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Il circolo vizioso
2
T'offro, amore, guarda
gli zigomi, le palme
e l'ultima forza dell'insana maturazione
l'estremo riguardo della luna ancor disabitata
e la mano che scende,
la cintura disserra
nelle bende avverte
l'empito, la viola,
e la bocca
i fianchi,
il labbro t'offro,
la speranza,
il mio stesso battesimo,
la mia firmata dannazione,
perché tu
dal profondo
m'assicuri che,
nell'ora delle vipere e del sangue,
rivisiterai il nulla
che t'ha amato.
Ma anche senza questo
t'offro, amore,
pel nonsenso che ci morde
e, madre incauta,
a sé ci chiama,
nel suo ventre smisurato
ci serra, ci ravvolge.
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Sibi et paucis
Premessa
Una visione d’insieme
1. 11 settembre 2001
2. Circolo vizioso
Questi ultimi tempi potranno durare un anno, dieci anni o due secoli, nessuno
sa; ciò non toglie che siano inesorabilmente ultimi. Qualcosa, e molte e troppe
cose sono irrimediabilmente perdute. Dalla metà degli anni Ottanta, con la ri-
voluzione informatica e la globalizzazione dell'economia e della cultura, si è
stravolto in meglio e in peggio - piuttosto in peggio che in meglio - il tradizio-
nale modo di vivere delle persone, che non era stato intaccato in fondo nep-
pure dagli orrori del Novecento. Nella tecnica è tuttavia insita una speranza
proprio nei termini escatologici della sua logica ferrea. Se la realtà primaria, ul-
teriore e ultima è il Logos, dalla creazione alla Parusia l'essenza della tecnica
può diventare lo strumento dell'onnipotenza del Logos giovanneo presso Dio.
Ma dal 1989 in poi, questo sconvolgimento dell’epoca ha attecchito in maniera
drammatica, con una velocità parossistica, neppure lasciando alle illusioni mol-
ta possibilità di radicalizzarsi nel tempo per trasformarsi in una realtà più otti-
mista. Da Matteo traevo un certo necessario conforto nell'invito dello Spirito,
a non turbarmi non essendo ancora la fine.
Esiste contraddizione tra fede e religione, tra comunità dei fedeli e Vatica-
no, tra realtà del divino e irrealtà dell'attualità, tra chiesa della profezia e chie-
sa del potere, tra santità e apostasia ma tra sacro e profano non c'è necessa-
riamente contraddizione fin quando le verità profonde dell'uomo e dell'esi-
stente non ne siano investite, se non quando l'interferenza del "potere spiri-
tuale" - negativo come tutti i poteri, come "i principati e le potestà", "i domi-
natori di questo mondo di tenebre", "gli spiriti del male sparsi nell'aria" - lotta
contro il sangue e la carne, come denunciò Paolo nella lettera agli Efesini (6,
12). Di questa situazione è consapevole la chiesa, e del fatto che l'approccio
del fedele non è con l'istituzione soggetta ai mutamenti del mondo bensì con
l'affettuosa Verità scandalosamente manifestatasi, in una grotta di Beth-
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lehem, nel figlio di un carpentiere appartenente al casato di David e di una
vergine chiamata beata da tutte le generazioni. Perciò la tradizionale distinzio-
ne tra ordine temporale e ordine della Grazia, tra divinità e Dio, tra aspetto
canonico-giuridico e ufficio sacramentale-ontologico costituisce a maggior ra-
gione una sfida allo spirito del tempo, nel quale la chiesa, dalla via dolorosa di
Giovanni Paolo II a quella non mediatica di Benedetto XVI, può essere sola-
mente creduta.
Questo libro parla di questo increscioso paradosso, di questa inconciliabilità
non risolta, di questo autentico ossimoro, di questo circolo vizioso che riguarda
proprio la contraddizione interna alla natura stessa del cristianesimo, ma nella
misura in cui esso è stato travisato da certo integralismo cattolico, per ragioni
di mero potere temporale, in funzione decisamente anticristica.
Lo Spirito soffia dove e quando vuole, ma la chiesa non è solo la gerarchia.
In quanto costituita da esseri umani realisticamente fallibili, la chiesa reale è
peccatrice fin dalla sua realtà primitiva, essendo essa un evento post-pasquale.
La chiesa si è voluta istituire solamente dopo la morte del Cristo, che infatti
in vita non ha fondato alcuna chiesa né ha impostato un programma purches-
sia per la fondazione di ecclesia alcuna.
“Con lo sguardo fisso a tale visione d’insieme, nulla mi ha attratto più della
possibilità di ritrovare, in una prospettiva generale, l’immagine da cui fu osses-
sionata la mia adolescenza: l’immagine di Dio. Certamente il mio non è un ri-
torno alla fede dei miei anni giovanili. Ma in questo mondo abbandonato nel
quale ci aggiriamo, la passione umana ha un solo oggetto. Le vie per raggiun-
gerlo sono molteplici. Quest’oggetto si presenta sotto gli aspetti più vari e ci
sarà dato di penetrarne il senso solo a patto di individuare la loro profonda
coesione.
“Insisto sul fatto che, in quest’opera, gli slanci della religione e
quelli della vita erotica appaiono nella loro unità.”4
Si cerca qui di seguire una nuova conciliazione possibile tra lo spirito del
tempo e il riemergere di forti slanci verso la tradizione cristiana, nel dibattito
filosofico e nella prospettiva generale dell’Occidente.
Ma quanto è visibile e spirituale insieme, libero e disciplinato, santo e sem-
pre in via di santificazione, contemplativo e attivo, e così via, è di per sé una
contraddizione profondamente coesa in una necessaria unità. Non si vuol
dunque negare la presenza di aporie nella mia ricerca, che vuol rivalutare lo
stesso concetto di una contraddizione dove siano implicite la positività e la di-
namicità della sua struttura portante e “incoerente”, alla stregua del medesi-
mo circolo ermeneutico che ho inteso affrontare.
La complessità della materia trattata non può non caratterizzare
quest’opera nel senso della sua strutturale problematicità, con ovvi punti di
non ritorno, a partire dalle tracce che via via sono state qui indicate.
8
Capitolo primo
Dioniso e il Crocifisso
Il cielo piange, piove… Altro è Dio, altro è la divinità, ma la divinità del mondo è
in Dio e la mondanità di Dio è nel mondo. E così pure gli dèi, se non totalmente
in gramaglie, portano segni di lutto, oppure colori sobri sui corpi rivestiti. La lo-
ro bellezza splende ancora ma di luce pudica, fiera la divinità di cui partecipano
ma abbassano il capo per rispetto, a partire, dantescamente, dal “sommo Gio-
ve per noi crucifisso”5 e, sentendosi indegna del confronto, la celeste Afrodite
tutta in nero si mette in disparte con Maria di Magdala, nel tempo della Disce-
sa agli Inferi che è un evento del Verbo che indica la Resurrezione quale even-
to meta-temporale.
Piange anche, devotissimo e non del tutto ipocrita, - tanto che lo si potreb-
be confondere con i messaggeri di Dio, - Lucifero che invoca assurdamente,
dagli abissi della sua perdizione, un perdono che non gli giungerà: anche lui di-
speratamente, e chissà per quali vie, lavora per portare a compimento l’opera
dello Spirito, ma le masse apocalittiche dei giorni scorsi, verso cui ho provato
non poco sospetto come se si trattasse di un fenomeno indotto dai mass-
media, hanno urlato con la vox Dei (ho sospettato anche questo, si è in qual-
che modo percepito che quella vox populi derivasse da un Altrove).
Il nostro cuore arde per il diavolo stesso, secondo l’abate greco ortodosso
Isacco il Siriano, l’amore essendo trionfale, Dio è integrale ma bisogna che la
morte non trionfi, che lo zampino di Lucifero non sia eccessivamente fascino-
so, nel dialogo fra le chiese e le religioni che mai come in questi giorni ha dato
tanto spettacolo di sé, nemmeno assai edificante. Qui si giunge all’assurdo di
una virtù coatta e di una salvezza obbligata: libero arbitrio e impossibilità di
peccare sono una contradictio in adiecto, l’autonomia della scelta umana limi-
ta l’onnipotenza divina relativamente all’opera dei Sei Giorni.
Il gesto benedicente del sofferente Pontefice affacciato alla finestra, senza
parole, ha scatenato valanghe di retorica ma ha anche operato più di una con-
versione, e riconversione. Per quel solo gesto, seppure si sia stati sempre lon-
tani da lui, nella laicità, o di lui critici anche in una sospesa tensione verso una
spiritualità indefinita, si è ugualmente debitori verso lo Spirito inequivocabil-
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mente lì testimoniato. Seppure Nicodemo sia andato di nascosto, nottetempo,
a discutere con lui, per quel solo gesto è soggiogato dalla luce diurna, alla qua-
le ora può uscire allo scoperto, che lo voglia oppure no, ma sempre liberamen-
te scegliendo quando peraltro non avrebbe potuto fare a meno di decidere in
quel senso, non esistendo contraddizione fra i contrari, lì, né più tra Erasmo e
Lutero, e ritrova il fondamento di realtà per la sua propria vita.
Se un tale individuo, infatti, non avesse più speranza per la vita, o non
scorgesse più alcun senso nei suoi giorni, nella fatica di vivere, senz’ombra di
soddisfazione, strascinando coi denti la vita nell’illusione, o nella vana speran-
za, si affida alle ispirazioni del Paraclito per la verità di quel gesto che è
tutt’uno con quella evangelica.
“I passi dei vangeli da cui appare che sono questi i contenuti più radicali del-
la sua ‘rivoluzione’ nei confronti delle strutture culturali e sociali ebraiche, so-
no numerosissimi. Ma è sufficiente pensare al: ‘Quando vuoi pregare entra
nella tua camera…’ (cfr. vangelo di Matteo, cap. 6, versetto 6); oppure: ‘Quan-
do fai l’offerta, non sappia la destra quello che fa la sinistra’ (cfr. vangelo di
Matteo, cap. 6, versetto 3); oppure, ancora: ‘Quando digiuni, non fare la faccia
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triste’ (cfr. vangelo di Matteo, cap. 6, versetto 16).”12
“La grande forza di Gesù, del resto, è proprio in questo: avendo fatto cade-
re il diaframma fra il sacro e il profano, fra il piano di potenza e l’uomo, in real-
tà ha reso all’uomo disponibile tutto l’al-di-là, tutto il trascendente. Il mondo
di-là è riportato di-qua senza più alcuna differenza. Non può, quindi, Gesù non
odiare la morte, perché quel diaframma tra l’al-di-là e il-di-qua che lui ha ten-
12
tato di far cadere viene ristabilito dalla morte, in quanto la morte è comunque
la fine del corpo, e fa percepire inevitabilmente il fatto che la ‘rottura’ c’è.
Odiare la morte significa amare ogni singolo uomo, perché appunto
l’individuazione è possibile soltanto attraverso il corpo, significa amare la vita e
l’’umanità’ reale, mondana, dell’uomo, e non la trascendenza.”14
Le conquiste del pensiero laico, benché molte contraddizioni del moderno sia-
no di pretta matrice illuministica, non possono venir contraddette dal discorso
sulla fede, e viceversa.
Se c’è fede, e altro è la religione e altro è la fede, se la fede è al di là della
ragione, la distinzione tra ordine temporale e ordine della Grazia rende irri-
nunciabile, e dunque possibile, l’uso della ragion critica nella distinzione tra
istituzione e Rivelazione. La scelta temporale ha finito per privilegiare nel corso
della sua storia la visione di una chiesa peccatrice, come fu riconosciuto da
Giovanni Paolo II e secondo quanto, coerentemente sulla medesima linea che
fu già, in più di un’occasione, di Paolo VI, è stato denunciato dall’attuale Ponte-
fice ma la radicale critica di Benedetto XVI alla modernità, o al compimento
del moderno15 insieme a un’ulteriore esigenza mistica e più integrale rigore
nella testimonianza, è stata giudicata dalla cultura laica in termini di riduttivi-
smo assoluto.
Il moderno è, viceversa, caratterizzato dall’insorgere, anche rivoluzionario,
del concetto di individuo e dall’illuminismo come estensione conseguente del
diritto razionale della persona. Ciò non sta a confutare il cristianesimo,
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bensì ne ha costituito l’unica realizzazione possibile nell’epoca moderna. Ha
scritto recentemente Gianni Vattimo, nella sua toccante autobiografia redatta
da Piergiorgio Paterlini:
La scelta temporale ha coltivato nel corso della storia una sua anomala di-
mensione anticristica.
Ha privilegiato un’istituzione paternalistica, autoritaria, d’ispirazione vetero-
testamentaria salvo, almeno nel XX secolo, il Vaticano II che ha ipotizzato
un’espressione solitaria e luminosa all’interno della chiesa.
La distinzione tra ordine temporale e ordine della Grazia, tra religione e fe-
de, tra divinità e Dio, è una tensione inevitabile che in questi momenti dram-
matici può sfociare in conflitto. Ecco la spiegazione dell’interclassismo, che
aveva caratterizzato il cristianesimo primitivo! Esso non intese mobilitarsi
temporalmente a sostegno dei ceti subalterni, in ciò peraltro in coerenza col
messaggio neo-testamentario che non fa coincidere la Rivelazione con la libe-
razione politica nel rispetto paolino delle autorità costituite, ma la teologia del-
la liberazione ha avuto molto da rifondare in proposito, il Messia fu processato
per ragioni squisitamente politiche.
Pertanto, sarebbe necessario che la chiesa fosse, nelle parole della Scrittu-
ra, nella prassi dei riti e nel suo magistero temporale, non distinta dall’ordine
della Grazia ma questo darebbe luogo a una mera impossibilità di cose, se non
nella liturgia e là dove soffia, secondo la sua volontà, lo Spirito come era già
stato detto da Gianni Baget-Bozzo:
“Nella Chiesa esiste al livello massimo la figura del mondo di cose, che
esprime la divinità e al medesimo tempo la nasconde. Come il mondo rivela e
nasconde al medesimo tempo la divinità che lo fonda, così la Chiesa rivela e
14
nasconde al medesimo tempo le Persone divine che le sue parole annunciano.
Questa tensione non è risolvibile. Per questo ‘la santa Chiesa cattolica’ è un
oggetto di fede.
“*…+ La teologia è divenuta la scienza che mormora e dice in privato le verità
che essa in quanto scienza della fede come la vedeva Tommaso d’Aquino do-
vrebbe gridare sui tetti. Il teologo non può non dire con il Credo: ‘Credo la san-
ta Chiesa cattolica’. Ma mai per lui in questo momento la Chiesa può essere
solo creduta. Oggi veramente questa proposizione del Credo diviene come le
altre: una proposizione che non ha referenza empirica immediata. La teologia
si interroga sulla esistenza del suo futuro perché si interroga sui rapporti tra la
sua parola e la realtà empirica cui fa riferimento.”17
Ciò appartiene al suo magistero e mistero. Per questo Madre della chiesa è
la Vergine, che ripropone la comunicazione divina della femminilità umana, in
e di Dio, anche secondo quanto brevemente annunciato dal non dimenticato
papa Lucani nella formula: “Dio è Madre”.
La prudenza è una carità, ma lo è anche la verità. Il culto mariano caratteriz-
za Roma, che vuol porsi in quanto Roma nel processo ecumenico, con un me-
todo e una pratica secondo i quali Jean Guitton ribadiva l’identità del cattolice-
simo attraverso la radicalizzazione delle opposizioni in gioco, nel conflitto tra
carità e verità, e per il filosofo francese marxismo e cristianesimo sono due
termini antitetici. Affermava Guitton nel 1987: “Non è con le confusioni e ta-
cendo sull’essenziale, sulla tesi e sull’antitesi, che si ottiene la sintesi, ma
esponendo al contrario le opposizioni in tutta la loro forza. Mi sembra che, su
questo punto, Hegel non mi smentirebbe.”18
Ciò apre alla necessità del dialogo, vero problema da risolvere in excelsis,
ma anche nella parcellizzazione reale degli organismi di comunicazione sociale.
Vanitas vanitatum!
Certo anche in Cohelet, non riscaldato dal messaggio messianico, il tutto
perde il suo senso e precipita verso l’affanno pessimistico24 ed è, dice Cohelet,
vanità delle vanità, tutto è vanità!25
La volontà propria teorizzata da Nietzsche non può escludere il poter vole-
re la volontà di Dio come scelta autonoma nella libertà della coscienza
dell’uomo crocifisso26 del XXI secolo, che elegge ancora una volta, e più che mai
questa volta, la fede in Dio dalla quale è eletto.
18
Capitolo secondo
Filosofia di Gesù
2.2. Iucunditas
San Tommaso non condanna il piacere (in ciò è possibile individuare un ri-
ferimento vetero-testamentario):
Il piacere della vita umana, nel suo culmine più alto, è dato dall’incontro con
l’altro attraverso la comunicazione amorosa, spirituale e fisica al tempo stesso,
realizzando una forma di trascendenza, una vera e propria piccola morte che
prelude, nell’unione più intima possibile tra due creature umane, a un Altrove
che necessariamente le trascende e che è già Dio quale sarà nella dimensione
meta-temporale del Regno, al di là della morte fisica, dopo la resurrezione del-
la carne. Non è edonismo superficiale né tantomeno consumistico né disordine
passionale materialista o blasfemo: non c’è, anzi, che da mettersi in ginocchio
nel rendimento di grazie per il fondamento della fede, vana se il Cristo non
fosse risorto (che sia risorto è un articolo del Credo secondo quanto evidenzia-
to già nel sepolcro trovato vuoto, e, traendo una tale evidenza nella relaziona-
lità sussistente delle Persone divine che si rivelano all’uomo, il fondamento
della fede, a maggior ragione, sussisterebbe se anche in verità si dimostrasse,
per assurdo, che il sepolcro, in realtà, non fu mai vuoto). Se tuttavia l’opera di
Platone è la giustificazione storica della pederastia intesa esclusivamente come
prassi educativa per la purificazione dell’anima, la virtù e la conoscenza, la mo-
rale ascetica cristiana dal suo punto di vista è la diretta prosecuzione
dell’iniziazione pagana nella mistica di Philía e di Eros?
E’ noto che il rapporto fra l’erastés e l’erómenos era codificato in una strut-
tura statutaria assai articolata e restrittiva, basandosi su principi pedagogici al-
tamente morali per la concezione del tempo. Il rapporto educativo tra l’adulto,
che era erastés dai venti ai trent’anni, e il ragazzo, che era erómenos dai dodici
ai venti, era alla base della “pederastia” che non va confusa con
l’omosessualità nell’accezione moderna del termine, né tantomeno con la pe-
dofilia, e doveva essere transitorio. Se l’erómenos, ossia l’amato, avesse perse-
verato oltre quel limite d’età peraltro singolarmente in sintonia con le fasi del-
lo sviluppo psico-sessuale teorizzate da Freud, sarebbe decaduto al rango di
cinedo incontrando la pubblica riprovazione, dal momento che era impensabi-
le, e condannata, a dispetto di quanto è comunemente ritenuto,
l’omosessualità tra adulti nell’antica Grecia, l’erómenos era tutelato dalla legge
e l’erastés, ossia il maestro, sostenuto da motivazioni intellettuali.
Vi era differenza tra Eros, preposto al sentimento e alla nobiltà dell’“amor
platonico”, ed Afrodite, la quale presiedeva all’unione della carne ed alla pro-
creazione.
Ma una volta stabilite queste sostanziali distinzioni, può avere ancora un
senso porsi l’interrogativo se la mistica cristiana derivi da una mistica pagana
che non fosse per la cura e purificazione dell’anima? L’ascetica si proporrebbe
come forza mediatrice che eleva, in termini di intellettualismo socratico, alla
metempirica Bellezza in sé quale giustificazione morale della sodomia? Ciò sa-
rebbe, oltreché un assurdo storico, un’eresia teologica, una blasfemia ontolo-
24
gica e un sofisma diabolico? Giovanni Reale, da filosofo cattolico, ha vari passi
illuminanti su queste bellissime pagine della letteratura platonica, sulla scala
dell’amore:
“Amore è dunque filo-sofo nel senso più pregnante del termine. La sophía,
cioè la sapienza, è posseduta solo da Dio; l’ignoranza è propria di colui che è
totalmente alieno da sapienza; la filo-sofia è propria, invece, di chi non è né
ignorante né sapiente, non possiede il sapere ma vi aspira, è sempre in cerca, e
ciò che trova gli sfugge e lo deve cercare oltre, appunto come fa l’amante.
“Quello che gli uomini comunemente chiamano amore non è che una picco-
la parte del vero amore: amore è desiderio del bello, del bene, della sapienza,
della felicità, dell’immortalità, dell’Assoluto. L’Amore ha molte vie che portano
a vari gradi di bene (ogni forma di amore è desiderio di possedere il bene sem-
pre): ma vero amante è colui che le sa percorrere tutte, fino a giungere alla
suprema visione, fino a giungere alla visione di ciò che è assolutamente bel-
lo”.41
L’amore che una volta si è dato, comunque sia stato espresso, provato o ricevu-
to, non è perduto nella sua elevazione più alta verso ciò che lo sublima e tra-
scende; essendo tuttora vivo, sarà ritrovato in Dio al di là del tempo. Non sia
perduto neppure in questo tempo, nella contingenza di questa esistenza appa-
25
rentemente avulsa dal dominio dello Spirito ma pur animata dalla sostanza spi-
noziana che razionalmente la determina.
Scrive Rilke, nella lettera del 14 maggio 1904 da Roma a Franz Xaver Kappus:
“non creda che quel grande amore che a lei, fanciullo, un tempo fu assegnato,
fosse perduto; può dire se allora non siano maturati in lei grandi e buoni desi-
deri, e propositi di cui ancora oggi vive? Io credo che quell’amore si conservi
così forte e potente nel suo ricordo perché fu la sua prima profonda solitudine,
e il primo intimo lavoro con cui ha atteso alla sua vita.”43
In un certo senso si potrebbe insinuare di poter fare a meno dell’ascetica per
evitare il paradosso di una sua prassi propedeutica a un miglior piacere sessua-
le, in direzione del virilismo con tutto ciò che ne consegue. L’ascetica esoterica
diverrebbe così funzionale ad un uso strumentale dell’enkráteia (intesa come
continenza o padronanza di sé o fermezza di spirito) piuttosto a vantaggio
dell’agápe se non dell’edoné, sia pur non nel senso edonistico-consumistico, né
tantomeno di massa, del termine. L’enkráteia praticata, secondo Platone, da
Socrate era anche un’indiretta e astuta tecnica pedagogica che risultò a lungo
andare efficace su Alcibiade, notoriamente intemperante, e, allo stesso modo,
l’ascetica essoterica rischia di rendere romanzesche le più scontate fantasie, fa-
scinosi i più ovvi atti di onanismo e squisiti i più timidi approcci, per non parlare
dell’estetismo che sul piano poetico deriva da una relazione platonica che vuo-
le stentare a realizzarsi totalmente nel rapporto fisico, fatti salvi gli scrupoli del-
la coscienza nelle pratiche di devozione.
Il patto di Gionata: i due giovani puri nei loro corpi, benché si tratti con evi-
denza di una dimensione “profana” ma dalla quale non può essere esclusa la
sessualità, né la sacralità del sentimento reciproco. E’ una contraddizione irri-
solvibile il circolo vizioso dell’inquietum cor, quando la filosofia è disgiunta dagli
altri amori.
Si pensi all’Elegia di Davide su Saul e Gionata:
“Si parte; e non si sa dove si arriva. Per sere e sere, una volta avvenuto
l’incontro, l’illusione riprecipita in se stessa. Ma nella liberazione fisica s’è otte-
nuta una sorta di momentanea requie; o pausa; o riposo. La sera seguente tut-
to riprende; giusto come riprende il buio della notte. E così gli anni passano. La
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distanza dal punto in cui l’unità perduta è diventata coscienza si fa sempre
maggiore, mentre sempre minore diventa quella che ci separa dal reingresso
finale nelle nientità della morte; e delle sue implacabili interrogazioni. Le om-
bre, allora, s’allungano; più difficile si rende la possibilità che quell’incontro in-
finite volte cercato, finalmente si verifichi; più difficile, ma non meno febbrici-
tante e divorante. La vicinanza della morte chiama ancora più vita, e questo più
o troppo di vita che cerchiamo fuori di noi, in quegli incontri, in quegli occhi, in
quelle labbra, non fa altro che avvicinare ulteriormente la fine. Così chi ha vo-
luto veramente e totalmente la vita può trovarsi più presto degli altri dentro le
mani stesse della morte che ne farà strazio e ludibrio. A meno che il dolore non
insegni la ‘via crucis’ della pazienza. Ma è una cosa che il nostro tempo conce-
de? E a prezzo di quali sacrifici, di quali attese, o di quali terribili e sanguinanti
trasformazioni di quegli occhi e di quelle labbra?”44
Il verbo può essere ancora predicato, cerca la sua maniera di convivere con
l’istituzione, col documento firmato dal cardinale Grocholewski
sull’inammissibilità in questione che, d’altra parte, riguarda prettamente il dia-
conato e il sacerdozio, anche se non senza le conseguenze teo-drammatiche
che si riverberano problematicamente sulla fedeltà cristiana nell’ambito della
chiesa cattolica. Lo Spirito invocato guida imprevedibilmente il credente che ad
essa appartiene, lo guida come vuole, prima del diritto e della normativa buro-
cratica è lo Spirito. L’uomo è in grado di entrare nella pienezza della parola se-
guendo il proprio percorso indicato dallo Spirito dell’invocazione, esistendo le
realtà immanenti delle assemblee locali e, per effetto della Grazia, non è con-
sequenziale spingersi ad abbandonarle, proprio nel momento in cui questo si-
gnificherebbe tout court abbandonare la chiesa. Né deve trattarsi di strumen-
talizzarla: simili ostacoli frapposti nell’itinerario personale, intimo della co-
scienza individuale, costituiscono da sempre la necessità strutturale del conflit-
to morale cristiano: del cristiano che si riconosca nel cattolicesimo ecumenico:
il bene e il male giudicati dalla Bontà infinita non solo nella Parusia. Viceversa,
proprio per questi motivi, la dialettica può farsi qui più pressante: il conflitto
rischia di estremizzarsi in lacerazione dolorosa; entrambi gli estremi della si-
tuazione tendono a porsi in contraddizione; nella prospettiva escatologica ciò
risulta ancora più evidente: se il conflitto si rivela angoscioso, non è negato il
Caelum Caeli; è attualmente possibile che uno dei due termini della contraddi-
zione prevalga sull’altro senza offuscare il Lumen del Principio.
Entro tale contesto il cammino della teologia morale resiste sostenuto dal
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dominio dell’invocazione: un cammino metodologicamente aperto nel suo
stesso farsi strutturale: delimitato naturalmente dalla lettera evangelica, che
non potrebbe negare evidentemente the right to dissent! Nel Fero igitur hanc
Ecclesiam donec videro meliorem di Erasmo è racchiusa la dignità intellettuale
e la bellezza della liturgia romana.
L’Angelo è necessario perché si pecca. Il che non vuol dire volgere lo sguar-
do dalla Bontà infinita, e nemmeno scendere a patti faustianamente col diavo-
lo, benché sembrerebbe, in quanto il primo alleato della conoscenza e nemico
dell’umanità saprebbe che invece che con lui o con Gionata o con Davide il
patto era stato stipulato precedentemente con Dio, e si tratta fin qui di pecca-
tucci infine, tutto sommato di piccole trasgressioni, né di omicidio né di furto,
ed è un diavolo, – o un male necessario – né Hitler, né il male assoluto, - quel-
lo, non mediocre ma innocente, se è così possibile dire, bonario e simpatico. E’
un’ennesima prova, un’esigenza tanto estrema (o che può diventarlo) imposta
non da un Dio, il Quale, viceversa, pur ontologicamente avulso dal godimento
della carne, come s’è più sopra dimostrato, costituisce il fondamento tomistico
della sessualità umana, ma una scelta politica operata dal potere temporale.
La Bontà infinita è al di là del bene e del male dal punto di vista strumentale o,
meglio, della cooperazione misteriosa del male per arrivare al bene, del bene
per arrivare al male. Omnia cooperantur in bonum45, ma i passaggi di questa
dialettica sono necessariamente dolorosi, storicamente tragici, presuppongo-
no il dolore delle Persone divine, comportano il sangue e la croce. Analoga-
mente, molto male deriva altrettanto dal bene nella misura in cui Dio lascia
che accada il bene pur conoscendo tutto il male che ne deriverà.
E’ sempre opportuno interrogarsi sul fondamento della propria mancanza
di fede come su quello della propria fede pur prescindendo dalla professione
di ateismo che, come si sa, è una fede essa stessa. L’opera sulfurea – non ma-
lefica e di facile lettura - di Michel Onfray, nel suo capovolgimento tomistico è
culturalmente utile pur situandosi, a sua volta, nel fondamentalismo riduttivo
di un ateismo che vuol interpretare la fede come nevrosi integrale o ignoranza
strutturale, anche se ha ragione lo scrittore francese nel discutere le restrizioni
prescrittive delle religioni monoteistiche, rivendicando una maggiore laicità ma
mostrando di non aver compreso Nietzsche, e magari neppure Foucault: “La
coppia lecito/illecito - egli scrive - funziona assieme alla coppia trainante pu-
ro/impuro. Che cosa è puro? O impuro? Chi lo è? Chi non lo è? Chi decide tutto
ciò? Autorizzato e legittimato da chi? Il puro designa ciò che è senza mescolan-
za. Il contrario della commistione. Dalla parte del puro: l’Uno, Dio, il Paradiso,
l’Inferno, lo Spirito; di fronte, l’impuro: il Diverso, il Molteplice, il Mondo, il
Reale, la Materia, il Corpo, la Carne. I tre monoteismi condividono questa vi-
sione del mondo e gettano discredito sulla materialità del mondo.”46
E’ l’inevitabile dialettica della santità che non può fare a meno del giusto
contrario che le si oppone, non può prescinderne per costituirsi come supera-
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mento della tentazione, come santa Teresa di Lisieux volta la faccia indifferen-
te all’opera del Maligno, nemico da sempre del genere umano in contrasto col
progetto provvidenziale di Dio.
E’ il riscontro necessario dell’esistenza di Dio affinché santità e apostasia, al
traguardo estremo, non coincidano.
E’ la santità che potrebbe suggerire il percorso di un’ininterrotta tensione
verso l’apostasia, se non intervenisse l’onnipotente Grazia divina mediante
l’esperienza della Rivelazione.
Ogni luce filosofica e ogni logica umana è sovvertita, annullata e umiliata.
Credo quia absurdum, ché, se non fosse assurdo, cioè se fosse razionalmente
dimostrato e scientificamente provato non avrebbe senso il mio credere in ciò
che trascende scienza e razionalità, e non crederei quel che soltanto per la for-
za di tale assurdità e mortificazione del pensiero, solamente per l’edificazione
dello spirito e per la resurrezione della carne si impone nell’evidenza della fe-
de. Una teologia demonologia non è una contradictio in adiecto se, più preci-
samente, la demonologia ne fa parte fino a capovolgere l’identità della teolo-
gia, scienza della Maestà infinita, della quale la filosofia, vecchia scienza delle
scienza, è ribelle o umile ancilla.
32
Capitolo terzo
Gnostica hybris
Quel che accadde a Villa Diodati, sul lago Lemano, presso Ginevra, nell’estate
del 1816 – quell’estate esasperatamente piovosa, tra l’infuriare dei fulmini e le
bufere di vento – fu lo sprigionarsi della bellezza tra i personaggi che la abita-
rono: Lord Gorge Byron e Percy Bysshe Shelley, Mary Godwin Wollstonecraft e
la sorellastra Jane Clairmont, nonché il segretario di Byron, John William Poli-
dori, passato alla storia come il controverso autore del racconto gotico The
Vampire. Non esiste naturalmente un confine oltre il quale l’arte, se tale è,
non possa spingersi.
Si dà la bellezza immediatamente, o è essa il frutto di un lavoro, di una co-
struzione, di una disciplina e di una pena? Gli artisti sanno che la vera ispira-
zione prescinde da calcoli razionali. Da Platone a Kerouac, la ratio pura e sem-
plice non ha mai prodotto nulla di notevole dal punto di vista estetico in quan-
to il percorso da tracciare è intuitivo e a-logico, anche se una qualche consa-
pevolezza schellinghiana è pur indispensabile per organizzare l’ispirazione
mentre agli intellettuali è soltanto riservato il dominio di una ratio perlopiù as-
servita ai Principi, partiti, poteri e potestà epocali tanto più esistenti sul piano
politico quanto meno significativi al cospetto delle ragioni del tempo e della
bellezza.
La fruizione di quest’ultima deve per forza sconfinare nello scomposto e nel
de-forme, quando non è percepita in modo intuitivo ma passa per il dominio
dei sensi? L’arte non risponde se non a imperativi extra-morali, è al di là del
bene e del male non già del bello e del brutto, solo questo conta per l’arte ma
a Villa Diodati il progetto di liberazione estetica degenerò in dissipazione com-
pulsiva, nell’esaltato e nel perverso, non senza i tratti grotteschi della fantasia
delirante come è documentato nel film Gothic di Ken Russell (1987), con la ge-
niale visionarietà, cupa e catartica, che caratterizza quel regista.
33
Partendo dal presupposto platonico che la bellezza è un itinerario per rag-
giungere la verità, e la divinità essendo altro da Dio è la sua vera emanazione
contingente storicamente ed economicamente determinata, come si articola la
via della bellezza dall’Immateriale all’umano, e talora troppo umano, e
dall’umano o troppo umano al Divino? Se lo chiedeva Thomas Mann, citando
Plutarco:
Fin qui dovrebbero essere evidenti gli sviluppi della teologia dialettica di
Karl Barth, protestante ma con una forte risonanza in area cattolica in specie
negli anni del Concilio, a cominciare dall’opposizione tra fede e religione, illu-
strata nelle pagine precedenti.
E se Dio fosse una supposizione, si potrebbe parimente supporre che Dio
35
non esiste, non è, che l’aldilà è vuoto? In questo caso, ancora una volta soltan-
to la chiesa potrebbe insegnare questa verità del non-essere dell’Essere, con-
tradictio in adiecto analoga alla sua natura uni-dualistica ed, essa soltanto, al-
lora, potrebbe porsi come magistra nell’indicare agli uomini il percorso da se-
guire per far loro accettare la morte, cui non seguirebbe che il nulla.
Questo, finalmente ed esattamente tutto questo viene a costituire il suo
supremo magistero e mistero, della qual cosa essa è consapevole quant’altri
mai: alla morte non seguirebbe che un Nulla, ma ontologicamente investito
degli infiniti attributi dell’Ente assolutamente infinito che Dio è:
“Sappiamo bene che questo è mistero. E’ il mistero della Chiesa. Che se noi
in tale mistero, con l’aiuto di Dio, fisseremo lo sguardo dell’anima, molti bene-
fici spirituali conseguiremo, quelli appunto di cui noi crediamo abbia ora mag-
gior bisogno la Chiesa. La presenza di Cristo, la vita stessa anzi di Lui si renderà
operante nelle singole anime e nell’insieme del Corpo mistico, mediante
l’esercizio della fede viva e vivificante, secondo la menzionata parola
dell’Apostolo: ‘Cristo abiti per la fede nei vostri cuori’. E’ infatti la coscienza del
mistero della Chiesa un fatto di fede matura e vissuta. Essa produce nelle ani-
me quel ‘senso della Chiesa’, che pervade il cristiano cresciuto alla scuola della
divina parola, alimentato dalla grazia dei sacramenti e dalle ineffabili ispirazio-
ni del Paraclito, allenato alla pratica delle virtù evangeliche, imbevuto della
cultura e della conversazione della comunità ecclesiastica, e profondamente
lieto di sentirsi rivestito di quel regale sacerdozio, ch’è proprio del popolo di
Dio.”
Quanto alla bellezza – non risuoni un accento irriverente o blasfemo dal pre-
cedente accostamento tra una Weltanschauung che non vuole, non può e non
deve rinunciare alla trascendenza delle cose supreme e l’umanesimo moderno
o post-moderno che dir si voglia nei suoi aspetti più avanzati – Robert Ross è
l’emblema di tutto un mondo spirituale che, in una determinata fase della sto-
ria della cultura, è riuscito insieme ad altri a dimostrare come il culto del bello
sia realmente coniugabile con la Bellezza eterna dei Paradisi cosiddetti, anche
se non lo vedremo onorato che sui soli altari giocosi e amichevoli elevatigli da
36
Oscar Wilde.
Robert (detto Robbie o Bobbie) Baldwin Ross (1869-1918), primo sodale di
Wilde e a lui fedelissimo fin negli anni del processo e del vituperoso carcere di
Reading, e se per questo anche dopo la morte dell’esteta irlandese, coltivava
un punto fermo nella sua vita, peraltro improntata alla riservatezza e alle qua-
lità morali della sua persona: un cattolicesimo che sarebbe improprio definire
di maniera sol perché in linea col superestetismo decadente, tanto che
l’autore del Dorian Gray lo soprannominò ironicamente “san Roberto di Philli-
more”.
Ha ragione David Leavitt:
“Il più grave errore di Wilde – qualcuno potrebbe dire il suo errore fatale –
fu di scegliere come amante Bosie, invece di Robbie Ross. Prendendo una simi-
le decisione, Wilde si alleò decisamente con il rischio, l’incostanza e la passione
(Bosie) invece che con la prudenza, la circospezione e il riserbo (Robbie). Rob-
bie infatti, contrariamente a Bosie, era affidabile.”49
3.3. Pathemata
Il piano laico e quello metafisico non sono affatto in antitesi. Con Thomas J. J.
Altizer possiamo accettare il modello nietzscheano per (tentare di) superare il
nichilismo attraverso la “morte dialettica di Dio”, per potenziare nuovamente
l’essere o Essere che è. La teologia del cristianesimo ateo non era un ossimoro:
per morte di Dio deve intendersi semplicemente il rifiuto di un soprannaturali-
smo che nega il progresso culturale e civile di oggi: significa accogliere
l’immanentismo nella vita quotidiana: significa eliminare la contraddizione,
quando c’è, tra antropologia e spiritualità, e tutto questo non deve essere per
forza la confutazione dell’ordine della Grazia. Se si conosce Dio affidandosi a
lui, bisogna riferirsi al God above God di cui parlava Paul Tillich: alla dispera-
zione e al silenzio di Dio subentrerà Dio; il Dio che sta al di sopra di Dio, quan-
do tutti gli dèi sono morti.
Il sacro è: la profondità del profano. L’esperienza mistica non sta a confuta-
re la rivelazione canonica ma il mistico non ha bisogno della mediazione gerar-
chica per il suo rapporto personale con Dio.
Martire cristiano fu Giordano Bruno, in quanto egli credeva. Viene alla men-
te il riso dionisiaco che gli ispirò La cena de le ceneri: un ridere provocatorio in
quaresima, solo apparentemente oltraggioso; la sua ricerca non si discosta dal-
le molteplici verità custodite in seno all’essere, anche se la sua vicenda umana
e intellettuale dimostra purtroppo la sinistra vittoria del non essere che non è,
cui tuttavia l’essere non si arrese, e fu testimoniato. Che abisso lo separa dai
nostri maldestri, pessimi e raffazzonati martirii quotidiani, magari sostenuti da
39
un’intenzione sincera quando non ostentata o funzionale ad altro, a causa del-
le piccole verità, silenzi e omissioni, compromessi ed ingenue menzogne! Vie-
ne alla mente il suo spirito ebbro di verità quando, a questo punto, si impone
legittima la domanda se l’autore delle presenti note riflessive, con le sue ri-
chieste teologizzanti e i suoi recidivanti patemi, sia infine un Ciceronianus o un
Christianus, e in quale misura Christus sia Romanus per lui: alternativa terribi-
le, nel suo tempo, alla coscienza di Gerolamo, giacché nell’ingranaggio spiritua-
le di questi miei appunti entrano vari elementi eterodossi, nell’intento di vede-
re come sia possibile salvaguardare, da un lato, la spiritualità cristiana nei ter-
mini che ho sopra evidenziato e, dall’altro, l’apertura umanistica e umanitaria
allo spirito del nostro tempo.
Martire cristiano fu Giordano Bruno, eroico emblema, nel suo proprio furo-
re, delle opposizioni ai sistemi di pensiero e di poteri iniqui. Sembrerebbe tut-
tavia che la problematica del circolo vizioso si attesti fin qui intorno alla que-
stione non tanto della morale quanto della liturgia evidenziata nella sua solen-
ne suggestione come la più alta opera d’arte che sia dato concepire, ma nella
sua coesistenza fatale con una morale oggettivamente in contrasto con lo spi-
rito del nostro tempo, che pure è in crisi radicale. E’ d’altronde scontato che
porre categorie dicotomiche quali quella del proto-cristianesimo distinta da
quella del paganesimo, se pure poteva ben avere un senso tra il IV e il V sec. d.
C., specie in un letterato come san Gerolamo, oggi è un assurdo della storia e
della civiltà delle idee.
Martire cristiano fu Giordano Bruno. Egli richiese un colloquio con Clemente
VIII, l’unico che potesse comprenderlo e al quale rimase intimamente devoto,
ma che non glielo concesse, o forse meglio, si fece in modo che non glielo con-
cedesse. Scrisse un memoriale, negli anni della prigionia, per il Pontefice che
solo, dunque, avrebbe potuto accogliere da vicino la grandiosa verità della filo-
sofia nolana, ma l’epoca non possedeva le strutture linguistiche che potessero
tollerare l’emancipazione mentale e il misticismo di Bruno, insieme al suo arti-
stico connubio di epicureismo e platonismo, ermetismo e letteratura e, per
quanto Clemente VIII fosse intenzionato a salvarlo, titubando, infine non lo fe-
ce; l’orgogliosa ostinazione caratteriale del filosofo a negare finanche la Trinità
contribuì alla sua condanna. Non aveva lo spirito pronto ad abiurare di Galileo.
Martire cristiano fu Giordano Bruno, ma la nostra epoca possiede strutture
linguistiche e concettuali più che sofisticate per distinguere finalmente
l’emancipazione mentale dalla sottocultura, il misticismo dall’eresia, la predi-
cazione evangelica dalle decisioni del potere temporale, che il credente non è
tenuto a seguire ed ha il diritto di contestare.
Se la questione è linguistica, l’esperienza dei mistici insegna che la relazione
privata, cioè pura, diretta, non contaminata, sentimentale con Dio è, quando
tutto è stato detto e scritto, l’unica cosa che importi proprio perché una tale
relazione, iscritta nella natura, è al di là delle istituzioni sociali e del linguaggio.
40
L’esperienza dei mistici è originaria, così vicina al Lumen del Principio da sa-
persi rivolgere oltre le pratiche religiose, pur non confutandole.
La Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede del 29 dicembre 1975 “con-
danna quindi nettamente sul piano oggettivo tre comportamenti: i rapporti
prematrimoniali (n. 7), l’omosessualità (n. 8), la masturbazione (n. 9). D’altra
parte afferma che soggettivamente, specie nel secondo e nel terzo caso, vi
possono essere circostanze che diminuiscono o talora annullano addirittura la
colpevolezza dell’agente (immaturità adolescenziale, condizionamenti psicopa-
tologici, disposizioni ambientali e familiari, ecc.)”.54 La questione risulta tutta-
via affrontata in termini non di morale cristiana ma di morale cattolica, mentre
va rivista capovolgendo questi termini anche secondo la famosa espressione di
Paciano († 390 circa):
o, per dir meglio, senza contraddire né il piano laico né quello cristiano, so-
prattutto laddove essi non sono assolutamente in antitesi, pure quando si vo-
glia assumere il cognome cattolico. Di quale cattoli-
cesimo si parla, in questo caso?
Bisogna affermare che la pastorale cattolica si è soffermata eccessivamente,
e continua a farlo, sui peccati sessuali. Ma secondo il can. 1013 del vecchio co-
dice di diritto canonico, sussistono due fini al matrimonio:
i) la procreazione;
ii) il mutuum adiutorium e il remedium concupiscientiae, ovvero il re-
ciproco aiuto e il rimedio per liberarsi degli istinti sessuali (queste
ultime due parti del secondo fine sono state contratte nel codice
del 1983 in uno solo: bonum coniugium, il quale le contiene ambe-
due).
i) piena avvertenza;
41
ii) pieno consenso;
iii) materia grave, comprese le limitazioni dell’Humanae vitae, il do-
cumento tanto controverso quando uscì, in pieno 1968, di Paolo VI
sull’amore coniugale e sulla regolazione artificiale della natalità.
Ma lo stesso papa Montini, secondo una testimonianza raccolta da
padre Pierre Riches, “NON intendeva che questo documento fosse
in alcun modo interpretato come dottrina definitiva della Chie-
sa.”56
Pierre Riches, non unica voce cattolica a gridare nel deserto, pensa che
l’omosessualità “sia una delle forme in cui si manifesta la sessualità umana,
che non sia affatto una malattia e non vedo perché queste persone non deb-
bano avere una vita sessuale. E’ evidente che non potranno vivere la parte
procreativa del rapporto sessuale, ma questo non esclude che potranno vivere
quella del ‘mutuum adiutorium’ e quella del ‘remedium concupiscientiae’”.57
E, ancora più convincentemente:
“E’ certo che gli omosessuali non possono accedere al Sacramento del ma-
trimonio perché il matrimonio è primariamente orientato alla prole, e loro non
possono procreare. Potrei eventualmente pensare a un qualche rito per una
coppia omosessuale per chiedere la benedizione di Dio sulla loro vita in comu-
ne. Ma mi pare che il ma-trimonio cristiano come è concepito dalla Chiesa sia
non solo tradizionalmente, ma anche teologicamente, orientato ai figli e alla
famiglia in senso biologico (anche se una coppia eterosessuale, sessualmente
impotente, che adotta figli, è in tutti i sensi considerata ‘famiglia’ anche dalla
Chiesa). Si potrebbe argomentare che anche una coppia di omosessuali cre-
denti ha bisogno del Sacramento, come qualsiasi altra coppia, per affrontare le
difficoltà di una vita in comune, ma questo mi pare un problema che è molto
prematuro volere affrontare…
“Il problema dei diritti civili degli omosessuali – insiste padre Riches – inve-
ce, di cui tanto si parla, è tutt’altra cosa e sono completamente favorevole a
che essi abbiano questi diritti, tra cui il matrimonio civile. Se mai venisse data
loro la possibilità di adottare figli, e perciò formare in qualche senso una fami-
glia, sarei del parere di riconoscere al nucleo famigliare tutti i diritti civili. Ma
non credo che questo sia già oggi una premessa per un matrimonio sacramen-
tale per le ragioni che ho detto prima. Comunque anche questa è materia di ri-
flessione seria e ponde
rata.”58
Il corsivo è nostro. E’ bello che così si rifletta e ponderi da parte di un espo-
nente del clero, e appena nel 2001, in pieno pontificato di Giovanni Paolo II,
del quale neppure si possono disconoscere tratti d’arroganza per i molti “no”
ribaditi, soprattutto in materia di morale sessuale e di diritti civili. Da quanto
tempo non sentivamo un esponente del clero parlare così del Deus-Caritas!
42
Capitolo quarto
Oratio Catechetica Magna
La distinzione tra ordine temporale e ordine della Grazia, tra morale oggettiva
e soggettiva, tra aspetto canonico-giuridico e ufficio sacramentale-ontologico,
che pur coesistendo costituiscono gli elementi caratterizzanti del circolo, non
ha più motivo di essere ed è tempo ormai che il circolo vizioso si infranga. Nel-
la nostra situazione epocale, in cui il disvelamento heideggeriano della verità,
attraverso l’opera d’arte, è affidato alla sensibilità soggettiva non tanto delle
masse benjaminiane quanto dei singoli pochi o pochissimi che ne riconoscono
la bellezza indipendentemente dal common sense, oggettivo e soggettivo sono
termini fatalmente capovolgibili. Mentre si valutano separatamente, ancora, i
due estremi della situazione, si rischia di non distinguere più tra estetica ed
etica (non senza attribuire, però, valore veritativo ad entrambe), l’ekklesía
avendo carattere politico e allo stesso tempo interiore, ed è pur evidente che
la prima enciclica di Benedetto XVI si rivolge al mondo contemporaneo, minac-
ciato da una crisi culturale senza precedenti e per la cui sopravvivenza è indi-
spensabile, altresì, che si ridimensioni la reificazione operata dall’uso scorretto
della tecnica. L’oggettivo è il soggettivo nell’età post-industriale, che non pre-
scinde dalla bellezza anche nel senso della riproducibilità tecnica dell’opera
d’arte, laddove la soppressione della soggettività era il fine della filosofia hege-
liana, che garantiva dialetticamente la conservazione dell’oggettività stessa.
Istituzionalmente metafisico è l’amore nella sua derivazione. Il quotidiano
contingente frastaglia quella dimensione beatifica in termini di tentazione; sa-
rebbero sbagliati gli amori che, non contemplando l’agape, riduttivamente fa-
vorissero l’esclusività del mero fine erotico quando non fosse neppure presen-
te una mediazione estetica irrimediabilmente remota ancora dal completa-
mento dell’eros nell’agape. Allora non si avrebbe neppure a che fare col dina-
mismo interiore petrarchista, col quale il cantore di Laura annunciava il mo-
derno, o con le Rime amorose di Gaspara Stampa, coraggiose e già moderne
per Collaltino celebrato e indegno.
Per la sopravvivenza del pianeta, dicevamo: e perché poi a farne le spese,
come salvatori del mondo inutilmente immolati quali vittime sacrificali, di sicu-
ro non gradite, dovrebbero essere gli omosessuali o, meglio – restrizioni e dis-
43
simulazioni protraendosi oltre il cambiamento che si attendeva dal successore
di Giovanni Paolo II, - il loro atto erotico in un’irriguardosa, quanto impraticabi-
le, repressione della sessualità e della vita creativa? Che il cattolicesimo in se-
de culturale e letteraria debba essere sfrondato da un pregiudizio laicista, pe-
raltro legittimato purtroppo da una bieca tradizione scolastico-provinciale, è
una necessità manifestata da una riflessione critica ulteriore, a partire dal “lai-
co in tutti i sensi” Alessandro Manzoni. Questi intanto era figlio di un’adultera
e impigliato, da giovanissimo, in una vita di scelleratezze già in qualche modo
scapigliate nel segno di un libertinismo derivante dall’illuminismo materno, per
tacere dello scandalo suscitato dal primo matrimonio dell’autore degli Inni sa-
cri con una calvinista e dal secondo con Teresa Stampa, entrambe donne scel-
te, come a prolungare l’Edipo, in accordo con Giulia Beccaria.59 Ciò non vuol di-
re che i poeti si siano esentati dall’interrogarsi sul proprio dissidio interiore o,
potrebbe nietzscheanamente dirsi, sulla bipolarità eternamente-ritornante del
circolo. Entrambi i canzonieri, di Petrarca e di Gaspara Stampa, si chiudono col
perdono richiesto alla Vergine o a Dio per il lungo errore e le vicissitudini alter-
ne delle situazioni espresse. Oggetto d’amore supremo e d’adorazione è esclu-
sivamente l’Altissimo, e l’umile fervore del Serafino, nella visio facialis, è il mo-
dello del rapporto tra l’anima del credente e il suo Fattore.
La soggettività della morale, nel momento in cui è forse perpetrata, sarebbe
antievangelica e, giacché tale, antidemocratica. Ma la contraddizione tra i due
termini del problema, proprio perché la lettera del Pontefice non contraddice
che apparentemente l’elemento opposto, continua a sussistere, alla teologia
pagana essendo indiscutibilmente estraneo il concetto oblativo dell’agape nel
senso caritativo del soccorso al prossimo, pur non mancando nel mito esempi
edificanti di philía o di attenzione per il più debole. Ma ciò equivale ad affer-
mare che coerentemente è ribadito il punto di vista tradizionale della morale
cattolica, e il circolo vizioso non è infranto.
Quel che è da mettere immediatamente in risalto, però, è che la Deus cari-
tas est, prima del pontificato e programmatica, è il comune denominatore, nel-
la sua ospitalità, dei diversi segmenti della chiesa e delle posizioni teologiche
che avevano già caratterizzato problematicamente gli ultimi, sofferti anni di
Paolo VI, nonché il lungo regno di Wojtyla per quanto improntato ai correttivi
del suo magistero, in linea con la sua forte personalità. Questa linea debole,
invece, sicuramente da parte sua è stata la sorpresa che molti si attendevano
da Benedetto XVI, che non è il cardinale Ratzinger nella misura in cui Ratzin-
ger, si potrebbe dire, sta all’Annunciazione come Benedetto XVI sta alla Visita-
zione, verso la caritas che è la cosa più difficile per un cristiano. Questa linea
debole è stata fatta notare da Alberto Melloni:
E addirittura:
“Anzi, per essere precisi, l’enciclica non si dilunga sul valore della fecondità
coniugale, perché è su una sorta di dinamismo fra corporeità e donazione
all’altro che l’unione di due persone può raggiungere la sua pienezza e la sua
eloquenza: pur riferendosi chiaramente alla capacità dell’amore unico e defini-
tivo fra l’uomo e la donna di essere icona dell’unione di Cristo con la chiesa,
l’enciclica si presta anche a una forzatura (ovviamente estranea al pensiero
dello scrivente, ma pur sempre reale) in ordine al vincolo d’amore fra persone
dello stesso sesso, alle quali si parla d’un dinamismo di gratuità che non è per
loro più impervio che per persone di sesso diverso.”61
Siamo intrattenuti sull’amore nel Convito attuale, nel quale è citato an-
62
che quello platonico, esattamente il discorso di Aristofane sul mito
dell’Androgino (XIV-XV, 189c-192d, dove si legge altresì:
che significa:
Si vuol distinguere qui, invece, tra l’eros di derivazione greca – amore mon-
dano, non cristiano, caratterizzato dalla hybris dionisiaca, che tende
all’elevazione dell’anima – e l’agape
Benedetto XVI
45
(sottolineatura mia), nell’uni-dualismo della chiesa analogo a quel-
lo dello stesso uomo.
Quando il dialogo è interrotto, ammesso che mai vi sia stato, ognuno è libero
di continuare per la propria strada.
Ridotto a livello di ruffiano ipocrita per coppie purchessia, purché costituite,
salvo prova contraria, da un uomo e da una donna biologicamente intesi come
tali, l’ordine della Grazia sembra voler ufficialmente stravolgere il senso primo
e ultimo dell’Annuncio affidatogli. Se così fosse, in tali mani, senza alcuna mi-
sura cautelativa, spessore concettuale o ambiguità che non fossero quelle del
potere in quanto mero potere sulle coscienze umiliate in un Occidente privo di
sacralità, il Vangelo diverrebbe il simulacro di Klossowski.
Non si può più leggere l’enciclica del 2006 senza contestualizzarla
nell’offensiva quotidiana ottusamente avversa alle unioni di fatto e al dibattito
politico, in modi gravemente intrusivi e lesivi della dignità naturale delle perso-
ne. Collocandola in una destra anche estrema, le si risponde sullo stesso piano
politico, nello schieramento delle forze in campo. In definitiva, se non avesse
scelto pregiudizialmente la dimensione antifilosofica (perché illiberale) di un
Nomos senza civiltà contrapposto alla verità-’ή, il Non possumus cleri-
cale avrebbe semmai dovuto determinarsi contro le vere realtà ostili al Vange-
lo, ma allora non avrebbe avuto modo di proclamarsi nei termini tristemente
noti.
Grembo di nobiltà per eccellenza, seguendo la volontà del Logos è la Vergi-
ne, ma non tutti i fedeli sono naturalmente Maria:
L’eros crea opere d’arte o procrea nel prendersi-cura-insieme delle cose della
vita, non gli si può disconoscere la nobiltà e reciprocità dell’amore.
La critica nietzscheana dottamente ripresa da Jenseits von Gut und Böse, IV,
168 (“Il cristianesimo dètte da bere ad Eros del veleno – costui in realtà non ne
morì, ma degenerò in vizio”71) è superata laddove si afferma:
“mio primo amore e non me ne fu mai concesso uno più tenero, più beato
e insieme più doloroso.”74
“Col non commettere una data azione ci si sottrae ai giudici terreni, non a
quello supremo, perché nel cuore l’abbiamo commessa”75 (Thomas Mann).
Solo nell’eternità, nell’Unico-Tutto, in Dio, ogni amore sarà compiuto nel ri-
congiungimento al-di-là della morte. Nel frattempo le energie creative, origi-
narie e pulsionali possono, debbono e vogliono occuparsi della vita, vale a dire
dell’opera su un piano meno elevato ma ugualmente imprescindibile. E’ inne-
gabile che Mann si sia perlopiù attenuto a una tale misura, stando a quel che ci
ha voluto trasmettere nei diari e a quanto risulta dall’opera di Hermann
Kurzke.
52
Capitolo quinto
Coincidentia oppositorum
53
“Perfino Nietzsche, nell’Anticristo, commentando l’orrore dei Vangeli poco
s’attarda a criticare la figura dell’idiota Gesù, di quell’‘innocente’: gli sfugge. Mi
sa che in manicomio dovette ricredersi sull’inconciliabilità di Gesù col dionisia-
co, giacché, a quel che mi risulta, Gesù fu oltremodo gay. Chi ha orecchie per
intendere intenda.”76
“Idiota” s’intende, qui, in senso dostoevskijano, e a parte l’allusione alla
gaia scienza77 quella di Mieli era una provocazione alla stregua di quegli Ele-
menti di critica omosessuale78 che, soprattutto per la non-accademicità, non
seriosità del parlato, straziano il cuore e lo datano a un’epoca, gli anni ’70, lon-
tana anni-luce da questa, nella quale virgolettiamo la libertà sessuale benché
(ma proprio perché) figli di quegli anni necessari come la prima giovinezza.
L’orrore di cui parlava Mieli era in accordo con la critica nietzscheana al Vul-
garkatholizismus, orrenda parola che sta a denotare la devozione borghese e
perbenista. Mentre avvertiamo forse ancora in troppo pochi la mancanza di
Dario Bellezza nonostante le recenti celebrazioni nel decennale della morte, la
mortificazione del Vulgarkatholizismus ha alienato la vita sessuale facendo di
Socrate un libertino, quando non addirittura un pedofilo, di Dioniso il demonio
e del curé de campagne di Bernanos un alcolizzato o un porco. Certo, anche
quello di Mieli era un delirio, trasfigurato in un’opera di letteratura: ma se non
vogliamo negare verità al panteismo degli artisti del Rinascimento, e rifare il
processo a Giordano Bruno; se non ci si vuol porre al polo opposto del laici-
smo, e arroccarsi nell’integralismo della Santa Sede, levando dignità alla laicità,
allora la benedizione di Cristo è su due persone dello stesso sesso che si ama-
no e che perciò, ammesso che più esista l’amore in un mondo come questo, se
credenti, per questo rendano grazie.
Ecco la ragione politica della “scortesia protocollare” per cui a Valencia, il 9
luglio 2006, Josè Luis Zapatero non è andato alla messa di Benedetto XVI, il
quale ancora una volta ha voluto ribadire l’insostituibilità del matrimonio pro-
creativo finendo per circoscrivere politicamente il senso stesso della sua visita-
zione. Quanto allo sconcerto di Joaquin Navarro-Valls su Zapatero, derivante
dalla considerazione che, ad es., perfino Fidel Castro non si sottrasse
all’appuntamento col Pontefice, ricordiamo difatti che il regime cubano fu con-
trassegnato da una forte repressione anti-omosessuale, di cui fu vittima, tra gli
altri, il poeta e romanziere Reinaldo Arenas.
Poiché dunque, anche in mezzo ai deprimenti rumori e agli aspetti sgrade-
voli e funesti di questo post-moderno, abbiamo ben presente l’irraggiungibile
mistero cui richiama La consegna delle chiavi di Guido Reni – dipinto nel quale
è evidente, insieme, un che di benigno e perentorio nei riguardi
dell’ubbidiente San Pietro, un gesto pieno di serena fiducia da parte della
maestà del Cristo – né volendo, d’altro canto, negare il tratto maledettistico
che da sempre accompagna e opprime i cosiddetti “ebrei della sessualità”, ma
rivendicando la sua forza vitale ed eversiva, il necessario superamento dei ca-
54
noni morali di una tradizione inesistente, non possiamo consentire con le sol-
lecitudini di Sua Santità proprio nella questione omosessuale e nel modo di
trattarla, l’unico in cui sembrerebbe praticarsi il cristianesimo cattolico-
ufficiale, con poche e significative eccezioni. Su una linea completamente di-
versa, non claustrofobica e che intende scongiurare la radicalizzazione dei con-
flitti, in sintonia col Vaticano II, riecheggiano fin qui, a loro modo, le parole del
cardinal Martini da Gerusalemme, nonché di Dionigi Tettamanzi sulla necessità
dell’ascolto da parte della chiesa nell’accogliere altre posizioni religiose, o an-
che chi non è credente, seguendo lo stile evangelico: l’uno uscente, l’altro at-
tuale arcivescovo di quella Milano cui era stato eletto un Giovanni Battista
Montini non ben visto, nel 1954, dal Vaticano che pure “conosceva palmo a
palmo”79. Una chiesa laica non è una contradictio in adiecto ma una delle più
alte realtà rivendicate sottovoce dai pochi esponenti della gerarchia cattolica.
Neppure nel pensiero di Wojtyla, difficilmente etichettabile in questa o in
quella alleanza politica che non fosse occasionalmente strategica, la corporeità
era percepita come male in sé nella misura in cui, viceversa, Bernanos era su-
balterno alla ratio della produzione del lavoro imposta dal capitalismo, dalla
quale deriva – e non da altro! – la morale ecclesiastico-borghese (anche se l’io
narrante è, metaforicamente, un vizioso a suo modo e, quindi, non è detto che
il peccato di lussuria sia così estraneo al Journal d’un curé de campagne).
Quando Musa detta non c’è modo, a dispetto di ogni circostanza contraria e
che scoraggerebbe, di per sé, gli eroismi intrapresi, di sottrarsi all’increscioso
fardello, al vero e proprio monologo nella tensione liberatrice, nella costruzio-
ne paziente e felicitante dell’arte, all’impresa senza esito o dialogo se non for-
se davanti allo Spirito, allora sì unico testimone possibile dell’impresa non poi
così temeraria! La verità, già data dal Deus revelatus, si storicizza col dialogo
razionale, dato che la fisicità umana è precedente al cittadino e al fedele, e va
distinta natura da natura ossia dogmi essenziali (“fundamenta”) da dogmi non
essenziali (“adiaphora”), se non si vuol costruire la cattività babilonese lamen-
tata da Lutero o rendere i rapporti, di chi è consapevole di tali inammissibili
controsensi, con la chiesa assai lenti.
56
Non importando l’autore in quanto, anagraficamente, persona dell’autore
se non narcisisticamente giudicato, nel caso, in una eventuale corrispondenza
speculare per forza de-formata anche nel senso dionisiaco, va da sé che questo
libro si ispira, per quel che può e come sa farlo, proprio a quella parte della ve-
rità incarnata nella contraddizione eventuale di queste pagine e, dunque, ca-
somai, esso è eretico solo dal punto di vista filosofico, vale a dire nel senso che
cerca di prendersi cura di una verità forse non pienamente riconoscibile sul
piano laico.
Tra religiosità antica e il cristianesimo, d’altronde, la continuità era data
proprio dal dio Dioniso, fornito di possenti ipotesi alternative.
Nella tragedia greca già era attivo il circolo vizioso, ma non nel senso moderno,
né tantomeno attuale dell’espressione. Sottoforma di un’esemplare metafora,
la vicenda del re Penteo che imprigiona Dioniso - per la prima volta nelle Bac-
canti di Euripide non più deus ex machina piovuto dal cielo a risolvere l'intrigo
ma dio vero e indiscusso protagonista del dramma - e che, a seguito del terre-
moto conseguente all’atto blasfemo, cede alle lusinghe divine trovando la
morte per mano di donna, è un monito a non soffocare l'impeto vitalistico a
prezzo di odiosità e rivolgimenti, ma neppure ad eccedere in un’orgia bacchica
dove non si dia più spazio ragionevole ad alcuna misura, finendo per identifica-
re quella primigenia vitalità con la morte violenta. Senza entrare nel merito
della discussione filologica sui rapporti tra orfismo e culti dionisiaci, peraltro
innegabili80, riportiamo le osservazioni di Vincenzo Di Benedetto, il quale te-
stualmente afferma:
58
5.4. Il discorso su Elia
Ciò che accadde a Giobbe e ciò che accadde nel Natale del 1833, quando il fe-
dele Manzoni pregò invano per la vita della moglie, è la comprova della Prov-
videnza che non provvide. La Nona di Beethoven può innalzarsi su quanto di
marginale, eppur vitale, rimane e sulla beffa perpetrata ad Elia. Auschwitz è la
“confutazione” del Magnificat, poiché Israele non fu soccorso, come non si
viene in soccorso delle innumerevoli Auschwitz, sia pur non paragonabili a
quella, della vita quotidiana, dell’insopportabile prova inflitta al giusto, del do-
lore delle corsie malate, degli efferati destini che lasciano morire l’innocente.
Nei nostri cuori vanno comunque iscritte le parole di Primo Levi su Auschwitz
che è, secondo lui, l’ingiusto opposto che, con la sua esitenza incontrovertibil-
mente dimostra che, non soccorrendo Israele, Dio non è. E questa biblica la-
mentazione è detta al vuoto. Ma fermarsi a questo assunto è una tentazione,
che bisogna superare ancora una volta, e più che mai questa volta affidandosi
al Dio che, anche nella profondità del profano, è mostrato dall’Interceditrice
come il Dio che sta al di sopra del silenzio di Dio. Israele è soccorso dal patto di
fedeltà che tuttora lo lega a Lui, che dispone e provvederà.
“Ritrovi (in Elia) l’uomo; l’uomo con le sue ore di angoscia e di smarrimento,
ma sempre fermo nella fedeltà di quel Dio che per un istante gli si rivela, e poi
lo lascia solo a combattere con lui. E allora Elia ti sembra non più un arcaico
profeta, ma la guida e il modello di tutte le anime impegnate nella ricerca e nel
servizio di Dio.”82
Scacciali dal Tempio, Signore. Terribile nella tua ira e vendetta, che tutti
dobbiamo temere, confondi le lingue, schiaccia il malvagio, annienta il sacrile-
go che presume di parlare in tuo nome, di Cui nulla sa, mortifica le coscienze
incatenate in un equivoco folle e oltraggioso. Rigetta la preghiera del sepolcro
imbiancato, blasfema ai tuoi orecchi. E soccorri il debole, impaniato nella di-
stretta impostagli dall’iniquità, e, insieme, illuminagli la mente col calore ra-
dioso della via che Tu sei. Sebbene nessuno sia degno di paragonarsi ad Elia,
condanna al fuoco inestinguibile i mercanti del tempio.
“Dio è ‘inaccessibile’: ‘i cieli e i cieli dei cieli non bastano a contenerlo’ (2 Cr.
2,5) ed Elia lo raggiunge e fa famiglia con lui. Dio è ‘imperscrutabile’: ‘quanto
59
sono imperscrutabili i tuoi giudizi’ (Rm. 11, 3). Ma Elia sa qual è la volontà del
Signore e svolge nella storia i suoi disegni di salvezza.
“La verità di Elia dà la percezione che Dio dimori in mezzo agli uomini nella
forma più realistica. Sul monte Carmelo, preso da ardente zelo per il suo Signo-
re sfida le centinaia di sacerdoti di Baal che ‘mangiano alla mensa di Gezabele’,
la regina (1 Re 18, 19). Il Signore con un prodigio conferma il valore della vitti-
ma da lui offerta e delude i tanti sacerdoti di Baal. Elia decreta il loro sterminio
(1 Re 18, 20-40).
“Dopo aver predetto al re Achab la lunga siccità, causata dalla sua presun-
zione di essere insindacabile, si ritira in territorio straniero. Alla vedova di Za-
repta cui risuscita il figlio, (è la prima risurrezione riferita dalla Scrittura) egli
dichiara la sollecitudine di Dio verso i deboli (1 Re 17, 7-24).”
Raffaele Nogaro, Dio non è l’Altro, Caserta, Edizioni Saletta dell’Uva, 2005, pp.
120-121.83
60
Capitolo sesto
Transvalutazione e festa della vita
“Noi sonnambuli, bramosi di Dio! Noi taciti come i morti, infaticabili viatori,
sulle alture che non vediamo come alture, ma come le nostre pianure, le no-
stre sicure contrade!”
Friedrich Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, tr. it. di Ferruccio Masi-
ni, Milano, Adelphi, 200515, pp. 104-105.
“Questa felicità dionisiaca non può figurare nel programma di nessuna poli-
tica e Nietzsche se ne rende conto quando scrive che ‘la liberazione dionisiaca
dai vincoli dell’individualità si fa sentire a tutta prima a pregiudizio degli istinti
politici, fino all’indifferenza verso di essi, anzi all’ostilità’ (NT 137). ‘Sfrenatezza
sessuale’ contro i ‘canoni della famiglia’ (NT 28), abolizione delle ‘divisioni di
casta stabilite tra gli uomini dalla necessità e dall’arbitrio’ (III 2, 51), riunifica-
zione del ‘nobile’ e dell’‘uomo di basse origini’ (ibidem), liberazione dello
‘schiavo’, completo oblio di ‘sé’, del ‘passato civile’ e della ‘posizione sociale’
(NT 25, 60): sono questi i caratteri di quella ‘comunità superiore’ (NT 26) che
prende corpo nella festa di Dioniso.”
Tale contrada di sogno è il terreno fecondo della nostra aspirazione, del nostro
sogno come superamento dell’umano, del nostro tentativo verso
l’Uebermensch come un altro, inedito, attributo di Dio. Certo in questo modo
l’arte risulta equiparata al sonnambulismo, ma la produzione estetica accade
più o meno in quei termini. Soltanto così viene alla luce la potenza del Vangelo
non come condanna della vita terrena in una prospettiva rinunciataria di
schiavi, né importa se Nietzsche fosse, a sua volta, criticamente cristiano, o
platealmente anticristiano. “Entro questo ambito fa inoltre, grazie ai suoi mez-
zi possenti, un’altra grandiosa operazione: stacca Gesù dalla sua Chiesa, attri-
buendo al primo tutto quello che, anche se non lo può far proprio, si può tro-
vare di buono, cioè di particolare, di superiore, di sublime valore nel cristiane-
simo (ai nostri occhi; ai suoi, di tipicamente cristiano), e attribuendo alla Chie-
sa tutto quello che è di valore dubbio o addirittura negativo e malvagio” (S.
Giametta).85
Dioniso e Apollo sono riconciliati nella tragedia greca, Dioniso e Socrate so-
no dialetticamente opposti, Dioniso e Cristo sono in antitesi: la pienezza della
vita contro il dolore dell’Innocente, un dolore che il paganesimo era abbastan-
za forte da accogliere nell’esistenza mentre il cristianesimo era concepito co-
me una confutazione della vita.
Dioniso e Arianna sono in rapporto di complementarità ditirambica e Dioni-
so e Zarathustra sono imparentati tra loro. “Da noi si dice e si ripete da sempre
– insiste ancora Giametta - che alla base della nostra civiltà ci sono la Grecia e
Roma da un lato e il cristianesimo dall’altro. Ma così non diceva Nietzsche. Per
lui c’erano solo la Grecia e Roma, conculcate dal cristianesimo. Perciò si dà da
fare per risuscitare, rimettere in auge i valori antichi.”86
Dioniso e il Crocifisso, coesistendo nel medesimo circolo, sono energetica-
mente conciliati o da conciliare, ma solo in quanto perfettamente conciliabili,
tutt’e due, non come doppia verità o contraddizione affannosa, col che non si
può pretendere che non sussistano più contraddizioni o due aspetti di una ve-
63
rità a sua volta “viziosamente” caratterizzata, allo stato attuale delle circostan-
ze storiche. La musica di Bizet è in questa direzione, analogamente all’Inno alla
gioia musicato da Beethoven e allo spirito dionisiaco della danza. Essi fanno
del bene alla nostra epoca.
Né è imputabile al Cristo la volontà del nulla, la volontà di morire perché,
come uomo, Dio patì. Figlio di un pastore luterano, Nietzsche differenzia il ni-
chilismo di Cristo da quello del successivo cristianesimo: costituendo Egli, se-
condo Deleuze, “lo stadio supremo del nichilismo”87, “rende possibile la tran-
svalutazione; da questo punto di vista la sintesi di Dioniso e del Cristo diventa
essa stessa possibile: ‘Dioniso-Crocifisso’.”88 L’opera di Nietzsche – nell’opera
di lui va inclusa anche la vita - è toccata dalla Grazia, bisogna sentirlo e non
leggerlo secondo coordinate razionali, altrimenti l’offerta di amicizia che, noi,
postumi, gli rivolgiamo con rispetto oggi è svilita e annientata; nemmeno si sa-
rebbero compresi la Chamberlain che scrive dei suoi ultimi tempi a Torino, né
il libro appassionante di Massimo Fini sulla vita del filosofo. Pur non potendo
prescindere dall’eventualità che Nietzsche ci abbia ingannato, non senza una
benedizione dionisiaca – non necessariamente diabolica, - è indubbio che la
sua opera si situa in una dimensione mistica. Ma il suo punto di vista sul cri-
stianesimo è unilaterale: non considera il Risorto (Dioniso e il Risorto: una
nuova coincidentia oppositorum!).
Dov’è la gioia, allora? “Dio dov’è? Morte dov’è?”89 si chiedeva a Rocca Impe-
riale, il 18 ottobre 1989, Dario Bellezza.
L’omosessualità per il defunto poeta romano, quale emerge dall’opera in
prosa e in versi e in varie testimonianze rilasciate in molte occasioni, non era
una dimensione esistenzialmente felice, per quanto foriera di vitalità, né priva
di elementi mistici nella sublimazione dei corpi in angelo. Essendoci un senso
di gioia profonda causato da una pienezza percepita nell’anima, questa è così
esclusiva e irreversibile da sfociare, in alcuni momenti privilegiati, nella so-
vrabbondanza del piacere erotico: l’origine di quell’emozione è metafisica,
quindi misteriosa e non a disposizione dell’uomo, essendo un frutto della Gra-
zia – ma è una metafisica dove non c’entrano nulla gli equivoci della gerarchia
clericale. Con la bellezza divina, gli insulti della sua morale ufficiale in tema di
sessualità non c’entrano nulla.
64
L’effigie che poc’anzi ha richiamato la nostra attenzione era certamente
umana, ma così libera e assoluta che bisognava essere parti- colarmente fanta-
siosi per sospettare che quel corpo appartenesse a un messaggero del cielo? E
abbiamo avuto indizio che si trattasse di carne? Era, la carne, quel che ci at-
traeva? Se così drammatica ed eccessiva era la bellezza dell’angelo, incompa-
rabilmente maggiore è il Bello Assoluto del quale quella non era che una sbia-
dita e poetica immagine: la bellezza di Dio è incommensurabilmente più bella
di quanto di fatto non immagini l’umana fantasia più sfrenata. Per questo la
carne era attratta dalla carne, e l’anima dalla carne: ma come si poteva pensa-
re di essere sacrileghi nell’ammirare quella fisicità mortale, a sua volta un avvi-
so, un ragguaglio, un cenno dell’eterno Altrove?
La carne essendo un di più alla ricerca delle ricerche, il sesso un altrove per
scambiarsi altro, più reale messaggio:
65
6.4. Precisazioni
67
Conclusioni
(In vostro fiato son le mie parole)
1. Circolo virtuoso.
Ciò tuttavia non significa che il circolo vizioso sia falso, né che esso non com-
prenda in sé il circolo del vizio:
“La Verità ‘comprende’ in sé il dramma della sua caduta, della sua incarna-
zione, della sua croce. Se così non fosse, non sarebbe Verità, ma parte, non ac-
coglierebbe in sé la vita (non la salverebbe), ma ne rappresenterebbe, semmai,
una statica Fine, l’oggetto di un’infinita, sterile attesa. La tesi della Verità com-
prende la propria antitesi: ‘in altre parole, la Verità è antinomica e non può
non essere tale’: coincidentia oppositorum. L’eresia, nella sua essenza, consi-
ste nel voler sciogliere tale coincidentia, nel voler elevare a Verità qualche sua
scheggia soltanto – o nel voler disvelare l’antinomia, riducendola ad un sen-
so.”94
Per circolo vizioso non bisogna intendere però un inconveniente con cui non
si possa storicamente familiarizzare, ma finora nessuno ha deciso in questo
senso. Benché risaltino le antinomie della sopradescritta ortodossia, infatti, e
appunto perché esse si impongono in modo manifesto, troppo delicata e grave
è la materia affinché chicchessia vi possa metter mano sul piano pratico. La
decisione spetta al Magistero, il quale, pur non potendolo non individuare, la-
scia il circolo così come esso è: vitiosus, con tutte le sue contraddizioni affi-
dandolo alla circolarità spirituale che lo governa, mentre di fatto definisce pre-
se di posizione pre-conciliari sfiorando a sua volta l’eresia, riducendo il cristia-
nesimo, cioè, al senso della promozione della coppia eterosessuale, e a niente
o poco altro.
Ciò che non era necessario fare negli anni Settanta e Ottanta, si è reso sem-
pre più opportuno e urgente tra i Novanta e il nuovo millennio, indipendente-
mente dalla giustezza, peraltro lampante, o non della questione omosessuale
posta in termini di unioni civili. Si tratta allora di stare semmai pure nel circolo,
69
ma nel modo giusto: il che può finire per significare abolirlo del tutto, in quan-
to sistema di riferimento.
Una così virulenta avversione civile a discapito del concetto illuministico di li-
bertà, dalla quale provengono, sia pure da lontano, le liberazioni individuali,
sessuali e socio-economiche, non è dunque giustificabile da nessun punto di
vista, tantomeno in nome del mistero, e contribuisce a determinare una re-
gressione triste, ove mai fosse possibile, come accadeva soltanto nell’ipocrita e
represso Ottocento, soprattutto in un paese culturalmente arretrato come
l’Italia.
L’un senso non essendo dato, sotto il cielo, recidere dall’altro, questa conci-
liazione non è discorsivamente soddisfacente sul piano laico. Essa è valida
esclusivamente per il cercle vicieux di cui ci siamo occupati; al suo interno, non
rimarrà che arrangiarsi di volta in volta a ricomporre alla men peggio gli oppo-
sti, auspicabilmente evitando le acuzie del conflitto, ossia non vivendo simul-
taneamente e in modo insano il non-ancora-conciliato, come capitò all’ultimo
Niezsche, il cui destino è un monito per giunta da lui stesso formulato. La coin-
cidentia oppositorum è vissuta integralmente dai santi, che anticipano la Geru-
70
salemme celeste ma il limite cui tendono gli artisti, pur sapendo di non poterlo
raggiungere se non nella bellezza intuitiva dell’opera, è lo stesso.
Questo vale altresì per l’ortodossia, laddove siano dati per fondamentali
dogmi che, viceversa, sono inessenziali. Questo è quanto la cultura laica per-
cepisce come illiberale ed intrusivo da parte dell’istituzione ecclesiastica, poi-
ché la contraddizione è interna a quest’ultima. Intanto, QUI, la verità è con-
traddittoria e molteplice, LÀ sarà una, DOVE i multipli e i contrari, Dioniso e il
Crocifisso si vedono impensabilmente ricongiunti.
4. Un nuovo ospite
72
Note
I. Dioniso e il Crocifisso
5
Dante, Purg., VI, 118-119: “o sommo Giove / che fosti in terra per noi crucifisso”. Cfr. Petrarca, Rime,
CLXVI, 13; CCXLVI, 7.
6
Sal. 50/51, 3-17: “Pietà di me, o Dio, / secondo la tua misericordia; / nel tuo grande amore / cancella
il mio peccato”, in Giovanni Paolo II, Memoria e identità, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana,
2005, Milano, RCS Libri S.p.A., 2005, tr. it. di Zofia J. Brzozowska, p. 68.
7
“Contro di te, contro te solo ho peccato, / quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto; / perciò sei
giustquando parli, retto nel tuo giudizio”, ibidem.
8
Nel mysterium iniquitatis, ad Auschwitz la preghiera di soccorso non fu esaudita. Secondo la testi-
monianza di Wojtyla: “il Signore Dio ha concesso al nazismo dodici anni di esistenza e dopo dodici an-
ni quel sistema è crollato. Si vede che quello era il limite imposto dalla Divina Provvidenza ad una simi-
le follia. In verità, non era stata soltanto una follia – era stata una ‘bestialità’, come scrisse Konstanty
Michalski. Ma di fatto la Divina Provvidenza concesse solo quei dodici anni allo scatenarsi di quel furo-
re bestiale. Se il comunismo è sopravvissuto più a lungo e se ha ancora dinanzi a sé, pensavo allora tra
me, una prospettiva di ulteriore sviluppo, deve esserci un senso in tutto questo”, op. cit., p. 26.
73
9
“Succede, infatti, che in certe concrete situazioni dell’esistenza umana il male si riveli in qualche mi-
sura utile, in quanto crea occasioni per il bene. Non ha forse Johann Wolfgang Goethe qualificato il
diavolo come ‘ein Teil von jener Kraft, / die stets das Böse will und stets das Gute schafft – una parte di
quella forza, / che vuole sempre il male e opera sempre il bene’? San Paolo, per parte sua, ammonisce
a questo proposito: ‘Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male’ (Rm 12, 21). In defini-
tiva si arriva così, sotto lo stimolo del male, a porre in essere un bene più grande”, op. cit., p. 27.
10
BUR, 1987, 2004.
11
op. cit., p. 33.
12
op. cit., p. 61.
13
op. cit., p. 89.
14
op. cit., pp. 167-168.
15
Sulla questione della modernità, si ricordi quanto affermava Gianni Vattimo alla fine della sua “apo-
logia del nichilismo”: “La crisi dell’umanismo, nel senso radicale che assume presso pensatori come
Nietzsche e Heidegger, ma anche di psicanalisti come Lacan e, forse, in scrittori come Musil, si risolve
probabilmente in una ‘cura di dimagrimento del soggetto’ per renderlo capace di ascoltare l’appello di
un essere che non si dà più nel tono perentorio del Grund, o del pen-siero di pensiero, o dello spirito
assoluto, ma che dissolve la sua presenza-assenza nei reticoli di una società trasformata sempre più in
un sensibilissimo organismo di comunicazione.” (in La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1985,
1999, p. 559).
16
Gianni Vattimo con Piergiorgio Paterlini, Non Essere Dio. Un’autobiografia a quattro mani, Reggio
Emilia, Aliberti, 2006, p. 182.
17
Gianni Baget-Bozzo, E Dio creò Dio, Milano, Rizzoli, 1985, cap. X, p. 175 e segg.
18
Jean Guitton, Silenzio sull’essenziale. Riflessioni di un pensatore cristiano, tr. it. di Beppe Gabutti,
Milano, Paoline, 1991, 2002, p. 80.
19
Paolo VI, Udienza Generale del 5 aprile 1967.
20
Giacomo Leopardi, Pensieri, LXXXIV, in Poesie e prose, a c. di Siro Attilio Nulli, Milano, Hoepli,1972.
21
Paolo VI, Gaudete in Domino 3, 9 maggio 1975.
22
Gianni Vattimo, L’età dell’interpretazione, già in “Eidos”, n. 1, 2003, pp. 17-23, ora in Richard Rorty-
Gianni Vattimo, Il futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, a c. di Santiago Cabala, Milano,
Garzanti, pp. 49-50. E naturalmente, del filosofo torinese cfr. Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il
problema della liberazione, Milano, Bompiani, 1974, 2003.
23
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, I, Della libera morte, tr. it. di Maria Francesca Occhipin-
ti, Milano, Mondadori, 1992, pp. 64-65.
24
“La visione cristiana del cosmo e della vita è… trionfalmente ottimista; e questa visione giustifica la
nostra gioia e la nostra riconoscenza di vivere, per cui celebrando la gloria di Dio noi cantiamo la no-
stra felicità.” (Paolo VI, Udienza Generale del 15 novembre 1972).
74
25
“Nell’esperienza fedele della vita cristiana i due momenti, quello della sofferenza e quello della
gioia, si possono sovrapporre e rendersi simultanei, almeno in parziale misura. S. Paolo lo afferma in
una frase scultorea: ‘Io sovrabbondo di gaudio in tutte le mie tribolazioni’ (2 Cor. 7, 4).” (Paolo VI,
Udienza Generale del 19 aprile 1972)
26
“Noi siamo rivolti con ogni nostra intenzione e con ogni nostro sforzo a togliere dalla nostra vita
quanto ci procura sofferenza, dolore, fastidio, incomodo; siamo orientati verso una continua ricerca di
comodità, di godimento, di divertimento. Vogliamo essere circondati dal benessere, dagli agi, dalla
buona salute, dalla fortuna; tutto facciamo per ridurre sforzo e fatica; siamo, in fondo, gente che vuol
godere la vita: un buon pasto, un buon letto, un buon passeggio, un buon spettacolo, un buon stipen-
dio… ecco l’ideale. L’edonismo è la filosofia comune, il sogno dell’esistenza per tanti nostri contem-
poranei. Tutto vorremmo facile, soffice, igienico, razionale, perfetto intorno a noi. Perché penitenza?
Vi è forse bisogno di rattristare l’animo con un simile pensiero? Donde viene un così sgradito richia-
mo? Non è forse un’offesa alla nostra concezione moderna della vita?... Può un cristiano sfuggire alla
legge della penitenza? Cristo parla forte: ‘Se non farete penitenza, voi tutti perirete’ (Lc. 13, 5)” (Paolo
VI, Udienza Generale del 1 marzo 1972).
V. Coincidentia oppositorum
76
Mario Mieli, Questioni di Karma, in AA.VV., Avventure dell’Eros, Milano Gammalibri, 1984, pp. 49-
50.
77
Lesley Chamberlain, a proposito della musica di Bizet come ideale estetico contrapposto al pessimi-
smo wagneriano, riporta questo passo del Caso Wagner: “…quel che, noi alcionii, rimpiangiamo in
Wagner – la gaya scienza, i piedi leggeri; arguzia, fuoco, grazia; la grande logica; la danza degli astri; la
tracotanza dello spirito; i lucenti tremori del Sud; il placido mare – perfezione?... (10, p. 33)” (in Nie-
tzsche. Gli ultimi anni di un filosofo, tr. it. di Eleonora Zoratti, Roma, Editori Riuniti, 1999, p. 69).
78
Milano, Feltrinelli, nuova edizione 2002.
79
Eamon Duffy, Saints and Sinners, tr. it. La grande storia dei papi. Santi, peccatori, vicari di Cristo di
Simone Venturini, Milano, Mondadori, 2000, 2001, p. 425. “Ancora giovane, – continua Duffy – aveva
vagheggiato l’idea che il papa del futuro si staccasse da San Pietro e vincesse la claustrofobia della Cit-
tà del Vaticano per andare a vivere tra i suoi seminaristi nella Chiesa cattedrale di Roma, il Laterano, e
così restituire di nuovo il papato al popolo. In realtà, egli non osò mai realizzare questo sogno, ma es-
so era indicativo della sua visione dei compiti e delle sfide che attendevano il papa e il concilio.” (ibi-
dem)
79
80
Marisa Tortorelli Ghidini, Da Orfeo agli Orfici, in Tra Orfeo e Pitagora. Origini e incontri di culture
nell’antichità, Atti dei seminari napoletani 1996-1998, Napoli, 2000, pp. 11-41.
81
Vincenzo Di Benedetto, premessa a Euripide, ά, tr. it. Le Baccanti di V. Di Benedetto, Milano,
BUR, 2006³, pp. 27-35. I versi cit. delle Metamorfosi (III 528-31) sono i segg.: “festisque fremunt ulula-
tibus agri: / turba ruit, mixtaeque viris matresque nurusque / vulgusque procereseque ignota ad sacra
feruntur. / quis furor? *…+”. “E nei Promessi Sposi – continua Di Benedetto - : ‘*...+ tutti col vestito delle
feste e un’alacrità straordinaria *…+ Erano uomini, donne, fanciulli *…+ tanta gente diversa’ (e la do-
manda iniziale del monologo – ‘Che diavolo hanno costoro?’ – corrisponde al Quis furor? di Penteo in
sede omologa). E lo ‘scampanare a festa’ che colpisce l’Innominato corrisponde agli aera… aere repul-
sa, cioè all’impatto di quei timpani che Euripide ha tanto valorizzato nelle Baccanti.” (ibidem)
82
Marina Vittoria Rossetti, Lettere dalla Terra santa, in “Coscienza” 20, 1954, p. 3, cit. in Giovanni Bat-
tista Montini- Marina Vittoria Rossetti, Lettere. 1934-1978, a c. di Emanuela Ghini, Milano, Rizzoli,
1990, p. 62.
83
Nemmeno si abusi, in una distorta interpretazione, delle parole del vescovo di Caserta, qui esclusi-
vamente per riprendere il discorso su Elia, e che si ricollegano alla precedente citazione
dall’epistolario tra Paolo VI e Marina Vittoria Rossetti. Si può consultare anche Raffaele Sardo, Noga-
ro. Un Vescovo di frontiera, Napoli, Alfredo Guida Ed., 1997.
80
94
Massimo Cacciari, Icone della Legge, Milano, Adelphi, 1985, 2002, pp. 202-203 (qui si cita, tra i nostri
apici, Pavel Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, Milano, 1974, p. 194).
95
ibidem.
81
Bibliografia consultata
AA.VV., Addio amori, addio cuori. Dario Bellezza, a c. di Antonio Veneziani, Roma, Fermenti, 1996;
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