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Sergio Cortesini
Università di Pisa
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All content following this page was uploaded by Sergio Cortesini on 08 July 2020.
1. Dipingere l’emozione
Nella storia dell’arte moderna italiana pochi hanno incarnato come Emilio Ve-
dova il prototipo dell’artista che ha espresso nella pratica pittorica, nella narrazione
autobiografica, nel discorso critico e nell’immagine pubblica il vissuto emotivo del-
l’“uomo in rivolta”. Vedova condivise con gli artisti della propria generazione l’idea
che il sentire soggettivo e la libertà nell’esprimerlo fossero il fondamento dell’atto
artistico ma più di altri esacerbò la semantica della passione sociale, facendo di sé
un modello di coscienza sdegnata. Su Vedova è stato scritto molto; le fonti della
sua evoluzione stilistica (il barocco, l’espressionismo, il futurismo) sono diventate
dei luoghi comuni; la critica formalista si è compiaciuta di descrivere le turbolen-
ze della sua pennellata come “energia segnica”, “vitalità del segno”, “sensibilissi-
mo sismografo”. È altrettanto canonico interpretare la sua pittura come indice di
tensione emotiva ed esistenziale, dotata di una dimensione morale, e come manife-
stazioni dell’“esserci” nel mondo. Eppure raramente queste letture hanno superato
una certa genericità discorsiva; né gli scritti di Vedova, tanto frammentari e circon-
voluti quanto i suoi segni pittorici, aiutano a chiarire. Questo saggio, privilegiando
soprattutto le fonti primarie, tenta di leggere il lavoro di Vedova in una prospettiva
più storica, come indice delle emozioni conflittuali rispondenti al contesto politico
e alla storia intellettuale dell’idea di rivolta, propri degli anni in cui Vedova ha de-
finito il suo stile maturo, ossia dai turbolenti anni della guerra mondiale a tutti gli
anni cinquanta. Inoltre, si propone di leggere la fenomenologia delle emozioni non
solo nel ductus pittorico ma anche nel corpo dell’artista, abbozzando un’analisi su
come Vedova abbia contribuito a impersonare anche pubblicamente l’intellettuale
in rivolta.
Nato a Venezia nel 1919 in una famiglia del ceto operaio e artigiano, autodidat-
ta ispiratosi inizialmente alla spettacolarità delle chiese barocche e della pittura di
Jacopo Tintoretto, quindi allo stile degli espressionisti europei e dei futuristi, par-
tecipando al Premio Bergamo nel 1942 Vedova entrò nell’ambiente di giovani arti-
sti e intellettuali già in parte legati dall’esperienza della rivista «Corrente» (1938-
1940), che da una posizione di insofferenza allo sciovinismo e al conformismo del
tardo regime fascista stavano passando all’antifascismo attivo (inclusi Renato Gut-
tuso, Renato Birolli, Ennio Morlotti, e il poco più che ventenne Ernesto Trecca-
ni). Consolidò i legami nei primi mesi del 1943 a Milano, dove ad aprile espose
suoi disegni alla Galleria della Spiga e di Corrente, che proprio durante la mostra
chiuse per l’irruzione della polizia. Dipingendo a robuste pennellate dai colori ac-
cesi immagini espressionisticamente deformate, Vedova, come molti dei pittori del
gruppo, sosteneva che il fondamento del vero atto creativo fosse la libertà dello
stile nel rendere l’emozione rispetto alla realtà. Cosa fosse la realtà – che gli artisti
intendevano come un termine mutevole e basato sulla soggettività individuale – e
come tradurla in un mezzo visivo, rimasero temi centrali per quella generazione
ansiosa di sentirsi partecipe dei cambiamenti storici in corso, libera dagli impera-
tivi dell’italianità e della subordinazione dell’individuo allo Stato. A ben vedere, il
discorso dell’aderenza alla realtà spirituale del proprio tempo non era in sé una no-
vità, e paradossalmente caratterizzò anche l’arsenale retorico della critica che aveva
sostenuto gli artisti della tendenza Novecento, tanto biasimati da Vedova e dai suoi
compagni come campioni di un’arte inerte e inautentica. Più che attraverso le con-
cettualizzazioni discorsive, l’invito a un nuovo rapporto col reale va compreso, sul
piano storico e soggettivo, come desiderio di libertà, di rinnovamento culturale e
politico, attraverso uno stile pittorico più gestuale, estemporaneo, cromaticamente
dissonante, seguendo un modello espressionista che sembrava incarnare meglio lo
spirito di ribellione alle norme (estetiche, e per estensione politiche).
A Milano tra marzo e aprile del 1943 Vedova contribuì a elaborare un pugna-
ce manifesto di artisti che, liquidando in modo sprezzante ogni realismo anodino,
sentimentalismo, estetismo o ironia intellettualista, affermavano di volersi «com-
promettere» facendo della pittura un atto culturale tendente «alla agitazione degli
uomini e a suscitare domande e risposte». Il tempo esigeva dagli artisti di fare della
loro vita «una diretta presa di posizione che si oggettivizza nel lavoro», e – pren-
dendo a modello il Pablo Picasso del grande dipinto di impegno civile Guernica –
fare quadri «non come “rivelazione” ma come “proiezione” della nostra volontà»1.
La militanza culturale per alcuni di essi, tra cui Vedova, si trasformò di lì a poco
in lotta partigiana (dopo il 25 luglio 1943 egli partecipò a iniziative di propaganda
comunista a Roma, quindi passò, con lo pseudonimo Barabba, a un gruppo di par-
tigiani nelle montagne bellunesi), per ritornare alla battaglia culturale per un’arte
italiana aggiornata al modernismo europeo dopo la Liberazione. Vedova infatti si
1 Manifesto di pittori e scultori, datato luglio 1943 ma più correttamente da riferire a marzo-aprile, redatto
da Ennio Morlotti e Ernesto Treccani col contributo di Emilio Vedova (che doveva fornire anche le illustrazioni),
Renato Guttuso, Bruno Cassinari, Raffale De Grada, Mario De Micheli, Duilio Morosini, rimasto inedito fino al
1947 (in «Numero Pittura», 3, luglio-agosto 1947, pp. 8-9), quindi in Tristan Sauvage, Pittura italiana del dopo-
guerra (1945-1957), Schwarz, Milano 1957, pp. 221-222. Per il contributo di Vedova, cfr. Emilio Vedova, Pagine
di diario, Galleria Blu, Milano 1960, ora in Alessandro Masi, Emilio Vedova 1935-1950: gli anni giovanili, Edi-
mond, Città di Castello 2007, pp. 125-126; e Ernesto Treccani, Arte per amore, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 33-35.
unì tra l’ottobre 1946 e l’estate 1948 (Biennale di Venezia) all’eterogeneo rassemble-
ment Nuova Secessione Artistica italiana (poi Fronte Nuovo delle Arti), che si sciol-
se a fine del 1948 quando il Partito Comunista Italiano sposò la linea zdanoviana
del realismo socialista e si polarizzarono le scelte di campo tra realismo e astratti-
smo come vie alternative e inconciliabili per gli artisti impegnati.
Molti dei testi teorici del periodo enfatizzarono la centralità della vita emotiva
alla base dell’imagopoiesi. Nel 1946 Mario De Micheli in Realismo e Poesia ela-
borò il concetto di “realismo dialettico”, con cui il critico incoraggiava gli artisti a
uno stile figurativo equidistante tanto dall’elusività dell’idealismo o del sentimen-
talismo, quanto dal naturalismo analitico, e ad abbandonare esangui simboli «privi
di emozione» a favore di «emblemi», esemplificandoli con le forme in tensione, le
figure metaforiche e il cromatismo alterato di Guernica. Figurativo ma non illustra-
tivo, il capolavoro picassiano fu considerato un canone del rapporto “dialettico”
degli artisti con gli eventi storici, in cui «l’emozione» soggettiva (il termine ricor-
re sei volte nel testo di De Micheli) si distilla in «emozione pittorica»2. La nozio-
ne hegeliana di struttura dialettica tra sentire soggettivo e realtà e quella marxista
dell’impegno dell’intellettuale in questa stessa realtà permearono anche il Manife-
sto del realismo (detto anche Oltre Guernica), uno dei proclami artistici importanti
nel 1946 sottoscritto da Vedova, che affermava che dipingere è «partecipazione alla
totale realtà degli uomini», precisando però che «in arte la realtà» è «la cosciente
emozione del reale divenuta organismo»3.
Se dunque l’esperienza delle emozioni era un motivo centrale nella critica d’arte
del dopoguerra, Vedova insisté più di altri sui vasi comunicanti tra impulso emoti-
vo-passionale e forma artistica e sulla propria arte come esempio di libertà contro
ogni struttura aprioristica. Nelle Pagine di diario (1960) descrisse se stesso da giova-
ne come nervoso e ribelle e ricordò la partecipazione al premio Bergamo del 1942
sovraccaricandola di dramma:
L’aria veramente allarmistica di quella giornata, […] con i piatti che volavano […]. Con la
esplosione di bicchieri contro altri bicchieri, con quel fascista in camicia nera che nel colmo
dell’esasperazione tirò fuori il pugnale per darmelo sulla schiena, con quell’aria di congiura
che serpeggiava nella tavolata […]. Ricordo […] quella stanza da letto, dove eravamo alme-
no una ventina, con un’aria tra il massacro e il caos […]. Tutte le volte che mi ricorrono alla
mente quelle ore, sono quasi forzato a vedere […] tutta una simbologia nei gesti. Come per
esempio lo smontamento del letto – e se fosse stato possibile di tutta la stanza, ed oltre – fat-
to da Vittorini… come automatismo rivelatore di un apparato da distruggere4.
Nello stesso diario, Vedova descrisse il proprio lavoro di poco successivo con
un lessico che asseconda l’impressione di incontenibile energia passionale: «il mio
2 Mario De Micheli, Realismo e pittura [1946], citato in Luciano Caramel, Arte in Italia 1945-1960, Vita e
Pensiero, Milano 2013, p. 34.
3 Manifesto del realismo (1946), in L. Caramel, Arte in Italia, cit., p. 36.
4 E. Vedova, Pagine di diario, in A. Masi, Emilio Vedova 1935-1950, cit., p. 125.
studio esplodeva di colori vivi […] e per terra ovunque esplosioni multiple di pezzi
di carta colorata»5. In un’altra occasione descrisse tale eruzione emotiva all’origine
dell’immagine pittorica come un raptus: «nel maggio 1953 mi scoppia il Ciclo della
protesta (Tav. 5-I), in un crescendo di tensione, e di forza inesauribile… Mi finisco-
no tutte le tele»6.
A questa narrazione hanno contribuito i commentatori più vicini all’artista. Già
nel 1945, quando Vedova espose a Venezia alcune tempere illustranti episodi di
vita partigiana in uno stile che segnava il trapasso dalla figurazione all’astrazione
(Tav. 5-II), il pittore e compagno partigiano Armando Pizzinato lo descrisse come
“Violenza”, “violento”, sono tra i termini che tornano più frequentemente nella
critica a proposito della pittura di Vedova. L’impulsivo, l’intemperante che esplode
in atti di ribellione (come quando, indispettito dagli esiti di un premio a Burano
nel 1946, irruppe nella galleria a staccare dalla parete i suoi quadri), Vedova gesti-
colante, “Vedova il furioso” – per riprendere un titolo di Marco Valsecchi – Vedova
il leone in gabbia… simili descrizioni hanno confezionato l’immagine più nota del
pittore8. Tale ritratto dell’artista eruttivo, intellettualmente curioso e polemico, che
nel suo studio si chiude nell’introspezione per poi liberarsi in una lotta con la mate-
ria e la forma, ha accompagnato Vedova fino alla maturità. «La sera lo studio, dopo
ore di lavoro concitato e squassante, era un campo di battaglia dopo il disastro […]
e se la ‘bestia’, come Emilio amava chiamare i lavori più sofferti e riusciti, era stata
domata e posseduta, lo studio intero prendeva vita […] in una atmosfera pacificata e
di profonda poesia», ha ricordato il suo ultimo assistente, Fabrizio Gazzarri9. Il cli-
ché dell’artista romantico in lotta tra sé e la materia ha però distolto l’attenzione da
tentativi di analizzare la natura delle emozioni che sono la scaturigine della pittura.
Nel 1954 Vedova affermò che il linguaggio astratto «è forse oggi la sola storia di
quelle emozioni che non possiamo comunicare altrimenti»10, dichiarando, in altre
parole, che il suo concitato astrattismo incapsulava la condizione storica e le emozio-
5 Ivi, p. 131 (Vedova si riferiva qui ai quadri più geometrici fatti con collage di carte del 1946).
6 Ivi, p. 146.
7 Stefano [Armando Pizzinato], Scene partigiane, in «La Voce del popolo», 15 settembre 1945.
8 Per l’episodio di Burano: E. Vedova, Pagine di diario, cit. in A. Masi, Emilio Vedova 1935-1950, cit.,
pp. 132-133; Marco Valsecchi, Vedova il furioso, in «Tempo», XXII, 13, 29 marzo 1960, p. 58.
9 Fabrizio Gazzarri, I luoghi di Emilio Vedova, in Id., Vedova Piano, Fondazione Emilio e Annabianca Ve-
dova, Venezia 2009, p. 29.
10 Emilio Vedova, “‘Umori’ di un pittore”, in «Quaderni di San Giorgio», 2, Arte figurativa e arte astratta,
1955, p. 235.
ni a essa connesse; mentre in Pagine di diario riferì che nei quadri della serie Imma-
gini del tempo del 1951 – che rappresentò la svolta verso la sua più tipica pennellata
gestuale – (Tav. 5-III) cercava di fare confliggere elementi contraddittori, alludendo
alla miriade di stimoli, sensazioni e informazioni che caoticamente registriamo nel
corso di ogni giornata: «L’azzurro di una bella domenica, messo in iscontro simul-
taneo, con una presenza – sentimento – di una fucilazione o battaglia, o bombar-
damento, così come succede nella vita di tutti i giorni, attraverso ormai le nozioni-
emozioni, radio, giornale, cinematografo»11. In questo passaggio Vedova ha definito
l’emozione come una riposta istintiva sia a stimoli positivi (lo spettacolo della natu-
ra), sia valutati come negativi (le “nozioni”, ossia le notizie di cronaca e politica). Più
che il vissuto di un animo inquieto, le emozioni di Vedova sono dunque eminente-
mente legate alla complessità e contraddittorietà della vita e della storia.
La struttura esplosa, la veemenza delle pennellate, la conflittualità dei colori –
oltre ai titoli di molte opere (Aggressività, Scontro di situazioni, La lotta, ecc…) – so-
no dei significanti ovvi di emozioni di conflitto, rabbia e ribellione; su quali siano
le cause specifiche di tali emozioni Vedova però rimase reticente. Il più delle volte
i titoli delle opere citano laconicamente aree geografiche (Europa ’50; Per la Spa-
gna; per esempio), o situazioni aspecifiche (Campo di concentramento; Crocifissio-
ne contemporanea; Ciclo della protesta; Immagine del tempo) e il pittore ha sempre
frustrato l’attesa che essi potessero denotare eventi circostanziati, limitandosi a ri-
petere il mantra che la pittura astratta non era per lui un’evasione dalle realtà con-
tingenti. Con la spiazzante affermazione fatta a un giornalista nel 1950 «io potrei
dare a quella tela la definizione di “Patto Atlantico”, e Lei potrebbe a suo talento
chiamarla “Congresso di Vienna” o “Alleanza” o in altro modo»12, Vedova ostentò
indifferenza e permutabilità dei titoli, e sembrò fornire argomenti a chi lo ha cri-
ticato come un artificioso retore su contenuti indeterminati; tuttavia, rifiutandosi
di precisare i contenuti delle sue composizioni, sostenne implicitamente che la sua
pittura esprimeva le emozioni dell’essere gettati in una data condizione storica ma
poteva avere una risonanza universale.
Sono dunque tutte le forze della storia e della società che ostacolano e reprimo-
no a suscitare l’emozione fondamentale della rabbia, che, dal punto di vista psico-
logico e fisiologico, è una risposta al nostro avvertire ostacoli imprevisti. Sbarra-
mento (Tav. 5-III) è un titolo esplicito nel suggerire l’insorgere di un impedimento
all’azione, qui evocato da un acuminato triangolo nero che sembra sovrapporsi a
un convulso groviglio di fondo e a sua volta spezzato al centro da un’affastellata
geometria di pennellate grigie. In base a una teoria della funzione comunicativa
delle emozioni, Vedova significa l’insorgere di una reazione rabbiosa di fronte a un
ostacolo nel perseguimento dei propri scopi, ma non compie il passo successivo:
quello della chiarificazione e comunicazione in una forma intellegibile al proprio
11 E. Vedova, Pagine di diario, cit., in A. Masi, Emilio Vedova 1935-1950, cit., p. 144.
12 Mario Morales, Colloquio con il pittore Emilio Vedova sull’astrattismo in arte, in «La Voce di Modica», 29
ottobre 1950.
Nel 1946 Vedova ritenne che l’impegno politico dovesse tramutarsi nell’atto cul-
turale. Insofferente a ogni autoritarismo, non divenne un intellettuale organico del
PCI anche per la sua indisciplina al canone realista raccomandato dal partito (il
fatto che Palmiro Togliatti nel dicembre 1948, recensendo su «Rinascita» la Pri-
ma mostra nazionale d’arte contemporanea a Bologna, liquidò l’astrattismo come
“scarabocchi” e pubblicò come illustrazione Il combattimento di Vedova non poté
che allontanare di più il pittore). Fedele allo spirito del manifesto del 1943, Vedova
“compromise” la “bella arte”: «Non ho mai avuto l’ambizione di fare della pittura
– disse nel 1961. Ho sempre preferito rendermi conto della situazione storica e ten-
tare [...] di interpretare. Noi siamo prima di tutto dei documenti»14.
Il critico e storico dell’arte Rodolfo Pallucchini nel 1951 fu tra i primi a psicolo-
gizzare l’emotività di Vedova come disagio proprio di un artista della generazione
maturata durante la guerra e interprete della «crisi della civiltà europea» iniziata
con il fascismo e il nazismo ma perdurante nelle dittature comuniste. L’ex partigia-
no Vedova, «tutto istinto, impeto ed emozione», non si era ritirato nella torre d’a-
vorio, e se i suoi drammatici disegni ignoravano le convenzioni e rapporti cromatici
edonisticamente piacevoli è perché «Egli soffre il tormento angoscioso del nostro
tempo». «La sua sensibilità artistica registra le emozioni che vengono dall’esterno
e come un sismografo egli le trasforma in contrasti di superficie, segno, colore e
volume»15 (il sismografo divenne da allora un topos, di cui lo stesso Vedova si com-
piacque, definendo nel 1954 il proprio segno pittorico come «disperato sismografo
[…] dell’esistere», e nel 1956 «sismografo del sentire», e che poi ha avuto fortuna
nella critica, insieme alle metafore della pittografia e della grafologia16).
Se consideriamo comunque le vicende storiche tra il 1946 e il 1951, gli anni in
cui Vedova arrivò a definire il proprio stile, risulta evidente quanto la semantica
13 Valentina D’Urso, Introduzione all’edizione italiana, in Keith Oatley, Psicologia delle emozioni [1992],
il Mulino, Bologna 1997, pp. 13-14.
14 Carlo Segala, Vedova spiega la sua pittura, in «Il Gazzettino», 12 novembre 1961.
15 Rodolfo Pallucchini, Lettera a Catherine Viviano, 1951, ora in Emilio Vedova, Charta, Milano 1998,
pp. 180-182.
16 Rispettivamente in E. Vedova, “‘Umori’...” , cit., p. 235, e Emilio Vedova, Un pittore giudica l’architettu-
ra, ora in Emilio Vedova, Charta, Milano 1998, p. 7. Nel 1996 Danilo Eccher usò l’espressione «sensibilissimo
sismografo», in Danilo Eccher, Emilio Vedova: le inattese identità, in Emilio Vedova, a cura di D. Eccher, Hope-
fulmonster, Torino 1996, p. s.n. [p. 8]. Anche Friedrich Bayl, Das autoritative Thema Emilio Vedovas, in Emilio
Vedova, Freiburg, s.e., 1962, p. XX cita Vedova relativamente alla sua definizione di sismografo. Per la metafora
della grafologia, un esempio è Rolf Wedewer: Emilio Vedova, Das zeichnerische Frühwerk 1935-1950, in Emilio
Vedova, Das zeichnerische Frühwerk 1935-1950, s.e., s.l. [Leverkusen] 1981, p. 14.
delle forze in tumulto espressa da Vedova “documentasse” una realtà sociale e po-
litica fortemente attraversata dal conflitto. Vedova visse il passaggio tra la Resisten-
za, la Liberazione e l’istituzione della Repubblica, e vide la transizione dalla fase
di concordia partitica nel 1945 all’esacerbarsi dello scontro tra visioni politiche an-
tagoniste e le loro basi sociali. L’irenismo intravisto nei vertici tra Roosevelt (poi
Truman), Stalin e Churchill del 1945 degenerò presto nel sospetto reciproco, nello
scontro ideologico, fino alla sindrome d’assedio. Per uomini come Vedova, l’instau-
razione della democrazia e la ricostruzione e, dai primi anni cinquanta, l’avvio del-
la ripresa economica del Paese non furono sufficienti a non leggere la storia come
dinamica di conflitti e fondamentali iniquità. Per usare le sue parole, «Dalla guerra
ero uscito in malo modo. Depresso anche moralmente. Troppo presto avevo visto il
riaffacciarsi dell’opportunismo e delle ambiguità dello ieri»17.
Immagini ed emozioni del conflitto non solo erano nella memoria collettiva di
una generazione che visse la guerra, i bombardamenti, gli sfollamenti, ma rimane-
vano nel paesaggio fisico di milioni di cittadini in Europa, insieme alla penuria (in
Italia il tesseramento sul pane fu abolito solo il primo agosto 1949) e la disoccupa-
zione, come documentavano anche i film del neorealismo che ebbero a soggetto
storie di povertà, sfruttamento, arretratezza e ingiustizia sociale, e i reportage sulle
riviste illustrate da una Calabria di casupole di argilla e priva di strade, o da Co-
macchio senza acqua potabile e tra acquitrini malarici, per fare degli esempi.
L’Italia era fortemente divisa dopo la vittoria della Democrazia Cristiana alle ele-
zioni politiche dell’aprile 1948, contestate dal PCI in un clima di discredito recipro-
co, che implicarono anche la cruciale scelta atlantista rispetto alla possibile alterna-
tiva filosovietica. Il 1948 inoltre vide l’inizio di una stagione di lotte sindacali per
migliori condizioni lavorative dei braccianti agricoli, attraverso scioperi, manifesta-
zioni e occupazioni di terre demaniali o latifondi incolti, dalla Val Padana fino alla
Sicilia, spesso represse dalla polizia dietro le direttive del ministro dell’Interno, Ma-
rio Scelba. Mentre Pizzinato, l’ex compagno partigiano e sodale artistico di Vedova,
decise di difendere la causa della giustizia sociale dipingendo gli eventi storici in
uno stile che da post-cubista tornò progressivamente realista (come per esempio nei
quadri Bracciante ucciso del 1949 o Terra non guerra del 1950), Vedova rimase fedele
a una trasfigurazione del reale in significanti astratti di emozione e passione civile,
convinto che «il gesto diviene il modo più onesto ed immediato per linearmente da-
re senso a questa responsabilità [dell’artista]» nei confronti del proprio tempo18.
Mentre nella critica d’arte italiana una delle parole d’ordine fu “l’aggiornamen-
to” alle esperienze del modernismo europeo e quindi la fusione dell’arte contem-
poranea italiana in una dimensione transnazionale, tra il 1946 al 1949 la “cortina di
ferro” calò a separare politicamente l’Europa occidentale dall’Europa centro-orien-
tale sotto l’egemonia di Mosca. Le manovre di riposizionamento politico e diplo-
matico, dalla fine della guerra effettiva all’inizio della guerra fredda, con fratture
17 E. Vedova, Pagine di diario, cit. in A. Masi, Emilio Vedova 1935-1950, cit., p. 130.
18 C. Segala, Vedova spiega la sua pittura, cit.
anche tra i satelliti sovietici (con la Jugoslavia accusata dal Cominform di compiere
una politica nazionalista), rappresentano bene la dialettica che precedette la cristal-
lizzazione nei due blocchi.
Soprattutto la cultura pubblica alla fine degli anni Quaranta era condizionata da
una crescente ansia collettiva di una nuova guerra mondiale tra stati liberi e comu-
nisti, alimentata a livello popolare dai rotocalchi che divulgavano ipotesi di tattica
militare, ipotizzavano localizzazioni di schieramenti nemici e strategie di sfonda-
mento del fronte, discettavano sul potere deterrente o l’uso pratico di nuove testate
atomiche contro le truppe sovietiche per massimizzarne la carneficina, dispensan-
do mappe con le divisioni corazzate disponibili a ciascuno dei due blocchi europei,
tanto da fare sentire a molti che la pace successiva alla Seconda Guerra mondiale
era più un armistizio19. Come ebbe a dire Carlo Bo nel 1949, «In fondo dal ’45 ad
oggi non abbiamo ancora goduto veramente la pace; il clima, la polvere della guer-
ra rimangono, più o meno forti a seconda degli avvenimenti e dei giorni, sopra di
noi»20. Vedova fu sensibile a questi “scontri di situazioni”, per usare il titolo di un
ciclo di quadri. Il 1 novembre 1948 partecipò al congresso degli intellettuali italia-
ni per la pace, al Teatro Adriano a Roma, che – sebbene egemonizzato dai comuni-
sti, in continuità con il precedente congresso mondiale di Wroclaw – si concluse
con un appello che mobilitava tutti gli uomini di cultura a demistificare i poteri
economici e le ideologie belliciste e imperialiste e a investire le scienze, le arti e la
filosofia nella causa della pace e della libertà (Fig. 1). Nel dipingere in caotiche
pennellate l’Immagine del tempo, Vedova metaforizzò tale dialettica di forze anta-
goniste dentro ciascun paese (tra comunisti, socialisti e partiti borghesi), o nella
Germania divisa (nel 1949 i russi bloccarono l’accesso a Berlino ovest, determinan-
do il controblocco della Germania controllata dall’URSS da parte della Germania
tripartita), o nell’Europa scissa tra governi atlantisti e satelliti di Mosca, e – nella
stessa Europa occidentale – tra democrazie e dittature.
Riguardo all’uso della tecnologia, Vedova fu affascinato dalle nuove possibilità
formali che questa poteva fornire (amò cimentarsi nella multimedialità nelle sceno-
grafie di Intolleranza 1960 di Luigi Nono, e prestò suoi quadri per sperimentazioni
sulla televisione a colori, per esempio), ma allo stesso tempo rifletté l’inquietudine
tipica del dopoguerra per i potenziali esiti distruttivi della scienza e della tecnolo-
gia. L’utilizzo libero che Vedova fece del vocabolo del lessico della fisica “quanto”
per designare cose diverse come l’eccitazione cinestetica creata in lui da ragazzo
dagli interni barocchi (definiti «‘quanti’ plastico-spaziali») e le proprie emozioni
(definite «‘quanti’ di sensibilità», o «miei quanti sotterranei») suggerisce il grado di
assimilazione di concetti rilevanti per la meccanica dell’energia atomica 21. Vedova
19 Tra i molti articoli, segnalo Stewart Alsop e Ralph Lapp, Le nuove atomiche impediranno la guerra? [con-
densato da «The Sunday Evening Post»], in «Selezione dal Readers’ Digest», IV, VIII, febbraio 1952, pp. 1-6;
Ancora salvabile l’Europa?, in «Epoca», II, 15, 20 gennaio 1951, pp. 13-17.
20 Carlo Bo, Il pacifismo serve la Pace?, in «L’illustrazione italiana», 76, 11, 13 marzo 1949, pp. 373-374.
21 Citazioni rispettivamente da: E. Vedova, Un pittore giudica l’architettura, cit., p. 3; e E. Vedova, Pagine di
Fig. 1. Pacifici e intellettuali adunati a Roma, da «Omnibus», 46, 11 novembre 1948. Sono riconoscibili in
seconda fila, da destra a sinistra, Emilio Vedova, Renato Birolli, Nino Franchina; in prima fila (di profilo
e con il pizzetto) il senatore socialista Michele Giua.
spiegò in una lettera al critico Nello Ponente che Lotta 1 (1949) (Tav. 5-IV), un in-
trico di lamelle meccanomorfe grigio-nere, nacque dal senso di minaccia avvertito
nei riguardi dei «robot-macchina» e la disumanizzazione indotta dal predomino
della «vita meccanica»22. Altri quadri della serie, similmente caratterizzati da aguz-
zi profili neri stratificati, pur nella loro sinistra bellezza riflettono l’allarme per la
hybris tecno-scientifica che, dopo aver alimentato la guerra mondiale, continuava
nella corsa agli armanti e nel programma nucleare sovietico (proprio nell’agosto
1949 l’Unione Sovietica testò con successo la bomba al plutonio). A proposito di
alcune composizioni più geometriche del 1946, per le quali si era servito anche di
carte lucide e colorate al posto dei pennelli, l’artista commentò che: «volendo ra-
zionalizzare […] quei segni, […] li disumanizzai nel senso che una mente fredda ra-
zionale contenuta staccata faceva sì che li organizzassi […] quanto una macchina»,
tradendo così una sua ansiosa associazione tra razionalità, macchina e disumaniz-
zazione23.
In effetti la fase più meccanomorfa fu un breve interludio concluso nel 1951, do-
podiché Vedova tornò al suo segno viscerale. Il suo stile più tipico riflette anche l’a-
pocalittismo del dopoguerra in analogia a esempi dell’espressionismo astratto ame-
ricano, come Heat in the Eyes di Jackson Pollock; come suggerì la critica e storica
dell’arte Juliane Roh nel 1955: «Quando nella descrizione dei quadri di Vedova ci
si abbandona involontariamente a parallelismi con il mondo atomico, [...] non sia
detto con ciò che siano presenti analogie consapevoli. Sembra solo confermare che
le soggettive tensioni dell’artista siano in segreto accordo con gli avvenimenti con-
temporanei […] grazie a un evoluto compendio di sottili strumenti psicografici»24.
In effetti non si trattava di associazioni inconsapevoli, visto che Vedova affermò:
«L’Occidente è quello che è, corrotto, ambiguo, disperato, cinico – ma […] l’artista
non ha evaso il suo inferno, l’ha vissuto, lo vive, toccando un fondo […] non con
soluzioni metafisiche […] ma raggiungendo invece un umano inedito da inedite
prove di disumano (Auschwitz-Hiroshima)»25.
3. L’umanismo e l’esistenzialismo
Cosciente dello spettro della disumanizzazione, dei genocidi, della guerra, della
bomba atomica, Vedova contribuì al più ampio discorso sulla riscoperta dell’uo-
mo, cui parteciparono altri intellettuali come Elio Vittorini – autore del romanzo
Uomini e no – o Cesare Pavese. Sondando ed esprimendo il mondo delle emozioni
sociali, Vedova intendeva fare della sua pittura una pratica intrinsecamente uma-
nista. Oltre a ciò, sottolineò la fusione tra passione, forma pittorica e incarnazione
del ruolo di artista implicato nel proprio tempo, riecheggiando il discorso di Jean-
Paul Sartre sull’umanismo esistenzialista e la responsabilità dell’intellettuale nella
storia. Il titolo Scontro di situazioni, scelto da Vedova per diversi lavori a partire dal
1951, ha una coloritura sartriana. Il primo quadro della serie è Scontro di situazioni
51 (Tav. 5-V), caratterizzato da segni grossolani e campiture di colore distinte, che
reca ancora qualche memoria di una figura postcubista disintegrata. Il quadro fu
dipinto durante, o poco dopo, un soggiorno in Val Gardena che Vedova ramme-
morò nel 1960 come un ritiro rigeneratore, necessario a «recuper[are]» ciò che egli
definì i «miei ‘quanti’ più sotterranei», ossia un’energia emotiva ispirata dai «sen-
timenti sull’uomo» (Vedova intese realizzare con Scontro di situazioni, e altri tre
26 E. Vedova, Pagine di diario, cit. in A. Masi, Emilio Vedova 1935-1950, cit., p. 144.
27 Jean-Paul Sartre, Presentazione di “Temps Modernes” [1945], in Id., Che cos’è la letteratura? il Saggiatore,
Milano 2009, p. 125.
28 Jean-Paul Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo [1945], Armando Editore, Roma 2006, p. 71.
29 Giuseppe Marchiori, Visita a Vedova, in «Il Mattino del popolo», 26 giugno 1947.
ri o Giulio Carlo Argan, laici e progressisti più vicini alla cultura azionista-repubbli-
cana o socialdemocratica; e per quanto Argan avesse una visione illuminista dell’ar-
te come pedagogia sociale, il recente avvicinamento alla fenomenologia di Husserl e
all’esistenzialismo gli consentirono di tematizzare l’atto creativo come “possibilità”
che si insedia nella coscienza, e di apprezzare l’esemplarità dell’impeto soggettivo
di Vedova30. Questo spostamento dell’attenzione dall’azione collettiva rivoluzionaria
alla creatività soggettiva, questa assunzione che l’atto rivoluzionario è essenzialmen-
te simile all’atto creativo, consentì di vedere la pittura gestuale come metafora di
emancipazione dall’alienazione e di lotta contro le forze di oppressione storica.
Oltre a Sartre, la pittura di Vedova fu in sintonia col pensiero della rivolta enun-
ciato da Albert Camus ne L’homme révolté, uscito in Francia nel 1951 e in Italia
nel 1957. L’uomo che dice no, lo Spartaco che si ribella ai soprusi del padrone, op-
pure l’uomo che bestemmia contro Dio per la sofferenza della propria vita, non lo
fa per semplice risentimento ma in nome del valore dell’essere umano che pren-
de coscienza della propria dignità. Spinta dalla rabbia e dall’indignazione, afferma
Camus, «la rivolta frange l’essere e l’aiuta a traboccare. Libera dei flutti i quali, da
stagnanti che erano, divengono furiosi», e sembra descrivere l’esplosione dei segni
di Vedova31. Il titolo Bestemmia (Tav. 5-I), dato a un quadro del Ciclo della Protesa
del 1953, che appare incentrato su due segni a spirale che forzano al collasso una
residua struttura a griglia, sembra letteralmente citare l’imprecazione che reclama
giustizia umana contro l’ordine metafisico, su cui Camus ha scritto pagine illu-
minanti. Inoltre, condannando la mistificazione della rivoluzione russa che aveva
trasformato l’originaria rivolta del proletariato in un impero totalitario e nichilista,
che in nome dell’utopia sopprimeva i nemici, riduceva gli uomini a cose, e distrug-
geva i più elementari vincoli di amicizia e umanità, Camus non solo puntava il dito
contro le aberrazioni storiche degli ideali rivoluzionari ma invitava a ritrovare le
vere motivazioni della rivolta.
L’anelito alla libertà, l’indignazione e la ribellione, il tema della salvezza dell’uo-
mo, l’antiautoritarismo e la delusione rispetto al comunismo («Capii ancora una
volta che […] io ero un’altra cosa», scrisse Vedova a proposito di un suo incon-
tro con una delegazione sovietica alla Biennale di Venezia del 195032), la delusio-
ne di fronte al nichilismo morale dilagante in Europa, accomunano l’umanismo di
Vedova a quello di Camus. Il filosofo francese, peraltro, ritenne che la creazione
artistica fosse l’operazione nella quale poteva cogliersi l’autentico spirito della ri-
volta. L’artista che rifà il mondo attraverso l’arte si ribella alla sofferenza della vita
30 Sull’orientamento politico e critico di Venturi e di Argan negli anni cinquanta, vedi: Laura Iamurri, Lio-
nello Venturi e la politica nel dopoguerra, 1945-1952, in Argan et Chastel. L’historien de l’art savant et politique, éd.
par Claudio Gamba, Annick Lemoine et Jean-Miguel Pire, Mare & Martin, Paris 2014, pp. 101-111, e Frédéric
Attal, Le parcour intellectuel et politique de Giulio Carlo Argan, ivi, pp. 53-66; Simonetta Lux, Arte e Società, in
Studi in onore di Giulio Carlo Argan, vol. III, Multigrafica editrice, Roma 1985, pp. 197-204.
31 Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2016 (1a ed. italiana 1957; ed. or. L’homme révolté,
Gallimard, Paris 1951), p. 21.
32 E. Vedova, Pagine di diario, cit. in A. Masi, Emilio Vedova 1935-1950, cit., p. 132.
in modo simile all’oppresso che dice no. Le posizioni di Camus e di Vedova si di-
varicavano però in merito allo stile, perché Camus era poco incline all’arte moder-
na; credeva che la vera creazione artistica fosse equidistante tanto dal realismo più
crudo, quanto dal puro formalismo che sconfina nell’astrattismo, e prediligeva uno
stile che tendesse all’unità armoniosa, piuttosto che all’esaltazione della disconti-
nuità, del dissidio, della frammentarietà33. Sebbene Camus prospettasse l’esigenza
di una “misura”, una via mediana, sconosciuta a Vedova, quest’ultimo ammise nel
1961 che una delle sue più grandi ambizioni era «giungere ad un gesto che a molti
potrebbe apparire cattivo. Un gesto feroce […] pieno di furore morale. […] Farei
ciò per salvare l’uomo, non nel senso delle salvazioni confessionali, quanto piutto-
sto nel senso dell’uomo descritto da Camus»34.
Le concezioni di cui Vedova si fece portatore gli derivavano anche dalla condivi-
sione del pensiero di Giulio Carlo Argan, uno dei critici più apprezzati da Vedova
e che scrisse più volte per il pittore a partire dal 1955. Con Argan Vedova condivise
l’idea che la pittura fosse una tecnica della libertà, e l’artista il campione di un lavo-
ro creativo che resiste come pratica radicalmente altra rispetto alla tecnica asservita
ai fini potenzialmente nefasti della scienza e dell’industria. Con Argan, infine, Ve-
dova condivise la riflessione sulla difesa umanista degli individui rispetto alla per-
dita di sé come uomini-massa; Argan vide nella pittura di Vedova la Weltanschauung
della salvezza dell’uomo, ossia l’affermazione della libertà che, sartrianamente, si
poneva come una questione di scelta quotidiana, sempre rinnovantesi, tra libertà e
oppressione, tra possibilità e forze opposte. Argan coglieva nei segni agitati del pit-
tore le dinamiche eterne del conflitto interno alla storia e all’uomo, alla vita di ogni
uomo e al proprio tempo storico, producendo una pittura che è in sé un continuo
evento che non si placa mai. Quella di Vedova era «la furia del viver morale»35.
Vedova è forse l’artista italiano in cui è più evidente il nesso tra emozioni dell’es-
sere-nel-mondo storico e motilità corporea. Anche prima che sviluppasse il suo
vitalistico stile astratto, l’irruente passionalità di Vedova ancora diciottenne si era
fatta strada nelle prime opere note caratterizzate da un segno grafico inconteni-
bile. Negli studi di figure del 1936-37, spesso tratti da opere di Tintoretto o altri
maestri, per esempio Figure di desolazione – 4 (Tav. 5-VI), i contorni si dissolvono
letteralmente in un groviglio di segni o macchie di colore, suggerendo che dai cor-
33 «Ceda alla vertigine dell’astrazione e dell’oscurità formale, o faccia appello alla sferza del realismo più
crudo […] l’arte moderna, nella sua quasi totalità, è un’arte di tiranni e di schiavi, non di creatori», in A. Camus,
L’uomo in rivolta, cit., p. 296.
34 C. Segala, Vedova spiega la sua pittura, cit.
35 Giulio Carlo Argan, Emilio Vedova, prefazione al catalogo della mostra alla galleria Gunther Franke, Mo-
naco, dicembre 1955; per la citazione: Giulio Carlo Argan, Emilio Vedova, in XXVIII Biennale di Venezia, Alfieri,
Venezia 1956, pp. 220-222.
pi emani la stessa energia, vitale ed emotiva, che attiva il fare pittorico. «Nuclei di
energia in espansione», Vedova li definì anni dopo, riconoscendo in essi i precurso-
ri di una ricerca culminante nei Plurimi, ossia le istallazioni realizzate a partire dal
1962, che sono l’espansione dell’irruente pittura dalla superficie bidimensionale a
supporti tridimensionali. Inoltre, Vedova ha ricordato che anche i primi disegni
sull’architettura barocca coevi agli studi da Tintoretto (Tav. 5-VII) nacquero da un
«impeto di sensibilità che mi porta[va] a segnare con la saliva, col dito, con uno
stecco, in modo immediato»36, testimoniando un’urgenza emotiva che esigeva di
essere subito fisicamente trascritta, fluidificando il colore con la bava, stendendolo
col polpastrello, per ovviare ai tempi di una tecnica meticolosa che avrebbe raf-
freddato l’emozione. Nel primo autoritratto del 1937 (Tav. 5-VIII) Vedova decise di
rappresentarsi in quanto pittore, nell’atto di dipingersi osservandosi allo specchio, e
nel farlo scelse (anche se forse inconsciamente) di mettere in primo piano la parte
bassa del corpo, segnalando che è dal ventre, dai genitali, dal torso, cioè dalle parti
più associate alla vita delle emozioni e delle passioni – più che dalla testa, ossia dal-
la razionalità – che origina la pittura.
Le fotografie di studio che Vedova evidentemente commissionò e scelse lo ri-
traggono spesso, anche negli ultimi anni, impegnato nella concitata distesa di
pennellate, fino a imbrattarsi completamente di colore (Tav. 5-IX). Alcune lo rap-
presentano visivamente compenetrato nella pittura, un effetto accentuato anche
dal contrastato bianco e nero (Fig. 2). È eloquente una deliberata manipolazione
che Vedova fece su una di queste fotografie che si trova nella copia delle Pagine di
diario che donò al critico Francesco Vincitorio (Fig. 3)37. La foto originale raffigu-
rava l’artista a torso nudo al lavoro, ma intervenendo con un pennarello nero solo
sulle parti nude della propria figura, Vedova l’ha coperta di segni che visivamente
annullano la differenza di piani tra il corpo e la tela retrostante, amalgamando
l’uomo con la sua pittura. Qui davvero Vedova ha fatto di sé pittura incorporata.
Questa identificazione tra sé-come-pittore e la pittura quasi come trasmutazio-
ne del proprio corpo, che ha un significato più viscerale della ovvia questione che
la pittura è una tecnica manuale, stimolò il progressivo scardinamento dei limiti
del quadro tradizionale. Nel 1958 nella importante personale alla galleria nazionale
Zachęta a Varsavia, Vedova decise di trasgredire la consueta fruizione frontale del
quadro alla parete, attaccandone uno al soffitto, per farlo incombere zenitalmen-
te sullo spettatore (Fig. 4); e nell’agosto 1959 alla mostra Vitalità dell’arte a Palaz-
zo Grassi a Venezia «dipinse per tre notti a torso nudo», in modo estemporaneo,
quadri che circondarono una sala del palazzo facendone un’arena dove il pubblico
che vi entrava «avesse subito, in concreto, per l’urto visivo […] il senso di un’e-
splosione di sentimenti, di una violenza, qualcosa che bruciasse della sua intima
Fig. 2. Emilio Vedova al lavoro all’Absurdes Berliner Tagebuch ‘64 Plurimo 5 (1964), Berlino, 1964, foto di
Uwe Rau, Berlino (per gentile concessione della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia).
Fig. 3. Fotografia di Emilio Vedova al lavoro modificata con segni di pennarello nella copia di Pagine di
diario (Galleria Blu Editrice, Milano 1960), regalata dall’artista a Francesco Vincitorio, ora presso la Bi-
bliotheca Hertziana di Roma.
Fig. 5. Emilio Vedova al lavoro, Venezia, 1952, foto di David Seymour, Parigi (per gentile concessione
della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia).
Fig. 6. Vedova, il più alto pittore italiano, e Pizzinato in Cadore, da «Il Mattino del popolo», 13 nov. 1948.
40 E. Vedova, Pagine di diario, cit. in A. Masi, Emilio Vedova 1935-1950, cit., p. 128.
ralmente sembrano illustrare l’affermazione dello stesso Vedova che rifiutò il cliché
del pittore «come una figura pallida e fuori da ogni responsabilità vitale»41. Lo ve-
diamo per esempio con l’amico Pizzinato in posa sul bordo di un precipizio davanti
alle Tre Cime di Lavaredo (Fig. 6), in uno scatto del 1946 fornito due anni dopo al
quotidiano «Il Mattino del popolo», che suggerisce una prova di atletismo, passione
per la natura e, simbolicamente, ascesa sopra la medietà; oppure abbronzato e aitan-
te afferrare in costume da bagno una tela vergine a Santa Cristina in Val Gardena
nel 1951 (Fig. 7) in una foto fatta dalla moglie Annabianca.
Oltre al controllo che Vedova ebbe della propria immagine fotografica, la sua fi-
sicità contribuì all’icona pubblica nei commenti giornalistici, che spesso indugiava-
no nel descrivere la sua altezza, la sua voce, il gesticolare, la barba. La rivista ame-
41 E. Vedova, Dipingere un naso non è così semplice, in «Il Mattino del popolo», 1 febbraio 1948.
42 Raffaele Carrieri, Il turbinoso Vedova immagine del nostro tempo, in «Epoca», 18 febbraio 1962.
43 M. Morales, Colloquio…, cit.
44 M. Valsecchi, Vedova il furioso, cit.
45 R. Carrieri, Il turbinoso Vedova…, cit.
46 G.M. [Giuseppe Marchiori?], Mostre d’arte/Vedova, ‘barba sacrilega’, in «Il Mattino del popolo», 2 otto-
bre 1947.
così, con una barba alla nazzarena folta e nera da far paura a chi non conosca la sua
pittura, la quale è invece innocua come l’acqua che viene dal mulino», scrisse un
giornalista di Modena47.
I reiterati epiteti di nazareno e gli altri suggeriscono che la fisionomia di Vedova
si distingueva nell’immaginario di allora come quella di un irregolare, un temerario,
forse un invasato Achab se non un profeta. Di questo Vedova dovette essere consa-
pevole e suggerisco che il portamento e il vestiario, le immagini fotografiche, insie-
me alla retorica modernista e agli annunci umanisti dei suoi interventi teorici hanno
complessivamente contribuito a definire la figura pubblica del profeta-ribelle.
«Si tratta di salvare l’uomo», affermò perentoriamente Vedova nell’incipit
di una sua autopresentazione per una mostra di pastelli, ancora parzialmente
figurativi, illustranti scene di vita popolare a Venezia nel novembre 194648; e fu so-
lo la prima di una serie di dichiarazioni sull’impegno e la responsabilità dell’artista
a favore di valori umani da recuperare nell’inferno della storia presente. Questo
imperativo morale, echeggiato nei commenti di critici, contribuì ad ammantare il
pittore di un’aura profetica. Per esempio, Silvio Branzi in un articolo del 1954 spie-
gò che Vedova nel suo modo di dipingere aveva progressivamente liberato la pro-
pria coscienza dai condizionamenti culturali, fino a far coincidere il proprio «mon-
do intenzionale e il mondo effettuale», ma il lessico incentrato sui termini “uomo”
e “salvezza” e le loro reiterazioni sembrano trasformare una riflessione ispirata
probabilmente dal concetto husserliano di epochè volontaria del singolo Vedova
in una quasi apologia della missione salvifica dell’umanità («badava soprattutto a
riconoscere [...] l’uomo che egli era, e a salvarlo, con un controllo [...] sull’istinto
e un’attenzione verso quegli stimoli [...] che gli potessero venire [...] dall’esistenza
contemporanea»; «l’urgenza [...] di salvarsi, di salvar l’uomo, appariva [...] nel di-
pingere, nel parlare, nell’agire»; «codesto suo lavoro [...] un richiamo pungente e
necessario alla salvazione»49).
A questo si può aggiungere che soprattutto ai tempi del Fronte Nuovo delle Arti
Vedova rispolverò la retorica pugnace delle avanguardie storiche, per accentuare il
contrasto tra la propria missione di rinnovamento della pittura e le forze avverse.
Nel febbraio 1948 – un momento strategicamente importante nel definire la nuova
mappatura dell’arte contemporanea – scrivendo un lungo pezzo su «Il Mattino del
popolo», Vedova definì il programma del Fronte Nuovo delle Arti nei termini di
una volitiva minoranza che annunciava il nuovo, contro «il pantano» della maggio-
ranza. Vedova eroicizzò sé e i compagni del Fronte come «bestie rare, come perso-
naggi scandalistici» agli occhi di una maggioranza incapace di leggere la protesta e
l’«estrema necessità di rivelazione» nei loro quadri. Riferendosi indirettamente al
dilemma sulla priorità tra astrattismo o realismo come arte socialmente significati-
va (e al clima della campagna elettorale allora in corso) Vedova aggiunse: «in que-
Fig. 9. Ritratto di Emilio Vedova, fotografato da Nino Migliorini, nel catalogo Emi-
lio Vedova, a cura di Zdzislaw Kepinski, Poznan, Muzeum Narodowym (museo na-
zionale), 1959.
sto momento così teso […] dipingere una nostra azione all’infuori delle conven-
zionalità […] significa per noi costruire, attraverso un primordio, una ragione che
ci spinga a credere». Non esitò a definire il Fronte Nuovo delle Arti «trampolino
verso la Terra Promessa», un «gridare nel deserto», di «uomini nel deserto, legati
alla nostra sorte di uomini di punta». Tuttavia mitigò l’antagonismo e profetismo
avanguardisti con i temi, già sartriani, dell’umanismo esistenzialista e dell’impe-
gno dell’intellettuale (di lì a qualche mese, Sartre sarebbe stato evocato a difesa
dell’astrattismo anche dagli espositori alla mostra nazionale d’arte contemporanea
di Bologna nella nota polemica con Togliatti su «Rinascita»). Infatti fece appello
alla responsabilità, che ciascuno deve assumersi, di dare testimonianza di sé co-
me «uomini nuovi»; al compito degli intellettuali «di liberarci e di portarci parole
strette nel pugno»; alla volontà di «risolversi nella morale dei suoi compagni e con
Fig. 10. Emil Nolde, Profeta, xilografia, 1912, cm 32,1 x 22,2 cm.
che veicolano l’idea di un’ispirazione interiore, non mi pare peregrino (Fig. 10).
Nel 1961 Vedova collaborò a Intolleranza 1960, un’azione scenica per soli, coro
e orchestra musicata da Luigi Nono da un’idea di Angelo Maria Ripellino, rap-
presentata il 13 aprile di quell’anno alla Fenice. L’opera gli era congeniale non so-
lo perché gli permise di sperimentare con proiezioni luminose e schermi metallici
traforati, in movimento e sospesi sulla scena, ma perché la vicenda drammatizzava
una storia di scontri di forze antitetiche – tra uomini che prendono coscienza di sé
e si ribellano e le forze dell’oppressione, economica e di classe – che egli condivide-
va. La vicenda narra le traversie di un minatore emigrato che decide di rimpatriare,
per trovarsi ad assistere lungo il viaggio a un comizio antinazista, venire arrestato,
torturato, portato in un campo di concentramento, da cui poi fugge e infine soli-
darizza con un non meglio identificato algerino. Nel secondo tempo, l’emigrante si
aggira tra proiezioni, voci, mimi simboleggianti le assurdità, le idiozie massmediati-
che e le minacce della società contemporanea, e la scena culmina con un’esplosione
atomica; subentra quindi il canto della compagna dell’emigrante, che inneggia alla
vita, all’amore e alla fraternità perduti dall’uomo imbestiato. Seguono episodi di
violenza e fanatismo razziale, finché l’emigrante e la compagna giungono al paese
natale che però trovano sommerso dalla piena del fiume, mentre una voce dirama
il palesemente assurdo comunicato ufficiale: «Il Governo ha provveduto, la colpa
è del metano». Solo sul sipario finale sono proiettate parole di Bertolt Brecht che
schiudono un po’ di speranza nella solidarietà tra gli uomini:
Voi che siete immersi dai gorghi dove fummo travolti, pensate anche ai tempi bui da cui
siete scampati. Andammo noi, più spesso cambiando paese, che scarpe, attraverso guerre
di classe, disperati, quando solo l’ingiustizia c’era. Voi, quando sarà venuta l’ora che all’uo-
mo un aiuto sia l’uomo, pensate a noi con indulgenza51.
51 Per l’argomento e approfondimenti sulla genesi dell’opera, rimando a Luigi Nono, Intolleranza 1960, a
cura di Angela Ida De Benedictis, Marsilio, Venezia 2011.
52 Giulio Carlo Argan, ‘Intolleranza 1960’ e il teatro d’avanguardia, in «Avanti!», 18 maggio 1961, ora in
Tav. 5-I Dal ciclo della protesta ‘53 -3 (Bestemmia), 1953, tempera all’uovo su tela, cm 130 x 170, foto di Paolo
Mussat Sartor, Torino (per gentile concessione della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia).
Tav. 5-II Assalto alle prigioni, 1945, pastello e carboncino su carta intelata, cm 70 x 100, foto di Giorgio
Cacco, Venezia (per gentile concessione della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia).
Tav. 5-III Sbarramento (immagine del tempo), 1951, tempera all’uovo su tela, cm 130,5 x 170,4, foto di Gior-
gio Cacco, Venezia (per gentile concessione della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia).
Tav. 5-IV La lotta - 1, 1949, olio su tela, cm 126 x 130,5, foto di Giorgio Cacco, Venezia (per gentile conces-
sione della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia).
Tav. 5-V Scontro di situazioni ’51, 1951, tempera all’uovo su carta intelata, cm 130 x 170, foto di Paolo Mussat
Sartor, Torino (per gentile concessione della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia).
Tav. 5-VI Figure di desolazione - 4, 1937, inchiostro su carta, cm 23,5 x 32, foto di Giuseppe Mazzetto, Vene-
zia (per gentile concessione della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia).
Tav. 5-VII Architettura veneziana – San Giovanni e Paolo (4), 1936, disegno a inchiostro su carta, cm 33,5 x
23,8 (per gentile concessione della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia).
Tav. 5-VIII Autoritratto sullo specchio a terra, 1937, olio su tela, cm 75 x 65 (per gentile concessione della
Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia).
Tav. 5-IX0. Emilio Vedova davanti a un disco del ciclo Non dove, 1988, foto di Aurelio Amendola, Pistoia
(per gentile concessione della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia).
Tav. 5-X Assurdo diario di Berlino, 1964, smalti, tempera, collage e graffiti su legno, 162 x 215 x 120 cm (per
gentile concessione della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia).
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