1936. Pubblicazione in

occasione della Mostra dell’Architettura rurale, VI Triennale, Milano 1936.


228 A. Viganò, in Arte popolare moderna, cit., pp. 46-49.

62
suggerita da Zevi e Viganò appare inappropriata ad Attilio Marcolli229, allora giovane architetto
non ancora impegnato negli studi relativi al design industriale e alla didattica delle arti, il quale
richiama la separazione fra ideazione-produzione, già sollevata da Argan. In ambito architettonico
ciò potrebbe risolversi realmente solo rendendo partecipi gli operai, ossia la forza lavoro, del
processo ideativo, quasi ritornando al significato medioevale di “arte popolare”, cioè “arte
prodotta dal popolo”.
Oltre all’architettura, l’altra possibilità di arte popolare moderna indicata da Argan si riferisce
all’industrial design, argomentato da Gillo Dorfles 230 . Come già aveva fatto in occasione
dell’edizione precedente del Convegno e nelle sue recenti pubblicazioni, Dorfles richiama gli
studi di Banham, autore di un saggio231 in cui il design industriale è assimilato a un certo tipo di
arte popolare, intesa come estetica del prodotto di consumo, ritenendolo una manifestazione
artistica di gusto non elevato. Inoltre, Dorfles cerca di definire le caratteristiche dell’industrial
design, attraverso a The Meaning of Art232 di Herbert Read, dove l’arte popolare è intesa come arte
applicata, tendente all’astrazione e avente carattere di universalità. Allo stesso modo il design
industriale, oltre a riferirsi a oggetti di uso comune, essendo l’equivalente moderno dell’arte
applicata, può essere definito “astratto” perché non ha referenti naturalistici e “universale” in
quanto diffuso a tutti gli strati sociali. Se è vero che l’interesse del consumatore – e quindi del
“popolo” – è rivolto agli oggetti di uso quotidiano, non si risolve il problema della netta
separazione fra ideatore-produttore-consumatore, data la lontananza fra queste figure. Nella
società industriale il consumatore è obbligato ad acquistare l’oggetto imposto o, comunque, a
scegliere fra una gamma di oggetti selezionati. Dopo aver evidenziato tutte le criticità di questa
situazione, Dorfles legge la medesima condizione da un altro punto di vista: gli oggetti prodotti
sono conseguenza della richiesta del mercato, quindi il consumatore può orientare la produzione.
Il medesimo tema è argomentato anche da Pietro Raffa 233 , concorde sull’impossibilità di
considerare l’ “arte popolare” come una produzione “fatta dal popolo”. Il pubblico dell’arte,
osserva Raffa, si è ampliato notevolmente, ma, al contempo, lo sviluppo dell’industria culturale ne
ha abbassato drasticamente il livello, creando una frattura fra una élite “colta” e la massa,
arginando la comprensione e la fruizione dei linguaggi artistici e del design, anch’esso destinato a
essere appannaggio di pochi. Raffa si interroga sulle cause di questa situazione e le individua, non
tanto nell’arte, quanto nella società stessa dove è svanita l’idea di “popolo”, come organismo
cosciente e autonomo, ridotto ormai a “massa”, al quale non interessa più la cultura popolare,
sostituita dai mass-media.

229 A. Marcolli, in Arte popolare moderna, cit., pp. 49-52.


230 G. Dorfles, Rapporti e interferenze tra arte popolare e disegno industriale, in Arte popolare moderna, cit., pp. 54-59.
231 R. Banham, Industrial Design e arte popolare, in “Civiltà delle Macchine”, n. 2, 1955, p. 6.
232 H. Read, The Meaning of Art, Faber&Faber, Londra 1931.
233 P. Raffa, in Arte popolare moderna, cit., pp. 59-62.

63
Sulla scia delle considerazioni di Raffa e la negazione della validità delle proposte dell’industrial
design, Guido Montana 234 problematizza ulteriormente la questione. L’industrial design,
l’architettura e l’urbanistica non possono essere considerati espressione dell’ “arte popolare”
perché sarebbero imposte al popolo, almeno fino a quando non sarà completamente risolto il
problema della cultura e della formazione del popolo, affinché il pubblico sia in grado di
comprendere tali fenomeni. Al contrario, suggerisce Montana, l’ “arte popolare” deve vertere
sull’universo visivo già familiare per il popolo, ossia i fumetti e soprattutto la pubblicità, la quale
dovrebbero essere “purificati” dalla genericità e dall’intento persuasivo. Montana porta gli esempi
dei fumetti di Lichtenstein e degli oggetti di Steinberg: reinventando il segno, dissociandolo dal
significato riconosciuto, coinvolgono l’osservatore in chiave critica, chiamandolo ad assumere
una posizione attiva e consentendogli di sottrarsi al sistema ipnotico della società di massa.
In questo orizzonte di dibattito non può mancare il riferimento al mondo cinematografico, di cui
si fa portavoce Guido Aristarco235, critico cinematografico di formazione marxista, direttore della
rivista “Cinema Nuovo”. Ripercorrendo il percorso che ha condotto a riconoscere il cinema
come opera d’arte, Aristarco si sofferma sulle teorie di Walter Benjamin 236 , riferite alla
riproducibilità tecnica dell’opera. Sarebbero proprio la mancata unicità e la riproducibilità,
accanto alla comunicazione diretta e immediata del cinema, a rendere il cinema la vera forma di
“arte popolare” perché esattamente conforme alle esigenze del pubblico, così come già aveva
anticipato Arnold Hauser in conclusione alla sua Storia sociale dell’arte237.
Fino a qui, sono stati riassunti i nuclei tematici e le argomentazioni che sono state sviluppate in
maniera più elaborata durante il Convegno, ma non sono mancate altre proposte, non
approfondite ma ugualmente significative.
Umbro Apollonio238 e Italo Tomassoni239, già protagonisti nelle passate edizioni del Convegno,
identificano “arte popolare” con Nuova Tendenza240, ossia le ricerche visuali riconducibili alle
sperimentazioni cinetiche, programmate, gestaltiche e optical. Apollonio, che, lo si è anticipato,
fin dal 1962 aveva sostenuto questo orizzonte di ricerca, sia a livello teorico, sia promuovendone

234 G. Montana, I nuovi segni iconici dei mass media, in Arte popolare moderna, cit., pp. 64-67.
235 G. Aristarco, Il cinema e la nozione di arte tradizionale, in Arte popolare moderna, cit., pp. 69-75. Guido Aristarco (1918-
1996) ha condotto sulle pagine della rivista “Cinema Nuovo”, da lui fondata nel 1952 e diretta fino al 1996, anno
della sua scomparsa, una battaglia culturale e politica a favore della nozione di realismo e a far radicare il cinema nella
realtà civile contemporanea. Convinto dell’importanza dell’inserimento del cinema nella scuola e nell’università è
stato primo professore ordinario di Storia e critica del cinema all’Università di Torino e poi a La Sapienza di Roma.
Cfr. F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Bompiani, Milano 1993, pp. 28-31.
236 W. Benjamin, L’opera d’arte al tempo della riproducibilità tecnica, 1936, Einaudi, Torino 1966.
237 A. Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 1964.
238 U. Apollonio, in Arte popolare moderna, cit., pp. 77-82.
239 I. Tomassoni, in Arte popolare moderna, cit., pp. 82-84.
240 La definizione deriva da una serie di esposizioni tenutasi in Croazia e Italia, intitolate Nove Tendencije, fra il 1961 e

il 1973. In Italia i protagonisti della Nuova Tendenza sono stati Enzo Mari, i Gruppo N e T, Getulio Alviani,
sostenuti a livello critico soprattutto da Argan e Apollonio.

64
le occasioni espositive, come Nuova Tendenza 2241 e Strutture di visione242; considera, in primo luogo,
i mass-media quali possibili nuovi strumenti dell’arte moderna. Il limite di questi mezzi non
risiede nella loro connotazione tecnica, quanto nell’essere manovrati da una classe sociale ristretta
che se ne serve per salvaguardare e accrescere i propri interessi. Al contrario, le opere della
Nuova Tendenza si propongono si esemplificare in modo operativo le tecnologie industriali,
ponendo come elemento centrale non il fine produttivo ma quello estetico. In questo senso la
Nuova Tendenza sarebbe da identificare con l’ “arte popolare moderna” poiché in accordo con la
civiltà tecnologica e scientifica e potenzialmente estendibile allo spazio urbano.
Tomassoni, ribadendo le tesi di Apollonio, nega la validità delle proposte dell’architettura e
dell’industrial design poiché essi proporrebbero come risultato e non come metodo operativo,
trascurando il nuovo valore che il progetto ha assunto, a seguito dell'interferenza della macchina
nel “fare” umano. In ambito artistico, gli altri orizzonti di ricerca, Pop art e Nuova Figurazione, si
relazionano alla questione dell' “arte popolare” proponendosi in senso contestativo o sostitutivo,
ma non in chiave critica. Solo l'arte tecnologica, sostiene Tomassoni, non si pone come arte di
rappresentazione, bensì come azione metodologica storica.
Alle argomentazioni di Apollonio e Tomassoni si contrappongono, da un lato, Cesare Brandi che,
in occasione del Convegno, è premiato per il saggio Le due vie243, e, nell’ambito del dibattito, Pierre
Restany.
Brandi, basandosi sulla teoria dell’informazione di Moles e Bense, riflette sul binomio opera-
spettatore paragonato al binomio messaggio-ricevente. Secondo Brandi il messaggio non coincide
con la struttura dell’opera, ma è il portato finale di una «serie di messaggi» che l’opera d’arte
trasmette. Il destinatario è lo spettatore che ha esperienza, nell’accezione di Dewey, del messaggio
come significato e dell’oggetto come medium di tale messaggio. Nell’oggetto industriale e nel
filone «neo- costruttivista-gestaltico-programmato», l’informazione e il significato sono ridotti alla
progettazione e alla singola variazione sul progetto già conosciuto. Di conseguenza l’arte
programmata non si pone come eversiva o contraddittoria, ma marginale. All’opposto, la pittura
informale, recuperata da Brandi come “altra via”, è il campo di esperienza in cui lo spettatore fa i
conti con il massimo di originalità e in cui è spinto a integrarsi all’opera, per poterne cogliere i
celati e disordinati elementi formali.
Pierre Restany244, invece, avanza l’ipotesi del Nouveau Réalisme come arte popolare. Secondo
Restany la poetica oggettuale del Nouveau Réalisme rappresenta la presa di coscienza dell’uomo

241 Nuova Tendenza 2, Fondazione Querini Stampalia, Venezia, dicembre 1963.


242 Strutture di visione, XIV Premio Avezzano, Palazzo Torlonia, Avezzano, agosto 1964.
243 C. Brandi, Le due vie, Editori Laterza, Bari, 1966; cfr. Lo spettatore integrato, pp. 101- 139.

244 P. Restany, in Arte popolare moderna, cit., pp. 85-96.

65
nella società industriale e si contrappone al desiderio di evasione veicolato dall’arte astratta:
agendo sul reale si qualifica come arte di partecipazione popolare.
Un’ulteriore alternativa è elaborata da Corrado Maltese245 e consta nella rilettura estetica della
macchina quale “strumento che, con il minor impiego dell’energia umana, rende gli uomini
estremamente più potenti sia sul piano produttivo che su quello distruttivo”246. La macchina è
assunta quale simbolo della società industriale e per questo elemento di maggiore popolarità,
ricordando come molte macchine, dai luna park ai flippers, siano la modalità prediletta per
trascorrere il tempo libero. Giungendo all’ambito artistico, Maltese riconosce nelle opere di
Tinguly, in primis, ma anche in Calder, Munari, Paolozzi la più realistica ipotesi di “arte popolare
moderna”, assumendo la duplice accezione di simbolo da cui trarre ispirazione e al contempo
oggetto di critica nella società contemporanea.
Un ulteriore punto di osservazione del concetto di “arte popolare” è suggerito da Franco
Ferrarotti 247, direttore della rivista “Quaderni di Sociologia”, in questi anni molto vicino ad
Adriano Olivetti e impegnato in studi sulla trasformazione sociale del lavoro industriale, qui
chiamato a fornire una lettura sociologica ed estetica. In quest’ottica, il prodotto artistico è da
considerarsi bene di consumo, ma al contempo autonomo, ossia dotato di una spiritualità, pur
essendo tecnica. In sociologia dell’arte il termine “popolare” è universale: l’arte è sempre
popolare perché è creata e fruita dagli uomini; ciò che cambia è il rapporto arte-società, mai
elusivo e definitivo, bensì in continuo divenire, reciprocamente influenzato.
Parallelamente al XV Convegno di Verucchio, a Ferrara, si svolge il II Colloquio internazionale di
estetica sperimentale 248, anch’esso organizzato da Dasi, con la partecipazione di molti degli
intervenuti nelle edizioni precedenti della manifestazione di Verucchio. Oltre che per motivi
organizzativi, i due convegni sono svolti insieme perché, precisa Argan 249 nella relazione
conclusiva, il tema dell’arte popolare, per essere affrontato, necessita di molti punti di vista, non
solo quello storico artistico, ma anche quello psicologico e sociologico.

245 C. Maltese, in Arte popolare moderna, cit., pp. 96-99.


246 Ivi, p. 96.
247 F. Ferrarotti, Alcune osservazioni sociologiche sull’arte popolare e sull’estetica sperimentale, in Arte popolare moderna, cit., pp.

101-110. Franco Ferrarotti (1924) ha una formazione filosofica e nel 1951 ha fondato con Nicola Abbagnano la
rivista “Quaderni di Sociologia”, poi divenuta il trimestrale “La critica sociologica”, nel 1967, ancora oggi guidata
dalla sua direzione. Dal 1948 è stato fra i collaboratori di Adriano Olivetti e deputato per la III Legislatura della
Repubblica Italiana (1958-63), in rappresentanza del Movimento Comunità. Nel 1961 ha ottenuto la prima cattedra
di Sociologia in un’università italiana, a La Sapienza di Roma. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta ha dedicato studi al
sindacalismo, al lavoro industriale e alla sociologia urbana.
248 II Colloquio internazionale di Estetica Sperimentale, Rimini-Verucchio-San Marino-Ferrara, 16-19 settembre 1966, atti editi a

cura di C. Genovese e G. F. Dasi, Gli Incontri di Verucchio, Cappelli editore, Bologna 1969. Il Convegno è stato
promosso da Dasi con la collaborazione scientifica di Genovese, Souriau, e Flarer. Sono intervenuti: Francès,
presidente dell’associazione internazionale di estetica sperimentale, e professori provenienti da atenei italiani e
stranieri, fra cui, Pichot, Moles, Scarpellini, Knapp, Altan, Pickford, Volmat, Ceccato, Child, Maccagni, Molnar,
Pagès, Saldo e Borsari. Il dibattito ha avuto come oggetto la possibilità di continuare a considerare l’estetica come
filosofia dell’arte, ma ampliandone la metodologia sperimentale, derivata dalla psicologia e dalla sociologia
249 G. C. Argan, Relazione conclusiva ai lavori, in “D’Ars Agency, n. 3-4, 10 giugno – 20 ottobre 1966, pp. 1-5.

66
Nel suo intervento conclusivo, Argan ripercorre i lavori, focalizzando la sua attenzione
sull'importanza del “popolo” come forza socio-politica, in senso marxista, in grado di
condizionare anche l'ambito artistico, orientando il ruolo sociale dell'arte attraverso le istituzioni
con intenti didattici, ovvero le scuole e i musei. I linguaggi in grado di rispondere al bisogno
estetico della collettività sono individuati da Argan nell'urbanistica e nella comunicazione mass
mediatica, tanto da proporli quali oggetto del Convegno dell'anno successivo.

Il tentativo di Argan di capire se l’arte moderna debba qualificarsi o meno come arte “popolare”,
non ammette l’idea di un’arte “fatta dal popolo”, soprattutto sulla scorta delle esperienze storiche
richiamate, da Klee a Kandisnky e al Bauhaus, rivelatesi utopiche. Rimane sicuramente centrale
l’idea di “popolo” quale entità cosciente e capace di esprimere i propri ideali e le proprie
aspirazioni; ma anche la consapevolezza che nella società attuale, come hanno osservato Argan e
Raffa, il popolo è ridotto a massa, ossia un’entità amorfa e manovrata dalla classe dirigente. In
questo senso la proposta di Zevi, Viganò e Marcolli di riconoscere nell’architettura l’ “arte
popolare” si rivela vana perché si scontra con gli ingenti interessi economici che governano
l’edilizia, così come, in parte, ciò vale per l’industrial design, proposta avanzata da Dorfles,
carente nella possibilità di istituire un contatto diretto con il consumatore. Restringendo la
questione al ristretto ambito artistico, ammettendo la volontà degli artisti di comunicare con il
popolo, il limite delle ricerche più recenti è una comunicazione circoscritta a una élite.
Le opinioni conclusive di Argan appaiono ferme alle proprie idee di partenza, condizionate dalla
diffidenza nei confronti della comunicazione di massa, per quanto se ne riconosca l’utilità per
superare i limiti che caratterizzano le ricerche visuali, pur riconoscendo i rischi di
strumentalizzazione ben delineati da Raffa, Montana e Apollonio. L’introduzione del tema per il
Convegno successivo è sintomatico dell’urgenza dell’operatività artistica di trovare una precisa
destinazione pubblica, ampliandosi nello spazio urbano, come modalità per riappropriarsi della
funzione sociale.

67
Capitolo IV | 1967-1968

Il contesto storico-artistico
La medesima crisi, riconosciuta da Argan nell’ambito delle arti visive, coinvolge anche
l’urbanistica e l’architettura. Nelle pagine di Progetto e destino dedicate a queste discipline Argan
considera l’architettura contemporanea scissa in tre direzioni: la pianificazione urbanistica, lo
strumentalismo tecnico e la ricerca stilistica. Le prime due direzioni sono integrate
nell’inserimento in un piano urbano di risultati architettonici pensati come forme pure,
rispondenti a una precisa struttura e quindi funzione, così come era avvenuto nel razionalismo,
attraverso la progettazione di uno spazio per la vita sociale. La terza via, ovvero il formalismo,
sorto a seguito della crisi del razionalismo, avvenuta nel secondo dopoguerra, conseguente la
presa di coscienza del sogno utopico che esso veicolava, propone una “forma plastica unitaria e
chiusa”, indipendente dall’idea di piano. Queste due posizioni, paragonate nel saggio al binomio
Gestalt – Pop Art, imperante nelle arti visive, restituiscono “il dramma dell’architettura di
oggi”250, per usare le parole di Manfredo Tafuri251 che in questi anni rilegge le vicende della storia
dell’architettura attraverso la critica marxista.
Il tema della crisi era già stato connesso all’architettura da Garroni in La crisi semantica delle arti252 e,
ancor prima, da Enzo Paci253, nell’articolo apparso sulle pagine della rivista “La Casa” nel 1959,
entrambe riferimenti presenti nel pensiero di Argan.
Argan teorizza una svalutazione dell’architettura nella società contemporanea la quale si è
completamente riversata nella progettazione urbanistica a seguito della pressione esercitata
dall’industria e dalla cultura di massa. L’urbanistica, infatti, è intimamente coinvolta nel sistema
economico e politico, per cui lo scopo della disciplina non è più la pianificazione della città, ma il
coordinamento funzionale di agglomerati sociali, connotati dal punto di vista produttivo. In
questa ottica il valore teorico del razionalismo, volto a costruire una città ideale fondata sulla
funzionalità e in opposizione alla stratificazione gerarchica delle classi, nonché l’idea di Gropius
di un’architettura che è qualificata dal tessuto urbano, è completamente vanificata e sostituita
dall’estetismo dell’architettura che a sua volta qualifica la città, esemplificato da Frank Loyd
Wright.
Argan, Tafuri e, più in generale, la critica architettonica di matrice marxista, focalizzano la propria
attenzione sull’attitudine dell’architettura contemporanea a identificarsi nella forma pura e ne
evidenziano i limiti, ribadendo il valore della progettualità urbanistica come possibilità concreta di

250 M. Tafuri, Progetto e utopia, Laterza, Bari 1974, p. 3.


251 Fra gli scritti dell’autore si veda Teorie e storia dell’architettura, Laterza, Bari 1968; Per una critica dell’ideologia
architettonica, in “Contropiano”, 1, gennaio 1969, pp. 31-79.
252 E. Garroni, La crisi semantica delle arti, cit.
253 E. Paci, La crisi della cultura e la fenomenologia dell’architettura italiana, in “La Casa”, 6, 1959, pp. 353-365.

68
rilanciare l’utopia e di avverarla proprio attraverso la tecnologia.
“L’utopismo del nostro tempo, che comincia nella fabbrica-modello e finisce nella
fantascienza, è tecnologico. Poiché il progresso tecnologico è il fatto saliente dell’epoca in
cui viviamo, l’utopia moderna segue la regola generale: immagina un mondo in cui non ci
sia altro che il progresso tecnologico. Ma per la prima volta l’utopia minaccia di avverarsi,
di farsi raggiungere e superare i fatti”254.

Il parallelismo individuato da Argan fra il progresso tecnologico e il pensiero utopistico si fonda


sulla comune mancanza di criteri critici sottesi, ossia progresso tecnologico e utopia si basano su
se stessi senza contraddizioni. In questa prospettiva il compito della classe intellettuale è
l’inserimento nella società tecnologica di una componente critica e, secondo Argan, ciò avviene
attraverso la riqualificazione del progetto. L’intenzionalità progettuale che Argan considera
l’ancora di salvezza per l’arte è, da un lato, lo strumento in grado di riqualificare il valore ideale
che un tempo era proprio dell’artigianato e che ora è dell’industrial design; dall’altro, attraverso il
piano architettonico e urbanistico, rende l’uomo soggetto attivo nella definizione dell’ambiente in
cui vive.
“Assunto come forma autonoma e significante, il piano è la forma specifica
dell’intenzionalità, nel senso preciso, husserliano del termine. […] Ma più ancora del valore
teoretico del concetto di intenzionalità è importante il suo significato come definizione
dello stato di coscienza dell’uomo ‘in situazione’, nella situazione oggettiva del mondo
attuale: legato allo hic et nunc in cui si determina, il solo processo che lo porta a superare
questa condizione ineliminabile, e lo stesso limite del proprio io individuale, è intuizione
eidetica”255.

Il progettare in ambito artistico è proposto da Argan come difesa della vita sociale e antidoto
all’alienazione dell’uomo nella società contemporanea, nonché premessa necessaria alla
sopravvivenza futura dell’arte.
Queste riflessioni di Argan, risalenti al 1964, sono una possibile chiave interpretativa per le
sperimentazioni artistiche che si addensano sul finire del decennio. Da un lato si registra la
sempre maggiore vicinanza delle tecniche artistiche alle tecniche dell’industria, sia da parte di
artisti riconducibili all’ambito gestaltico, molti dei quali realizzano opere in serie; sia in ambito
Pop, la cui produzione artistica è sempre più assimilabile alle tecniche pubblicitarie. Tale osmosi
fra arte e tecnologia è, nella sua complessità, riflessa dalla VI Biennale di San Marino, intitolata
Nuove tecniche d’immagine256.
La mostra, presieduta da Argan, si propone come luogo di incontro, senza barriere nazionali,
anagrafiche e tecniche, in favore del superamento della settorialità tecnica tradizionale,
includendo anche l’industrial design. Appare evidente il tentativo dell’organizzazione, anche in

254 G. C. Argan, Progetto e destino, cit., p. 13.


255 Ivi, pp. 61-62.
256 Nuove tecniche d’immagine, Palazzo dei Congressi, San Marino, 15 luglio – 30 settembre 1967.

69
questa edizione guidata da Dasi, di ripetere il successo della IV Biennale del 1963, richiamando
l’attenzione non solo sulle opere esposte, ma stimolando un animato dibattito critico e teorico.
Gli artisti invitati sono numerosi, scelti a livello nazionale internazionale e vicini sia all’ambito
delle ricerche plastico-cinetiche, come Alviani, Groupe de recherche d’art visuel, Gruppo N,
Gruppo T, Gruppo Uno; sia alle sperimentazioni pop-oggettuali, fra cui Oldenburg, Lichtenstein,
Rauschenberg, Schifano e Marotta. L’interesse per il design è concretizzato in una sezione della
mostra dedicato a La linea dell’automobile italiana.
Delineando le linee teoriche della mostra, Argan257 pone l’accento sul concetto di immaginazione,
considerato quale campo d’azione dell’artista attraverso la produzione di immagini. Questa
prospettiva di analisi riflette, nelle parole del critico, il sistema tecnologico e dei consumi che
inevitabilmente coinvolge anche l’immaginazione. Poiché ogni impresa produttiva ha bisogno di
tecnici, anche l’ “industria delle immagini” necessita di “tecnici delle immagini”, ossia gli artisti.
Le ricerche artistiche contemporanee hanno reagito in maniera diversa a questa situazione: la
Nuova Figurazione ha rifiutato la degradazione sociale dell’artista e la trasformazione radicale dei
mezzi linguistici, rimanendo sostanzialmente legata alle tecniche tradizionali di rappresentazione e
quindi, secondo Argan, destinandosi all’anacronismo. Le altre due correnti, ossia l’Optical Art,
ultimo sviluppo delle ricerche neo-gestaltiche, e la Pop Art - citate dal critico con le sigle “Op” e
“Pop”, ironizzando sulla somiglianza con immaginari marchi di fabbrica - sono partite da
presupposti differenti: pur avendo accettato la riduzione della figura sociale dell’artista a quella del
tecnico o dell’operatore industriale, non assecondano la limitazione e la subordinazione della
propria attività al sistema industriale. Se da un lato le ricerche plastico-cinetiche implicano un
livello tecnologico assolutamente elementare, declinando la tecnologia ad aspetto simbolico e
quindi agendo nel “segno della tecnologia”, dall’altro lato gli artisti pop coltivano il gusto
dell’esagerazione, del travisamento visivo, ironizzando sottilmente sul linguaggio pubblicitario,
operano nel “segno del consumo”. In entrambi i casi, sintetizza Argan, l’oggetto d’attenzione
degli artisti non è tanto il procedimento di produzione o di consumo, bensì la reazione
dell’individuo, il comportamento dell’uomo coinvolto, in un caso come produttore, nell’altro
come consumatore. La lettura critica di questa situazione conduce a una domanda, motore
teorico della mostra: come recuperare l’immagine? Alla luce dei cambiamenti che le
sperimentazioni visive hanno vissuto nel corso del decennio, Argan si rende conto che
l’immagine ha ottenuto una propria autonomia comunicativa e che, dunque, non esiste in
funzione di un canale mass mediatico che ne garantisce la trasmissione, ma essa stessa è dotata di
“comunicabilità”. Ne deriva che i linguaggi artistici si inseriscono nell’industria tecnologica con

257 G. C Argan, in Nuove tecniche dell’immagine, cit., catalogo della mostra, Alfieri Edizioni d’Arte, Venezia 1967, pp. 13-
17.

70
una propria ontologia e non come strumento di potere258.
Accanto alle considerazioni teoriche di Argan, un’ulteriore apertura è proposta da Maurizio
Calvesi259, il quale, con Maurizio Fagiolo Dell’Arco, Otto Hahn e Jürgen Claus, è parte del
comitato scientifico della manifestazione. Secondo Calvesi la Pop Art ha permesso di superare il
tabù derivante dal rifiuto aristocratico e intellettuale della società di massa, assimilando
nell’alfabeto artistico le tecniche pubblicitarie. L’immagine artistica come forma d’interpretazione
e conoscenza della realtà contemporanea si inserisce nella realtà come presenza autonoma, ossia
si isola dalla realtà stessa. Ciò avviene, argomenta Calvesi, attraverso “un isolamento sensoriale
del dato visivo che ha perduto i valori integrativi fondamentali del tatto, dell’olfatto, dell’udito”260.
Emblematico l’esempio del quadro di Lichtenstein del 1962 in cui è rappresentata una grande
spugna cui si avvicina, per toccarla, una mano. La tattilità è tradotta in un’evidenza percettiva, ha
un peso visivo, ottico, una propria collocazione nello spazio: ha una presenza. Se il linguaggio
Pop consente di veicolare il tatto, le ricerche cinetico-programmate articolano, attraverso lo
stimolo ottico, la categoria sensibile del sonoro, attraverso il ritmo e la frequenza. Secondo
Calvesi, le ricerche artistiche contemporanee sono caratterizzate dal dominio dell’immagine come
entità autonoma, non come riflesso del reale bensì come presenza in grado di sconfinare oltre il
visivo e trasformare la fruizione da contemplazione a relazione.
Proprio la componente relazionale, intesa come superamento del limite frontale della
contemplazione, è un altro aspetto che caratterizza le vicende artistiche degli ultimi anni Sessanta,
le quali si muovono verso il superamento dei confini del quadro, rinnovando il rapporto con lo
spazio espositivo e introducendo la componente spettacolare.
In questa direzione un momento cruciale è rappresentato dalle mostre Fuoco, Immagine, Acqua e
Terra 261, nella galleria romana L’Attico di Fabio Sargentini, nel giugno del 1967 e Lo spazio
dell’immagine262 a Palazzo Trinci a Foligno nel mese seguente. La mostra romana testimonia il
tentativo degli artisti di creare un nuovo dialogo con la natura, sia attraverso l’evocazione delle
forme e degli ambienti naturali, sia attraverso la scelta degli elementi e, al contempo, restituisce la
tendenza delle ricerche recenti a superare i confini del quadro aprendo alla dimensione

258 “Nel momento presente è possibile soltanto individuare, come si è cercato di fare in questa Biennale, le principali

direzioni di ricerca: il riscatto dell’invenzione non tecnologica; la programmazione non tecnologica rivolta a
inquadrare nell’esperienza estetica qualsiasi momento o evento della realtà sociale; lo sviluppo dell’analisi strutturale
dell’immagine e delle tecniche mitopoietiche; l’individuazione di una spazialità e temporalità delle forme e delle
materie prodotte dall’industria, rimpiegati come puri fattori segnici. Ma soprattutto, la rottura a tutti costi, anche con
colpi di testa e puntate avventate, degli argini entro cui la tecnologia industriale, come strumento di potere, mira a
contenere, restringere, reprimere l’immaginazione col fine di ridurre sempre più la capacità di autodeterminazione
individuale e collettiva”, ivi, p. 17.
259 M. Calvesi, Ottico, tattile ed ottico sonoro, in Nuove tecniche dell’immagine, cit., pp. 18-20.
260 Ivi, p. 19.
261 Fuoco, Immagine, Acqua, Terra, Galleria L’Attico, Roma, 8 giugno 1967.
262 Lo spazio dell’immagine, Palazzo Trinci, Foligno, 2 luglio – 1 ottobre 1967.

71
performativa263. Questo aspetto è al centro dell’esposizione umbra, nella quale diciannove artisti
sono invitati a realizzare un “ambiente plastico-spaziale, anziché esporre singole opere di scultura
o pittura”264, accanto a due omaggi dedicati a Ettore Colla e a Lucio Fontana, con il profetico
Ambiente spaziale a luce nera. L’apparato critico della mostra è formato da Umbro Apollonio, Giulio
Carlo Argan, Palma Bucarelli, Maurizio Calvesi, Germano Celant, Giorgio De Marchis, Gillo
Dorlfes, Christopher Finch, Udo Kultermann, Giuseppe Marchiori e Lara Vinca Masini.
Fin dalle prime battute del testo introduttivo di Marchiori, la mostra si delinea come un momento
di dibattito, non solo sulle scelte stilistiche degli artisti, ma anche sul potenziale etico e sociale che
le esposizioni d’arte possono o dovrebbero veicolare. Le parole di Marchiori sono un monito
rivolto alle istituzioni culturali affinché nelle esposizioni si superi il modello “salon ottocentesco”
a favore della libera sperimentazione e un auspicio perché “a ogni problema attuale corrisponda
un ambiente attuale” 265 , sulla scia di esempi storici, come il Costruttivismo di Malevic, il
Neoplasticismo di Mondrian e Van Deosburg fino al Dadaismo di Schwitters. La coesione di
forze critiche e istituzionali si dichiara rivolta alla realizzazione di una rassegna culturale che nulla
abbia da invidiare alle manifestazioni internazionali e che con esse può dialogare, in funzione
della promozione degli artisti italiani, reagendo, neanche tanto velatamente, all’ “invasione
americana”266.
L’invito della commissione si presta a plurime interpretazioni e molteplici sono le risposte degli
artisti. Getulio Alviani colloca sette semi-cilindri di alluminio speculare al centro di un contenitore
cilindrico aperto, bianco e illuminato dall’alto, ognuno dei quali, ancorato al soffitto e al
pavimento, ruota intorno al proprio asse, riflettendo se stesso e il bianco circostante, distorcendo
la percezione spaziale. L’intervento sulla percezione spaziale è scelto anche da Davide Boriani
con Camera Stroboscopica multidimensionale, un cubo foderato di specchi, diviso in due spazi
triangolari da un piano speculare, con triangoli rossi e verdi alternati sul pavimento. Nove
proiettori stroboscopici emettono dal soffitto fasci di luce pulsante verde e rossa, con quarantasei
combinazioni diverse, permettendo al visitatore di vedersi riflesso per pochi secondi, investito di
luce di colori diversi e riflesso infinite volte negli specchi che scompongono i suoi movimenti.

263 “Il quadro, questa antiquata finestra affacciantesi sull’al di là, è riuscito sempre meno a trattenere nella sua cornice

tutto lo spettacolo del mondo. Così si è incaricato Duchamp a sbatterci sugli occhi le imposte di quella finestra,
dimostrando una volta per tutte nel suo irritante estremismo didattico che la rappresentazione, almeno di quel tipo,
era finita. Calato il telone dell’illusione, lo spettacolo dall’aldilà si è rovesciato nel di-qua, e non rimandando più ad un
“altrove”, ma svolgendosi nel “qui”, d’ora in avanti occorre non già fingere bensì fare spettacolo”, in A. Boatto, Lo
spazio dello spettacolo, 1967, in Fuoco, Immagine, Acqua, Terra, catalogo della mostra, Galleria L’Attico, Roma 1967.
264 Nota introduttiva in Lo spazio dell’immagine, cit., catalogo della mostra, Alfieri Edizioni d’Arte, Venezia 1967.

265 Ivi, p. ?
266 “Nei sette anni ‘caldi’ dell’arte internazionale, l’Italia ha puntato su nomi, che il tempo aveva consumato o

appannato nella sua corsa veloce, lasciandosi sorprendere dal susseguirsi degli eventi, descritti da Harnol Rosenberg
con straordinaria efficacia. Il ritmo della metamorfosi dell’arte mondiale esige una informazione aggiornata,
indubbiamente difficile. Ma tale informazione può essere facilitata dalla collaborazione con vari enti, ciascuno dei
quali con compiti e fini ben precisi”, G. Marchiori, in Lo spazio dell’immagine, cit., p.2.

72
Gianni Colombo costruisce After structure, un ambiente con pareti e soffitto ricoperti da un
sistema regolare di linee rosse, verdi e blu illuminate da luci intermittenti degli stessi colori, tali da
creare nell’osservatore delle immagini per riflesso, fuori dalla geometria euclidea dello spazio. Le
potenzialità dello spazio sono indagate in maniera opposte da Enrico Castellani con Ambiente
bianco attraverso cui è annullata la profondità spaziale a favore di uno spazio claustrofobico e
ossessivo; e Paolo Scheggi il quale, con Intercamera plastica modalità interspaziali, amplifica la
profondità spaziale attraverso superfici concave e convesse, animate da traiettorie di fori circolari.
Gli artisti vicini alle esperienze Pop, anziché agire sulla percezione, interagiscono con lo spazio
occupandolo. Tano Festa realizza Il Cielo, opera dedicata al fratello scomparso Francesco Lo
Savio, è una parete di legno frammentata, azzurra con nuvole bianche; Gino Marotta, invece,
ragiona sul binomio artificio-natura, creando una “foresta” di alberi in metacrilato, intitolata
Naturale-Artificiale. Il medesimo argomento interessa Piero Gilardi, il quale espone i suoi tappeti-
natura e Pino Pascali con 32 mq di mare circa, ossia delle vaschette in plastica modulari contenente
acqua.
Accanto a queste e alle altre opere esposte, Lo spazio dell’immagine è occasione di elaborazioni
critiche significative. Umbro Apollonio267 ribadisce la sua vicinanza a Nuova Tendenza e pone
l’attenzione sul superamento della dimensione oggettuale delle opere e sul cambio della loro
destinazione: “Basta del resto guardarsi intorno nel campo della pratica e chiedersi chi mai è in
grado di acquistare, poniamo, la Stanza da bagno bianca (1962) di Jim Dine oppure la Cassa Sistina
(1966) di Mario Ceroli oppure L’ultima missione del Dr. Schweitzer (1965-66) di Oyvind Falhström
oppure Ambiente multidimensionale (1966) del Gruppo T: non nel senso del costo, ma in quanto a
sufficienza di adeguato collocamento. E poi, domandiamoci ancora: è questo l’obiettivo a cui
mirano?”268
Richiamando alla memoria le esperienze costruttiviste e supermatiste, Apollonio riconosce le
nuove frontiere della contemporaneità artistica nella progettazione di forme che, arricchite dalle
innovazioni scientifiche e tecnologiche, sanno abitare l’ambiente, inserirsi nella vita dell’uomo,
senza che egli sia alienato, isolato o omologato, avendo dunque un valore sociale. In altre parole,
le ricerche di Nuova Tendenza, svolte in termini operativi e comportamentistici, scientificamente
verificabili, si oppongono allo spazio scenografico e all’uso ornamentale degli oggetti d’arte,
riconosciuto da Apollonio nelle sperimentazioni coeve di matrice pop.
Un approccio “metodologico” è prediletto da Maurizio Calvesi 269 il quale focalizza la sua

267 U. Apollonio, Oggetti plastici-visuali e loro predestinazione, in Lo spazio dell’immagine, cit., pp. 6-8.
268 Ivi, p. 6.
269 M. Calvesi, Strutture del primario, in Lo spazio dell’immagine, cit., pp. 12-14. “L’oggetto creato si confronta con la

realtà, la coinvolge con allusioni dirette, come lo spazio dell’happening o dell’opera-ambiente si confronta,
occupandolo, con lo spazio della vita e lo coinvolge, tende a modificarlo, a provocare reazioni quantitative e
qualitative”, p. 13.

73
riflessione sulla dinamica fra la rappresentazione dello spazio e la diretta esperienza dello stesso.
La resa delle strutture primarie o la sperimentazione delle stesse, parallelamente proposta dalle
ricerche contemporanee, risponde alle medesima esigenza dell’uomo di recuperare la propria
collocazione “primordiale” nel mondo. Il linguaggio informale aveva rifiutato ogni razionalità e
aveva veicolato il primordiale attraverso la metafora e il mito, prediligendo la rappresentazione
indiretta: i cambiamenti che hanno caratterizzato il decennio, invece, hanno gradualmente
condotto alle demitizzazione e al superamento del rapporto indiretto con la rappresentazione a
favore del confronto diretto con la realtà.
Un altro contributo particolarmente significativo giunge da Germano Celant270, allora giovane
corrispondente culturale per riviste, il quale introduce il concetto di im-spazio per significare il
passaggio dell’immagine dallo stadio visivo a quello spazio-temporale, ossia “da significare lo
spazio a essere lo spazio”. Confrontandosi con le esperienze contemporanee, Celant distingue fra
“im-spazio programmato”, volto a produrre figure, di Alviani, Biasi, Boriani, Castellani, Fabro,
Scheggi, Gruppo Mid, Gruppo T, Gruppo N e i minimalisti americani; e “im-spazio oggettuale”
di Ceroli, Festa, Gilardi, Marotta, Mattiacci, Notari, Pascali e Pistoletto il cui scopo è organizzare
in figure le forme esistenti. Entrambe queste ottiche introducono il concetto di processualità, che
diventerà centrale nelle teorizzazioni di Celant in merito all’Arte povera.
Infine, l’intervento di Lara Vinca Masini271 è focalizzato sull’apertura allo spazio ambientale come
ampliamento a più dimensioni dell’immagine della città. “L’immagine è divenuta arbitra assoluta
del mondo quotidiano dell’uomo attuale, della sua nuova città, che non è più naturale, ma tutta
costruita, e che si identifica, a questo punto, definitivamente con la città”272. Ciò che avviene in
arte con la cosiddetta “enviromental art” è il graduale passaggio dalla dimensione oggettuale a una
scala maggiore, considerando la città quale assemblaggio di tanti oggetti tecnologici, secondo una
struttura aperta che conduce alla percezione della città stessa come “opera aperta”. La relazione
estetica che il fruitore instaura con l’oggetto o gli oggetti si rivela modificata radicalmente in
quanto inserita nella vita quotidiana e richiede una lettura interdisciplinare coinvolgendo
l’urbanistica e l’architettura. Vinca Masini precisa un aspetto: lo spazio dell’ enviromental art non
è lo spazio architettonico, così come l’artista non coincide con l’architetto: le due professionalità e
competenze restano separate, ma con l’auspicio di una concreta interdisciplinarità, unica strada
per ricollocare l’arte nella sua funzione di orientamento attivo nella vita umana.
Tale urgenza verso lo spazio intesa come superamento dei confini non si percepisce solo
nell’ambito delle arti visive ma coinvolge anche l’industrial design, l’urbanistica e l’architettura.

270 G. Celant, Im-spazio, in Lo spazio dell’immagine, cit., pp. 20-21.


271 L. Vinca Masini, in Lo spazio dell’immagine, cit., pp. 37-38.
272 Ivi, p. 37.

74
Già nel 1966, Tomas Maldonado273 pubblica un articolo sulla rivista “Summa” dal titolo Verso una
progettazione ambientale nel quale esplicita l’urgenza di considerare l’ambiente umano stesso come
un prodotto, un ambito in cui l’uomo possa agire in prima persona per definirne le caratteristiche.
Maldonado riparte dal fallimento utopico del razionalismo per ribadire l’importanza di una
progettazione urbana creata a immagine dell’uomo e non guidata dagli interessi economici.
L’aspetto più significativo di queste manifestazioni e delle differenti elaborazioni teoriche è la
conquista della dimensione ambientale, non solo come scelta stilistica, ma come affermazione di
un’operatività che coinvolge l’ambiente nella sua totalità e, in quanto tale, si carica di valore
ideologico quale reazione allo sviluppo capitalistico.
Non stupisce che proprio nel 1967 Germano Celant274 pubblichi sulle pagine di “Flash Art” la
prima elaborazione teorica dell’Arte povera, invocando la guerriglia intesa come continuo
movimento dell’artista dal luogo che la società ha deputato alla sua azione, coinvolgendo
direttamente il mondo:
“Un nuovo atteggiamento per ripossedere un “reale” dominio del nostro esserci, che
conduce l’artista a continui spostamenti dal suo luogo deputato, dal cliché che la società gli
ha stampato sul polso. L’artista da sfruttato diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del
combattimento, possedere i vantaggi della mobilità, sorprendere e colpire, non l’opposto.
[…] Un’imprevedibile coesistenza tra forza e precarietà esistenziale che sconcerta, pone in
crisi ogni affermazione, per ricordarci che ogni “cosa” è precaria, basta infrangere il punto
di rottura ed essa salterà. Perché non proviamo col mondo?”275

XVI Convegno internazionale Artisti, Storici e Studiosi d’Arte: Lo spazio visivo della città “Urbanistica e
cinematografo”
Il XVI Convegno di Verucchio276, guidato da Argan e svolto in concomitanza con la XIX
Assemblee Association Internationale Des Critiques d’Art 277 , si inserisce in questo humus
culturale, indagando lo spazio visivo della città.
Come di consuetudine, il discorso introduttivo di Argan 278 delinea la geografia del campo
d’indagine, focalizzando l’attenzione su alcuni nodi tematici. A partire da una lettura storico-

273 T. Maldonado, Per una progettazione ambientale, in “Summa”, n. 6-7, dicembre 1966.
274 G. Celant, Arte Povera. Appunti per una guerriglia, in “Flash Art”, n. 5, 1967.
275 Ibidem.
276 XVI Convegno internazionale Artisti, Storici e Studiosi d’Arte: Lo spazio visivo della città “Urbanistica e cinematografo”,

Rimini, San Marino, Urbino, Treviso, Venezia, 8-13 settembre 1967.


277 In merito all’accorpamento delle due manifestazioni si registrano opinioni di dissenso esplicitate da Leonardo

Ossicini sulle pagine di “Arte oggi”. Ciò che è recriminato è il diritto di un gruppo e di una concreta organizzazione
locale, quale è quella del Convegno di Verucchio, di assumere le funzioni organizzative di una autonoma
associazione culturale e professionale come l’AICA. In particolare è oggetto di polemica che l’assegnazione di premi
e medaglie legate alle manifestazioni di Verucchio abbia coinvolto il congresso dell’AICA, organizzazione estranea
all’attribuzione di premi, richiamando l’attenzione sui rapporti fra cultura e potere. Cfr. L. Ossicini, L’AICA (ma non
troppo), in “Arte Oggi”, n. 30, anno IX, ottobre-novembre 1967.
278 G. C. Argan, in Lo spazio visivo della città “Urbanistica e cinematografo”, Gli incontri di Verucchio, Capelli Editore,

Bologna 1969, pp. 9-16.

75
antropologica della città quale struttura essenziale della vita sociale, nonché sintesi fra la
dimensione spaziale della natura e quella temporale della storia, Argan riconosce lo spazio urbano
come nucleo dello spazio universale. Evidente il riferimento a Gaston Bachelard in La poetica dello
spazio279 e alla sua concezione dello spazio elaborata in relazione alla forma della casa e alle prime
esperienze individuali di adattamento all’ambiente. Passando dall’individuo alla società, dalla casa
privata ai luoghi collettivi, giunge a dimostrare che la concezione dello spazio come dimensione
sociale si fonda sulla forma della città. In questa prospettiva, continua Argan, le città non
rispondono alle esigenze e ai modi della vita moderna: scoppiano per la congestione del traffico,
per la densità di popolazione, per l’accumulo caotico delle funzioni, per l’eccessiva separazione
delle classi sociali; in altre parole sono caratterizzate da un disordine spazio-temporale che causa
nell’uomo l’alienazione. Le argomentazioni di Argan appaiono sfiduciate in merito a qualsiasi
possibile riforma dello spazio urbano, riconoscendo una profonda crisi della città come istituto
civile. I tentativi svolti storicamente dall’urbanistica – considerata dallo stesso Argan in Progetto e
destino, come unica strada per l’architettura – sembrano essere falliti: la proposta di abbandonare
le città, di sostituire all’accentramento urbano l’urbanizzazione policentrica, si sono rivelate
incapaci di rispondere alle vere necessità dei cittadini e alle trasformazioni socio-economiche. Il
monito rivolto agli urbanisti è di mutare il loro programma di ricerca, cercando di recuperare il
valore tradizionale della città come accumulo culturale e di funzioni, conciliando la dimensione
urbana con il significato ambientale ed ecologico.
Alla luce di queste argomentazioni, il primo punto da indagare è la città come dimensione
esistenziale. Seconda questione: da dove arrivano gli elementi di indagine? La risposta di Argan è
il cinema. Molte vicende filmiche, in effetti, si svolgono in uno spazio urbano e si innescano in un
contesto sociale cittadino, non solo nei casi di produzioni filmiche di alto livello, ma anche in film
polizieschi nazional-popolari. Il cinema permette all’osservatore di vivere l’esperienza della città
molto più intensamente di quanto non faccia nella realtà fisica perché amplifica le sue attitudini
psicologiche, attraverso il linguaggio filmico e soprattutto la struttura spazio-temporale.
Argan pone come oggetto del Convegno “la città come ‘Erlebnis’ da un lato, la città come
progetto d’esperienza futura dall’altro […] ma soprattutto la città come spazio avvolgente e
inglobante”280, invitando all’analisi urbanisti e cineasti.
Il dibattito si svolge in due nuclei principali: il primo legato alla lettura artistica e cinematografica
dello spazio, con contributi di Gilbert Cohen-Séat e Guido Aristarco, il secondo concentrato
sull’aspetto architettonico affrontato da Manfredo Tafuri.

279 G. Bachelard, La poetica dello spazio, 1957, ed. it. 1975, Edizioni Dedalo, Bari 2006.
280 G. C. Argan, in Lo spazio visivo della città “Urbanistica e cinematografo”, cit., p. 12.

76
L’intervento di Cohen-Séat281, critico e teorico del cinema francese, si inserisce nel campo di
relazioni tracciato da Argan in maniera anomala, distaccandosi da una lettura analogica dello
spazio, così come il cinema condurrebbe a pensare, bensì intuendo una trasformazione profonda
dell’ambiente a partire da un certo squilibrio della nozione di spazio determinato dalle tecniche
moderne di comunicazione di massa, “dopo” il cinema. Il concetto di spazio, oltre la sua
definizione geo-morfologica, è definito essenzialmente dall’esperienza e si rappresenta all’uomo
attraverso i “campi psichici”, ossia la porzione di spazio esperita dall’uomo, differente nelle
diverse epoche storiche. L’epoca contemporanea, dominata dall’informazione, ha generato un
cosiddetto “spazio dell’informazione” “in cui io percepisco visualmente, nello stesso istante, un
‘altrove’ dove non c’è possibilità che io possa trovarmi e dove non posso consumare che da
lontano l’avvenimento”282. Sono evidenti le caratteristiche “quasi magiche” di questo spazio per la
rapidità di spostamento e di esperienze altrimenti precluse. Dopo aver riconosciuto l’esistenza di
questa categoria, Cohen-Séat ne svela criticamente il limite: lo “spazio dell’informazione” esiste
solo se consumato, ossia solo in presenza di un fruitore. L’intento dello studioso francese è
quindi evidenziare come la rete delle comunicazioni contemporanee siano in grado di modificare
la struttura dello spazio, innescando conseguenze sociologiche e psicologiche.
Immediata la reazione di Argan per riportare il dibattito sul terreno da lui individuato nel discorso
introduttivo, leggendo le considerazioni di Cohen-Séat come conferma del condizionamento
svolto dal cinema e dall’urbanistica nel contesto ambientale.
Più legata all’ambito cinematografico la riflessione di Aristarco283. Richiamando alla mente le
considerazioni di Rudolf Arnheim in Film come arte284, il punto di partenza è la possibilità fornita
dal cinema, attraverso il montaggio, di rompere la continuità dello spazio e del tempo, annullando
completamente le distanze spaziali. La caratteristica dominante del film, nonché l’elemento che lo
distingue dalle altre arti, è proprio la simultaneità spazio-temporale e la loro osmotica
compenetrazione: lo spazio perde il suo carattere statico per farsi dinamico, fluido; così come il
tempo, inteso in senso bergsoniano, appare discontinuo e mobile. La percezione della
simultaneità di avvenimenti diversi, disgiunti nello spazio, trasporta lo spettatore in uno spazio
dove le cose sono, al contempo, vicine e lontane. Esemplificando le sue argomentazioni con

281 G. Cohen-Séat, Azione, evasione, informazione: tre categorie di spazi, in Lo spazio visivo della città “Urbanistica e
cinematografo”, cit., pp. 17-20. La complessa attività teorica di Cohen-Séat e l’impegno in numerosi progetti dalla metà
degli anni Quaranta in poi, dalla fondazione dell’ Association française pour la recherche filmologique, alla direzione
della rivista internazionale "Revue internationale de filmologie", dall’organizzazione nel 1947 del Primo congresso
internazionale di filmologia e la fondazione, presso la Sorbonne, dell'Institut de filmologie di cui è stato a lungo
direttore, lo qualificano come una delle personalità più rilevanti nell’ambito della teoria cinematografica, impegnato
nella promozione di una lettura interdisciplinare e nella critica militante.
282 Ivi, p. 19.
283 G. Aristarco, La città, possibilità del cinema e i film, in Lo spazio visivo della città “Urbanistica e cinematografo”, cit., p. 34-63.
284 R. Arnheim, Film come arte, Il Saggiatore, Milano 1960.

77
esempi tratti dalla cinematografia d’autore, Aristarco richiama ripetutamente Marshall McLuhan285
per i suoi studi relativi all’influenza del cinema sulla letteratura e l’arte moderna, nei quali, ad
esempio, il flusso di coscienza, tecnica narrativa prediletta da molti autori nel Novecento, è letto
come trasposizione sulla carta stampata della tecnica cinematografica. Alla luce di tali studi e delle
riflessioni svolte da Arnold Hauser nella sua Storia sociale dell’arte286, Aristarco giunge a delineare la
funzionalità del cinema come metodologia per interpretare un complesso problema come
l’urbanistica: il cinema, infatti, offre un’enorme quantità di informazioni che nessun altro mezzo
di comunicazione può veicolare - ad esempio la città di Rocco e i suoi fratelli è Milano, de La dolce
vita è Roma -; e tenta un recupero completo delle metropoli, permettendo all’osservatore di
abitare psicologicamente lo spazio. L’edificio, la città non sono più oggetti statici, ma diventano
matrici di una dialettica di relazione fra l’uomo e le cose. Il cinema può aiutare a leggere la realtà
urbanistica determinando un atteggiamento critico nello spettatore-utente, poiché garantisce una
pluralità di punti di vista moltiplica le possibilità di esperire lo spazio urbano.
La lettura architettonica è affidata a Tafuri287, giovane storico dell’architettura, allievo di Argan e
di Ludovico Quaroni, il quale premette l’oggetto della sua riflessione attraverso la parafrasi delle
parole di Argan: “il problema autentico della salvezza o della caduta dell’architettura come
portatrice di valori comunicativi all’interno del paesaggio urbano”288. La sua risposta è da storico
dell’architettura e come tale tenta di storicizzare i vari tentativi, le utopie e i fallimenti del
Movimento Moderno, ricercando le radici dell’autonomia dell’urbanistica nella cultura illuminista.
A partire dalle settecentesche teorie di Laugier sul disegno delle città, individua due istanze: da un
lato l’idea di ridurre la città a fenomeno naturale, dall’altro il rifiuto di ogni a-priori nell’ambito
dell’ordinamento urbano, a favore di sperimentazioni formali legate al Pittoresco. L’idea di una
“città bricolage” introdotta da Laugier è portata alle estreme conseguenze da Giovan Battista
Piranesi, Francesco Milizia e Quatrémere de Quicy, ed è dialetticamente contrapposta da Tafuri
all’esperienza di Giovanni Antolini, il quale, nell’Ottocento propose il recupero della struttura
storica della città. Fra le due “vie” delineate, l’intuizione d’autore di Laugier contro
l’esemplificazione storica di Antolini, si situa una terza strada, divenuta protagonista nella
modernità, ossia il pragmatismo urbanistico americano, attuato già nel Settecento, in cui la città è
una maglia regolare e flessibile. Da questo momento in poi, spiega Tafuri, urbanistica e
architettura sono divenute autonome, ma ciò ha introdotto i problemi legati alle relazioni fra le
due discipline, derivanti dalla disarticolazione della forma architettonica e il mancato sbocco di
queste sperimentazioni nella dimensione urbana. Nonostante gli eclettici tentativi condotti

285 Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967.
286 A. Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 1958.
287 M. Tafuri, Lo “spazio” e le “cose”: città, town-design, architettura, in Lo spazio visivo della città “Urbanistica e cinematografo”,

cit., pp. 87-107.


288 Ivi, p. 87.

78
dall’Espressionismo, l’utopia del Bauhaus e del Costruttivismo, negli anni Trenta del Novecento
le contraddizioni della città moderna sono divenute evidenti. Il fallimento dell’urbanistica
costruttivista ha avuto come conseguenza la liberazione di tutte le possibilità progettuali. Secondo
Tafuri, così come le città hanno agito sul destino dell’arte moderna, l’arte moderna agisce sul
destino delle città: se nel Settecento la pittura di Lorein e Constable ha influenzato la percezione
del paesaggio, l’attuale fruizione dello spazio urbano riflette i grovigli di Pollock, i “reportage”
pop e l’uso sincopato del tempo cinematografico.
L’intervento proposto da Tafuri durante il Convegno preannuncia le riflessioni che l’autore
condurrà negli anni seguenti, prima sulle pagine di “Contropiano”289 e poi nel saggio Progetto e
utopia 290 . Attraverso la filosofia marxista, Tafuri individua nello sviluppo capitalistico lo
smarrimento della dimensione utopica dell’architettura: “dal Dada alla Pop Art il concetto di
spazio è stato contestato, sostituito dalle cose” 291 . È evidente il parallelismo con le
argomentazioni condotte da Argan in Progetto e destino, testo per Tafuri fondamentale come punto
di partenza delle sue riflessioni orientate al ripensamento della critica dell’architettura nella
direzione di una “critica dell’ideologia architettonica”292.
L’architettura, la progettazione e il town design si contrappongono all’unitarietà del tradizionale
concetto di città, aprendo a due possibili alternative: richiamare un ordine generale, quindi agire
sul piano dell’utopia; oppure proporre il potenziamento simbolico della dimensione
architettonica, attraverso le cose. “Il Campidoglio di Chandigarh di Le Corbusier […], il progetto
per il centro di Dacca di Louis Kahn, la townhall di Boston di Kalmann, Mc Kinnel e Knowels
[…] sono tutti esempi di come un frammento architettonico, ostinandosi nel volersi configurare
come autonoma realtà, possa indicare metaforicamente l’ipotesi di una nuova struttura urbana”293.
Intorno a questi principali nuclei tematici si argomentano altre posizioni, fra cui la riflessione di
Giorgio Tempesti 294 , efficace elemento di connessione fra l’ambito cinematografico, quello
architettonico e le arti visive. Tempesti identifica lo spazio cinematografico come un fatto visivo
e mentale, ossia lo “spazio agito” e lo fa corrispondere in ambito visivo alle ricerche gestaltiche;
mentre lo spazio urbano sarebbe lo “spazio agente” perché coinvolge e condiziona il
comportamento dell’uomo, parallelo alle ricerche pop. Infine, lo spazio urbanistico è letto come
sintesi dello spazio agito e dello spazio agente in quanto rispondente al libero fluire della vita e, al
contempo, in continuo divenire secondo i cambiamenti sociali e storici. Questa categoria spaziale
“agente e agita” non può essere tralasciata dalle arti visive ed è proposta da Tempesti quale futura
289 M. Tafuri, Per una critica dell’ideologia architettonica, cit.
290 M. Tafuri, Progetto e utopia, cit.
291 M. Tafuri, Lo “spazio” e le “cose”: città, town-design, architettura, cit., p. 106.
292 M. Tafuri, Progetto e utopia, cit., pp. 1-4.
293 Ivi, p. 107.
294 G. Tempesti, Implicazioni ideologiche di una moderna nozione di spazio, in Lo spazio visivo della città “Urbanistica e

cinematografo”, cit., pp. 122-124.

79
prospettiva di sperimentazione artistica, affinché l’arte non sia dissociata dal tessuto della città.
In opposizione a quanto argomentato fino a questo punto interviene Renato De Fusco 295 ,
professore di architettura a Napoli e direttore della rivista “Op. Cit.”, il quale si discosta dalla
premessa di Argan su cui si basa l’intero Convegno. Innanzitutto De Fusco riconosce tre possibili
livelli di lettura dell’urbanistica: il primo considera l’urbanistica come storica stratificazione
composta da addizioni; il secondo è composto dalla pletora dei progetti più o meno utopistici mai
realizzati, la cosiddetta “urbanistica disegnata” ed infine, il terzo livello è quello dell’ “urbanistica
scritta”, cioè legata ai diversi interessi della vita cittadina. Immaginando un parallelismo con le
vicende artistiche contemporanee, De Fusco individua alcuni prelievi operati dalle arti visive
dall’urbanistica, ma non uno scambio nella direzione opposta. Ciò è imputo alla diversa reazione
elaborata dalle arti e dall’architettura rispetto ai cambiamenti culturali che la contemporaneità ha
vissuto: le arti visive, spodestate dalla loro funzionalità sociale da altri mezzi, hanno enfatizzato la
componente di significazione; viceversa l’architettura e l’urbanistica continuano a imporsi sul
piano pragmatico. Ne consegue, secondo De Fusco, la completa separatezza fra i due linguaggi.
La medesima criticità è condivisa, in margine del Convegno, da Silvio Ceccato, Vincente Aguilera
Cerni e Attilio Marcolli sulle pagine di “D’ars Agency”296.
In conclusione del dibattito Argan elabora una possibile conclusione dei lavori: ripercorrendo le
opinioni emerse, restituisce la frattura fra lo “spazio della memoria”, ossia quello testimoniato dal
cinema e corrispondente in arte ai linguaggi pop e lo “spazio del futuro”, ossia quello disegnato
dall’urbanistica e parallelo alle ricerche gestaltiche. Al primo recrimina la tendenza a far coincidere
lo spazio con la propria contingenza, negando aperture future; al secondo, invece, il rischio di
agire sul vuoto anziché sullo spazio. Secondo Argan il vero problema emerso dal Convegno non
è stato la lettura critica dello spazio, quanto il riconoscimento della necessità storica di trovare il
crinale comune alla metodologia della progettazione urbanistica e a quella cinematografica,
ugualmente bisognose di riavere un ruolo sociale e le rispettive ragioni storiche fondamentali. Nel
suo discorso conclusivo Argan non risponde ai dissensi in merito alla tematica prescelta,
riconoscendo l’urgenza di continuare a dibattere sul tema della città e proponendo il design nello
spazio urbano come tema per l’anno successivo.
La completezza degli atti permette di ampliare le considerazioni critiche derivanti dal Convegno.
Alla luce del ventaglio delle posizioni emerse attraverso le relazioni e il dibattito, si riconoscono
concretamente tre posizioni:
- la possibilità dell’incontro tra cinematografo e urbanistica in una prospettiva operativa,

295 R. De Fusco, Urbanistica e cinema parenti lontani, in Lo spazio visivo della città “Urbanistica e cinematografo”, cit., pp. 125-

128.
296 Cfr. AA.VV., Analisi e considerazioni sul XVI Convegno Internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, in “D’Ars Agency”, n.

38-39, 20 ottobre 1967 – 10 febbraio 1968, pp. 6-11 e 18-21.

80
derivante da una convergenza metodologica e conoscitiva;
- il riconoscimento delle analogie fra l’urbanistica e il cinema, le quali condurrebbero a
considerare lo spazio urbano come unico campo di lavoro in quanto simbolo del tempo
storico attuale;
- la necessità di mantenere le rispettive autonomie delle due discipline, cogliendo solo le
relazioni realmente strutturali, pur riconoscendo gli elementi comuni.
Il Convegno si conclude senza nessuna sintesi, ma è condivisa l’opinione di una svalutazione
dell’architettura come metodo compositivo tradizionale, a favore dell’urbanistica vista come il
nodo di confluenza di esperienze formali e impegni ideologici. Non stupisce che questa stessa
opinione sia avvallata dalle contemporanee riflessioni di Argan e Brandi sull’argomento. Proprio
Argan, lo si è ricordato ripetutamente, in Progetto e destino considera l’urbanistica quale l’unica via
affinché l’architettura sfugga all’alienazione derivante dalla società di massa; opinione condivisa
da Cesare Brandi in Le due vie297, dove considera l’urbanistica come libera architettura d’interno
dello spazio esterno.

XVII Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte: Strutture ambientali


Le battute conclusive del XVI Convegno mantengono l’attenzione sulla città, quale spazio in cui
l’uomo esprime il proprio operare artistico, contrapponendosi alla natura. Così come già
anticipato in occasione del Convegno del 1966, dedicato alla possibilità di intendere l’arte
moderna come arte popolare, Argan e gli intervenuti alla manifestazione riconoscono nel design
industriale una possibile e attuale risposta alla crisi dell’arte e all’alienazione insista nei sistemi di
produzione industriale.
Nell’edizione del 1968 il design industriale torna a essere protagonista, considerato come
tentativo di ridurre lo scarto fra qualità e quantità in termini di funzione, qualificandola al massimo,
senza rinunciare alle destinazione prestabilita dal suo impegno, ossia il binomio quantità-consumo. Il
progressivo configurarsi di un sistema unitario di intervento a ogni livello disciplinare e operativo,
fra design, urbanistica e architettura, conduce gradualmente all’ampliamento dell’idea di design
all’ambiente, superando la contingenza dell’oggetto, comprendendo tutte le scale dimensionali
fino all’eccezione più estesa di pianificazione del territorio. Affinché il design possa realmente
conferire un spessore etico ai fatti produttivi della società occorre che la posizione dell’uomo
muti nella direzione dell’assoluta autonomia dalla merce in modo che la produzione e il consumo,
disciplinati e controllati, possano convertirsi in beni per tutti, secondo le reali necessità della
società. La subordinazione del processo metodologico a quello creativo-formale innesca un
rapporto dialettico fra fase creativa e fase produttiva, aprendo a una serie di problemi teorici nella

297 C. Brandi, Le due vie, Editori Laterza, Bari 1966.

81
meccanica dell’attività progettuale e del suo potenziale estetico: il design si configura come una
nuova fenomenologia dell’atto estetico e, al contempo, come azione etica dell’uomo nella civiltà
tecnologica.
A partire da queste premesse teoriche il discorso introduttivo di Argan, anche in questa edizione
presidente dei lavori, delinea i due aspetti oggetto di studio nel Convegno: da un lato l’analisi
scientifica del tema del design, dall’altra la definizione delle linee direttive di una mostra sul tema
del design, in programma a Verucchio nel 1969, sotto l’organizzazione di Dasi.
Cominciando proprio dalla mostra, Argan esprime la volontà di creare un’esposizione che possa
restituire un determinato e attendibile percorso scientifico focalizzato sulla questione del design
ambientale, cioè sulla partecipazione della ricerca estetica nella progettazione ambientale e sul
significato dell’oggetto industriale in un preciso contesto.
Per quanto riguarda, invece, l’analisi scientifica, reale argomento di dibattito del Convegno, Argan
auspica la cooperazione fra specialisti di discipline diverse, urbanisti, artisti, psicologi, sociologi e
studiosi dell’informazione, a partire dalla consapevolezza che la città è soprattutto un sistema di
comunicazione. Il focus del Convegno è identificato nelle strutture che definiscono l’ambiente
della città, deducendo la dicitura di “strutture ambientali” dall’idea di “design totale”, già palesata
negli anni Venti nelle elaborazioni del Bauhaus e attualizzata dalle esigenze, sorte soprattutto nel
secondo dopoguerra nell’ambito della ricostruzione e conseguenti l’incremento della densità della
popolazione negli spazi urbani.
I lavori del Convegno sono suddivisi in quattro sezioni: analisi, ipotesi, critica e progettazione.
La prima sezione ospita contenuti volti a indagare gli aspetti sociali ed etici del design. Fra i
molteplici interventi si identificano alcuni momenti cruciali nelle argomentazioni di Felice
Battaglia, Argan, Umberto Eco ed Enzo Mari.
Il filosofo Battaglia298 imposta la propria riflessione a partire dal superamento dell’idea di “morte
dell’arte” resa possibile attraverso il design, quale nuovo orizzonte di sperimentazione estetica in
grado di ritrovare una funzione sociale. Legato alla tradizione estetica, Battaglia non tralascia il
concetto di bellezza come elemento qualificatore dell’operare artistico, in qualsiasi forma e
modalità esso si manifesti, distingue la forma d’arte dall’ornamento e ricorda l’importanza della
tecnica per la definizione della funzione, fino a giungere al quel che considera il cuore del design,
ossia il contenuto sociale dell’oggetto. Secondo Battaglia ciò che qualifica il design come “attualità
dell’arte” è il veicolare valori sociali e costruttivi della società e, nello specifico, il design
ambientale esprime nella forma della città la pienezza della socialità.
Il contributo di Argan299 è orientato a individuare le connessione fra il design e la dimensione

298 F. Battaglia, in Strutture ambientali, Gli incontri di Verucchio, Capelli Editore, Bologna 1969, pp. 33-36.
299 G. C. Argan, in Strutture ambientali, cit., pp. 36-42.

82
urbanistica, a partire dalla crisi del design dell’oggetto, identificata con il fallimento utopico del
Bauhaus: la soppressione della scuola di Dessau durante il regime nazista e la riapertura negli Stati
Uniti hanno posto l’accento sull’aspetto commerciale piuttosto che su quello progettuale. Negli
anni seguenti l’esistenza di artisti in senso romantico, da Picasso a Pollock, ha convalidato la
debolezza teorica del design. Altra causa della crisi del design è individuata da Argan nel
capitalismo industriale maturato nel secondo dopoguerra, asservito all’ideologia della produzione
e gradualmente trasformata in ideologia dei consumi. In linea teorica l’oggetto vale affinché
risponde a una necessità, a una mancanza oggettiva; ma nella società consumistica è radicata l’idea
che la tecnologia può rispondere a qualsiasi bisogno, dunque non esistono più mancanze e
necessità oggettive, ma solo bisogni psicologici. È evidente che la massa dei consumi determinati
da bisogni psicologici e da motivazioni inconsce è infinitamente superiore a quella dei consumi
determinati da bisogni oggettivi. L’oggetto ha perso la propria funzione ed è sostituito
dall’immagine, unica vera sollecitazione del bisogno psicologico. In questo contesto gli artisti e i
progettisti non mirano più a configurare oggetti, ma a creare un ambiente, ad agire nella
dimensione spazio-temporale poiché ciò significa modificare la facoltà psichica che percepisce
l’ambiente. Il terreno di contesa non è la realtà ma l’immaginazione umana, tanto per gli artisti
che per i designers. Nello specifico i designers nella contemporaneità sono destinati, secondo
Argan, a operare come urbanisti, interagendo con la città al fine di comporre l’ambiente visivo
secondo un principio d’ordine, un’intenzionalità, una struttura spaziale per “ridare agli uomini
quella immaginazione, che non può esistere e muoversi se non nell’ampiezza dello spazio e del
tempo”300.
A completare la lettura analitica del design, il contributo di Umberto Eco301 si concentra sulla
componente ideologica che il progettismo è in grado di veicolare. Eco concorda con Argan in
merito all’attuale crisi del design, ma ne rintraccia cause diverse. Il binomio forma-funzione, alla
base di ogni progetto, consiste nell’armonia con cui l’oggetto manifesta la propria funzionalità e si
offre alla decorazione. Il design storico si è proposto, da un lato, di rendere comprensibile
attraverso la chiarezza formale, la funzione, dall’altro, avendo raggiunto le potenzialità estetiche
dell’arte e la possibilità di “educare” l’utente dell’oggetto, ha auspicato di conciliare l’uomo con la
macchina. Secondo Eco questo tentativo di armonizzare e integrare forma e funzione ha agito
solo nel breve raggio, ossia nella contingenza del singolo oggetto, ad esempio armonizzando
l’impugnatura di una brocca alla mano, mancando il rapporto con la complessità della società. Si
è, infatti, manifestato il problema della globalità e della correlazione delle varie funzioni fra loro al
quale il designer ha reagito con possibilità rivoluzionarie, rivelatesi inevitabilmente utopiche.

300 Ivi, p. 42.


301 U. Eco, in Strutture ambientali, cit., pp. 47-54.

83
L’esempio cui si riferisce Eco, avvicinandosi al problema delle strutture ambientali, è Brasilia,
ossia la progettazione urbana e architettonica della capitale del Brasile avvenuta fra il 1956 e il
1960 ad opera di Lucio Costa, Oscar Niemeyer e Roberto Burle Marx, immaginata con la forma
di un uccello con le ali spiegate, con unità abitative tutte uguali con lo scopo di evitare ogni
qualsivoglia differenza sociale. Ne deriva che la progettazione, tanto di un oggetto, quanto di un
ambiente, ha una propria efficacia se instaurata su un rapporto individuale perché l’individuo può
caricare il progetto stesso di una pluralità di significati; ma ciò non è più valido in un rapporto
collettivo. La sintesi svolta da Eco propone la riformulazione della metodologia di progettazione:
l’obiettivo del design non può essere la riconciliazione dell’uomo con l’oggetto o l’ambiente, ma il
ripensamento della sua stessa vocazione.
Sulla scia di questi principali nuclei tematici, Enzo Mari302 si inserisce nel dibattito affermando il
potenziale rinnovamento della società che può partire proprio dall’attività del designer saldata con
l’attività politica: “l’esigenza di un’integrazione tra l’attività di progettazione nei vari campi
specifici e azione politica, vista essa stessa come progettazione. […] Obiettivi di azione che si
pongono in questo quadro come più propri dell’attività di progettazione sono: la verifica del
linguaggio e la partecipazione alla progettazione”303, attraverso l’apporto reale e non demagogico
alle esigenze della classe operaia e del movimento studentesco.
La seconda sezione dei lavori ha come argomento la progettazione ed è presieduta da Tòmas
Maldonado, il presidente dell’ordine internazionale dei progettisti, già da un decennio
protagonista della trattazione teorica di questi temi. Il suo punto di vista in merito alla crisi del
design è propositivo. La risposta di Maldonado 304 ad Argan è sintetica: alla crisi della
progettazione si può reagire solo con la progettazione stessa, in nome di una responsabilità etica,
non anteponendo la trasformazione delle cose e degli uomini a quella dell’ambiente, ma agendo al
contrario, stabilendo un codice dinamico in grado di risolvere la grande opposizione fra necessità
e libertà, senza ricadere nell’utopia e abbandonando la realizzazione di oggetti esemplari ma
isolati, a favore del conferimento di una struttura all’intero ambiente urbano. L’opinione di
Maldonato dialoga con Filiberto Menna305, il quale considera inscindibile il portato utopico da
qualsivoglia progettazione e richiama il concetto di immaginazione, già introdotto da Argan. In
merito al design d’ambiente ogni variazione presuppone l’immaginazione di uno spazio diverso, il
quale, per quanto sia ipotetico, non è irreale: si tratta, in altre parole, di uno spazio immaginario

302 E. Mari, in Strutture ambientali, cit., pp. 65-67.


303 Ivi, p. 67.
304 T. Maldonado, in Strutture ambientali, cit., pp. 81-84. Maldonado è stato fra i fondatori del gruppo d'avanguardia

argentino Arte concreto e ha svolto un ruolo importante nello sviluppo dell'arte moderna nei paesi latino-americani.
Nell’ambito del design è stato portavoce di un pensiero critico che qualifica la progettazione come come indagine
tecnico-scientifica, il più possibile svincolata dalle esigenze del consumo. Ha insegnato presso la Hochschule für
Gestaltung di
305 F. Menna, in Strutture ambientali, cit. pp. 90-95.

84
dotato di un valore strumentale e metodologico. Ciò rende necessario introdurre nell’ambito
dell’urbanistica i principi della programmazione tecnologica e avvicinare il design ambientale
all’urbanistica in uno scambio proficuo, affinché il design ambientale non si riduca ad essere
semplice “cosmesi della città”. In quest’ottica il design ambientale può essere anche punto
d’incontro fra urbanisti e artisti, rivalutando il valore estetico del quotidiano.
Particolarmente puntuale in merito al concetto di progettazione, è l’intervento dell’architetto
Emilio Battisti. Nel lessico architettonico la nozione di progetto è estremamente precisa: una
manifestazione concettuale e culturale di piena compiutezza, totalmente autonoma e, al
contempo, indice di un procedimento metodologico che può avvenire attraverso due modalità.
Da un lato il progetto può essere seguito nei minimi dettagli, senza particolari sperimentazioni;
dall’altro il progettista può essere spinto da una carica di innovazione tale da sfiorare l’utopia
progettuale. In altre parole, il progetto può essere letto in funzione della meccanica del problema
cioè come schema chiuso, fissato a priori; oppure in modo creativo, come schema aperto, nel
tentativo di riconfigurare alla base gli estremi all’interno dei quali il problema viene
convenzionalmente considerato. Una volta premesse queste diverse modalità di progettazione,
Battisti focalizza il problema: “la domanda fondamentale che dobbiamo porci in questo
momento è se il sistema di progettazione debba essere chiuso o aperto, se possa essere
autocratico o democratico”. La risposta non è e non può essere univoca, ma Battisti propone
l’ipotesi che la criticità progettuale derivi proprio dal tentativo di mantenere separate queste due
modalità di progettazione.
Il terzo nucleo del dibattito è la critica, non intesa come critica dei dati ricavati dall’analisi, ma
come critica delle ipotesi: il coordinamento della tavola rotonda è affidata a Franco Albini306.
L’intento di Albini è definire le diverse accezioni del concetto di critica nell’ambito del Convegno:
se la critica, così come suggerita da Argan, è verifica delle ipotesi progettuali diviene essa stessa
una componente del processo di progettazione, “critica come controllo razionale e
contemporaneamente come stimolo all’immaginazione, critica come ragionamento serrato,
controllo di coerenza su ogni atto del progetto”. Inoltre, lo sviluppo scientifico e industriale che
coinvolge il design attraverso applicazione di nuove tecnologie e nuovi materiali, non ancora
assimilati da una tradizione, rende necessaria l’azione della critica per indicare le vie di un
effettivo sviluppo che tenga conto delle opportunità di rinnovamento della progettazione.
Si inserisce in questa sezione Gillo Dorfles307, identificando l’attività critica nell’attuale situazione
progettativa come denuncia dell’asservimento totale del design al mercato. Non si riferisce solo al
mercato economico e finanziario, ma anche alla considerazione della progettazione in senso

306 F. Albini, in Strutture ambientali, cit. pp. 123-125.


307 G. Dorfles, in Strutture ambientali, cit., pp. 123-125.

85
meramente utilitario. La lettura critica di Dorfles è volta a sottolineare l’urgenza della gratuità
progettuale la quale, essendo completamente autonoma dal mercato, conduce a legittimare la
“possibilità dell’errore”, dell’indeterminatezza, dell’imperfezione. Se ciò non è possibile
nell’ambito del design del prodotto perché non conciliabile con le modalità industriali, esso può
essere applicato nel design d’ambiente il quale, suggerisce Dorfles, può vivere una nuova vivacità
immaginativa in nome dell’indeterminatezza progettuale.
Italo Tommasoni308 legge la questione critica secondo un’altra ottica: il problema non si risolve
spostando l’accento dal design del progetto al design ambientale, ma chiedendosi con quali mezzi
e tecniche si può modificare la vita dell’uomo al di fuori delle regole del consumo. Il punto di
partenza di questa riflessione è il concetto di immaginazione, considerato come unica forza
storica a disposizione dell’uomo. Tomassoni fa riferimento alla concreta possibilità di operare
sull’immaginazione non come fenomeno vissuto nella coscienza, ma come dato da verificare
criticamente, attraverso interventi di carattere costruttivo e pragmatico, come quelli svolti da
Nuova Tendenza e dalle recenti sperimentazioni americane. Questi interventi cercano di
riscattare l’odierna crisi in una tensione dialettica che oppone la fantasia alla logica, l’intuizione
alla metodologia, la casualità alla progettazione; nello stesso modo, a partire da una dialettica
interna all’immaginazione stessa, è possibile agire sull’ambiente mediante la trasposizione delle
poetiche in metodologie tecnologiche.
L’ultima sezione309 dei lavori del Convegno ha come tema la progettazione e ospita soprattutto
interventi di architetti e progettisti. Il termine di dialogo con il quale gli intervenuti si confrontano
è essenzialmente il Movimento Moderno e il significato storico che questa esperienza assume
nella contemporaneità, richiamando l’urgenza, storicamente affrontata, di un’intima dialettica tra
l’idea della “cellula costruttiva” e l’ideazione della “cellula abitativa”. All’origine di entrambe
questi principi ideativi c’è Walter Gropius, da un lato con il progetto del Konnector, dall’altro con
l’idea di Housing. I due progetti, l’uno rivolto alle case prefabbricate, l’altro alla casa unifamiliare,
hanno dimostrato come l’elaborazione di una scienza e di una nuova tecnica delle costruzioni
industriali non potesse essere anteposta allo spazio urbano: occorreva partire dallo spazio per
arrivare a definire la cellula abitativa prima ancora di studiare la cellula costruttiva per definire,
tramite la sua estensione seriale, lo spazio fisico. La progettazione di Gropius è stata fondata sulla
ricerca della continua interazione dell’uomo con l’oggetto, dell’uomo con lo spazio, dell’oggetto
stesso con lo spazio, affinché le costruzioni fossero il pensiero reale della città contemporanea, la
realizzazione concreta della pianificazione organica della comunità. Lo studio preliminare dello
spazio interno sulla base dell’educazione della visione, al fine di elaborare una medesima

308 I. Tomassoni, in Strutture ambientali, cit., pp. 131-132.


309 AA. VV., Progettazione, in Strutture ambientali, cit., pp. 139-170.

86
metodologia per la conformazione della cellula abitativa e della cellula costruttiva, è stato la
chiave di volta per intendere il vero significato della struttura urbana. Gropius aveva presente le
esperienze tedesche che già negli anni precedenti avevano agito in questa direzione, prima fra
tutte l’esperienza del Novembergrouppe310: il superamento della divisione fra attività razionale e
intuizione artistica, concretamente raggiunta con il Bauhaus, ha aperto la strada al design,
dell’oggetto in primis, e dell’ambiente, nella cooperazione con l’urbanistica. Il dialogo con le
esperienze storiche degli anni Venti guidate da Gropius è fondamentale per affrontare
l’imminente problema di salvare la città storica e, al contempo, definire la struttura dello spazio
urbano contemporaneo. Costruire case, edifici e infrastrutture urbane in un tessuto già
connotato, come è necessariamente quello di qualsiasi città, deve tener presente la relazione con
ciò che esiste, ossia intervenire nell’ottica di una struttura integrata. “Il corpo chiamato società
[…] è un’entità indivisibile che non può funzionare se alcune delle sue parti non sono integrate o
sono neglette, e quando non funziona a dovere, si ammala”311.
La radice romantica, hegeliana del pensiero di Gropius conduce al suo fallimento: l’integrazione
auspicata è contrapposta alla divisioni in classe della società e alle fratture derivate dai
procedimenti analitici di scomposizione. In questa cornice si inseriscono gli interventi di
progettisti e architetti, fra cui Pierluigi Spadolini, Vittorio Gregotti, Marco Zanuso e Ludovico
Quaroni, i quali, per quanto legati a testimonianze fra loro frammentate, riconoscono
l’interazione come centro della progettazione, radice delle ricerche sui problemi dell’oggetto e
dello spazio.
In margine al Convegno, prima che i lavori siano condotti alla conclusione, si manifestano
momenti di dissenso: durante una tavola rotonda chiede la parola dal pubblico Jean Dupont312,
un operaio francese impegnato nelle fabbriche della Citroën, il quale, in nome della propria
militanza politica, si fa portavoce delle criticità del Convegno ritenuto un simposio fra e per
specialisti, autoriferito nei contenuti, nel linguaggio e nella struttura. La presa di posizione di
Dupont coinvolge nella contestazione il Convegno: i disordini sono amplificati dalla presenza di
agenti di polizia nelle sale dell’incontro, tali da condurre, fra gli altri, Alessandro Mendini ed
Emilio Battisti a rifiutarsi di partecipare fino a quando le forze dell’ordine non avessero lasciato il
Convegno.
La contestazione è articolata su due livelli fondamentali, i contenuti e la struttura del Convegno, e
si concretizza nella presentazione di alcune mozioni. La mozione formulata da Ricci e Sepilli
310 Il Novembergrouppe è un’associazione di artisti costituitasi in Germania nel 1918 nell’ambito del movimento

espressionista, per dare vita a un’arte rispondente alle esigenze di vita e di lavoro del popolo. Il gruppo, che ebbe
come principali animatori M. Pechstein, C. Klein e B. Taut, fondà l’Arbeitsrat für Kunst, cui aderirono architetti,
scultori, pittori, musicisti e che organizzò, fino ale 1928, una serie di esposizioni, in particolare alla Grosse
Kunstausstellung di Berlino.
311 W. Gropius, Pianificazione urbana della comunità, in Architettura integrata, Il Saggiatore, Milano 1955, p. 60.
312 J. Dupont, in Strutture ambientali, cit. p. 173 e pp. 176-177.

87
propone di dividere il Convegno in una prima parte dedicata alla lettura delle “strutture
ambientali” in modo puntuale e scientifico e una seconda sezione di verifica pubblica, aprendo il
dibattito alla collettività. Le altre mozioni sono esplicitamente di carattere politico: l’una è rivolta
alla classe dei progettisti e architetti affinché la progettazione sia completamente autonoma da
qualsivoglia potere e condizionamento di classe, l’altra auspica che l’intervento dei progettisti
possa coinvolgere l’intero spazio urbano affinché la città sia il reale teatro della lotta di classe,
contro ogni sfruttamento. Seguono votazioni e tentativi di confronto che si rivelano vani e
lasciano incompiuti i lavori del Convegno.
Nel mezzo della contestazione Argan313 tenta di trarre le conclusioni, ma si trova, essenzialmente
a reagire alla contestazione e a “difendere” la struttura della manifestazione che per anni lo ha
visto presidente. I nuclei più interessanti delle argomentazioni di Argan sono la difesa del ruolo
dell’intellettuale borghese il quale, per quanto non possa essere protagonista della contestazione
per ragioni generazionali, si confronta con essa considerandola opposizione a ogni forma di
repressione intesa come a-storicismo; e la riflessione sul linguaggio della critica, ribadendo la
necessità di evitare l’esasperato tecnicismo per garantire il passaggio storico dalla cultura di classe
alla cultura interclassista.
Quanto precede testimonia come la XVII edizione del Convegno di Verucchio abbia portato a
galla due fatti significativi: il primo riguarda la possibilità di organizzare convegni di specialisti su
temi di larga risonanza socio-culturale, coinvolgendo partecipanti con un preciso profilo
professionale; il secondo, intimamente connesso con il primo, concerne i modi della
contestazione culturale che negli anni Sessanta hanno rischiato di trasformare eventi culturali in
facile agitazione slegata da contenuti scientifici. È indiscutibile l’attualità del tema scelto da Argan,
nonché evidente la portata ideologica dell’argomento e lodevole la partecipazione di specialisti di
fama internazionale; ma il limite principale è stato rappresentato dalle frequenti evasioni dal
dibattito non interpretate dai partecipanti come fermento intellettuale utile al confronto, quanto
come contestazione e messa in discussione dell’interna struttura del Convegno. Le mozioni e le
proposte presentate non hanno saputo trovare adeguate risposte, disperdendo sia le motivazioni
di opposizione che l’integrità scientifica degli interventi, tanto che alcuni relatori, soprattutto
stranieri, hanno abbandonato i lavori prima che fossero conclusi.
L’esito del Convegno restituisce la spaccatura che si registra nell’ambito della critica sul finire
degli anni Sessanta tra la concezione che riserva all’intervento degli intellettuali un ampio margine
di autonomia rispetto alla politica e la tendenza che considera necessario un impegno politico.
Per quanto riguarda il tema prefissato, il dibattito non ha saputo dare i frutti sperati, ponendo
un’unica certezza: il comune negativo giudizio su qualsiasi tipo di progettazione chiusa, che

313 G. C. Argan, in Strutture ambientali, cit. pp. 214-220.

88
pretenda di dare una configurazione rigida allo sviluppo sempre imprevisto della città moderna e
la proposta di una progettazione che includa la libertà di sperimentazione, in modo da non
rifiutare gli stimoli vitali che aprono verso il futuro della città.
Riprendendo le fila teoriche poste alla base delle tematiche affrontate, la critica del Movimento
Moderno, la considerazione dell’esperienza di Gropius quale termine di dialogo prediletto per
rinnovare il tessuto organico dell’architettura contemporanea, la totale fiducia riversata nel
concetto di progettazione con lo scopo di “guidare” il destino dell’uomo moderno non si attua
come punto di arrivo di un percorso critico, ma si rivela essere il punto di partenza per una critica
ideologica volta a individuare gli strumenti culturali direttamente utili alla lotta politica.
Parafrasando i titoli di alcuni saggi ripetutamente citati in questo studio: la salvezza è stata
identificata nel progetto il quale, anziché rivelarsi destino, si riversa nell’utopia.
Il contesto culturale a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta si concentra sul ripensamento delle
condizioni storiche della nascita e dello sviluppo del capitalismo, sul ruolo del lavoro intellettuale
in esso e in rapporto alla prassi politica, alla lotta di classe e, più in generale, sul tentativo di analisi
e di disvelamento dell’ideologia intesa in senso marxista, di struttura della falsa coscienza
intellettuale, nonché la sua conseguente critica. All’interno di questo panorama il tema dell’utopia
emerge come limite estremo del “pensiero negativo”, ossia il pensiero filosofico basato sulla
contraddizione, sulla dialettica ideologica che è sottesa al mondo borghese-capitalistico.
L’azione dell’intellettuale, disegnata da Max Weber in Il lavoro intellettuale come professione314, si
concretizza nella sospensione di ogni giudizio di valore, ne “l’intellettuale che riconosce il
processo di razionalizzazione e specializzazione […], l’intellettuale come esaminatore di fatti,
legami necessari, significati oggettivi”315.
In Progetto e utopia, Tafuri ripercorre il declino dell’utopia sociale che sancisce la resa dell’ideologia
alla politica delle cose realizzata dalle leggi di profitto: “all’ideologia architettonica, artistica e
urbana rimane l’utopia della forma, come progetto di recupero della totalità umana in una sintesi
ideale, come possesso del disordine attraverso l’ordine”316.
È significativo l’implicito rimando nelle parole di Tafuri ad Argan:
“La crisi dell’architettura moderna non consegue da ‘stanchezze’ o ‘ dilapidazioni’: è
piuttosto la crisi della funzione ideologica dell’architettura. […] nessuna ‘salvezza’ è più
rinvenibile al suo interno: né aggirandosi, inquieti, in labirinti di immagini talmente
polivalenti da risultare mute, né chiudendosi nello scontroso silenzio di geometrie paghe
della propria perfezione”317.

Tanto nell’architettura, quanto nelle arti visive e nel design industriale la salvezza utopica si rivela

314 M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1966.


315 M. Cacciari, Sulla genesi del pensiero negativo, in “Contropiano”, 1, 1969, pp. 131-200.
316 M. Tafuri, Progetto e utopia, cit., p. 47.
317 Ivi, p. 169.

89
anacronistica e legittima un’unica alternativa, ossia l’azione diretta nel reale, talvolta tradotta
nell’impegno politico, talaltra orientata al “dovere della consapevolezza”318 e concretizzata in una
cosciente rinuncia.

318 M. Tafuri, La sfera e il labirinto, Einaudi, Torino 1980, p. 338, ripreso in M. Biraghi, Progetto di crisi. Manfredo Tafuri e

l’architettura contemporanea, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2005, p. 92.

90
Una possibile lettura critica: Argan, i Convegni e le sorti della critica d’arte alla fine degli anni Sessanta
La ricostruzione storica dei Convegni fin qui illustrata permette di tentare un’interpretazione delle
vicende della critica d’arte degli anni Sessanta in Italia.
Nell’introduzione al Convegno di Verucchio del 1962, Gatt319 riconduce la categoria dei critici
d’arte, sul finire degli anni Cinquanta, a due macro gruppi: da un lato gli storici dell’arte impegnati
in ambito accademico e istituzionale, dal Ministero ai musei, talvolta prestati alla curatela di
mostre e all’ambito della critica, primo fra tutti Giulio Carlo Argan e, dall’altro, i cosiddetti “critici
militanti”, essenzialmente attivi nell’ambito del giornalismo culturale e della curatela, ad esempio
Mario De Micheli e Marco Valsecchi. Il dibattito critico, appare, in realtà, più complesso: a
prescindere dalle singole personalità impegnate in percorsi stratificati e difficilmente riconducibili
alla categoria “accademica” o “militante”, da Ragghianti a Dorfles, la questione centrale riguarda i
rapporti fra la storia e la critica d’arte. Fino alla fine degli anni Cinquanta le due discipline erano
state fra loro tangenti, ma, al contempo, autonome. Gradualmente, la crisi culturale sorta nel
dopoguerra e la necessità di rispondere adeguatamente ai cambiamenti socio – culturali che la
tecnologia e la comunicazione di massa rendono evidenti, richiedono una riformulazione della
dialettica fra storia e critica.
In questa direzione è nevralgico il ruolo di Giulio Carlo Argan, la cui figura, in questi anni,
rappresenta, per formazione e ruolo, la critica istituzionale. I suoi scritti in saggi e riviste,
formulati fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta tracciano un solco, non
senza attriti, nel terreno della critica d’arte italiana, evidenziando la necessità di un cambiamento
metodologico. A partire dall’articolo, posto in apertura di questo studio, La crisi dei valori, Argan
avvicina vertiginosamente l’approccio da storico dell’arte alla funzione del critico, impegnandosi
in un confronto diretto con le vicende artistiche a lui contemporanee. La preoccupazione che
guida i suoi studi per tutto il decennio coincide con l’indagine del rapporto tra le tecniche
artistiche e la tecnologia del mondo moderno, cosciente della propria attitudine e formazione da
storico. L’analisi della crisi che caratterizza la contemporaneità lo conduce a confrontarsi con
fenomeni artistici molto recenti o in divenire, dovendo ancor prima legittimare la possibilità di
un’analisi storica di un realtà che è ancora cronaca. La prima questione è dunque di natura
metodologica ai fini di non incappare nell’errore che Umberto Eco320 negli stessi anni denuncia,
ovvero giudicare una cultura con i precedenti modelli di cultura.
La “crisi dei valori”, comprendente su un fronte la debolezza ideologica delle ricerche artistiche
recenti e dall’altro lo smarrimento della critica nei confronti di quest’ultime, si coagulano nel
pensiero di Argan nella denuncia dello smarrimento della funzione sociale dell’arte. Salvezza e

319 Cfr. G. Gatt, discorso introduttivo al Convegno di Verucchio del 1962, in Testimonianze degli atti, cit., pp. 5-8.
320 Cfr. U. Eco, L’informale come opera aperta, in “Il Verri”, n.3, giugno 1961, pp. 98-127.

91
caduta nell’arte moderna, apparso sulle pagine de “Il Verri” nel 1961, annuncia la “morte dell’arte”,
intesa come fine della sua finalità sociale. I soggetti di questo discorso sono le sperimentazioni
artistiche, sorte sulle ceneri dell’Informale e riassumibili in ricerche gestaltiche e poetiche
d’oggetto; ma il vero punto problematico non è la scelta stilistica o l’impiego della tecnologia in
sé, quanto la possibilità che la tecnologia industriale adempia l’utopia che sottende, ponendosi
come anti-storia e, di conseguenza, l’esistenza della funzione dell’arte di designare modelli di
valore e comportamento.
Superando i confini teorici fra storia e critica, Argan si mette in gioco in prima persona,
assumendo una precisa posizione esplicitamente militante: a partire dal 1963, sulle pagine de “Il
Messaggero”, si dichiara a favore delle ricerche gestaltiche e dell’operatività di gruppo, non
risparmiando parole di disappunto su sperimentazioni differenti, riconfermate negli anni a
seguire.
“Io stesso, in questo scritto, sono stato portato a parlarne come di due squadre di calcio in
campo: non dissimulando di fare il ‘tifo’ per una di esse, ma non dissimulando neanche che
di ‘tifo’, più che di giudizio si tratta”321.

Ciò non è per nulla scontato: le parole di Argan hanno tutti i caratteri della militanza critica, così
lontane dall’atteggiamento dello studioso negli scritti degli anni Quaranta; si pensi, ad esempio al
saggio Difficoltà della scultura322, del 1949, nel quale studia artisti come Marino Marini e Pio Manzù,
al contempo elogiandoli e criticandoli. In quegli anni appare impossibile aspettarsi da Argan
un’adesione tout court a un nome, a un movimento o a una linea evolutiva: il suo approccio all’arte
è da storico e, come tale, razionale.
È Argan, non più “storico e critico” bensì “critico e storico”, che definisce l’Informale “una
retroguardia” e guida la IV Biennale di San Marino, aprendo a sperimentazioni recenti. La
“fatticità” assoluta della materia, del gesto e del segno che si esaurisce nell’azione compiuta e
restituisce l’operatività informale, priva di motivazione e di scopi sociali, appare, nel 1963,
destinata a essere maniera di se stessa e lascia spazio all’arte programmata e cinetica, alla Nuova
Figurazione e al New Dada. In questo nuovo orizzonte stilistico, nella metodologia artistica si
distingue l’operatività collettiva, essenzialmente europea, e l’individualismo delle poetiche
oggettuali e della Pop Art.
Il passaggio critico successivo è il saggio del 1964, Progetto e destino, raccolta di scritti dedicati
all’architettura e al design, che costituiscono la teoria critica di Argan sulla condizione, sul ruolo e
sullo stato dell’arte e dell’artista nella società capitalista e industriale. Da questo momento in poi il
design industriale e il binomio urbanistica-architettura diventano i cardini della teoria critica di
Argan. La crisi dell’oggetto è motivata dall’operazione industriale, disintegrata e disintegrante, la

321 G. C. Argan, Progetto e destino, cit., pp. 51-52.


322 G. C. Argan, Difficoltà della scultura, 1949, in G. C. Argan, Studi e note, Bocca, Roma 1955, pp. 57-77.

92
quale ha vanificato il passaggio da “cosa” a “oggetto”, storicamente affidato al riconoscimento
del valore artigianale, scomponendo l’oggetto in “cosa” e “progetto”. La sola possibilità di
salvare il valore simbolico mediato dall’arte è, secondo Argan, la reificazione del progetto, inteso
come “motivata intenzionalità umana”323. Per indagare le possibilità concrete della progettazione,
l’architettura è, nel pensiero arganiano, elemento prediletto di dialogo. Fin dalla propria tesi di
laurea su Sebastiano Serlio, nel 1931, dagli studi su Sant’Elia e dagli scritti negli anni della guerra
(Urbanistica e architettura, in “Le Arti”, 1939; Urbanistica e progresso sociale, in “Il Politecnico”, 1946),
Argan si dimostra particolarmente sensibile nei confronti della connessione architettura-
urbanistica, in nome dell’inserimento dell’opera d’arte singola, isolata, nella cerchia all’allargata
della società in quanto portatrice di un valore civile. Il primato dell’architettura nel suo pensiero è
ribadito dall’importante studio su Gropius e la Bauhaus324 - sempre citata al femminile per porre
l’accento sulla dimensione didattica più che sul movimento artistico – fino agli scritti più recenti,
“L’architettura, come costruzione, rappresenta l’espressione stessa della costruttività della
coscienza: ad essa compete il compito di chiarificare l’aspetto confuso del mondo odierno.
[…] L’architettura non può proporsi fini pratici, perché ha il suo fine in se stessa; essa non
è un mezzo per la soluzione di certi problemi, ma la soluzione di tutti i problemi; in quanto
rappresentazione di un mondo che ha risolto le proprie antitesi, non può ammettere
esigenze che non siano risolte nel suo processo”325.

Il termine ultimo in cui la “salvezza” dell’arte è ancora possibile coincide con il “progetto”
nell’ambito del disegno industriale e, soprattutto nell’urbanistica e nell’architettura.
Salvezza e caduta come Progetto e destino sono i termini di un’equivalenza e di un rapporto dialettico
entro cui si iscrive la militanza di Argan e i confini teorici in cui si articolano i Convegni di
Verucchio, lungo il decennio.
I Convegni Internazionali di Artisti, Critici e Studiosi d’Arte organizzati a Verucchio rimangono
nell’anonimato provinciale per tutto il primo decennio della loro esistenza, trovando una precisa
collocazione nel panorama artistico nazionale solo nel 1963, ossia quando Argan è chiamato a
ricoprire il ruolo di presidente.
La congestione teorica che anima il dibattito storico critico nell’estate del 1963, si riflette nel XII
Convegno di Verucchio: l’introduzione di Argan, in cui la critica d’arte è proposta come funzione
e non solo come giudizio, ha le proprie radici negli scritti formulati fra il 1957 e il 1961, così
come le tematiche a cui il Convegno è dedicato - Arte e libertà. L’impegno ideologico nelle correnti
artistiche contemporanee, Poetica ed estetica nel pensiero contemporaneo. Arte e società contemporanea.
L’educazione estetica e i suoi strumenti; Le più recenti ricerche sperimentali nel campo dell’espressione artistica,
che concretamente equivalgono all’indagine del ruolo sociale dell’arte e della critica e del rapporto
323 G. C. Argan, Progetto e destino, cit. p.58.
324 G. C. Argan, Walter Gropius e la Bauhaus, cit.
325 G. C. Argan, Walter Gropius e la Bauhaus, cit., ripreso in M. Biraghi, Valore di un libro, prefazione a G. C. Argan,

Walter Gropius e la Bauhaus, Einaudi, Torino 2002, p. XXIII.

93
arte e tecnologia - sono esplicitamente “arganiane”. Gli artisti partecipanti al Convegno sono
legati, per varie ragioni e attraverso modalità diverse, al supporto teorico di Argan: i gruppi
gestaltici, sostenuti “militarmente” e Emilio Vedova, legato al critico lungo i decenni.
L’importanza di Argan in questo momento è confermata dalla polemica che prende avvio proprio
dal Convegno del 1963 e che lo coinvolge personalmente: la lettera inviata alla segreteria e firmata
da un gruppo di artisti romani rappresenta una precisa presa di posizione verso una determinata
modalità di intendere e manifestare la critica d’arte e, in secondo luogo, un distacco dall’autorità
del critico. Gli artisti difendono l’assoluta autonomia del proprio operare e disconoscono la
“funzionalità” della critica come “guida”. La situazione si complica ulteriormente nei mesi a
seguire, quando la polemica continua sulle pagine del quotidiano “Avanti!”, su cui sono ospitati
articoli che ampliano e approfondiscono il dibattito nato a Verucchio. Qui, l’opinione degli artisti
è amplificata e sottoscritta da più firme, nonché coadiuvata dalla cruciale presa di posizione di
Carla Lonzi. L’articolo La solitudine del critico, chiaramente rivolto ad Argan “con la sua concezione
dell’impegno come lotta culturale per imporre un determinato orientamento artistico”326, rivela la
fragilità conseguente l’eccessiva rigidità della critica di Argan, e, più in generale, del tentativo
normativo dell’arte.
Lo sbarco americano della Pop Art nel giugno del 1964 alimenta il fuoco militante della critica e
la schematizzazione “ricerche gestaltiche versus poetiche d’oggetto”, impoverendo il potenziale
che la polemica sorta a Verucchio avrebbe potuto veicolare. Il confronto non si risolve in
osmotica sintesi, ma in matematica analisi: Argan ribadisce le “due vie”, ovvero la Gestalt e la
Pop art, seguitando a considerare la prima “pura struttura”, percezione in sé priva d’oggetto e la
seconda “riduzione della percezione al percepito”, priva di struttura. Il rapporto fra artisti e critici
si indirizza, da un lato, alla cooperazione in nome di una poetica, si pensi al caso di Umbro
Apollonio e Nuova Tendenza, dall’altro alla totale autonomia della critica dall’arte e viceversa.
Il fermento critico, che caratterizza l’edizione del 1963, sfuma gradualmente nei Convegni
successivi i quali diventano momenti di scambio focalizzati su precisi temi. Da Arte e comunicazione
al tentativo di individuare un’Arte popolare moderna, dal design industriale allo spazio urbano.
Le tematiche discusse a Verucchio si iscrivono in un unico discorso, come anelli di una catena: il
rapporto fra l’arte e la comunicazione di massa esplicita l’interazione fra la cultura visuale nata
dalla società di massa e l’alfabeto dell’arte visiva e, al contempo, rivela l’esigenza di coinvolgere le
classi popolari nel panorama culturale. Fra le molteplici possibilità che tentano di adempiere
questo scopo, il cinema e il design industriale sono riconosciuti quali strumenti validi per
intervenire nello spazio urbano e permettere all’uomo di appropriarsi in maniera attiva della città,
data la forza comunicativa orizzontale e pervasiva che li caratterizza.

326 C. Lonzi, La solitudine del critico, “Avanti!”, 13 dicembre 1963.

94
Il legame fra le scelte tematiche delle varie edizioni non emerge chiaramente tanto dai momenti di
dialogo e dibattito, benché i partecipanti ai Convegni siano spesso i medesimi, quanto dai discorsi
di introduzione e conclusione di Argan, tanto che, ad esempio, il discorso conclusivo del
Convegno del 1965 è definito dallo stesso Argan “un’introduzione al Convegno successivo”327.
Questo aspetto non si risolve nell’ipotesi di una programmazione dei contenuti a lungo termine,
tale da consentire al presidente di legare i vari momenti di riflessione, ma lascia emergere un
parallelismo tematico fra i Convegni dal 1964 al 1968 e gli scritti di Argan del decennio.
Il dibattito che anima la XII edizione è stimolato dagli articoli pubblicati da Argan su “Il
Messaggero” nei mesi precedenti e i contributi più significativi, da Ugo Spirito a Nello Ponente,
dialogano direttamente con le idee arganiane, più che restituire un ventaglio di argomentazioni
intorno alle tematiche del Convegno.
Nel 1964 lo choc provocato dallo sbarco veneziano della Pop Art induce la critica a interrogarsi,
con ancor maggior urgenza sui rapporti fra arte e comunicazione di massa, argomento del XIII
Convegno di Verucchio. Per quanto non manchino contributi di teorici della comunicazione, da
Eco a Garroni, il sentimento di opposizione – definita da Argan stesso, “nausea” – nei confronti
della Pop Art, riversato nel manicheo binomio gestalt-pop, continua a dominare. L’urgenza per
Argan seguita a essere la necessità di un valore sociale, di una funzione storica dell’arte, ancor più
imminente dato il potere persuasivo e alienante dei mezzi di comunicazione di massa.
L’inevitabile socialità dell’arte è l’anello di congiunzione per l’edizione successiva, destinata ad
avere come tema l’arte popolare moderna, con l’intento di individuare una forma artistica in
grado di rispondere alle esigenze culturali delle classi popolari, colmando una funzione estetica
ma soprattutto didattica. Il tema proposto da Argan è così puntuale da portare subito l’attenzione
su alcuni punti fondamentali, ossia l’urbanistica, l’architettura e il disegno industriale quali
risposte alla crisi dell’oggetto, esplicitata in Progetto e destino.
Le disquisizioni sul design industriale conducono i critici coinvolti nel dibattito a ribadire il suo
potenziale fallimento poiché destinato a rimanere un discorso elitario e solo in parte assolto
dall’alienazione della produzione industriale.
L’ultimo approdo per ritrovare l’essenza storica dell’arte è lo spazio urbano, doppiamente
protagonista del convegno del 1967 e del 1968. Indagare lo spazio della città equivale allo studio
di geografie culturali e politiche che, tramite la progettualità, consente all’uomo di essere
protagonista del processo storico.

327 “Cari Colleghi, […] chiedo scusa se questa contrazione di tempi che è risultata proprio come una caratteristica

delle discussioni di questo Convegno, mi suggerisce di non fare tanto relazione conclusiva al XIV Convegno di
Verucchio, quanto, piuttosto, la relazione introduttiva del XV”, G. C. Argan, relazione conclusiva, in XIV Convegno
Internazionale Artisti, Critici, Studiosi d’Arte, cit. p. 50.

95
La forza dell’indagine, dell’interrogazione critica e l’idea di una storia dell’arte e delle opere come
idee e azioni di un preciso momento storico, così dominanti nel pensiero di Argan, si scontrano
con cambiamenti repentini della società, con il “destino” della modernità e si riversano
nell’utopia.
Argan, sul finire degli anni Sessanta, rivela la sua identità di “intellettuale europeo” e come tale,
entra in crisi nel momento in cui il mondo dell’arte vola oltre oceano, ulteriormente disorientato
dal terremoto che interessa il mondo della cultura, destinata a inserirsi in un equilibrio di strategie
economiche internazionali.
È interessante notare che, negli stessi anni, mentre Argan riconduce la crisi alla massificazione
prodotta dai processi di industrializzazione e consumismo e allo spostamento Parigi-New York,
Clement Greenberg interpreta la crisi come decadenza dell’arte ancorata a Parigi, rendendo
necessaria la nascita di una nuova pittura americana, annunciata con la mostra The New American
Painting328, al Museum of Moder Art nel 1958 e poi itinerante in otto città europee329.
Il concetto di crisi è, infatti, centrale e polivalente: le dinamiche della modernità che negli Stati
Uniti equivalgono a “novità”, sono lette da Argan come perdita di integrità etica e sociale
dell’operare artistico e, di conseguenza, del ruolo dell’intellettuale.
La crisi dell’arte come “morte del valore sociale dell’arte” degli inizi del decennio è ora crisi
dell’arte come “scienza europea”. In apertura dell’ultimo capitolo de L’Arte Moderna 1770-1970330,
Argan pone, come aveva fatto in Progetto e destino, il concetto di “crisi” così come declinato da
Husserl negli anni immediatamente precedenti lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
Husserl considerava inevitabile la crisi delle scienze europee, cioè del sistema culturale fondato
sulla razionalità e sulla consapevolezza del suo limite e sulla naturale complementarietà
dell’immaginazione o della fantasia, cioè l’arte, rispetto alla logica, cioè la scienza. Mentre nello
scritto del 1964, Argan declinava questo concetto come crisi del concetto di artisticità motivata
dal super potere della tecnologia industriale, ora, nel 1970 la mancata proporzionalità fra arte e
scienza, e quindi tecnologia, è data per compiuta, storicamente avverata nella società americana e,
di conseguenza, nell’ambito dell’arte. Secondo Argan la graduale appropriazione della cultura
europea da parte degli americani è avvenuta tralasciando la problematicità storica tipicamente
europea e ha condotto alla vanificazione della categoria stessa di arte, sostituendo la questione

328 La mostra The New American Painting, organizzata al Museum of Modern Art del 1958 è stata proposta in otto città

europee: Basilea, Kuhsthalle, 19 aprile – 26 maggio 1958; Milano, Galleria Civica d’Arte Moderna, 1-29 giugno 1958;
MADRIN, Museo Nacional de Arte Contemporàneo, 19 luglio – 11 agosto 1958; Amsterdan, Stedelijk Museum, 17
ottobre – 24 novembre 1958; Berlino, Hochschule für Bildende Künste, 1 settembre – 1 ottobre 1958; Bruxelles,
Palais des Beaux –Arts, 6 dicembre 1958 – 4 gennaio 1959; Parigi, Musée National d’Art Moderne, 16 gennaio – 15
febbraio 1959; Londra, Tate Gallery, 24 febbraio – 23 marzo 1959.
329 Cfr. C. Subrizi, Giulio Carlo Argan negli anni Sessanta. Prospettive critiche, chiusure della storia, in Giulio Carlo Argan.

Intellettuale e storico dell’arte, cit., pp. 387-395.


330 G. C. Argan, L’arte Moderna 1770-1970, Sansoni, Firenze 1970.

96
circa la funzione o la finalità dell’arte con la semplice attestazione di esistenza della “cosa
artistica”. Annunciando il rischio della “morte dell’arte” Argan non si riferiva al concetto
metafisico, ma alla fine storica dell’arte e ciò si è concretizzato nella coincidenza capitalistica fra
valore e consumo, determinando un cambiamento inevitabile:
“c’è un’antitesi fra consumo e valore: in tutta la sua storia l’arte è un valore di cui si fruisce, ma
che non viene consumato. Un’arte che si consumi fruendone, come un cibo che si mangia, può
essere o non: in ogni caso sarà qualcosa di totalmente diverso dall’arte del passato”331.

Ciò che è avvenuto è stato la crisi simultanea di tutte le tecniche artistiche, ma ciò, precisa Argan,
non equivale alla fine dell’esperienza estetica veicolata dalle immagini perché si sono moltiplicate
le fonti visuali, dal cinema, alla televisione, alla cultura di massa in senso lato. La differenza su cui
Argan insiste è nel portato intellettuale che l’arte è in grado di veicolare a differenza del mero
tecnicismo dell’immagine dei mezzi di comunicazione di massa, ribadendo l’impossibilità per un
artista di mettere la propria ricerca a sevizio di un sistema di potere.
In ultima analisi, nel ragionamento teorico di Argan la crisi dell’arte coincide con la crisi più vasta,
e più grave, del rapporto tra cultura e potere. Così come il fallimento dell’esperienza del Bauhaus
è stato conseguenza della censura nazista, poiché nel trasferimento negli Stati Uniti la
componente economica ha avuto la meglio sul valore etico-sociale della progettazione, anche
nella società attuale la tecnologia quale “strumento utopico” di trasformazione del mondo si è
rivelato fallimentare. Già in Progetto e destino il progresso tecnologico era visto da Argan come la
“moderna utopia”, la quale aveva tutte le caratteristiche per potersi avverare, ma che non ha
saputo mantenere nessuna delle grandi promesse che sottendeva, soprattutto l’integrazione delle
classi in una società razionale.
“La ‘rivoluzione dei tecnici’, profetizzata da Burnham, fosse o non desiderabile, non c’è
stata o non è stata una rivoluzione. Invece in un mondo di una razionalità lucida,
specchiante, funzionale, abbiamo davanti a noi un mondo torbido e convulso, in cui
l’irrazionalità si manifesta con una brutalità repellente che non ha precedenti nei secoli della
più sanguinaria barbarie”332.

Questa situazione è diretta conseguenza della produzione e del consumo di massa, dove la qualità
è sostituita dalla quantità: ne consegue un dislivello tra la natura biologica dell’uomo e l’artificio
dell’industria, la quale induce bisogni psicologici irreali, agendo quindi a livello del potere, che
causa l’alienazione umana.
La componente politica diventa preponderante sul finire del decennio, sicuramente motiva dalle
tensioni socio politiche che si muovono fra il 1967 e il 1968. Lo stesso Convegno di Verucchio,
nel 1968, è percorso da agitazioni politiche che non lasciano indifferente Argan.
Ridimensionando gli attriti avvenuti fra gli intervenuti al Convegno e alcuni esponenti della classe

331 Ivi, p, 249.


332 G. C. Argan, Progetto e destino, cit., pp. 31-32.

97
operaia presenti, le parole di Argan restituiscono un senso di resa rispetto il fallimento dell’utopia
tecnologica.
“Evidentemente gli uomini della mia generazione non sono, né possono essere, i
protagonisti della contestazione, e dico subito che sarebbe una civetteria di pessimo gusto
quella di vestire i panni della contestazione come se fossero quelli con cui possiamo e
dobbiamo qualificarci di fronte al mondo. Ma la contestazione è una realtà storica di fronte
alla quale non possiamo non prendere posizione. Ammettiamo il sistema, viviamo nel
sistema? […] Se io analizzo il fatto, il puro fatto in sé, debbo dire che la contestazione è la
contestazione della repressione. Che cosa è la repressione? […] Non la tecnologia, ma la
tecnocrazia esegue la repressione, come allontanamento della macchina, di tutti coloro che
non sono gli specialisti della macchina, che non sono i tecnici della macchina, e la
contestazione dunque è la contestazione di un astoricismo di principio. […] È indubbio
che tutto l’ambiente, l’insieme del mondo in cui viviamo ha assunto un carattere repressivo
che vale la progettazione”333.

Parallelamente alla presa di coscienza di Argan del cambiamento del ruolo dell’intellettuale,
l’intero panorama critico è interessato da trasformazioni significative. Argan continua a essere
presidente degli incontri verucchiesi fino al 1970, ma nell’ultimo biennio i Convegni sono
orientati su riflessioni di carattere metodologico in ambito estetico, dissociandosi ulteriormente
dalla storia e dalla critica d’arte.
In questi anni ultimi anni, probabilmente sostenuti dalle spinte di rinnovamento veicolate dalla
contestazione, la generazione più giovani di critici, alcuni dei quali già presenti nei dibattiti degli
anni Sessanta, si fanno portavoce di nuovi approcci critici. All’inizio del nuovo decennio la critica
dissemina la propria essenza: abbandona la funzione esegetico-interpretativa a favore di
un’autonomia totale. Contemporaneamente è l’arte stessa, mediante le sperimentazioni
concettuali, a estendersi verso il campo teorico e riflessivo, appropriandosi dell’aspetto critico, si
pensi a Art after Philosophy334 di Joseph Kosuth, pubblicato nel 1969. La critica, da parte sua,
invoca il silenzio, abbandonando le ipotesi di giudizio di valore, i tentativi normativi e
classificatori, permeandosi sempre più di suggestioni e strumenti provenienti da altre discipline,
dalla psicoanalisi alla semiotica, dallo strutturalismo alla psicologia, dalla sociologia
all’antropologia335: emblematici i casi di Susan Sontag336, Lucy Lippard337 e Carla Lonzi. In stretto
riferimento all’ambito italiano, Lonzi, proprio a partire dalla presa di posizione sulle pagine dell’
“Avanti!” nei confronti di Argan, attraversa una rapida, ma estremamente significativa, parabola
nella critica d’arte, sottraendosi a qual si voglia strumentalizzazione dell’operare critico attraverso
il potere dell’interpretazione: in Autoritratto338, edito nel 1969, rinuncia alla propria individualità

333 G. C. Argan, discorso conclusivo, in Strutture Ambientali, cit., pp. 215-216.


334 J. Kosuth, Art after Philosophy, in “Art International”, n. 1789, 1969, trad. it., “Data”, n. 3, aprile 1972, pp. 39-47.
335 Cfr. G. Dorfles, Il divenire della critica, Einaudi, Torino 1976.
336 S. Sontag, Against Interpretation and another eassys, 1964, trad. it., Mondadori, Milano 1967.
337 L. Lippard, Six Years. The Dematerialization of the Art Object from 1966 to 1972…, University of California Press, New

York 1973.
338 C. Lonzi, Autoritratto, De Donato editore, Bari 1969.

98
critica e sovverte i parametri del testo, riconducendo l’operatività critica alla pratica discorsiva e
relazionale, attraverso la registrazione delle interviste agli artisti.
Il rapporto fra arte e critica, la definizione dei campi di azione e interesse, l’ipotesi che il critico
possa guidare l’operato dell’artista, l’eventualità di una “critica creativa” sono argomenti che
avevano avuto una precisa attualità all’inizio degli anni Sessanta e che avevano dato il via alla
significativa polemica sorta in occasione del Convegno di Verucchio del 1963. In questo
momento storico la questione si carica ulteriormente di pregnanza dato il valore politico che l’arte
e la critica, pur in maniera diversa, sono chiamate a veicolare. In questa fase di cambiamento, un
momento particolarmente significativo è rappresentato da Critica in atto339, rassegna di critica
d’arte avvenuta a Roma nel marzo del 1972. La manifestazione non ha i caratteri del Convegno,
ma è, appunto, una rassegna nella quale ventidue critici340 italiani e stranieri di diversa formazione
e generazione, militanti e storici dell’arte, sono inviati a occupare ciascuno una serata con un
proprio intervento, che spazia dalla relazione su temi specifici alla presentazione di una precisa
metodologia di lavoro. L’apertura della rassegna è affidata proprio ad Argan, il quale esordisce
sottolineando che il titolo della manifestazione implica una cambiamento ontologico della critica.
“Questo ciclo di interventi di critici così come le cose che dirò questa sera si prestano a una
mistificazione di cui io stesso potrei essere così il colpevole come la vittima. Perché dico
che, parlare di critica in atto comporta il pericolo di una mistificazione? Perché la
partecipazione del critico all’operare dell’artista o è necessaria, e allora bisogna dimostrare
che è necessaria, o è puramente velleitaria, e allora è gratuita. La partecipazione del critico
all’operare dell’artista viene normalmente spiegata con la fine della critica come giudizio.
Non essendo giudizio, la critica è atto, e da un punto di vista fenomenologico, la deduzione
è ineccepibile: è un atto collegato con un altro atto, l’atto dell’artista”341.

L’allontanamento della critica dall’arte e viceversa sono lette da Argan come l’ulteriore
smarrimento del valore politico che l’azione coordinata delle due discipline è in grado di condurre
e ciò lo porta a rivedere l’istanza critica, militante, impegnata, che aveva prediletto nel decennio
precedente. Se la critica è autonoma rispetto all’arte, e dunque non opera nella prospettiva di
identificare una storicità del linguaggio artistico e una sua funzione sociale, Argan rifugge dalla
negazione dell’interpretazione e dalla funzione e dal ruolo di critico, ritornando sui passi dello
storico.
“O posso fare storia, perché il fenomeno si dà come fatto che esige di essere interpretato,
perché pone un problema di valore, o non posso, e allora non ho che due vie: o quella del

339 Critica in atto, atti degli incontri, Roma 6-30 marzo 1972, a cura di A. Bonito Oliva, Centro d’Informazione

Alternativa, Quaderno n. 2, Roma 1973.


340 I partecipanti sono: Giulio Carlo Argan, Alberto Boatto, Luciano Caramel, Mario Diacono, Germano Celant,

Renato Barilli, Marisa Volpi Orlandini, Maurizio Fagiolo, Giuseppe Gatt, Vittorio Rubiu, Filiberto Menna, Maurizio
Calvesi, Daniela Palazzoli, Italo Tommasoni, Paolo Fossati, Tommaso Trini, Catherine Millet, Jean Marc Ponsot,
François Pluchart, Michel Claura, Klais Honnef, Achille Bonito Oliva.
341 G. C. Argan, Funzione e difficoltà della critica, in Critica in atto, cit., p. 9.

99
profeta che fantastica sul futuro, o quella dell’archeologo che indaga il passato. Messo a
questo bivio, scelgo – e lo dichiaro la via dell’archeologo”342.

342 Ivi, p. 15.

100
Apparato | Schede analitiche dei Convegni

Testimonianze degli atti VIII – IX- X – XI Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte,
Rimini, Verucchio, San Marino 1959 -1960 – 1961 – 1962

Presentazione: Giuseppe Gatt

VIII Convegno, 1959


Gerardo Filiberto Dasi, Introduzione
Giuseppe Pecci, Le tradizioni artistiche e culturali di Verucchio
Marco Valsecchi, I premi di pittura in Italia
Ugo Spirito, L’unificazione del mondo dell’arte
Renato Lazzarini, Ispirazione artistica e allusione esistenziale
Raffaele Borsari, Arte e scienza
Carmelo Genovese, Le arti figurative e le ricerche della psicologia sperimentale

IX Convegno, 1960
Roger Sby, Introduzione
Franco Battolini, Nuove dimensioni del gusto
Gastone Breddo, Idee sulla pittura, sulla critica, sul mercato
Raffaele Borsari, Estetismo e Scientismo
Carmelo Genovese, Le determinazioni artistiche ed il giudizio estetico
Gino Marussi, I pittori e l’immagine
Etronio Mastrolonardo, Necessità storica e morale della critica d’arte
Franco Miele, Problematica dell’arte moderna
Giuseppe Pecci, Le tradizioni artistiche e culturali di Verucchio
Emilio Tavoni, I premi d’arte in Italia
Giuseppe Gatt, L’albo professionale e le previdenze degli artisti

X Convegno, 1961
Vincente Aguilera Cerni, Axiologia, Critica e vita
Umbro Apollonio, Quesiti della ricerca estetica contemporanea
Raffaele Borsari, Logica dell’informale
Corrado Maltese, Astrazione e figurazione come linguaggio
Andres Alfaro, Espressione, ragione e comprensione
Enrico Crispolti, L’informale come problema storiografico

XI Convegno, 1962
Mario de Micheli, Il carattere delle tendenze
Marco Valsecchi, Realtà o astrazione?
Franco Russioli, L’opera d’arte come oggetto e come comprensione della realtà
Francine Virduzzo, Oltre la nuova figurazione
Rene Deroudille, L’azione progressista
Italo Tomassoni, Elementi per un’indagine sull’arte contemporanea
Giorgio Tempesti, Arte, critica e cultura
Achille Pace, Il problema della scelta
Giancarlo Politi, Verso una nuova metafisica
Giorgio Kaisselian, Critica e arte, malgrado l’estetica
Maurizio Bonicatti, Note sulla situazione artistica romana
Germano Beringheli, Per un lirismo di derivazione geometrica

101
I Convegno del Gruppo 70, Forte Belvedere, Firenze 1963

Arte e comunicazione

Cronologia: 24-27 maggio 1963


Organizzazione: sezione artistica a cura di Giuseppe Chiari; sezione teorica a cura di Eugenio
Miccini e Lamberto Pignotti.

Introduzione

Arte e comunicazione
Gillo Dorfles
Lamberto Pignotti
Agostino Pirella
Gianni Scalia
Intervengono: Alessandro Badiali, Eugenio Miccini, Cesare Vivaldi

Problemi e compiti della critica


Renato Barilli
Mario Bergomi
Antonio Bueno
Ermanno Migliorini
Abe Naguja

Musica e avanguardia
Roman Vlad
Paolo Castaldi, Industria e nuova musica
Giuseppe Chiari, New Dada in musica
Ugo Duse, Critica e storiografia musicale
Heinz Klaus Metzger, Musica e opinione pubblica

Gianni Klaus Koening, La politica suicida dell’architettura


Paolo Portoghesi, Urbanistica sociale

Discussione: Umberto Eco, Leonardo Ricci, Roman Vlad

Concerto – Lettura
Arrigo Benvenuti, Folìa per due violini, viola, violoncello e pianoforte
Eugenio Miccini, da Sonetto minore
Sylvano Bussotti, Lettura di Braibanti dai Sette fogli per sola voce
Lamberto Pignotti, da Nozione di uomo
Giuseppe Chiari, Gesti sul piano per pianoforte
Silvio Ramat, da Lo svago della vista
Pietro Grossi, P 4 M 3 elettronica
Sergio Salvi, da Morte e dintorni
Giuliana Zaccagnini e Italo Gomez, Mobile 560 per violoncello, percussione e suoni inusoidali

Eseguono: Liliana Poli (soprano), Frédéric Rzewski (piano), Società Cameristica Italiana
(quintetto), Aldo Redditti (violino), Umberto Oliveti (violino), Emilio Poggiani (viola), Italo
Gomez (violoncello), Giuliana Zaccagnini (pianoforte)

102
Leggono: gli autori
Poetiche e poesia contemporanee
Luciano Anceschi
Lugi Baldacci
Elio Pagliarani
Silvio Ramat
Aldo Rossi
Sergio Salvi
Edoardo Sanguineti

Discussione generale: Luciano Anceschi e Gillo Dorfles

Conclusione

103
XII Convegno internazionale di artisti, critici e studiosi d’arte, Rimini, Verucchio, San
Marino 1963

Cronologia: 26 – 29 settembre 1963


Coordinamento: Giulio Carlo Argan
Organizzazione tecnica: Gerardo Filiberto Dasi

Relazione d’apertura: Giulio Carlo Argan


Vincente Aguilera Cerni Interventi: Eduardo Arroyo
Pierre Francastel Renato Barilli
Franco Flarer Antonio Bueno
Ugo Spirito Luigi Carluccio
Francesco Guerrieri
Relazioni: Silvio Ceccato Gruppo 1
Pierre Restany Manfredo Massironi
Guido Morpurgo Gruppo tempo 3
Rosario Assunto Operativo r
Renato Lazzarini Groupe de recherche
Carmelo Genovese d’art visuel
Giuseppe Gatt Marussi Garibaldo
Raffaele Borsari Mestrovic Matko
Gastone Maccagnani Micko Miroslav
Nello Ponente Popper G. Frank
Ivo Tagliaventi Pierre Restany
Fatouros Emilio Vedova
Filiberto Menna Pierre Francastel
Italo Tommasoni Ugo Spirito
Franco Battolini Giulio Carlo Argan
Enotrio Mastrolonardo

104
II Convegno del Gruppo 70, Forte Belvedere, Firenze 1964

Arte e tecnologia

Cronologia: 27-29 giugno 1964


Organizzazione: sezione artistica a cura di Giuseppe Chiari; sezione teorica a cura di Eugenio Miccini e
Lamberto Pignotti.

Introduzione

Arte e tecnologia
Eugenio Miccini, Trasformare i mass media in mass culture
Lamberto Pignotti, La suggestione di Gordon Flash
Gillo Dorfles, Visualità tecnologica
Adriano Spatola, Standardizzazione, scandalo
Pietro A. Buttita, L’aristocrazia dei procuratori
Mauricio Kagel, Avanguardia e accademia
Eugenio Battisti, I tecnofili del passato
Alberto Boatto, Due ipotesi d’intervento
Filiberto Menna, Constatazione della realtà
Guido Montana, Un’operazione oppositiva
Antonio Bueno, Per strade ambigue
Giuseppe Chiari, Gesto di distacco
Interventi: Filiberto Menna, Pietro Raffa, Giuseppe Chiari, Gillo Dorfles, Eugenio Miccini, Guido
Montana, Lamberto Pignotti, Elio Pagliarani, Gianni Toti, Renato Barilli,

Tecnologia e letteratura
Aldo Rossi, Un parallelogramma di forze
Fausto Curi, Scegliere la propria necessità
Renato Barilli, Tecnologia indiretta
Discussione: Sulla letteratura e o tecnologia
Interventi: Francesco Leonetti, Aldo Rossi, Oreste Macrì, Eugenio Miccini, Renato Barilli, Pietro Raffa,
Gillo Dorfles, Vittorio Gelmetti.

Tecnologia e musica
Paolo Emilio Carapezza, Atto e fatto
Silvano Bussotti, Nota extra
Giuseppe Englert, Il circuito chiuso
Piero Santi, Accumulazione e quantità
Discussione: Le possibili vie della musica
Interventi: Mario Bortolotto, Mauricio Kagel, Sylvano Bussoti, Giuseppe Chiari

Le arti per l’uomo massa


Giuliano Scabia, La condizione industriale
Gianni Toti, Abbasso le poetiche
Dibattito: Difesa dell’arte tecnologica
Interventi: Vittorio Gelmetti, Aldo Rossi, Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Filiberto Menna,
Leonardo Ricci, Giuseppe Chiari, Castaldi, Guido Montana.

Conclusione: Gillo Dorfles

105
XIV Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, Rimini, Verucchio, San Marino
1965

Arte e comunicazione

Cronologia: 18-20 settembre 1965


Coordinamento: Giulio Carlo Argan
Organizzazione tecnica: Gerardo Filiberto Dasi

Comunicazioni e relazioni Gino Zannini


Giulio Carlo Argan Gerardo Filiberto Dasi
Giuseppe Gatt Gillo Dorfles
Maurizio Calvesi Umberto Eco
Franco Flarer Carmelo Genovese
Robert Pages Rosario Assunto
François Molnar Pietro Raffa
Raffaele Borsari Umbro Apollonio
Paolo Bonaiuto e Manfredo Massironi Guido Montana
Renato Lazzarini Giovanni Pizzo
Antonio Bueno Abrham Moles
Eugenio Miccini Italo Tomassoni
Lamberto Pignotti Federico Chiecchi
Lily Greenham Ignazio Isolera
Carmelo Genovese Marisa Volpi
Laura Grisi Bruno Zevi
Lara Vinca Masini Emilio Garroni
Luigi Tola Paolo Bonaiuto
Getulio Alviani Fuduka Kay
Gruppo 1 Emilio Vedova
Leopoldo Rigo Flavio Motta
Silvio Ceccato Nino Calos
Trujillo-Marin Franco Passoni
Tilde Giacomini Mario Radice
Luciano Lattanzi Luciano Lattanzi
Roca Rey Gruppo 70
Guido Montana
Ignacio Pirovano
Angel Duart
Nino Calos
Francesco Guerrieri
Pietro Raffa
Emilio Garroni
Germano Beringhelli e Gianni Stirone
Vincente Aguilera Cerni
Umbro Apollonio

Interventi
Luigi Preti
Felice Battaglia
Eduard Camille Basse
Bruno Molaioli

106
XV Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, Rimini, Verucchio, San Marino
1966

Arte popolare moderna

Cronologia: 26 – 29 settembre 1963


Coordinamento: Giulio Carlo Argan
Organizzazione tecnica: Gerardo Filiberto Dasi

Introduzione

Interventi
A. M. Cirese, Per una nozione scientifica di arte popolare
G. C. Argan, Arte moderna come arte popolare

Architettura
Bruno Zevi, Arte popolare come architettura moderna
Adriano Viganò; Attilio Marcolli

Industrial design
Gillo Dorfles, Rapporti e interferenze tra arte popolare e disegno industriale
Pietro Raffa, Arte popolare e civiltà industriale

I mass media
Guido Montana, I nuovi segni iconici dei mass media

Cinema
Guido Aristarco, Il cinema e la nozione d’arte tradizionale

Altre proposte:
Italo Tomassoni, Umbro Apollonio, La Nuova Tendenza
Pierre Restany, Nouveau Réalisme
Corrado Maltese, L’estetica della macchina

Franco Ferrarotti, Alcune osservazioni sociologiche sull’arte popolare e sull’estetica sperimentale

Contributi: Riccardo Barletta, Cesare Brandi, Domenico Cadoresi, Maurizio Calvesi, Robert Estivals,
Giuseppe Gatt, José Pantieri, Luigi Preti, Giorgio Tempesti

Interventi: Augusto Betti, Arte come funzione vitale “orgonica”


Luciano Lattanzi, In margine alla relazione introduttiva di G. C. Argan

Conclusione

107
XVI Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, Rimini, Verucchio, San Marino
1967

Lo spazio visivo della città: urbanistica e cinematografo

Cronologia: 8 – 13 settembre 1967


Coordinamento: Giulio Carlo Argan
Organizzazione tecnica: Gerardo Filiberto Dasi

Giulio Carlo Argan, Lo spazio visivo della città: “Urbanistica e cinematografo”


Gilbert Cohen-Séat, Azione, evasione, informazione: tre categorie di spazi
Contributi di: Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi, Filiberto Menna, Giuseppe Gatt, Italo Tomassoni,
Samuel Montealegre, Guido Aristarco, Petru Comarnescu, Raimond Cogniat

Guido Aristarco, La città, possibilità del cinema e i film

Contributi: Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi

Joseph Rickwert, De Gerusalem Coelesti

Contributi: Costanti Dardi, Ludovico Quaroni, Joseph Rickwert, Guido Aristarco, Giulio Carlo Argan

Manfredo Tafuri, Lo “spazio” e le “cose”: città, town design, architettura

Contributi: Leonardo Ricci, Lara Vinca Masini, Marco Dezzi Bardeschi, Piero Bottoni

Comunicazioni: Jürgen Claus, Giorgio Tempesti, Antonio Bento, Renato De Fusco, Urgano Cardarelli

In margine al Convegno: Silvio Ceccato, Vincente Aguilera Cerni, Ernesto Contreras, Attilio Marcolli, Renè
Berger, Carmelo Genovese

108
XVII Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, Rimini, Verucchio, San Marino
1968

Strutture ambientali

Cronologia: 21– 24 settembre 1968


Coordinamento: Giulio Carlo Argan
Organizzazione tecnica: Gerardo Filiberto Dasi

Nota introduttiva
Ezio Gianotti, Lineamenti del Design Critica
Franco Albini
Programmazione Gillo Dorfles
Giulio Carlo Argan Martin Krampen
Thomas Maldonado Italo Tomassoni
Gillo Dorfles Silvio Ceccato
Robert Pagés Maurizio Calvesi
Bruna Fazio Almayer
Leonardo Ricci Progettazione
Franco Flarer Pierluigi Spadolini
Costante Scarpellini Vittorio Gregotti
Gilbert Cohen Séat Marco Zanuso
Ludovico Quaroni
Analisi Sergio Asti
Felice Battaglia Herbert Ohl
Giulio Carlo Argan Giulio Confalonieri
Robert Pagés Herbert Lindinger
Umberto Eco Andries Van Onck
Tulio Seppilli Lorenzo Forges Davanzati
Leo Lionni Bruno Munari
Enzo Mari Piero Ranzani
Costante Scarpellini
Gianfranco Arlandi Il dissenso in margine al Convegno
Carmelo Genovese Jean Dupont
Augusto Betti Robert Pagès
Raffaele Borsari Enzo Melandri
Carmelo Genovese
Ipotesi Alessandro Mendini
Thomas Maldonado Emilio Battisiti
Franco Flarer Giulio Carlo Argan
Theo Crosby Leonardo Ricci
Filiberto Menna Luigi Serravalli
Vienceslav Richter Maurady – Larrouche
Emilio Battisti Mario Romano
Alberto Rosselli Thomas Maldonado
Vittorio Gregotti Leonardo Ricci
Macto Mestrovic Franco Flarer
Gilbert Cohen Séat Tullio Seppilli
Francesco Starace Manfredo Tafuri
Ludovico Quaroni

109
Enzo Carmi
Luigi Serravalli
Pietro De Rossi
Vittorio Gregotti
Lorenzo Forges Davanzati
Andrea Brandi
Bruna Fazio Almayer
Antonino Caleca
Raffaele Borsari
Korol Kleszczynski

110
Documentazione fotografica

Piazza di Verucchio, Cerimonia d’accoglienza in occasione dell’inaugurazione del Convegno del 1963; da sinistra
Pierre Restany

Lavori del XII Convegno: da sinistra Ileana Sonnabend e Lara Vinca Masini

111
Copertina del catalogo della IV Biennale di San Marino, 1963

Copertina degli atti del Convegno di Verucchio, 1963

Copertina degli atti del Convegno di Verucchio, 1964

112
Programma del I Convegno del Gruppo Settanta, 1963

113
Programma del II Convegno del Gruppo Settanta, 1964

114
Lavori del XV Convegno: da sinistra Emilio Vedova, Corrado Maltese (seconda fila), Bruno Zevi, Emilio Garroni
(seconda fila), Palma Bucarelli, Umbro Apollonio (seconda fila), Giulio Carlo Argan, Bruno Munari (penultimo della
seconda fila)

Lavori del XV Convegno: da sinistra Umberto Eco, Corrado Maltese (seconda fila), Rosario Assunto, Emilio
Garroni (seconda fila), Gillo Dorfles, Palma Bucarelli, Giuseppe Gatt (seconda fila), Umbro Apollonio

115
Lavori del XVI Convegno, Palazzo dell’Arengo, Rimini

Sopra: Lavori della VI Biennale di San Marino, Palazzo del Kursaal, San Marino 1967;
sotto: copertina del catalogo della mostra

116
Bibliografia

Bibliografia relativa ai Convegni


Testimonianze degli atti VIII – IX – X – XI Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte,
Rimini, Verucchio, San Marino, 1959-62
Il Convegno della critica d’arte a Verucchio, in “Arte oggi”, n. 14, anno VI, ottobre-novembre 1962, p.
43.
E. Mastrolonardo, XI Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte di Verucchio, in “D’Ars Agency”,
n. 5, 15 novembre -15 dicembre 1962, p. 54.
G. C. Argan in Atti del XII Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, Rimini, Verucchio,
San Marino 1963
G. Politi, Le ragioni di un’inchiesta, “La Fiera Letteraria”, n. 35-36, 8 settembre 1963
Le problematiche artistiche del gruppo, “Arte Oggi”, n. 17, luglio-settembre 1963
G. Politi, La funzione della critica, in “La Fiera Letteraria”, n. 42, 20 ottobre 1963
N. Ponente, Riaffermare la vitalità dell’arte e della critica, in “Avanti!”, 20 ottobre 1963
G. Gatt, Critica storica e critica militante, in “La Fiera letteraria”, n. 43, 27 ottobre 1963
G. Novelli, La tentazione di troppi critici, “Avanti!”, 8 novembre 1963
P. Consagra, Un po’ di umiltà signori critici!, in “Avanti!”, 2 novembre 1963
G. Santomaso, Contro il dogmatismo, “Avanti!”, 16 novembre 1963
T. Scialoja, Sezione di una scheda intitolata: “domani”, “Avanti!”, 15 novembre 1963
A. Sanfilippo, Una diversa idea di gruppo, “Avanti!”, 16 novembre 1963
C. Accardi, Siamo contro ogni super-potere, “Avanti!”, 19 novembre 1963
A. Corpora, Crisi di sfiducia, “Avanti!”, 23 novembre 1963
A. Perilli, La critica non può imporre programmi, “Avanti!”, 24 novembre 1963
M. Volpi, I molti problemi della critica d’arte, “Avanti!”, 29 novembre 1963
M. Calvesi, E’ sempre lecito l’intervento del critico?, “Avanti!”, 20 novembre 1963
A. Boatto, Due ipotesi d’intervento, “Avanti!”, 7 dicembre 1963
F. Menna, Processo alla critica, “Avanti!”, 7 dicembre 1963
C. Maltese, Lo sperimentalismo valore fondamentale, “Avanti!”, 5 novembre 1963
G. Montana, Dal “gruppo” lo stimolo alla scoperta individuale, “Avanti!”, 5 novembre 1963
AA. VV., XII Convegno Internazionale Artisti, Critici, Studiosi d’Arte, in “Marcatrè”, novembre 1963,
pp. 25-34.
C. Lonzi, La solitudine del critico, “Avanti!”, 12 dicembre 1963
G. C. Argan, Un dibattito di idee, “Avanti!”, 4 gennaio 1964

117
M. Novi, A proposito di due mostre, in “Il Giornale del Mattino”, 20 dicembre 1963
M. Novi, Non fare, non dire, in “Il Giornale del Mattino”, 29 dicembre 1963
E. Mastrolonardo, L’arte è morta, viva l’arte, in “D’Ars Agency”, n. 1, 20 dicembre 1963 – 20
febbraio 1964, p. 101
Il Convegno del Forte del Belvedere. Arte e tecnologia, in “Arte oggi”, n. 21, anno VI, settembre 1964, pp.
60-64
U. Baldini, In margine a una polemica. L’area letteraria della figurazione e una rassegna tecnologica, in “La
Nazione”, 2 gennaio 1964
B. Alfieri, La situazione dell’arte. “Pop” uguale “Non Popolare”, in “Metro”, n. 9, 1964
Gruppo Settanta. Arte e tecnologia, in “Marcatrè”, n. 11/12/13, febbraio 1965
B. Alfieri, Un futuro tecnologico per l’arte? Le teorie di Argan e l’opinione di Metro, in “Metro”, n. 9, 1964
G. C. Argan, Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte, in “D’Ars Agency”, n. 5, 20 ottobre
1964 – 20 gennaio 1965, pp. 9-11
V. Aguilera Cerni, Sul XIII Convegno di Rimini, in “D’Ars Agency”, n. 5, 20 ottobre 1964 – 20
gennaio 1965, pp. 13-15
AA. VV., Gruppo Settanta. Arte e tecnologia, in “Marcatrè”, n. 11/12/13, febbraio 1965, pp. 104- 176
XIV Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte. Arte e comunicazione, Rimini, Verucchio,
San Marino, 1965
G. C. Argan, XIV Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, in “D’Ars Agency”, n. 3, 10
luglio – 10 ottobre 1965, pp. 1-5
AA. VV., XIV Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, in “D’Ars Agency”, n. 4, 10
ottobre – 20 dicembre 1965, pp. 9-20
AA. VV. XV Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, in “D’Ars Agency”, n. 1-2, 10
marzo – 20 giugno 1966, pp. 62-73
G. C. Argan, XV Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte. Relazione conclusiva ai lavori, in
“D’Ars Agency, n. 3-4, 10 giugno – 20 ottobre 1966, pp.1-5
F. Molnar, Arte scientifica o scienza dell’arte, in “D’Ars Agency, n. 3-4, 10 giugno – 20 ottobre 1966,
pp. 11-15
G. Montana, Il Convegno di Verucchio. Luci e ombre, in “Arte Oggi”, anno VIII, luglio – settembre
1966, pp. 61-62
AA.VV., XV Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, in “D’Ars Agency”, n. 5, 20
dicembre 1966 – 10 gennaio 1967, pp. 1-52
A. A. Moles, La nuova posizione dell’artista nell’ambiente di consumo, in “D’Ars Agency”, n. 34, 10
gennaio – 20 aprile 1967, pp. 1-9

118
F. Ferrarotti, Arte e società. Alcune osservazioni sociologiche sull’arte popolare, in “D’Ars Agency”, n. 34,
10 gennaio – 20 aprile 1967, pp. 10-17

AA.VV., XVI Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, in “D’Ars Agency”, n. 36-37,
30 giugno – 20 ottobre 1967, pp. 1-20
L. Ossicini, L’AICA (ma non troppo), in “Arte oggi”, n. 30, anno XI, ottobre – novembre 1967, p.
1
AA.VV., XVI Convegno Internazionale Artisti, Critici e Studiosi d’Arte, in “D’Ars Agency”, n. 38-39,
20 ottobre 1967 – 10 febbraio 1968, pp. 1-21
Arte popolare moderna, a cura di F. R. Fratini, Gli incontri di Verucchio, Cappelli editore, Bologna
1968
AA.VV., XVII Convegno Internazionale Artisti, Critici, Studiosi d’arte. Strutture ambientali, in “D’Ars
Agency”, n. 38-39, 30 ottobre 1968 – 10 marzo 1969, pp. 17-49
II Colloquio internazionale di Estetica Sperimentale, Rimini-Verucchio-San Marino-Ferrara, 1966, a cura di
C. Genovese e G. F. Dasi, Gli Incontri di Verucchio, Cappelli editore, Bologna 1969
Lo spazio visivo della città “Urbanistica e cinematografo”, Gli incontri di Verucchio, Capelli Editore,
Bologna 1969
Strutture ambientali, Gli incontri di Verucchio, Capelli Editore, Bologna 1969
Sessanta e dintorni. Nuovi miti e nuove figure dell’arte, catalogo della mostra, Villa Franchi Galleria
d’arte Moderna e Contemporanea, Riccione, 27 giugno – 12 settembre 2010, Silvana editoriale,
Cinisello Balsamo 2010

Altri riferimenti bibliografici


H. Read, The Meaning of Art, Faber&Faber, Londra 1931
J. Dewey, Arte come esperienza, 1934, ed. it. La Nuova Italia, Firenze 1960
W. Benjamin, L’opera d’arte al tempo della riproducibilità tecnica, 1936, Einaudi, Torino 1966
G. Pagano – G. Daniel, Architettura rurale italiana, Quaderni della Triennale, Hoepli, Milano 1936
J. Dewey, Teoria della valutazione, 1939, ed. it. La Nuova Italia, Firenze 1960
F. De Sanctis, Saggi e scritti critici, Renon editore, Milano s.d.
H. Sedlmayr, La perdita del centro. Le arti figurative del XIX e XX secolo come sintomo e simbolo di un'epoca,
1948, ed. it. Rusconi, Milano 1976
G. C. Argan, Walter Gropius e la Bauhaus, Einaudi, Torino 1951
M. Valsecchi, Van Gogh, Electa, Milano-Firenze 1952
L. A. Fiedler, The Middle against both End, in “Encounter”, agosto 1955

119
W. Gropius, Architettura integrata, Il Saggiatore, Milano 1955
R. Banham, Industrial Design e arte popolare, in “Civiltà delle Macchine”, n. 2, 1955
G. C. Argan, Studi e note, Bocca, Roma 1955
G. Morpurgo Tagliabue, Scuola critica e scuola semantica nella recente estetica americana, in “Rivista di
estetica”, fasc. III, settembre-dicembre 1956
G. Bachelard, La poetica dello spazio, 1957, ed. it. 1975, Edizioni Dedalo, Bari 2006
G. C. Argan, La crisi dei valori, in “Quadrum”, a. IV, 1957
M. Valsecchi, Maestri Moderni, Garzanti, Milano 1957, pp. 3-15
G. Dorfles, Le oscillazioni del gusto, Einaudi, Torino 1958
S. Bettini, Arte e critica, in “La Biennale di Venezia”, gennaio 1958, p. 3
E. Gilson, Peinture et réalité, Vrin, Parigi 1958
A. Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 1958
Giovani artisti italiani, catalogo della mostra, Società editrice lombarda, Milano 1958
M. Valsecchi, Amedeo Modigliani, Garzanti, Milano 1958
AA. VV., Il giudizio estetico, Atti del Simposio di Estetica, Venezia, ed. “Rivista di estetica”, Padova
1958
E. Paci, La crisi della cultura e la fenomenologia dell’architettura italiana, in “La Casa”, 6, 1959, p. 353-
365
H. Rosenberg, La tradizione del nuovo, 1959, ed. it. Feltrinelli, Milano 1964
D. Katz, La psicologia della forma, Boringhieri, Torino 1960
P. Raffa, L’astrattismo e lo sviluppo della critica d’arte, in “Arte Oggi”, n. 5, dicembre 1959 – febbraio
1960, pp. 18-19
A. Robbe-Grillet, Une voie pour le roman future, 1956, tr. it. Rusconi e Paolazzi, Milano 1961
Equipo 57, “Accento Cultural”, n. 11, aprile 1961
J. McHale, The Expandable Icon, in “Architectual Design”, marzo 1961
W. Köhler, La psicologia della Gestalt, Feltrinelli, Milano 1961
R. Caillois, Le tracce. Argomenti contro l’arte informale, in “Arte Oggi”, n. 11, anno III, maggio-giugno
1961, pp. 33-34
G. C. Argan, Salvezza e caduta nell’arte moderna, in “Il Verri”, n. 3, giugno 1961, pp. 39-72
G. Dorfles, Pittura, architettura e disegno industriale di fronte all’Informale, in “Il Verri”, n. 3, giugno
1961, pp. 187-190
U. Eco, L’informale come opera aperta, in “Il Verri”, n. 3, giugno 1961, pp. 98-125
L. Anceschi, Momenti e problemi di storia dell’estetica, Marzorati, Milano 1961

120
D. Formaggio, L’idea di artisticità. Dalla “morte dell’arte” al “ricominciamento” dell’estetica filosofica, Casa
Editrice Ceschina, Milano 1962
G. Dorfles, Simbolo, comunicazione e consumo, Einaudi, Torino 1962
Nuove prospettive della pittura italiana, catalogo della mostra, Palazzo di Re Enzo, Galleria Comunale
d’Arte Moderna, Bologna, Edizioni Alfa, Bologna 1962
Alternative attuali, catalogo della mostra, Castello Cinquescentesco, L’ Aquila, Edizioni dell’Anteo,
Roma 1962
L’informale in Italia fino al 1957, catalogo della mostra, Livorno, marzo-aprile 1963
La nuova figurazione. Mostra internazionale di pittura, catalogo della mostra, La Strozzina, Firenze,
Valecchi Editore, Firenze 1963
Aspetti dell’arte contemporanea. Rassegna internazionale. Architettura, pittura, scultura, grafica, catalogo della
mostra, Castello Cinquecentesco, L’Aquila, Alferi, Venezia 1963
C. Maltese, Critica come partecipazione al processo creativo, in “Arte Oggi”, n. 13, anno IV, gennaio-
maggio 1962, pp. 19-20
C. Vivaldi, Verso un realismo di massa, “Tempo presente”, gennaio 1963
IV Biennale di San Marino, Oltre l’informale, catalogo della mostra, Palazzo del Kursal, San Marino
1963
R. Righetti, Oltre l’Informale, in “D’Ars Agency”, n. 4, 20 giugno – 20 settembre 1963, pp. 39-41
E. Crispolti, Aspetto dell’arte contemporanea ad Aquila, in “D’Ars Agency”, n. 4, 20 giugno – 20
settembre 1963, pp. 16-19
G. C. Argan, Aut – Aut, in “Il Messaggero”, 7 agosto 1963, p. 3
G. C. Argan, La ricerca gestaltica, in “Il Messaggero”, 24 agosto 1963, p. 3
G. C. Argan, Le ragioni del gruppo, in “Il Messaggero”, 21 settembre 1963, p. 3
I. Tomassoni, Per un’ipotesi barocca, Edizioni Ateneo, Roma 1963
E. Sanguineti, Per una nuova figurazione, in “Il Verri”, n. 12, 1963, pp. 96-100
M. Calvesi, Ridimensionamento dei valori, in “Il Verri”, n. 12, 1964, pp. 7-11
A. Perilli, Le ragioni narrative della pittura, “Il Verri”, n. 10, ottobre 1963, pp. 137-140
M. Calvesi, Ricognizione e reportage, in “Collage”, n. 1, dicembre 1963
Almanacco letterario Bompiani”, Bompiani, Milano 1962
G. Dorfles, I pericoli di una situazione, in “Il Verri”, n. 12, 1963, pp. 4-6
C. Vivaldi, La giovane scuola di Roma, “Il Verri”, n. 12, 1963, pp. 103-105
G. C. Argan, Salvezza e caduta nell’arte moderna. Studi e note II, Il Saggiatore, Milano 1964
E. Garroni, La crisi semantica delle arti, Officina edizioni, Roma 1964
A. Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 1964

121
R. Barilli, L’offensiva americana alla Biennale, in “Il Verri”, n. 14, aprile 1964, pp. 92-100
G. C. Argan, Il banchetto della nausea, in “La botte e il violino”, n. 2, settembre 1964, pp. 3-8
N. Salvalaggio, La Biennale proibita. L’arte che prende a schiaffi, in “Il Giorno”, 27 giugno 1964
R. Pisu, Tutto è perduto, anche il pudore, in “A.B.C.”, 28 giugno 1964
G. Ballo, Proposte nuove alla XXXII Biennale di Venezia, in “D’Ars Agency”, 30 aprile – 20 giugno
1964
M. Venturoli, Una panoramica della Biennale di Venezia, in “D’Ars Agency”, 30 aprile – 20 giugno
1964
U. Apollonio, Nuova Tendenza, in “Evento”, n. 17-18, settembre 1964
La ragione di Venezia, in “Osservatore Romano”, 25 giugno 1964
U. Apollonio, Ricerche di strutturazione dinamica della percezione visiva, in “Civiltà delle Macchine”, n. 4,
luglio-agosto 1964
G. C. Argan, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano 1965
G. Dorfles, Nuovi riti, nuovi miti, Einaudi, Torino 1965
M. Bense, Estetica, 1965, ed. it. Bompiani, Milano, 1974
R. De Fusco, La critica discorde, in “Op. Cit.”, n. 4, settembre 1965, pp. 20-43
R. De Fusco, I criteri di valutazione dell’arte contemporanea, in “Op. Cit.”, n. 5, gennaio 1966, pp. 5-30
E. Garroni, Arte e comunicazione, in “La Biennale di Venezia”, n. 59, dicembre 1966
M. Fagiolo Dell’Arco, Rapporto 60. Le arti oggi in Italia, Bulzoni Editore, Milano 1966
C. Brandi, Le due vie, Editori Laterza, Bari, 1966
M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1966
T. Maldonado, Per una progettazione ambientale, in “Summa”, n. 6-7, dicembre 1966
U. Eco, Teoria della comunicazione e arti visuali, in “La Biennale di Venezia”, n. 60, dicembre 1966
Nuove tecniche dell’immagine, catalogo della mostra, Alfieri Edizioni d’Arte, Venezia 1967
Fuoco, Immagine, Acqua, Terra, catalogo della mostra, Galleria L’Attico, Roma 1967
Lo spazio dell’immagine, catalogo della mostra, Alfieri Edizioni d’Arte, Venezia 1967
H. Read, L’arbitrio totale, in “La Biennale di Venezia, n. 62, giugno – settembre 1967
G. Celant, Arte Povera. Appunti per una guerriglia, in “Flash Art”, n. 5, 1967
AA. VV., Praga. Essenza della critica d’arte, funzione della critica d’arte, strumenti della critica d’arte, in
“Marcatrè”, n. 34/35/36, dicembre 1967, pp. 8-25
M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967
S. Sontag, Against Interpretation and another eassys, 1964, trad. it., Mondadori, Milano 1967
U. Eco, La definizione dell’arte. Dall’estetica medioevale alle avanguardie, dall’opera aperta alla morte dell’arte,
Garzanti, Milano 1968

122
M. Tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Laterza, Bari 1968
R. Berger, Arte e comunicazione, in “La Biennale di Venezia”, n. 63, gennaio - marzo 1968
M. Tafuri, Per una critica dell’ideologia architettonica, in “Contropiano”, 1, gennaio 1969, pp. 31-79
M. Cacciari, Sulla genesi del pensiero negativo, in “Contropiano”, 1, 1969, pp. 131-200
C. Lonzi, Autoritratto, De Donato editore, Milano 1969
G. C. Argan, L’arte Moderna 1770-1970, Sansoni, Firenze 1970
U. Eco, Estetica e teoria dell’informazione, Bompiani, Milano 1972
J. Kosuth, Art after Philosophy, in “Art International”, n. 1789, 1969, trad. it., “Data”, n. 3, aprile
1972, pp. 39-47
L. Lippard, Six Years. The Dematerialization of the Art Object from 1966 to 1972…, University of
California Press, New York 1973
Critica in atto, atti degli incontri, Roma 6-30 marzo 1972, a cura di A. Bonito Oliva, Centro
d’Informazione Alternativa, Quaderno n. 2, Roma 1973
M. Tafuri, Progetto e utopia, Laterza, Bari 1974
G. Dorfles, Il divenire della critica, Einaudi, Torino 1975
I. Mussa, Gruppo Enne, Bulzoni, Roma 1976
Z. Birolli, Gastone Novelli, Feltrinelli, Milano 1976
G. C. Argan, Arte e critica d’arte, Laterza, Bari – Roma 1984
M. Calvesi, Le due avanguardie. Dal Futurismo alla Pop Art, Lerici, Milano 1966, ed. cons. Laterza,
Roma-Bari 1984
Arte in Italia 1960-1985, a cura di F. Alfano Miglietti, Giancarlo Politi editore, Flash Art Book,
Milano 1988
G. Celant, L’inferno dell’arte italiana. Materiali 1946-64, Costa & Nolan, 1990
C. Gamba, L’umo, il tempo, il progetto, l’oggetto. Appunti su Argan e il design, in G. C. Argan, Progetto e
oggetto: scritti sul design, Medusa, Milano 2003
M. Biraghi, Progetto di crisi. Manfredo Tafuri e l’architettura contemporanea, Christian Marinotti Edizioni,
Milano 2005
Consagra che scrive. Scritti teorici e polemici 1947/89, All’insegna del pesce d’oro, Scheiwiller, Milano
1989
Parole Contro, 1963-1968. Il tempo della Poesia visiva, catalogo della mostra, Montevarchi – Cantieri la
Ginestra, Carlo Cambi editore, 2009
M. Dantini, Giulio Argan e l’etica della critica, in “Il Manifesto”, 8 dicembre 2010
Giulio Carlo Argan. Intellettuale e storico dell’arte, a cura di C. Gamba, Electa, Milano 2012
M. Dantini, Geopolitiche dell’arte, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2012

123
Arte moltiplicata. L’immagine del Novecento italiano nello specchio dei rotocalchi, a cura di B. Cinelli e F.
Fergonzi, et alii, Milano 2013
Anni Settanta. Arte a Roma, catalogo della mostra a cura di D. Lancioni, Palazzo delle Esposizioni,
Roma, Iacobelli editore, Roma 2013

124

Potrebbero piacerti anche